Festività di Pesach 5771 (19 - 26 aprile 2011)

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CENTRO ANTI-BLASFEMIA

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Apr 26, 2011, 6:45:58 AM4/26/11
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Festività di Pesach 5771 (19 - 26 aprile 2011)

La festività di Pesach (o ancora Pasqua Ebraica) cade quest'anno 2011
(5771 nel calendario ebraico) dal 19 al 26 aprile.

Cos'è Pesach?
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Alle origini della festa
La durata della festa
Riflessioni sul significato di “essere liberi”
Perché il termine “Pesach” viene tradotto con “Pasqua”
Come ci si prepara ad accogliere la festa

L'insieme dei testi riportati qui sotto sono integralmente tratti dal
libro "Le pietre del tempo, il popolo ebraico e le sue feste" di Clara
ed Elia Kopciowski (edizione Ancora 2001).

Alle origini della festa

Circa 3200 anni orsono Giacobbe, insieme ai suoi figli e alle loro
famiglie, si trasferì in Egitto per raggiungere il figlio Giuseppe che
ne era divenuto viceré.
I discendenti di Giacobbe divennero assai numerosi, ma non
dimenticarono il monoteismo insegnato loro da Abramo. Ciò creò quella
che forse potemmo definire la prima manifestazione di Xenofobia,
diffidenza ed odio verso i diversi, della storia. Xenofobia che sfociò
una vera e propria persecuzione. Un Faraone, probabilmente di altra
dinastia rispetto a quella del Faraone che aveva elevato Giuseppe alla
carica di viceré, dapprima ordinò che i figli di Israele fossero
ridotti in schiavitù usufruendo gratuitamente della loro opera. In un
secondo tempo dato che essi, nonostante il duro lavoro, continuavano
ad aumentare di numero, diede ordine che tutti i loro figli maschi
furono uccisi al momento della nascita.
Jocheveth, una donna ebrea della tribù di Levi, non volle sottostare
passivamente all’ordine: prese il bambino e lo mise in un cesto che
affidò alla corrente del Nilo nella speranza che un qualche evento
miracoloso lo salvasse dalla morte.
La figlia di Faraone vide il fanciullo e, nonostante si fosse
probabilmente resa conto che doveva trattarsi di un bambino ebreo, fu
presa da grande pietà, lo accolse e lo fece crescere a corte come un
figlio. Quel bambino era Mosè: il nome Mosè significa, infatti,
“salvato dalle acque”.
Divenuto adulto Mosè andava spesso a fare visita e a recar conforto ai
suoi fratelli schiavi. Una volta s’imbatté in un egiziano che, sicuro
della propria impunità, maltrattava un povero vecchio: ne risultò una
colluttazione durante la quale l’egiziano rimase ucciso.
E’ assai probabile che, se lo avesse richiesto, Mosè avrebbe ottenuto
il perdono del Faraone che, pare, gli fosse molto affezionato. Ma
forse in lui stava maturando quello spirito profetico che avrebbe
informato tutta la sua vita: le ingiustizie, la corruzione,
l’immoralità che regnavano in Egitto, soprattutto a corte, lo avevano
certo profondamente colpito e ora aveva bisogno di un periodo di
riflessione, lontano dal palazzo reale, perché la coscienza gli
imponeva di rendersi conto di quale fosse effettivamente il proprio
compito e il proprio ruolo nella vita.
Attraverso il deserto e si fermò a Midian dove prese le difese di
sette pastorelle, figlie di Jetro sacerdote di Midian, dalla
prepotenza di alcuni pastori. Dallo stesso Jetro fu invitato a
fermarsi a lavorare presso di lui. Mosè divenne così pastore, e sposò
una delle figlie del sacerdote midianita, Zippora.
Le due esperienze, quella di personalità di spicco alla corte di
Faraone e quella di pastore a contatto con gente umile dedita al
lavoro, furono fondamentali nella formazione del suo carattere
preparandolo al suo futuro ruolo di capo, ma anche di padre e
protettore del suo popolo.
Fu proprio durante il periodo in cui Mosè era pastore presso il
suocero che “Dio udì i loro gemiti e vide i figlioli di Israele ed
ebbe compassione della loro condizione” (es. 2, 24-25). Apparve perciò
a Mosè in un roveto ardente che pur bruciando non si consumava, e gli
ordinò di tornare in Egitto per “fare uscire” i figli di Israele dal
