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Chiese e fascismi. 8a parte.

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Riccardo Venturi

da leggere,
11 apr 2005, 10:44:5511/04/05
a

In questa carrellata storica dedicata alle chiese e ai fascismi, mi
sia permesso un piccolo "excursus" dedicato ad un altro ottimo
servitore della chiesa cattolica wojtyliana, il cui nome ha peraltro
già fatto capolino. Sto parlando, ovviamente, di Mons. Paul Marcinkus
(americano, ma di chiarissima origine lituana) e del suo IOR. Per
questo excursus prendo a prestito le parole di Andrea Cinquegrani, da
http://www.disinformazione.it/ior2.htm.

In questo caso, dunque, "Chiese, fascismi, mafie, finanza"…

*

I.O.R. (Istituto per le Opere Religiose)
Lo IOR è la banca centrale del Vaticano ed è allo stesso tempo
riconosciuto come un istituto di credito ordinario. E' stato creato
nel 1941 da PIO XII con la funzione di amministrare i capitali degli
ordini religiosi, degli istituti religiosi maschili e femminili, delle
diocesi, delle parrocchie e degli organismi vaticani di tutto il
mondo. E' una banca molto particolare, infatti non ha sportelli, in
compenso ha molti clienti. Lo IOR è stato e continua ad essere molto
ambito per chi possiede capitali che vuol far passare "inosservati". I
suoi bilanci sono noti solo al Papa e a tre cardinali. Lo IOR è il
centro di una organizzazione mondiale di banche controllate dal
Vaticano. Molto semplice è, attraverso lo IOR, qualsiasi trasferimento
di denaro senza limiti ne' di quantità né di distanza, con la garanzia
della assoluta riservatezza. Per molto tempo a capo dell'Istituto e'
stato Paul Marcinkus, cardinale coinvolto in numerosi scandali.

Il caso IOR
di Andrea Cinquegrani - tratto da www.lavocedellacampania.it

La proposta era davvero invitante: nelle austere e vellutate stanze
del Vaticano si nascondeva la possibilità di un investimento
finanziario a tassi astronomici. Interessi fino al tredici per cento
senza alcun rischio per il capitale. Percentuali del diciotto per
cento in occasione del Giubileo. Insomma, un vero affare. Del resto,
chi non affiderebbe i propri risparmi nientemeno che a San Pietro,
allo Ior, il celebre e talvolta famigerato istituto per le opere
religiose che agisce sui mercati internazionali come vera e propria
struttura di credito?
L'investimento, però, aveva bisogno di qualcuno interno al Vaticano:
nello Ior, infatti, possono movimentare capitali solo appartenenti al
clero o laici interni al piccolo stato cattolico. Una persona c'era,
in effetti, e le credenziali erano di tutto rispetto. Tanto da indurre
un agente immobiliare salernitano, benestante, figlio di un prefetto a
riposo, a vendere alcuni appartamenti e a investire tutto il
patrimonio nell'operazione.
Giovanni Rossi, 50 anni, celibe, di Salerno, non ci ha pensato due
volte: ha preso il gruzzolo (circa un miliardo e mezzo di vecchie
lire) e lo ha affidato (così dichiara in una denuncia presentata alla
magistratura) a un dipendente del Vaticano, tale Domenico Stefano
Licciardi, 65 anni, nativo di Ficarazzi (Palermo) e residente a Roma
da molti anni. Sposato, tre figli, Licciardi lavora come ragioniere
all'autoparco del Vaticano. E' prossimo alla pensione ma quando è
entrato in contatto con Rossi era ben inserito nell'ambiente
ecclesiale: parente di alcuni sacerdoti, amico personale di volontari
cattolici e persone importanti della gerarchia vaticana.
Secondo Giovanni Rossi, l'incontro con Licciardi ha rappresentato la
sua rovina. In un voluminoso e documentato dossier l'agente
immobiliare traccia la cronistoria di questo tormentato rapporto: ne è
scaturita una denuncia per truffa presentata sia a Nicola Picardi
(Promotore di Giustizia del tribunale vaticano) sia alla Procura della
Repubblica di Roma. Dalla denuncia (di cui al momento non esistono
ancora riscontri d'inchiesta, eccetto i documenti prodotti dallo
stesso Rossi) emerge un quadro inquietante, che ricostruiamo
attraverso la cronistoria messa nero su bianco dall'immobiliarista
salernitano.

