
- I -
Le profonde trasformazioni nel mondo, avvenute negli ultimi decenni, hanno mostrato drammaticamente che l'analisi critica della società, se vuole essere adeguata al nostro universo sociale, deve preoccuparsi soprattutto delle questioni di dinamica storica e dei cambiamenti strutturali su larga scala. Appare sempre meno possibile ignorare la preoccupazione riguardo la questione delle dinamiche storiche, come è avvenuto negli anni 1980-1990, quando si è visto il tentativo di imporre una "grande narrazione" di una realtà che viene supposta come contingente nella sua essenza. Alla luce delle trasformazioni storiche globali avvenute negli ultimi decenni, che non possono essere semplicemente ignorate, ma devono essere comprese, simili posizioni sono diventate sempre meno plausibili. Perciò mi accingo ad argomentare che per mezzo di una teoria critica del capitalismo si possono meglio illuminare questi processi di trasformazione.
Ciò suggerisce quanto possa essere importante un rinnovato incontro con l'analisi critica del capitalismo svolta da Marx. Allo stesso tempo, tuttavia, gli sviluppi storici del secolo scorso indicano fermamente che qualsiasi tentativo di riappropriarsi della teoria critica di Marx deve differenziarsi fondamentalmente dal "marxismo tradizionale", un termine questo che svilupperò più avanti.
Marco Centra e Dario Guarascio analizzano i recenti dati macroeconomici che segnalano una ripresa dell’economia italiana. Mettendo a confronto Pil, occupazione, ore lavorate, salari, produttività e contratti di lavoro,Centra e Guarascio individuano, però, alcune fragilità strutturali che consigliano grande cautela nel valutare l’attuale fase di ripresa. In particolare, Centra e Guarascio temono che tali fragilità pongano in modo durevole l’economia italiana su una traiettoria di “poor o precarious-job growth” piuttosto che di “jobless growth”
La crisi è finita. Con la variazione
positiva del Pil nel III e nel IV trimestre del 2014 l’Italia
è, tecnicamente, uscita dalla recessione. Negli ultimi 12
mesi, la crescita
ha superato abbondantemente la soglia dell’1% e si prevede che
nell’anno in corso superi l’1,5%. Gli occupati hanno
raggiunto, nel
II trimestre 2017, i 23 milioni, un livello analogo a quello
del 2008 e prossimo al massimo storico dal 1992.
Questi dati macroeconomici, tuttavia, possono celare criticità strutturali in grado di minare le prospettive future della nostra economia. Eccone alcune: la riduzione di quasi il 25% della capacità produttiva tra il 2008 ed il 2013; i livelli di salari, produttività del lavoro, investimenti in capitale fisico ed in R&S che sono significativamente inferiori alla media europea (Lucchese, M., Nascia, L., & Pianta, M. (2016). Industrial policy and technology in Italy. Economia e Politica Industriale, 43(3), 233-260).
Lo
scritto di cui qui
presento la prima parte ha lo scopo di fissare alcuni punti
teorici decisivi, prendendo le mosse dal livello raggiunto
dal marxismo negli anni
‘70-‘80 dello scorso secolo, prima dell’inabissamento
attuale. Nel testo non vi sono note o rimandi (ma non si
farà fatica ad
intravedere i numerosi autori di cui mi giovo) perché le sue
proposizioni sono espresse in forma di tesi, e ciò non per
chiudere il
discorso ma per determinare meglio la posizione che offro
alla discussione. L’esigenza politica che motiva questo
intervento è la
necessità di iniziare a fare chiarezza sulla questione dello
stato e della guerra, mostrando l’intimo legame del
capitalismo con
l’uno e con l’altra. Il principale oggetto polemico sono
tutte le teorie che (intrecciando neoanarchismo,
postoperaismo e liberismo puro e
semplice) prendono per buona l’immagine che la
globalizzazione ha dato di sé ed incolpano lo stato di tutti
i mali passati e futuri, non
comprendendo che la logica di potenza propria di ogni stato
diviene espansionismo compulsivo ed illimitato solo grazie
all’incontro dello stato
stesso con la voracità del capitale. Ed impedendoci così di
capire l’immanenza della guerra come fattore dominante delle
dinamiche
geopolitiche e di classe. Dinamiche di cui qui ho voluto
indicare la strettissima connessione (anche ragionando al
livello teorico più
astratto) per sottolineare sia il peso determinante della
geopolitica dell’imperialismo nel definire le relazioni di
classe, sia il possibile
legame fra lotte di classe e lotte antimperialiste e
nazionali
“Di tutti i modi per
organizzare
l’attività bancaria,
il peggiore è quello che
abbiamo oggi”
(Sir Mervyn King, ex governatore Banca d’Inghilterra)
Una delle trasformazioni più inumane del sistema capitalistico industriale, fondato originariamente sull’industria manifatturiera e più in generale di produzione, è quella in capitalismo finanziario, in cui il potere è concentrato in pochi grandi istituti di credito. Le banche hanno cessato il loro ruolo di supporto e di credito allo sviluppo, preferendo investire in prodotti finanziari dai quali viene generato altro capitale, in un sistema autoreferenziale in cui i profitti nascono dalla speculazione, senza passare attraverso il lavoro e la produzione.
In modo graduale, ma anche repentino, il sistema capitalistico ha spostato l’asse dall’economia reale a quella finanziaria e, ancora peggio, alla speculazione che ne deriva, tanto da essere stato ribattezzato “finanzcapitalismo” o “capitalismo ultrafinanziario”.
Orientato alla massimizzazione del profitto ricavato dal denaro stesso, in esso la ricchezza non passa attraverso la produzione di beni o servizi, né è previsto un piano di redistribuzione tra lavoratori e consumatori, ma solo l’accentramento nelle mani di pochi, pochissimi.
Quando si parla di Afghanistan, di solito si tralascia uno degli attori fondamentali dell’Asia: la Cina. Abituati a leggere le notizie sulle truppe occidentali nel Paese, sui rischi del terrorismo islamico, i talebani e gli attori esterni nel grande gioco afghano, Pechino viene sempre tralasciata, come se fosse estranea a tutto ciò che avviene all’interno del Paese. In realtà, è bene ricordarlo, la Cina non solo ha enormi interessi nell’Afghanistan, ma ci confina anche. Un piccolo lembo dell’Afghanistan, corrispondente al corridoio del Vacan, confina con il colosso cinese. E questo confine terrestre, di poche decine di chilometri in totale, rende, di fatto, i due Paesi molto più connessi di quanto si possa credere o di quanto si possa leggere quotidianamente. Questa connessione, soprattutto negli ultimi mesi (forse anni) si sta facendo estremamente rilevante. E può avere un peso specifico molto importante non soltanto sullo stesso conflitto che insanguina l’Afghanistan da ormai 16 anni, ma anche su tutta la struttura geopolitica dell’Asia centrale.
Le ultime mosse cinesi, in particolare dal 2015, dimostrano un costante interesse per l’Afghanistan. Un dato su tutti basta a fugare ogni dubbio su come e quanto Pechino abbia a cuore il problema: l’80% dei diritti estrattivi delle risorse minerarie afghane è in mano alla Cina.
C’è qualcosa di apparentemente incomprensibile, anche per gli analisti più seri, nell’emergere dei cosiddetti “populismi” in quasi tutte le regioni d’Europa. Se escludiamo lo strombazzare di Renzi sul “Pd come argine ai populismi”, alcuni analisti, presi come sono dall’applicazione degli strumenti di interpretazione forniti dal pensiero unico neoliberista, al massimo arrivano ad identificare un “antagonismo tra centro e periferia” (Carlo Bastasin su IlSole24Ore di oggi, per esempio), sbrigativamente identificati come regioni più dinamiche e quelle più arretrate sul piano economico. Nelle prime si svilupperebbe un “populismo da ricchi” – derivante da una percezione delle istituzioni pubbliche come “troppo lente” rispetto ai cambiamenti nell’economia digitalizzata – mentre nelle seconde prevarrebbe un “sentimento” di abbandono, isolamento, declino, che porterebbe a rivalutare visioni o identità nazional-regionali perse da un paio di secoli o alcuni decenni.
Secondo questa chiave di lettura Catalogna e lombardo-veneto (ma anche Londra, Baviera, Olanda, ecc) si assomiglierebbero molto, e così – sul fronte opposto – Italia meridionale, Grecia, Spagna, Portogallo, ecc.
E’ una chiave narrativa che nasconde e mistifica quel che vorrebbe “chiarire”. Catalogna e lombardo-veneto, per esempio, hanno generato due “populismi” praticamente opposti.
Fu-Rifondazione: non potendosi alleare con il PD di oggi, si alleano con il PD di ieri.
Dopo le elezioni siciliane, la stitica manifestazione del Pantheon sancisce una grandiosa novità politica: il centrosinistra dei poveri trombati. Ovvero la costruenda alleanza tra decaduti: i rifondaroli, Vendola e il partito di Bersani e D'Alema.
Ai primi, cioè le truppe brioscine (in generale assai contente per una legge di coalizione che materializza il sogno d'amore con Siderurgia & Aperitivo), toccherà il ruolo di scopa dietro la porta e forse due o tre seggi per gli amici. Se le grida indignate di questi giorni - è solo questo ciò che in realtà vogliono - riusciranno a tenere abbastanza basso lo sbarramento (diciamo attorno al 3%).
Tutti noi perderemo invece altri 5 anni di tempo e di politica, dopo il nulla che è accaduto dal 2008 a oggi.
Perché tutto questo?
Il quadro politico nazionale è slittato così a destra dall'inizio degli anni Novanta che D'Alema e Bersani - chi la fa la aspetti - occupano oggi sul piano formale proprio la posizione sistemica che all'epoca aveva Rifondazione Comunista (nel frattempo sostanzialmente defunta sul piano della significatività politica proprio perché non ha più ragion d'essere, essendo questo suo spazio, per quanto marginale, ormai da tempo occupato).
"Economia della rivoluzione" di Vladimiro Giacché raccoglie gli scritti economici dal 1917 al 1923 del leader della Rivoluzione d'Ottobre. Una lettura che apre interessanti visuali sul nostro mondo di oggi
Quasi niente è sembrato essere meno attuale in questa infuocata estate italiana dei testi di Lenin sulla rivoluzione, ormai centenari. Eppure, credo, dal saggio di ben 520 pagine che Vladimiro Giacché ha recentemente pubblicato (“Economia della rivoluzione”, Il Saggiatore), raccogliendo gli scritti economici di Lenin dal 1917 al 1923, si aprono interessanti visuali sul nostro mondo di oggi. Ciò potrebbe sorprendere alcuni, poiché, con la fine dell`Unione Sovietica, il suo fondatore e i suoi pensieri sono in gran parte scomparsi nell’oblio. L’implosione dell’ex-economia sovietica e la selvaggia degenerazione far west che la seguì immediatamente sono considerati dai più come fase già prevista nel contesto della vittoria globale del capitalismo – una semplificazione che manca di qualsiasi complessità storica.
Dopo quasi tre decenni la demonizzazione anti-sovietica continua e anche nelle prossime settimane potremo leggere qualcosa di simile al riguardo in più di un commento, a meno ché non si preferisca sottacere del tutto l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. E perché mai, quando di “cambio di sistema” non si parla più da tempo? O la storia non è ancora giunta alla sua “fine”?
Le violenze della polizia
spagnola durante lo svolgimento del referendum per
l’indipendenza del primo
ottobre in Catalogna, pone all’ordine del giorno un’analisi
delle forze dell’ordine. In particolare, viene da chiedersi:
perché la polizia tende, così spesso, ad agire in maniera
sproporzionalmente violenta ? E perché questo avviene
tanto come
risposta alle manifestazioni politiche (Torino Primo
Maggio 2017, Taormina in
occasione del G7
quest'estate,
Pavia durante la manifestazione del 5
novembre, Genova durante il G8
del 2001),
quanto durante normali
operazioni di “ordine pubblico” (di nuovo Torino
quest'estate, caso Cucchi,
caso Aldrovandi,
ecc.)?
In quest’articolo proveremo a dare una risposta. Non sarà certamente l’ultima parola su questa questione, né pretendiamo che lo sia. Piuttosto ci piacerebbe che queste pagine siano di spunto per ulteriori e più approfondite analisi, capaci di guardare al processo di formazione delle polizie in tutto il mondo e di analizzare, caso per caso, tutte le situazioni in cui le forze dell’ordine mostrano comportamenti ingiustificatamente aggressivi.
Che il senso comune non sia garanzia di verità è ormai cosa nota. Gli scienziati lo sanno bene. Copernico, Galileo, Newton, Einstein… Tutti loro hanno messo in discussione e confutato le risposte considerate dalla maggioranza vere perché “ovvie”.
Riccardo Bellofiore (a cura di), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, Manifestolibri, Roma 2007, ISBN 978-88-7285-475-4, euro 28.00
Il volume nasce come raccolta degli
atti
di un convegno organizzato da Riccardo Bellofiore presso
l’Università di Bergamo (Facoltà di Economia) in occasione
dell’uscita, sempre per la Manifestolibri, del volume di
Cristina Corradi dal titolo Storia dei marxismi in Italia.
Allora, è bene
innanzitutto riportare le tesi sintetiche che Corradi espone
in questa raccolta alle pagine 9-31.
1. Rapporto teoria e prassi. I protagonisti italiani di questo intricato rapporto sono innanzitutto Antonio Labriola e poi Antonio Gramsci. Se il primo incentra la sua lettura di Marx sulla nozione di “materialismo storico”, il secondo restituisce una originale lettura delle Tesi su Feuerbach “da cui ha ricavato una filosofia della prassi intesa come produzione di soggettività politica”. Subentrano nel secondo dopoguerra, lo storicismo marxista e lo scientismo dellavolpiano. L’operaismo degli anni ’60 sgancia il marxismo dall’idealismo tedesco, dal socialismo francese e dall’economia politica inglese, proponendo “la tesi politica della potenza antagonistica della classe operaia”. La crisi del marxismo degli anni ’70 si manifesta nell’abbandono del paradigma della critica dell’economia politica, relegando la lettura marxiana del capitalismo all’Ottocento.
Proprio ieri, Leonardo Bianchi pubblicava su Vice un opportuno, centrato e illuminante articolo sulla legittimazione del neofascismo attraverso lo sdoganamento culturale mainstream di Casapound, presentata massmediaticamente come faccia pulita di una nuova destra, finalmente compresa nel gioco democratico. Facciamo nostro questo articolo in ogni sua virgola: non si poteva esprimere meglio il significato politico alla base del plateale sdoganamento neofascista (qui il pezzo). Le tragiche comparsate di Mentana e Formigli demoliscono, forse definitivamente, gli ultimi riferimenti all’antifascismo quale collante costituzionale, un recinto politico fuori dal quale quella legittimità è negata esattamente per conto della democrazia. La storiella mandata a memoria e ripetuta dai due mattatori della prima serata (“è la democrazia, attraverso la competizione elettorale, che legittima le forze politiche”) è talmente pretestuosa da confondere i due stessi giornalisti a-fascisti. Ambedue infatti hanno chiarito che non avrebbero partecipato a dibattiti con forze di estrema destra “a destra”(?) di Casapound (riferendosi evidentemente a Forza nuova del cocainomane Castellino). Eppure, tutte le forze neofasciste come Casapound, da Forza nuova al Fronte nazionale, partecipano alle elezioni. Anche Alba dorata in Grecia, anche i neonazisti in Germania. Le elezioni non rappresentano una forma di legittimazione democratica in regime liberale.
Da molti mesi il ministro dell’Economia Padoan ha avviato un suggestivo “story telling” per presentare l’ultima Legge di Stabilità. La metafora al centro della narrazione governativa è stata quella del “sentiero stretto” imposto dalle scarse disponibilità finanziarie. Ormai da decenni i ministri dell’Economia interpretano la parte del Menenio Agrippa di turno, che ci edifica e ci educa con apologhi morali sulla oculata distribuzione delle risorse al corpo sociale. In questo campo però Padoan può avvalersi della sua esperienza al Fondo Monetario Internazionale, che di queste narrazioni morali sulla necessità di “non vivere al di sopra dei propri mezzi” è maestro incontrastato.
Anche l’avarizia è un vizio capitale e, come ogni vizio, ha la sua pornografia. Non c’è dubbio quindi che vi sia una parte consistente dell’opinione pubblica che si lascia solleticare da queste narrazioni morbose di tagli di spesa e di erogazioni finanziarie col contagocce. L’opinione pubblica non viene soltanto affabulata e suggestionata, ma anche “testata” con micro-esperimenti sul campo di pauperismo artificioso e di “spending review”. Come sempre il principale laboratorio è la Scuola, dove, in particolare al Sud, alcuni dirigenti scolastici appositamente imbeccati simulano emergenze finanziarie per poter estorcere con collette agli insegnanti i fondi per pagare le fotocopie per i compiti e per acquistare i registri di classe.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, è la condotta delle stesse banche centrali che racconta un’altra verità: la crisi non è finita, è in-finita ed è incistata nel modus operandi del capitalismo contemporaneo. Un cancro metastatico che prima sarà estirpato e meglio sarà per tutti. Per il proletariato, per la società e il pianeta che ci ospita
Da un po’ di tempo non c’è giorno che passi senza che qualche agenzia a ciò preposta non diffonda dati secondo i quali la crisi è ormai alle spalle. In Italia, è bastato che prima l’Istat e poi l’Ocse rivedessero le loro precedenti previsioni sul pil atteso per il 2017 da 1,2 a 1,5 e per il 2018 da 1 a 1,2 per far dire al Presidente del Consiglio che ormai il peggio è passato e al suo predecessore che questo straordinario risultato è da ascrivere interamente all’azione riformatrice del suo governo e in particolar modo al Jobs Act.[1] Renzi non mente; solo che dovrebbe precisare che si tratta soprattutto di contratti di lavoro e non di posti di lavoro.
Infatti, come ha da poco reso noto l’Osservatorio sul precariato dell’Inps, delle 835 mila assunzioni in più registrate lo scorso luglio rispetto al 2016, poco meno del 60% sono contratti a tempo determinato e di apprendistato mentre quelli a chiamata sono passati dai 112 mila del 2016 ai 251 mila del 2017 (+ 124 per cento). Invece quelli a tempo determinato “a tutele crescenti” - il vanto del Jobs act - sono diminuiti del 4 per cento.
A me l’Italia, sin dal modo in cui si è formata 150 anni fa, non è mai piaciuta. Sin dall’inizio la sua classe dirigente si è distinta per l’ottusa difesa dei suoi privilegi, per l’esclusione, controllo e repressione delle masse popolari e lavoratrici, per il rifiuto costante di un vero riformismo (mica quello delle “riforme” strutturali con cui i ladri di parole da anni ci asfaltano i marroni), e infine per la sua naturale tendenza a vendersi/ci allo straniero pur di mantenere intatti quei suoi privilegi.
Detto questo, so che lo smembramento dell’Italia è l’ultima carta che sempre quella solita classe dirigente è disposta a giocare per continuare a conservare quei suoi privilegi. Non sembra ancora del tutto decisa a giocarla ora. Sta ancora calcolando costi e benefici. Per ora si mantiene ancora solidamente ancorata al “vincolo esterno” della Unione europea che continuerebbe a chiederci e a chiederci e a chiederci … (l’ultima cosa che ci starebbe chiedendo con urgenza sarebbe quella di spiare, controllare e impedire le comunicazioni elettroniche sul web dei cittadini italiani).
Ma c’è chi, evidentemente, la scelta di smembrare l’Italia l’ha già fatta. Non il grande capitale nazionale, bensì il piccolo e medio capitale lombardo-veneto.
Se osserviamo il referendum leghista “a livello terra”, questo non è paragonabile a quello catalano.
A dieci anni dall’inizio della crisi il divario italiano rispetto alle maggiori economie europee si allarga, in termini di Pil e di salari. Crescono le diseguaglianze, ma si portano avanti le stesse ricette economiche antipopolari. Occorre ribaltare il tavolo
Pochi giorni fa il governo ha passato la prova sul voto del Def (il Documento di economia e finanza), in sostanza il principale strumento della programmazione economico-finanziaria; il documento, attraverso il quale il governo indica la strategia economica e di finanza pubblica nel medio termine e la sottopone al voto parlamentare. Il Parlamento ha dato così il via libera alla Nota di aggiornamento del Def ed allo scostamento di Bilancio. Una votazione nella quale, tra l’altro, si è consumata l’ennesima pantomima di Mdp, che ha espresso voto contrario alla relazione del ministro Padoan - per l’approvazione della quale i voti del partito dei (quasi) fuoriusciti dal PD sono ininfluenti - ed ha votato a favore della risoluzione sullo scostamento di bilancio - dove i voti di Mdp sono necessari a non mettere in crisi il governo. A nulla valgono le giustificazioni secondo le quali il voto contrario avrebbe determinato l’applicazione automatica delle norme di salvaguardia, con aumenti dell’Iva. C’è da ricordare, infatti, che il pareggio di bilancio in Costituzione e le clausole di salvaguardia non sono cadute dal cielo: il primo è stato votato in Parlamento nel 2011; l'aumento automatico dell'IVA è stato introdotto tra le norme di salvaguardia dal governo Renzi, che ci ha impacchettato questo bel regalino nel 2015.
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I referendum consultivi che si terranno in Lombardia e Veneto il 22 ottobre e che chiederanno ai cittadini delle due regioni se “vorranno godere di ulteriori forme di autonomia”, hanno attratto una grande attenzione fra l’opinione pubblica. In questo articolo farò riferimento al caso veneto, analizzando il merito della questione e gli insegnamenti che possiamo trarre a livello politico da questi mesi di campagna referendaria.
Sarò di parte. Milito nel Comitato Veneti per l’Astensione che ha ricevuto il pieno appoggio di Senso Comune. Ritengo che si tratta di un referendum inutile per i veneti ed utile per i partiti. Un referendum non necessario per l’avvio della trattativa Stato-Regione per la cosiddetta “autonomia differenziata” ex art. 116.3 Cost. Un referendum che Zaia ha spacciato per “vincolante”: un “vincolo” auto-imposto che esplicitamente lega una trattativa istituzionale alla buona riuscita di un plebiscito personale. Una trattativa che arriva con 16 anni di ritardo, durante i quali Lega Nord e Forza Italia – le forze politiche che governano il Veneto da 22 anni – hanno governato per 8 anni a Roma, senza ottenere (né seriamente perseguire) alcun risultato concreto. Si sono invece intestardite in complessi iter di riforma costituzionale (bocciata nel 2006 dai cittadini italiani) ed in tentativi (goffi e naufragati) di dare seguito all’art. 119 Cost. (sul c.d. “federalismo fiscale”), anziché perseguire la strada più facile e comoda, ovvero il percorso per l’”autonomia differenziata” attraverso una trattativa fra istituzioni del medesimo colore politico.
Segnaliamo sul numero di ottobre
dell’edizione italiana del
mensile Le Monde Diplomatique che trovate in
edicola con il Manifesto un ampio dossier Rileggere
la Rivoluzione
russa, di cui anticipiamo l’articolo di
apertura
Urss: Unione delle repubbliche
socialiste sovietiche. Il nome inizialmente non rimanda a un
territorio ma a un’idea: la rivoluzione mondiale. Le sue
frontiere saranno quelle
della sollevazione che ha trionfato in Russia, e poi di quelle
che si attendono all’esterno. Sul lato superiore sinistro di
un’enorme
bandiera rossa, una falce e un martello simboleggiano il nuovo
Stato, il cui primo inno sarà… L’Internazionale.
Lenin, fondatore dell’Unione sovietica, internazionalista lo è di certo. Ha vissuto buona parte della sua vita di rivoluzionario di professione in esilio (Monaco, Londra, Ginevra, Parigi, Cracovia, Zurigo, Helsinki…). E ha partecipato a quasi tutti i grandi dibattiti del movimento operaio. Nell’aprile 1917, quando torna in Russia dove è scoppiata la rivoluzione e lo zar ha appena abdicato, il suo treno attraversa il territorio tedesco nel bel mezzo della Grande guerra, eppure vi si intona La Marsigliese, un canto che incarna per i suoi compagni la Rivoluzione francese. Da diversi punti di vista, nei testi di Lenin questo riferimento è più presente della storia della Russia zarista. Riuscire bene come i giacobini, «il miglior esempio di rivoluzione democratica e di resistenza a una coalizione di monarchi (1)», durare più a lungo della Comune di Parigi: ecco le sue ossessioni. Per il nazionalismo non c’è il minimo posto.
Il leader bolscevico (*) lo ricorderà in seguito: dal 1914, contrariamente alla quasi totalità dei socialisti e dei sindacalisti europei che si lasciarono arruolare nella «sacra unione» contro il nemico straniero, il suo partito «non aveva temuto di preconizzare la sconfitta della monarchia zarista e di condannare una guerra fra rapaci imperialisti».
Una volta che ci si è accorti
dell’esistenza del mito della creatività si inizia a
rintracciarlo un po’ dappertutto; si inizia pian piano a
vederlo nelle sue
personificazioni – i creativi – e nella sua presenza nel mondo
del lavoro – il lavoro creativo o i modi creativi di compiere
un
lavoro; si sentono risuonarne la parole in molti discorsi a
vari livelli (nei telegiornali, nei blog, su facebook,
negli annunci di
lavoro, nelle chiacchere da bar…); lo si nota come un’aura che
colora molte figure significative del nostro immaginario. La
tinta
euforica che sempre si accompagna al mito della creatività
viene utilizzata per rappresentare una serie di oggetti,
valori e luoghi anche molto
diversi tra di loro; i colori ricordano quelli delle
fotografie di Oliviero Toscani. Anche quando non vengono usate
direttamente la parola e i suoi
derivati ci si accorge, man mano che si affina lo sguardo, che
una serie di altri lemmi, concetti e valori che con essa
costruiscono una ragnatela
simbolica (innovazione, originalità, bellezza diffusa, genio,
successo…) sono disseminati nel mondo che abbiamo davanti, nei
nostri
discorsi quotidiani. La creatività appare nella forma del
mito: non semplicemente una mistificazione, ma narrazioni,
immagini, costellazioni di
elementi che producono identità culturali e collettive,
all’interno delle quali le persone possono riconoscersi e
riconoscere i loro
simili, ricondurre le loro esperienze particolari a un modello
generale.
1. Puntuale, dalle recenti parole del Presidente del Consiglio, è arrivata al conferma di quanto avevamo evidenziato nello scorso giugno.
Ci pare infatti interessante riportare le parole di Gentiloni di solo una settimana fa (ne esiste una sintesi concorde nelle varie fonti mediatiche, che riportano comunque il video del discorso, a scanso di ogni malinteso):
Gentiloni: sovranismo non c'entra niente col patriottismo "Il revival di questo sovranismo, inteso come ostilità verso i vicini non ci coinvolgerà, non coinvolgerà l'Italia", aggiunge:
'Il consolidamento della nostra identità nazionale - dice il Presidente del Consiglio - è un percorso molto importante, ma non ha nulla a che fare con le spinte sovraniste. Questo patriottismo contemporaneo non ha nulla a che fare con ostilità nei confronti di altre culture e di altri popoli'.
2. Certo, a far sorgere l'equivoco sul concetto di sovranismo contribuisce in modo determinante la difficoltà, squisitamente "culturale", di non saper definire la sovranità, nazionale italiana, in relazione alla sua espressa enunciazione normativa fattane in Costituzione (e nei lavori dell'Assemblea Costituente).
Nella scala dei bisogni, mangiare e bere sono al secondo posto, subito dopo il respirare. Senza cibo non si cresce, non si impara, non si lavora. Si è larve umane. Secondo la Fao, ottocento milioni di persone sono in condizione di fame cronica, ossia assumono meno di 1800 calorie al giorno. Ma se allarghiamo la visuale anche a chi soffre per altre forme di carenza alimentare, scopriamo che i sottoalimentati sono oltre 2 miliardi, quasi un terzo della popolazione mondiale. Colpa della insufficiente produzione di cibo? Non proprio a giudicare dai 2 miliardi di individui sovrappeso, 650 milioni dei quali decisamente obesi.
Chi mangia troppo, chi troppo poco: schizofrenia di un sistema agricolo che ormai non produce più cibo per la vita di tutti, ma merci per l’arricchimento di pochi. E non certo dei contadini a diretto contatto con la terra, ma di chi occupa ben altre posizioni. Se esaminiamo la filiera agricola scopriamo che il settore è strutturato a sandwich. Sopra ci sono le imprese che forniscono gli ingredienti per l’agricoltura: sementi, fertilizzanti, pesticidi. Sotto le imprese che fanno incetta di prodotti agricoli da rivendere alle industrie alimentari e ai supermercati. Nel mezzo gli agricoltori che finalmente seminano e raccolgono.
Negli Stati Uniti è in corso un dibattito attorno alla riforma fiscale proposta da poco dalla Amministrazione Trump. Per quanto lontano, gli argomenti di tale dibattito sono a noi assai vicini. Ad esempio, sulle pagine del Financial Times, Martin Wolf, Lawrence Summers e altri ancora hanno scritto senza mezzi termini che si tratta di una riforma regressiva, che le riduzioni delle tasse sulle imprese sono enormi e che, benché necessaria, si tratta di un’occasione mancata che avrà conseguenze nefaste sia sul piano interno che su quello esterno degli Stati Uniti.
Grazie a questa riforma di Donald Trump, i contribuenti del famoso 1% più ricco beneficeranno della metà di tutti i benefici fiscali. I loro redditi dopo il prelievo fiscale aumenteranno dell’8,5%, mentre per il 95% dei contribuenti tale aumento sarà mediamente pari all’1%. Più regressiva di così si muore. Niente male per un presidente che aveva promesso di risollevare le sorti del ceto medio.
Naturalmente, i sostenitori di questa riforma rispondono che un po’ di iniquità non fa male, anzi. La ricchezza dei più ricchi sgocciolerà nell’economia reale perché permetterà di aumentare gli investimenti, e quindi l’occupazione, anche grazie al rimpatrio dei profitti realizzati all’estero dalle imprese multinazionali americane attratte dalla minore pressione fiscale.
Si ritorna a parlare della classifica Transparency International sulla corruzione nel mondo, dove l'Italia si collocherebbe terza in Europa dopo Bulgaria e Grecia. Trattandosi come è noto di corruzione percepita, lo strumento è semmai utile per misurare l'autostima dei popoli più che la diffusione del reato: sicché è già tanto se non ci troviamo in prima posizione. In attesa che escano le nuove pagelle mi piace offrire un contributo pedante al dibattito, di cui propongo nel seguito una prima puntata sulla situazione - quella vera - di un Paese a me molto caro: l'Austria.
***
Qualche mese si fa si apprendeva che nel villaggio di St. Wolfgang, in Alta Austria, la quasi totalità degli immobili non sarebbe in regola con i permessi edilizi, per un totale di 974 infrazioni su 1067 unità: il novantuno per cento. Una vicenda di abusivismo che come già le mazzette di Peter Hartz, lo scandalo delle centraline Volkswagen e altri più o meno noti casi di corruzione (//medium.com/@stat_wald/germania-faro-di-civilt%C3%A0-399d12edf740" target="_blank">qui un promemoria, qui un commento) hanno fatto vacillare per qualche minuto la credenza tutta italiana in un mondo tedesco baciato dal successo perché ligio alle regole.
Andrew Spannaus, giornalista americano attivo in Italia di cui abbiamo potuto apprezzare il pamphlet “perché vince Trump”, torna con un nuovo saggio sul conflitto fra popoli ed élite, “La rivolta degli elettori” (targato Mimesis come il precedente). Il testo affronta in particolare tre temi: le cause del crescente rigetto nei confronti dell’attuale sistema politico ed economico, le sue forme politiche, l’incapacità dei vecchi poteri di affrontarlo.
Le cause sono sotto gli occhi di tutti, a partire dal vertiginoso aumento delle disuguaglianze, effetto dello sforzo di abbassare il costo del lavoro attraverso outsourcing, precarizzazione, tagli salariali, e della finanziarizzazione dell’economia. Due processi che investono l’intero mondo occidentale, e hanno assunto forme esasperate in Europa dopo Maastricht e l’unificazione monetaria. In Italia la tragedia è iniziata con il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che ha causato l’esplosione del debito pubblico, per raggiungere l’acme sotto il governo “tecnico” di Monti il quale, non solo si è impegnato a contribuire nella misura del 18% al fondo salva stati laddove le nostre banche erano esposte al 5% (il che significa che non abbiamo contribuito a salvare i Paesi in difficoltà bensì le banche francesi e tedesche che ne avevano finanziato i debiti), ma è anche è riuscito a far crollare il Pil del 5% fra il 2011 e il 2014 (e la produzione industriale del 10).
"Negli Stati Uniti, la percentuale di
occupazioni che può essere completamente automatizzata è molto
piccola, meno del 5%, ma l'automazione influenzerà quasi tutte
le
occupazioni, non solo i lavoratori e gli impiegati di fabbrica
ma anche giardinieri paesaggistici e tecnici dentistici,
stilisti, venditori di
assicurazioni e amministratori delegati, in misura maggiore o
minore. Il potenziale di automazione di queste professioni
dipende dalla tipologia di
attività lavorativa che comportano, ma come regola di base
circa il 60% di tutte le occupazioni hanno almeno il 30% delle
attività che
sono tecnicamente automatizzabili. Negli Stati Uniti, Paese
per cui disponiamo dei dati più completi, il 46% del tempo
trascorso in
attività lavorativa in tutte le professioni e le industrie è
tecnicamente au-tomatizzabile con le tecnologie attualmente
esistenti. Su
scala globale, l'automazione potrebbe interessare il 49% delle
ore lavorative, che equivalgono a 1,1 miliardi di lavoratori e
15,8 trilioni di dollari
in salari. Tra i diversi Paesi, il potenziale varia tra il 40
e il 55%, con appena quattro, Cina, India, Giappone e Stati
Uniti, che rappresentano
poco più della metà dei salari e dei lavoratori totali. Il
potenziale potrebbe essere importante anche in Europa: secondo
la nostra
analisi, l'equivalente di 54 milioni di lavoratori a tempo
pieno e più di 1,9 trilioni di dollari in salari nelle cinque
grandi economie del
continente: Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito.
Questo allo stato attuale, ma poiché la tecnologia diventa
sempre più
avanzata, il potenziale crescerà"
Vogliamo
ricordare un avvenimento tremendo, che accadde il 17 ottobre
del 1961: quel giorno di autunno circa 30.000 persone
sfilavano per le vie di Parigi
pacificamente.
I cortei, che avevano l’intenzione di raggiungere il centro della città, erano costituiti da donne, uomini e bambini; furono aggrediti dalla polizia a colpi di bastone e di armi da fuoco, vennero uccisi, gettati vivi nella Senna ed alcuni furono ritrovati impiccati nei boschi. Si calcolano dai 200 ai 300 morti più alcune migliaia di feriti.
Cercando di capire come si era arrivati a questa violenza raccontiamo nei particolari questo evento raccapricciante, forse il più grave massacro di lavoratori avvenuto in Europa nel secolo scorso.
Perché è poco ricordato e/o dimenticato? La risposta è incredibilmente semplice: perché le vittime erano tutte algerine, erano solo degli immigrati, gente proveniente da quella parte del mondo considerata come una civiltà indiscutibilmente inferiore alla “civiltà occidentale”.
Gli antefatti
Le forze coloniali francesi rinchiusero dietro i reticolati oltre 1 milione di algerini. Furono detti “campi di raggruppamento” e “centri di internamento”, ove, secondo le dichiarazioni delle stesse autorità francesi, le malattie e la mortalità raggiunsero cifre normalmente alte.
“Le risorse sono pochissime dati i vincoli di
bilancio. Il Pil
è migliorato ma non in modo tale da allentarli in modo
significativo“. Lo ha detto il ministro dell’economia Pier
Carlo
Padoan, parlando della legge di bilancio 2018. E,
infatti, “L’avanzo primario [che avviene quando lo Stato
ricava dalle tasse
più di quanto spende, esclusa la spesa per gli interessi sul
debito] – si legge infatti nel documento – salirebbe
dall’1,7% di quest’anno al 3,3% nel 2020, grazie ad un
continuo controllo della spesa e a nuove clausole poste a
garanzia dei saldi di
finanza pubblica”. La concezione della moneta come bene
scarso e della spesa come un’azione per la
quale non ci
debbano essere “pasti gratis”, che dev’essere
immediatamente compensata dalle tasse è a tutt’oggi
l’unico discorso legittimo che si può fare quando si parla di
finanza pubblica. Osserviamo la filosofia che sta alla base di
tale
atteggiamento.
Essa afferma che la moneta è un semplice mezzo di scambio. E’, cioè, il simbolo attraverso cui due individui che hanno già un prodotto da scambiare possono portare a termine la loro transazione senza ricorrere al baratto. Nei casi limite essa può diventare “credito”, che presuppone un semplice differimento temporale del meccanismo suddetto. E, soprattutto, presuppone qualche individuo che voglia “vendere” la sua moneta a chi ne ha temporaneamente bisogno. Ogni transazione presuppone perciò uno scambio alla pari ed un immediato calcolabile ritorno per l’individuo. Altrimenti si parlerebbe di ‘’dono’’ e non di scambio monetario.
Care e cari,
siamo sempre noi, quei grandissimi rompiscatole dell’Ex OPG “Je so’ pazzo” di Napoli. Dopo ben quattro mesi vi scriviamo per socializzare le nostre riflessioni rispetto alla costruzione dell’ormai famigerata lista unitaria di sinistra...
Forse ricorderete che a giugno scorso rispondemmo all’appello lanciato da Anna Falcone e Tomaso Montanari per la costruzione di “Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza”, ponemmo delle critiche sia di merito che di metodo ed evidenziammo il fatto che a rispondere per primi all’appello fossero stati Fratoianni e Civati, esponenti di un ceto politico di sinistra ormai totalmente delegittimato. Avevamo il timore che quell’iniziativa potesse essere il mezzo attraverso il quale i fuoriusciti del Pd potessero riciclarsi. Ci era stata pubblicamente annunciata una risposta dai promotori, e non è mai arrivata. Siamo stati invitati al Brancaccio ad intervenire, ma si preferirono altre facce e altre storie: tutto lo stato maggiore di MDP e D’Alema in prima fila (ma era un caso! Una gentile signora pare gli avesse ceduto il posto…) e sul palco Gotor. Alla faccia di tutti bei discorsi sull’orizzontalità del percorso, la partecipazione dal basso e la democrazia, l’assemblea era blindata e non c’era spazio per alcuna voce critica (per la precisione: alla nostra contestazione si rispose chiamando security e forze dell’ordine).
Quando le ceneri di Adolf Eichmann furono disperse in mare, da una motovedetta della marina israeliana, il secchio che le conteneva fu accuratamente lavato in modo che nessun frammento di quella cenere, appartenente al corpo cremato dell’aguzzino nazista, potesse tornare a terra. E’ un fatto noto quanto significativo: i colpevoli di genocidio, come Eichmann, non dovevano, in alcun modo, trovare il conforto simbolico della sepoltura.
Lunga e articolata è la storia delle pene di questo tipo quanto stabile è la forza del concetto che le legittima: ci sono omicidi talmente efferati che non possono trovare sepoltura.
Il punto è che oggi, a oltre mezzo secolo dalla vicenda Eichmann, si tende a confondere il rito di elaborazione questo genere di efferatezze, che rappresentano un’offesa irreparabile ad un popolo fatta con delitti tali da minacciarne la dignità e la stessa esistenza, con l’offesa al sovrano. Insomma si tende a confondere chi ha minacciato l’esistenza di un popolo con chi ha minacciato l’esistenza del sovrano, tendendo a legittimare, per entrambi, la stessa procedura: nessuna estinzione della persecuzione e della pena, anticipo della necessaria, per il ripristino dell’ordine sociale, impossibile sepoltura. Eichmann e Battisti tendono quindi, nell’immaginario come nei riti di persecuzione, a somigliarsi.
Una recensione di "La gente. Viaggio nell’Italia del risentimento" di Leonardo Bianchi, edito da Minimum Fax. Versione estesa per la rubrica CULT del testo comparso sul manifesto del 12. 10. 2017
Assistendo ad un pensoso consesso di intellettuali e giuristi considerati «di sinistra» chiamati a discutere di beni comuni, chi scrive si trovò di fronte ad un riferimento misterioso e davvero singolare. Uno dei relatori, alto funzionario di stato scopertosi giacobino a fine carriera, menzionò un testo a suo dire risalente all’epoca dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti: «The Hazard Circular». Nessuno in mezzo al blasonato uditorio ebbe il coraggio di porre qualche dubbio o magari chiedere maggiori spiegazioni. Eppure, basta una rapida ricerca per scoprire che il documento in questione è probabilmente un falso, oltre che grande classico del cospirazionismo nordamericano.
Si tratterebbe di una lettera circolante tra i banchieri londinesi di fine Ottocento, con la quale si sosteneva l’abolizione della schiavitù a favore di una forma più sottile di oppressione fondata sul controllo della moneta. Ampiamente menzionata da complottisti di ogni risma e messa in giro da Ezra Pound, la Hazard Circular pare una riedizione dei Protocolli dei Savi di Sion. Contiene tutti gli ingredienti del pensiero reazionario, mescola rimpianto per il mondo tradizionale e condanna per la finanza (non per il capitalismo) in mano ai soliti noti (leggasi: gli ebrei).
Qualche giorno fa, mentre a fine giornata riponevo nello scaffale tomi decisamente meno snelli di Henri Lefebvre, l’occhio è scivolato sulla traduzione italiana, a cura di Cristiano Casalini e di appena cinque anni fa, del testo “Hitler au pouvoir. Les enseignements de cinq années de fascisme en Allemagne”, in italiano Hitler al potere. Cinque anni di nazismo in Germania (Edizioni Medusa, Milano, 2012). Poiché le dimensioni lo consentivano, l’ho riletto velocemente annottando le poche righe che vi propongo in questa breve recensione. Almeno due ragioni mi spingono a scriverne: il silenzio generalizzato attorno alle opere di Lefebvre degli anni Trenta e la tendenza dell’ultimo periodo, seppur sulla scia di un rinnovato interesse rispetto alla sua produzione intellettuale, a privilegiare la riflessione sullo spazio. Queste suggestioni, quindi, vogliono essere un modesto contributo volto a rendere noto al pubblico italiano un’analisi rimasta nell’ombra, offuscata da quel ricorrente “Lefebvre, geografo marxista” che provoca una leggera orticaria a tutti coloro che, come me, passano intere giornate sulle sue opere più filosofiche (e sociologiche, per gli amanti delle ripartizioni disciplinari nette).
Hitler au pauvoir, come mette giustamente in luce Cristiano Casalini nella bella introduzione al volume, rappresenta l’ultimo tassello di una triade sul tema dell’ideologia e della mistificazione scritta a quattro mani con l’amico Norbert Guterman: La conscience mystifiée e Le nationalisme contre les nations che costituisce una delle analisi più lucide del fascismo tedesco in ascesa.
Da ZeroHedge un articolo di Simon Black, di Sovereignman, spiega con chiarezza come la crisi dei mutui subprime – che nel 2008 ha travolto il sistema finanziario mondiale – è nata da miriadi di prestiti ipotecari concessi senza scrupoli per specularci sopra a Wall Street. E mostra come l’attuale generale sovraindebitamento negli Usa oggi lasci presagire l’avvicinarsi ineluttabile di una nuova grande crisi (in controluce, tutto l’orrore di una società che costringe i ragazzi poveri a indebitarsi fino al collo per studiare all’Università)
Il motivo per cui c’è stata la grande crisi finanziaria è che Wall Street stava concedendo mutui per comprare la casa anche a persone che non potevano permetterseli.
Fino alla esplosione della crisi, gli investitori erano voracemente affamati di debito garantito da ipoteche immobiliari con rating “AAA”. E così le società finanziarie concedevano molti prestiti anche a mutuatari a rischio (“subprime”) per poi rivenderli a Wall Street. Wall Street ne impacchettava tanti insieme e una delle agenzie di rating più importanti (come Moody’s o Standard & Poor’s) certificava questi mucchi di rifiuti fumanti con una AAA.
AAA secondo la definizione di Moody significa che l’investimento “dovrebbe sopravvivere all’equivalente della Grande Depressione degli Stati Uniti”. In altre parole, è solido come la roccia.
Il ragionamento era questo: un singolo mutuo subprime è in effetti rischioso.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Qui e qui le cronache precedenti
1. Come
narrato nella
Cronaca precedente, alla fine del 2013 il governo
Letta compie il “miracolo” di conquistare una crescita
zero e
c’è chi ne gioisce perché l’ISTAT, nel confermare i dati a
marzo 2014, potrebbe anche metterci «un segno più di
fronte al numero del PIL. Il dato positivo non si riferirà a
un anno intero, ma solo a un trimestre. E il numero non sarà
elevato, ma
non dopo una contrazione dell’economia simile a quella
prodotta dalla prima guerra mondiale» (“La Repubblica”, d’ora
in
poi: R., 3.2.2014). Il fatto sarebbe significativo dopo la
disastrosa stagione del governo Monti. Però c’è chi si muove
per
rimuovere Letta, anche perché un altro in pole position
è pronto a prendergli il posto.