giogo degli egiziani promettendogli che gli sarebbe sempre stato
vicino, e che avrebbe inviato al suo fianco il fratello Aharon perché
lo aiutasse.
Il Faraone non prese in nessuna considerazione la richiesta di Mosè di
lasciare andare il popolo di Israele, nonostante questi avesse messo
in guardia della potenza del “Dio di Israele”.
Si riversarono allora sull’Egitto dieci piaghe con effetti devastanti
su tutto il paese: le acque del Nilo e di tutte le sorgenti
dell’Egitto si trasformarono in sangue; seguì una invasione di rane,
poi quella di una quantità di insetti dannosi. Sopravvenne quindi una
invasione di ogni genere di bestie feroci che fece strage di uomini e
di bestiame.
Invano lo stesso popolo egiziano chiese a Faraone di lasciar libero il
popolo ebraico per ottenere cessazione dei flagelli: in un primo
momento il Faraone premetteva di obbedire alla volontà divina ma, non
appena la piaga cessava, si rifiutava di mantenere la promessa.
La gravità delle piaghe si fece sempre più intensa: gli egiziani
furono colpiti dalla pestilenza, ricoperti di bubboni, investiti da
terribili tempeste, invasi da una miriade di locuste e infine da una
profonda oscurità che coprì per giorni e giorni l’Egitto senza mai
lasciar spazio a uno spiraglio di luce.
L’ultima piaga fu terribile: l’angelo della morte, in una livida notte
di terrore, si aggirò fra le case degli egiziani colpendone a morte
tutti i primogeniti, anche quello di Faraone.
Il Faraone fu così costretto, infine, a dare agli ebrei il permesso di
lasciare l’Egitto.
I figli di Israele, dopo aver consumato il sacrificio pasquale – un
agnello col sangue del quale avevano segnato gli stipiti delle loro
abitazioni per segnalarle all’angelo della morte che infatti “passò
oltre” risparmiando i loro primogeniti – si affrettarono ad
abbandonare l’Egitto così come era stato loro ordinato: “E mangiatelo
in questa maniera: coi vostri fianchi cinti, coi vostri calzari ai
piedi e col bastone in mano. Mangiatelo in fretta: è la Pasqua
dell’Eterno” (Es 12,11).
Prima della loro partenza, gli egiziani offrirono agli ebrei doni in
oro e argento, forse come risarcimento per il lavoro gratuito svolto
per tanti anni. Gli Ebrei accettarono i doni e, come vedremo in
seguito, fecero male.
L’Eterno ordinò che zevach pesach, il “sacrificio pasquale”, fosse
consumato la prima sera di Pesach da tutte le generazioni future,
perché mai gli avvenimenti di allora, così densi di significato e di
insegnamenti, venissero dimenticati.
Ma gli ebrei dovevano aver costituito, durante la lunga permanenza nel
paese, una colonna portante sia per il contributo di lavoro, sia per
quello delle idee, visto che ancora una volta il Faraone si pentì
della sua decisione: “Che cosa abbiamo fatto a lasciar libero il
popolo di Israele che ora non ci servirà più?” (Es 14,5).
Alla testa del suo esercito li inseguì per riportarli indietro
provocando al proprio popolo quella che potremmo definire l’undicesima
piaga, quella che probabilmente è rimasta più famosa: l’apertura del
Mar Rosso attraverso la quale gli ebrei raggiunsero salvi la riva
opposta, mentre gli egiziani, che avevano tentato di attraversarla
dopo di loro, furono inghiottiti dalle acque che si richiudevano e
affogarono.


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La durata della festa

Il 14 di Nissan veniva offerto il sacrificio pasquale al Tempio. Solo
la sera, che per la tradizione ebraica è già il 15 di Nissan, inizia
la festa vera e propria con una cerimonia speciale chiamata seder. In
Israele Pesach dura sette giorni, fuori di Israele otto. Ciò è dovuto
al fatto che, anticamente, nella diaspora, non era facile far
pervenire tempestivamente l’esatta data delle ricorrenze; quindi, per
evitare errori, le si faceva durare un giorno in più. L’uso è stato
mantenuto, nonostante oggi non manchi la possibilità di comunicare
tempestivamente la data di inizio della festa, per sottolineare la
differenza tra coloro che vivono in Israele e coloro che ne vivono
fuori.
Il calendario ebraico (…) è basato sui cicli della luna, non ci
permette di fissare per le feste una data precisa nel calendario
solare.