ASSEGNI & INTERESSI
"La formula - dice Rossi - era semplice: io fornivo a Licciardi i miei
risparmi in decine di assegni circolari di piccolo taglio. Lui diceva
di investirli allo Ior: come garanzia mi dava alcuni assegni bancari
firmati da lui, senza data, con la cifra del capitale più gli
interessi (tredici per cento). Restava inteso che non avrei incassato
gli assegni senza prima avvertirlo. Se avessi voluto continuare
l'investimento, lui avrebbe ritirato il vecchio assegno e me ne
avrebbe dato uno nuovo; altrimenti, a suo dire, mi avrebbe restituito
i soldi".
Continua la minuziosa descrizione. "Licciardi utilizzava questo
meccanismo già con mio padre, Pierino Rossi, prefetto in pensione, e
con le sue sorelle, Orsola e Carmen, oltre che con mio zio Filippo De
Iulianis, questore in pensione. Quando è morto mio padre, io e mia
sorella Patrizia abbiamo ereditato circa 700 milioni, che erano in
mano a Licciardi. Mia sorella si fece dare la sua parte, io decisi di
lasciarla a Licciardi per proseguire l'investimento. La persona mi
sembrava molto affidabile: mi riceveva a casa sua con tutti gli onori,
era conosciuta nell'ambiente ecclesiale come uomo buono, generoso,
disponibile; faceva catechesi: diceva di essere amico di monsignor
Crescenzo Sepe, organizzatore del Giubileo, di monsignor Guerino Di
Tora, direttore della Caritas di Roma e di altri prelati. Era
impossibile non fidarsi di lui".
"In prossimità del Giubileo - continua Rossi - nel periodo '96 -'98
Licciardi mi prospettò la possibilità di un nuovo investimento per
l'anno Santo, con interessi al diciotto per cento. Mi convinse così a
vendere due appartamenti, uno a Napoli (Santa Lucia) e uno a Como. Gli
consegnai circa 900 milioni delle vecchie lire, che avrei potuto
ritirare con gli interessi solo dopo il Giubileo".
"Questi soldi - continua Rossi - Licciardi li volle in assegni
circolari di piccolo taglio, intestati anche a una lista di amici
suoi. Tra questi mi fece intestare alcuni assegni a monsignor Di Tora
e a Chiara Amirante, considerata una delle giovani più importanti e
attive nel volontariato romano. Lui diceva che questi nomi erano la
garanzia per me che si trattava di una cosa seria. Io, del resto, non
ho mai avuto dubbi. Mio padre si fidava ciecamente di Licciardi e così
le mie zie. Gli ho affidato i miei risparmi a occhi chiusi".
Ma ecco che iniziano a sorgere i primi sospetti. Così continua la
denuncia: "Ho cominciato a capire che c'era qualcosa di strano quando
nel 1999 gli chiesi di chiudere l'investimento dei soldi di mio padre
e di restituirmi i circa 300 milioni di lire. Ero convinto che non
avrei trovato problemi a incassare gli assegni che avevo in mano, ma
lui cominciò a chiedere rinvii, a trovare scuse. Mi convinse
addirittura a fare un viaggio in Svizzera per prelevare i soldi da una
banca, ma nulla. Erano viaggi a vuoto. Alle mie sollecitazioni,
Licciardi prendeva tempo: firmava delle impegnative, riconoscendo il
debito e dichiarandosi pronto a pagarlo a scadenze precise. Ma ad ogni
scadenza, nulla. Quando ho cominciato a muovere seriamente delle
rimostranze e a prospettare azioni legali ha cambiato atteggiamento
nei miei confronti, ha cominciato addirittura a minacciarmi di morte,
vantando amicizie nella malavita siciliana e romana. Queste minacce mi
sono state mosse davanti a un testimone (di cui si fa il nome nel
dossier-denuncia, ndr) e mi hanno ridotto a uno stato di grave
prostrazione psico-fisica".
Prosegue l'inquietante racconto di Rossi: "Quando, nel dicembre del
2001, stufo dei rinvii, ho deciso di rientrare in possesso di tutto il
mio capitale, ho portato in banca gli assegni che mi erano stati dati
in garanzia da Licciardi. Erano quattro assegni bancari: tre della
Banca Nazionale dell'Agricoltura (agenzia 1, via Appia Nuova, Roma) e
uno della Banca di Roma. L'importo complessivo era di più di due
miliardi di vecchie lire, il capitale più gli interessi. Ho depositato
gli assegni il 27 dicembre. Il 4 gennaio i notai Giuseppe Tarquini e
Fabrizio Polidori di Roma hanno comunicato alla mia banca che gli
assegni non erano incassabili: il conto della Banca Nazionale
dell'Agricoltura (numero 954 t) era stato estinto alcuni anni prima,
mentre sul conto del Banco di Roma non c'era sufficiente disponibilità
rispetto agli importi".
In pratica, "Licciardi risultava così protestato. E per me - denuncia
ancora Rossi - svaniva la possibilità di rientrare in possesso dei
miei soldi. Quell'investimento si è rivelato un raggiro che mi ha
ridotto sul lastrico. Così mi sono deciso a sporgere denuncia". Prima
ha inviato una lettera a carabinieri, polizia e magistratura; poi un
dossier al tribunale vaticano e alla procura di Roma. "Lo stesso hanno
fatto le mie zie - aggiunge - vittime anche loro del tranello. Io in
tutto ci ho rimesso un miliardo e mezzo, che sarebbero dovuti
diventare, con gli interessi promessi, due miliardi e mezzo: speriamo
di avere giustizia e di tornare in possesso dei nostri capitali".