Si tratta di Matteo Renzi, che scalpita fin da quando nel settembre 2012 aveva sfidato nelle primarie del PD il padrone della “ditta” Pier Luigi Bersani. Allora aveva perso, ma nel 2013 ci riprova e questa volta stravince a mani basse (il “popolo piddino” è abituato a fare sorprese). Lo statuto del PD dice che il suo segretario deve essere il candidato premier alle successive elezioni politiche, ma quelle elezioni non sono alle viste eppure Renzi ha fretta di andare al governo. Così muove all’attacco di Letta e sabato 22 febbraio 2014 ce la fa a salire al Quirinale a giurare da nuovo Presidente del Consiglio nelle mani dell’intramontabile “re Giorgio”. Ma come ha fatto? Per Marco Damilano (La repubblica del selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi, Milano, 2015) «l’outsider arriva al potere non con un voto popolare, ma con una manovra di palazzo: un tradimento, il brutale assassinio politico del capo del governo Enrico Letta, appena rassicurato.
Blade Runner 2049 ha suscitato molte discussioni. Nella confusione delle prospettive che in parte lo caratterizza esso ci permette tuttavia di insistere su una intuizione di tipo benjaminiano: nell’era della riproducibilità tecnica dell’umano, l’aura degli esseri umani è destinata a scomparire
Nel suo celebre saggio del 1935,
Walter
Benjamin si interroga sul problema dell’autenticità dell’opera
d’arte nell’era della riproducibilità tecnica:
che cosa differenzia una copia, per quanto perfetta, da un
originale? In quegli anni la riproducibilità tecnica
riguardava soprattutto gli
oggetti costruiti dall’uomo, oggi riguarda l’uomo stesso. Nel
nuovo film di Denis Villeneuve, Blade Runner 2049,
ovvero il sequel
del quasi omonimo film di Ridley Scott (1982), siamo di fronte
allo stesso problema applicato alle persone invece che alle
opere d’arte.
Nell’era della riproducibilità tecnica di noi stessi, che cosa
garantisce l’autenticità di un essere umano? Che cosa
distingue una copia da un originale? In che cosa consiste la
nostra identità? Che cosa è un essere umano?
La domanda non è oziosa. Come tante altre intuizioni del primo film e del racconto da cui aveva preso spunto – il fin troppo citato Do Androids Dream of Electric Sheep di Philip Dick 1968 – sta diventando urgente. La ucronia distopica si sta progressivamente materializzando – la crisi economica, il disastro ecologico, la sovrappopolazione, la creazione di versioni artificiali di noi stessi. È proprio su quest’ultima possibilità che si sviluppa la trama: nel momento in cui possiamo creare agenti dotati di capacità cognitive non lontane dalle nostre, esiste ancora una linea di confine tra noi e gli altri? Si tratta di una domanda per nulla teorica ma attuale e politica.
Risale a vent'anni fa la riforma del
trasporto pubblico locale (Tpl) in Italia, con il decreto
legislativo n. 422/ 1997 teso alla diffusione di meccanismi di
"concorrenza per il mercato".
Sono passati invece dieci anni dal regolamento europeo (n.
1370/2007) che prevede la messa a gara del Tpl, con un periodo
di transizione che finisce
nel 2019 a meno che le amministrazioni locali non scelgano
l'opzione della gestione in house.
Da anni si moltiplicano le spinte verso la privatizzazione ed esternaliz-zazione dei trasporti locali, anche in anticipo rispetto alla messa a gara. Questo anche grazie all'attivismo di aziende come la controllata di FS, Busltalia, che, tramite acquisizioni, si è accaparrata vari pezzi del Tpl, dall'Umbria alla provincia di Padova, e che punta a presentarsi come l'operatore più qualificato nelle future gare d'appalto per i più grandi bacini: Milano e Roma.
Proprio su Roma si sta giocando una partita ricca di implicazioni economiche, politiche e sindacali. Il Movimento 5 Stelle è salito al governo della città promettendo un netto cambiamento dopo gli scandali delle giunte di destra e centrosinistra e dopo l'emersione del gigantesco debito di Atac.
Sono le
20:15 e la
fila per entrare in teatro conta già qualche centinaio di
persone. Dopo due giorni di incontri sulla politica
internazionale, l’economia,
i migranti, il global warming, il Venezuela, le graphic novel
che sono anche reportage di guerra, la Siria, la Libia, la
Brexit, la stanchezza
comincia a farsi sentire. Mi fanno male gli occhi, mi fa male
la schiena, sento che sto perdendo lucidità, ma se sono qui al
Festival di
Internazionale, dove da giovanissima ho lavoravo per mettere
da parte un po’ di soldi extra e intanto sgattaiolavo dentro i
teatri per ascoltare
Chomsky o Randall, è per incontrare una donna da foto sul
muro, come diceva De Gregori, che oggi è scesa dal muro, è
uscita dai
libri e dai poster, è diventata tridimensionale e parlerà qui,
nella mia cittadina umida.
Angela Davis è una femminista, una filosofa, una comunista, un’attivista del movimento per i Diritti Civili degli Afroamericani, prima come affiliata del Black Panther Party, poi come militante nella cellula nera del Partito Comunista Americano; si è opposta alla guerra del Vietnam, si è battuta per i diritti degli omosessuali e dei transgender e ha sviluppato una critica profonda contro il sistema giudiziario e l’istituzione carceraria, svelandone la natura razzista e la struttura industriale.
Angela Davis ha settantatré anni e nessuna intenzione di abbandonare la lotta politica.
Lo scritto che segue si compone di una serie di appunti messi insieme da chi scrive in un ordine forse discutibile. Appunti che non ho avuto il tempo, né la voglia in verità, di rivedere, e di ciò mi scuso con i potenziali lettori, i quali molto probabilmente si imbatteranno in errori formali e sostanziali, sgrammaticature e ripetizioni. Penso tuttavia che la loro lettura non sia del tutto impraticabile, né forse del tutto inutile, e per questo li pubblico, sempre confidando sulla buona predisposizione dei lettori
Ogni
scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e
l’essenza delle cose coincidessero immediatamente
(K. Marx, Il Capitale).
Yanis Varoufakis e altri cosiddetti “marxisti irregolari” hanno paragonato la Grande crisi iniziata nel 2007 negli Stati Uniti al crollo del «Comunismo reale» iniziato nel 1989 con la caduta del famigerato Muro. L’analogia non regge neanche un poco; e non solo perché il Capitalismo è lungi dall’essere crollato definitivamente, mentre del regime “sovietico” non è rimasto che un pessimo ricordo, ma soprattutto perché allora non crollò il Comunismo, né un Socialismo più o meno reale, quanto un regime capitalistico incapace di reggere il confronto con il più forte e dinamico assetto capitalistico di “stampo occidentale” che aveva negli Stati Uniti il suo più importante pilastro.
Segnaliamo sul numero di ottobre
dell’edizione italiana del
mensile Le Monde Diplomatique che trovate in
edicola con il Manifesto un ampio dossier Rileggere
la Rivoluzione
russa, di cui anticipiamo l’articolo di
apertura
Urss: Unione delle repubbliche
socialiste sovietiche. Il nome inizialmente non rimanda a un
territorio ma a un’idea: la rivoluzione mondiale. Le sue
frontiere saranno quelle
della sollevazione che ha trionfato in Russia, e poi di quelle
che si attendono all’esterno. Sul lato superiore sinistro di
un’enorme
bandiera rossa, una falce e un martello simboleggiano il nuovo
Stato, il cui primo inno sarà… L’Internazionale.
Lenin, fondatore dell’Unione sovietica, internazionalista lo è di certo. Ha vissuto buona parte della sua vita di rivoluzionario di professione in esilio (Monaco, Londra, Ginevra, Parigi, Cracovia, Zurigo, Helsinki…). E ha partecipato a quasi tutti i grandi dibattiti del movimento operaio. Nell’aprile 1917, quando torna in Russia dove è scoppiata la rivoluzione e lo zar ha appena abdicato, il suo treno attraversa il territorio tedesco nel bel mezzo della Grande guerra, eppure vi si intona La Marsigliese, un canto che incarna per i suoi compagni la Rivoluzione francese. Da diversi punti di vista, nei testi di Lenin questo riferimento è più presente della storia della Russia zarista. Riuscire bene come i giacobini, «il miglior esempio di rivoluzione democratica e di resistenza a una coalizione di monarchi (1)», durare più a lungo della Comune di Parigi: ecco le sue ossessioni. Per il nazionalismo non c’è il minimo posto.
Il leader bolscevico (*) lo ricorderà in seguito: dal 1914, contrariamente alla quasi totalità dei socialisti e dei sindacalisti europei che si lasciarono arruolare nella «sacra unione» contro il nemico straniero, il suo partito «non aveva temuto di preconizzare la sconfitta della monarchia zarista e di condannare una guerra fra rapaci imperialisti».
Una volta che ci si è accorti
dell’esistenza del mito della creatività si inizia a
rintracciarlo un po’ dappertutto; si inizia pian piano a
vederlo nelle sue
personificazioni – i creativi – e nella sua presenza nel mondo
del lavoro – il lavoro creativo o i modi creativi di compiere
un
lavoro; si sentono risuonarne la parole in molti discorsi a
vari livelli (nei telegiornali, nei blog, su facebook,
negli annunci di
lavoro, nelle chiacchere da bar…); lo si nota come un’aura che
colora molte figure significative del nostro immaginario. La
tinta
euforica che sempre si accompagna al mito della creatività
viene utilizzata per rappresentare una serie di oggetti,
valori e luoghi anche molto
diversi tra di loro; i colori ricordano quelli delle
fotografie di Oliviero Toscani. Anche quando non vengono usate
direttamente la parola e i suoi
derivati ci si accorge, man mano che si affina lo sguardo, che
una serie di altri lemmi, concetti e valori che con essa
costruiscono una ragnatela
simbolica (innovazione, originalità, bellezza diffusa, genio,
successo…) sono disseminati nel mondo che abbiamo davanti, nei
nostri
discorsi quotidiani. La creatività appare nella forma del
mito: non semplicemente una mistificazione, ma narrazioni,
immagini, costellazioni di
elementi che producono identità culturali e collettive,
all’interno delle quali le persone possono riconoscersi e
riconoscere i loro
simili, ricondurre le loro esperienze particolari a un modello
generale.
- I -
Le profonde trasformazioni nel mondo, avvenute negli ultimi decenni, hanno mostrato drammaticamente che l'analisi critica della società, se vuole essere adeguata al nostro universo sociale, deve preoccuparsi soprattutto delle questioni di dinamica storica e dei cambiamenti strutturali su larga scala. Appare sempre meno possibile ignorare la preoccupazione riguardo la questione delle dinamiche storiche, come è avvenuto negli anni 1980-1990, quando si è visto il tentativo di imporre una "grande narrazione" di una realtà che viene supposta come contingente nella sua essenza. Alla luce delle trasformazioni storiche globali avvenute negli ultimi decenni, che non possono essere semplicemente ignorate, ma devono essere comprese, simili posizioni sono diventate sempre meno plausibili. Perciò mi accingo ad argomentare che per mezzo di una teoria critica del capitalismo si possono meglio illuminare questi processi di trasformazione.
Ciò suggerisce quanto possa essere importante un rinnovato incontro con l'analisi critica del capitalismo svolta da Marx. Allo stesso tempo, tuttavia, gli sviluppi storici del secolo scorso indicano fermamente che qualsiasi tentativo di riappropriarsi della teoria critica di Marx deve differenziarsi fondamentalmente dal "marxismo tradizionale", un termine questo che svilupperò più avanti.
Marco Centra e Dario Guarascio analizzano i recenti dati macroeconomici che segnalano una ripresa dell’economia italiana. Mettendo a confronto Pil, occupazione, ore lavorate, salari, produttività e contratti di lavoro,Centra e Guarascio individuano, però, alcune fragilità strutturali che consigliano grande cautela nel valutare l’attuale fase di ripresa. In particolare, Centra e Guarascio temono che tali fragilità pongano in modo durevole l’economia italiana su una traiettoria di “poor o precarious-job growth” piuttosto che di “jobless growth”
La crisi è finita. Con la variazione
positiva del Pil nel III e nel IV trimestre del 2014 l’Italia
è, tecnicamente, uscita dalla recessione. Negli ultimi 12
mesi, la crescita
ha superato abbondantemente la soglia dell’1% e si prevede che
nell’anno in corso superi l’1,5%. Gli occupati hanno
raggiunto, nel
II trimestre 2017, i 23 milioni, un livello analogo a quello
del 2008 e prossimo al massimo storico dal 1992.
Questi dati macroeconomici, tuttavia, possono celare criticità strutturali in grado di minare le prospettive future della nostra economia. Eccone alcune: la riduzione di quasi il 25% della capacità produttiva tra il 2008 ed il 2013; i livelli di salari, produttività del lavoro, investimenti in capitale fisico ed in R&S che sono significativamente inferiori alla media europea (Lucchese, M., Nascia, L., & Pianta, M. (2016). Industrial policy and technology in Italy. Economia e Politica Industriale, 43(3), 233-260).
Lo
scritto di cui qui
presento la prima parte ha lo scopo di fissare alcuni punti
teorici decisivi, prendendo le mosse dal livello raggiunto
dal marxismo negli anni
‘70-‘80 dello scorso secolo, prima dell’inabissamento
attuale. Nel testo non vi sono note o rimandi (ma non si
farà fatica ad
intravedere i numerosi autori di cui mi giovo) perché le sue
proposizioni sono espresse in forma di tesi, e ciò non per
chiudere il
discorso ma per determinare meglio la posizione che offro
alla discussione. L’esigenza politica che motiva questo
intervento è la
necessità di iniziare a fare chiarezza sulla questione dello
stato e della guerra, mostrando l’intimo legame del
capitalismo con
l’uno e con l’altra. Il principale oggetto polemico sono
tutte le teorie che (intrecciando neoanarchismo,
postoperaismo e liberismo puro e
semplice) prendono per buona l’immagine che la
globalizzazione ha dato di sé ed incolpano lo stato di tutti
i mali passati e futuri, non
comprendendo che la logica di potenza propria di ogni stato
diviene espansionismo compulsivo ed illimitato solo grazie
all’incontro dello stato
stesso con la voracità del capitale. Ed impedendoci così di
capire l’immanenza della guerra come fattore dominante delle
dinamiche
geopolitiche e di classe. Dinamiche di cui qui ho voluto
indicare la strettissima connessione (anche ragionando al
livello teorico più
astratto) per sottolineare sia il peso determinante della
geopolitica dell’imperialismo nel definire le relazioni di
classe, sia il possibile
legame fra lotte di classe e lotte antimperialiste e
nazionali
Le violenze della polizia
spagnola durante lo svolgimento del referendum per
l’indipendenza del primo
ottobre in Catalogna, pone all’ordine del giorno un’analisi
delle forze dell’ordine. In particolare, viene da chiedersi:
perché la polizia tende, così spesso, ad agire in maniera
sproporzionalmente violenta ? E perché questo avviene
tanto come
risposta alle manifestazioni politiche (Torino Primo
Maggio 2017, Taormina in
occasione del G7
quest'estate,
Pavia durante la manifestazione del 5
novembre, Genova durante il G8
del 2001),
quanto durante normali
operazioni di “ordine pubblico” (di nuovo Torino
quest'estate, caso Cucchi,
caso Aldrovandi,
ecc.)?
In quest’articolo proveremo a dare una risposta. Non sarà certamente l’ultima parola su questa questione, né pretendiamo che lo sia. Piuttosto ci piacerebbe che queste pagine siano di spunto per ulteriori e più approfondite analisi, capaci di guardare al processo di formazione delle polizie in tutto il mondo e di analizzare, caso per caso, tutte le situazioni in cui le forze dell’ordine mostrano comportamenti ingiustificatamente aggressivi.
Che il senso comune non sia garanzia di verità è ormai cosa nota. Gli scienziati lo sanno bene. Copernico, Galileo, Newton, Einstein… Tutti loro hanno messo in discussione e confutato le risposte considerate dalla maggioranza vere perché “ovvie”.
Riccardo Bellofiore (a cura di), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, Manifestolibri, Roma 2007, ISBN 978-88-7285-475-4, euro 28.00
Il volume nasce come raccolta degli
atti
di un convegno organizzato da Riccardo Bellofiore presso
l’Università di Bergamo (Facoltà di Economia) in occasione
dell’uscita, sempre per la Manifestolibri, del volume di
Cristina Corradi dal titolo Storia dei marxismi in Italia.
Allora, è bene
innanzitutto riportare le tesi sintetiche che Corradi espone
in questa raccolta alle pagine 9-31.
1. Rapporto teoria e prassi. I protagonisti italiani di questo intricato rapporto sono innanzitutto Antonio Labriola e poi Antonio Gramsci. Se il primo incentra la sua lettura di Marx sulla nozione di “materialismo storico”, il secondo restituisce una originale lettura delle Tesi su Feuerbach “da cui ha ricavato una filosofia della prassi intesa come produzione di soggettività politica”. Subentrano nel secondo dopoguerra, lo storicismo marxista e lo scientismo dellavolpiano. L’operaismo degli anni ’60 sgancia il marxismo dall’idealismo tedesco, dal socialismo francese e dall’economia politica inglese, proponendo “la tesi politica della potenza antagonistica della classe operaia”. La crisi del marxismo degli anni ’70 si manifesta nell’abbandono del paradigma della critica dell’economia politica, relegando la lettura marxiana del capitalismo all’Ottocento.
1. Il
risultato
più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei
popoli oppressi
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la storia del mondo.
La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo.
1. Provo a
fare un post "di scenario" ed utilizzo l'ultimo Bollettino EIR
versione italiana.
Questi bollettini, che gentilmente mi sono inviati ogni settimana, hanno un duplice pregio:
a) anzitutto, sono un punto di vista statunitense (e di lungo corso). Certo, sono solo "uno" dei possibili punti di vista di provenienza USA, ma il solo fatto che ancora esistano, è un valore indicativo in sè;
b) sono comunque volti a fornire una visione di scenario mondiale e, a prescindere dalla condivisibilità delle spiegazioni causali prescelte e dalle priorità che appaiono suggerire, si fondano su una buona capacità di dare notizie su fatti e dati che, altrimenti, il sistema mediatico mainstream priverebbe di ogni risalto (privando quindi le opinioni pubbliche occidentali di ogni chance di comprendere cosa realmente stia accadendo nel mondo).
2. Fatta questa dovuta premessa, proviamo a mettere insieme alcune notizie e analisi contenute nei due ultimi bollettini (n.40 e 41), esponendoli secondo la priorità che risulta oggettivamente attribuita dal sistema mediatico mainstream, in modo da realizzare un (ormai inconsueto) contraddittorio tra visioni diverse comunque legittimamente formulate. Le varie tematiche selezionate saranno integrate da alcuni links da me apportati secondo l'usanza di ricerca documentata che caratterizza questo blog.
Dopo aver dato alle stampe nel 2012 Vita
e
pensieri di Antonio Gramsci, prima biografia sul leader
comunista ad avvalersi delle lettere tra Gramsci e i suoi
interlocutori nel periodo
carcerario raccolte nel corso degli ultimi anni dalla
Fondazione Gramsci di Roma, Giuseppe Vacca torna ancora una
volta sul politico sardo, esaminando
però questa volta soprattutto la formazione e l’articolazione
del suo pensiero politico.
Il suo ultimo saggio, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, apparso quest’anno, sempre per la casa editrice Einaudi, è infatti una riflessione sulle categorie di analisi ed intervento politico elaborate dal dirigente comunista, dalla sua ascesa alla guida del Pcd’I sino alla riflessione elaborata all’interno del carcere fascista. Riflessione che il dirigente comunista portò avanti nonostante le condizioni di grandi difficoltà materiali prima, e poi, progressivamente, anche di salute, via via più gravi, in cui si trovò ad operare, essendo sottoposto ad un duro regime carcerario impostogli dal fascismo. Si tratta di un dato da non dimenticare, che complicò non di poco lo stesso lavoro di stesura delle riflessioni e note raccolte nei Quaderni e che si attenuò soltanto nell’ultima fase della sua vita dinanzi ad un evidente peggioramento delle condizioni di salute che portarono di lì a poco Gramsci alla morte.
I reali
scopi dei
promotori
Il 22 ottobre in Veneto e in Lombardia si terrà il referendum per l’autonomia. Finalmente – sostengono i due presidenti Zaia e Maroni – le regioni più virtuose d’Italia potranno tenersi i proventi delle tassazioni che sono oggi drenati da Roma (ladrona) e incrementare la loro efficienza, non solo nel campo dove eccellono, la sanità, ma in parecchi altri. Tutto talmente semplice e così vantaggioso che praticamente non esiste un fronte del NO, essendo la quasi totalità dei partiti schierati per una “responsabile autonomia”.
Fine del discorso? Non proprio.
Anzitutto, c’è un primo falso: non si potrà toccare il sistema tributario e contabile dello stato trattenendo l’80% dei proventi della tassazione raccolta dalle regioni, come spacciato dai promotori, in quanto è vietatissimo dalla Costituzione. Due anni fa la Corte costituzionale ha categoricamente escluso la possibilità di tenere un referendum su questa materia, bocciando anche la ipotetica consultazione sulla trasformazione del Veneto in regione a statuto speciale e, tanto più, quella sulla indipendenza del Veneto.
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L'homme moderne, au lieu de chercher à s'élever à la vérité, prétend la faire descendre à son niveau.
René Guénon
Lebensborn A/R
È certo una buffa coincidenza che a tirar fuori dalla scatola degli orrori storici l'eugenetica, pseudoscienza che postula un nesso tra selezione genetica e progresso sociale, sia un signore che di nome fa Eugenio. Così scriveva su L'Espresso il 7 agosto scorso:
Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana.
Il tema non gli è nuovo. A sentir lui, di «meticciato» avrebbe già discusso l'anno scorso nientemeno che con il Santo Padre, ricevendone la seguente previsione: «dopo due, tre, quattro generazioni, quei popoli si integrano e la loro diversità tende a scomparire del tutto». Dopo una seconda udienza nell'estate di quest'anno, ci assicurava che:
La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall'Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l'integrazione delle razze, delle religioni, della cultura.
Manca giusto dire che rende il pelo più lucido.
Nazionalismi, seccessioni, biopotere. Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?
L’articolo di Pierluigi
Fagan, ripreso da Megachip è una sintesi
perfetta dei problemi che affliggono questa nuova crisi di
quella lunghissima
modernità che ci accompagna dalla rivoluzione
scientifica e soprattutto dalla prima rivoluzione industriale
e dal tradimento
ottocentesco della rivoluzione francese - quando nascono
l’individuo moderno e il liberalismo ma anche, con Foucault,
la società
disciplinare/biopolitica e del controllo.
Ma allora, che fare? - davanti a questa crisi che nuovamente produce l’esplosione delle identità collettive, lo svuotamento delle identità individuali, la rinascita di autoritarismi nazionalismi e populismi, mentre illude di nuove soggettività/diritti individuali cancellando allo stesso tempo quei diritti sociali che ne sono la premessa e la sostanza?
Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?
Servono risposte che siano davvero altre rispetto a quelle inventate fin qui dalla modernità per gestire il suo potere e le sue crisi (lo Stato, la sovranità, l’individuo, i totalitarismi, il fordismo, il consumismo, l’industria culturale, oggi la rete).
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Nel Trono di Spade un uomo
che
non è più tale conduce in modo irresistibile uno strano
esercito: ogni nemico sconfitto ne diventa automaticamente
parte, e tra i membri
ed il nemico c’è una barriera insuperabile, … sono morti.
Gli ‘estranei’ della fortunata serie televisiva aspirano ogni energia che si trova nel più ampio, complesso e vario mondo dei vivi. In modo in qualche modo simile i nuovi modelli di distribuzione, dalla potenza irresistibile, fanno il vuoto del settore intermedio più rilevante per l’assetto ordinario delle nostre città e della stessa stratificazione sociale: il commercio.
Prima venne la grande distribuzione, e il modello più puro ed aggressivo di questa, Walmart, ma ora sulla sua strada si fa avanti un campione di purezza dall’abbacinante nitore: Amazon. Quando Walmart apre un nuovo punto di vendita nel territorio le reti di commercio di prossimità, anche le più forti ed organizzate, cedono, non riuscendo a stabilire con i fornitori la stessa relazione di potere schiacciante. La grande catena nata pochi anni fa da un solo punto vendita nello stato di Bill Clinton e divenuta una delle multinazionali più grandi al mondo, di cui abbiamo molte volte parlato (ad esempio qui), basa il suo potere nell’unione perfetta di un monopsonio (di fatto diventa, per la sua grandezza l’unico possibile acquirente per i suoi fornitori) e di un monopolio (con i suoi prezzi diventa l’unico a vendere su un territorio),
Recensione al recente libro di Raffaele Alberto Ventura, “Teoria della classe disagiata”, uscito per Minimum fax
Choosy,
bamboccioni, sfigati: è così che negli ultimi anni diversi
politici hanno variamente definito la
generazione degli attuali trentenni; l’idea è che i
giovani tardino deliberatamente a inserirsi nel mondo del
lavoro, vivano a
casa con i genitori fin quasi alle soglie della pensione e
costituiscano un peso per la società. Dopo anni di politiche
all’insegna della
precarizzazione del lavoro e di tagli
del welfare, si scopre che quasi tutto ciò che
negli anni della Guerra
Fredda veniva considerato un diritto è oggi diventato un lusso
socialdemocratico di cui sbarazzarsi, un feticcio religioso
che il moderno
illuminismo progressista contribuisce a distruggere per far
posto alla nuova mistica neoliberale. Il primo idolo
da abbattere, naturalmente,
è lo stato sociale: come scriveva nel 2010, in
piena crisi greca, Alberto Orioli sul Sole 24 Ore,
“il welfare
state del Vecchio continente si scopre vecchio come la
sua patria. E insostenibile”.
Anche la “cultura” è insostenibile, ci dice Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della classe disagiata, almeno per come l’abbiamo pensata all’epoca del boom. Per dimostrare questa tesi l’autore elabora la categoria di classe disagiata, una versione più colta e meno volgare degli epiteti di cui sopra.
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Il quinto centenario
della Riforma
protestante induce a richiamare l’attenzione sull’importanza e
sulla forza della personalità di quell’ex monaco agostiniano
che risponde al nome di Martin Lutero. Importanza e forza che
spiegano come la figura di Lutero abbia suscitato echi
profondi anche nelle file della
socialdemocrazia tedesca e del movimento comunista
internazionale. Correva l’anno 1890 quando Antonio Labriola,
il primo e forse il maggior
teorico marxista del nostro Paese, avviò una corrispondenza di
eccezionale interesse con Friedrich Engels, cofondatore,
insieme con Karl Marx,
del socialismo scientifico e figura prestigiosa della Seconda
Internazionale, e con Filippo Turati, fondatore e direttore
della rivista “Critica
Sociale”, nonché esponente di primo piano del movimento
socialista italiano che di lì a poco, nel 1892, si sarebbe
costituito in
partito. Un documento importante dell’impegno pratico profuso
da Labriola nella formazione del partito socialista è
costituito, a questo
proposito, dal messaggio di saluto al congresso della
socialdemocrazia tedesca, tenuto a Halle nell’ottobre del
1890, che Labriola redasse
d’accordo con Turati. In esso troviamo l’auspicio di un rapido
progresso del movimento operaio internazionale, insieme con
affermazioni
classicamente marxiste, e una conclusione molto significativa,
che vale la pena di riportare: «Voi congregati ad Halle
potrete esclamare come
Lutero innanzi alla Dieta dell’Impero: «Noi siamo qui
e noi non possiamo altrimenti» [frase che in tedesco suona:
“Hier
stehe ich, und kann nicht anders”].
La cerimonia dell’imbroglio referendario sull’autonomia del lombardo-veneto è finita. Con l’inevitabile spruzzata di ridicolo che aromatizza le prestazioni leghiste. Con la servile collaborazione di Pd e Cinque Stelle (che insieme “rivendicano” il proprio contributo a questo risultato).
L’affluenza in Veneto è stata decisamente importante (57,2%) e dà la misura della devastazione politica di una grande regione in difficoltà da almeno dieci anni, da quando cioè è esplosa la crisi, aggravata dalle ricette “austere” della Troika. In Lombardia è stata parecchio più bassa – meno del 40%, ma ancora non è possibile dire la cifra esatta perché il sistema elettronico voluto da Roberto Maroni si è rivelato assai meno efficiente del vecchio sistema “a mano” (miracoli che solo i leghisti riescono a produrre).
Gli ultimi giorni di campagna referendaria (pre-elettorale, nella sua essenza) avevano visto il disperato sforzo leghista di marcare la distanza con la Catalogna. Con i piddini – e i loro media, a partire da Repubblica – impegnatissimi in senso opposto, ma senza riuscire a portare alcun argomento diverso da “le regioni più ricche che non vogliono spartire la torta con quelle più povere” (come fa la Germania col resto d’Europa, insomma). E in effetti, come abbiamo scritto più volte, la rivolta catalana ha tutt’altre caratteristiche ideali, sociali, di classe.
Che senso ha scommettere sul referendum lombardo? “Rispetto a quello catalano la situazione è un po’ diversa. Lì hanno chiesto davvero l’indipendenza. Qui si vuole che la Regione chieda al Governo maggiore autonomia, anzi, ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’, come sta scritto sulla scheda. È una farsa"
“Interveniamo sulla Lombardia?”
Il Vecchio deposita la cenere del sigaro sul tavolo di rovere e si passa una mano tra i capelli bianchi. Poi, tenendo sospeso a mezz’aria il pregiato cilindro di foglie di tabacco pressate, battezza nella stanza l’attesa di una risposta.
Sdraiato sul divano, le spalle alle vetrate della suite dell’hotel da cui si domina il quartiere milanese dell’Isola, il Calabrese annuisce.
“Comincerei subito, già lunedì. Con il referendum possiamo iniziare il 16.”
Fritz, che ne pensi? Sembra chiedere il Vecchio puntando gli occhi su di lui. Ma Fritz continua a camminare nervoso davanti al frigo bar. Fritz non risponde. Si dice che abbia perso milioni a Barcellona, sbagliando la scommessa.
“Rispetto al referendum catalano la situazione è un po’ diversa” interviene lo Svizzero, cogliendo il riferimento al povero Fritz. “Lì hanno chiesto davvero l’indipendenza. Qui si vuole che la Regione chieda al Governo maggiore autonomia, anzi, ‘ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia’, come sta scritto sulla scheda. È una farsa. Ai sensi della riforma costituzionale non c’era nemmeno bisogno del referendum per chiederla, questa autonomia fiscale e sanitaria…”
“Quindi, che senso ha scommettere su questo referendum lombardo?”
C'è una realtà che per molti versi sconcerta: non esiste più la lotta di classe. Non consideratela una conquista, è semplicemente un fatto, poiché i poveri ci sono ancora e i ricchi pure. Soltanto che le differenze di classe non sono più - come avveniva nel Novecento – enfatizzate, per ricordare al popolo che i ricchi sono i detentori del potere e che i poveri sono i loro sottomessi. Persino sui treni, sulle navi, e in tanto altro ancora quel mondo era suddiviso in classi, perché non se ne perdesse la memoria.
Da sempre sono stati questi gli “spunti” per scatenare una rivoluzione. Tuttavia, oggi si glissa sulle ragioni vere per le quali essa scoppia. Si continua a ripetere che essa causa violenza, instabilità, pertanto va evitata a ogni costo e, tanto meno celebrata.
Ricordo l'agosto del 1973 vissuto a Santiago del Cile, con la gente che, sebbene stremata dagli embarghi, scendeva in piazza per mostrare al mondo il suo sostegno a Salvador Allende e a quella via democratica al socialismo che egli stava tentando di realizzare. Una rivoluzione pacifica che fu stroncata dal generale Pinochet, armato dagli Stati Uniti desiderosi di mandare un segnale di avvertimento, a tutti quei partiti socialisti e comunisti con forte una presenza nelle stanze del potere di mezzo mondo.
Naturalmente, i presidenti che si alternano alla Casa Bianca hanno da sempre pronto l'appello sul tavolo:
C’è ora la traduzione italiana de L’empire du bien, di Philippe Muray, la cui versione originale uscì in Francia nel 1991. Quindi 26 anni fa; ma in questo libro troviamo molto del mondo attuale e di quello che arriverà in futuro: ossia, il dominio, “libero” e “democratico”, dell’Opinione, assieme all’ossessione per il benessere, per la pulizia, per la virtù, per la felicità…
Insomma, la società contemporanea, che si vuole laica, liberale se non addirittura libertaria, ha scelto di votarsi a una nuova fede, a una religione più efficace e terribile di ogni altra: quella del bene, anzi del Bene. Muray non si scaglia qui tanto contro il cosiddetto “buonismo”, ma contro lo spettacolo del Bene: “Viviamo in un’atmosfera di religiosità furiosa. E non sto parlando della buona vecchia religione di una volta, perché l’ateismo avanza, lo vediamo tutti, l’indifferenza si diffonde, le grandi fedi di un tempo (quelle sì che erano veramente folli e, in quanto tali, potevano giustificare la follia religiosa) sono sostanzialmente sparite. La nostra religione è ancora più delirante: la vera fede, oggi, è credere nello Spettacolo” (p. 27).
Si tratta dello spettacolo che mette in scena la farsa di un mondo dove per il male non c’è più posto, dove l’igienismo, la tolleranza, la cultura e la “spiritualità” si sono imposti irresistibilmente. Il negativo, il dire no, le idee sconce e indigeribili, lo sporco, il pericoloso, semplicemente rimangono fuori e, quindi, non ci sono più.
Torna in libreria (ancora per i tipi di Meltemi, che l’aveva pubblicata una prima volta nel 2002) l’opera più conosciuta di Elisabeth Noelle Neumann, “La spirale del silenzio”, con una Introduzione di Stefano Cristante, docente di Sociologia della Comunicazione all’Università del Salento, il quale ha sempre dedicato particolare attenzione sia al tema dell’opinione pubblica che al modo in cui questa controversa autrice tedesca lo affronta.
Controversa perché la Neumann è stata accusata – con particolare acredine dal sociologo ebreo americano Leo Bogart – di collusione con il regime nazista e di antisemitismo. In effetti la lunga vita (1916 – 2010) della Neumann non appare, sotto questo aspetto, esente da sospetti. Recatasi nella seconda metà degli anni Trenta negli Stati Uniti, dove studia i metodi e le tecniche di Gallup, il fondatore della sondaggistica, al rientro in Germania collabora con il settimanale “Das Reich” (sulle cui pagine, osserva Bogart, definisce “giudeo” il saggista americano Walter Lippmann). Nel 1946 si sposa con il giornalista Peter Neumann (a suo tempo iscritto al partito nazista) assieme al quale conduce, per conto delle autorità americane, ricerche demoscopiche sulle opinioni del popolo tedesco. Da allora fino alla morte lavora a stretto contatto con i leader della CDU, da Adenauer a Kohl. Ritornata in America negli anni 70, deve lasciare l’insegnamento a Chicago anche a causa (anche se non ufficialmente) della polemica innescata da Bogart.
Rompere l’Europa o
cambiarla? Si tratta di una domanda naturale a fronte di una
crisi economica che si è manifestata nella Uem in forme più
gravi che in
altre aree avanzate del mondo, come il Giappone e gli Usa, e
di fronte alle enormi difficoltà a individuare politiche
comuni in ambiti diversi
e strategici. Quanto la situazione sia ormai giunta a un bivio
è dimostrato dalle forze centrifughe che sono in atto, a
seguito
dell’aumento delle divergenze economiche, all’interno della Ue
e della Uem (Unione economica e monetaria). Nell’ultimo anno e
mezzo
si sono verificati due fenomeni significativi della crisi
della Ue: la Brexit e il referendum per l’indipendenza della
Catalogna. Entrambi i
fatti affondano le loro radici nella storia e nelle
specificità della Gran Bretagna e della Spagna, ma certo la
crisi della Ue e della Uem non
è estranea al precipitare degli avvenimenti.
Provare a dare una risposta sull’atteggiamento da assumere nei confronti della Ue e della Uem non è facile e va fatto non solo in termini economici, ma anche politici, sociologici e soprattutto inquadrando il tutto all’interno del contesto storico. Per cominciare dovremmo chiederci: che cosa è l’Europa? E qual è la sua funzione? L’Europa e il suo nucleo più compatto, la Uem, sono essenzialmente organizzazioni inter-statali o, più precisamente, inter-governative e mercatistiche.
Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani
La
scorsa estate, ricercatori del Fondo Monetario Internazionale
hanno messo fine a una lunga e aspra disputa sul
“neoliberalismo”: hanno
ammesso che esiste. Tre importanti economisti dell’FMI,
un’organizzazione non certo nota per la sua imprudenza, hanno
pubblicato un
documento che si interroga sui benefici del neoliberalismo.
Così facendo, hanno contribuito a ribaltare l’idea che la
parola non sia
altro che un artificio politico, o un termine senza alcun
reale potere analitico. Il paper ha chiaramente individuato
un’ “agenda
neoliberalista” che ha spinto la deregolamentazione delle
economie in tutto il mondo, forzato l’apertura dei mercati
nazionali al libero
commercio e alla libera circolazione dei capitali e richiesto
la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le
privatizzazioni.
Gli autori hanno dimostrato con dati statistici la diffusione
delle politiche neoliberali a partire dal 1980 e la loro
correlazione con la crescita
anemica, i cicli di espansione e frenata e le disuguaglianze.
Neoliberalismo è un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica. All’indomani della crisi finanziaria del 2008, è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle, non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato.
Che si scelga l'uno o
l'altro dei
due corni del dilemma, l'alternativa tra ineluttabilità e non-
ineluttabilità (possibilità) del comunismo è priva di
senso. L'alternativa ed entrambi i suoi termini, presi
separatamente, si basano su una sola ed unica confusione
tra il processo di caducità
del modo di produzione capitalistico e il suo superamento.
Una volta acquisita questa confusione, l'alternativa si
impone: per gli uni la
confusione è totale e rivendicata: il comunismo è
ineluttabile; per gli altri la confusione è altrettanto
totale, ma il
superamento potrebbe avere luogo soltanto essendo qualcosa di
più che un'oggettività, poiché – lo sanno tutti – la
rivoluzione è attività, e dunque soggettività: il comunismo
diventa allora un possibile. Possibilità e
ineluttabilità del comunismo non esistono che come termini di
un'alternativa; il problema è il fondamento di questa
alternativa.
La tesi della possibilità funziona, come quella dell'ineluttabilità, sulla base di una contraddizione dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, che fornisce all'azione un dato oggettivo (insufficiente per la prima, sufficiente per la seconda). I “possibilisti” dicono: il proletariato può utilizzare questo dato. Gli “ineluttabilisti” dicono: il proletariato è costretto ad utilizzare questo dato.
Dagli anni ’90 e fino a poco tempo fa, il clima culturale attorno a Internet e al digitale era caratterizzato da un positivismo quasi acritico e da una fiducia pressoché cieca nel fatto che la tecnologia avrebbe riscritto, e nel migliore dei modi, le direttrici del futuro. Questa connotazione quasi mistica, definita felicemente da Vincent Mosco come “sublime digitale”, sembra essere sempre più in crisi. Geert Lovink, Direttore dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam, ha scritto che il caso NSA, portato in superficie da Edward Snowden più di quattro anni fa, avrebbe segnato la fine simbolica dell’era dei new media, e soprattutto costretto quella cyber-naïveté a confrontarsi con le politiche internazionali.
Nel suo Capitalismo Digitale (Luiss Press), traduzione italiana di Platform Capitalism, Nick Srnicek, docente di economia politica alla City University di Londra e firmatario insieme ad Alex Williams del manifesto accelerazionista, fa il punto sulle evoluzioni dell’economia digitale e sui crescenti e preoccupanti monopoli rappresentati dalle grandi piattaforme della Silicon Valley trattando la loro ascesa nel contesto complessivo delle evoluzioni storiche del capitalismo.
Le grandi piattaforme digitali sono gli attori economici principali di un ecosistema in cui ogni attività umana produce un dato quantificabile, sorvegliabile, conservabile e monetizzabile.
La guerra civile in Siria è stata “venduta” al pubblico occidentale esclusivamente come un’insurrezione popolare per sollevare al-Assad ed ottenere una forma di governo più democratica. Sappiamo che questo è vero solo in minima parte, sappiamo degli interessi geopolitici nell’area e perché certe potenze occidentali e le petromonarchie del Golfo hanno sobillato questa rivolta che ha portato la bandiera dell’Isis a sventolare a poche decine di kilometri da Damasco; il rifiuto della Siria, tra il 2010 e il 2011, di consentire il passaggio sul proprio territorio del gasdotto Qatar-Turchia è da solo del tutto sufficiente a spiegare le origini del tentativo di sovvertimento del regime di Bashar al-Assad.
Ma i gasdotti e gli interessi strategici delle potenze globali non sono gli unici motivi per i quali è stata provocata la guerra in Siria: esiste una nuova corsa al gas naturale che da qualche anno sta coinvolgendo il Mediterraneo Orientale. Il cosiddetto “Bacino del Levante”, ovvero quella porzione di territorio che va dalla Siria al sud di Israele e che ne comprende anche il tratto di mare antistante, è candidato a diventare la nuova frontiera dello sfruttamento di gas: tutta l’area è infatti interessata da diversi giacimenti che non sono ancora stati resi produttivi attraverso gasdotti e GNL (Gas Naturale Liquefatto).
(...da Charlie Brown, che... ve lo ricordate? Sicuri? Posso evitare di specificarlo? Dai, facciamo finta che sia possibile evitare di dire l'ovvio... anzi, no: per sicurezza, almeno una volta diciamolo: da Charlie Brown, che non sono io - ma è l'autore della seconda miglior rassegna stampa su Twitter dopo quella di Giuse - ricevo un contributo sul tema della crisi bancaria che mi affretto a condividere con voi. Mai come in queste circostanze è opportuno che le foglie non nascondano l'albero...)
La messa alla berlina del governatore Visco ad opera della maggioranza piddina rappresenta un patetico scaricabarile politico.
Ma tale modus paraculandi può forse dar spunto ad una riflessione più strutturale.
Bankitalia non vigilava adeguatamente? Consob neppure? Chi, onestamente, può dire il contrario? Le carte cantano! (E grazie ad una commissione d'inchiesta così "imparziale" le carte canteranno ancor di più, benché intonando sempre la stessa melodia.)
Ma pensiamo davvero che Visco e Fazio fossero degli incompetenti, dei dilettanti?
Nel giro di dieci giorni il governo catalano, forte della mobilitazione popolare, della sfida vinta del referendum, dello sciopero generale del 3 ottobre, dell’insipienza di Rajoy, è riuscito nell’impresa di farsi mettere all’angolo dal governo spagnolo alla cui base c’è un’unica volontà di repressione uscita sconfitta dalle immagini del 1 ottobre. Al momento attuale la contesa, sebbene non ancora persa e aperta ad ogni soluzione, ha ribaltato il ruolo dei protagonisti: Puigdemont che prende tempo , Rajoy che lo incalza. Il bluff su cui si giocava l’indipendentismo liberale del PDeCAT è venuto meno nel momento critico, quello di portare sino alle estreme conseguenze uno scontro evidentemente sfuggito di mano. Che lo scopo del catalanismo liberale fosse quello dell’autonomia fiscale, era cosa ovvia. Lo spettro dell’indipendenza serviva più prosaicamente all’obiettivo dell’autonomia. Una partita sottratta al gioco delle élite dall’irruzione di un blocco sociale popolare, variegato al proprio interno, ma convinto dell’indipendenza come processo di conquista sociale. Appare sempre più chiaro come il rapporto dialettico tra la classe dirigente catalana e popolo indipendentista abbia funzionato sino al 1 ottobre, entrando in crisi un attimo dopo. Già il 3 è stata un’altra cosa, una giornata di lotta cavalcata a fatica dalla politica liberale catalana.
Nel bombardamento delle news sui network e sulla stampa borghese stiamo assistendo all’atrofizzazione dell’etica dell’informazione
Viviamo in full immersion nella società dell’informazione. Ci navighiamo sommersi, ma quanto ne abbiamo coscienza? Possiamo modificare la nostra usuale giornata, privandoci dell’informazione a tam tam che costantemente ci accompagna tramite i media? Sembra sia impossibile, considerando quanto la nostra quotidianità sociale, e spesso anche la nostra privacy, ruoti intorno al battito costante della notizia. Parlare di informazione significa anche parlare di giornalismo “C’era una volta la professione di giornalista”e, in particolare, riferendoci esclusivamente al giornalismo italiano, è evidente come questa professione affondi le sue radici nella politica, divenendone spesso la più umile delle ancelle. Ancelle sensibili agli umori del potere, attente più che altro a creare consensi o dissensi strumentali per favorire o smentire e screditare il potente di turno nel bieco gioco della corsa alla poltrona. Poco attente invece al carattere etico e basato sulla “sostanziale verità dei fatti”, così come recita il codice deontologico della professione.