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Riflessioni sul significato di “essere liberi”

La festa ha inizio al tramonto del 14 di Nissan, che corrisponde circa
al mese di aprile.
Pesach, il momento in cui il popolo dei figli di Israele diviene il
popolo libero, rappresenta per gli ebrei il simbolo della libertà.
Libertà: una parola difficile che si presta a molteplici
interpretazioni e anche a più di un abuso.
La libertà può riguardare il singolo individuo, o interi popoli; può
riguardare lo spirito o il corpo.
Esiste anche un concetto assai individualistico di libertà, intesa
come possibilità di fare tutto quel che si vuole senza regole né
limiti, indipendentemente dai diritti e dalla libertà degli altri.
In che modo ognuno di noi è responsabile della propria, o dell’altrui
libertà? Fino a che punto e con quali modalità siamo tenuti a batterci
per la nostra, o per l’altrui libertà, senza lasciarci prendere da un
assurdo senso di orgoglio che può trasformarci in arroganti arbitri
del comportamento altrui, o da un senso di opaca rassegnazione che,
rimandando a Dio ogni responsabilità sul comportamento umano, ci
consente di lasciare le cose come stanno senza partecipare
personalmente alla liberazione di chi è schiavo e oppresso?
Schiavo o oppresso da chi, o da che cosa?
Esiste una libertà morale che coinvolge la nostra coscienza di essere
creati “a immagini di Dio” e ci impone un totale rispetto verso noi
stessi e verso gli altri. Ma esiste anche una libertà materiale,
libertà dalla miseria e dal bisogno, che prevede il diritto a una vita
decorosa e dignitosa quale patrimonio indispensabile perché ogni
essere creato possa mantenere intatto il rispetto verso se stesso e,
di conseguenza, verso il prossimo: ed è questo l’insegnamento base che
troviamo nella Torah la cui consegna segue immediatamente l’uscito del
popolo ebraico dall’Egitto proprio perché l’improvvisa libertà non
degeneri in abuso o sopruso.
Cominciamo a scindere il problema in due parti: la libertà del corpo e
la libertà dello spirito. La prima, se si affida unicamente
all’istinto non illuminato della ragione e dall’insegnamento, e qui ci
riferiamo proprio all’insegnamento della Torah, è paragonabile alla
libertà degli animali non illuminati dal “discernimento fra il bene e
il male”, e che seguono quindi soltanto il proprio istinto e i loro
appetiti.
Ma è purtroppo propria anche di tanti uomini che hanno fatto della
forza bruta, dell’imposizione indiscriminata della propria volontà su
quella degli altri, che non solo è abuso, ma che si perde facilmente
non appare all’orizzonte un uomo più potente e più prepotente.
La vera libertà è la seconda, quella spirituale. L’uomo, o il popolo,
che l’abbia fatta propria, che l’abbia resa parte integrante di se
stesso, è libero in eterno e nessuno, mai, potrà più renderlo schiavo.
(…)


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Perché il termine “Pesach” viene tradotto con “Pasqua”

Pesach deriva del verbo ebraico Pasoah che significa “passare oltre”,
e si riferisce all’episodio terrificante in cui l’angelo della morte,
durante la notte della decima piaga, si fermò nelle case degli
egiziani colpendone tutti i primogeniti, ma pasach, “passò oltre”, le
case degli ebrei sugli stipiti delle quali, in segno di
riconoscimento, era stato spruzzato del sangue dell’agnello
sacrificale.
Verso il VI secolo prima dell’Era Cristiana, in tutto il mondo
mediorientale si diffuse una nuova lingua, l’aramaico. Molti fra gli
stessi ebrei adottarono l’aramaico come lingua corrente, e in aramaico
il termine Pesach è tradotto con Pascha. L’attinenza fra le due
parole, Pascha e Pasqua, è evidente.