PROTAGONISTI IN CAMPO
Originario di Palermo, Domenico Stefano Licciardi è emigrato a Roma
circa trenta anni fa: pare che un suo parente fosse dentro la
gerarchia ecclesiale. Entrò in Vaticano, nell'autoparco, come
ragioniere e divenne un attivista cattolico. E' stato per molti anni
uno dei fedeli più attivi della parrocchia di San Policarpo a Roma,
nel quartiere di Cinecittà. "Noi lo conosciamo - racconta un sacerdote
che sostituisce monsignor Antonio Antonelli, attuale parroco - ma è un
po' che manca dalle attività parrocchiali. So che nel passato ha fatto
catechesi e che lavora in Vaticano". "Mi sembra che un suo parente -
aggiunge Giuseppe, un altro parrocchiano - sia stato parroco a
Monreale, mentre un lontano cugino, che porta il nome di uno dei
figli, era poliziotto, ma avrebbe avuto problemi con la giustizia".
Licciardi è sposato con Ivana Ceccarelli, casalinga e ha tre figli:
Settimio, macchinista delle ferrovie, Antonino, impiegato anch'egli in
Vaticano, Franca, vigile urbano. La casa in cui i Licciardi abitano, a
Cinecittà, è intestata a quest'ultima. La moglie di Licciardi,
contattata telefonicamente dalla Voce, ha rifiutato ogni commento, ha
negato ripetutamente la presenza del marito in casa. Modi decisamente
più bruschi da parte dei figli Franca e Antonino, che alla richiesta
di un colloquio per sentire la loro versione, hanno reagito duramente,
interrompendo la comunicazione e rifiutando ogni contatto successivo.
Tra le amicizie vantate da Licciardi c'è quella con monsignor Guerino
Di Tora. In effetti, Di Tora è stato per anni parroco di San
Policarpo, prima di passare a reggere la Basilica di Santa Cecilia a
Trastevere, una delle più importanti di Roma. Di Tora è personaggio di
primo piano della chiesa capitolina. Attualmente è direttore della
Caritas romana, subentrato a don Luigi Di Liegro.
E Di Tora è anche presidente di un fondo antiusura: si chiama "Salus
Populi Romani", ha sede nella capitale, a piazza San Giovanni in
Laterano, ed è nato nel 1996. Dichiara di aver esaminato quasi 1400
casi e di aver concesso crediti personali per un importo di quattro
miliardi e mezzo, con l'aiuto e le garanzie di due istituti di credito
convenzionati. "La fondazione è un istituto a carattere regionale per
prevenire il fenomeno dell'usura - spiega un operatore - concediamo
prestiti alle persone che non potendo accedere al sistema bancario
finirebbero facilmente nelle mani degli strozzini. Per coloro che già
si trovano sotto usura aiutiamo a trovare il percorso per uscirne". A
Roma sono in funzione tre centri d'ascolto: uno di questi è proprio
nella parrocchia di San Policarpo, quella dove svolgeva catechesi
Licciardi.
A Di Tora risulta intestato uno degli assegni circolari con cui Rossi
trasferiva il capitale a Licciardi. Sarebbe stato proprio quest'ultimo
a fare il nome del monsignore e a chiedere all'agente immobiliare
salernitano di intestargli un assegno. Il titolo è stato rilasciato il
22 ottobre 1996 dal Monte dei Paschi di Siena, agenzia 1 di Salerno,
ed è stato girato per l'incasso dallo stesso Di Tora il 24 ottobre del
'96 presso il Credito Italiano, agenzia 2008 (nel dossier inviato alla
Procura ci sono copie dell'assegno con la girata autografa di Di
Tora).
Altri assegni risultano intestati e girati per incasso alla
Elemosineria apostolica, a Mario Giamboni, a Chiara Amirante
(fondatrice di alcune associazioni di volontariato e molto nota a Roma
per la sua attività di recupero a favore di barboni e
tossicodipendenti), Francesco Vigliarolo, Mario Napoleoni.
A dare il via all'investimento è stato il padre di Giovanni, Pierino
Rossi, deceduto nel '91, una carriera nella burocrazia, una lunga
attività anche alle prefetture di Napoli e Como (da qui l'acquisto di
case in queste città). La moglie, un'anziana signora, è in vita e
risiede a Roma con la figlia Patrizia, che ha sposato un imprenditore
romano, Lucio Tambescia. Il prefetto Rossi avrebbe cominciato nel 1986
a dare soldi a Licciardi, sperando in un buon rendimento. Licciardi
gli era stato presentato dalle sorelle, che risiedevano a Roma e dal
cognato, Filippo De Iulianis, questore in pensione, altro vicino di
casa di Licciardi. Anche le sorelle Rossi avrebbero tentato
l'investimento, senza fortuna.
Attualmente il dossier è nella mani del Tribunale vaticano, dove la
pubblica accusa è retta dal cosiddetto Promotore di Giustizia,
incarico ricoperto dall'avvocato marchigiano Nicola Picardi, docente
universitario a Roma. Rossi si è appellato anche al cardinale Cerri,
tesoriere dello Ior e alla commissione cardinalizia che ha accesso ai
conti dell'Istituto. Il dossier denuncia è stato presentato anche alla
Procura della repubblica di Roma, che è competente per territorio
visto che Licciardi è cittadino italiano e risiede nella capitale.
Spetterà a questi organismi fare luce nelle prossime settimane sull'
ennesimo intrigo targato Ior, che potrebbe anche estendersi e
configurare un giro d'affari più ampio, gettando nuove ombre sul
rapporto tra finanza e Vaticano.