Oggi nel bombardamento delle news, in particolare tramite la più accreditata stampa borghese, ma anche su tutti i media digitali, dai network ai blog, stiamo assistendo all’atrofizzazione dell’etica dell’informazione.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Dal novembre del 1917, la
realizzazione
della Rivoluzione d’Ottobre in Russia trasferì la prospettiva
del comunismo dalla teoria alla realtà. Nelle file della
borghesia
europea e internazionale, si diffuse quella che è stata
definita “La Grande paura”. La stessa che era dilagata tra le
monarchie
europee dopo la Rivoluzione Francese, quando cadde la testa
del re e i castelli dei nobili vennero assaltati e
saccheggiati. La determinazione con cui
i bolscevichi portarono a fondo la rottura rivoluzionaria,
seminò una ondata di isteria, paura e ferocia
controrivoluzionaria durata più
di settanta anni.
La feroce reazione delle potenze imperialiste contro la Rivoluzione d’Ottobre e poi contro l’URSS, si può schematizzare in tre fasi storiche che hanno visto la messa in campo di strumenti diversi con il comune obiettivo di distruggere la prima sperimentazione del socialismo possibile nella storia. Questo obiettivo è stato raggiunto solo nel 1991 con la dissoluzione dell’URSS stessa.
La prima fase della “Grande Paura”
La rottura rivoluzionaria dell’ottobre avviene nel pieno della maggiore crisi e guerra interimperialista che il mondo avesse mai visto.
Pur nel quadro delle compatibilità neo-liberiste, c’è davvero bisogno di tanto rigore?
Il
governo ha da poco varato la Nota di aggiornamento al
Documento di Economia e Finanza (DEF) sposando le
considerazioni di Bankitalia e Corte dei Conti
sulle pensioni. “Le ultime proiezioni sulla spesa
pensionistica mettono in evidenza l’importanza di garantire
la piena attuazione
delle riforme approvate in passato, senza tornare indietro”,
osserva palazzo Koch, mentre i magistrati contabili
evidenziano che
“non si tratta, evidentemente, di rispondere alle nuove
evidenze con ulteriori restrizioni dei parametri sottostanti
al disegno di riforma
completato con la legge Fornero; si tratta invece di
cogliere ancor meglio il senso della delicatezza del
comparto e confermare i caratteri
strutturali della riforma, a partire dai meccanismi di
adeguamento automatico di alcuni parametri (come i requisiti
anagrafici di accesso alla
evoluzione della speranza di vita e la revisione dei
coefficienti di trasformazione). Ogni arretramento su questo
fronte, esporrebbe il comparto e
quindi la finanza pubblica in generale a rischi di
sostenibilità”.
Parole pesanti che chiudono la porta ai Sindacati che avevano chiesto un ammorbidimento del meccanismo introdotto dalla riforma Sacconi dell’adeguamento all’aspettativa di vita, che dovrebbe far scattare un altro aumento di ben 5 mesi a decorrere dal 2019, portando così l’età di pensionamento di vecchiaia esattamente a 67 anni per tutti.
Congresso e
"Socialismo con
caratteristiche cinesi" per una nuova era
Per settimane l’avvicinamento al 19° congresso del Partito comunista cinese è parso, soprattutto in occidente, un inseguirsi frenetico di puntate di un serial televisivo, tutto incentrato su dinamiche esclusivamente personali, in special modo sulla figura del segretario Xi Jinping il cui unico obiettivo – questo il senso della trama – era quello di perpetuare il proprio potere a scapito degli avversari di turno, promuovendo amici e sodali. A poche ore dalla sua conclusione (dove tutto sembrava scontato, a leggere i media mainstream) la realtà si è incaricata ancora una volta di fornirci un quadro diverso e più complesso. A partire dal protagonista assoluto, che non è stato l’intrigo di palazzo ma il Partito Comunista Cinese con i suoi poco meno che 90 milioni di iscritti.
Per lungo tempo (sicuramente dal dopo 1989) si è teso a separare il “miracolo economico” cinese dalla leadership politica che quel miracolo stava realizzando. Basta scorrere i giornali per rendersene conto: il PCC si era praticamente eclissato in qualsiasi cronaca e sembrava quasi che i successi fossero frutto di una tecnocrazia al potere che, mantenendo nome e simboli antichi, avesse oramai abbracciato il capitalismo più sfrenato.
Intervista a Sergio Cesaratto, Professore ordinario di Economia internazionale, di Politica monetaria e fiscale nell’Unione Monetaria Europea, a cura della redazione di ComINFO, su manovra, europa e crisi internazionale
In queste settimane è in elaborazione e discussione la manovra finanziaria 2017, una manovra che si preannuncia in continuità con le politiche di liberiste volte alla tutela delle imprese attraverso le decontribuzioni e la riduzione della tassazione sui profitti. Qual è il suo punto di vista?
Non ho francamente molto da dire sulla Legge Finanziaria che se non propone tagli massicci per non mortificare una ripresa già anemica, neppure si proietta a incentivarla. Il sostegno all’occupazione a tempo indeterminato aiuta sì questo tipo di contratti, come si è visto nel 2015-16, ma cosa accadrà poi al termine della decontribuzione? Si pongono poi discrimini per età che sono francamente ingiusti: come se avere 36 anni fosse meglio di averne 35, e 35 meglio di 29.
Van bene i sostegni a favore dell’innovazione – la sinistra non deve opporsi al progresso tecnologico – ma che si monitori l’uso del fondi. A fronte del mantenimento del ridicolo bonus ai diciottenni o al sostegno ai vivai calcistici si lesina nelle assunzioni nella ricerca ( e si perpetua una ingiustizia verso i professori universitari).
Il Kurdistan aveva allargato ampiamente il suo territorio, ben al di là dei confini che garantivano la sua autonomia regionale. I peshmerga curdi infatti avevano occupato importanti centri come Tal Afar, Mosul, Senjar e Kirkuk, con grande plauso di Israele e dell’Occidente che potevano beneficiare, grazie alla compiacenza di Barzani, della rapina delle enormi risorse giacenti nei campi petroliferi di Kirkuk, mediante un oleodotto che attraversa la Turchia per arrivare nel Mediterraneo.
La riconquista di Kirkuk da parte delle forze governative irachene e delle milizie sciite è un duro colpo per il “Presidente” Barzani e per l’indipendenza del Paese. Non ci si può più avvalere dell’estrazione di 400.000 barili di petrolio al giorno1 necessari per il bilancio (già in dissesto per l’enorme corruzione dei padroni del Kurdistan) e per disporre di alleanze politiche favorevoli.
In effetti Bagdad, rientrando in possesso di un enorme tesoro, rende di fatto impossibile la sopravvivenza economica della regione che, visto il disastro militare dei peshmerga, non può che ripiegare su un’autonomia all’interno dello stato iracheno e rinviare il proposito(?) di indipendenza in un secondo momento con una contrattazione pacifica(?) con il governo iracheno.
Contro la mossa dei renziani e relativa mozione approvata dal Parlamento per un "cambio di passo" in Bankitalia, impressionante e fulminea è stata la levata di scudi in difesa del governatore di Bankitalia Ignazio Visco.
Degni di nota gli argomenti dei paladini del governatore. "La mossa di Renzi è maldestra e irresponsabile", "è un'invasione di campo"... "espone il sistema italiano ai mercati internazionali".
Essi non difendono dunque Visco a causa dei suoi meriti, che non ha per niente. Essi lo difendono a prescindere, in base al principio neoliberista della "assoluta indipendenza della banca centrale". Vedi quanto afferma Massimo Riva su la repubblica.
Cosa intendano per "indipendenza" gli armigeri del "partito tedesco" è presto detto: indipendenza dal Parlamento, ovvero dall'organo che dovrebbe rappresentare la sovranità popolare. Ciò che in pratica si traduce nella sudditanza della Banca centrale rispetto alla Bce, alle grandi lobbi finanziarie transnazionali e, per finire rispetto alle grandi banche d'affari, italiane ed europee.
Francesco Verderami, sul CORRIERE DELLA SERA di ieri, a nome e per conto del "partito tedesco", insinua che dietro l'attacco a Visco vi sia quello a Draghi e alla Bce, avverte mafiosamente Renzi:
Su Il Foglio di ieri Giuliano Ferrara scrive: “Marx aveva i suoi profetismi, lirismi, onirismi [meglio chiamarle ipotesi predittive, n.d.r.] ma era anche un po’ scienziato [lo era pienamente, ma l’ammissione di Ferrara è già un passo in avanti per un giornalista]. Fatta l’anatomia della società civile borghese dell’ottocento (1), con la Rivoluzione industriale in corso, i proletari, le catene e tutto, stabilì che nel capitalismo si manifestava il conflitto tra Capitale e Lavoro, ma non per vaghe ragioni morali. Il capitalismo è un rapporto sociale, diceva, e i padroni dei mezzi di produzione acquistano la forza lavoro che è una merce speciale, umana, le mani callose e tutto [in realtà, a Marx delle mani callose interessava poco, in termini scientifici, perché lui non dipingeva in luce rosea le figure, in carne ed ossa, di capitalisti e proletari ma intendeva spiegare ruoli e funzioni sociali di queste personificazioni; la forza lavoro salariata è, invece, merce speciale perché è l’unica che consente l’attivazione di un processo di valorizzazione capitalistico n.d.r.]. Questa compravendita o sfruttamento è il luogo primario del conflitto, della lotta di classe, il livello del salario e quello del profitto ne sono gli indicatori, lo stato e le sovrastrutture politiche stanno in mezzo (i governi sono comitati d’affari della borghesia, e le masse della Comune danno la scalata al cielo). E’ una semplificazione corsivistica ma non troppo”.
Renzi, Visco Bersani, Bankitalia, Camera dei Deputati e attacco del fondo Bridgewater all'Italia. Cosa lega tutti questi attori fra loro? Abbiamo provato a spiegarlo in questo articolo
Narra un vecchio aneddoto della storia dei partiti politici che, in Francia il primissimo premier espressione di un cartello delle sinistre, Édouard Herriot, fu ricevuto, una volta assolti gli obblighi per la presa in carica di primo ministro, dal presidente della Banca di Francia. Herriot non era uno sprovveduto, era già stato ministro in governi di coalizione, sarebbe stato presidente del consiglio altre due volte assieme a numerosi incarichi fino all’ultimo anno di vita. Bene, con suo stupore Herriot, ricevette dal presidente della Banca di Francia una vera e propria lezione su cosa, nel bilancio dello stato francese di allora, era di reale competenza della banca nazionale e cosa davvero del resto delle istituzioni. Di fatto, narra sempre l’aneddoto, Herriot si accorse di non governare più del cinque per cento del bilancio dello stato. Decine di anni di finanziarizzazione della vita pubblica francese, a partire dai boom di borsa sotto Napoleone III, avevano ridotto moltissimo il margine di manovra finanziario a disposizione delle istituzioni della sovranità popolare. Come è andata a finire è qualcosa di noto.
Ringraziamo la segreteria nazionale della CUB-SALLCA per l'invio del materiale relativo al Convegno su Europa e banche tenutosi a Torino il 6 ottobre scorso, e volentieri pubblichiamo il contributo di analisi del sistema bancario italiano presentato dal prof. Andrea Fumagalli
Pubblichiamo una mini
inchiesta sullo
stato del sistema bancario italiano.
Nella prima parte di questo scritto ci limitiamo a descrivere il contesto macro e europeo in cui sono maturate le recenti dinamiche speculative che hanno investito alcune banche italiane. Non è un caso che ciò avvenga a inizio anno, dopo che il 1 gennaio 2016 è entrato in vigore il nuovo regolamento bancario denominato Basilea 3, ultimo step per la costituzione dell’ Unione Bancaria Europea, più fittizia che reale (come vedremo).
Nella seconda parte, grazie all’analisi ora svolta, ci focalizzeremo più in particolare sul microcosmo italiano delle banche locali: un intreccio politico affaristico all’interno dei quali agiscono processi di espropriazione e di distribuzione che, pur differenti, non hanno nulla da invidiare a quelli più noti delle politiche di austerity a livello macro.
* * * *
Le banche italiane sono vittime della speculazione?
Spesso le vicende economiche tendono a ripetersi. Ma, come la storia, mai nello stesso modo.
Di neoliberismo e di
controrivoluzione liberale, di Thatcher
e di Reagan, si è tornati a parlare recentemente. Due lavori
su tutti vanno citati: quelli di Dardot-Laval,[1] e di De
Carolis.[2]
Questi testi permettono di descrivere, tra l’altro, la forza e
l’impatto, governamentale di quel modello risultato vincente
in particolare
nel post 1989. Supportato dalla rivoluzione informatica e, in
generale tecnologica, ci ha consegnato un mondo svuotato,
dominato dalle passioni
tristi,[3] in cui
effettivamente sembra aver trionfato, per il momento, il
modello di una società atomica, obbediente, formattata secondo
le richieste di un
mondo produttivo, che vuole cittadini (ancora?) acritici,
perfetti portatori d’acqua al mulino dei meccanismi di
produzione di plusvalore,
secondo le forme di razionalità strumentale che ben descriveva
la prima generazione della Scuola di Francoforte.
L’impatto politico generale di questo processo ha assunto, nell’arco di tempo che ci porta dal 1989 ad oggi, svariate forme: privatizzazioni, trasformazioni e strappi più o meno riusciti ad esempio in Italia, alla Carta costituzionale e al patto sociale che l’avrebbe dovuta sostenere. Le politiche economiche e le politiche hanno assunto prevalentemente una indicazione di ossequio alle richieste pressanti del cosiddetto “mercato”, trasformando alla radice gli stili di vita e di convivenza di larghe porzioni della popolazione occidentale.
Il sistema
monetario internazionale di Bretton Woods del 1944, per come
si è evoluto nel presente, è diventato, detto onestamente, il
più
grande ostacolo alla pace e alla prosperità nel mondo. La Cina
è sempre più sostenuta dalla Russia, e le due più grandi
nazioni eurasiatiche stanno prendendo passi decisivi per
creare un’alternativa molto valida alla tirannia del dollaro
americano nel commercio
mondiale e nella finanza. Wall Street e Washington non ne sono
contenti, ma sono impotenti nel fermare questo cambiamento.
Poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo degli Stati Uniti, influenzato dalle maggiori banche internazionali di Wall Street, ha istituito ciò che molti credettero erroneamente essere un nuovo standard dell’oro. In verità, fu uno standard del dollaro in cui ogni altra valuta dei paesi del Fondo Monetario Internazionale ebbe il valore agganciato al dollaro. A sua volta, il dollaro americano fu legato poi all’oro con un controvalore pari a un trentacinquesimo di un’oncia d’oro. All’epoca Washington e Wall Street potevano imporre un tale sistema poiché la Federal Reserve deteneva circa il 75% di tutto l’oro monetario mondiale in conseguenza della guerra e degli sviluppi correlati. Bretton Woods incoronò il dollaro, che da allora è diventato la valuta di riserva del commercio mondiale detenuta dalle banche centrali.
Matteo Renzi deve sicuramente la sua ascesa politica al sistema bancario. Ricordiamo fra tutte la sponsorizzazione della sua figura e poi della sua controriforma costituzionale fatta dalla Banca Morgan e le dichiarazioni sfacciate proriforma di Draghi alla vigilia del voto referendario.
Però Renzi deve alle banche anche una delle cause della sua discesa, con i risparmiatori traditi di Banca Etruria e delle altre banche fallite che inseguono lui ed i suoi fedelissimi ovunque li incontrino.
Ora la rabbia dell'ex presidente del consiglio si rivolge a Visco, con il PD che ne chiede la non riconferma alla guida della Banca d'Italia.
Che la posizione di Renzi e dei suoi sia ridicola e strumentale salta agli occhi di chiunque abbia ancora un minimo di discernimento. Però salta agli occhi anche la altrettanto penosa levata di scudi della intellettualità e della sinistra antirenziana, a difesa del governatore di Bankitalia. Che è sicuramente corresponsabile del disastro del sistema bancario italiano, ma che non ci sta a fare il capro espiatorio. Sopra di lui Draghi, la BCE e la UE, assieme naturalmente a tutto il sistema bancario italiano sono altrettanto responsabili. E con essi tutti i governi che si sono succeduti in questi venti anni, nessuno escluso.
Un tempo, per terrorizzare la popolazione, il sistema di dominio doveva organizzare manovre piuttosto complesse. Negli anni 60’/’70 in Italia la faccenda era davvero macchinosa. Bisognava organizzare attentati con l’uso sistematico dei servizi segreti, era necessario infiltrare gruppi e partiti politici, si dovevano finanziare, coprire, equipaggiare gruppi di destra; senza dimenticare i tentativi, più o meno realistici, di colpo di Stato che venivano fatti balenare tra i vari corpi di polizia e dell’Esercito. I risultati, anche se parziali, c’erano: gli operai e gli studenti potevano essere intimoriti, la presenza e l’ingerenza poliziesca diventavano più accettabili, la pubblica opinione veniva orientata verso una richiesta di ”ordine e sicurezza”.
Tenere insieme tutto questo non era sempre privo di rischi: servizi segreti, fascisti, colonnelli presentavano a volte il conto del loro impegno. E questo non solo in Italia. Anche allora probabilmente la sinistra non esisteva, ma c’era una classe operaia numerosa e dislocata in alcune forti concentrazioni: un contraltare sociale che l’oligarchia doveva temere e cercare di aggirare con manovre complesse.
Oggi la questione sembra molto più semplice: questa estate a Parigi è stata chiusa la Tour Eiffel e bloccata tutta l’area circostante per un giorno intero poiché “pare” che qualcuno avesse urlato “Allah Akbar”.
I piani indipendentisti del Kurdistan iracheno sembrano essersi sciolti letteralmente in poche ore dopo che le forze governative di Baghdad, con l’appoggio di milizie sciite più o meno legate all’Iran, a inizio settimana hanno ripreso il controllo di buona parte della provincia settentrionale di Kirkuk. Gli sviluppi più recenti della situazione in Iraq sono la conseguenza del referendum tenuto in Kurdistan lo scorso mese di settembre e dell’evoluzione degli scenari post-ISIS in Medio Oriente.
Il governo regionale curdo del presidente, Masoud Barzani, aveva approfittato nel 2014 della fuga dell’esercito iracheno dalla provincia di Kirkuk, in seguito all’arrivo degli uomini dello Stato Islamico, per occupare l’omonima città e, soprattutto, i pozzi petroliferi che la circondano.
Kirkuk era però al di fuori dei confini del territorio garantito al controllo curdo dopo l’invasione americana del 2003 e, in seguito al processo di arabizzazione degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, la città è oggi etnicamente mista, essendo popolata non solo da curdi ma anche da arabi sunniti e sciiti, da turkmeni e cristiani assiri.
L’offensiva finora in larga misura incruenta delle forze di Baghdad era da tempo nei piani del presidente iracheno, Haider al-Abadi.
La liberalizzazione commerciale, quella finanziaria, la supremazia del mercato hanno creato un’estensione senza limiti al gioco delle diseguaglianze. La polarizzazione delle ricchezze tra regioni del mondo ha raggiunto limiti inimmaginabili.
E tutti si affannano a voler aiutare i paesi del terzo mondo. Ne abbiamo viste e sentite di tutti i colori. Sviluppi endogeni, partecipativi, integrati, autentici, equi, un bricolage concettuale che non ha cambiato le cose. Ed oggi si è arrivati ad una mostruosità verbale che si esplica attraverso un’antinomia mistificatrice: “aiutiamoli a casa loro”. Aggiungono una specificazione e non mettono in discussione il processo di accumulazione capitalistica. Non ci si concentra sulle disparità sociali, sulla povertà, sul livello di vita, sui bisogni essenziali o sui danni all’ambiente ma ci si basa su un’impietosa rimozione dai nostri occhi della disperazione in cui vivono quei popoli.
Si dimentica, si omette volutamente che sono le potenze occidentali che finanziano le guerre religiose ed interetniche, che depredano quelle popolazioni delle loro ricchezze. C’è tutto un immaginario che rimane immutato, immaginario che non è altro che colonizzazione con altri mezzi. I conflitti armati che attraversano l’Africa e il Medio Oriente hanno i loro prodromi nella gestione occidentale di quei paesi nella stagione della loro indipendenza e nel tentativo, per tanti versi riuscito, di conservarne il controllo dopo la dichiarazione della loro indipendenza.
Non si sceglie il nome alla nascita, altri te ne affidano uno con cui sarai chiamato, conosciuto e riconosciuto nel mondo. Quando si decide di formare un gruppo – qualsiasi gruppo che sia costituito da più di una persona – la prima problematica emerge insieme alla questione del nome da assumere. Solitamente la si accantona quasi subito; prima meglio capire chi si è: come si pensa, dove si vuole andare e perché e chi sono i buoni e i cattivi maestri e un insieme di altri rovelli. Per una volta che il nome non cala arbitrario e vuoto, meglio approfittarne; meglio non sbagliare.
Così sono trascorsi due anni di lavoro prima che questo progetto prendesse forma e nome, andando a identificare un gruppo di persone con in comune sicuramente il percorso di studi di carattere umanistico, nonché una serie di tensioni più o meno sotterranee che quello stesso percorso ha lasciato affiorare. La prima è l’esigenza di una comunità, al contempo umana e pensante. Alla base sta il desiderio di non adattarsi a una parabola che declina la vita adulta come momento di separazione e ritiro nel privato; c’è inoltre la consapevolezza che il pensiero funzioni meglio quando inserito in un dialogo, nel momento in cui trovi confronto e scontro, un margine di resistenza che lo costringa a modellarsi o rafforzarsi.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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I. Il giudizio sulla
crisi
Il giudizio sulla natura dell’attuale “crisi” del capitalismo contemporaneo, è il tema di partenza per la definizione di una strategia politica in grado di affrontare il passaggio storico che stiamo vivendo
Sulla differenza di giudizio della fase, infatti, derivano le conseguenti scelte politiche che caratterizzeranno le opzioni politiche in questo secolo. Il punto di partenza, quindi, non può che essere l’analisi di questa crisi e il giudizio che se ne dà.
A mio avviso, per comprende la vera natura della crisi è necessario analizzare le trasformazioni che il capitalismo ha generato nella forma di produzione, nei cicli economici, nel forma del lavoro – e al sua stessa idea -, nei prodotti. In altre parole, se non si affronta il tema qualitativo della cosiddetta “Digital Disruption” – e si rimane all’interno dello schema quantitativo dei vari schemi basati sul modello keneysiano, del puro intervento sulla moneta o sulla domanda – si rimane puramente all’interno delle possibilità di intervento offerte dalle logiche redistributive. Si rinuncia, cioè, all’autonomia politica derivante da una autonoma visione del mondo, si rimane imprigionati nella logica di “aggiustamento interno al sistema”.
Generalmente l’anno 1917 è associato
strettamente alla Rivoluzione Russa, ma a me sembra più
giusto collocarlo nel vasto
sommovimento mondiale delle lotte della classe operaia che,
tra il 1917 e il 1921 (e in Cina fino al 1927), pose termine
alla prima guerra mondiale
inter-imperialista (1914-1918).
Quell’ampia lotta incluse la rivoluzione tedesca (1918-1921), le occupazioni delle fabbriche nel Nord Italia (1919-1920), l’ondata nazionale di scioperi del 1919 in Gran Bretagna, la rivoluzione in Ungheria (1919) e gli scioperi di massa in Francia nel 1919-1920, in Spagna tra il 1919 e il 1923, e negli Stati Uniti (1919).
Quelle lotte continuarono e amplificarono il fermento radicale d’anteguerra associato agli IWW negli Stati Uniti, all’ondata di scioperi sindacali in Inghilterra, in Irlanda e in Scozia tra il 1908 e il 1914, alla «Settimana Rossa» in Italia nel 1914 e soprattutto alla Rivoluzione russa del 1905-1907, che pose i consigli operai e soprattutto i soviet all’ordine del giorno, scoperta pratica della classe operaia in lotta, non prodotta da alcun teorico.
All’epoca un testimone sgradevole, il re d’Inghilterra Giorgio VI si espresse in questa maniera «Ringraziamo Dio per la guerra! Essa ci ha salvato dalla rivoluzione».
In esclusiva presentiamo ai lettori un
documento in sette tesi di Pablo Iglesias, segretario
generale di Podemos. Un documento
molto importante perché segnala il carattere
plurinazionale dello stato spagnolo e denuncia il vero
disegno del regime monarchico: sconfiggere
il nazionalismo catalano per edificare uno Stato
centralista e autoritario sul modello del franchismo.
Presenta infine la posizione di Podemos
sulla vicenda catalana: indire un referendum concordato in
cui i cittadini catalani possano decidere il loro futuro,
non quindi avendo sulla scheda
solo le due opzioni (unionista e indipendentista), ma pure
quella di rifondare la Spagna come Stato
democratico, plurinazionale federale.
Posizione che noi condividiamo pienamente.
* * * *
La Spagna vive una crisi di regime contraddistinta da almeno tre aspetti: sociale ( la continua pauperizzazione delle classi popolari, così come il peggioramento del livello di vita e delle aspettative dei settori della classe media); istituzionale (la corruzione e il patrimonialismo del Partido Popular non è l’eccezione ma bensì la regola); e l’aspetto territoriale; quest’ultimo lo tratterò in queste considerazioni.
Scorrendo l’ultimo numero della rivista online Città Futura, mi sono imbattuto in un lungo articolo di Valeria Finocchiaro che ingaggia un serrato corpo a corpo con un libro di Raffaele Alberto Ventura (“Teoria della classe disagiata”, edizioni minimum fax) nel quale si avanza l’ipotesi che l’inflazione di giovani laureati, a fronte di un mercato del lavoro che offre loro (se e quando li offre!) posti di lavoro sottopagati e mansioni al di sotto delle loro competenze, andrebbe affrontata praticando una sorta di “decrescita culturale” (riducendo cioè drasticamente il numero delle iscrizioni ai corsi universitari, in particolare a quelli di orientamento umanistico).
Non avendo ancora avuto modo di leggere il libro di Ventura, posso riassumerne gli argomenti solo attraverso la ricostruzione che ne fa Valeria Finocchiaro. Secondo Ventura, la massificazione (ma allora si parlava di democratizzazione) degli accessi all’istruzione superiore avvenuta sull’onda dei movimenti del ’68 e successivi, avrebbe dato origine a una “classe disagiata” composta di soggetti, al tempo stesso, troppo ricchi di capitale culturale (il che li induce a perseguire l’ideale borghese dell’autorealizzazione intellettuale), e troppo poveri nella misura in cui percepiscono salari miserabili e sono membri di famiglie impoverite (perché i genitori si sono dissanguati per farli studiare).
Durante le funeree celebrazioni per il decennale del PD, Renzi ha respinto con tono indignato l’accusa di fascismo, protestando ancora una volta la natura democratica e addirittura progressista del suo partito, che è sempre stato il principale rappresentante italiano dell’oligarchia politico-finanziaria che sta trascinando il pianeta alla rovina.
Come dice anche la Bibbia, l’albero si riconosce dai frutti.
E il sedicente centrosinistra italiano è un albero che produce strani frutti da sempre. Dalla Prima Repubblica, col consociativismo spartitorio DC-PCI e la cosiddetta solidarietà nazionale antiterrorismo che produsse le leggi speciali, alla Seconda Repubblica della definitiva fusione fra i resti di PCI e DC.
Il primo governo Prodi fruttò la precarizzazione del lavoro con la legge Treu.
Il successivo governo D’Alema (colui che adesso si proclama l’ultimo strenuo difensore della sinistra) fruttò la criminale partecipazione dell’Italia alla guerra nella ex Jugoslavia, col bombardamento di Belgrado.
Negli ultimi sei anni nei quali è stato al governo con la destra berlusconiana, il PD ha proseguito l’operazione di sistematica cancellazione dei diritti dei lavoratori, tentando ripetutamente di smantellare la Costituzione antifascista, continuando a partecipare a tutte le guerre neocoloniali disponibili, e finanziando campi di concentramento per la Soluzione Finale del problema immigrazione.
Il piccolo Roberto Speranza oggi, su Repubblica, lascia da parte il lecca-lecca e dichiara: “La rottura nel Pd è arrivata dopo una frattura nella società italiana. Se si ha il coraggio di ricomporre questa frattura, e di ragionare di una politica di radicale discontinuità, allora anche noi dobbiamo avere il coraggio di confrontarci con il Pd”. Io dico che, se non fosse abuso di minorenne nel caso di Speranza, occorrerebbe il coraggio di sculacciarlo forte forte e non dargli più la paghetta settimanale per un mese.
E’ evidente che il Pd non tornerà mai indietro sulle politiche fatte, come cerca di far credere Robertino, che infatti si accontenterebbe di qualche micro concessione da pochi milioni sulla legge di bilancio e una mini-revisione del Rosatellum per introdurre il voto disgiunto e (ahimé) aumentare la quota uninominale. Il Pd non cambierebbe neanche se Renzi lasciasse la segreteria. Quelle politiche che il Pd ha fatto derivano dall’asse di rappresentanza di quel partito, che oramai viene votato dall’area del Paese che difende i suoi interessi dalla polarizzazione sociale sempre più drammatica. L’elettore medio del Pd non si sente di sinistra, ma già da almeno dieci anni. L’elettore medio del Pd chiede soltanto la difesa del suo status quo, ancora tutto sommato relativamente tutelato, seppur in declino.
A volte, mi capita di leggere una frase che mi colpisce profondamente.
Il blog Abbatto i muri parla di sesso/genere/femminismo e temi affini, da un punto di vista diametralmente opposto a quello di alcune femministe, come ad esempio Marina Terragni.
Sono polemiche molto interessanti, promosse da persone intelligenti, e non voglio entrare qui in merito ai singoli temi.
Ma mi ha colpito una frase che scrive la redattrice di Abbatto i muri. Lei definisce il proprio femminismo, ma in realtà ciò che descrive va molto oltre, anzi è la base di una delle principali visioni del mondo dei tempi in cui viviamo:
“è decostruzione degli stereotipi di genere, è analisi delle differenze, di classe, identità politica, è intersezione delle lotte, non fissa parametri altri che non siano innanzitutto il partire da se’ e partire da se’, dar luogo all’autorappresentazione, toglie necessariamente il potere/diritto, a chiunque parli di te con la pretesa di rappresentarti, di usarti e legittimare così, attraverso te o quello che di te si vuole raccontare, culture che ci sono nemiche e nemiche per davvero.”
Non voglio polemizzare con nessuna delle singole tesi che lei sostiene, e nemmeno con il concetto di “femminismo”.
Un recente articolo
pubblicato da
Pierluigi Fagan su Megachip (Lo
spazio del politico nel mondo
multipolare. Nuovi Stati, secessioni, sovranità [anche
qui])
solleva un insieme di questioni rilevanti, addirittura
centrali per comprendere il nostro tempo, e pertanto non
sorprende che abbia suscitato le
altrettanto interessanti riflessioni di Fabio
Marcelli [anche qui],
Paolo
Bartolini e Lelio
Demichelis [anche qui].
Quelle che Fagan identifica come le quattro forze produttive di una trasformazione geopolitica planetaria si potrebbero a mio avviso anche intendere come altrettante sfide, nel senso che Collingwood ha attribuito all'espressione nella sua Question Answer-Logic. Una sfida (Challenge) di questo genere sorge infatti nel momento stesso in cui l'azione congiunta di forze sociali di varia natura determina un mutamento storico di tale portata da esigere una risposta politica innovativa in grado di contenerne gli effetti.
La prima minaccia che grava sull'assetto geopolitico attuale è di natura demografica. Su questo Fagan ha certamente ragione. Il vertiginoso aumento della pressione demografica nei cosiddetti paesi in via di sviluppo (mi riferisco in particolare a quelli africani, dove per altro lo sviluppo economico è progressivamente fiaccato dalle guerre civili e forse anche dal mutamento climatico), condurrà certamente ai problemi che l'autore ha posto in luce (e ad altri ancora, come l'inurbamento di enormi masse di diseredati che andranno ad accrescere gli attuali slum o che, per altro verso, proprio perché sradicate e ingovernabili, accentueranno le dinamiche migratorie interne ed esterne al continente).
1. In pochi capivano,
quaranta anni
fa, che nel giro di un decennio la centralità della fabbrica
nella società sarebbe scomparsa; in ancor meno credevano che
l’universo simbolico dell’Italia operaia si sarebbe
sgretolato nel giro di una manciata d’anni. Eppure, gli
schemi con i quali oggi
consideriamo economia e mondo del lavoro sono frutto dei
mutamenti intervenuti, in Italia, a partire dalla metà degli
anni Settanta: aumento
esponenziale degli addetti del terziario a discapito
dell’industria, esplosione del mercato della merce
immateriale, post-fordismo e
delocalizzazioni della produzione. Alla trasformazione
economica segue il ridisegnarsi del rapporto fra l’individuo
e la sfera sociale e
politica; sul piano culturale, miti e modelli di
interpretazione si avvicendano, in una successione sempre
più rapida. L’impressione
è che, davvero, tutto sia cambiato.
2. I cambiamenti che hanno interessato l’universo economico e produttivo negli ultimi quarant’anni non potevano che avere delle ricadute complesse sul mondo del lavoro. La certezza per cui «il mondo del lavoro è completamente cambiato», o semplicemente «il mondo è cambiato», esprime una verità legata ai fenomeni articolati e globali cui abbiamo accennato sopra. La robotizzazione della produzione e – parzialmente – della logistica, unita allo spostamento dell’asse economico sul terziario e delocalizzazioni, determina una richiesta di forza lavoro diversamente specializzata. La differenza con la fase economica precedente riguarda, almeno per alcuni campi, la flessibilità della specializzazione: non è data una volta per sempre, deve piuttosto adattarsi alle esigenze del lavoro e saper attraversare i confini del proprio specialismo, rimanere aggiornata, programmare autonomamente il proprio «restare al passo».
È uscito recentemente un saggio di Guglielmo Carchedi, economista presso l’Università di Amsterdam. Il titolo è “Sulle orme di Marx. Lavoro mentale e classe operaia”[1].
Si tratta di un quaderno di grande interesse, che riporta le categorie marxiste all’interno dell’analisi dei processi lavorativi e di sfruttamento. Il lavoro di Carchedi ci riabitua a pensare con gli strumenti di analisi propri della teoria marxista, a 150 anni dalla pubblicazione del Capitale (e a 100 dalla Rivoluzione bolscevica), confermando la loro attualità. Questo è uno sforzo a cui non siamo più abituati (a partire da chi scrive), per cui la lettura può sembrare apparentemente ostica. In questa sede proverò offrire una breve panoramica di alcuni elementi del saggio, assieme ad alcune riflessioni personali.
Chiave della argomentazione di Carchedi è anzitutto una chiarificazione terminologica attorno ai termini lavoro manuale, lavoro intellettuale, lavoro materiale e lavoro mentale.
Non esiste opposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, dal momento che
“tutto il lavoro è intellettuale perché implica l’attività del cervello e tutto il lavoro è manuale, anche se si tratta di di scrivere i propri pensieri su un pezzo di carta. Lo stesso vale per categorie quali “lavoro materiale” e “lavoro mentale”. Tutto il lavoro materiale necessita il concepire, l’ideare; tutto il lavoro mentale necessita tutto il corpo senza il quale il cervello non potrebbe funzionare” (pag. 8).
Si può e si deve parlare di trasformazioni, oggettive e mentali, che sono entrambe materiali.
«Quando si chiude una porta si apre un portone»: questo proverbio vale anche per il Vicino Oriente, solo che spesso e volentieri il portone è negativo come la porta, se non peggio. Così, sostanzialmente sconfitto l’Isis - per ora - sui campi di battaglia (specificazione da sottolineare), si è subito aperta (o riaperta) - e nel peggiore dei modi - la questione curda. I punti focali sono il Kurdistan iracheno e la città siriana di Raqqa. L’utile premessa è che, mentre in Occidente i Curdi godono di ottima stampa, nel Vicino Oriente invece non ne godono alcuna, anzi! Verso di loro ostilità e diffidenza sono al massimo grado: farebbe ottimi affari un ipotetico bookmaker che volesse raccogliere scommesse sul fatto che le indipendenze regionali curde, o la creazione di uno Stato curdo unitario, aprirebbe la via a un massiccio scannamento fra le attuali fazioni curde, cosa peraltro in linea con la loro storia.
Nel Kurdistan iracheno il referendum indipendentista voluto e vinto da Masʿūd Barzani ha dato il via all’offensiva del governo di Baghdad per la ripresa di Kirkuk e dei suoi pozzi petroliferi, che milizie curde avevano occupato in funzione anti-Isis dopo il 2014 (chi in loco pensa male sostiene invece che ciò sia avvenuto con la connivenza dell’Isis). Gli organi di “informazione” occidentali non hanno dato importanza al fatto che le forze irachene che hanno rioccupato Kirkuk e dintorni sono state accolte da manifestazioni popolari di giubilo: in pratica come liberatrici.
Le parole del ministro dell’Economia Padoan sono rivelatrici e non casuali. Quando il ministro che ha in mano i rubinetti dell’economia afferma che: “Gli Italiani muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps”, è chiaro che ci troviamo di fronte al nocciolo del problema.
Al di là degli scongiuri e degli improperi che possono scattare in automatico (e pienamente giustificati), Padoan ha solo dato voce ad una dottrina che è diventata strategia di comportamento in molti paesi a capitalismo avanzato. Ne abbiamo scritto su questo giornale spesso e anche recentemente.
Il processo di disumanizzazione delle persone, ormai declinate nella migliore delle ipotesi come risorse umane o capitale umano, a fronte delle esigenze dei mercati, della ossessione della competitività e del dogma del pareggio di bilancio, da tempo sta producendo una eugenetica concreta e dal sapore un po’ nazista.
Aveva cominciato il Fmi nel settembre del 2014 affermando in un documento che “ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni». La spesa pubblica per le pensioni, afferma il Fondo, è la più alta nell’area euro e rappresenta il 30% del totale della spesa”. Non solo, con una assonanza diabolica il Fmi sottolineava che:
Da oltre vent'anni leggo tutti i giorni con attenzione il Giornale perché - chiunque ne sia direttore - è sempre un ottimo indicatore dell'evoluzione del berlusconismo, delle sue svolte, delle sue strategie.
A maggior ragione lo faccio in questi ultimi mesi, che hanno visto tornare il suo padrone - ormai col volto scolpito in noce, ma pur sempre il padrone - al centro del futuro politico dell'Italia (sic: mi imbarazzo a scriverlo, ma è così; almeno se per futuro intendiamo la prossima legislatura, il prossimo governo).
Così mentre il Pd si attorciglia attorno alle banche, ecco che il Cavaliere si fa ammannire una legge perfetta per allearsi con chiunque - "dai barboncini della Brambilla alla famiglia Kappler", se posso citare Michele Serra - grazie a un sistema di apparentamenti locali che lascia le mani liberissime per portarsi in casa le formazioni minuscole (è gran festa, dai Pensionati al Pli di Stefano De Luca) ma anche i raggruppamenti clientelari, personali, classici.
Lo sanno anche i muri, ormai, che Berlusconi è il più bravo di tutti a fare le coalizioni - di solito gli basta una cena ad Arcore, condita di promesse e regalie - sicché ci si chiede con quale zucca il Pd gli abbia servito su un piatto d'argento questa possibilità.
‘Conflitto’ e ‘lotta di classe’, due termini ormai scomparsi dalla nomenclatura scientifica italiana, considerati retaggio di una cultura marxista appartenente al secolo scorso, oggi li leggiamo in Non è lavoro, è sfruttamento, il libro della giovane studiosa siciliana Marta Fana, pubblicato di recente da Laterza (14,00 €, 173 pagine).
I lavoratori precari, protagonisti di questo libro, dimostrano come l’ulteriore riduzione delle tutele, grazie all’introduzione di norme di sfruttamento come l’alternanza scuola-lavoro, o i voucher o la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, non sia il frutto inevitabile dell’onda lunga della crisi del 2008 e della necessità di maggiore flessibilità nel mercato del lavoro per migliorare la tanto agognata produttività italiana. È invece il risultato di un processo conflittuale tra classi sociali che caratterizza anche questa fase cosiddetta neoliberista. Fase cominciata con il monetarismo di fine anni Settanta, passando per l’era Reagan e Thatcher fino ai nostri giorni con la crisi Subprime e le recenti crisi bancarie europee. Tale orientamento ideologico, favorevole ad un mercato senza regole e senza autorità pubblica, di fatto è stato caratterizzato da un intervento massiccio degli Stati, che hanno favorito maggiormente i percettori di profitto nel conflitto distributivo, come rilevato nel libro.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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È sempre opportuno trarre dal passato
indicazioni per il presente e orientamenti per l’avvenire, e
ricavare, dai grandi momenti della
storia dell’umanità, conoscenza e insegnamenti. L’insegnamento
che deriva dai grandi processi storici e sociali, al tempo
stesso,
ne segnala il rilievo, la portata più che ordinaria in termini
di connotazioni e di implicazioni; e ne tradisce l’attualità,
il
fatto che caratteri e movenze fondamentali di quegli eventi
storici siano in grado di parlare all’oggi, di consentirci di
leggere il tempo
presente, di consegnarci una traccia per la trasformazione.
Non c’è dubbio che oggi, tra i Paesi più intensamente impegnati in un processo di trasformazione sociale e, persino, di orientamento socialista (un socialismo “rigenerato”, peraltro, protagonistico e pluralistico, che si sperimenta attraverso le sfide poste dalla diversificazione economica e dal controllo sociale della produzione), ma anche più drammaticamente minacciati dall’imperialismo (tanto del soft power, di Barack Obama, che lo aveva dichiarato una “minaccia” per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, quanto dell’hard power, di Donald Trump, che lo ha frontalmente esposto alla minaccia di un’aggressione diretta, perfino militare) vi sia il Venezuela Bolivariano.
Siete sicuri che al vostro ultimo tweet abbia risposto un essere umano e non un robot? I robot delle piattaforme social sono oggetto di impiego sistematico nelle agende politiche e economiche globali. I ricercatori informatici ne rilevano oramai una presenza capillare, lanciando l’invito ad accrescere la consapevolezza intorno alle loro caratteristiche, per orientarsi responsabilmente tra i contenuti della rete
E’ il
web il perno dell’ecosistema mediatico nell’era
digitale. E’ il luogo di produzione, diffusione e consumo di
un massivo
volume di informazione, nonché di costruzione e orientamento
dell’opinione pubblica. Ma se questo da tempo non
rappresenta
più una novità, la comprensione delle dinamiche che
determinano i ritmi e l’impatto dei contenuti della rete, e
l’identificazione dei suoi protagonisti, sono aspetti che
impegnano sempre più studi quantitativi su larga scala.
Il report annuale di Imperva Incapsula relativo all’anno 20161
ha rilevato che solo il 48,2% del traffico web mondiale2
è stato generato da persone. Il rimanente 51,8% sarebbe stato
alimentato da bots. I
“bots” informatici (abbreviazione di
software robots), nel senso più generale, sono
programmi che interpretano liste
di comandi (scripts), generalmente semplici e molto
ripetitivi, in modo estensivo e a ritmi del tutto
automatizzati.
Di bots si è abituati a sentir parlare in occasione di attacchi hacker o DDoS (distributed denial-of-service attack, come quello che il 21 ottobre 2016 ha messo al tappeto le maggiori piattaforme internet a larghi bacini di utenza in Nord America e in Europa, attraverso la botnet Mirai) – i cosiddetti bots “cattivi”, stabili al 28,9% nell’ultima ricerca Imperva.
Rivoluzioni orwelliane immaginarie in Catalogna, istigazione populista alla confusione e fiancheggiamento dei processi di smantellamento delle democrazie nazionali in favore di entità economico-politiche a geografia variabile
Mi spiace parecchio per lo
sbarellamento
romanticheggiante di tanti compagni, alcuni dei quali
considero anche amici.
Non è per il motivo da loro indicato che ad esempio io, come molti altri, considero la posizione di Cremaschi e della Rete proprio come un orwelliano "omaggio alla Catalogna" e dunque: non è questione di "purismo" ed "economicismo" (che semmai è difetto tutto loro, che contano il numero di banche contrarie all'indipendenza).
Sappiamo più o meno tutti assai bene che le rivoluzioni non si presentano mai in forma pura e che in situazione rivoluzionaria le classi subalterne devono aggregare il consenso delle altre classi e a volte persino cavalcare le rivoluzioni altrui. Il problema è però tutto diverso: quale rivoluzione? Siamo oggi in una fase rivoluzionaria? O siamo piuttosto in una fase restaurativa, nel quale al movimento socialista spetta una ritirata strategica?
Queste caratteristiche della fase si sono invertite in Catalogna, oppure in Catalogna assumono un volto tutto particolare?
E' proprio così: In Catalogna non c'è nessuna rivoluzione e non c'è nessuna guerra di indipendenza in corso ma una assai più prosaica secessione, dovuta alle contraddizioni interne alle classi dirigenti spagnole in seguito ai gravi problemi legati al processo di convergenza europea.
Poi dice che i pennivendoli di regime non servono a niente.
Che invece una qualche utilità ce l'abbiano, ce lo mostra Aldo Cazzullo, celebre firma che per il CORRIERE DELLA SERA si arrabatta nel seguire la cronaca politica e parlamentare.
E' grazie a Cazzullo se siamo venuti a sapere delle bizzarrie accadute al Senato mentre il Presidente Grasso, suo malgrado, doveva avallare ben cinque voti di fiducia sulla infame legge elettorale Rosatellum 2.0.