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Come ci si prepara ad accogliere la festa

Ogni festa ebraica richiede un’accurata preparazione che coinvolge
soprattutto la donna: ma quella di Pesach necessita di un impegno
particolare.
E’ scritto: “Per sette giorni mangerete pane azzimo, ma prima che
giunga il primo giorno toglierete dalle vostre case ogni lievito;
osserverete quindi questo giorno in tutte le vostre generazioni” (Es
12, 15-17).
Per rivivere nel tempo il momento fatidico della loro liberazione
dalla schiavitù e della loro nascita a popolo libero, gli ebrei
mangiano tuttora ogni anno a Pesach, per sette giorni (fuori di
Israele otto), il pane azzimo. E’ facile comprendere come l’ordine di
eliminare dalla casa ogni tipo di sostanza lievitata imponga alla
donna il dovere di compiere un’accuratissima pulizia della casa. Un
impegno che peraltro le donne eseguono con entusiasmo e con estrema
spolverando, lavando ogni recondito angolo dei mobili, dei ripostigli,
e di tutta la casa, per prepararla a introdurvi il pane azzimo, cioè
il pane non lievitato che in ebraico si chiama matzah.
La ragione per cui a Pesach gli ebrei mangiano pane azzimo è da
rintracciarsi nel fatto che uscirono così frettolosamente dall’Egitto
che non ebbero il tempo per fare lievitare il pane. Se poi esaminiamo
la storia e gli usi dell’antico popolo di Israele, possiamo scoprire
nel pane non lievitato significati assai più profondi e mistici: il
pane azzimo era quello che il sommo sacerdote mangiava sull’altare
durante i sacrifici. Secoli dopo divenne il pane comunemente usato
dalla setta mistica degli esseni.
Evidentemente l’antica civiltà ebraica aveva un certo rifiuto per il
lievito forse perché, essendo il risultato della fermentazione di un
impasto di farina, gli faceva perdere le caratteristiche di un
alimento puro, trasformandolo in cibo impuro: esso assume perciò nella
concezione ebraica il simbolo di quel che non deve essere, in pratica
simbolo del male. Interessante a questo proposito notare l’attinenza
fra i nomi hametz, “cibo lievitato”, e hamas, “violenza”, quindi
ingiustizia e immoralità. Il far scomparire dalla casa ogni genere di
cibo lievitato va quindi interpretato anche come un invito a
sgomberare il nostro animo da ogni tipo di hametz, o di hamas, da ogni
residuo di odio, di rancore, di violenza, di corruzione, per
presentarsi liberi e puri dinanzi al Signore, degni pertanto di
offrire il zevach pesach, il “sacrificio pasquale” (che però dopo la
distruzione del secondo Tempio non è stato più possibile compiere in
forma concreta).
I Maestri della Mishnah, la legge orale che accompagna e completa la
legge scritta, prescrivono inoltre che durante i giorni di Pesach, per
evitare qualsiasi dubbio o possibile trasgressione, vengano usati
stoviglie da tavola e recipienti da fuoco diversi da quelli del resto
dell’anno; recipienti che vengono accuratamente conservati da un anno
all’altro in un luogo in cui non abbiamo mai occasione di venire a
contatto con i cibi proibiti di Pesach.
Per le donne, particolarmente per quelle strettamente osservanti, la
preparazione del Pesach divenne quindi un impegno piuttosto gravoso e
stressante anche in considerazione dei brevi tempi che intercorrono
fra l’eliminazione del lievito e il cambio di tutte le stoviglie di
Pesach. D’altronde proprio l’accuratezza di questo allestimento
sottolinea il valore della festa.
Ma è fondamentale, a nostro avviso, ricordare che l’osservanza dei
precetti non deve mai essere fine a se stessa correndo il rischio di
trasformarsi in superstizione. Il suo vero scopo è quello di
richiamare alla memoria l’importanza determinante di quanto la festa
ci insegna.