MAI DIRE IOR
Dici Ior e pensi alle trame torbide della finanza degli anni Settanta
e Ottanta. Monsignor Paul Marcinkus, Michele Sindona, Roberto Calvi:
questi sono solo alcuni dei nomi che nella storia finanziaria italiana
hanno incrociato destini e scandali con l'istituto per le opere
religiose del Vaticano. Ma lo Ior emerge anche in altre inchieste
giudiziarie, come quella, più recente, della Procura di Torre
Annunziata su un traffico internazionale d'armi che vide coinvolti il
leader nazionalista russo Vladimir Zhirinovski e l'arcivescovo di
Barcellona Ricard Maria Charles.
Creato nel 1941 da papa Pio XII, lo Ior è una banca senza sportelli ma
con mille ramificazioni. L'unica sede è nel Vaticano: vi si accede
dalla Porta di sant'Anna, una delle quattro del colonnato di Bernini.
Al Cortile di san Damaso si aprono quattro ingressi, uno di questi (il
cortile del Maresciallo) conduce allo Ior. I locali interni sono sobri
e silenziosi, animati da giovani seminaristi che raccolgono i sussidi
per studiare o da suore che depositano i risparmi per i conventi. Come
in tutte le banche che si rispettino i clienti di peso vengono
ricevuti all'interno, nelle stanze della direzione.
L'Istituto è un organismo finanziario vaticano - secondo una
definizione data dal cardinale Agostino Casaroli - ma non è una banca
nel senso comune del termine. Lo Ior utilizza i servizi bancari, però
l'utile non va, come nelle banche normali, agli azionisti (che nel
caso dello Ior non ci sono) ma risulta a favore delle "opere di
religione".
A ogni cliente viene fornita una tessera di credito con un numero
codificato: né nome né foto. Con questa si viene identificati: alle
operazioni non si rilasciano ricevute, nessun documento contabile. Non
ci sono libretti di assegni intestati allo Ior: chi li vuole dovrà
appoggiarsi alla Banca di Roma, convenzionata con l'istituto vaticano.
I clienti dello Ior possono essere solo esponenti del mondo
ecclesiastico: ordini religiosi, diocesi, parrocchie, istituzioni e
organismi cattolici, cardinali, vescovi e monsignori, laici con
cittadinanza vaticana, diplomatici accreditati alla Santa Sede. A
questi si aggiungono i dipendenti del Vaticano e pochissime eccezioni,
selezionate con criteri non conosciuti.
Il conto può essere aperto in euro o in valuta straniera: circostanza,
questa, inedita rispetto alle altre banche. Aperto il conto, il
cliente può ricevere o trasferire i soldi in qualsiasi momento da e
verso qualsiasi banca estera. Senza alcun controllo. Per questo, negli
ambienti finanziari, si dice che lo Ior è l'ideale per chi ha capitali
che vuole far passare inosservati. I suoi bilanci sono noti a una
cerchia ristrettissima di cardinali, qualsiasi passaggio di denaro
avviene nella massima riservatezza, senza vincoli né limiti. Si
racconta, tra leggenda e realtà, che quando Giovanni Paolo II, dopo lo
scandalo Calvi, chiese l'elenco di tutti i correntisti dello Ior, si
sentì rispondere: "spiacenti, santità, ma la riservatezza dei clienti
è sacra".
Lo Ior, che ha una personalità giuridica propria, è retto da un
"Consiglio di soprintendenza" controllato da una Commissione di cinque
cardinali: si tratta del nucleo di vigilanza. I porporati, però, non
hanno generalmente alcuna competenza finanziaria. Il loro dovrebbe
essere un controllo morale. Un ruolo più tecnico è svolto dal
"Consiglio di amministrazione" composto di cinque laici ed un
direttore generale. L'Istituto intrattiene rapporti valutari e
creditizi con clienti e banche italiane, opera attivamente sul mercato
finanziario internazionale, gioca in borsa, investe, raccoglie
capitali; tuttavia, come istituto estero, non è sottoposto ad alcun
controllo da parte delle autorità di vigilanza italiane.
da carboni a pisanu
Nella storia dello Ior entrano tutte le facce dell'Italia degli
intrighi: oltre ai banchieri, anche faccendieri del calibro di
Francesco Pazienza e Flavio Carboni. Quest'ultimo, piccolo
imprenditore sardo all'epoca legato ad ambienti politici della
sinistra Dc, amico di Armando Corona, repubblicano e Gran Maestro
della Massoneria, socio del Gruppo editoriale l'Espresso, era bene
introdotto in alcuni uffici vaticani e rappresentò il ponte tra
Roberto Calvi, Vaticano e politica.