Tra gli interventi pittoreschi Cazzullo ci segnala, in particolare, quello del senatore piddino Mario Tronti [nella foto]. Nella grande caciara scatenatasi in Senato tra un voto di fiducia e l'altro, Tronti ha chiesto la parola ed ha pronunciato, segnalando il centesimo anniversario, un'appassionata apologia della Rivoluzione d'Ottobre e dei bolscevichi che l'han promossa.
Scrive Cazzullo il 24 ottobre:
«Tra i voti segreti respinti e la fiducia chiesta dalla povera e vituperata Finocchiaro, s’avanza l’uomo del momento: il professore operaista Mario Tronti, senatore Pd. Dalle finestre del Senato arrivano gli strepiti dei manifestanti tenuti a bada dai carabinieri, ma sono altri i tumulti che vedono gli occhi di Tronti: "L’anima e le forme è lo splendido titolo di un libro del giovane Lukàcs che esce nel 1911. Era l’anima dell’Europa... Colleghi, lo spirito anticipa sempre la storia ..
Questa legislatura finisce così: con l'ex coordinatore di Forza Italia condannato in primo grado a 9 anni e interdetto dai pubblici uffici che, insieme al partito delle ruspe e del "basta immigrati", fa approvare una legge elettorale pensata da centrodestra e centrosinistra per sovradimensionarsi un po' nel prossimo Parlamento, mentre fuori i capi dell'opposizione si bendano gli occhi per farsi notare e fotografare dagli odiati giornalisti.
Questa legislatura finisce così: nel grottesco, nelle alleanze torbide in cui ciascuno pensa pro domo sua, nella rinuncia al senso della vergogna, nella sceneggiata mediatica di piazza, nei gesti dell'ombrello, nel ridicolo di 529 (avete letto bene: 529) cambi di casacca dal 2013 a oggi, insomma gente che ha cambiato partito, a volte pure due o tre volte, per un totale di 24 gruppi e sottogruppi registrati dalla Camera e 29 al Senato, alcuni nati e poi scomparsi nel grande valzer del volgabbanismo, altri che ancora esistono pur nell'inconsapevolezza degli elettori che non li hanno mai scelti - tipo Liguria Civica e Movimento X - e lo sapete che al Senato ci sono tre rappresentanti dell'Italia dei Valori, che nel 2013 non aveva raggiunto il quorum annegando in Rivoluzione Civile, e invece oplà, l'Idv bocciata dagli elettori è rinata silenziosamente nel Palazzo.
A forza di restare schifati davanti all’osceno spettacolo della “politica” italiana, nel corso dei decenni si è fatta strada una “narrazione” edificante sulle consuetudini di altri paesi occidentali. In testa a tutti, naturalmente, c’è “il tempio della democrazia liberale”, ovvero gli Stati Uniti.
La perfezioni di quel sistema sarebbe stata di recente “turbata” dall’irruzione di un animale selvatico di nome Trump, addirittura sostenuto dai trinariciuti di Mosca – non più comunisti, ma comunque russi – soltanto per far fuori la liberal Hillary Clinton e dunque impedire l’elezione della prima donna alla poltrona più importante del pianeta.
E’ una narrazione attendibile? I giornali italiani che l’hanno imposta giurano di sì, i fatti dicono l’esatto opposto.
Il New York Times, potente network che aveva sostenuto senza riserve la Clinton e la tesi della “manina russa” dietro l’avanzata del tamarro col parrucchino, ha rivelato ieri – probabilmente soffrendo, ma con un briciolo di onestà giornalistica – che quella tesi e relativi dossier sono stati pagati dal Comitato Nazionale del Partito Democratico, anzi direttamente con i fondi della campagna elettorale di Hillary.
Una narrazione tossica e fuorviante accompagna oramai ogni aspetto della vita politica, sociale ed economica del nostro paese. Di fake news in fake news, si sta costruendo una realtà virtuale, immaginaria, totalmente slegata dalla realtà: persino quegli indicatori economici che fotografano nitidamente una depressione economica senza precedenti, una disoccupazione dilagante, e la diffusione di lavoro precario, sottopagato e senza più uno straccio di tutele, vengono opportunamente manipolati e travisati.
Anche la legge di stabilità, che ha iniziato in questi giorni il suo percorso normativo, non sfugge a questa logica.
Si tratta di una legge di stabilità “snella ma efficace” ha tuonato, soddisfatto, il duo Gentiloni-Padoan. Più che snella ed efficace (certamente lo è per le imprese) si tratta di una legge di stabilità disarmante, per la nonchalance con la quale vengono eluse le vere emergenze sociali del paese, e per il chiaro sapore elettorale: per tentare di attraversare indenni le imminenti elezioni, le misure più feroci sono solo temporaneamente rinviate e consegnate, come una polpetta avvelenata, all’esecutivo che verrà.
Lo sottolineano molto bene alcuni articoli apparsi sul Sole24Ore che, nel benedire la manovra, da un lato evidenziano che le misure “potrebbero garantire al Governo un percorso meno accidentato in una turbolenta fase pre-elettorale”,
Il sistema di dominio che oggi determina le sorti del pianeta sta andando in pezzi. Una delle conseguenze più visibili e drammatiche, dalla prospettiva latinoamericana, è la rottura delle società, la profonda e brutale polarizzazione che si vive nei principali paesi del continente. La parte che sta in alto e buona parte di quella che sta in mezzo, più o meno la metà della popolazione, si trincerano nei propri privilegi e proteggono la loro sicurezza, la salute e l’istruzione che possono pagarsi. Proteggono, con ogni mezzo, soprattutto la “loro” democrazia (a cominciare da quella elettorale), la stessa che invece per gli altri, los de abajo, quelli che stanno sotto, vede erodere rapidamente ogni sua base culturale e politica. Se l’espandersi dell’estrattivismo e di quel che gli zapatisti chiamano Quarta guerra mondiale ha cancellato la società dei diritti, noi che vorremmo farla finita con quel sistema, e non sappiamo bene come fare, non dovremmo forse adattarci a questa nuova realtà e creare nuove strategie autonome?
* * * *
Scena uno: Alcune settimane fa, in un centro culturale della località di Munro, nella zona nord di Buenos Aires, è stata presentata la Orquesta Típica Fernández Fierro, uno dei migliori gruppi musicali di tango dell’odierna Argentina. A un certo punto, verso la fine del recital, uno dei 13 musicisti ha preso il microfono per dire: “Vogliamo che ricompaia Santiago Maldonado”. La metà del pubblico, di circa 500 persone, se ne è andata dal locale con grida e insulti contro i musicisti.
Di fronte
al
fallimento conclamato delle misure di austerità e
precarizzazione del lavoro nel fronteggiare la crisi
economica, occorre una decisiva
inversione di rotta. A partire da un radicale ripensamento del
ruolo che lo Stato può esercitare nella creazione di posti di
lavoro.
Il combinato di misure di consolidamento fiscale e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.
Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali.
Non
lo possono fare apertamente. Così lo fanno di nascosto. Come
dei ladri. Oppure come delle blatte, che si muovono solo al
buio, e
quando accendi la luce si rifugiano in qualche angolo nascosto
alla vista.
Lontano dai riflettori e dal clamore profuso attorno alla proposta dello ius soli o alla nuova legge contro la propaganda fascista, le blatte neoliberali – di sinistra di centro e di destra, ma soprattutto di sinistra – che infestano i due rami del parlamento italiano lavorano al sodo: cambiare l’art. 38 della Costituzione.
L’art. 38 detta le norme che inquadrano il diritto del cittadino in difficoltà all’assistenza da parte dello Stato. È un articolo breve e lapidario:
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L’assistenza privata è libera.
Le blatte neoliberali vogliono cambiare questo articolo, perché è un ostacolo al loro progetto di ulteriore attacco alle pensioni.
Introduzione al convegno tenutosi il 26-27 maggio all’Università Ca’ Foscari, Venezia
L’occasione
che ha ispirato questo convegno è il ventesimo anniversario
della pubblicazione del libro “ll lavoro autonomo di seconda
generazione.
Scenari del postfordismo in Italia.” Era un volume collettaneo
curato da Andrea Fumagalli e da me, pubblicato da Feltrinelli
nel 1997.
Non fu un successo editoriale – non ho mai saputo a dire il vero quante copie furono vendute – ma ebbe il merito quel libro di aprire un dibattito pubblico, per la prima volta in Italia, sulla figura del lavoratore indipendente (self employed) ed in particolare sui professionisti non regolamentati, cioè non appartenenti agli Ordini tradizionali come i medici, gli avvocati, gli architetti, gli ingegneri, ecc.. Le tesi di fondo di quel libro erano quattro:
1 l’universo del lavoro indipendente sta subendo in Italia una profonda trasformazione con il declino delle figure tradizionali del coltivatore diretto e del commerciante e l’ascesa dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza” delle nuove professioni o dei servizi creati dai nuovi stili di vita.
2 il lavoratore autonomo non è un’impresa, è una persona che si guadagna da vivere con un’attività per la quale ci vuole spirito imprenditoriale, ma l’impresa, concettualmente, è un’altra cosa, è una forma di organizzazione con diversi ruoli al suo interno, assolti da diverse persone, è una forma di cooperazione sociale.
Prima di procedere con i miei ragionamenti vorrei ringraziare il Professor Guglielmo Carchedi – il compagno Mino come lui stesso tiene ad essere chiamato – e i compagni della Rete dei Comunisti / Noi restiamo, che hanno reso possibile l’esposizione delle tematiche contenute nel saggio “Sulle orme di Marx, lavoro mentale e classe operaia“.
Come ho avuto il piacere di comunicare viso a viso ieri sera a Mino, in quel di Genova, pur facendo parte dei comunisti quasi completamente a digiuno di teoria marxista, le tesi contenute nel saggio in oggetto sono state per me un fulmine a ciel sereno, perché descrivono con aderenza pressoché completa le dinamiche dell’ambiente produttivo e sociale in cui mi trovo a vivere: quello della ricerca “capitalisticamente intesa”, per capirci il modello MIT/Stanford nel mondo anglosassone o quello della società Max Planck per quel che riguarda l’UE a trazione tedesca.
Per il sottoscritto è stata, quindi, una sorpresa notevolissima apprendere che Mino non ha desunto i suoi enunciati partendo da un ambiente di riferimento in cui si è trovato immerso, ma li ha costruiti attraverso la sola teorizzazione scientifica. Questo fatto a mio parere amplifica notevolmente la caratura, di per se già elevata, delle sue articolazioni e mi consente di abbozzare qualche punto di riflessione derivante dagli sviluppi dello stato di cose presenti.
La scelta di eliminare, mentre si smantella lo Stato sociale, di cancellare dallo spazio pubblico i perdenti della società del mercato, quelli che non sono sopravvissuti alle trasformazioni volute dal neoliberismo, disoccupati, senza casa, precari, quelli senza pensione o con la minima, tossicodipendenti, handicappati, malati mentali, ma anche dettaglianti, piccoli professionisti… per non parlare di chi sopravvive arrangiandosi, rubacchiando, facendo lavori di minima, è una vera e propria, questa sì, scelta criminale.
E’ profondamente cambiata in questi ultimi anni la lettura che politici e media portavoce degli interessi dominanti fanno leggendo e raccontando la vita quotidiana della popolazione, in primis quella dei giovani delle periferie che insieme a tutti gli altri strati sociali poveri e impoveriti devono fare i conti con un dispiegamento elefantiaco dell’apparato repressivo. Repressione esercitata in modo permanente e ricorrente. Viene usata una pletora di multe e di sanzioni amministrative e il carcere funziona come un aspirapolvere sociale per eliminare le “scorie” che, però, sono sempre in aumento.
C’è un evidente scollamento fra il numero dei reati e l’apparato di polizia palesemente sovradimensionato e si fa finta di dimenticare che i fenomeni border line sono direttamente proporzionali alla necessità, uno per tutti la “borsa nera” che durante e dopo la guerra era molto diffusa in Italia,
Il diciannovesimo Congresso del Partito comunista cinese ha incoronato Xi Jinping come leader indiscusso della nuova era cinese che si sta aprendo in questi giorni. A conferma dell’importanza storica che sta assumendo il cosiddetto “principe rosso”, è il fatto che i 2300 delegati del Partito, riuniti per celebrarne il Congresso, hanno deciso di includere il “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” nella Costituzione del partito. La notizia ha ovviamente una portata storica eccezionale. Con questo gesto, tra l’altro avvenuto per acclamazione unanime e per alzata di mano, il leader cinese è di fatto elevato nel Pantheon deli grandi leader comunisti della Cina. Solo Mao Zedong e Deng Xiaoping hanno avuto un ruolo così importante e certificato dal Congresso stesso.
Jiang Zemin e Hu Jintao, i due predecessori al vertice del Partito, avevano elaborato teorie molto dettagliate riguardo allo sviluppo della Cina e il suo ruolo nel mondo. Ed erano anche state incluse nello statuto del partito, ma questa volta c’è una novità molto più rilevante: c’è il nome di Xi Jinping. Un’incoronazione laica che ha manifestato l’enorme influenza politica e culturale che il leader cinese ha accumulato nel tempo e che il Congresso non ha potuto fare altro che dichiarare, nonostante i presunti tentativi di complotto ai suoi danni.
Intervento presentato al IV Forum «Cina e Ue. I nodi politici ed economici nell’orizzonte della “nuova via della seta” e di una “nuova mondializzazione”», Roma, 13 ottobre 2017
Modelli a confronto per una scelta strategica
Nell’attuale contesto internazionale, i soggetti pubblici e privati di varie potenze statuali si trovano ancora una volta di fronte a scelte strategiche fondamentali, almeno nella misura in cui si assuma l’effettivo dispiegarsi di un processo di transizione da un mondo unipolare ad uno multipolare. Qui esaminiamo un caso emblematico: il significato e l’influenza della Belt and Road Initiative (BRI) nella ridefinizione dei rapporti tra Europa ed Asia e quindi l’urgenza europea di decidere se e come ricollocarsi nella geopolitica mondiale. L’Europa, il Mediterraneo e l’Italia possono decidere di preservare la propria posizione geopolitica, rimanendo sotto prevalente influenza US-Nato, oppure guardare ed agire a favore di un’integrazione eurasiatica. Con focus sulla Cina.
Più precisamente, da una parte vi è ciò che conosciamo fin troppo bene, ovvero un modello politico centrato su finanza speculativa (al cuore della crisi economico-sociale che continuiamo a vivere) e sul militarismo (politiche economiche ed estere condizionate dall’interventismo statunitense) che presuppone una semi-autonomia dell’Europa, in quanto fortemente subordinata alle strategie di dominio statunitensi.
La minaccia indipendentista è diventata il nemico perfetto di cui aveva bisogno il governo per continuare indisturbato il massacro sociale e ambientale e le sue politiche di corruzione. L’esile speranza di fermare questa corsa verso il precipizio è legata alla capacità di variare gli obiettivi e l’orientamento delle mobilitazioni
A seguito della dichiarazione della Repubblica Catalana il consiglio comunale di Girona si è riunito e ha dichiarato il re Felipe VI persona non grata. Mentre il consiglio generale della Valle di Arán – diecimila abitanti che parlano occitano – si riunirà lunedì per decidere l’indipendenza dall’indipendenza, perché la maggioranza della valle vuole rimanere in Spagna.
Intanto Pablo Iglesias affida a tre tweet le sue considerazioni sulle dichiarazioni di Rajoy e la convocazione delle elezioni in Catalogna: 1) si deve garantire che il processo elettorale si svolga senza repressione e con il coinvolgimento di tutte le opzioni politiche presenti.
2) continueremo a difendere l’idea che la Catalogna resti in Spagna per contribuire ad un progetto di paese plurinazionale, solidale e fraterno. 3) continueremo a difendere il dialogo e la proposta di un referendum legale e concordato come migliore soluzione alla crisi catalana.
L’indipendenza è il bene. Insomma nulla di nuovo. Anche la sindaca Ada Colau non si stanca di ripetere che è un errore rinunciare a quell’80% a favore di un referendum concordato, per un 48% a favore dell’indipendenza.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Le relazioni uomo-macchina e capitale-lavoro, dalle anticipazioni di Antonio Caronia a oggi
Nel cercare
di
comprendere l’attuale fase (e crisi) economica e produttiva,
emergono sempre più frequentemente temi all’apparenza
sconnessi, o
perlomeno appartenenti a differenti livelli di discorso, ma
che si trovano a convergere in determinate circostanze. La
digitalizzazione e quindi la
robotizzazione dei processi, insieme alla datificazione
delle vite, determinano spostamenti di capitali enormi,
riportando al centro la
questione della precarizzazione del lavoro culturale e
cognitivo. Il dibattito sulle trasformazioni del lavoro ha
incluso fin dagli anni Novanta il
rapporto tra mente e macchina, rapporto che recentemente si è
fatto sempre più simbiotico. Non sarà un caso se uno degli
uomini
più ricchi e influenti del pianeta abbia guadagnato la sua
posizione grazie a una piattaforma che come prima cosa alla
mattina ti chiede
“a cosa stai pensando?”
Se la macchina è estensione del corpo, nei media proiettiamo la sfera intima ed emotiva, quindi la messa in rete dei dispositivi diventa terreno di riproduzione e modellizzazione delle reti sociali, delle relazioni. La data e sentiment analysis, la profilazione di utenti e l’interesse per il monitoraggio delle amicizie ci ricordano che l’estrazione che oggi avviene, e che determina i flussi, è un’estrazione di un lavoro diffuso nei tempi di vita, un plusvalore prodotto non solo dalla creazione immateriale individuale, ma dal valore aggiunto che è quello di corpi e menti messe in relazione, un plusvalore di rete.
L'indipendenza delle banche centrali
è sempre
più oggetto di dibattito e di contrasti accesi in tutto il
mondo, sia in ambito accademico che nella sfera politica1
. Fino a qualche anno fa, l'ideologia dell'indipendenza
assoluta della Banca Centrale dalla sfera politica, dai
governi e dal parlamento, era un
tabù indiscutibile, nel senso che non se ne poteva neppure
discutere senza commettere il reato di lesa maestà ed essere
accusati di
chissà quali intenti eversivi. Ma da quando è scoppiata la
crisi globale, da quando le banche centrali sono intervenute
massicciamente
nell'economia per salvare le banche commerciali private,
comprando decine di miliardi di titoli tossici e organizzando
il salvataggio delle banche
fallite; da quando le banche centrali hanno avviato iniziative
di espansione monetaria per comprare i debiti di stato – come
è stato
fatto ovunque, in USA, in Giappone e da ultimo anche
nell'eurozona -; da quando le banche centrali sono intervenute
sui mercati finanziari per
comprare titoli pubblici e privati, gonfiando i valori dei
mercati e favorendo così oggettivamente gli investitori
finanziari che detengono
questi valori, allora la loro indipendenza e neutralità e le
loro politiche sono state messe in discussione, a destra come
a sinistra2.
Una riflessione critica sul nuovo libro di Raffaele Alberto Ventura, ambigua indagine tra il generazionale e il sociale del declassamento post-crisi. Uscito in rete nel 2015 e ora ripubblicato da Minimum Fax
Tous les garçons et
les filles de mon âge
Savent
bien ce que
c’est qu’être heureux
Françoise
Hardy
Questa
è la luce: le cose che ora posso
vedere.
Gabriel
del Sarto
Teoria della classe disagiata, di Raffaele Alberto Ventura, consegna, sotto forma di impasse, una lezione di metodo: per descrivere le forme di vita contemporanee il concetto di “classe” e quello di “generazione” devono essere rigorosamente separati. L’assunto secondo il quale “le nostre ambizioni non sono a misura dei nostri portafogli” ne è la più adamantina delle verifiche. Le ambizioni e i portafogli di chi? Se quella “disagiata” fosse una “classe”, non ci sarebbe ragione di scrivere duecentocinquanta lambiccate pagine senza riuscire a capire se questo apparente disastro in cui ci è toccato di vivere sia l’esito fatale della “crisi” oppure la meritata punizione per aver voluto troppo.
Il «Rosatellum bis» è la nuova legge elettorale. Ancora più del «Porcellum» produce un Parlamento di nominati. Ecco come funziona
“Incostituzionale!”. “Produce un Parlamento di nominati!”. “Fascistellum!”. Al Rosatellum bis sono state attribuite le peggiori nefandezze. Il guaio è che è tutto vero.
Giornali e telegiornali (con poche eccezioni) puntano l’accento sul fatto che dei 630 seggi alla Camera, ben 386 sono attribuiti in modo proporzionale sulla base di piccoli collegi plurinominali.
Al Senato, su 315 seggi complessivi, la bellezza di 200 seggi sono attribuiti in modo proporzionale sulla base di piccoli collegi plurinominali.
Se così fosse la Democrazia farebbe un bel passo in avanti rispetto al porcellum. Purtroppo c’è un dettaglio: l’elettore non sceglie. La composizione del Parlamento (sia Camera, sia Senato) è tutta preordinata dai capi partito.
Vediamo perché, partendo dalla scheda elettorale e dal sistema di voto. Qui il testo del Rosatellum bis.
Nota su: Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017
Il dibattito politico italiano ma anche europeo (o dovremmo dire: il simulacro di dibattito che si è ormai imposto) fa un uso sovrabbondante del termine “fascista”: quasi ogni decisione governativa è a rischio di fascismo; allo stesso tempo, anche i movimenti di opposizione vengono tacciati spesso e volentieri di essere cripto-fascisti, se non fascisti del tutto. Ma che senso ha parlare oggi di fascismo? Che senso ha affermare che Trump o Le Pen o Salvini sono fascisti?
Il contesto sociale, economico e culturale del XXI secolo è lontano anni luce da quello che ha visto le vittorie (subite e allo stesso tempo applaudite) dei movimenti fascisti nell’Europa fra le due guerre. La differenza più eclatante ha a che fare con le ideologie: la nostra epoca, a destra come a sinistra, è un deserto di idee politiche. Ha vinto l’ideologia del mercato, ha vinto la competizione individuale, ha vinto la libertà assoluta e ha vinto, insomma, il vuoto fra le persone. Nessuna forza politica ha più ambizioni autoritarie o, appunto, fasciste. Vivendo in un mondo post-ideologico, va da sé che il “pericolo fascista” debba essere ripensato e che, di conseguenza, anche i movimenti della destra radicale, che, con troppa facilità e soddisfazione, vengono accusati di fascismo, debbano essere ripensati con più attenzione.
Quale che sia la portata reale dell’attuale crescita economica, c’è un dato che inciderà notevolmente sugli orizzonti politici d’ogni ordine e grado: la crisi è alle spalle. Che questa affermazione, strombazzata ovunque, non corrisponda a verità, è (per il momento) un dato di fatto materiale con cui continuerà a scontrarsi una certa rappresentazione della realtà. Nondimeno, non va sottovalutata la forza retorica del bombardamento mediatico in cui siamo immersi. Nel racconto pubblico, sia esso proveniente dai giornali, tg, social network, cultura mainstream, eccetera, siamo fuori dalla crisi e dentro un nuovo ciclo d’espansione economica. Per dire, un’intera pagina del Corriere della Sera di ieri – domenica 29 ottobre – ci illustrava la «sorpresa Italia», nel senso di una crescita più alta del previsto, addirittura più alta di Francia e Germania. Notizia, questa, che seguiva di un giorno il rialzo del rating operato da Standard&Poor’s, ultima di una seria di notizie strabilianti sulle nostre prestazioni economiche. La realtà, come detto, è ancora diversa. Sul piano dei rapporti politici, però, questa crescita mediatizzata contribuirà – già è in atto un riposizionamento generale – a cambiare i discorsi della politica sedimentati in questo decennio. In primo luogo, l’Unione europea.
Per un decennio la critica alla Ue si è rafforzata politicamente dalla crisi economica in corso, legando i due aspetti: la crisi è colpa (anche) del progetto europeista.
“L’abolizione dell’articolo 18, il Jobs Act… Berlusconi promette, e a me tocca mantenere” – Matteo Renzi
“Noi siamo in maggioranza, ci siamo sempre stati, e ci saremo sempre” – Denis Verdini
Dopo i contorti magheggi del golpe bianco tentato con la defunta controriforma costituzionale, per il Cacarellum, la nuova legge elettorale Rosato appena approvata grazie a Verdini, gli ingegnosi legislatori del PD hanno inventato un nuovo trucco unico al mondo: il voto a carambola.
Scegliendo il candidato preferito nel collegio uninominale, l’elettore, volente o nolente, vedrà il suo voto rimbalzare automaticamente e inevitabilmente su tutti i candidati del listino bloccato connesso.
Un’offerta speciale obbligata: vota uno prendi tutti, che ti piacciano o no.
E questo è solo l’inizio.
Con un inarrestabile gioco di sponde, il voto raggiungerà anche tutti gli altri partiti della stessa coalizione, anche quelli che rappresentano idee politiche opposte a quelle di chi l’ha espresso.
Filotto.
I voti raccolti dalle liste che non riusciranno a superare la soglia di sbarramento saranno poi cannibalizzati da tutte le altre della stessa alleanza. È il comma Hannibal.
E non è ancora finita.
Torno sulla questione affrontata rapidamente nel post di ieri. Mario Tronti in senato pronuncia un omaggio alla Rivoluzione d'Ottobre e poi vota per la nuova legge elettorale. Al seguente link potete controllare la votazione (dopo aver aperto il link, cliccare sulla cifra 1 in alto a sinistra).
http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Votel/0906/Tot.htm
Questo piccolo episodio, in sé di scarsa importanza, è però utile per capire alcune cose. Una decina di anni fa, scrivendo assieme a Massimo Bontempelli "La sinistra rivelata", avevamo teorizzato l'unità di fondo di destra e sinistra nell'accettazione dell'organizzazione sociale capitalistica come vincolo intrascendibile, il che implicava, da parte di destra e sinistra, l'accettazione di tutte le conseguenze dell'attuale fase del capitalismo: distruzione dei diritti e dei redditi dei ceti subalterni, distruzione del ceto medio, distruzione della democrazia. Il ruolo sistemico oggettivo dell'opposizione di destra e sinistra, al di là ovviamente delle intenzioni soggettive, si riduceva a quello di mero spettacolo, utile a distrarre le vittime del capitale dal rendersi realmente conto di ciò che stava loro accadendo. Tutto questo, dieci anni fa, non era forse ancora del tutto evidente, e richiedeva quindi un certo sforzo teorico. La novità di questi ultimi anni mi sembra sia l'assoluta, plateale, solare evidenza di quanto andavamo allora dicendo. Torniamo al caso di Tronti.
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Cosa unisce
l'Europa del 1848, il Biennio rosso 1916-17 con l’epica e poi
tragica rivoluzione sovietica, in seguito la tedesca 1918-19 e
successivamente la
straordinaria cinese (1946-49), con consecutive rivolte di
liberazione nazionale degli anni '50 e '60, sfociate a loro
volta negli anni sessanta e
settanta in straordinari movimenti sociali mondiali,
soprattutto giovanili? Possono essere interpretate come tappe
significative di maturazione dei
potenziali di riscatto dell’umanità.
Si tratta cioè di momenti storici appassionanti che si contrappongono all’allarmante sfondo di un quadro sempre più sconcertante e devastatore, quanto mondialmente concatenato: quello del modello di sviluppo umano ormai dominante da vari secoli e chiamato capitalismo. Per far fronte al quale appare sempre più indifferibile il recupero e la valorizzazione di alcune solide e indispensabili chiavi di conoscenza e coscienza per le ormai indifferibili ribellioni. Chiavi teoriche e politiche, per cominciare, ma anche o forse soprattutto culturali. Oltre all’impellente ricerca di altre nuove o inedite. Il più possibile valide, accessibili ed efficaci per rafforzare decisive ondate di emancipazione e liberazione. Che rinasceranno inevitabilmente, e che è ormai indispensabile trasformare in risolutive, di fronte alla crescita ormai quasi esponenziale di degradazioni di ogni tipo causate dal capitalismo.
Le teorie hanno due nemici
impenitenti,
le contraddizioni tra teorie e piccoli fatti e i grandi fatti
fuori teoria. Il primo nemico lavora di guerriglia accumulando
anomalie fino a che
c’è una rivoluzione paradigmatica che impone il cambiamento
delle teoria. Quella nuova si troverà di nuovo con la stesso
problema
e con lo stesso esito finale ma per un certo tempo sarà
vigente perché più “adatta”. Il secondo nemico invece convive
con la teoria dominante semplicemente spartendosi le aree di
dominio. In sostanza le teorie hanno una vigenza locale,
presuppongono un universale da
una particolare, almeno fino a che eventi di contesto non
rendono impossibile ignorare questo altro mondo in cui quella
teoria incontra grandi fatti
del tutto alieni ai suoi paradigmi. Questo secondo caso è
quello del nuovo incontro tra mondo occidentale e mondo
cinese. La Cina è un
grande fatto fuori teoria per i paradigmi occidentali e quindi
anche il reciproco, tant’è che i cinesi, quando usano concetti
provenienti
dal linguaggio-pensiero occidentale, ci tengono a specificare
la dicitura “con caratteristiche cinesi”. Quali sono queste
“caratteristiche cinesi”?
Dal 221 a.C., la Cina è un sistema unico, ovvero che ha una sua omogeneità interna maggiore di quanto non abbia col suo esterno. La cultura cinese ha alcuni paradigmi inviolabili, uno di questi è la sua longeva sostanziale unità interna che guarda al periodo di poco più di duecento anni precedente il -221, detto degli “Stati combattenti”, come ad un paradigma assolutamente negativo.
Marx
è considerato il principale studioso e teorico del
proletariato di fabbrica, cosa indubbiamente vera ma molto più
complessa di quanto si
pensi ordinariamente. Lo studio delle comunità contadine
occupa un posto rilevante nei suoi lavori, per certi aspetti è
un tema che
attraversa tutta la sua opera, venendo a trovare nelle
riflessioni sulla Russia un esito sorprendente e sconcertante.
Il procedimento che adotta
è storico e teorico, la spinta a concettualizzare attraverso
quadri sintetici che abbracciano intere epoche è costantemente
sorvegliata
da verifiche puntuali, perché – come dirà ai suoi
interlocutori russi – eventi di sorprendente analogia ma che
si verificano
in contesti diversi producono esiti del tutto differenti.
L’intera ricerca è ispirata dalla ricostruzione della
genealogia del capitale,
del suo sviluppo e presa sulla società. In tale percorso si
registra una dislocazione, un cambiamento non privo di
contraddizioni e
ripensamenti, nella posizione di Marx sul capitalismo e la
rivoluzione.
In una prima fase, esemplificata dal Manifesto, Marx e Engels si esprimono per il più rapido sviluppo del capitalismo inteso come passaggio necessario e precondizione della rivoluzione proletaria (un certo marxismo condivide anche oggi analogo atteggiamento).
Unendo i puntini su un foglio di carta si ottengono comunque delle figure. Magari orrende e prive di senso, ma si ottengono.
Se quindi proviamo rintracciare un filo logico nella serie di “incidenti” che va inanellando Matteo Renzi negli ultimi mesi l’immagine che balza agli occhi è quella del cupio dissolvi, quasi un tocco di Mida al contrario.
La sortita contro il rinnovo dell’incarico a Ignazio Visco, come governatore della Banca d’Italia, ha avuto l’efficacia militare di un attacco kamikaze finito in mare, anziché sulla flotta avversaria. Un attacco proseguito anche dopo il fallimento manifesto – quando Gentiloni aveva ormai “proposto il rinnovo” in consiglio dei ministri e Mattarella preparava la penna per la firma – costringendo gli ormai fedelissimi (Lotti, Martina, Boschi e Delrio) alla penosa presentazione di certificati medici o “precedenti impegni” per giustificare l’assenza.
E’ solo l’ultimo episodio lungo una nutrita serie di sconfitte o figuracce, al punto che l’annunciata batosta nelle elezioni siciliane (dove il Pd rischia di arrivare addirittura quarto, con meno voti persino degli odiatissimi rivali del “centrosinistra classico”) si profila come il big bang che potrebbe costringerlo in una posizione insostenibile.
Finalmente il trucco è stato scoperto e l’informazione maistream americana comincia ad ammettere apertamente che il Russiagate è una bufala purissima, pagata dal partito democratico con i fondi della campagna elettorale e costruita con la regia di una ex spia britannica, tale Christopher Steele. Come mai dopo un anno e passa di campagna volta a dipingere Trump come una sorta di burattino di Putin, tutta questa favola stia finendo nel cestino, è difficile da interpretare: probabilmente da una parte ci si è resi contro che un impeachment di Trump non sarebbe stato possibile su questa base di balle allo stato puro, che in ogni caso sarebbe stato controproducente per i democratici e che infine i Clinton sarebbero stati molto vulnerabili a una controffensiva che andasse ad esaminare da vicino (alcuni rumors sono già avviati) la loro perenne e famelica raccolta fondi a favore della fondazione di famiglia , di fronte alla quale 1 12,5milioni di dollari per costruire il Russiagate sono poca cosa. Anzi diciamo pure spiccioli di fronte a una campagna elettorale di Hillary costata 1 miliardo e 300 milioni di dollari.
Tutto questo ci porta a una considerazione più generale che va al cuore della cosiddetta democrazia rappresentativa di cui a torto gli Usa sono considerati il modello:
Lunedì 16 ottobre su Repubblica, Roberto Perotti ha pubblicato un articolo intitolato “Il grande bluff della Moneta Fiscale” (1) pieno di inesattezze sulla proposta della moneta fiscale che, con Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Luciano Gallino, Enrico Grazzini e Giovanni Zibordi, abbiamo lanciato alla fine del 2014. L’articolo si conclude con delle affermazioni molto pesanti sugli ideatori della proposta e sui politici che la stanno prendendo in considerazione:
“I tantissimi politici che hanno abbracciato la proposta di moneta fiscale hanno una idea molto vaga di ciò che stanno approvando: gli viene detto che la moneta fiscale è un modo per “mettere in circolo potere d’acquisto che rimetterà in moto l’economia”, e questo per loro è sufficiente”.
“Ma i cattivi maestri e i consiglieri del principe che sbandierano l’ennesima ricetta per trasformare il piombo in oro, promettendo scorciatoie attraenti ma inesistenti a problemi di difficile soluzione, si stanno assumendo una grave responsabilità”.
Perotti dunque usa toni minacciosi: “Cattivi maestri che si stanno assumendo una grave responsabilità” dipingendoci come gli ideologi del terrorismo finanziario, poiché è ben consapevole che la Moneta Fiscale è una proposta che mette in discussione il dogma dell’austerità che da circa venti anni sta strangolando l’economia italiana e di cui giornali come Repubblica, Corriere della Sera e Sole24Ore sono tra i più feroci sostenitori.
A pochi giorni dalla prima visita in Asia orientale del presidente americano Trump, gli Stati Uniti stanno spingendo rapidamente la crisi nordcoreana verso il punto rottura. Il rischio di una guerra nella penisola di Corea è infatti aumentato ancora di più questa settimana con il posizionamento di ben tre portaerei USA (USS Nimitz, Theodore Roosevelt e Ronald Reagan) e l’inevitabile intensificarsi della retorica del regime di Pyongyang.
La presenza contemporanea delle tre navi da guerra in uno scenario di crisi è piuttosto rara ed è chiaramente da inquadrare nell’escalation di minacce americane contro la Corea del Nord e nei preparativi per un attacco militare, nonostante il capo di Stato Maggiore, generale Joseph Dunford, abbia parlato nei giorni scorsi di “dimostrazione di routine dell’impegno USA nella regione”.
Quest’ultima decisione dei comandi militari americani si aggiunge alle esercitazioni navali con la Corea del Sud di settimana scorsa che hanno coinvolto sottomarini nucleari e decine di imbarcazioni da guerra. Sempre nei giorni scorsi, poi, un’altra notizia relativa alle iniziative belliche del governo americano aveva generato preoccupazione in tutto il mondo, cioè il possibile reintegro dell’ordine di allerta in un arco di tempo di 24 ore dei bombardieri nucleari B-52, cancellato alla fine della Guerra Fredda nel 1991.
Cambiano le tecnologie e l'organizzazione del lavoro ma, a dispetto di chi preconizza la fine del lavoro, lo sfruttamento aumenta di intensità e la classe lavoratrice, nonostante la sua frammentazione in mille rivoli, rimane il soggetto principale del cambiamento sociale
Marta Fana è ricercatrice in Economia presso l'Insitut d'Études Politiques di Sciences Po a Parigi. Ultimamente si è occupata delle diseguaglianze economico-sociali e del mercato del lavoro. La sua ultima fatica, Non è lavoro, è sfruttamento, è uscita recentemente per i tipi di Laterza ed è già stata recensita in questo giornale da Eliana Como. Si tratta di un'inchiesta sulla situazione del mercato del lavoro fatta sia attingendo alle fonti statistiche ufficiali, sia misurandosi sul campo con le vittime dello sfruttamento, di cui riporta storie di vita. Data l'importanza di questa pubblicazione, che può essere utilizzata come uno strumento di lotta, abbiamo avvicinato l'autrice per discutere con lei l'argomento.
* * * *
Intanto, Marta, puoi dirci qualcosa del tuo percorso intellettuale che ti ha portato a scrivere questo saggio ?
Questo saggio, che forse proprio saggio non è, nasce dall'esigenza politica di rimettere al centro del dibattito culturale e politico il lavoro nella sua dimensione sociale all'interno dei rapporti di produzione di tipo capitalistico contemporaneo:
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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I. Delucidazioni a
livello concettuale dei compiti dei comunisti in occasione
delle elezioni per la selezione del personale volto a
dirigere
uno Stato imperialista
Da un punto di vista oggettivo le elezioni sono, al contempo, secondo le celebri definizioni di Marx e di Engels, uno strumento per stabilire quale componente della classe dominante avrà per un certo numero di anni la direzione del paese e uno strumento essenziale, un termometro atto a misurare il livello della coscienza di classe. Dal primo punto di vista dunque, nello Stato inteso come sovrastruttura della dominante struttura del modo di produzione capitalistico, le elezioni servono a definire la forma che assume la dittatura della borghesia. In effetti, secondo la nota concezione marxista dello Stato, quest’ultimo rappresenta la forma del dominio a livello strutturale, economico sociale, della classe dominante e del suo blocco sociale sulle classi subalterne. Da tale punto di vista, quindi, la democrazia è effettuale solo all’interno della classe dominante e del suo blocco sociale, mentre nei riguardi delle classi subalterne rappresenta la forma di dominio del nemico di classe.
Perciò appare evidente che il risultato delle elezioni abbia un significato più formale che sostanziale dal punto di vista delle avanguardie delle classi sociali subalterne.
Prefazione al libro di Fabio Massimo Parenti, Il socialismo prospero. Saggi sulla via cinese, Novaeuropa edizioni, 201
Un nuovo libro sulla
Cina? Non
ce ne sono già tanti ed essi non crescono a vista d’occhio?
Non c’è dubbio: la Repubblica popolare cinese non cessa di
attrarre l’attenzione del mondo intero. Dopo aver liberato
dalla miseria centinaia e centinaia di milioni persone – un
processo per la sua
ampiezza e la sua rapidità senza precedenti nella storia –
il grande paese asiatico sta ora bruciando le tappe dello
sviluppo
tecnologico. E ancora una volta, i risultati conseguiti o
che si profilano all’orizzonte sono di portata storica: il
monopolio dell’alta
tecnologia per secoli detenuto dall’Occidente capitalistico,
che spesso se ne è servito per assoggettare o tiranneggiare
il resto del
mondo, sta dileguando; si stanno realizzando le condizioni
oggettive per la democratizzazione delle relazioni
internazionali, alla quale peraltro
continuano ostinatamente ad opporsi l’imperialismo e
l’egemonismo.
La rinascita di un paese di civiltà millenaria, dopo la più grande rivoluzione anticoloniale della storia, mette in crisi i luoghi comuni di cui è intessuta la campagna anticinese portata avanti dal potere e dall’ideologia dominanti a livello internazionale. La Cina avrebbe fondato il suo prodigioso sviluppo sullo sfruttamento del lavoro a basso costo? Quante volte ci siamo imbattuti in questo ritornello?
di Quarantotto
1. Mi limiterò a
fornire alcuni punti
di riferimento per orientarsi sulle tensioni cui sono
sottoposti gli Stati nazionali e sulle finalità strategiche,
cioè perseguite
attraverso tappe graduali "tattiche", programmatiche ed
efficienti, cui mira la creazione di queste tensioni.
Anche solo partendo dalle fonti qui utilizzate chiunque può effettuare una ricerca e trovare una quantità sterminata di conferme su ulteriori fonti documentali, che rinviano a vicenda nel comporre un quadro altamente coerente e univoco.
2. Cominciamo da un passaggiogià riportato e tratto da una fonte USA (per quanto "critica"):
C'è un altro aspetto, meno ovvio, del proliferare di istanze separatiste in Europa, di cui ha parlato Karel Vereycken, ex portavoce elettorale di Jacques Cheminade, in un'intervista per Sputnik il 6 ottobre. Per gli irriducibili euristi nella tradizione di Leopold Kohr, un sodale di Winston Churchill, "i grandi stati nazionali europei devono essere frantumati in piccole entità di 5-8 milioni di abitanti, per far sì che la popolazione europea accetti un superstato sovrannazionale UE", ha spiegato Vereycken. "Questo vale sia per la Catalogna sia per molte altre regioni, tra cui le Fiandre, la Scozia e la Lombardia".
Questo fine
settimana si concluderanno le
nostre celebrazioni del centenario della Rivoluzione
d’Ottobre. Un ricordo inevitabile e necessario, che è
proseguito lungo due linee
guida: da una parte, organizzando iniziative specifiche
sull’Ottobre – assemblee, art work, dibattiti, lavori
editoriali, manifesti,
scritte, striscioni; dall’altra, cercando di far vivere il
senso della Rivoluzione dentro la nostra attività politica
quotidiana. Un
tentativo oggi maledettamente difficile vista la profonda
inattualità che subisce l’idea stessa di rivoluzione, di
cambiamento, di
rottura. Sono d’altronde questi i tempi che ci sono stati
dati in sorte, e se il presente ha assunto l’aspetto della
distopia reazionaria
è anche responsabilità nostra. In questo anno si sono
accavallati multiformi ricordi della Rivoluzione. Ognuno,
inevitabilmente, ha
rievocato il suo modo di intendere l’evento centrale del
XX secolo. La politica e il giornalismo liberale, forti
dello scampato pericolo, ne
hanno celebrato la distanza storica ormai (apparentemente)
incolmabile, tirando il classico sospiro di sollievo,
lasciandosi anzi andare alle
concessioni tipiche di chi sa di non avere più niente da
temere. La cultura e la politica ancora comunista si è al
contrario adeguata
all’anniversario inaggirabile. Purtroppo, nel nostro come
negli altri casi, si è trattato di celebrare un evento
storico disattivato. Il
senso della Rivoluzione, ovviamente, vive nelle lotte di
classe e non nelle mummificazioni celebrative. Eppure
andava celebrata, fosse solo per
ostinazione. In tal senso, oltre che invitare tutti a
passarci a trovare questo fine settimana, pubblichiamo qui
di seguito l’introduzione che
il Comitato per le celebrazioni dell’Ottobre ha scritto
per la ripubblicazione del piccolo capolavoro di Lukács,
Lenin. Un testo, tra i
tanti, fuoriuscito dai radar dell’interesse militante, e
tuttavia proprio per questo utile a chiarire il
significato storico-politico
dell’azione di Lenin nella Rivoluzione. Buona lettura.
Dal
prestigioso blog
di macroeconomia di Nouriel Roubini EconoMonitor
traiamo un’autorevole analisi su uno dei concetti forse
più trascurati della
teoria macroeconomica keynesiana, la preferenza degli
agenti economici per la liquidità. Questo concetto viene
rivalutato qui come una chiave
di lettura utile per spiegare la persistenza dell’attuale
crisi economica globale, e le misure raccomandate da
Keynes per una tale
eventualità, se applicate, vengono indicate come la
soluzione più rapida ed efficace per stimolare
un’autentica ripresa.
Sfortunatamente questo concetto, sommerso dalla
predominanza di politiche mainstream di stampo liberista,
e trascurato anche dai fan keynesiani
dell’ultima ora, non si è ancora affermato come sarebbe
auspicabile, né le politiche raccomandate sono state mai
applicate. Per
questo motivo riteniamo importante aprire anche qui un
dibattito che possa accendere i riflettori sull’argomento.
* * * *
“Il fantasma di John Maynard Keynes…torna a perseguitarci”, così commentava Martin Wolf (2008) alla vigilia della crisi finanziaria globale, individuando nelle lezioni del padre della macroeconomia la strada migliore per comprendere la crisi e ristabilire la salute dell’economia mondiale.
La gravità della crisi ha effettivamente convinto molti economisti a rivalutare gli insegnamenti di Keynes, che per decenni erano scomparsi dalla teoria e pratica economica mainstream.
Breve dossier sul contesto storico che diede vita alla “magna charta del sionismo”secondo la definizione di David Lloyd George
Che gli interessi
cancellino la morale,
coprendo con i termini giusti la sua cancellazione, è cosa
risaputa. Qualunque Stato, democratico o totalitario,
repubblicano o monarchico,
reazionario o progressista ha sempre chiamato diplomazia
le azioni a tutela dei propri interessi e “grande
diplomatico”
colui che per gli interessi dello Stato sapeva andare al di
sopra della morale guadagnandoci addirittura onori e gloria.