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Il Seder

La prima sera di Pesach (le prime dure sere fuori di Israele) le
famiglie ebraiche si riuniscono intorno a un tavolo apparecchiato in
modo particolare, per celebrare il Seder, una cerimonia durante la
quale di legge la Haggadah, il racconto dell’uscita degli ebrei
dall’Egitto, arricchito di midrashim (parabole) e commenti dei
Maestri, e seguito da una cena che si conclude con canti corali di
inni e melodie che si tramandano di generazione in generazione, di
luogo in luogo.
(…) Il Seder è una cerimonia di alto valore pedagogico sotto
molteplici aspetti. A ogni commensale, per sottolineare il senso della
libertà appena acquisito, è permesso di sedere a tavola senza
osservare le strette regole dell’etichetta: si possono appoggiare i
gomiti sul tavolo, o sdraiarsi comodamente sulle seggiole, cose che i
commensali adulti in genere, per vecchia abitudine, evitano di fare,
ma che rende estremamente felici i bambini che assaporano a loro modo
il primo senso di libertà.
Sul tavolo apparecchiato viene posto in cesto contenente tre pane
azzimi (matzah), in ricordo del pane non lievitato mangiato nel
deserto, una zampa d’agnello (pesach), in ricordo del zevach pesach,
il sacrificio pasquale compiuto dal popolo che si accingeva a uscire
dalla schiavitù, e dell’erba amara (maror), diversa a seconda delle
tradizioni e della provenienza di chi celebra il Seder, in ricordo
dell’amarezza patita dagli ebrei in schiavitù.
Il maror simboleggia forse il passo più importante verso la conquista
della libertà. Dalle amarezze del passato, che lasciate fermentare,
“lievitare” nell’animo e nel cuore, avrebbero potuto trasformare il
popolo ebraico in un popolo crudele e vendicativo , è stato invece
tratto un insegnamento basilare: è necessario affrontare la vita con
una più consapevole e serena visione del rapporto fra gli uomini, è
indispensabile volgere il cuore e l’animo con profondo affetto e
comprensione verso i poveri, gli oppressi, i sofferenti.
Dalle amarezze della schiavitù è nato un inestinguibile odio per la
schiavitù, la nostra, e quella di qualunque creatura, e un altrettanto
inestinguibile amore per la libertà a cui ogni essere umano ha diritto
e che, unica, permetterà ai figli di Israele anche in futuro di
sopravvivere per adempiere alla missione.
Prima della distruzione del Tempio, ogni famiglia che andava in
pellegrinaggio a Gerusalemme vi portava il suo agnello del sacrificio
che poi veniva arrostito e mangiato. Ma da quanto il Tempio è stato
distrutto e i sacrifici interrotti, i Maestri hanno deciso che, per
ricordare la gravissima perdita, durante la cena di Seder non venga
servito nessun tipo di carne arrostita.
Oltre a questi tre simboli di Pesach (pesach, matzah, maror), nel
cesto vi è un uovo sodo, il charoseth, un impasto preparato anch’esso
secondo ricette che variano a seconda delle tradizioni dei vari luoghi
di provenienza, e che simboleggi la malta che gli ebrei schiavi erano
costretti a preparare in Egitto per fabbricare i mattoni con cui
avrebbero edificato la città del Faraone. Per il Seder però la malta
si trasforma in un dolce impasto di frutti: datteri, noci, mandorle e
altro per sottolineare la fine della schiavitù. Vi è poi del sedano
(carpas), che deve essere intinto in acqua e sale, o in acqua e aceto:
probabilmente una specie di aperitivo in vista della cena.
Sul tavolo viene posto, oltre al bicchiere destinato al Kiddush, alla
santificazione della festa attraverso il vino e il pane, un altro
bicchiere d’argento pieno di vino destinato al profeta Elia. La
tradizione vuole infatti che il profeta, durante la prima sera di
Pesach, si aggiri fra le case degli ebrei per portare i suoi voti
augurali alle famiglie che celebrano il Seder, e ognuno spera di far
parte dei privilegiati che riceveranno la sua visita.
La visita è tanto più attesa in quanto la tradizione afferma che sarà
proprio il profeta Elia ad annunciare al mondo il giungere dell’Epoca
messianica. E ogni ebreo vive la speranza che l’Epoca messianica,
l’epoca della pace, dell’armonia, dell’amore fra tutti i popoli, sia
proprio lì, dietro la porta di casa, porta che infatti, durante il
Seder, viene lasciata aperta anche perché è detto: “chi vuole entri,
mangi e celebri Pesach”.