Carboni conobbe Calvi in Sardegna nel 1981 e riuscì presto a
conquistare la fiducia del banchiere, mettendogli a disposizione le
sue preziose conoscenze al governo, con in testa un sottosegretario,
democristiano e anche lui sardo, Giuseppe Pisanu, che oggi ritroviamo,
con abito nuovo, sotto le insegne di Forza Italia, a reggere il
ministero dell'Interno.
In quel periodo, Calvi finì in carcere, tentò il suicidio, fu
condannato a quattro anni ma tornò in sella al Banco Ambrosiano fino
alla misteriosa morte: fu trovato impiccato sotto il ponte dei frati
neri a Londra. Caso archiviato come suicidio, ma sempre avvolto nel
mistero. Fino alle clamorose dichiarazioni rilasciate un paio di mesi
dai familiari del banchiere, che escludono categoricamente il suicidio
e con ogni probabilità porteranno a una riapertura del caso.
Così come misteriosa è la morte dell'altro "banchiere di Dio", Michele
Sindona, ucciso da una tazzina di caffè avvelenato nella sua cella del
carcere di Palermo. Anche Sindona, negli anni Settanta e Ottanta, ha
avuto strettissimi rapporti con lo Ior e il Vaticano. Il banchiere
avrebbe conosciuto Paolo VI fin da quando questi era arcivescovo di
Milano e sarebbe entrato nelle sue grazie fino a ricoprire un ruolo
(ovviamente occulto) di primo piano allo Ior: il suo compito sarebbe
stato quello di mettere a frutto tutte le sue conoscenze del mondo
della finanza internazionale per trasformare lo Ior in un istituto
capace di muoversi agevolmente nelle speculazioni borsistiche. Pare
che Sindona abbia adempiuto a tale compito senza andare troppo per il
sottile: e così sarebbero entrati nelle casse vaticane soldi senza
colore e senza odore, provenienti da tutte le parti del mondo.