Un’occhiata alla
biografia del grande M. de Talleyrand servirebbe ai tanti
che fanno gli stupiti di fronte alle alleanze mutevoli che
ci consegna la cronaca prima di
trasformarsi in storia.
Ma la signora Theresa Brasier – meglio conosciuta col nome maritale di May, come ben si addice al suo essere leader del partito conservatore – è ben lontana dalla figura di Talleyrand e non va solo oltre la morale, ma anche contro quel minimo di pudore che si potrebbe definire semplicemente buongusto.
La signora Theresa May, attuale Primo ministro del Regno Unito, possiamo ben dire “senza pudore” sta infatti organizzando solenni festeggiamenti per un anniversario che segna una svolta tragica nel mondo mediorientale e, indirettamente, nel mondo tutto. Un anniversario che segna una macchia di vergogna sulla Corona inglese e che dovrebbe indurre l’attuale governo non a festeggiare, bensì a chiedere scusa al popolo palestinese per l’errore fatto cento anni fa.
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Cosa
unisce
l'Europa del 1848, il Biennio rosso 1916-17 con l’epica e
poi tragica rivoluzione sovietica, in seguito la tedesca
1918-19 e successivamente la
straordinaria cinese (1946-49), con consecutive rivolte di
liberazione nazionale degli anni '50 e '60, sfociate a loro
volta negli anni sessanta e
settanta in straordinari movimenti sociali mondiali,
soprattutto giovanili? Possono essere interpretate come
tappe significative di maturazione dei
potenziali di riscatto dell’umanità.
Si tratta cioè di momenti storici appassionanti che si contrappongono all’allarmante sfondo di un quadro sempre più sconcertante e devastatore, quanto mondialmente concatenato: quello del modello di sviluppo umano ormai dominante da vari secoli e chiamato capitalismo. Per far fronte al quale appare sempre più indifferibile il recupero e la valorizzazione di alcune solide e indispensabili chiavi di conoscenza e coscienza per le ormai indifferibili ribellioni. Chiavi teoriche e politiche, per cominciare, ma anche o forse soprattutto culturali. Oltre all’impellente ricerca di altre nuove o inedite. Il più possibile valide, accessibili ed efficaci per rafforzare decisive ondate di emancipazione e liberazione. Che rinasceranno inevitabilmente, e che è ormai indispensabile trasformare in risolutive, di fronte alla crescita ormai quasi esponenziale di degradazioni di ogni tipo causate dal capitalismo.
Le teorie hanno due
nemici impenitenti,
le contraddizioni tra teorie e piccoli fatti e i grandi
fatti fuori teoria. Il primo nemico lavora di guerriglia
accumulando anomalie fino a che
c’è una rivoluzione paradigmatica che impone il cambiamento
delle teoria. Quella nuova si troverà di nuovo con la stesso
problema
e con lo stesso esito finale ma per un certo tempo sarà
vigente perché più “adatta”. Il secondo nemico invece
convive
con la teoria dominante semplicemente spartendosi le aree di
dominio. In sostanza le teorie hanno una vigenza locale,
presuppongono un universale da
una particolare, almeno fino a che eventi di contesto non
rendono impossibile ignorare questo altro mondo in cui
quella teoria incontra grandi fatti
del tutto alieni ai suoi paradigmi. Questo secondo caso è
quello del nuovo incontro tra mondo occidentale e mondo
cinese. La Cina è un
grande fatto fuori teoria per i paradigmi occidentali e
quindi anche il reciproco, tant’è che i cinesi, quando usano
concetti provenienti
dal linguaggio-pensiero occidentale, ci tengono a
specificare la dicitura “con caratteristiche cinesi”. Quali
sono queste
“caratteristiche cinesi”?
Dal 221 a.C., la Cina è un sistema unico, ovvero che ha una sua omogeneità interna maggiore di quanto non abbia col suo esterno. La cultura cinese ha alcuni paradigmi inviolabili, uno di questi è la sua longeva sostanziale unità interna che guarda al periodo di poco più di duecento anni precedente il -221, detto degli “Stati combattenti”, come ad un paradigma assolutamente negativo.
Marx
è considerato il principale studioso e teorico del
proletariato di fabbrica, cosa indubbiamente vera ma molto
più complessa di quanto si
pensi ordinariamente. Lo studio delle comunità contadine
occupa un posto rilevante nei suoi lavori, per certi aspetti
è un tema che
attraversa tutta la sua opera, venendo a trovare nelle
riflessioni sulla Russia un esito sorprendente e
sconcertante. Il procedimento che adotta
è storico e teorico, la spinta a concettualizzare attraverso
quadri sintetici che abbracciano intere epoche è
costantemente sorvegliata
da verifiche puntuali, perché – come dirà ai suoi
interlocutori russi – eventi di sorprendente analogia ma che
si verificano
in contesti diversi producono esiti del tutto differenti.
L’intera ricerca è ispirata dalla ricostruzione della
genealogia del capitale,
del suo sviluppo e presa sulla società. In tale percorso si
registra una dislocazione, un cambiamento non privo di
contraddizioni e
ripensamenti, nella posizione di Marx sul capitalismo e la
rivoluzione.
In una prima fase, esemplificata dal Manifesto, Marx e Engels si esprimono per il più rapido sviluppo del capitalismo inteso come passaggio necessario e precondizione della rivoluzione proletaria (un certo marxismo condivide anche oggi analogo atteggiamento).
Qui la prima parte
1.
Abbiamo finora visto che lo stato, non solo nei momenti di crisi ma anche in quelli di relativa quiete, è essenziale all’esistenza del capitalismo e che quindi il concetto di stato fa parte del concetto stesso di capitale. Abbiamo inoltre visto che la guerra non è per nulla l’effetto della sovrapposizione della logica bellicista degli stati a quella “pacifica” del commercio, ma è la prosecuzione con mezzi statuali di una logica feroce di dominio che nasce dall’economia capitalista. Dobbiamo ora chiederci quale sia l’interno funzionamento dello stato capitalistico: che cosa è, insomma, lo stato? Se si pensa lo stato come un insieme di istituzioni pubbliche che, governato da uno o più enti formalmente preposti al compito di direzione, ha piena sovranità su un territorio e su tutte le classi che lo abitano ed esercita tale sovranità attraverso leggi rese efficaci, in ultima istanza, dalla forza militare, se lo si pensa cioè come una realizzazione della modellistica politologica, hanno buon gioco coloro che dichiarano morto o inefficace lo stato perché la globalizzazione ha dissolto la sovranità, il caos ha moltiplicato i centri di potere invisibili o informali, i capitali sfuggono ad ogni controllo e la complessità ha reso inefficace la legge universalistica rispetto ai patti della governance e alla microfisica del potere.
Confesso di essermi
documentato poco
sui referendum autonomisti del Lombardo-Veneto. Perché, lo
confesso, non mi interessavano. Confesso anzi che fino a
ieri li reputavo
irrilevanti, nel bene e nel male, salvo chiedermi come
avrebbe reagito l'elettorato cispadano e quanto l'iniziativa
avrebbe danneggiato - e quanto
giustificatamente - la credibilità delle aspirazioni
nazionali dei suoi promotori. Fino a ieri, appunto. Poi ho
ascoltato il commento di Roberto
Maroni alla giornata elettorale e mi si è accesa una
lampadina, anzi una sirena antiaerea:
... è un sistema perfetto. Quindi è il futuro. Abbiamo sperimentato il futuro per l'Italia, per il sistema di voto che potrà essere utilizzato in qualunque elezione e io chiederò, ho già annunciato e preannunciato al ministro Minniti, che già le prossime elezioni in regione Lombardia possano utilizzare questa procedura. Abbiamo garantito oggi che funziona in tanti seggi diversi e in tante modalità operative diverse e abbiamo dimostrato che è sicuro.
E ancora:
Diciamolo:
la sovranità
nazionale è diventata irrilevante nell’economia
internazionale sempre più complessa e interdipendente.
L’approfondirsi della
globalizzazione economica ha reso i singoli Stati sempre più
impotenti nei confronti delle forze del mercato.
L’internazionalizzazione
della finanza e la crescente importanza delle grandi aziende
multinazionali hanno eroso la capacità dei singoli Stati di
perseguire
autonomamente le politiche sociali ed economiche, in
particolare quelle progressiste, e di offrire prosperità ai
propri popoli. Pertanto, la
nostra unica speranza di conseguire qualsiasi cambiamento
significativo è che i paesi “riuniscano” la loro sovranità e
la
trasferiscano in istituzioni sovranazionali (come l’Unione
Europea) che siano sufficientemente grandi e potenti da far
sentire la loro voce,
riguadagnando così a livello sovranazionale quella sovranità
che è stata persa a livello nazionale. In altre parole, per
preservare la loro “reale” sovranità, gli stati devono
limitare la loro sovranità formale.
Se questi argomenti suonano familiari (e persuasivi), è perché li abbiamo ascoltati per decenni. I progressisti spesso sottolineano come il neoliberismo abbia comportato (e comporti) un “ritiro”, un “approfondire” o uno “spogliarsi” da parte dello stato, cosa che a sua volta ha alimentato la nozione che oggi lo stato è “sopraffatto” dal mercato. Questo è comprensibile, considerando che la filosofia politica ed economica di ideologi d’avanguardia come Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno sottolineato il ridotto intervento dello Stato, i mercati liberi e l’imprenditorialismo.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Il
testo che segue,
elaborato a partire da “Lavoro mentale e classe operaia”
di Guglielmo Carchedi, costituisce il tentativo di
sviluppare un punto di vista
politico sull’argomento. Per questo abbiamo organizzato la
presentazione di tale saggio dentro lo spazio occupato “Ci
Siamo”, in via
Esterle a Milano, come parte delle attività che vede
coinvolta la Rete Solidale insieme ad un gruppo di
immigrati arabi e africani, in un
percorso di lotta sulle tematiche dell’immigrazione e del
lavoro.
Portare questo dibattito all’interno di tale realtà non è stato semplice. Questo ci ha permesso un originale esperimento: provare a parlare, all’interno della scuola popolare di italiano che si tiene in quella sede, di alcune categorie base della teoria marxista, rendendole semplici e comprensibili, adatte ad essere oggetto di un dibattito tra italiani e immigrati. Il tutto tradotto simultaneamente in tre lingue, inglese francese ed arabo. I risultati di questo momento “propedeutico” hanno di gran lunga superato ogni aspettativa. Siamo partiti dall’esempio concreto del bracciante agricolo raccoglitore di frutta, per definire parole come “sfruttamento”, “plusvalore”, “capitalista”, “proletariato”. Da questa base abbiamo parlato degli effetti della meccanizzazione, della competizione al ribasso tra lavoratori, delle delocalizzazioni, dei licenziamenti, dello sciopero e delle lotte.
Rossana Cillo (a cura di), Nuove frontiere della precarietà del lavoro, Stage, tirocini e lavoro degli studenti universitari, Venezia, Ed. Ca’ Foscari, 2017, pp.296, free access
La risposta
di
Renzi allo sciopero con cui gli studenti, venerdì 13 ottobre,
sono scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro le
forche caudine
della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” introdotta obbligatoriamente
dalle regole della sedicente “buona-scuola”,
non si è fatta attendere: ha proposto che il servizio civile,
attualmente volontario, divenga obbligatorio, per un mese, per
tutti i giovani.
Una contromossa, come si vede, che suona come provocatoria
verso le richieste del movimento studentesco.
A questo punto, quello curato dalla Cillo è un libro necessario. Le analisi che i diversi autori presentano, e che costituiscono il primo approccio scientifico ad un mondo ancora in larga misura sconosciuto, diventano infatti in questo contesto un’arma contro l’ignobile retorica sulla “formazione” di competenze atte a risolvere il problema della disoccupazione giovanile con cui questo cinico abuso della forza lavoro viene paludato. Malgrado tutte le difficoltà nel reperire i dati, che nessuno ha interesse a raccogliere e soprattutto divulgare, difficoltà che gli autori non sottacciono, il volume riesce nell’impresa di fornirci un quadro sufficientemente ampio e chiaro della dimensione del fenomeno e delle modalità con cui irreggimenta masse crescenti di giovani dietro il miraggio di un accesso al mondo del lavoro.
Due note sui risultati dei referendum
in
Veneto e Lombardia, senza ripetere quanto abbiamo già detto in
precedenti prese di posizione.
1. L'esito del voto era scontato, dato che l'intero arco delle forze istituzionali era a favore del Sì (con lievi mal di pancia nel Pd e in Fratelli d'Italia). L'analisi del voto dice che la prospettiva autonomista ha più consenso in Veneto che in Lombardia, più seguito nei comuni minori e periferici che nelle città, e soprattutto nella sola metropoli dell'area (Milano). A favore di questo risultato hanno giocato fattori storici, economici (la crisi ha colpito più duro in Veneto che in Lombardia, e lo scontento sociale è più diffuso) e culturali - le linee di fuga localiste e regionaliste hanno maggiore presa là dove minore è il contatto diretto con il capitalismo globale, e più forte resta la illusione antistorica di poter vivere meglio "chiusi". Almeno in Veneto, poi, hanno avuto il loro peso sul risultato il nettissimo schieramento per il Sì delle strutture della Chiesa cattolica, e un sentimento di rivalsa venetista nei confronti dei 'lombardi' presente dentro la Lega e nelle piccole ma attive aree autonomiste-indipendentiste. Insomma: il passato pesa come un incubo sul cervello dei viventi.
Le condizioni oggettive e soggettive che rendono possibile attuare una Rivoluzione
Come qualsiasi processo rivoluzionario, anche la Rivoluzione d’ottobre ha inevitabilmente prodotto una profonda rottura del corso storico. Ciò ha offerto il fianco – sin dal primo grande critico della rivoluzione: Edmund Burke – all’accusa ai rivoluzionari di aver sconsideratamente violato in maniera soggettivistica e, dunque, in modo brutale e arbitrario lo sviluppo naturale del corso del mondo che avrebbe finito con il risolvere da sé, nel processo del suo progressivo sviluppo, in modo gradualistico le proprie contraddizioni interne.
Di questa, che può essere considerata ancora oggi la madre di tutte le critiche [1], si sono giovati i protagonisti dell’Ottobre per distinguere nel modo più netto una grande Rivoluzione da un necessariamente fallimentare putsch, ovvero da un colpo di mano di una fazione politica armata per impadronirsi con la forza del potere. Un putsch è in quanto tale condannato, presto o tardi, all’insuccesso in quanto non è in grado di interpretare, facendolo emergere, un bisogno reale in grado di far insorgere le masse dei subalterni. In effetti l’esito positivo, nei tempi necessariamente lunghi della storia, di un processo rivoluzionario non può dipendere da un complotto, per quanto ben congegnato, di un manipolo di sovversivi, come immaginavano rivoluzionari romantici e utopisti come Carlo Pisacane, Auguste Blanqui o Michail Bakunin.
I responsabili degli affari legali di tre delle più importanti compagnie informatiche americane sono apparsi questa settimana di fronte alle commissioni per i Servizi Segreti di Camera e Senato del Congresso di Washington nell’ambito delle assurde indagini in corso sulle cosiddette “fake news” e sulle presunte attività di propaganda russe per influenzare il processo elettorale negli Stati Uniti.
Le audizioni, tenute tra martedì e mercoledì, si sono svolte in un clima surreale, nel quale deputati e senatori di entrambi i partiti hanno di fatto invitato i rappresentanti di Google, Facebook e Twitter ad adottare metodi di censura palesemente incostituzionali per reprimere opinioni politiche e punti di vista “estremisti”, invariabilmente collegati a operazioni condotte dal governo di Mosca.
La tesi della classe politica USA è in sostanza quella che agenti russi avrebbero innestato nel dibattito politico americano argomenti di discussione controversi e in grado di creare divisioni nell’opinione pubblica, infiammando così artificiosamente le tensioni nel paese fino a mettere in pericolo un sistema democratico altrimenti pressoché immacolato.
Il corollario di questa argomentazione è che soltanto i media ufficiali, sostanzialmente allineati al governo e all’apparato militare e dell’intelligence americano,
Dopo più di un anno di insistenza sulle reticenze egiziane (versati fiumi di inchiostro in proposito), Carlo Bonini, con un articolo pubblicato sulla Repubblica del 2 novembre, si accorge che il caso Giulio Regeni presenta un altro lato oscuro, che è quello delle reticenze britanniche. Che poi è il punto decisivo della vicenda, se è vero, come è vero, che il pesce puzza dalla testa. Bonini basa il suo pezzo sulla rogatoria internazionale prodotta dai magistrati italiani ai quali Cambridge non ha mai risposto.
Il ragazzo era stato inviato in Egitto dal suo tutor, la professoressa Maha Mahfouz, docente presso il Dipartimento degli studi delle politiche internazionali dell’American University con particolare riguardo al Medio oriente.
L’aveva incontrata a Cambridge, dopo «un’esperienza lavorativa presso la Oxford Analytica», e aveva concordato con lei il nuovo campo di ricerca: i sindacati egiziani.
Questa la spiegazione generica che la professoressa
fornisce agli inquirenti italiani, «salvo omettere di
chiarire se l’oggetto
originario fosse genericamente il mondo dei sindacati e
non quello, specifico, dei “sindacati indipendenti”,
motore della rivolta di
piazza Thair
».
Un ambito che il governo egiziano monitora con sospetto dal momento che è un brodo di coltura ideale per una nuova rivolta egiziana, stavolta contro il presidente al Sisi.
L’asse tra Iran e Russia non è soltanto militare e questo dato è risultato ancora più evidente durante la visita di Putin a Teheran, quando il presidente russo ha incontrato il leader iraniano Rohani e il presidente dell’Azerbaijan in un vertice trilaterale di fondamentale importanza per il futuro dell’Eurasia. Tra Teheran e Mosca si è andata instaurando nel tempo una cooperazione che travalica la sola – per quanto fondamentale – alleanza militare nel conflitto contro lo Stato islamico, ed è divenuta nel tempo un complesso sistema di partnership di natura politica ed economica. Del resto, negli ultimi tempo, Russia e Iran si sono spesso trovati nello stesso blocco geopolitico e la loro cooperazione è stata molto spesso cercata, ma anche sostanzialmente obbligata dalle scelte di politica estera di alcuni importanti competitor internazionali. La guerra in Siria non ha fatto altro che rinsaldare questo rapporto, sia in funzione di controllo del Medio Oriente, sia in ottica di contenimento del terrorismo islamico, sia in ottica di opposizione alle logiche espansive degli Stati Uniti e dei partner regionali di questi ultimi.
Il vertice trilaterale tra Russia, Azerbaijan e Iran si è incentrato, tra le altre cose, su un progetto infrastrutturale che potrebbe cambiare in maniera sensibile la geoeconomia del Medio Oriente e della ‘Asia centrale: il North–South Transport Corridor, un corridoio infrastrutturale ideato sulla falsariga della Nuova Via della Seta
Una provvida inchiesta giudiziaria della Procura di Firenze è giunta tempestivamente a conferire spessore ed alone di persecuzione al ritorno del Buffone di Arcore nell’agone politico. L’inchiesta giudiziaria è servita ad infiammare nuovamente il popolo arcoriano ed a convincere i dubbiosi della fiaba sull’immutabile carisma del suo leader, al quale gli avversari della “sinistra” saprebbero opporre soltanto attacchi delle “toghe rosse”.
Il 19 ottobre scorso, nello scenario del parlamento europeo, si era svolta la conferenza-stampa con la quale il Buffone di Arcore aveva celebrato ufficialmente il suo rientro nello scontro elettorale. La buffonata ha assunto il rango di un vero e proprio rituale collettivo, poiché i politici e i media hanno fatto finta di non accorgersi della finzione. Più senile e demente del solito, il Buffone ha offerto uno spettacolo penoso, riuscendo a condurre la conferenza stampa soltanto con il sostegno di una badante seduta alla sua destra.
L’ennesimo riciclaggio del Buffone, stavolta in chiave “europeistica”, ha assunto toni grotteschi allorché lo stesso Buffone ha intrattenuto l’uditorio sulla consueta fiaba dei “settanta anni di pace” garantiti dall’unità europea. È significativo che la fiaba sia stata riproposta proprio da lui che, nel 2011, come Presidente del Consiglio assistette inerte e inerme all’attacco franco-britannico ad interessi italiani in Libia.
In
occasione del
Centenario della Rivoluzione d’Ottobre, si sta
opportunamente riaprendo la discussione sul significato e il
valore storico di quella
straordinaria svolta che ha segnato di sé l’intero XX secolo
e che si riflette, per alcuni aspetti, a partire dal
mutamento dei rapporti
di forza tra aree del mondo, sulla nostra stessa
contemporaneità.
In questo quadro è essenziale approfondire il significato ma anche i problemi di quella esperienza. Se l’obiettivo della Rivoluzione socialista era quello di sottomettere i meccanismi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata delle masse, in vista del benessere collettivo, Lenin fu sempre consapevole della difficoltà di tale sfida, in particolare in un paese arretrato come la Russia del 1917.
La consapevolezza di tale difficoltà andò crescendo nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere, senza però trasformarsi mai in una diversa valutazione sulla svolta dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo la giustezza della scelta fatta, l’opportunità di aver colto il momento, di aver sfruttato al meglio le possibilità offerte da una eccezionale contingenza storica.
All’indomani dell’Ottobre, Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di “sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel campo dell’organizzazione.
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Il peggior servizio
che si possa prestare a un
grande evento sociale, di portata storica, come quello in
Russia nei primi anni del XX secolo è di renderlo un mito. I
miti la storia li
disvela per quel che sono, crollano evidenziando l’imponenza
del grande evento.
La rivoluzione russa non comincia nel 1917, ma nel 1861, con la cosiddetta abolizione della servitù della gleba. Si trattava di un’abolizione formale – nel senso che il bracciante agricolo non era più vincolato al diritto di proprietà del padrone del fondo feudale. Sul piano sostanziale però i servi avevano avuto la possibilità di acquistare pezzi di terra – i peggiori ovviamente – e a condizioni capestro sia dallo Stato che dagli ex proprietari. In questo modo i servi divenuti formalmente titolari di un lotto di terra erano costretti a pagare la quota per l’acquisto o allo Stato, o all’ex proprietario, o alle banche che avevano finanziato l’acquisto. Il povero contadino non potendo pagare in moneta era costretto a pagare in natura e dunque lavorava il proprio pezzo di terra il cui raccolto doveva servire per pagare una parte dei debiti; e per pagare l’altra parte dei debiti era costretto – unitamente ai propri familiari a lavorare la tenuta del pomescik, cioè l’ex proprietario. Nel corso degli anni accadde che la gran parte degli ex servi della gleba furono costretti a vendere la terra agli aristocratici o ai contadini ricchi come i kulaki e a essere di nuovo sottomessi al lavoro dei campi come braccianti piuttosto che come servi, questa era l’unica differenza tra la vecchia servitù della gleba e la nuova che si era andata sviluppando.
Sulla
pagina on
line “Italia
e il
Mondo”, è uscito un articolo dal titolo “Due
appelli, due
Europe” del mio amico Roberto Buffagni nel
quale è presente una interessante lettura di due diversi
appelli, usciti negli ultimi
tempi, nel campo conservatore, sul destino
dell’Europa. Sono molto diversi, decisamente opposti: il primo
parla di
‘progetto’, il secondo
di uno scontro nel quale
è in campo il ‘proprio sé’. Il primo è stato scritto da una
importante istituzione
che ha sede a Bruxelles
e finanzia azioni politiche e culturali per la promozione
della democrazia, fornendo quelli che chiama “finanziamenti
veloci e
flessibili”; ne fanno parte politici come Elmar Brok
(CDU), Andrej Grzyb (PP), Bogdan Wenta (PPE), Cristian Preda
(PPE), Pier Antonio
Panzieri (PD), Alexander Lambsdorff (Partito Liberale),
Elena Valenziano Martinez-Orozco (PSE), Mark Demesmaeker
(conservatori e riformisti) e Tamas
Meszerics (Verde ungherese). Il secondo da un gruppo di
intellettuali accademici caratterizzati da una netta
prevalenza dei filosofi politici e
dall’essere conservatori di chiara fama.
La prima Dichiarazione chiama all’azione culturale e propagandistica (il campo del proponente) per la “democrazia”, ma intende una specifica connotazione del termine, la seconda ad una battaglia egemonica contro l’utopia di un mondo globalizzato, in cui le nazioni si dissolvano progressivamente in una utopistica unità multiculturale (ovvero, tradotto in termini realistici, siano inquadrate senza resti in un’unità imperiale).
Secondo appuntamento con i materiali del convegno Gramsci in translation promosso a Bruxelles, 18 e 19 ottobre, dal Gue-Ngl e dall’International Gramsci Society, con il coordinamento dell’europarlamentare italiana Eleonora Forenza. La pubblicazione degli interventi proseguirà su Popoff nei prossimi giorni
Gramsci in translation/2 Pensieri lunghi, ritmi lenti, cammini tortuosi e ripidi. Cose diametralmente opposte alle scorciatoie e le compulsioni della tentazione populista.
Il pessimismo è il grigio riflesso dei tempi oscuri che viviamo. Walter Benjamin sosteneva che lo si doveva organizzare, il che equivale a dire che bisogna politicizzarlo, dargli senso e proiezione affinché generi coscienza e mobilitazione.
Il pessimismo organizzato e politicizzato può essere un antidoto efficace alla tentazione populista la quale, aldilà del dibattito sul suo contenuto, si presenta come una forma di generare speranze e illusioni, creare e prendere scorciatoie per conquistare il potere politico. Una forma non populista di fare politica di sinistra anticapitalista, senza scivolare nel settarismo e limitarsi a un ruolo semplicemente testimoniale, richiede di pensare in modo antitetico le forme, i territori e i ritmi della lotta.
In corrispondenza al dispositivo di Laclau, il populismo e la versione populista di rivoluzione passiva promuovono una precaria e in gran misura immaginaria costruzione del soggetto popolo per abilitare una rapida
Per lungo tempo si sono potute distinguere le valute del mondo in tre distinte categorie: (i) la moneta leader, tipicamente appartenente alla potenza imperialista principale, oggi gli Stati Uniti, considerata "buona come l'oro" dai possessori dei patrimoni mondiali; (ii) le altre valute della metropoli imperialista in base alle quali i possessori di patrimoni mondiali detenevano parte della loro ricchezza, ma che, proprio per non essere considerate "buone come l'oro", dovevano mantenere un certo valore stabile nei confronti della moneta principale attraverso il perseguimento di appropriate politiche macroeconomiche, comprese le politiche di contrattazione nei rispettivi paesi; e (iii) le valute del terzo mondo che, a prescindere dalle politiche macroeconomiche perseguite, erano destinate generalmente al deprezzamento nel tempo del loro valore relativo nei confronti dei suddetti due gruppi di valute, sia in termini nominali che in termini reali (anche quando fossero presi in considerazione i tassi differenziali di inflazione tra questi paesi e le economie metropolitane); per cui i possessori di patrimoni evitavano di detenere una parte della loro ricchezza in quelle valute e se i ricchi locali dei paesi in parola, lo hanno fatto, ciò è dovuto a inerzia o coercizione (ossia l'esistenza di un sistema di controlli che ponevano restrizioni allo spostamento della ricchezza all'estero).
A che punto è la notte dell’economia italiana? Il primo libro di Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento (edito da Laterza – Tempi Nuovi), è un viaggio nel disastro del mercato del lavoro italiano, uscito con le ossa rotte da una crisi che per molti versi ancora non è finita.
Fana è un’economista e ha di recente completato un dottorato all’Università Sciences Po di Parigi. Un suo articolo dell’agosto del 2015 sul Manifesto a commento dei dati sull’occupazione rivelò un clamoroso errore di calcolo (chiamiamolo così) del Ministero del Lavoro guidato da Giuliano Poletti, che aveva pubblicato cifre gonfiate sui nuovi contratti attivati e su quelli cessati. Da allora si è imposta molta più attenzione sulle cifre sull’occupazione fornite da INPS, ISTAT e Ministero del Lavoro, tant’è che oggi è davvero difficile negare l’effimero effetto del Jobs Act, che è servito a gonfiare le tasche del solito capitalismo straccione italiano, mentre la spinta sui nuovi contratti a tempo “indeterminato” con assai meno tutele si esauriva non appena terminati gli incentivi fiscali.
Fana intanto ha continuato a scrivere per quotidiani e riviste, proponendo oltre a valide analisi quantitative anche un’eccellente cronaca di alcune delle vicende più significative dello scontro fra capitale e lavoro in Italia negli ultimi anni, come l’omicidio padronale dell’operaio della logistica e delegato sindacale USB Abd Elsalam.
Nelle ultime settimane, il dibattito sull’euro si è acceso anche in quei paesi, come l’Ungheria, che non fanno parte dell’eurozona ma che nel trattato di adesione si sono formalmente impegnati ad adottare la moneta unica. A settembre, un partito di recente formazione ha ottenuto l’adesione di un centinaio di economisti ungheresi di diverse tendenze politiche ma accomunati da una visione sostanzialmente prona ai cosiddetti interessi “europei” con l’idea di un referendum sull’introduzione dell’euro. Lo slogan dell’iniziativa è chiarissimo: “Chi è contro l’euro è contro l’Europa”. L’euro è visto da ampi settori dell’opposizione politica e intellettuale liberal-socialista (ascrivibile all’area “progressista”) al governo Orbán come garanzia dell’aggancio del paese al futuro nucleo forte dell’Europa che si starebbe formando in seguito alle proposte del presidente francese Macron. Altri economisti, come Zoltán Pogátsa e Péter Róna, rivendicano da anni l’insostenibilità sociale del modello di rincorsa all’occidente attuato dai paesi post-comunisti, e fanno notare l’iniziativa sia basata sulla falsa premessa che la moneta unica abbia a che fare con lo stato, in verità per nulla rassicurante, della democrazia ungherese. L’argomento proposto alla società ungherese (così come, da analoghi gruppi di pressione e lobbies, a quella polacca, ceca, o romena) si fonda dunque non su considerazioni economiche (difficile da proporre in un momento nel quale questi paesi crescono in media del 4% l’anno) ma sul mito fuorviante della salvezza democratica.
Nella prima foto un ritaglio di un documento declassificato interno al dipartimento di stato USA. Testuale: “il modo migliore per aiutare Israele a contrastare il pericolo di un Iran dotato di armi nucleari è aiutare la gente della Siria a rovesciare Assad.”
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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A 100 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ci
sembra utile accompagnare il ricordo per la prima e
straordinaria vittoria duratura
della Rivoluzione con una riflessione che non si nasconde
quel che è accaduto dopo. Ma che, al tempo stesso, non cade
nel vecchio vizio di
andare a “trovare l’errore decisivo” nel comportamento di
Tizio o Caio o addirittura – come fanno i pentiti di ogni
epoca
– nell’idea stessa di Rivoluzione. Viene tracciata
un’ipotesi di ricerca storiografica, certamente complessa ma
almeno
all’altezza dell’oggetto.
A voi l’intervento elaborato da Francesco Piccioni per il convegno ‘Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere’, a dicembre 2016.
* * * *
Idee per un programma di ricerca
Se si guarda alla storia del movimento comunista, oggi, l’impressione è spesso quella di trovarsi davanti a un deserto di macerie. In cui vagano alcuni fantasmi che, se si incontrano, si mandano a quel paese…
Prefazione a Il Pedante: La crisi narrata, Imprimatur, 2017
(...come forse
saprete, e questa è la prefazione...)
C’era una volta... – Una regina! – diranno subito i miei lettori, per evitare gli strali del politicamente corretto, che trafiggerebbero senza remissione chi, cedendo a un impulso sessista, avesse d’istinto pensato al più classico “re”. No, cari amici: c’era una volta la favola, “breve vicenda il cui fine è far comprendere in modo piano una verità morale” (come riporta Google...). Ecco: questa era la favola. Si sapeva cosa fosse, si sapeva a cosa servisse: a proporre (e se del caso imporre) al destinatario una “verità morale”, che poi significa: a decidere chi fosse buono (e meritasse una ricompensa) e chi fosse cattivo (e meritasse un castigo). I genitori, o i nonni (e, naturalmente, le nonne) raccontavano favole ai bambini per farli diventare “buoni” proponendo loro esempi “virtuosi”, o almeno per farli addormentare cullandoli con la nenia di un resoconto confortevole nella sua prevedibilità. Due obiettivi (ammansire o addormentare) che, per chi gestisce il potere a qualsiasi livello (dalla famiglia all’impero), sono sostanzialmente equivalenti: entrambi assicurano che il manovratore non venga disturbato.
C’era una volta la favola, e oggi non c’è più.
[Cento anni fa, nella notte fra il 6 e il 7 novembre 2017, cominciava la Rivoluzione d’Ottobre]
Per molti
anni
(ancora adesso è così) la Rivoluzione d’Ottobre è stata per me
solo un pacchetto dis-articolato di immagini, neanche tanto
nutrito, ma molto impressionante, collegato a un pacchetto di
parole, frasi, slogan, libri da leggere mai letti, spesso
comprati annusati aperti e
furiosamente sotto-lineati, magari fino a pagina 15, e poi
richiusi per sempre, perché mi sembravano difficili oppure
troppo sollecitanti o
troppo veri.
Anche la Rivoluzione del ’17 era troppo, troppo di tutto, un troppo inconcepibile, un risultato unico & inaudito & mai più ripetibile: tutto era stato fatto con incredibile fluida semplicità: fare fuori gli avversari interni al partito, fare fuori gli avversari esterni, fucilare lo Zar, porre fine alla guerra e poi, nella mia confusione di allora (e di adesso) diventare gradualmente tutti uguali, nel senso di spartirsi le risorse equamente e secondo giustizia in un processo che avrebbe dovuto condurre una volta per tutte al completamento della Rivoluzione Francese, cioè al regno di Égalité, che però, una volta insediatasi, avrebbe automaticamente comportato la soppressione di Liberté.
Cento anni dalla rivoluzione d'Ottobre: il primo stato delle classi subalterne della storia. I bolscevichi e i lavoratori russi ebbero allora un coraggio straordinario. Essi sono stati i primi a intraprendere la strada del socialismo, senza potersi avvalere di precedenti esperienze (che non fossero i pochi e sfortunati giorni della Comune di Parigi), senza indicazioni precise che ne orientassero il cammino, con il solo ausilio dei pur preziosi principi e del metodo contenuti nella teoria di Marx e di Engels. In condizioni straordinariamente difficili, con un paese stremato da una guerra terribile, circondati e invasi da potenze imperialiste, con rapporti di produzione arretrati e una economia ancora prevalentemente agricola, nell’isolamento quasi totale per decenni, sono riusciti a resistere e a vincere. Per tutte queste ragioni, il prezzo è stato alto e i compromessi, rispetto agli ideali, molti. Ma, senza questa vittoria ora, al massimo, nei libri di storia si dedicherebbe qualche riga alla teoria di Marx, un economista dell'Ottocento. Nessuno parlerebbe del socialismo come fatto storico e reale, come sistema possibile. L’enfasi reiterata ossessivamente dai media sul fallimento e sulla brutalità dell'Urss, anche a distanza di quasi trenta anni dalla sua fine, è la dimostrazione di una debolezza e di una paura che non passa. Il peggiore incubo delle classi dominanti e del capitale, concretizzatosi con l'Urss, è che i dominati riescano a vivere e siano capaci di organizzare una società senza di loro.
Diffondiamo da Polonews del 25 ottobre 2017
1. Il Congresso del PCC del 2017 : nessun ‘nuovo Mao’
Sul piano istituzionale, che molto interessa coloro che seguono le vicende cinesi, Xi ha assestato un colpo molto importante di principio e di metodo. Senza perdersi in inutili teorizzazioni – fiumi di parole erano state scritte nelle settimane precedenti da molti cultori della prassi del ‘buco della serratura’ sul ricambio, mancato ricambio, Tizio che resta nonostante abbia 69 anni, eccetera – Xi ha introdotto nell’ufficio politico permanente cinque persone nuove e nessuno di coloro che avrebbero dovuto preparare il non abbandono di Xi è stato confermato. Dunque, nonostante il molto detto, la regole del ‘67 anni sei dentro, 68 anni sei fuori‘ è stata applicata nuovamente e questo fa capire che – almeno al momento attuale – Xi potrebbe non avere alcuna intenzione di ripresentarsi tra quattro anni.
Vitale e probabilmente positivo è stato il venire meno del rigido protocollo per cui già al momento della nomina si sapeva chi sarebbe stato colui che – verosimilmente – avrebbe ‘corso’ da nuovo premier e da nuovi segretario del partito. In breve Xi ha riportato la decisione sui futuri dirigenti della Cina a un contesto di maggiore fluidità dove il solo principio conservato sembrerebbe essere quello dell’età.
In un editoriale pubblicato sul Corriere della Sera del 2 novembre, Paolo Mieli lancia un appello a favore della causa curda. L’Occidente, spiega, ha scelto di ignorare il grido del popolo curdo, che ha combattuto e vinto l’Isis ma al quale è negato il sogno di un proprio Stato.
Si rimprovera cioè agli Stati Uniti e ai suoi alleati di aver abbandonato al proprio destino la causa del Kurdistan iracheno, che dopo un referendum sul tema ha dichiarato la sua indipendenza da Baghdad.
Mieli conclude che, nonostante l’indifferenza occidentale per questo popolo bistrattato dal destino e dai vicini, a Parigi, al cinema Le Saint-Germain, si sarebbe tenuta «una manifestazione di solidarietà nei confronti di quel popolo eroico: si intitolerà “Avec le Kurdes, plus que jamais!” e parteciperanno Bernard Kouchner, Kendal Nezan, Caroline Fourest, Bernard-Henri Lévy, il generale Hajar Aumar Ismail, Anne Hidalgo e Manuel Valls».
L’Iniziativa politica ha luogo mentre la causa del Kurdistan sembra declinare, e ciò a motivo dell’ostilità di Baghdad, Ankara e Teheran al progetto indipendentista, che temono, non a torto, sia foriero di nuova destabilizzazione ai propri confini.
Da qui la reazione di tali Paesi, che ha avuto come esito le dimissioni del presidente dell’autoproclamato Kurdistan, Masoud Barzani (vedi Piccolenote).
La sporca guerra in Libia. Quella portata avanti da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Quella che ha distrutto una nazione e che ha portato alla diffusione delle bandiere nere dello Stato islamico. Quella guerra voluta fortemente dal presidente francese Nicolas Sarkozy, preso da una smania di potere senza precedenti. Muammar Gheddafi si stava rivelando un alleato affidabile, soprattutto per quanto riguarda la lotta all’immigrazione clandestina e il terrorismo internazionale.
Nessuno riusciva a comprendere perché il presidente francese si volesse lanciare in una follia simile. Si è ipotizzato a lungo sulla guerra voluta dalla Francia. C’è il petrolio, dietro. Ci sono prestiti fatti dal Raìs a Sarkozy per sostenere la sua campagna elettorale, diceva qualcun altro. Ora un libro, firmato dai giornalisti Fabrice Arfi e Karl Laske, inchioderebbe definitivamente il presidente francese.
Repubblica, che ha potuto visionare il libro in anteprima, parla di “borse piene di banconote che viaggiano tra Tripoli e Parigi, bonifici sospetti, lettere con promesse di milioni per favorire l’ elezione dell’ allora leader della destra francese. Per capire una storia ‘che ha dell’ inverosimile ma purtroppo è reale’, come dicono Arfi e Laske, bisogna tornare al 2011, nel mezzo delle primavere arabe. Dopo la caduta dei regimi in Tunisia ed Egitto, il vento della rivolta soffia sulla Libia.
Balfour, 117 parole che compongono un crimine
Nel 1916 gli aerei degli Alleati lanciavano volantini sugli arabi chiedendo di combattere i turchi per ottenere indipendenza e libertà. Nello stesso tempo Mark Sykes in Gran Bretagna e Georges Picot in Francia restavano serrati in una stanza con una mappa del Medio Oriente a pianificare come spartirselo.
Un anno dopo Arthur James Balfour, ministro degli esteri britannico, concluse un accordo segreto con ricchi ebrei europei per facilitare l’istituzione di una “casa ebraica nazionale”, non uno stato, non nella, non della Palestina. Conservò questo accordo sotto chiave. Nel frattempo, nella primavera del 1917, le forze britanniche entrarono in Palestina e bombardarono Gaza con munizioni di gas tossici (sì) e distrussero la maggior parte dei suoi antichi palazzi, ma furono sconfitte due volte alle porte di Gaza.
La sera del 31 ottobre 1917 le forze di Allenby conquistarono Beer Sheba in un attacco a sorpresa. Le porte della Palestina si spalancarono. Allenby inviò un cablo a Londra il 1° novembre: “Abbiamo conquistato Beer Sheba. Gerusalemme sarà il tuo regalo di Natale”.
Balfour aprì il suo cassetto e il 2 novembre 1917 rese pubblico il suo accordo segreto:
“Egregio Lord Rothschild,
È mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell'ebraismo sionista che è stata presentata e approvata dal governo.
Questo articolo si basa su un saggio
scritto ormai più di trent’anni fa. Saggio che, con alcune
modifiche stilistiche minori, una conclusione rivista e
qualche aggiornamento
alle note, ripropongo qui come contributo alla comprensione
del Capitale di Marx. Le note a piè di pagina sono
numerose, in molti
casi fanno riferimento sia a pagine specifiche di un’edizione
del Capitale che alla collocazione precisa di un
passo
all’interno di un capitolo. Questo al fine di agevolare il
lettore nel rintracciare i riferimenti in altre edizioni e
nelle risorse online
(specialmente l’ottimo Marxist Internet Archive, [per la
traduzione italiana, in riferimento al Capitale, si
rimanda al sito
CriticaMente, n.d.t.]).
Dei tre libri del Capitale di Marx, il secondo, dedicato al processo di circolazione del capitale, è il più trascurato. Laddove ha riscosso una qualche attenzione, come riguardo all’utilizzo degli schemi di riproduzione per analizzare la “trasformazione” dei valori in prezzi di produzione, è stato spesso frainteso [1]. La prima sezione di questo saggio delinea il rapporto metodologico fra i tre libri del Capitale; la seconda affronta in modo più ampio gli argomenti del secondo libro e la sua relazione col primo.
Le ultime mobilitazioni
studentesche contro l’alternanza scuola-lavoro hanno avuto una
grande risonanza mediatica, anche a livello internazionale, al
di là dei
numeri di studenti effettivamente mobilitati.
Per quale motivo?
È evidente che in questo caso entra in gioco la centralità della contraddizione tra formazione, lavoro e capitale, la sua qualità strategica per i movimenti, da una parte, per il dominio di classe ordo-liberista dall’altra. Un campo di battaglia fondamentale, su cui è necessario e possibile, ancora una volta, sviluppare autonomia, rapporti di forza, percorsi di liberazione sociale. La posta in gioco è altissima e bene lo hanno compreso i governi liberisti, i media, le nuove forme di comando e sfruttamento del capitale post-fordista, con tutti i suoi apparati egemonici.
In realtà, proprio su questo nodo, la formazione della soggettività funzionale ed addomesticata ai nuovi meccanismi di accumulazione ed estrazione di plusvalore si rivela fino in fondo l’essenza della Buona Scuola.
Testo presentato al Forum «Cina e Ue. I nodi politici ed economici nell’orizzonte della “nuova via della seta” e di una “nuova mondializzazione”», Roma, 13 ottobre 2017
Perché
introdurre in questo IV forum europeo dedicato ai rapporti
Cina-UE nel quadro della via della seta e della nuova
globalizzazione il
tema della Costituzione italiana? A prima vista può apparire
fuori luogo rispetto al tema centrale.
In questo forum, gli studiosi italiani intendono fornire agli studiosi cinesi, in una pluralità di valutazioni e analisi, elementi di conoscenza critica sulla Ue, sulla sua crisi attuale e sull’origine di tale crisi. Da parte mia proverò ad individuare una possibile linea che porti ad affrontare in senso progressivo questa crisi. E in questo la Costituzione italiana può fornire una bussola fondamentale.
Che la Ue sia in crisi, che vi siano diversi elementi di criticità nella sua costruzione, credo che sia incontestabile. E credo si possa anche affermare che tale crisi non è contingente o passeggera, ma radicale, insita in profondità nelle radici stesse della costruzione europea. Gli ultimi discorsi trionfalistici sul cammino della Ue con il suo grande allargamento ad est li abbiamo ascoltati nel 2007, quando entrano a far parte della Ue, dopo il folto ingresso del 2004 di Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, repubbliche baltiche, gli altri due paesi ex socialisti, Bulgaria e Romania.
Bruno Settis, Fordismo. Storia politica della produzione di massa, Il Mulino, Bologna 2016
Auguste Blanqui – rivoluzionario e ispiratore della Comune di Parigi – in una lettera del 1852 definiva la democrazia un concetto politico ormai privo di significato, «elastico» e «gommoso». Ne evidenziava il carattere ambiguo e il fianco debole, facile bersaglio di chi perseguiva i propri privilegi, escludendo nell'anonimato gran parte del proletariato francese. 1 Elasticità, plasticità e ambiguità messe a fuoco da Bruno Settis circa il termine “fordismo” per mezzo del suo denso contributo, un celeberrimo–ismo novecentesco, che l’autore di Fordismi. Storia politica della produzione di massa (Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 302) ci suggerisce di declinare al plurale: fordismi.