Forse l’uso si riallaccia anche al Talmud in cui è scritto: “Nel mese
di Nissan fummo redenti, e nel mese di Nissan siamo destinati a essere
redenti” (Rosh ha-shanah 11).
Val la pena soffermarsi un momento sul significato dell’uovo sodo. Per
l’ebraismo esso ha un valore tutto particolare. L’uovo è infatti il
primo cibo che si offre a coloro che sono in lutto per la perdita di
un parente stretto, in quanto è il simbolo della vita che si appresta
a nascere, in opposizione alla morte. Perciò nel momento in cui il
nostro animo è in preda alla disperazione e ci pare di non poter
trovare né conforto né consolazione a una perdita irrimediabile, esso
ci insegna che la vita che vive in noi è un dono che Dio ci ha
concesso, e che in questo dono dobbiamo trovare la forza di continuare
la nostra opera.
Inoltre l’uovo non ha spigoli, perciò non ha né un punto di inizio né
un punto di fine. Così la sua rotondità, proprio nel momento in cui
pare che con la morte sia tutto finito, ci ricorda che la vita è un
ciclo che, come l’uovo, non ha né inizio né fine: chi dai propri cari
ha ricevuto la vita e gli insegnamenti, chi lascia dietro di sé il
dolore dei figli ai quali ha trasmesso la vita e gli insegnamenti,
continua a vivere attraverso di loro.
Ed è questo il modo umano di conquistare l’eternità.
Il segno del lutto che noi aggiungiamo al festoso cesto del Seder, e
che per tradizione viene consumato da tutti i primogeniti maschi (ma
se anche altri ospiti vorranno associarsi, potranno farlo) è un triste
ricordo degli innocenti figli primogeniti degli egiziani, vittime
della cieca ostinazione del Faraone. Proprio per questa ragione è il
primogenito ebreo che, per dimostrare il proprio dolore per la morte
dei fratelli egiziani, usa mangiare l’uovo sodo.
Per la medesima ragione i maschi primogeniti, il giorno precedente il
Pesach, fanno digiuno.
Dicevamo che il Seder è molto importante anche dal punto di vista
pedagogico: dopo il Kiddush il primo intervento è riservato al
commensale più giovane o, in coro, ai più giovani; si tratta del Mah
nishtannah: “come è diversa questa serata da tutte le altre sere!”. Il
canto è composto da quattro domande che il bambino rivolge agli
adulti: “Perché tutte le altre sere mangiamo pane, e questa sera
azzima? Perché tutte le altre sere mangiamo qualsiasi tipo di verdure,
e questa sera erba amara? Perché tutte le altre sere non intingiamo
(riferito al sedano intinto in acqua e sale o aceto) neppure una
volta, e questa sera due volte? Perché tutte le altre sere mangiamo
seduti, e questa sera sdraiati?”.
Le domande danno il via alle risposte, impartito attraverso la lettura
della Haggadah che narra gli eventi miracolosi legati all’uscita
dall’Egitto.
Durante il Seder si devono quattro bicchieri di vino in memoria delle
quattro espressioni usate da Dio quanto preannuncia a Mosè la prossima
liberazione del popolo: “li sottrarrò” dalle sofferenze dell’Egitto “;
“li farò uscire” dal luogo di schiavitù; “li redimerò e li prenderò
come mio popolo”. Esse rappresentano i vari stadi della libertà appena
riconquistata che vanno elevandosi a sempre maggior livello fino a
raggiungere la santità di “li prenderò come mio popolo” (Es 6,7).
La Torah aggiunge una quinta espressione: e “li farò entrare nella
terra promisi ai loro padri” (Es 6,8). Non può esistere in effetti una
completa libertà morale se non è legata a una libertà di
comportamento, possibile solo in uno stadio proprio e indipendente.
Durante la lettura della Haggadah vengono nominate le dieci piaghe che
hanno colpito l’Egitto e per ognuna di essa si versa un po’ di vino
contenuto nel bicchiere in un recipiente: ciò sia per augurarci che
queste disgrazie siano sempre lontane da noi e dalle nostre famiglie;
sia per ricordare che nessuna gioia può essere completa se è costata
lutti e dolori ad altri; sia, infine, per auspicare che mai più si
ripeta una situazione in cui un popolo meriti di essere colpiti da
tanti flagelli.
Un momento particolarmente interessante, e psicologicamente e
pedagogicamente assai valido, è quello dedicato alla lettura del brano
riguardante i “quattro figli”: il sapiente, il semplice, colui che non
è capace neppure di domandare, e il figliolo cattivo.
I quattro figli rappresentano i vari tipi di cui l’umanità è composta
e il testo della Haggadah ci fornisce importanti suggerimenti sul tipo