GLI AFFARI DI TOTO'
"Licio Gelli investiva il denaro dei Corleonesi di Totò Riina nella
banca del Vaticano". A dirlo non è una persona qualsiasi. È Francesco
Marino Mannoia, pentito di mafia in tempi non sospetti. Ruppe gli
indugi nel 1984, uno tra i primi con Masino Buscetta. Mannoia era uomo
di fiducia di Stefano Bontate, ucciso per mano di sicari di Riina.
Dopo l'omicidio di Bontate, Mannoia cercò il giudice Giovanni Falcone
e cominciò a raccontare Cosa Nostra. La sua testimonianza fu preziosa
nel primo maxi processo. Grazie a Mannoia alcuni boss vennero
condannati all'ergastolo.
Quando Mannoia è stato chiamato, alcuni mesi fa, a deporre in
video-conferenza dagli Stati Uniti, nell'ambito del processo a
Marcello Dell'Utri, ha rivelato che "i soldi della mafia sono finiti
per anni nelle casse dello Ior, che garantiva investimenti e
discrezione". Ovviamente era necessario un tramite, che per Mannoia
era diverso a seconda dei rami della mafia siciliana. Secondo il
pentito, i Madonìa erano in affari con Sindona, Riina con Gelli:
uguale la destinazione dei capitali.
Mannoia, nella sua ricostruzione va oltre e dice: "Quando il Papa
venne in Sicilia e pronunciò un discorso duro contro la mafia,
scomunicando i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché
portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far
esplodere due autobombe davanti a due chiese a Roma". Vera o
fantasiosa che sia l'ultima parte della dichiarazione (non esistono
riscontri giudiziari), resta il fatto che ancora una volta lo Ior fa
la sua comparsa sulla cronaca accoppiato a una trama oscura.


(8. continua)
--
*Riccardo Venturi* <vent...@katamail.com>
*Er muoz gelîchesame die leiter abewerfen
So er an îr ufgestigen ist (Vogelweide & Wittgenstein)*
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