Settis stringe il vasto campo della visuale sulle differenti declinazioni del fordismo nella prima metà del Novecento, ritornando da un lato alle origini (Henry Ford e Frederick Taylor), non sottraendosi dall’altro allo spinoso dibattito sul discusso passaggio da una società di matrice fordista a un’altra invece detta “post-fordista”. Su questo secondo punto, tuttavia, nelle conclusioni, l’autore lascia intendere l’esigenza di proseguire la ricerca, per approfondire lo scavo storico comparativo della policromia del concetto, anche nella seconda metà del secolo scorso.
Il 5 e 6 novembre si riunirà a Milano il G7 sulla salute. I temi all’ordine del giorno, definiti dalla ministra Lorenzin, saranno: le conseguenze sulla salute dei cambiamenti climatici, la salute della donna e degli adolescenti e la resistenza antimicrobica. Da un tale incontro non uscirà assolutamente nulla se non un semaforo verde per trarre ulteriore profitto dalla nostra salute e dalla devastazione del pianeta.
Considerato chi siederà attorno a quei tavoli non è possibile immaginare nulla di diverso. Sono gli stessi governi che in gran segreto dal 2013 stanno trattando l’accordo TiSA (Trade in Services Agreement) sugli scambi dei servizi, tra questi quelli finanziari, ma anche l’istruzione e la sanità.
Nel 2014 WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assage, ha per la prima volta rivelato l’esistenza di tali trattative. Il Tisa sarebbe il più grande accordo commerciale mai discusso: i servizi infatti rappresentano circa il 70% del Pil mondiale, che potrebbe portare, secondo una simulazione realizzata per l’Italian Trade Agency/ICE ad un possibile aumento degli scambi di servizi fra paesi aderenti all’accordo nell’ordine del 20%, quasi 400 miliardi di euro considerando i livelli del 2013.
Il 4 febbraio 2015 l’agenzia AWP Associated Whistleblowing Press (agenzia formata da giornalisti investigativi) ha reso pubblico un documento del Tisa dove si può leggere:
L’intervista rilasciata sabato scorso da Emauele Macaluso a questo giornale merita una riflessione attenta. Non solo per la grande storia di cui Macaluso è stato protagonista, onorevolmente protagonista, ma proprio perché il problema della forza dei numeri ch’egli pone è ben reale e va presa in seria considerazione anche se non si è d’accordo con le sue proposte e con la sua analisi del momento attuale.
Le riflessioni da cui muove Macaluso derivano da una parte da uno dei modi di concepire la politica di derivazione togliattiana che ha profondamente innervato tutta la vicenda storica del Pci, dall’altra da una seria preoccupazione per la rinascita impetuosa della destra italiana ed europea.
Penso di poter comprendere appieno un modo di intendere la politica che, nonostante la differenza di generazioni, è stato anche il mio. Un modo centrato sempre sulle necessità di incidere sugli equilibri politici esistenti, di stare sempre dentro, ad ogni costo, nella logica degli equilibri dati per modificarli. Un modo che rifugge da ogni comportamento da «anime belle», che avversa le piccole forze, «politicamente marginali», come si dice nell’intervista.
Un modo che è stato il pendant politico dell’«aderire ad ogni piega della società civile», uno dei capolavori strategici di Palmiro Togliatti.
Da quando il PCI non esiste più, ormai poco meno di trentanni, i richiami al senso di responsabilità verso quelle che sono considerate le frange estreme della sinistra si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Complici a volte i vari sistemi elettorali, più spesso la costruzione di un nemico fosco e definitivo, in un tempo relativamente breve si è passati dal condannare le chiusure identitarie a lanciare veri e propri anatemi verso chi semplicemente manifestava qualche perplessità sull’opportunità di creare alleanze con soggetti che si allontanavano a passi sempre più ampi dalla tradizione del movimento operaio.
Questo avveniva mentre il campo tradizionalmente occupato dal PCI diventava via via preda dei più sfrenati liberisti, passando dal PDS ai DS, dall’Ulivo al PD. Prima timidamente poi – via via che gli eredi del PCI diventavano sempre più impresentabili, fino a far apparire la corrente sinistra della DC come fulgido esempio di progressismo – sempre più celermente, tra gli estremisti di un tempo sono cresciuti due atteggiamenti, si sono formate due posizioni, che soprattutto in occasione delle scadenze elettorali hanno finito con il fronteggiarsi molto aspramente. Da una parte chi cerca la costruzione di “uno spazio a sinistra del PD” e dall’altra chi ritiene che partecipare alla competizione elettorale sia vano, se non addirittura dannoso. Le argomentazioni a sostegno delle due tesi sono abbastanza note ma non certo banali e implicano una lettura, verrebbe da dire antropologica, del corpo elettorale.
La seconda fase del piano “Industria 4.0” – che il governo ha ridefinito come “Impresa 4.0“ – ha confermato l’enorme mole di finanziamenti alle imprese tramite le proroghe per “iper” e superammortamento. A questi va aggiunta una novità: il credito d’imposta per la formazione in attività “4.0”. Una montagna di soldi per l’automazione delle fabbriche ma che, oltre ai profitti aziendali, produrranno maggiore disoccupazione tecnologica. E qui si apre una questione decisiva.
Il prolungamento dei benefici fiscali vigenti sull’acquisto o il leasing di macchine utensili e impianti vede un impegno stimato per lo Stato di circa 8,2 miliardi spalmato però in 10 anni in termini di cassa. I primi effetti relativi agli investimenti effettuati nel 2018 si faranno sentire nel 2019, per 903 milioni totali tra iperammortamento al 250% per i beni tecnologici, superammortamento al 140% per i software (sempre che l’acquirente abbia effettuato anche un investimento coperto dall’«iper»), superammortamento ridotto al 130% per tutte gli altri beni strumentali “tradizionali”. La relazione tecnica stima poi un effetto finanziario di 1,7 miliardi nel 2020, 1,5 miliardi nel 2021, 1,3 miliardi nel 2022 e altrettanti nel 2023, 848 milioni nel 2024, 341 milioni nel 2025, 54 milioni nel 2026, 139 milioni nel 2027, 39 milioni nel 2028. In totale saranno 17 miliardi di euro.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Domenico Moro: Quale antifascismo nell'epoca dell'euro e della democrazia oligarchica?
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I limiti strutturali della valorizzazione del capitale, il capitalismo da casinò e la crisi finanziaria globale
1. Capitale reale e capitale produttivo
d’interesse
Delle molte strutture schizoidi del mondo moderno fa parte anche il rapporto contradditorio tra lavoro e denaro. Il lavoro come dispendio astratto di energia umana nel processo di razionalità aziendale, e il denaro come forma fenomenica del "valore" economico così prodotto (cioè di una fantasmagoria feticistica della coscienza sociale oggettivata), sono due lati della stessa medaglia. Nel processo capitalistico autoreferenziale, che consiste in un’accumulazione incessantemente accresciuta di tale mezzo feticistico, il denaro rappresenta o "è" nient’altro che "lavoro morto", al quale l’astrazione reale conferisce l’aspetto di una cosa. L’umano "ricambio organico con la natura" (Marx) è diventato un dispendio di forza-lavoro, astratto e di per sé insensato, proprio perché nella forma feticistica potenziata, cioè nel capitale, il denaro si è autonomizzato di fronte all’attore umano: non è il bisogno umano a regolare il dispendio di energia; al contrario, è la forma "morta" dell’energia spesa, la forma autonomizzata nelle cose, ad aver sottomesso a sé la soddisfazione dei bisogni umani. Il rapporto con la natura, così come i rapporti sociali, sono diventati puri e semplici processi di passaggio per la "valorizzazione di denaro".
Questo articolo di Counterpunch denuncia apertamente gli USA come una democrazia finta, votata al dominio militare e capace di tenere soggiogata o destabilizzare buona parte del mondo. Per affrontare la situazione occorre però riconoscere che questo processo non è nato con Trump, ma è in atto da decenni. Lo stesso Obama, proprio perché godeva di credito tra il popolo, è stato particolarmente efficace nel portarlo avanti con grandi danni per la classe media e immensi guadagni per i ricchissimi
Non riesco a ricordare
alcun momento storico in cui la cultura USA sia stata così
compromessa come oggi dal controllo della classe dominante.
Hollywood sforna un film
razzista o sciovinista o guerrafondaio dopo l’altro. I
notiziari sono completamente controllati dalle stesse forze
che dirigono Hollywood. La
classe liberale ha completamente capitolato di fronte agli
interessi di una élite USA sempre più fascista. Tutto questo
non è
iniziato con Donald Trump. Quantomeno bisogna risalire a Bill
Clinton, e in realtà bisogna andare indietro alla fine della
Seconda guerra
mondiale. La traiettoria ideologica si è formata sotto i
fratelli Dulles (uno ex segretario di stato degli USA e
l’altro direttore
civile della CIA a partire dagli anni ’50, NdVdE) e il
complesso industriale militare – che rappresenta gli
interessi degli
affaristi USA ed esprime l’esigenza di egemonia globale. Ma
una volta collassata l’Unione Sovietica, il progetto ha
accelerato e si
è intensificato.
Un’altra origine può essere identificata con l’operazione fallimentare della Baia dei Porci del 1960, o con l’assassinio di Patrice Lumumba da parte della CIA (e del MI6) nel 1961. Oppure con il discorso di Kennedy del 1962 all’Università Americana che chiedeva la fine della “Pax americana”.
Se è doveroso studiare il destino
degli
ebrei europei a livello locale, regionale e nazionale, sotto
la pressione e la persecuzione nazista nei diversi campi di
concentramento e di sterminio
è altrettanto necessario raccontare delle altre vittime,
prigionieri di guerra slavi, zingari, malati mentali,
omosessuali perché ci si
renda conto che la politica antisemita fa parte di una
politica di dimensioni ben più ampie e naturalmente raccontare
l’atteggiamento
delle popolazioni “legittime”, vale a dire la così detta
“gente normale”. Questo perché tutto ciò faceva
parte del progetto nazista di rimodellamento razziale del
continente, inseparabile dalla volontà di trasformazione
economica, sociale e
demografica.
La popolazione divenne una variabile in cui i dirigenti nazisti intendevano intervenire trapiantando, sterilizzando, sterminando tutto quanto fosse considerato necessario per garantire ad un popolo “superiore” il “suo spazio vitale” ed un livello di vita ottimale.
Il genocidio non è il frutto avvelenato di un gruppo di fanatici, ma è stato concepito ed è stato possibile realizzarlo con il concorso di tante figure, economisti, sociologi, geografi, demografi, urbanisti, biologi, medici…tutta una pletora di segmenti sociali che popolavano i livelli intermedi dell’apparato compresi i lavoratori e la gente che viveva intorno ai campi e al loro servizio la cui partecipazione al programma nazista mette in evidenza fino a che punto fu il risultato di contributi diversi spesso parcellizzati che non solo si sono sommati fra loro, ma si sono amalgamati e sono stati portati a sintesi.
Il libro di Samir Amin, “La
crisi”, del 2009, il
cui sottotitolo è “Uscire dalla crisi del capitalismo o
uscire dal capitalismo in crisi?” conclude per ora la
lettura di
alcuni testi dell’economista egiziano che ha visto prima il
suo testo del 1973 “Lo
sviluppo ineguale”,
poi il libro del 1999 “Oltre
la
mondializzazione”, e quello del 2006 “Per
un mondo
multipolare”. Dieci anni dopo abbiamo letto
l’intervento “La
sovranità popolare unico
antidoto all’offensiva del capitale”, nel quale la
pluridecennale riflessione dell’alfiere della liberazione
terzomondista e
instancabile denunciatore della polarizzazione generata dallo
sviluppo capitalista perviene alla determinazione,
apparentemente di chiave tattica, di
dover far leva sulle lotte nazionali e popolari, punto per
punto, dai luoghi più deboli. Il riscatto deve, cioè,
pervenire dai luoghi in
cui la contraddizione tra la promessa di prosperità e la
realtà di assoggettamento e alienazione è più ampia. Ciò
che bisogna combattere è una tendenza intrinseca al
capitalismo, al quale non è riconosciuta alcuna capacità
emancipatoria o di
sviluppo delle forze produttive: quella di schiacciare le
periferie, creandole come tali. Creandole in
quanto periferie,
rispetto ai centri dominanti nei quali il capitale si
concentra e dalle quali domina, accade che la logica
intrinseca della macchina
produttiva (di valore) tende quindi continuamente a fare della
natura (e degli uomini) risorse e per questo ad
estrarle, ad alienarle.
Per contrastare questa tendenza, dice Amin, non bisogna aspettare che una qualche contromeccanica automatica intervenga a salvarci: bisogna prendere il potere. Occorre, cioè, lottare per il potere. Costringerlo a fare i conti con le forze popolari, schiacciate, ma che vogliono rivendicare il proprio.
In
occasione del
Centenario della Rivoluzione d’Ottobre, si sta opportunamente
riaprendo la discussione sul significato e il valore storico
di quella
straordinaria svolta che ha segnato di sé l’intero XX secolo e
che si riflette, per alcuni aspetti, a partire dal mutamento
dei rapporti
di forza tra aree del mondo, sulla nostra stessa
contemporaneità.
In questo quadro è essenziale approfondire il significato ma anche i problemi di quella esperienza. Se l’obiettivo della Rivoluzione socialista era quello di sottomettere i meccanismi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata delle masse, in vista del benessere collettivo, Lenin fu sempre consapevole della difficoltà di tale sfida, in particolare in un paese arretrato come la Russia del 1917.
La consapevolezza di tale difficoltà andò crescendo nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere, senza però trasformarsi mai in una diversa valutazione sulla svolta dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo la giustezza della scelta fatta, l’opportunità di aver colto il momento, di aver sfruttato al meglio le possibilità offerte da una eccezionale contingenza storica.
All’indomani dell’Ottobre, Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di “sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel campo dell’organizzazione.
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Il peggior servizio che si possa
prestare a un
grande evento sociale, di portata storica, come quello in
Russia nei primi anni del XX secolo è di renderlo un mito. I
miti la storia li
disvela per quel che sono, crollano evidenziando l’imponenza
del grande evento.
La rivoluzione russa non comincia nel 1917, ma nel 1861, con la cosiddetta abolizione della servitù della gleba. Si trattava di un’abolizione formale – nel senso che il bracciante agricolo non era più vincolato al diritto di proprietà del padrone del fondo feudale. Sul piano sostanziale però i servi avevano avuto la possibilità di acquistare pezzi di terra – i peggiori ovviamente – e a condizioni capestro sia dallo Stato che dagli ex proprietari. In questo modo i servi divenuti formalmente titolari di un lotto di terra erano costretti a pagare la quota per l’acquisto o allo Stato, o all’ex proprietario, o alle banche che avevano finanziato l’acquisto. Il povero contadino non potendo pagare in moneta era costretto a pagare in natura e dunque lavorava il proprio pezzo di terra il cui raccolto doveva servire per pagare una parte dei debiti; e per pagare l’altra parte dei debiti era costretto – unitamente ai propri familiari a lavorare la tenuta del pomescik, cioè l’ex proprietario. Nel corso degli anni accadde che la gran parte degli ex servi della gleba furono costretti a vendere la terra agli aristocratici o ai contadini ricchi come i kulaki e a essere di nuovo sottomessi al lavoro dei campi come braccianti piuttosto che come servi, questa era l’unica differenza tra la vecchia servitù della gleba e la nuova che si era andata sviluppando.
Sulla
pagina on
line “Italia
e il
Mondo”, è uscito un articolo dal titolo “Due
appelli, due
Europe” del mio amico Roberto Buffagni nel quale
è presente una interessante lettura di due diversi appelli,
usciti negli ultimi
tempi, nel campo conservatore, sul destino
dell’Europa. Sono molto diversi, decisamente opposti: il primo
parla di
‘progetto’, il secondo
di uno scontro nel quale
è in campo il ‘proprio sé’. Il primo è stato scritto da una
importante istituzione
che ha sede a Bruxelles
e finanzia azioni politiche e culturali per la promozione
della democrazia, fornendo quelli che chiama “finanziamenti
veloci e
flessibili”; ne fanno parte politici come Elmar Brok
(CDU), Andrej Grzyb (PP), Bogdan Wenta (PPE), Cristian Preda
(PPE), Pier Antonio
Panzieri (PD), Alexander Lambsdorff (Partito Liberale), Elena
Valenziano Martinez-Orozco (PSE), Mark Demesmaeker
(conservatori e riformisti) e Tamas
Meszerics (Verde ungherese). Il secondo da un gruppo di
intellettuali accademici caratterizzati da una netta
prevalenza dei filosofi politici e
dall’essere conservatori di chiara fama.
La prima Dichiarazione chiama all’azione culturale e propagandistica (il campo del proponente) per la “democrazia”, ma intende una specifica connotazione del termine, la seconda ad una battaglia egemonica contro l’utopia di un mondo globalizzato, in cui le nazioni si dissolvano progressivamente in una utopistica unità multiculturale (ovvero, tradotto in termini realistici, siano inquadrate senza resti in un’unità imperiale).
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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L’alba del
25 si avvicinava. Kerensky, disperato, lanciò un appello ai
cosacchi «in nome della libertà,
dell’onore e della gloria del nostro Paese natio […] per
venire in aiuto del Comitato centrale esecutivo del soviet,
della democrazia
rivoluzionaria e del governo provvisorio, e per salvare lo
Stato russo morente».
Ma i cosacchi volevano sapere se la fanteria stesse arrivando. La riposta del governo fu evasiva, e allora tutti, ad eccezione di pochi fedelissimi, risposero che non erano disposti ad agire da soli «facendo da bersagli viventi».
Ripetutamente, in diversi punti della città, il Comitato militare rivoluzionario (Cmr) disarmava senza colpo ferire le guardie fedeli al governo, invitandole semplicemente a tornarsene a casa. Nella maggior parte dei casi, esse obbedirono. Gli insorti occuparono il Palazzo dei genieri semplicemente entrandovi. «Entrarono e si misero a sedere, mentre quelli che erano seduti si alzarono e se ne andarono», secondo un aneddoto. Alle sei del mattino quaranta marinai rivoluzionari si diressero verso la Banca di Stato di Pietrogrado, le cui guardie, del reggimento Semenovsky, si erano dichiarate neutrali: avrebbero difeso la banca da rapinatori e criminali, ma non avrebbero preso posizione tra reazione e rivoluzione, né sarebbero intervenuti. Si fecero allora da parte e lasciarono che il Cmr prendesse il loro posto.
Che sospendendo il
lavoro, non dico per un anno,
ma solo per un paio di settimane,
ogni nazione
creperebbe, è una cosa che ogni bambino
sa.
Karl Marx
Amico, non fare
il sogno più lungo del
tuo conto in banca!
Il Nostromo
Penso che le due citazioni in epigrafe colgano molto bene lo spirito del brillante saggio di Raffaele Alberto Ventura Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017), almeno per quello che ho potuto ascoltare dalla viva voce dell’autore (ero presente alla presentazione del libro fatta al Teatro Coppola di Catania), dalle pagine del libro che circolano sul Web e sulla scorta delle molte recensioni (alcune davvero interessanti, altre assai meno) che hanno avuto per oggetto questo saggio di successo. Ebbene sì, non ho ancora letto il libro.
Intendiamoci: che dopo il fatto eclatante della testata Roberto Spada venga fermato dalle forze dell’ordine e indagato dalla Magistratura, rientra nella normalità di uno Stato di diritto, sebbene per l’occasione abbiano dovuto inventarsi la fattispecie delle «lesioni in contesto mafioso». Per molto meno molti di noi ancora scontano condanne e processi, euro buttati nel calderone di una giustizia che sa dove e come accanirsi. Fatta questa premessa, l’episodio certifica il baratro in cui è sprofondata la sinistra in questo paese, l’idea di sinistra più che i partiti o movimenti che la compongono. L’arresto è stato accolto da un giubilo trasversale, un finalmente pensato ed espresso sui social, nell’ennesima improbabile e farsesca riproposizione stantia e fuori dalla storia di un fronte antifascista in cui troverebbero posto guardie e giornalisti. Noi ce ne chiamiamo da subito fuori: in tutta la vicenda il problema è il giornalista, non Roberto Spada; il problema sono le guardie, non i “clan”; è la politica, non la strada. E’ il giornalismo come perversione parassita, che si avventa sulla carcassa dell’evento per darlo in pasto a un’opinione pubblica educata da decenni di condotta mediatica criminale. Un giornalismo che ha posto la virtualità della narrazione sulla realtà dei rapporti di forza. E la conferma arriva proprio dal servizio costruito da Daniele Piervincenzi per Nemo, andato in onda ieri su Rai 2.
Per combattere una guerra bisogna innanzitutto identificare il nemico, studiare le sue strategie e analizzare su quali fronti risulti più vulnerabile. Affermazione scontata, direte voi, non serve certo leggere l’Arte della Guerra di Sun Tzu per capirlo! Ma la percezione cambia se spostiamo il campo di osservazione da quello bellico a quello ideologico.
I grandi conflitti del XXI secolo hanno un carattere universale che sfugge alla logica dei blocchi contrapposti, sempre più difficili da identificare. Così avviene per le idee e le dottrine economiche, che più di un dittatore riescono a irreggimentare una popolazione. Il nostro DNA di cittadini occidentali è permeato culturalmente e socialmente da quella che è stata la grande guerra ideologica del XX secolo, combattuta su tutti i fronti e senza esclusione di colpi: quella contro il Comunismo, poi dirottata verso il keynesismo, nemico ancora più resistente. Lo scontro è stato uno dei più duraturi della storia, fornendo così il tempo e l’esperienza per elaborare tecniche in grado di assicurare al vincitore un dominio incontrastato, votato all’immortalità.
A vincere è stato chiaramente il neoliberismo, l’ideologia imperante dal proselitismo universale.
Nel Pd c’è chi ha fatto un po’ di conti, e i conti dicono che la scissione di Mdp provocherà un grosso danno alle prossime elezioni. Per quanto poco possa prendere il partito di Bersani, in coalizione con gli altri a sinistra o anche da solo, quel poco basterà per far perdere al Pd una quarantina di collegi. Un colpo non da poco, che potrebbe essere evitato convincendo Mdp a fare coalizione col partito da cui si è staccato. Che probabilità ci sono che questo succeda?
Al momento sembrerebbe che queste probabilità siano praticamente inesistenti. Mdp sembra procedere verso la formazione di una lista unica con Sinistra Italiana, Possibile, il movimento di Montanari e Falcone e Rifondazione. L’Huffington post ha anticipato un documento programmatico che – si dice nell’articolo – avrebbe l’approvazione di tutti questi gruppi. E’ una strada incompatibile con qualsiasi accordo elettorale con il Pd.
Neanche dall’altra parte si vedono movimenti verso un simile accordo. Renzi, dopo la sconfitta siciliana che era data per scontata, nelle sue apparizioni televisive è apparso più duro che mai, indisponibile a qualsiasi compromesso, impermeabile a qualsiasi autocritica. Se qualche volta dice “ho sbagliato”, si capisce che non intende dire che ha fatto errori nelle scelte politiche, ma solo nel non riuscire a convincere abbastanza elettori di quanto meravigliosi fossero i provvedimenti varati dal suo governo.
Se anche il direttore de La Repubblica comincia a parlare di “falò delle verità”, vuol dire che la consapevolezza del pericolo rappresentato dalla frottole di sistema, diffuse fino ad oggi, comincia a essere rilevante.
Non che sia il solo ad aver scoperto che tra “narrazione” e realtà si sia aperta una voragine impossibile da nascondere.
Ben prima di lui, su impulso della Piattaforma Eurostop, un coordinamento unitario di forze politiche, sindacali, sociali – il Comitato 11/11 – ha convocato una manifestazione nazionale a Roma – per sabato prossimo – per cominciare ad imporre una “Operazione Verità”.
Uno slogan anomalo per una mobilitazione politica e sociale, eppure coglie una contraddizione diventata davvero insopportabile.
Dovremmo riavvolgere il nastro della storia di questi ultimi anni e riguardarla con l’attenzione dovuta. La velocizzazione degli eventi, cui la realtà ci sta abituando, troppo spesso ci fa perdere memoria di fatti che hanno determinato la situazione attuale e altrettanto spesso ci mette di fronte a fatti compiuti dai quali sembra impossibile recedere, in pratica un orizzonte inamovibile come un destino manifesto.
Ne consegue che le persone, ad esempio, rinuncino ad andare a votare, non scioperino o non manifestino nelle strade perché non ne vedono più l’utilità per un cambiamento.
Il ping pong che si è svolto la scorsa settimana sulle pagine del Corriere Della Sera fra il sindaco di Milano Giuseppe Sala e l’ineffabile duo Alesina Giavazzi, in merito al dilemma se il capoluogo lombardo debba rallentare o accelerare, è stato, al tempo stesso, surreale (il sommo Totò non avrebbe saputo inventare paradossi più spassosi di quelli sciorinati dai due comici bocconiani) e significativo del mefitico clima culturale che stiamo vivendo in questa fase storica.
Sala – personaggio certamente non sospetto di velleità antisistema – ha aperto le danze denunciando un dato di fatto evidente: Milano è una città soffocata (in senso letterale e non metaforico) da livelli di traffico e inquinamento al limite dell’invivibilità. Di conseguenza ha sommessamente – non è nemmeno personaggio che ama i toni arroganti e perentori – i suoi concittadini a darsi una calmata, rallentando i propri ritmi di lavoro e di vita (scanditi, avrebbe potuto aggiungere, ove fosse stato di animo più radicale, da un infoiata voglia di arricchimento e da un anfetaminica brama di consumi e godimenti).
Non si fosse mai permesso! I dioscuri del libero (anzi liberissimo) mercato gli sono balzati alla gola accusandolo di oscurantismo antimoderno.
L’insurrezione
in Russia dell’Ottobre di 100 anni fa fu l’atto conclusivo,
liberatorio, di un lungo processo rivoluzionario. Un
processo che si apre e si chiude a Pietrogrado, la capitale
dell’impero, e poi dilaga nell’immenso paese.
Si apre nel 1905 in quella che passò come “la domenica di sangue” quando, davanti al Palazzo dello Zar, i soldati massacrarono il popolo inerme che chiedeva pane, pace e libertà. Migliaia i morti e i feriti in quell’eccidio spaventoso voluto dall’autocrazia che da oltre tre secoli opprimeva i cittadini russi che, quel giorno, supplicavano lo Zar, ingenuamente chiedendogli di rinunciare ad essere quel che era (questa prima parte dell’articolo è liberamente estratta da alcune pagine del recente libro di Angelo D’Orsi “1917, l’anno della Rivoluzione” Editore Laterza). Ingenuità del popolo, stolta crudeltà dello Zar. Ma è proprio in quel giorno tragico, che si ripeterà mesi dopo a Mosca, che si avvia la Rivoluzione Russa. Una rivoluzione che non dispone né di una guida, ne di una strategia: è un Movimento. E tale resta anche 12 anni dopo quando, nel Marzo 1917, ancora il popolo di Pietrogrado in rivolta, sempre per il pane, la pace e la libertà, si trova di nuovo schierati davanti i soldati dello Zar che, questa la novità, si rifiutano di sparare e si ammutinano: “la guarnigione della capitale ha issato la bandiera rossa”, così Leone Trotsky nella sua fondamentale “Storia della Rivoluzione Russa”.
Partiamo con una notizia esaltante.
Liberata Abu Kamal, città al confine siro-iracheno, dalla
vittoria congiunta dell'Esercito Libero Siriano e dalle truppe
irachene, esercito e
Forze di Mobilitazione Popolare. Una vittoria di altissimo
valore simbolico, che vede uniti due paesi che
l'imperialismo-sionismo, insieme ai clienti
satrapi del Golfo, avevano tentato di distruggere. Un nuovo
inizio di unità nazionale araba con il concorso della Russia,
dell'Iran e delle
forze antimperialiste libanesi. Che questa, per oggi, ci paia
l'unica notizia buona non diminuisce la nostra gioia e
gratitudine.
E’ un antico vezzo di intellettuali, tra cui carissimi amici di notevole livello teorico, attenti alle profondità degli eventi e, come insegnava Montessori, ai dettagli e alle connessioni (vedere gli alberi nel bosco), quello di cucire un vestito e metterlo addosso al soggetto di cui trattano, convinti che gli stia bene, benché una manica sia corta e le spalle caschino. Succede in particolare da chi scatta dagli stessi blocchi di partenza, anche quando sono cambiati, anche quando non ci sono proprio. Tipo Stati Uniti democrazia liberatrice, o URSS comunque dalla parte di classi e nazioni oppresse.
In libreria “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza edizioni) di Marta Fana: un viaggio nelle assurdità del lavoro “moderno” spacciate dal mainstream dominante come ultimi ritrovati della scienza giuslavoristica. Si passa dal lavoro a chiamata ai voucher, dal cottimo digitale ai contratti a termine estesi addirittura ai servizi pubblici fino ad arrivare alla madre di tutte le riforme, il Jobs Act, che ha precarizzato anche l’ultimo presidio di giustizia ed equità sociale, il contratto a tempo indeterminato a tutela reale.
Per quale motivo dinanzi alla legittima protesta degli schiavi della logistica che incrociano le braccia nei magazzini della SDA di Carpiano, esercitando il sacrosanto –e costituzionale- diritto di sciopero pensiamo subito, istintivamente, “ai 70 mila pacchi ostaggio dello sciopero dei facchini”1 ?
In nome di quale superiore principio costituzionale abbiamo sacrificato l’integrità fisica e morale dello studente minorenne di La Spezia il quale, alla guida di un muletto mentre svolgeva le ore obbligatorie di alternanza scuola-lavoro, ha subito un gravissimo incidente?
La risposta possiamo trovarla nell’ultimo saggio di Marta Fana (Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, pp. 168): siamo preda della “mutazione genetica” degli ultimi trent’anni “ingloriosi”, che ha generato una vera e propria “antropologia della subalternità”2 .
«Nessun dittatore, nessun regime, nessuna nazione dovrebbe sottostimare la determinazione americana» ha affermato Donald Trump alle truppe americane in una tappa del suo viaggio in Asia, che lo porterà in Giappone, in Vietnam, nelle Filippine e in Cina.
Dichiarazioni dure quelle di Trump, indirizzate alla Corea del Nord e al suo presidente. D’altronde il viaggio, secondo vari analisti, dovrebbe essere centrato sulla crisi coreana, che egli ha affermato voler «risolvere».
In realtà la crisi coreana non è oggetto primario di questo viaggio. Certo ha la sua importanza, ma nonostante le dichiarazioni del bullo di Pyongyang e quelle apocalittiche della controparte, sembra destinata a risolversi con la diplomazia.
Infatti, come da rivelazioni del Washington Post riportate da Alberto Flores D’Arcais sulla Repubblica del 6 novembre, «gli alti vertici militari Usa sono piuttosto compatti nell’appoggiare la linea diplomatica del Segretario di Stato Rex Tillerson: nuove sanzioni economiche, pressioni su Russia e Cina, possibilità di arrivare a colloqui diretti tra gli Usa e il regime nord-coreano».
Sotto questo profilo appare interessante la missiva inviata al Congresso dall’ammiraglio Michael J. Dumont, riportata nello stesso articolo, che spiega: «Il solo modo per localizzare e distruggere con completa certezza tutti i componenti del programma nucleare nordcoreano è attraverso un’invasione via terra».
La mozione di censura sulla vigilanza bancaria approvata dal Parlamento è davvero inopportuna e lesiva dell’autonomia della Banca d’Italia? Qualche considerazione per inquadrare meglio il tema
La pretesa inopportunità della mozione parlamentare.
Non vi è nessuna delle eterogenee voci politiche che si sono alzate in difesa di Visco/BI (Banca d’Italia) che abbia sostenuto che la vigilanza sia stata efficace. Ovunque in casi di fallimenti organizzativi i massimi dirigenti ne portano la responsabilità. Per BI questo non vale. Si preferisce criticare la mozione approvata dal Parlamento, che principio di sovranità vuole si possa occupare di, e valutare qualsivoglia questione. Evidentemente non quelle che riguardano BI, nonostante che la nomina del Governatore sia l’unica occasione in cui il governo decide qualcosa che riguarda la BI (senza bisogno di passare, come nel caso delle nomine dei membri delle altre autorità indipendenti, per il parere delle commissioni parlamentari competenti). Il tutto sembra paradossale, come ben evidenziato da Clericetti pochi giorni fa su Repubblica.
Dice l’autodifesa del Governatore: “Le banche sono imprese” e “anche in presenza di difficoltà la vigilanza non può sostituirsi agli amministratori”. Nessuna impresa è in Italia sottoposta a operazioni ispettive potenzialmente penetranti quanto lo sono le banche.
Commentando sul suo blog un articolo di Roberto Chiarini, Stefano Azzarà ha scritto alcune righe in cui sintetizza, in modo ammirevole per efficacia e intensità, la tesi sulla persistente attualità dell’opposizione di destra e sinistra. Ve le propongo qui
"In realtà le cose sono semplici: la sinistra è il partito dell'emancipazione e del progresso ma poiché emancipazione e progresso conoscono la contraddizione, è anche il partito della totalità, della mediazione e della negazione determinata ovvero del riconoscimento e cioè è il partito dell'universale concreto. La destra è il partito del naturalismo (nelle sue diverse forme) e della discriminazione, il partito del particolare e dell'immediatezza, che nelle condizioni politiche ridefinite dopo la Rivoluzione francese può assumere però anche le forme dell'universalismo astratto e immediato"
Secondo il mio contatore, sono 593 caratteri, spazi inclusi (ed escluse le virgolette che ho aggiunto io). Il tono è dogmatico, per l’ovvio motivo che l’argomentazione analitica di queste tesi di Azzarà riempirebbe alcuni libri, o forse alcune biblioteche. E lo stesso vale per eventuali tentativi di confutazione. Mi ha affascinato l’idea di provare a replicare esattamente nello stesso spazio da lui usato. Ecco il risultato
"In questa opposizione, il capitale dove sta? Non a destra, perché è anti-naturalista, non a sinistra perché è anti-emancipatorio. Entro quelle categorie non si capisce né il capitale né il mondo.
Lenin, più di Marx, può essere considerato il riferimento principale di Mario Tronti nella prima parte della sua riflessione teorico-politica. Non a caso Lenin in Inghilterra è il celebre titolo dell’editoriale del primo numero di “classe operaia”, quello nel quale si esplicita il rovesciamento tra operai e capitale e si rivendica la primazia (storica, logica, ma soprattutto politica) della lotta di classe sullo sviluppo capitalistico. Lenin traduce così nella pratica una scoperta teorica di Marx: «l’unilateralità cosciente, realistica, non ideologica, del punto di vista operaio sulla società capitalistica» (OC, p. 130). Ma questa traduzione nel campo politico, argomenta Tronti, non è lineare, essa fonda invece nuovamente la scienza operaia con le sue specifiche leggi politiche di movimento: «Non basta dunque dire: con Lenin il punto di vista operaio si completa. No, con Lenin il punto di vista operaio si rovescia. Nel senso in cui la tattica rovescia sempre la strategia per applicarla» (OC, p. 255). Si apre qui il vaso di pandora del rapporto tra tattica e teoria (riformulazione trontiana della divisione tra tattica e strategia, identificate rispettivamente con il partito e la classe), che vede costantemente la prima debordare e determinare la seconda. La politica come tattica, come manovra, che attraverso l’inversione del rapporto può determinare e guidare il meccanismo economico, rimarrà al centro della riflessione trontiana negli anni a venire.
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A un secolo
dall’assalto al palazzo d’Inverno cosa resta dell’Ottobre?
Cosa resta della rivoluzione russa, dopo il crollo dell’URSS e la dissoluzione del campo socialista? Dopo il collasso dei sistemi politici novecenteschi e la fine del compromesso tra capitale e lavoro che ha caratterizzato la seconda metà del XX secolo, in seguito alla vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale e all’ombra della competizione bipolare?
A un primo sguardo sommario una risposta potrebbe essere “non molto”. Eppure molte delle conquiste che sono scaturite dal ’17, secondo un processo tortuoso e mai rettilineo, continuano a interessare il nostro mondo.
Una su tutte: il risveglio dei molti Sud del pianeta dalla colonizzazione di cui sono stati vittime nel ciclo storico imperialistico precedente la rivoluzione del ’17.
Come ha scritto lo storico britannico Geoffrey Barraclough, “Quando la storia della prima metà del ventesimo secolo […] verrà scritta in una più ampia prospettiva, è difficile che un solo tema si riveli più importante della rivolta contro l’Occidente”1.
Non ci
aveva convinto fin dall’inizio, e lo avevamo scritto subito.
Troppo evidente il tentativo di creare una specie di “isola
dei quasi
famosi” – per motivi anche lodevolmente diversi – che avesse
come punto di approdo una lista elettorale “competitiva col
Pd,
ma non chiusa a eventuali collaborazioni” con i miliziani di
Renzi.
Cero, i discorsi erano stati più elevati, le critiche al renzismo quasi definitive, gli obiettivi ben più lontani nel tempo (ben oltre, insomma, l’orizzonte elettorale). Ma – conoscendo certa “sinistra italiana” (nel senso di sciagura, ovviamente) – non avevamo molti dubbi che la lista elettorale sarebbe stato l’alfa e l’omega intorno a cui questo ennesimo tentativo di evocare la mitica “società civile” si sarebbe inevitabilmente infranto.
Adesso ne ha dato l’annuncio ufficiale Tomaso Montanari, che apprezziamo sinceramente molto come critico e storico dell’arte ma poco credibile nella parte di “rifondatore” di quella melma impresentabile fatta di ex ministri che hanno privatizzato Telecom e fatto la guerra alla Jugoslavia (D’Alema), che hanno steso “lenzuolate” agli appetiti di imprenditori pronti a rivendere a pezzi il patrimonio industriale edificato con i soldi pubblici (Bersani), che hanno affossato scientemente l’immagine stessa dei comunisti (Vendola, Fratoianni, on alle spalle l’onda lunga di Bertinotti), che non hanno mai opposto una minima opposizione a “pacchetto Treu”, riforma delle pensioni (dalla Dini alla Fornero), Jobs Act, decontribuzione per i nuovi assunti (significa riduzione del salario “lordo”, per la parte “differita), decreti fascistoidi da stato di polizia (quelli a firma Orlando e Minniti) e chi più ne ricorda aggiunga pure.
Si è appena celebrato l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e tutti i media parlano di cortei nostalgici di un mondo che, per fortuna, dicono loro, non c’è più. Fallito, consegnato alle ceneri della Storia. Ironia della sorte il giorno dopo, l’8 novembre, durante la visita di Stato di Trump in Cina, i soliti media parlavano di Xi Jinping come nuovo “Imperatore” che sovrastava di gran lunga il Presidente americano. Cosa era successo? Trump utilizzava la questione coreana per far pressioni sui cinesi sulle tematiche commerciali. Prontamente loro offrivano concessioni, già peraltro stabilite nel vertice di Mar de Lago in Florida mesi fa, stringendo accordi per circa 250 miliardi di dollari. Precedentemente, Xi aveva avuto incontri personali con amministratori delegati della Silicon Valley, quale Apple e Facebook. Il giorno dopo l’incontro con Trump il ministero del commercio cinese comunicava che la Cina toglieva le restrizioni di maggioranza delle società finanziarie, di venture capital e assicurative: d’ora in poi le società estere possono detenere il 51%. Si comunicava altresì che la decisione era stata presa durante il vertice Xi-Trump. La Cina inaugurava la politica dell’”Open the door” finanziario. Un segno di debolezza o cosa? Una resa agli americani e agli occidentali?
Qualche giorno fa un amico mi ha segnalato di aver visto su Rai3 un servizio molto interessante sul tema della commercializzazione delle informazioni genetiche. Incuriosito, sono andato scaricarmi il video. Il servizio, curato da Giorgio Mottola e trasmesso nella puntata di Report del 30 ottobre scorso, è rintracciabile qui.
Devo confessare che, più che interessante, la trasmissione mi è sembrata agghiacciante. In realtà, conoscevo già molte delle notizie che contiene, visto che in passato mi è capitato di occuparmi delle analogie fra dati informatici e informazioni genetiche e del modo in cui queste analogie vengono sfruttate a livello scientifico, economico e culturale (l’ultimo aspetto è fonte di inspirazione per molta narrativa e filmografia di fantascienza). Tuttavia il servizio ha il merito di <<montare>> tutte queste informazioni in un quadro coerente dal quale emerge uno scenario che, ripeto, non esito a definire agghiacciante.
Cito solo alcuni dei punti del servizio che più mi hanno colpito: un data base contenente il Dna di qualche migliaio di abitanti di una cittadina sarda che hanno il <<vizio>> di diventare centenari, è stato rubato dal centro di ricerca che lo deteneva (è ancora in corso un’inchiesta giudiziaria per appurare le responsabilità) e, dopo la chiusura del centro, è finito nelle mani di un’impresa privata inglese.
Con questo primo intervento di Lelio Demichelis avviamo una riflessione sulle prospettive, i rischi e le criticità, i vantaggi e le possibilità legate al sempre più pervasivo utilizzo delle nuove tecnologie, dei dati e delle piattaforme digitali per il governo della polis, a partire dalla pubblicazione in traduzione italiana del pamphlet “Il nostro diritto digitale alla città” curata da Openpolis
Occorre ripartire dalle città digitali/digitalizzate per affermare i nuovi diritti di un cittadino non più suddito della rete. Assicurando le condizioni per una raccolta e gestione dei dati realmente pubblica e democratica. Ed evitando così che siano i dati a utilizzare noi.
Potremmo partire da lontano e dire che la scienza e soprattutto la tecnica (e la rete) non sono e non vogliono essere democratiche – come opportunamente ci ha ricordato Ippolita[1] – eppure per anni abbiamo creduto il contrario e ancora molti ci credono, con due miliardi di persone convinte che Facebook sia un social e non invece, qual è – John Lanchester su Internazionale nr. 1222 – la più grande agenzia di pubblicità, ma anche la più grande agenzia di spionaggio mai esistita nella storia umana. Potenza del mercato e dell’illusione…
Se per Kant valeva il sapere aude! – osa sapere!, ovvero «abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» per uscire dalla minorità e dal girello per bambini in cui ogni potere (religioso, politico, statale, oggi economico e tecnico) ama guidare ciascuno dicendogli cosa fare e come – oggi abbiamo delegato nuovamente il sapere e l’intelligenza, questa volta agli algoritmi.
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Una domanda
Se devo cercare tra le rivoluzioni sociali degli ultimi 2 secoli, non ho dubbi alcuno di fare riferimento all’unica rivoluzione riuscita: quella dei borghesi del 1789 in Francia. Le altre (quella russa del 1917, quella cinese del 1949, quella cubana del 1958), mi dicono di non replicarle in quanto sono fallite.
Una corrente di pensiero
Perché bisogna imparare da quella dei borghesi: perché questa corrente di pensiero dice così che non si dà nessuna rivoluzione sociale se prima nella società precedente non ci sono dei “testimoni” che giustificano il salto rivoluzionario: è chiamato il “nodo della continuità”. Testimoni significa delle esperienze concrete legati a gruppi di persone che stanno lì a giustificarne l’esistenza. Un esempio: L’Encyclopedie di Diderot e d’Alembert.
Il “cuore”
La moderna storiografia individua alcune località in cui si è insediato il cosiddetto “cuore” dell’innovazione: tecnologica, ambientale, sociale, ecc.
A leggere la lunga intervista concessa recentemente da Toni Negri al manifesto, in cui si anticipano alcuni temi contenuti nel suo ultimo libro scritto a quattro mani con Michael Hardt, si rimane colpiti, in primo luogo, dalla stentoreità e dall’assertività con cui il filosofo padovano declina argomenti del tutto opinabili. Poi, dalla riproposizione di una visione deterministica dello sviluppo storico, che finisce, inevitabilmente, per tradursi in “incitamento” alla rinuncia politica.
La rivoluzione è un’ontologia, non un evento. (…) è lo sviluppo delle forze produttive, dei modi di vita del comune, lo sviluppo dell’intelligenza collettiva,
è l’inizio del suo ragionamento. Come non leggere, in questa formulazione, l’eco di quel determinismo marxiano, che, il marxismo stesso e gli eventi del Novecento, a cominciare dalla Rivoluzione d’Ottobre, si incaricheranno di correggere, rivedere, bocciare? D’altro canto, tutte le rivoluzioni, storicamente, sono state eventi, momenti di rottura, conquista del potere, con o senza l’uso della violenza.
A dirla tutta, le esperienze rivoluzionarie marxisticamente orientate del secolo scorso, hanno avuto come teatro soltanto contesti socioeconomici sottosviluppati, dall’Asia all’Africa, passando per i Caraibi, e non quelli dei principali paesi a capitalismo maturo che, proprio Marx, aveva indicato come possibili apripista nel processo rivoluzionario europeo.
Un
interessante saggio di Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione
Luigi Micheletti,
pubblicato su Sinistrainrete, dal titolo “Marx
sulla Russia”, consente di tornare sulla valutazione che
il Marx maturo compie sul vasto movimento rivoluzionario russo
che di lì a
qualche decennio porterà alla rivoluzione del 05 e poi del 17.