di risposta da dare ad ognuno di essi.
Al saggio, cioè colui che pone una domanda acuta e complessa, si deve
dare una risposta adeguata, dotta e approfondita, che non deluda né
sottovaluti l’intelligenza e la capacità di apprendimento di chi
domanda.
Al semplice occorre dare una risposta chiara e comprensibile per
permettergli di capire pienamente il senso di quanto gli si sta
spiegando, stimolandolo possibilmente a far nuove domande.
Particolarmente importante è l’insegnamento che viene impartito al
figlio che non è in grado di porre domande; ci dice infatti la
Haggadah: “A colui che sa domandare, aprigli tu la bocca!”. Importante
notare che nella frase “apri tu”, il “tu” è espresso al femminile,
“apri” al maschile. È la madre la prima insegnante del bambino, tocca
quindi soprattutto a lei, fin dall’inizio, seguire con la massima
attenzione il suo sviluppo mentale: ma è il padre che deve coadiuvare
e sostenere sua moglie in questa opera. Se ne conclude che solo la
collaborazione fra padre e mandre permette un normale, sereno sviluppo
del carattere infantile.
Inoltre, se un bimbo si mostra totalmente disinteressato al mondo che
lo circonda, non fa domande e non si pone interrogativi, se dà segno
di isolarsi e di non partecipare in alcun modo alla vita attorno a
lui, lungi dal rallegrarsi per il “buon carattere” del bambino che non
disturba, “aprigli la bocca”, sollecita cioè la sua curiosità,
coinvolgilo nei fatti che accadono per renderlo vivo, interessato e
partecipe, aiutandolo quindi a crescere e a entrare in modo
intelligente e attivo nella società.
Intrigante e piuttosto ironica è la risposta destinata a quel figlio
che nella Haggadah viene nominato per secondo: il figlio “malvagio”,
che forse rientra più nella categoria dei figli contestatari che in
quella di veri e propri “cattivi”.
Egli chiede: “Che cosa significa questa cerimonia (il Seder) per
voi?”; domanda in cui sottolinea: “Per voi, e non per me!”.
Si pone in questa maniera, con una certa arrogante superiorità,
totalmente al di fuori del gruppo.
Suggerisce la Haggadah: “Tu rispondigli risentito (letteralmente
“fagli digrignare i denti”); “Se tu fossi stato presente al momento
della salvezza, non saresti stato salvato!”.
Una riposta apparentemente impietosa.
Ma riflettiamo sui motivi che spingono tante volte i giovani, e non
sempre a torto, a contestare certi atteggiamenti, certi usi ereditati
e forse non sufficientemente o logicamente spiegati. Nostro compito è
quello di chiarire per dar loro modo di comprendere. Ebbene, con la
frase incisiva “tu non saresti stato salvato” la Haggadah chiama il
giovane a una responsabilità personale facendogli rivivere in prima
persona, oggi, il momento drammatico della schiavitù. Ecco, gli dice
la Haggadah, se tu, che adesso siedi con noi libero, e puoi parlare
liberamente dell’epoca della schiavitù, tu che oggi contesti e rifiuti
le responsabilità insite del passato, ti fossi trovato insieme ai
nostri primogeniti a scegliere fra schiavitù e libertà, con tutte le
responsabilità che tale scelta comportava, forse avresti
vigliaccamente scelto di continuare a servire Faraone. In tal modo non
avresti meritato la salvezza e oggi saresti ancora schiavo.
La Haggadah non accenna però all’esistenza di un quinto figlio; quello
che non c’è perché si è staccato da ogni forma di tradizione e si è
perso.
A qualsiasi tipo di domanda, anche a quella del contestatore, può
essere data una risposta, risposta che può essere discussa, che può
arricchire chi lo fa e chi la riceve con nuove interpretazioni non
necessariamente in antitesi o in contrasto con quelle precedenti, ma
persino innovative e progressiste.
Ma il figlio che non è presente è perso.
Il Seder finisce con una lunga serie di canti corali tradizionali
composti da molte strofe, la cui caratteristica precipua è quella
della ripetizione, alla fine di ogni strofa, di una frase: quella che
tutti i commensali per tradizione conoscono meglio e quindi cantano a
gran voce con grande entusiasmo.
In ultimo viene intonato il canto l’anno prossimo tutti a Gerusalemme,
ricostruita, e viene distribuito l’afikomen, preparato nella parte
iniziale del Seder, che simboleggia il sacrificio pasquale e che deve
essere consumato quando si è già sazi.


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