Ci sono da trenta a quaranta anni tra la lettera alla «Otecestvennye
Zapiski», che è del 1877, e gli eventi rivoluzionari;
una distanza pari a quella che ci divide da eventi come “via
Fani”, o il compromesso storico che questa interrompe.
Nella lettera (che viene pubblicata solo dopo un decennio) e nella successiva lettera a Vera Zasulic, di cui abbiamo parlato nella lettura del libro di Marcello Musto “L’ultimo Marx” che è del 1881, prende posizione per la obšcina e la proprietà collettiva della terra. Ovvero, sposando anche tatticamente (contro Bakunin) la posizione di Cernyševskij, Marx tenta di connettere comunità ed individualità.
Il tema era, ed è, di enorme difficoltà, e viene infatti rimosso completamente dal “marxismo” che comincia a formarsi già negli ultimi anni di vita del filosofo di Treviri e si consoliderà nel marxismo-leninismo dopo l’esperienza di radicale rottura del ‘17.
Per
affrontare il tema del rifiuto del lavoro e discutere la sua
attualità vorrei innanzitutto provare a definire l’oggetto
della
riflessione, ovvero provare a rispondere alla domanda: di cosa
parliamo quando diciamo rifiuto del lavoro? La domanda,
tutt’altro che retorica,
muove da due esigenze tra loro complementari: la prima, di
carattere metodologico, ha a che fare con un’esigenza
definitoria che accompagna o
dovrebbe accompagnare ogni esercizio analitico; l’altra, su un
piano evidentemente differente, risponde a una necessità di
carattere
politico che intende mettere a critica il vizio lavorista di
questa società, compresa la (o meglio a partire dalla)
sinistra. Nel senso che
resta forte l’esigenza anche a sinistra, tanto che ci si trovi
davanti a interlocutori informati tanto che si abbia a che
fare con interlocutori
non politicamente formati e informati, di sgomberare il campo
da quell’idea che associa il rifiuto del lavoro alla pigrizia
e a un atteggiamento
parassitario sulla società.
In secondo luogo vorrei in queste brevi note provare a discutere di rifiuto del lavoro al tempo della precarietà e del lavoro gratuito, per provare a tratteggiare possibili piste di inchiesta all’altezza delle sfida che le trasformazioni produttive e del lavoro oggi ci pongono.
Lavoro e attività
«Credi davvero che il mondo possa funzionare se tutti rifiutassimo il lavoro?»
Quando una civiltà diventa stupida tutti quelli che in qualche modo aderiscono alle sue modalità e ai suoi paradigmi finiscono per diventare stupidi ancorché per altri versi possano essere considerati dei geni. Uno tra questi è il mitico Stephen Hawking, icona popolare forse anche a causa della sua terribile malattia, maestro di una certa scienza affabulante che da decenni ha preso piede nell’ ambiente anglosassone, la quale ha imparato a usare la matematica come strumento narrativo e che produce teorie come funghi nei boschi quando piove, ma sempre all’interno di un medesimo modello complessivo considerato standard.
Sarebbe affascinante discutere di questo, ma quello che mi interessa al momento è l’allarme lanciato dallo scienziato e affidato con discutibile scelta ad un ambiguo sito che si occupa di sopravvivenze rambesche con la straordinaria ottusità e sicumera degli hobbisti: dunque il professore noto per aver affinato la teoria dei buchi neri e in odore di Nobel, avverte che la terra diventerà una palla di fuoco fiammeggiante entro l’anno 2600, che l’umanità distruggerà il pianeta a causa delle crescenti dimensioni della popolazione e il conseguente aumento delle richieste di energia e cibo porteranno alla catastrofe.
Nel tempo della falsificazione universale e della manipolazione organizzata delle coscienze in senso liberista, cosmopolita e libertario, dire la verità è più che mai un gesto rivoluzionario. La Rivoluzione russa, di cui si rievoca il centenario, è stata oggetto di una feroce e volgare demonizzazione dai media di regime, dai rotocalchi aziendali e da intellettuali a guinzaglio più o meno corto. Per quel che mi riguarda, come ebbi modo di ricordare quest’estate in una conferenza tenuta insieme a Luciano Canfora (tra i pochi, con Domenico Losurdo e con il compianto Costanzo Preve pensatori liberi e onesti), la Rivoluzione russa merita di essere celebrata. Oggi più che mai. E ciò per almeno cinque ragioni:
1. la Rivoluzione di Lenin è stata, dopo la Comune di Parigi, la prima rivolta delle classi subalterne organizzate contro il dominio classista del capitalismo egemonico;
2. la rivoluzione di Lenin ha reso possibile quel comunismo a cui dobbiamo – contro le falsificazioni della storiografia pigra e allineata – la liberazione dell’Europa dai nazifascismi;
3. la rivoluzione di Lenin e il comunismo storico novecentesco hanno contenuto, fino al 1989, a mo’ di potenza catecontica, la marcia della barbarie capitalistica; che infatti ha ripreso a furoreggiare incontrastata dopo il 1989;
Non poche pagine de L’innominabile attuale possono dare al lettore un’impressione insieme corretta e parziale: sembreranno lampeggiamenti aforistici appartenenti al migliore lignaggio del “pensare breve” novecentesco, alcuni definitivi, fino alla perentorietà apodittica. Si tratta senz’altro di passi in cui il percorso argomentativo e la fatica meditativa rimangono velati o nascosti, ma proprio in quanto sono il precipitato di una riflessione iniziata almeno ai tempi de La rovina di Kasch, indubbiamente l’opera fondamentale di Roberto Calasso, che oltre a intrecciare i fili di un’indagine religiosa, storica e filosofica immensa, si presentava come un semenzaio ancora in attesa di tempo, acqua e luce per fiorire pienamente. In quel libro Calasso partiva dal massimo dei racconti africani raccolti da Frobenius, “La rovina di Kasch” appunto – una sorta di prototipo completo della storia-cornice delle Mille e una notte (e dunque di tutte le storie e le meta-storie possibili) – per meditare sul sacrificio come archè posta tra l’atemporale e il tempo cosmico e umano, in particolare il sacrificio periodico dell’essere più prezioso e fragile, il sovrano, quale actus tragicus che garantisce l’accordo sempre imperfetto tra cielo e terra; e sul decisivo cambiamento di regime rappresentato dalla parola ammaliante del narratore (il Far-li-mas del racconto africano) quale sostituzione e spostamento, metafora, del versamento di sangue – sostituzione – spostamento che apre un tempo breve di ricchezza e di alleggerimento rispetto ai lunghi cicli senza storia del sacrificio primordiale, un felice tempo intermedio prima del ritorno al disordine.
Il presidente Michel Aoun “è ancora in attesa di spiegazioni da parte di Saad Hariri, dal momento che è ancora impossibile contattarlo, anche perché il suo destino resta ignoto”. È quanto ha riferito una fonte prossima al presidente della Repubblica libanese a Yara Abi Akl, cronista del giornale libanese Orient le Jour.
Un cenno riportato in un articolo dal titolo più che significativo, “tutti attendono Saad Hariri”, che racconta più di tante parole il nodo sul quale si sta giocando in questo momento il destino del Medio Oriente. Il presidente del Consiglio libanese si è dimesso dalla sua carica sabato scorso. Una decisione che resta un “enigma”, come ha scritto, sempre sull’Orient le jour, Scarlett Haddad.
Hariri, infatti, ha dato l’annuncio mentre si trovava lontano dalla patria, in Arabia Saudita, Paese di riferimento suo e della sua forza politica, dal momento che il movimento il Futuro rappresenta le istanze dei sunniti libanesi.
Hezbollah starebbe preparando un attentato contro la sua persona: questa la drammatica motivazione delle sue dimissioni. Come accaduto al padre Rafiq, figura determinante della politica libanese, che fu ucciso nel 2005. Un assassinio che tanti imputano a Hezbollah anche se il Tribunale internazionale istituito ad hoc non ha ancora dato un responso.
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Rosa Luxemburg, la sua dimenticanza è lo specchio delle sinistre in rotta da decenni, e la forza delle destre. Non voler sentire le parole della Luxemburg, anestetizzarle in un passato senza futuro, è la manovra ideologica per sottrarre al presente una visione critica ed olistica. La lettura filosofica del presente con il metodo olistico concettualizza” Il Regno animale dello Spirito”, capire per poter cambiare è l’interrogativo che ha accompagnato la Luxemburg nel suo destino di pensatrice. Il raccordo teoria – prassi è stato vissuto nelle parole come nella carne della storia. Il calcio di fucile che ne ha stroncato la vita il 15 gennaio 1919, durante la rivoluzione spartachista, fracassandole la testa: uccidere per recidere il pensiero vivo, per impedire il dinamismo della vita e consegnare la storia ad un sarcofago da conservare, non ha arrestato le sue idee.
Allora come oggi i nemici della trasformazione sociale sono a destra come a sinistra. Si vuole necrotizzare la storia, rendere ipostasi la globalizzazione: fenomeno non storico ma naturale, una sventura, un destino infausto sulle teste dei popoli. Lo sfruttamento, l’arretrare dei diritti sociali, e dell’ontologia della relazione nella prassi umana, hanno trovato una causa inaggirabile. La storia è finita, solo un ripetersi di eventi empirici senza concetto, così ci ripetono per tenerci nella caverna in catene, nel buio dell’irrazionale.
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L’invasione della privacy è un male forse necessario ed inevitabile, almeno entro certi limiti, per circoscrivere gli abusi che derivano inevitabilmente dall’anonimato completo. Ma questa concessione deve essere regolamentata in modo coerente ed efficace. Se ciò non avviene, come hanno dimostrato la vicenda Snowden e tanti altri casi emersi dopo, questa dinamica si può trasformare in un rischioso strumento di manipolazione e controllo politico, sociale ed economico, con derive molto preoccupanti
Giugno 2013: gli scoop pubblicati sul Washington
Post1 e sul The Guardian2
rendono nota per la prima volta
l’esistenza di un ampio programma di sorveglianza cibernetica
statunitense di nome PRISM, grazie alle rivelazioni di un
certo Edward Snowden,
esperto di sicurezza informatica ed ex-consulente della
National Security Agency (NSA) statunitense fino ad allora
sconosciuto. Attività e
procedure della NSA nel contesto dello spazio digitale sono
così rese di pubblico dominio, evidenziando capacità di
intercettazione e
raccolta dati fino a quel momento insospettate e svelando un
esteso sistema di intercettazione, massiva e prolungata nel
tempo, di numerosi leader
politici ed alte cariche statali in tutto il mondo, incluse
quelle di paesi amici ed alleati; unico esempio per tutti,
Angela Merkel, primo ministro
tedesco, le cui comunicazioni erano già state messe sotto
controllo fin dal 20023, quindi ancor prima che
diventasse cancelliere, e
che in seguito mostrerà decisamente di non apprezzare questa
particolare attenzione nei suoi confronti. Secondo successivi
articoli di Der
Spiegel4 la vastità delle intercettazioni si
estende ad organizzazioni internazionali come l’ONU e l’Unione
Europea, a grandi reti di telecomunicazione e network protetti
e sensibili, con una attitudine estremamente aggressiva di
penetrazione su
numerosissimi obiettivi in svariate dozzine di nazioni in
tutto il mondo.
Questo
contributo
di analisi si inquadra nel contesto del ciclo di incontri,
dibattiti, iniziative e proiezioni che abbiamo organizzato in
occasione del Centenario
della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e che vedrà il prossimo
appuntamento sabato 25 novembre, alle 18.00 al Cpa fi-sud, con
Ferdinando
Dubla assieme al quale affronteremo la questione della
pedagogia sovietica.
Quando abbiamo iniziato a discutere del programma di queste iniziative abbiamo pensato che fosse importante farlo fuori da ogni retorica cercando di organizzare momenti in cui si potesse valorizzare quell’esperienza storica agli occhi di chi ancora oggi lotta per cambiare il sistema di cose presenti e di modo che questo bagaglio e lo stimolo politico andasse nella direzione di rimettere qualche attrezzo nella cassetta.
Noi riteniamo che ancora oggi il socialismo rappresenti una necessità e l’unica possibilità di riscatto per il proletariato: le condizioni e il contesto che portò i contadini, i soldati e gli operai russi a prendere il potere nelle proprie mani non ha fatto altro che procedere nella direzione che i comunisti avevano indicato con sempre maggiori discriminazioni e disuguaglianza, un sempre più forte sfruttamento della forza lavora e sempre più efferate guerre e crisi.
Nel suo ultimo libro, l'ex leader di Lotta Continua tenta di redigere il vocabolario del tempo presente. Intervista su: lavoro (precario), sinistra (che non c'è), democrazia (in bilico), ecologia. "Ha stravinto la politica dei grandi interessi, basta vedere Trump..."
In rete
gira ancora
un video che s’intitola “Manifestazione per la liberazione
di Guido Viale”. Siamo nel 1968. Università di Torino. A
‘fare il 68’, a Torino, davanti a tutti, c’è lui, Guido
Viale. Classe 1943, nato a Tokyo, compleanno fra qualche
giorno
– il 20 novembre – “Guido Viale è stato – ed è, e rimane –
l’autore di una delle cose più
belle scritte in quell’anno. L’‘anno mirabile’. Cioè il ’68.
L’articolo si intitolava Contro
l’Università ed apparve nel numero 33 (febbraio 1968)
della rivista Quaderni Piacentini. Contro
l’Università – scriveva Viale dall’interno della
Università di Torino occupata – che conferma e consolida i
rapporti autoritari di classe: baroni contro studenti,
studenti benestanti contro studenti nullatenenti.
Contro quell’Università
che contribuiva, sempre secondo Guido Viale, ad una cultura
fatua e compiaciuta”. Questo è Beniamino Placido, su la
Repubblica,
parecchi anni fa, era il 1994. Quell’anno Viale aveva
pubblicato per Feltrinelli Un mondo usa e getta. La
civiltà dei rifiuti
che lo aveva eletto a “filosofo ambientalista” (ancora
Placido). Nel mezzo, Viale, insieme a Sofri, Pietrostefani,
Rostagno, Deaglio,
Boato, è stato tra i leader di Lotta Continua. “Nel
Sessantotto il tentativo è stato quello di costruire una
cultura
alternativa dal basso.
Il percorso partito dal teatro Bancaccio e che avrebbe dovuto dar luogo a una lista di sinistra alternativa al Pd, mettendo insieme la società civile e un ampio spettro di forze da Mdp a Sinistra italiana, Possibile e Partito della rifondazione comunista, è fallito. Mdp, Si e Possibile si sono riuniti per elaborare un loro documento escludendo Rifondazione, la quale ha valutato i contenuti del suddetto documento non coerenti con la formazione di una lista alternativa al Pd. A questo punto, Anna Falcone e Tomaso Montanari, i due promotori della assemblea del Brancaccio, hanno annullato l’assemblea prevista per il 18 novembre.
L’impasse era tutt’altro che imprevedibile. Ma quali ne sono le ragioni? Tomaso Montanari le rintraccia nella contrapposizione tra la forma partito e la società civile. In pratica i partiti, tutti i partiti che hanno partecipato al Brancaccio, avrebbero schiacciato le esigenze e la spontaneità della società civile. Si tratta di una posizione tutt’altro che nuova. Sono più di due decenni che si contrappongono i partiti alla società civile. In modo alquanto schematico, i primi sono identificati con il male, la seconda con il bene. I primi sono il vecchio, la “casta”, sempre corrotta e da rottamare, la seconda il nuovo da far emergere. Tuttavia, in questi anni, abbiamo visto come sono andate le cose e quale prova di sé abbiano dato la società civile e il nuovo (di solito rapidamente divenuto obsoleto) allorché si siano trasformati in classe politica.
Giordano Sivini, già professore di sociologia politica nella facoltà di economia dell’università della Calabria, pubblica con l’Editore Asterios La fine del capitalismo, dieci scenari. Vengono presentate le posizioni di studiosi che negli anni recenti hanno affrontato il problema, non di rado sostenendone l’inevitabilità. Si tratta di Arrighi, Wallerstein, Streeck, Harvey,Postone, Kurz, Gorz, Mason e Rifkin. Questa che segue è la Presentazione del libro.
C’è stata una
parentesi nella storia del capitalismo in cui il sociale è
riuscito ad emergere dall’economico. Aveva rilevanza, in
quanto sociale, per
il riconoscimento giuridico che lo stato gli attribuiva in
forza della sua esistenza come popolazione disciplinata dal
lavoro salariato. In funzione
della mediazione con l’economico, lo stato aveva ricevuto
legittimazione dal sociale. La democrazia, che come parvenza
funzionava fin
dall’800, era stata giuridicamente ridefinita in senso
sostanziale con una articolazione istituzionale orientata a
garantire il benessere del
sociale. Le politiche economiche e fiscali, pur racchiuse in
uno spazio definito dall’economico, realizzavano questo
obiettivo attraverso la
crescita e lo sviluppo. Agenti dello sviluppo erano le imprese
regolate dallo stato, che interveniva sui processi economici
stabilendo vincoli per il
mercato, e sosteneva la domanda creando quel reddito
aggiuntivo che il capitale non poteva o non voleva assicurare,
permettendo la riproduzione delle
condizioni di crescita e di sviluppo.
Questa parentesi è ormai chiusa, e se ne è aperta un’altra. Il sostegno dello stato alla domanda, come condizione di crescita e sviluppo, è venuto meno, e il sistema cerca di garantire l’offerta spingendo all’indebitamento e abbassando i prezzi mediante una infaticabile ristrutturazione del sistema produttivo.
1. Come sappiamo, per
via della interpretazione
"autentica" di Caffè e Ruini (il cui contributo al modello
economico accolto in Costituzione è fondamentale) la
Costituzione italiana,
del 1948, è coscientemente keynesiana: questa scelta non
è senza conseguenze, poiché il modello economico, e dunque
l'assetto
socio-politico, conformato in Costituzione ha valore
normativo supremo, cioè
intangibile (il che, in termini, normativi significa
"non suscettibile di revisione neppure costituzionale"), e
quindi ineludibilmente vincolante
per il plesso Governo-Parlamento.
Per questo ci pare interessante richiamare il pensiero di Caffè (maestro dai troppi allievi che "prendono le distanze", con pensieri, parole opere ed...omissioni), in questi tempi oscuri, in cui le elites "cosmopolite" (finanziarie e grande-industriali) che dominano il mercato (internazionalizzato), e che sotto la sua facciata nominalistica, "governano" (qui, p.8.1.), cioè decidono per tutta la comunità nazionale, sostituendosi alla sovranità popolare, con il fine inevitabile e strutturale di proteggere e massimizzare le rendite oligopolistiche di cui sono beneficiarie.
A un secolo
dall’assalto al palazzo d’Inverno cosa resta dell’Ottobre?
Cosa resta della rivoluzione russa, dopo il crollo dell’URSS e la dissoluzione del campo socialista? Dopo il collasso dei sistemi politici novecenteschi e la fine del compromesso tra capitale e lavoro che ha caratterizzato la seconda metà del XX secolo, in seguito alla vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale e all’ombra della competizione bipolare?
A un primo sguardo sommario una risposta potrebbe essere “non molto”. Eppure molte delle conquiste che sono scaturite dal ’17, secondo un processo tortuoso e mai rettilineo, continuano a interessare il nostro mondo.
Una su tutte: il risveglio dei molti Sud del pianeta dalla colonizzazione di cui sono stati vittime nel ciclo storico imperialistico precedente la rivoluzione del ’17.
Come ha scritto lo storico britannico Geoffrey Barraclough, “Quando la storia della prima metà del ventesimo secolo […] verrà scritta in una più ampia prospettiva, è difficile che un solo tema si riveli più importante della rivolta contro l’Occidente”1.
Non ci
aveva convinto fin dall’inizio, e lo avevamo scritto subito.
Troppo evidente il tentativo di creare una specie di “isola
dei quasi
famosi” – per motivi anche lodevolmente diversi – che avesse
come punto di approdo una lista elettorale “competitiva col
Pd,
ma non chiusa a eventuali collaborazioni” con i miliziani di
Renzi.
Cero, i discorsi erano stati più elevati, le critiche al renzismo quasi definitive, gli obiettivi ben più lontani nel tempo (ben oltre, insomma, l’orizzonte elettorale). Ma – conoscendo certa “sinistra italiana” (nel senso di sciagura, ovviamente) – non avevamo molti dubbi che la lista elettorale sarebbe stato l’alfa e l’omega intorno a cui questo ennesimo tentativo di evocare la mitica “società civile” si sarebbe inevitabilmente infranto.
Adesso ne ha dato l’annuncio ufficiale Tomaso Montanari, che apprezziamo sinceramente molto come critico e storico dell’arte ma poco credibile nella parte di “rifondatore” di quella melma impresentabile fatta di ex ministri che hanno privatizzato Telecom e fatto la guerra alla Jugoslavia (D’Alema), che hanno steso “lenzuolate” agli appetiti di imprenditori pronti a rivendere a pezzi il patrimonio industriale edificato con i soldi pubblici (Bersani), che hanno affossato scientemente l’immagine stessa dei comunisti (Vendola, Fratoianni, on alle spalle l’onda lunga di Bertinotti), che non hanno mai opposto una minima opposizione a “pacchetto Treu”, riforma delle pensioni (dalla Dini alla Fornero), Jobs Act, decontribuzione per i nuovi assunti (significa riduzione del salario “lordo”, per la parte “differita), decreti fascistoidi da stato di polizia (quelli a firma Orlando e Minniti) e chi più ne ricorda aggiunga pure.
Un
interessante saggio di Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione
Luigi Micheletti,
pubblicato su Sinistrainrete, dal titolo “Marx
sulla Russia”, consente di tornare sulla valutazione che
il Marx maturo compie sul vasto movimento rivoluzionario russo
che di lì a
qualche decennio porterà alla rivoluzione del 05 e poi del 17.
Ci sono da trenta a quaranta anni tra la lettera alla «Otecestvennye
Zapiski», che è del 1877, e gli eventi rivoluzionari;
una distanza pari a quella che ci divide da eventi come “via
Fani”, o il compromesso storico che questa interrompe.
Nella lettera (che viene pubblicata solo dopo un decennio) e nella successiva lettera a Vera Zasulic, di cui abbiamo parlato nella lettura del libro di Marcello Musto “L’ultimo Marx” che è del 1881, prende posizione per la obšcina e la proprietà collettiva della terra. Ovvero, sposando anche tatticamente (contro Bakunin) la posizione di Cernyševskij, Marx tenta di connettere comunità ed individualità.
Il tema era, ed è, di enorme difficoltà, e viene infatti rimosso completamente dal “marxismo” che comincia a formarsi già negli ultimi anni di vita del filosofo di Treviri e si consoliderà nel marxismo-leninismo dopo l’esperienza di radicale rottura del ‘17.
Per
affrontare il tema del rifiuto del lavoro e discutere la sua
attualità vorrei innanzitutto provare a definire l’oggetto
della
riflessione, ovvero provare a rispondere alla domanda: di cosa
parliamo quando diciamo rifiuto del lavoro? La domanda,
tutt’altro che retorica,
muove da due esigenze tra loro complementari: la prima, di
carattere metodologico, ha a che fare con un’esigenza
definitoria che accompagna o
dovrebbe accompagnare ogni esercizio analitico; l’altra, su un
piano evidentemente differente, risponde a una necessità di
carattere
politico che intende mettere a critica il vizio lavorista di
questa società, compresa la (o meglio a partire dalla)
sinistra. Nel senso che
resta forte l’esigenza anche a sinistra, tanto che ci si trovi
davanti a interlocutori informati tanto che si abbia a che
fare con interlocutori
non politicamente formati e informati, di sgomberare il campo
da quell’idea che associa il rifiuto del lavoro alla pigrizia
e a un atteggiamento
parassitario sulla società.
In secondo luogo vorrei in queste brevi note provare a discutere di rifiuto del lavoro al tempo della precarietà e del lavoro gratuito, per provare a tratteggiare possibili piste di inchiesta all’altezza delle sfida che le trasformazioni produttive e del lavoro oggi ci pongono.
Lavoro e attività
«Credi davvero che il mondo possa funzionare se tutti rifiutassimo il lavoro?»
L’alba del
25 si avvicinava. Kerensky, disperato, lanciò un appello ai
cosacchi «in nome della libertà,
dell’onore e della gloria del nostro Paese natio […] per
venire in aiuto del Comitato centrale esecutivo del soviet,
della democrazia
rivoluzionaria e del governo provvisorio, e per salvare lo
Stato russo morente».
Ma i cosacchi volevano sapere se la fanteria stesse arrivando. La riposta del governo fu evasiva, e allora tutti, ad eccezione di pochi fedelissimi, risposero che non erano disposti ad agire da soli «facendo da bersagli viventi».
Ripetutamente, in diversi punti della città, il Comitato militare rivoluzionario (Cmr) disarmava senza colpo ferire le guardie fedeli al governo, invitandole semplicemente a tornarsene a casa. Nella maggior parte dei casi, esse obbedirono. Gli insorti occuparono il Palazzo dei genieri semplicemente entrandovi. «Entrarono e si misero a sedere, mentre quelli che erano seduti si alzarono e se ne andarono», secondo un aneddoto. Alle sei del mattino quaranta marinai rivoluzionari si diressero verso la Banca di Stato di Pietrogrado, le cui guardie, del reggimento Semenovsky, si erano dichiarate neutrali: avrebbero difeso la banca da rapinatori e criminali, ma non avrebbero preso posizione tra reazione e rivoluzione, né sarebbero intervenuti. Si fecero allora da parte e lasciarono che il Cmr prendesse il loro posto.
Che sospendendo il
lavoro, non dico per un anno,
ma solo per un paio di settimane,
ogni nazione
creperebbe, è una cosa che ogni bambino
sa.
Karl Marx
Amico, non fare
il sogno più lungo del
tuo conto in banca!
Il Nostromo
Penso che le due citazioni in epigrafe colgano molto bene lo spirito del brillante saggio di Raffaele Alberto Ventura Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017), almeno per quello che ho potuto ascoltare dalla viva voce dell’autore (ero presente alla presentazione del libro fatta al Teatro Coppola di Catania), dalle pagine del libro che circolano sul Web e sulla scorta delle molte recensioni (alcune davvero interessanti, altre assai meno) che hanno avuto per oggetto questo saggio di successo. Ebbene sì, non ho ancora letto il libro.
L’insurrezione
in Russia dell’Ottobre di 100 anni fa fu l’atto conclusivo,
liberatorio, di un lungo processo rivoluzionario. Un
processo che si apre e si chiude a Pietrogrado, la capitale
dell’impero, e poi dilaga nell’immenso paese.
Si apre nel 1905 in quella che passò come “la domenica di sangue” quando, davanti al Palazzo dello Zar, i soldati massacrarono il popolo inerme che chiedeva pane, pace e libertà. Migliaia i morti e i feriti in quell’eccidio spaventoso voluto dall’autocrazia che da oltre tre secoli opprimeva i cittadini russi che, quel giorno, supplicavano lo Zar, ingenuamente chiedendogli di rinunciare ad essere quel che era (questa prima parte dell’articolo è liberamente estratta da alcune pagine del recente libro di Angelo D’Orsi “1917, l’anno della Rivoluzione” Editore Laterza). Ingenuità del popolo, stolta crudeltà dello Zar. Ma è proprio in quel giorno tragico, che si ripeterà mesi dopo a Mosca, che si avvia la Rivoluzione Russa. Una rivoluzione che non dispone né di una guida, ne di una strategia: è un Movimento. E tale resta anche 12 anni dopo quando, nel Marzo 1917, ancora il popolo di Pietrogrado in rivolta, sempre per il pane, la pace e la libertà, si trova di nuovo schierati davanti i soldati dello Zar che, questa la novità, si rifiutano di sparare e si ammutinano: “la guarnigione della capitale ha issato la bandiera rossa”, così Leone Trotsky nella sua fondamentale “Storia della Rivoluzione Russa”.
Partiamo con una notizia esaltante.
Liberata Abu Kamal, città al confine siro-iracheno, dalla
vittoria congiunta dell'Esercito Libero Siriano e dalle truppe
irachene, esercito e
Forze di Mobilitazione Popolare. Una vittoria di altissimo
valore simbolico, che vede uniti due paesi che
l'imperialismo-sionismo, insieme ai clienti
satrapi del Golfo, avevano tentato di distruggere. Un nuovo
inizio di unità nazionale araba con il concorso della Russia,
dell'Iran e delle
forze antimperialiste libanesi. Che questa, per oggi, ci paia
l'unica notizia buona non diminuisce la nostra gioia e
gratitudine.
E’ un antico vezzo di intellettuali, tra cui carissimi amici di notevole livello teorico, attenti alle profondità degli eventi e, come insegnava Montessori, ai dettagli e alle connessioni (vedere gli alberi nel bosco), quello di cucire un vestito e metterlo addosso al soggetto di cui trattano, convinti che gli stia bene, benché una manica sia corta e le spalle caschino. Succede in particolare da chi scatta dagli stessi blocchi di partenza, anche quando sono cambiati, anche quando non ci sono proprio. Tipo Stati Uniti democrazia liberatrice, o URSS comunque dalla parte di classi e nazioni oppresse.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia (Hits 5460)
Diego Angelo Bertozzi e Francesco Maringiò: Il Partito Comunista Cinese allo specchio (Hits 1912)
Claudio Gnesutta: Europa, alla ricerca del sesto scenario (Hits 1802)
Pierluigi Fagan: Cina, un fatto fuori teoria (Hits 1768)
Guido Liguori: Gramsci e la rivoluzione d'ottobre (Hits 1761)
Domenico Moro: I trattati e l’euro producono il nuovo nazionalismo degli stati (Hits 1670)
Elisabetta Teghil: “Una lunga storia” (Hits 1554)
Elisabetta Teghil: “Ritorno a casa” (Hits 1510)
Alain Badiou: Tredici Tesi e qualche commento sulla politica mondiale (Hits 1343)
Sergio Cesaratto: La sinistra fra vincoli economici autoimposti e vincoli veri (Hits 1330)

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Questo lavoro riprende le ricerche degli anni passati pubblicate su Sinistrainrete ai seguenti link: 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016
A) Scienza economica ed istituzioni davanti alla Grande depressione. Confusione ed impotenza
La Grande depressione in atto1 ha spinto la scienza economica in una situazione di incertezza estrema (alludo ovviamente a quegli studiosi che non sono struzzi per vocazione e convenienza). Due economisti italiani (entrambi conservatori) scrivono (relativamente ai “perché” della crisi”): “Alcuni economisti affermano di sapere perché: scarsa domanda (pubblica), diseguaglianze che riducono i consumi delle famiglie, calo della produttività, salari che non crescono: la verità è che non sappiamo se davvero vi sia una stagnazione secolare, e se ci fosse da che cosa dipenda. Sarebbe molto più utile se gli economisti riconoscessero la difficoltà di capire un periodo anomalo e di grande incertezza invece di pronunciare “verità”. L’incertezza è l’unico fulcro intorno al quale ruotiamo e l’incertezza non aiuta ad investire ed accrescere.
L’unica soluzione è diventare più innovativi, in modo da ridurre i nostri costi e rendere più difficile a Cina ed India di imitare i nostri prodotti”.2
La “programmazione di corto respiro” della Legge di Bilancio presentata dal governo finisce per inficiare la trasparenza dei conti pubblici e anche gli obiettivi di riduzione del debito. Una analisi della manovra
La
cornice della Legge di Bilancio per il 2018
Il Bilancio dello Stato per il 2018, presentato al Senato il 29 ottobre, ricalca le indicazioni generali della nota di aggiornamento del DEF1. I provvedimenti indicati nel DEF – aggiornato – hanno trovato una coerente applicazione nella Legge di Bilancio, ancorché non manchino delle sorprese relativamente ad alcune misure che non erano state preventivate. Per esempio lo stanziamento di 250 mln – a valere sul 2019 -per la formazione Industria 4.02, le misure per la famiglia (100 mln per il 2018-19-20), oppure gli interventi relativi al SUD (200 mln per il 2018) che, in realtà, appare più che altro una partita di giro.3
La cornice macroeconomica nazionale rimane inalterata. In particolare è confermata la crescita del PIL per il 2018 all’1,5% rispetto al quadro tendenziale indicato all’1,2%. La maggiore crescita di 0,3 punti percentuali è, sostanzialmente, imputabile alla parziale sterilizzazione delle clausole di salvaguardia – mancato aumento di IVA e accise – per quasi 15 mld per il 2018 e poco più di 6 mld di euro per il 2019.
Un libro di Emiliano Alessandroni, con introduzione di Remo Bodei
Potenza
ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della
trasformazione (Mimesis, Milano-Udine 2016) è forse
uno dei
tentativi più audaci, apparso negli ultimi tempi, di
restituire il pensiero di un Hegel ben distante da quelle
interpretazioni canoniche, e dal
sapore dogmatico, che nell’arco di decenni – a ben veder – non
ne avrebbero saputo restituire il giusto significato ed il
giusto
valore. Ché ripercorrendo tutto il sistema
hegeliano – attraversando anche gli scritti giovanili
dell’autore tedesco – Emiliano Alessandroni, con un’analisi
attenta
dei testi, in primis della Wissenschaft der
Logik e della Phänomenologie des Geistes,
porta alla luce come la lezione
hegeliana possa non solo essere considerata essenziale per la
comprensione del nostro tempo, tornando così a farsi artefice
di un discorso
coerente su cosa possa andare a significare per noi la
trasformazione nella storia, ma soprattutto contribuire al
risveglio del concetto stesso di
critica – questione a cui è dedicato l’intero
capitolo III del libro. Tornando a rischiarare, questo è
certo, il
significato fondamentale della “contraddizione oggettiva”,
motore e molla del divenire determinato che non farebbe altro
che dispiegarsi
in strutture processuali, materiali e culturali insieme,
essenzialmente dialettiche e storiche, pur sempre sottese
all’essere che si scopre
prettamente sociale (ciò che non può far altro che
manifestarsi, nella sua significatività e nella sua
determinatezza,
in e attraverso un linguaggio che sa comprendere se
stesso).
La legge di stabilità corre verso l’approvazione del Parlamento, con la disapprovazione della Commissione Europea. O meglio: con la benevola sordina alle critiche, perché l’Unione di tutto ha bisogno tranne che di un’Italia a forte composizione “euroscettica”, in vista di elezioni politiche in primavera quanto mai incerte.
Qualche giorno fa avevamo anticipato questo atteggiamento (State tranquilli, se potete… I conti veri si faranno dopo le elezioni). Ora arriva la conferma da Bruxelles, con la solita accoppiata del “poliziotto buono” (i commissari Moscovici e Dombrovskis) e quello “cattivo” (il vicepresidente Jyrki Katainen, nella foto d’apertura).
La brutale sortita di quest’ultimo ha rotto il clima rassicurante che accompagana il percorso della ex legge finanziaria: “Tutti possono vedere dai numeri come la situazione in Italia non migliori”. Una doccia freddissima sul governo Gentiloni, che intanto si beava delle stime sulla crescita fornite dall’Istat (un +0,5% trimestrale che porterebbe a +1,8% il tendenziale annuale).
Alla base della legnata del commissario finlandese – un “falco” di obbiedienza tedesca, poco incline a tollerare “scostamenti” per ragioni politiche – c’è la differenza tra la riduzione del deficit annunciata dal governo italiano (-0,3%) e quella stabilita dagli stessi commissari (-0,6).
Nella letteratura ormai cospicua sui beni comuni questo libro di Vercellone, Brancaccio, Giuliano, Vattimo, Il Comune come modo di produzione (ombre corte, 2017), si distingue per porre al centro con chiarezza un elemento: «Il Comune come modo di produzione è più importante di una classificazione tipologica dei beni comuni (naturali, artificiali, materiali, immateriali, antichi e nuovissimi). «Parlare di Comune come modo di produzione significa anche affermare che lungi dal rappresentare una semplice enclave, esso è suscettibile di porre le basi di un nuovo ordine economico e sociale articolato su una gerarchia completamente differente tra Comune, pubblico e privato» (p. 17). Si tratta cioè di un intervento strategico nell’economia della conoscenza e nel capitalismo cognitivo, che colora (avrebbe detto Marx) anche le altre forme di uso dei beni materiali e immateriali su cui di recente è ripreso il dibattito, a partire da Hardin e Ostrom (cap. I).
La prospettiva del modo di produzione, che segna una rottura con l’economia politica dei commons, non è però univoca e, per esempio, viene condotta una critica serrata dell’approccio meramente politicistico di Dardot e Laval, un’utopie sans sujet che non si fa carico della soggettività del lavoro capace di incarnarla (cap. II).
Sabato 18 novembre - ore 11 - Roma, teatro Italia (via Bari, 18) Assemblea per costruire una lista popolare alle prossime elezioni
Di seguito l'appello:
Noi non facciamo i politici di mestiere, non abbiamo niente da perdere, quindi scusateci se parleremo schietto. Ci rivolgiamo a tutta l’Italia, a questo paese che sta scivolando nel risentimento, nell’imbroglio e nella violenza, nel cinismo e nella tristezza, e che però è pieno di gente degna, che resiste ogni giorno, che mantiene dei valori.
Ci chiediamo: perché non possiamo sognare? Perché noi giovani, donne, precari, lavoratori, disoccupati, emigrati ed immigrati, pensionati, perché noi che siamo la maggioranza di questo paese dobbiamo essere rassegnati, ingannati dalla politica, costretti ad astenerci o votare il meno peggio?
Perché dobbiamo emigrare, perché dobbiamo accettare di essere umiliati per un lavoro, perché dobbiamo farci venire l’ansia per far quadrare i conti della famiglia, perché ci dobbiamo nascondere se pensiamo cose diverse da quelle razziste e inumane urlate ogni giorno in TV? E perché se siamo donne dobbiamo accettare disuguaglianze ed umiliazioni ancora più gravi, molestie, violenza verbale e fisica?
C’è del marcio in Germania. Sono passati più di 50 giorni dalle elezioni che hanno consegnato (così ci hanno raccontato) la vittoria all’invincibile Angela Merkel. La verità come sempre è diversa dalla narrazione di regime, e tra le pieghe delle cose non dette e quelle travisate si nasconde sempre qualcosa in più.
Dopo quasi due mesi, i partiti che stanno negoziando le condizioni per la Jamaika Koalition si sono finalmente dati il termine per un accordo preliminare fissandolo a questo giovedì. Il pre-accordo riguarderà le priorità politiche su cui focalizzarsi e compromessi da accettare per portarle avanti. Se le parti troveranno una convergenza, la probabilità di un accordo finale diventerà molto elevata, Tuttavia, l’esito positivo non è scontato. L’aspettativa degli analisti è che la coalizione alla fine ci sarà, ma allo stato attuale non si ha idea di come sarà composta e quale sarà la postura del nuovo governo tedesco. Dalla vittoria di Emmanuel Macron in Francia gli europeisti sperano in un rinnovato asse franco-tedesco a guida Macron-Merkel che si metta a riformare l’Eurozona per ridare slancio al progetto europeo, ma la realtà è quella di un Macron debole in Francia e di una Merkel appesa a un governo che come minimo sarà molto tiepido nei confronti delle tanto auspicate riforme euro-solidali.
In occasione del centenario della rivoluzione d’Ottobre sono apparsi nelle librerie diversi volumi: da saggi di riflessione storica appositamente scritti ad importanti classici riproposti ad anni di distanza dalla loro prima uscita, per arrivare a testi finalmente tradotti per il pubblico italiano.
In questo quadro assai ampio ed articolato spicca il volume curato da Marco Di Maggio, Sfumature di rosso. La Rivoluzione russa nella politica italiana del Novecento, apparso per la Biblioteca di “Historia Magistra” presso la casa editrice Accademia University Press di Torino (il testo sarà presentato domani a Palermo, qui maggiori informazioni). Come si intuisce dal sottotitolo, il testo, che raccoglie undici saggi di giovani studiosi, più una postfazione di Angelo D’Orsi e una esplicativa introduzione del curatore, non è dedicato tanto alle vicende della Rivoluzione bolscevica in sé, quanto punta invece ad analizzare le ripercussioni di quell’evento nel quadro politico italiano, da intendersi qui come la posizione rispetto a quell’evento delle differenti culture politiche che si svilupparono nel corso del Novecento nel nostro paese.
Non un libro dunque sull’Ottobre ma su cosa ha significato, tra seguaci, critici e oppositori in Italia.
Nel testo che segue, cercheremo di
comprendere
la situazione di grave isolamento in cui versa la teoria
comunista nella nostra epoca. È difficile, per i teorici, non
vedere a qual punto il
linguaggio che usano – che devono usare – risulti
incomprensibile alla grande maggioranza dei proletari, anche
quelli di buona
volontà. Questo è vero indipendentemente dalle differenti
opzioni teoriche. Tra i gruppi o gli individui che riflettono
teoricamente
sulla situazione attuale della società capitalistica, e sul
suo superamento possibile, nessuno ha trovato il linguaggio
e/o il punto di vista
che gli permettano di uscire da un piccolo milieu ripiegato
su se stesso. Questa situazione rimette in questione la teoria
comunista nella sua
specificità storica? Oppure la rimette semplicemente al
suo posto?
1. La teoria comunista e la lotta di classe
Cominciamo col dire che cosa la teoria comunista non è. La teoria comunista non è il resoconto scientifico della congiuntura economica, degli imprevisti dell’accumulazione del capitale.
![]()
La tesi che
intendo sostenere è che il comportamento omosessuale è tanto
più diffuso quanto più la società è
contrassegnata dall’antagonismo tra i suoi membri, cioè quanto
più essa è competitiva. La riprova è costituita, a
mio avviso, dalla civiltà della Grecia antica, in cui, come è
noto, il comportamento omosessuale si manifestava nella forma
della
pederastia e rispecchiava fedelmente la struttura di una
società ove i maschi liberi vivevano immersi in una dimensione
di agonismo permanente
(lo studioso Giorgio Colli, ad esempio, fa risalire a questo
dato socio-antropologico la stessa nascita della dialettica1
), così come fortemente agonistici erano i rapporti tra
le stesse città dell’Ellade. Non a caso l’istituzione delle
Olimpiadi fu anche e soprattutto la valvola di sfogo per
tenere sotto controllo questa energia potenzialmente
distruttiva, i cui correlati mitologici
sono rappresentati da figure come quelle di Eracle e di
Achille. Non sorprendono pertanto né la diffusione del
comportamento omosessuale in
Grecia né la sua progressiva diffusione e legittimazione nella
civiltà romana grazie alla progressiva ellenizzazione di
quest’ultima, tappa finale del passaggio da una società di
tipo patriarcale-solidaristico ad una società
imperiale-cosmopolita con
forti connotazioni individualistiche e competitive.
Per quanto concerne l’esistenza di un nesso inscindibile fra comportamento omosessuale e competitività nelle diverse epoche e nelle diverse società, mi limito solo ad alcuni esempi relativi al settore militare, in cui il modello competitivo trova la sua principale e radicale applicazione, anche se il discorso potrebbe essere più ampio.
Questo
intervento vede la luce all’indomani dell’arresto di Roberto
Spada a Ostia, in conseguenza della sua aggressione nei
confronti di un
giornalista e in seguito a uno scambio sulla pagina Facebook
dell’autore, che qui affronta alcuni dei temi che
attraversano
sottotraccia l’intera riflessione sulle “Criminalità immaginate”
portata avanti negli ultimi anni su questo blog.
Questo articolo considera la vicenda ostiense – fatta di evocazioni della mafia, del malessere metropolitano, del neofascismo – come una vicenda densa sul piano simbolico. Una vicenda, in altri termini, che parla al cuore, alla storia e alla biografia dei militanti della sinistra radicale italiana, così come quello scambio sul social network suggerisce.
Il pretesto per la discussione è costituito da un articolo tratto da Gli Stati Generali, icasticamente intitolato: «Gli arresti a furor di popolo non ci piacciono: neanche per Spada». La tesi dell’intervento – perfettamente condivisibile nella prospettiva fredda dell’analista sociale, del quasi-giurista (sono un sociologo critico della devianza), oltre che del militante politico di sinistra – è che quel fermo ha probabilmente avuto luogo fuori dalla cornice dello stato di diritto, che, in casi del genere, di solito non prevede quella misura, se non in presenza di circostanze verosimilmente assenti e inattuali nella vicenda in questione (per esempio il pericolo di fuga, di inquinamento probatorio o di reiterazione del reato).
In politica progetti disastrosi e criminali a volte nascono come idee di finto buonsenso. La firma del trattato di difesa europea da parte di 23 paesi della Unione Europea – non tutti i 27 stati, quindi – è uno di questi progetti.
Oggi il regime mediatico, quello che fa campagna elettorale per Casapound per capirci, presenta questo trattato come un passo scontato e necessario da tempo. Siamo europei, perché non difenderci assieme, visto che gli USA di Trump non ci vogliono più proteggere come prima? E poi mettendo assieme le risorse magari si risparmierà qualcosa. I giornali pubblicano al riguardo pure l’elenco dei carri armati differenti tra loro, che l’accordo europeo potrebbe uniformare.
Sempre così la UE, grandi valori e poi miserabili affari, la Nona di Beethoven e la Bolkestein.
Con questo finto buon senso cominciò anche la storia della moneta unica. Che bello, tutti gli stati con le stesse banconote, tutti gli europei con gli stessi soldi in tasca! Cominciò così quarant’anni fa la storia dell’Euro. Che oggi vuol dire austerità obbligata da trattati, da Maastricht al Fiscal Compact, che impongono la distruzione dello stato sociale e il taglio dei salari. Noi li abbiamo persino messi in Costituzione.
La difesa europea è ancora più pericolosa, perché riguarda spese militari e guerra. Contro chi è la difesa comune, infatti, se non contro la Russia?
Ho avuto la ventura di leggere uno scritto di Michela Murgia ove si parlava di “matria” (sic!), deridendo la vecchia patria e proclamando quest’ultima non solo moneta fuori corso, ma addirittura questione pericolosissima. Il testo mi pare interessante e non privo di spunti critici, perché nella sua pur sintetica struttura si cristallizzanno alcuni dei tratti salienti dell’odierno spirito del tempo, contraddistinto dall’ubiquitaria demonizzazione della nazione e della patria come concetti perigliosi e foriere di sciagure (dall’imperialismo al nazionalismo, ecc.).
Sarò dunque felice di replicare a Michela Murgia, preferendo la via socratica del dialogo a quella della stroncatura che invece, salvo errore, è via che Ella non disdegna nelle sue recensioni librarie televisive. Sarò altresì lieto di confrontarmi con Lei, nella speranza che Ella si converta dalla via del processo in assenza del processato, alla più nobilitante via del dialogo socratico secondo l’aureo principio del “logon didonai”.
Sono pienamente d’accordo con Murgia, allorché sostiene che la patria può essere foriera (e storicamente è stata anche tale) di sciagure. Non condivido, tuttavia, la conclusione che Ella ne inferisce: occorre buttare a mare l’idea di patria, ciò che equivale, come si dice, a buttare via il bambino con l’acqua sporca.
Negli ultimi momenti di Raqqa, le notizie che arrivavano dall’ultima roccaforte delle bandiere nere erano frenetiche e contraddittorie. Inizialmente si diceva che i foreign fighter sarebbero dovuti rimanere in città e che i jihadisti locali sarebbero potuti scappare – grazie a un accordo stipulato con i curdi – a Deir Ezzor. Ma poi un’altra agenzia affermava che tutti i terroristi potevano allontanarsi da Raqqa. Come mai?
Ora, un’inchiesta della Bbc cerca di far luce su quei momenti, rivelando “lo sporco segreto” di Raqqa. In pratica, ai terroristi dello Stato islamico (circa 250 persone più le loro famiglie) sarebbe stata concessa una fuga sicura verso la provincia di Deir Ezzor e, da qui, alcuni avrebbero intrapreso un viaggio verso la Turchia o altre città della Siria.
L’accordo sarebbe dovuto rimanere segreto, ma nei giorni successivi alla liberazione della città, hanno cominciato a circolare su internet alcune fotografie di autobus verdi – quelli usati per evacuare i ribelli ad Aleppo, per capirci – parcheggiati nella periferia di Raqqa. In molti, già all’epoca, avevano ipotizzato che quei mezzi servivano a trasportare i terroristi. Ma erano solamente ipotesi. Oggi, l’inchiesta della Bbc racconta un’altra verità. Ben più inquietante, anche perché tra i jihadisti scappati ad inizio novembre c’erano anche alcuni francesi pronti a compiere attentati in Europa in quello che viene definito “il giorno del regolamento dei conti”.
«La Nato è stata tradizionalmente flessibile di fronte ai desideri dei suoi membri, e aperta a dissociazioni da specifiche aree politiche, come la pianificazione nucleare»: lo afferma un articolo apparso sul sito dell’Ican, coalizione internazionale di organizzazioni non-governative insignita meritoriamente del Premio Nobel per la Pace 2017.
L’Italia avrebbe dunque il permesso Nato di aderire al Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari.
«Sono oltre 200 – spiega l’articolo – i parlamentari italiani che hanno firmato l’impegno a lavorare per la firma e la ratifica del Trattato da parte del governo» e, tra questi, «il maggiore gruppo proviene dal principale partito di governo, il Partito democratico».
Ci sarebbe quindi un’Italia che – dopo aver violato il Trattato di non-proliferazione, ospitando e preparandosi a usare armi nucleari statunitensi – adesso, grazie a una iniziativa capeggiata da parlamentari Pd, è pronta a firmare e ratificare il Trattato Onu. Questo, all’Articolo 4 (par. 4), stabilisce: «Ciascuno Stato parte che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi».
Le strade parallele di Pci e Autonomia. Leggendo Padova di piombo di Giulia Princivalli
Strade che corrono parallele, strade mai destinate a incrociarsi. Quella tra PCI e Autonomia è la storia di un incontro mai avvenuto, di distanze perennemente rimarcate, di strade che non si sono mai incrociate.
E’ questo l’argomento di un saggio recentemente pubblicato da Alba Edizioni, dal titolo Padova di piombo. Il libro ha come focus Padova negli anni ‘70, una città bianca che rincorre le evoluzioni industriali, subendo le contraddizioni marcate tra lavoro e capitale. Padova inondata dagli studenti universitari, Padova delle lotte, della partecipazione. Padova degli incidenti, degli scontri, delle provocazioni. E dei morti. Padova come città in cui si accentuano e trovano riscontro fenomeni sociali e politici di quel decennio.
Un incontro mai avvenuto dunque. E non poteva essere altrimenti. Da un lato il Partito Comunista Italiano di Berlinguer che col nascere della stagione del terrorismo necessitava di distanziarsi, di ostentare condanna a qualunque formazione non fosse chiaramente contraria alla violenza, di convergere nella stagione del compromesso storico. Dall’altro lato gli Autonomi, una fucina di ideali e di elaborazioni teoriche che vedevano nel PCI parte del sistema, e nella violenza un mezzo possibile, pur nel mantenimento di un profilo pubblico, con luoghi in cui pensare ed elaborare alla luce del sole.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia (Hits 5475)
Diego Angelo Bertozzi e Francesco Maringiò: Il Partito Comunista Cinese allo specchio (Hits 1920)
Claudio Gnesutta: Europa, alla ricerca del sesto scenario (Hits 1845)
Pierluigi Fagan: Cina, un fatto fuori teoria (Hits 1803)
Guido Liguori: Gramsci e la rivoluzione d'ottobre (Hits 1777)
Domenico Moro: I trattati e l’euro producono il nuovo nazionalismo degli stati (Hits 1675)
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Pubblichiamo
qui la bella introduzione di Samuele Cerea alla traduzione
italiana del libro di Robert Kurz: Il collasso della
modernizzazione, Mimesis 2017.
Il testo di Kurz, uscito in Germania nel 1991, a ridosso del crollo dei regimi a socialismo reale dell’est, mantiene ad oggi una sua vibrante attualità. La tesi di fondo, in estrema sintesi, è che questo crollo, contrariamente a quanto se ne è detto e si continua a dire, non ha rappresentato la vittoria di un blocco, quello occidentale, presunto “alternativo” e antagonista a quello orientale, che ne sarebbe uscito sconfitto e umiliato. Tantomeno, ha sancito la fine di ogni possibilità di “rivoluzione”, decretando quello capitalistico-occidentale non solo come il migliore dei mondi possibili, ma proprio l’unico, e affrettandosi a seppellire Marx e ogni istanza critica che abbia l’ardire di metterlo in discussione. Piuttosto, sarebbe la prima tappa di un crollo ben più importante e inevitabile, quello dello stesso sistema capitalistico, a cui anche i regimi dell’est hanno sempre appartenuto, sia pure nella forma di “modernizzazioni di ritardo”, quindi in modo raffazzonato e un po’ cialtrone, ma non meno devastante.
La crisi economica mondiale sembra aver confermato, a posteriori e in modo clamoroso, le tesi di Kurz e di tutti coloro che hanno partecipato ad elaborare la “critica del valore”, ovvero la teoria su cui poggia l’analisi che legge la fine del “socialismo da caserma” dei regimi dell’est come primo momento di una rottura, come detto, ben più ampia.
Questo articolo, dedicato all’opera di Giovanni Arrighi Adam Smith a Pechino, prosegue l’approfondimento iniziato nell’articolo Giovanni Arrighi e la crisi dell’egemonia USA
Uno dei
più bei capitoli di Operai e capitale, l’opera più
nota di Mario Tronti, si intitola Marx a Detroit. In
quei
passaggi, tra i più fortunati di quelli di Tronti, l’operaista
italiano sostiene che, a differenza che in Europa, dove la
lettura delle
lotte di classe era viziata dal marxismo, che diveniva così
una griglia astratta di lettura del reale, negli Stati Uniti
del primo dopoguerra,
essa era del tutto de-ideologizzata: era Marx che veniva letto
mediante le lotte di classe. Marx era “nelle cose”, anche se
non nei libri,
come in Europa. Marx era a Detroit come uno spettro, e
continuava ad imparare e a vedere le sue teorie verificate
anche dopo morto. Marx era, quindi,
quasi fisicamente a Detroit. La classe operaia americana aveva
fatto a meno di lui proprio perché lui aveva avuto ragione.
Curioso destino:
avere il massimo del successo (cioè di efficacia della propria
lettura della realtà) proprio dove si ha il minimo assoluto di
fama. E
non solo: avere il massimo del successo proprio dove si viene
traditi, dove non si è in sé stessi il punto di riferimento
della
realtà storica, ma dove è la realtà storica a essere il fulcro
della lettura stessa che si dà del testo.
In questo senso Giovanni Arrighi parla di Adam Smith a Pechino.
Giorgio Agamben, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto - Bollati Boringhieri editore 2017 -pagine 140 – €. 14,00
Pierre Macherey, Il soggetto delle norme – Ombre Corte editore – pagine 215 – €.18,00
Il successo del
diritto
Una ricerca sull’istituzione e la funzione della norma deve risalire all’origine semantica del termine. Emerge così la sequenza concettuale tipica della modernità per cui ciò che comunemente è definito legge risulta dall’identità della norma con il diritto positivo. Ma questa traslazione, che per un verso è arbitraria e per altro verso è la risultante di un’operazione giuridico-politica eminente, chiarisce indirettamente un’altra occorrenza del concetto di norma, che assume oggi per lo più il senso di un paradigma universale, considerato indiscutibile: la normalità. La normalità sembra essere il grande compito della modernità che l’assume come legge di comportamento.
Un’archeologia del diritto deve dunque risalire la differenza tra norma e legge per cercare di scoprire il luogo di insorgenza di ciò che è normativo. Per far questo vale la pena delimitare lo spazio di senso della norma cercando di fare luce sui rapporti tra legge norma e normalità.
Questi rapporti, che sono densi e si districano con difficoltà, si presentano in una doppia linea che all’apparenza disegna una continuità, ma che a guardar bene segna invece una genealogia spezzata, i cui punti di rottura corrispondono al progressivo scivolamento di senso della norma dall’antichità all’epoca moderna.
A cent’anni dalla Rivoluzione
d’Ottobre, ci si trova di fronte a interrogativi e
riflessioni
sull’eredità di un evento che ha cambiato radicalmente il
volto del XX secolo. Il crollo del socialismo reale si è
portato
appresso uno stigma che ha reso difficile un’analisi critica
e possibilmente priva di pregiudizio sulla portata effettiva
del 1917 e sul
grande periodo di cambiamenti sociali e movimenti
emancipatori che essa ha innescato.
Questo contributo, senza aspirare ad una esaustiva rassegna storiografica, vuole mettere in luce i principali nodi della riflessione sul 1917 e le sue conseguenze di lungo periodo prendendone in considerazione analisti e critici e cercando di trarre alcune conclusioni sulla pesante eredità della più importante rivoluzione della contemporaneità.
* * * *
Ci sono centenari dall’immensa portata simbolica. Caso clamoroso da tale punto di vista è quello della Rivoluzione Francese del 1789: che nell’Ottocento costituì un’importante occasione per il formarsi della socialdemocrazia in Europa e che invece nel Novecento registrò il disfarsi dell’Unione sovietica col conseguente crollo di credibilità di tutto il comunismo. Ben diversamente il centenario in corso della Rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia, fino a imprevedibili prove contrarie, non pare sancire alcunché di simbolicamente rilevante.
Pubblichiamo qui, in
versione ridotta, uno
scambio tra Roberto Esposito e Toni Negri. Il dibattito si è
tenuto in occasione del primo Festival di DeriveApprodi
(25-27 novembre 2016) e si
trova oggi raccolto, in versione integrale, nel volume Effetto Italian Thought (a cura di Enrica
Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello, Quodlibet, 2017). Il
libro inaugura, insieme ad altri,
la collana Materiali IT
diretta da Dario Gentili ed Elettra Stimilli.
* * * *
di Roberto Esposito
In questo intervento – pronunciato al festival di DeriveApprodi1 – provo a interloquire con la relazione di Toni Negri sulla fine della sovranità. Ne riassumo rapidamente la tesi di fondo.
Alla fine di ottobre la Banca Centrale Europea
guidata dall'italiano Mario Draghi ha prolungato, con grande
plauso dei
commentatori, la manovra di espansione monetaria, il
cosiddetto Quantitative Easing. Le politiche monetarie della
BCE di Draghi si sono confermate
espansive mentre quelle fiscali dettate dal trattato di
Maastricht e dall'assurdo Fiscal Compact imposto da Berlino,
sono invece restrittive. E allora
tutti a ripetere ancora una volta che Draghi “è il salvatore
dell'Europa”. Da quando Draghi, l'ex banchiere della
Goldmann Sachs,
ne è diventato presidente, la BCE è acclamata come
salvatrice dell'Europa (e della patria Italia, l'anello
debole tra le grandi economie
continentali). Tutti riconoscono che la BCE è in effetti
l'unica istituzione che è riuscita a difendere l'eurozona
dalla speculazione
finanziaria e a controbilanciare con la sua politica
espansiva la brutale e stupida austerità teutonica. Senza il
supporto della politica
monetaria della BCE di Draghi l'euro non esisterebbe più da
anni. E quindi la BCE è diventata un mito e un tabù.
Ma la politica della BCE non difende solo la moneta unica europea: aiuta soprattutto le banche e aumenta le diseguaglianze. La BCE affianca attivamente l'Unione Europea nelle sue politiche di contro-riforme strutturali, cioè di destrutturazione del mercato del lavoro e di riduzione selvaggia del welfare. Grazie alla politica monetaria della BCE che alimenta i mercati finanziari i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E non è detto che la sua azione alla fine sarà efficace.
Grazie.
Avevamo detto: "bisogna sognare!", e ieri il sogno è cominciato.
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Anche se i media, pure quelli di sinistra, non sembrano essersene accorti, ieri è successo qualcosa di straordinario. E non solo perché un centro sociale ha dichiarato di voler partecipare alle elezioni, o perché un'assemblea chiamata 3 giorni prima ha riempito un teatro di 800 posti senza sponsor mediatici, senza "grandi nomi", senza bisogno di truppe cammellate...
Ma per l'entusiasmo, la passione, l'emotività che ieri si sentiva nell'assemblea e che ha attraversato in questi giorni l'Italia come una scarica.
Dopo il fallimento del Brancaccio, costruire un’alternativa delle classi popolari
1.
Brancaccio: cronaca di un fallimento annunciato
Il fallimento del percorso del Brancaccio segna un punto di rottura nello scenario delle possibili prospettive per la lotta di classe del nostro Paese. Da svariati anni, a ogni turno elettorale, nazionale o non, siamo stati costretti ad assistere a dinamiche sempre meno convincenti. Partiti che portano nel loro nome riferimenti espliciti alla lotta di classe e al comunismo si sono piegati a processi elettoralistici lanciati da realtà e in contesti totalmente refrattari alle esperienze più conflittuali del Paese, senza nessun collegamento rispetto alle contraddizioni che i lavoratori, i disoccupati, gli studenti e tutti gli sfruttati vivono quotidianamente sulla propria pelle.
Ripensando alle esperienze di “Cambiare si può”, “Rivoluzione civile”, “L’altra Europa” e alla miriade di proposte regionali e comunali, non era difficile prevedere che l’Assemblea del Brancaccio sarebbe naufragata appena i nodi fossero venuti al pettine. Le aspettative suscitate sono state spezzate già durante le fasi della prima assemblea con l’estromissione dei compagni di “Je so’ pazzo” e l’allontanamento dei rappresentanti del PCI, per lasciare posto ai vari D’Alema e Bersani.
[Dallo storico
inglese Adam Tooze,
professore alla Columbia University e vincitore del
Wolfson History Prize, un utilissimo e ampio riassunto di
quanto accaduto sui mercati finanziari
in questi anni e sul ruolo dei banchieri centrali. Alzare
la testa dalla contingenza attuale, per porsi in una
prospettiva più ampia dal punto
di vista del tempo e dello spazio, consente di osservare
meglio le forze devastanti che sono in opera nel contesto
globale in cui viviamo. Dopo la
liberalizzazione dei capitali, negli anni 70, la politica
ha gradualmente perso ogni potere, lasciandolo a entità
sciolte da qualsiasi vincolo
elettorale: da una parte i mercati, lontanissimi
dall’avere – neanche collettivamente – comportamenti
razionali, dall’altro le
banche centrali, di fatto diventate arbitre del destino di
Paesi e governi. Nel gioco strategico che contrappone
questi giganti, noi cittadini e i
nostri diritti – per cui è stato versato sangue – come il
diritto a un lavoro, a una vita dignitosa, alla salute,
siamo sempre
più deboli e a rischio].
* * * *
L’economia politica alla fine del ventesimo secolo era caratterizzata da un evidente parallelismo. A partire dalla metà degli anni 70, un aumento del debito pubblico senza precedenti in tempi di pace coincise con la liberalizzazione delle transazioni internazionali di capitali.
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Alcuni di
noi si
chiedono - e siamo ancora troppo pochi - se l’oggettività
dell’attuale robotizzazione delle persone (a) non sia da
annoverare tra i
processi sociali più significanti, cumulativi (b) e
logicamente negativi di questa ‘civiltà’ secolo XXI.
Generata in modo
sempre più intrinseco e profondo dallo sviluppo
capitalistico (c) come un lineamento ben concreto e
sostanziale (e forse conclusivo...) della
crescente alienazione umana del Sistema.
Soprattutto per il fatto che incide in misura crescente e devastante sulla natura originariamente empatica ed essenzialmente collettiva (d) della nostra specie. Derivando pertanto in un individualismo (e) sempre meno invisibile e sostenibile. Cioè con apparenze, comportamenti e modi di vivere progressivamente condizionati e dissociati dall’intrinseca essenza ed esistenza comunitaria della persona (f). Quindi, tra l’altro, nell’inevitabile direzione di fenomeni via via più drammatici di solitudine, isolamento e abbandono in crescenti settori della società. Soprattutto metropolitana o cosiddetta “sviluppata”.
1. Lo
ha affermato di recente Luciano Canfora (2017, 9): «Per ora,
chi sfrutta ha vinto la partita su chi è sfruttato». La
diagnosi del
presente si aggrava se si pensa che «solo ora il capitalismo
è davvero un sistema di dominio mondiale», reso più forte
dall’avere di fronte a sé esclusivamente miseri spezzoni di
organizzazioni di stampo sindacale o settoriale che gli
oppongono una
resistenza trascurabile; se è vero, com’è vero, che il
capitale oggi è davvero “internazionalista”, avendo
dalla sua parte la cultura e ogni possibile risorsa. Gli
sfruttati, invece, «sono dispersi e divisi» dalle religioni,
dal razzismo
istintuale, dalle discriminazioni sociali non sanate ma
approfondite dall’operato delle istituzioni, e dal fatto
che, per funzionare, il
capitale ha ripristinato forme di dipendenza di tipo servile
creando sacche di lavoro neo-schiavile che non credevamo più
possibili,
soprattutto nelle aree del mondo più avanzate (ibidem,
11-12).
Di fronte a tutto questo, già nel 2003 Glenn Firebaugh scriveva a proposito di un’inversione di tendenza: il passaggio da una crescente diseguaglianza tra nazioni (accompagnata a livelli di diseguaglianza stabili o in calo all’interno delle nazioni) a una diminuzione della diseguaglianza tra nazioni, con conseguente aumento della diseguaglianza al loro interno.
1. Cerchiamo di definire se e come esistano
condizioni di ripristino della democrazia sostanziale, cioè
quella "necessaria" accolta dalla
nostra Costituzione, perchè, in sua assenza, la democrazia
semplicemente "non è", come di dice Mortati, qui,
p.4.1.; e non paia che
tale interpretazione dell'essenza della nostra
Costituzione sia una suggestione storicamente datata,
subìta dal massimo
costituzionalista italiano (Basso ci testimonia tutt'altro,
sulla dialettica del processo costituente,
qui, p.4.2.), dato che,
simmetricamente, sono gli stessi massimi pensatori
"liberali", Pareto, Mosca, Einaudi, a teorizzare che, la
democrazia, appunto "liberale", debba
necessariamente ridurre la rappresentanza popolare a
"finzione" (qui,
p.3).
2. Nel tentare di porre ordine su questo argomento, comincerei, - in una rapida rassegna compiuta col necessario punto di vista divulgativo-, dal pensiero di Rosa Luxemburg, traendo da un buon lavoro politico-filosofico (e quindi avulso dal pur fondamentale pensiero economico anticipatore della Luxemburg stessa, per la verità riattualizzatosi per l'imponenza delle forme attuali di imperialismo economico - o globalismo istituzionalizzato, e comunque evolutosi nell'analisi keynesiana di Kalecky). Si veda come, ad esempio, la formula, sopra citata, del democristiano Mortati, sia allineata sull'origine concettuale, e persino lessicale, fornita a suo tempo dalla Luxemburg:
"Un altro punto interessante della riflessione luxemburghiana riguarda la democrazia.
Per la borghesia, scrive Luxemburg, la democrazia diventa superflua o addirittura di impaccio; al contrario per la classe operaia essa resta sempre «necessaria e imprescindibile». Necessaria: «perché sviluppa forme politiche che serviranno al proletariato come punti di partenza e di appoggio per la trasformazione della società»; imprescindibile: «perché solo in essa, nella lotta per la democrazia, nell’esercizio dei suoi diritti il proletariato può diventare cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici».
Nel testo che segue,
cercheremo di comprendere
la situazione di grave isolamento in cui versa la teoria
comunista nella nostra epoca. È difficile, per i teorici,
non vedere a qual punto il
linguaggio che usano – che devono usare – risulti
incomprensibile alla grande maggioranza dei proletari, anche
quelli di buona
volontà. Questo è vero indipendentemente dalle differenti
opzioni teoriche. Tra i gruppi o gli individui che
riflettono teoricamente
sulla situazione attuale della società capitalistica, e sul
suo superamento possibile, nessuno ha trovato il linguaggio
e/o il punto di vista
che gli permettano di uscire da un piccolo milieu ripiegato
su se stesso. Questa situazione rimette in questione la
teoria comunista nella sua
specificità storica? Oppure la rimette semplicemente al
suo posto?
1. La teoria comunista e la lotta di classe
Cominciamo col dire che cosa la teoria comunista non è. La teoria comunista non è il resoconto scientifico della congiuntura economica, degli imprevisti dell’accumulazione del capitale.
![]()
La tesi
che
intendo sostenere è che il comportamento omosessuale è tanto
più diffuso quanto più la società è
contrassegnata dall’antagonismo tra i suoi membri, cioè
quanto più essa è competitiva. La riprova è costituita, a
mio avviso, dalla civiltà della Grecia antica, in cui, come
è noto, il comportamento omosessuale si manifestava nella
forma della
pederastia e rispecchiava fedelmente la struttura di una
società ove i maschi liberi vivevano immersi in una
dimensione di agonismo permanente
(lo studioso Giorgio Colli, ad esempio, fa risalire a questo
dato socio-antropologico la stessa nascita della dialettica1
), così come fortemente agonistici erano i rapporti
tra le stesse città dell’Ellade. Non a caso l’istituzione
delle
Olimpiadi fu anche e soprattutto la valvola di sfogo per
tenere sotto controllo questa energia potenzialmente
distruttiva, i cui correlati mitologici
sono rappresentati da figure come quelle di Eracle e di
Achille. Non sorprendono pertanto né la diffusione del
comportamento omosessuale in
Grecia né la sua progressiva diffusione e legittimazione
nella civiltà romana grazie alla progressiva ellenizzazione
di
quest’ultima, tappa finale del passaggio da una società di
tipo patriarcale-solidaristico ad una società
imperiale-cosmopolita con
forti connotazioni individualistiche e competitive.
Per quanto concerne l’esistenza di un nesso inscindibile fra comportamento omosessuale e competitività nelle diverse epoche e nelle diverse società, mi limito solo ad alcuni esempi relativi al settore militare, in cui il modello competitivo trova la sua principale e radicale applicazione, anche se il discorso potrebbe essere più ampio.
Questo
intervento vede la luce all’indomani dell’arresto di
Roberto Spada a Ostia, in conseguenza della sua
aggressione nei confronti di un
giornalista e in seguito a uno scambio sulla pagina
Facebook dell’autore, che qui affronta alcuni dei
temi che attraversano
sottotraccia l’intera riflessione sulle “Criminalità
immaginate” portata avanti negli ultimi anni su
questo blog.
Questo articolo considera la vicenda ostiense – fatta di evocazioni della mafia, del malessere metropolitano, del neofascismo – come una vicenda densa sul piano simbolico. Una vicenda, in altri termini, che parla al cuore, alla storia e alla biografia dei militanti della sinistra radicale italiana, così come quello scambio sul social network suggerisce.
Il pretesto per la discussione è costituito da un articolo tratto da Gli Stati Generali, icasticamente intitolato: «Gli arresti a furor di popolo non ci piacciono: neanche per Spada». La tesi dell’intervento – perfettamente condivisibile nella prospettiva fredda dell’analista sociale, del quasi-giurista (sono un sociologo critico della devianza), oltre che del militante politico di sinistra – è che quel fermo ha probabilmente avuto luogo fuori dalla cornice dello stato di diritto, che, in casi del genere, di solito non prevede quella misura, se non in presenza di circostanze verosimilmente assenti e inattuali nella vicenda in questione (per esempio il pericolo di fuga, di inquinamento probatorio o di reiterazione del reato).

Pubblichiamo la recensione a “La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole” di Vanessa Roghi (Laterza, 2017) in occasione dell’evento del 17 novembre a Siena: Don Milani. La lettera sovversiva.
Una precedente recensione, a cura di Marco Ambra, era uscita sul nostro blog a ottobre
Certi libri, letti nell’adolescenza, ti cambiano la vita.
Ognuno ha il libro che gli è stato più caro a quindici anni.
Tre libri mi hanno strappato alle botte e al calcio di strada, preparatori ai tornelli delle acciaierie: Lo straniero e Il mito di Sisifo di Albert Camus e Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana. Quest’ultimo forse pesa più degli altri due.
Leggendolo, pensavo che fosse rivolto a me. Ovviamente non ero la professoressa, io ero il mittente. Non mi sentivo infatti tanto diverso da quei ragazzi di Barbiana. Venivo da una famiglia operaia, ero timido di fronte ai potenti e ai ricchi. Nessuno nella mia famiglia si era mai laureato e mi avevano iscritto al liceo non senza esitazioni. Lavoro sicuro alle acciaierie di Piombino o eventuale figlio dottore? Il “pezzo di carta” era lontano, la fabbrica era vicina.
I miei coetanei a quindici anni erano già nella fase in cui i genitori li formavano nella tecnica della metalmeccanica di base. E a me ormai dicevano: te studia.
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«La frutta era l’unico elemento della loro dieta. Quegli esseri del futuro erano vegetariani rigorosi, e per tutto il tempo che rimasi con loro, pur desiderando un pezzo di carne, fui frugivoro anch’io».
È l’anno 802.701. Il Viaggiatore del Tempo ha appena incontrato una delle due razze che popolano il futuro della Terra: si tratta degli Eloi, creature bellissime, fragili, pacifiche, piccole di statura come bambini, dalla pelle color porcellana e simili tra loro anche nel sesso. Conducono una vita di puro divertimento e sono dotati di scarsa immaginazione e intelletto.
Si tratta di una citazione de La macchina del tempo, uno dei racconti più celebri di H.G. Wells, pubblicato per la prima volta nel 1895. Nell’Inghilterra di fine Ottocento, uno scienziato racconta ai suoi più stretti amici di aver trovato il modo di viaggiare nel tempo, ma non viene creduto. Otto giorni dopo, durante una cena a casa sua, il protagonista ricompare in uno stato alterato, i vestiti in disordine e il volto spettrale: racconterà davanti a una platea sbigottita, di aver viaggiato avanti e indietro nel tempo fino a raggiungere l’anno 802.701, periodo in cui l’umanità è divisa in due tronconi differenti: gli Eloi, appunto, e i Morlock, esseri mostruosi che vivono nelle viscere della terra. Costoro escono la notte per cibarsi delle carni degli Eloi, da loro accuditi e allevati come bestie da macello. Se gli Eloi sono fruttariani, i Morlock non solo sono carnivori ma si cibano addirittura della carne dei fragili Eloi.
La legge di Bilancio 2018 è una manovra con poche luci e moltissime ombre, dove i vincoli europei non possono rappresentare un alibi. Anche perchè sarà lo stesso Parlamento a decidere se ratificare o meno, entro l’anno, il Fiscal Compact
La manovra del “vorrei ma non posso”. È questa l’impressione che si ha leggendo la Legge di Bilancio 2018 trasmessa lo scorso 31 ottobre al Parlamento, in notevole ritardo rispetto alla scadenza del 20 ottobre prevista dalla normativa. Un ritardo che evidenzia la difficoltà nel chiudere i conti, ma anche l’ulteriore riduzione di spazio di dibattito per un Parlamento che ha sempre meno voce in capitolo sui conti dello Stato.
La sostanza della Legge di Bilancio viene discussa e decisa altrove e in primo luogo viene pesantemente ingabbiata nei limiti e vincoli degli accordi europei siglati dal nostro Paese. In questo senso, se l’approvazione finale della manovra in Parlamento è ormai un atto poco più che formale, entro fine anno lo stesso Parlamento dovrà decidere se ratificare il Fiscal Compact, trattato che ci obbligherebbe a riportare entro venti anni il rapporto debito/Pil al 60%.
Come dire che, indipendentemente dai Governi in carica, ci vincoliamo a venti anni di alta imposizione fiscale, tagli alla spesa e rinuncia a qualsiasi seria politica pubblica di investimento nel nome di un parametro economico deciso oltre due decenni fa.
Era davvero difficile prevedere che, dopo dieci anni di feroce austerità - con annesso aumento della disoccupazione - e di tagli alla spesa sanitaria ed alle pensioni, l’aspettativa di vita degli Italiani aumentasse. E infatti quell’aumento non c’è stato. I dati pubblicati dal Rapporto Osserva Salute nel 2016 hanno indicato che, per la prima volta, la vita media in Italia è diminuita, ovviamente con un calo più pronunciato dove maggiori sono stati i tagli, cioè al Sud.
Era invece facilissimo prevedere che l’ISTAT avrebbe imbrogliato sui calcoli per spacciare un presunto aumento dell’aspettativa di vita in modo da giustificare un aumento dell’età pensionabile. Prevedibile anche che i sindacati non avrebbero contestato la falsità dei dati dell’ISTAT, visto che, in base alla vigente parodia del politicamente corretto, diffidenza ed incredulità sono colpe imperdonabili. Ancora più prevedibile il fatto che i sindacati avrebbero preferito dividere i lavoratori, invischiandosi in una trattativa col governo sulla questione dell’esenzioni per i lavori “usuranti”, come se esistessero lavori non usuranti. L’unico lavoro non usurante è quello di comandare, dato che ogni errore può essere scaricato sui dipendenti.
Altrettanto scontato era che l’invecchiamento medio della popolazione lavorativa e la precarizzazione del lavoro giovanile determinassero un calo della produttività in Italia.
Negli anni Cinquanta nasceva Mark I Perceptron: la prima macchina in grado di simulare il funzionamento dei neuroni
Nel 1958, un articolo del New York Times presentava una nuova meraviglia tecnologica: “Il cervello elettronico che insegna a se stesso: nel giro di un anno sarà in grado di percepire, riconoscere e identificare ciò che lo circonda, senza bisogno di controllo o addestramento da parte dell’uomo”. Vi ricorda qualcosa? Considerando il gran parlare che si fa dell’intelligenza artificiale, molto probabilmente sì. Le promesse potenzialità di quel cervello elettronico erano ancora più vaste: avrebbe dovuto imparare a pensare come gli umani, diventare cosciente di sé e, un giorno, sarebbe potuto partire per visitare “altri pianeti come una sorta di esploratore spaziale meccanico”.
Insomma, le aspettative erano decisamente elevate; perché allora ci sono voluti quasi sessant’anni per trasformare parzialmente in realtà quelle promesse? Per capirci qualcosa, dobbiamo prima fare un altro passo indietro. Negli anni Quaranta, i biologi stavano sviluppando le prime teorie per spiegare come l’intelligenza e l’apprendimento fossero il risultato dei segnali trasmessi tra i neuroni nel cervello umano. La tesi fondamentale – che poi è quella valida ancora oggi – era che i collegamenti tra alcuni neuroni si rafforzassero attraverso la frequenza delle comunicazioni.
Si chiude la lunghissima parentesi di potere, iniziata nel 1980, di Robert Mugabe. Nelle migliori tradizioni africane, si sta verificando un pochino quello che è successo con il “golpe geriatrico” con cui, in Tunisia, Ben Alì sostituì in modo incruento un Bourguiba oramai troppo anziano per comandare, preservando i gruppi di potere legati al regime.
Mugabe, oramai a 93 anni, stava evidentemente preparando la successione a favore della moglie Grace, di 41 anni più giovane, con il cervello di una “sguattera”, che lo ha spinto a destituire il delfino naturale, il “coccodrillo” Emerson Mnangagwa. Solo che il coccodrillo, compagno di armi di Mugabe sin dai tempi della Bush War con la quale il regime bianco di apartheid della ex Rhodesia venne abbattuto, è l’uomo di riferimento degli apparati di intelligence e dell’Esercito: ex Ministro della Sicurezza dello Stato, della Giustizia e della Difesa, ha solide relazioni con i militari che hanno deposto Mugabe.
Finisce malinconicamente una dittatura feroce e cleptocrate, ma attenzione: dittatura, ferocia e cleptocrazia sono termini occidentali. Non appartengono a categorie africane della politica, dove la democrazia liberale non fa parte del retaggio collettivo, perché non c’è mai stata una borghesia nazionale vera e propria, se non la piccola consorteria di affaristi cresciuti all’ombra dei padroni coloniali, di cui parlava Fanon.
Il dopo-guerra della lotta al terrorismo è ancora più complicato della guerra. È un conflitto dove in Siria coabitano, tra le tensioni, ambiziosi attori regionali e superpotenze, è un altro capitolo del confronto tra sunniti e sciiti e dello scontro all’interno dello stesso campo sunnita dove gli interessi dei turchi, per esempio, non coincidono più con quelli degli arabi. Erdogan, leader di un Paese Nato, è ormai passato armi e bagagli nel campo di Putin e ha deciso di mantenere in sella Bashar Assad.
Ma ora che sono cadute le roccaforti di Al Baghdadi, quella all’Isis è diventata una guerra ancora più sporca, intorbidata dalla spartizione delle aree di influenza.
Come la caduta dei talebani in Afghanistan nel 2001 non fu la fine di Al Qaeda, il sospetto che la sconfitta territoriale del Califfato non sarà la fine dell'Isis è sempre più forte. E diventa più consistente, dopo il reportage della Bbc che documenta l’accordo dei curdi siriani per l’uscita indenne da Raqqa di 4mila jihadisti armati, foreign fighters compresi, con l’avallo americano e britannico. Un’intesa “segreta” ma già denunciata dai russi ai quali la coalizione a guida Usa avrebbe impedito di bombardare le colonne jihadiste.
La lotta al terrorismo è una realtà a geometria variabile. Viene condotta dagli alleati degli americani e da Washington a seconda degli interessi tattici e geopolitici che guidato i rapporti tra le potenze occidentali e i loro partner arabi.
La vicenda di Ostia si iscrive in un quadro di relazioni sociali deteriorate, in cui il rapporto tra criminalità e fascismo si rafforza col procedere della crisi. Allargando la visuale, riusciremmo però a individuare la cornice culturale entro cui si manifesta la schizofrenia borghese che manipola le mitologie della periferia. Ci viene in soccorso un’intervista a Roberto Saviano, ingegnere delle nuove mitopoiesi ribelli. Immediatamente dopo l’aggressione di Roberto Spada al giornalista Daniele Piervincenzi, Saviano si contraddistinse per la posizione più dura: «Ostia capitale di Mafia. […] Per quanto mi riguarda, alla luce di tutto questo, combattere CasaPound significa fare antimafia». Nel congeniale ruolo di sostituto procuratore nazional-popolare, il Nostro invocava la repressione più severa: nessuna pietà per Spada e soci, anzi: indagare anche gli eventuali referenti politici. Molto bene, finalmente qualcuno che dice le cose come stanno, abbiamo pensato anche noi. Questo il Saviano di lotta, il Pm mediatico che a ideologie unificate proclama il suo j’accuse legalista. C’è però anche il Saviano di governo, artefice di una nuova e perversa educazione criminale. A Repubblica spiega il suo détournament espressivo: «Nel libro Gomorra parlo delle vittime, negli articoli racconto la resistenza dei magistrati. Nelle serie volevo che il punto di vista fosse quello dei boss». Dietro questo pensiero, persino eccessivamente sincero, c’è una visione del mondo che produce mostri sociali.
Da Salon, la denuncia del giornalista americano Dave Lindorff, collaboratore di una grande varietà di testate: la lotta alle fake news è un attacco a chi riporta punti di vista differenti rispetto alla linea mainstream; i media alternativi (e con loro blogger e siti di opinione, aggiungiamo noi) devono difendersi dalle campagne maccartiste che iniziano ad essere lanciate dai media mainstream, in una strategia che cerca di cooptare anche i giornalisti e i giganti del web, attraverso la minaccia, e che non esclude il ricorso alla fine della neutralità di internet. L’ennesima prova che in tutto il mondo occidentale cosiddetto libero le condizioni dell’informazione sono in drammatico declino e che sono sempre più forti le pulsioni verso una svolta decisamente autoritaria, di cui la “polizia del pensiero” sarà solo il primo passo.
* * * *
Sono giorni difficili in cui essere un giornalista serio. Fai il resoconto di una storia oggi, con i tuoi fatti graziosamente messi in fila, e probabilmente te la ritroverai etichettata come “notizia falsa” da qualunque persona alla quale tu abbia incornato le proprie bufale – e anche dagli amici che non condividono la tua prospettiva politica. Per buona misura, diranno che ti sei basato su “fatti alternativi”
Gli storici dicono che il termine “fake news” risale all’epoca della “stampa scandalistica” del tardo 19° secolo, ma il termine è decollato nel 2016, poco più di un anno fa, durante la corsa presidenziale di Donald Trump.
L’interesse per l’evoluzione scientifica ed economica con nuovi strumenti coinvolge il futuro del lavoro e deve essere all’ordine del giorno delle scelte politiche
Giornali, periodici e programmi tv non specialistici si sono interessati nelle ultime settimane dell’evoluzione scientifica dell’informatica e della robotica, della fisica e della matematica che si occupano di intelligenza artificiale. Tematica che è legata alle prospettive del lavoro e che, obbligatoriamente, chiama in causa anche la politica e le sue scelte economiche. Parlarne e scriverne diventa necessario.
Incontrando scienziati che dalle aule universitarie ai laboratori di ricerca studiano la materia si soddisfa la curiosità e si comprende quanta strada c’è da percorrere per colmare almeno un po’ la profonda ignoranza sulla tematica.
Quando parliamo di intelligenza artificiale descriviamo, innanzitutto, quell’insieme di studi e di tecniche che sono pertinenti, da un lato, all’informatica e, dall’altro, alla ricerca di logica matematica senza dimenticare le implicazioni di natura filosofica e sociale, dunque coinvolgenti la politica economica. Questo perché parliamo della realizzazione di attrezzature, macchine, programmi per la soluzione di problemi con la riproduzione di attività specifiche dell’intelligenza umana simulandone il comportamento.

Il presente progetto di ricerca
sull'aggiornamento del paradigma del materialismo storico
nasce a metà degli anni '90. La prima edizione di Cybercom.
Per l'evoluzione del
marxismo risale al luglio 2007. Si trattava di un
pamphlet a tesi piuttosto breve, grezzo e incompleto come le
severe quanto preziose critiche e
osservazioni dei lettori mi fecero notare. La consapevolezza
delle loro ragioni mi indusse a pubblicare una seconda
edizione rivista e ampliata un
anno e mezzo dopo. Il risultato fu più che confortante: alle
voci cybercomunismo e sociologia della creatività il
motore di
ricerca Google classificava il sito al primo posto su un
totale rispettivamente di 10.300 e risultati al 31 luglio
2011. Posizione occupata dal
gennaio 2010 fino a tutto il 2013. All'epoca, i risultati
precedenti la pubblicazione del libro erano di circa 7.000 e
230.000. Segno evidente che le
integrazioni avevano suscitato un crescente interesse.
Le ulteriori critiche e suggerimenti e gli eventi occorsi da allora hanno prodotto questa terza edizione, cresciuta dalle duecento pagine della prima a oltre quattrocento. L’impianto teorico originale è rimasto invariato, ma sono stati aggiunti i mancanti ampliamenti e le necessarie precisazioni, ulteriori schemi sintetici e molti dati empirici che spero contribuiscano a chiarire in modo più esaustivo le tesi.
Pubblichiamo un’interessante riflessione sulla ricostruzione dell’identità comunista e non genericamente di “sinistra”, ancor più necessaria durante il passaggio elettorale
“ … si dichiara inconsistente il concetto stesso di
"scopo finale" e si
respinge categoricamente l’idea della dittatura del
proletariato; si nega l’opposizione di principio tra
liberalismo e socialismo; si nega
la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile
in una società rigorosamente democratica, amministrata
secondo la volontà
della maggioranza, ecc.”
(Lenin, Che fare?)
“Prima di unirci, e per unirci,
dobbiamo innanzitutto delimitarci
(definirci) risolutamente e con
precisione”
(Lenin, Dichiarazione della redazione
dell'Iskra)
Da tempo, anche nel PRC, si insiste sulla necessità di un'unità elettorale con forze genericamente “di sinistra”. Ma, prima di stabilire le linee su cui un partito comunista possa, in precise situazioni, andare a un tavolo con forze non comuniste, è doveroso definire i punti fermi dell'identità comunista.
Alcuni compagni sembrano ritenere quasi “obbligatoria”, sempre e comunque, la partecipazione del PRC alle competizioni elettorali, indipendentemente da scelte contingenti e obiettivi di prospettiva delle forze con cui dovrebbe costituirsi l'eventuale unità elettorale.
Scricchiolio, brusio, vocio,
brulichio, ronzio, cicaleccio, pissi pissi, perfino flatulenze
revansciste … Le ultime settimane ci hanno lanciato nella
contesa elettorale.
Sono quelle in cui i cancelli si aprono e ogni genere di
botolo si lancia ringhiando all’inseguimento del coniglio di
pezza. Più che il
tifo tonitruante di scommettitori e drogati di corse fine a se
stesse, sono questi rumorii ad aver fatto vibrare etere,
cronaca e storia. Degni di
quella che appare come una gara non proprio tra levrieri.
(Quei levrieri che consolarono lo zar Nicola II quando, nel
1905 a San Pietroburgo, dovette
far abbattere dalla guardia imperiale alcune migliaia di
operai e contadini straccioni che ai suoi levrieri osarono
contendere i bocconi. Quegli
operai e contadini straccioni che, nella storiografia della
Mosca attuale, sono diventati turba di farabutti violenti che
attentavano alla vita di uno
zar buono e saggio, finalmente in procinto di essere
proclamato santo nel plauso dei nipoti dei servi della gleba
dagli zar così amorevolmente
curati).
Sto divagando. Torniamo al brulichio. Brulichio per noi, ché per coloro che lo hanno emesso parrebbe avere il volume e la risonanza delle trombe di Gerico. Sembra che oggi basti riempire un teatro, occupare il palco di una conferenza stampa, vedersi in quattro amici al bar, per ricavarne investiture popolari con la stessa naturalezza e automaticità in cui i re erano tali per grazia di dio e volontà del popolo. Se in Ernest Hemingway la campana di Spagna suonava per l’umanità, qui trillano campanelle per ribaltare il destino di qualche circoscrizione.
La letterina della Commissione UE appena giunta al governo italiano chiarisce tutto. I burocrati europei confermano che la legge Fornero è un tabù intoccabile. E che il governo si è già formalmente impegnato su questo
Un vecchio governo democristiano avrebbe sicuramente evitato questo crisi da burla con la CGIL. Infatti cosa sarebbe costato promettere che non ci sarebbe stato l'innalzamento dell'età della pensione da 66 anni e 7 mesi a 67 anni? Già oggi l'asticella della quiescenza è stata elevata a limiti intollerabili sia per le persone che lavorano, sia per quelle che un lavoro non lo trovano anche perché si va in pensione troppo tardi. CGIL CISL UIL non chiedevano né hanno mai chiesto la cancellazione della legge Fornero, ma solo di non alzare ancora, almeno per un po', un'età della pensione che è già la più alta d'Europa. Un governo di una volta avrebbe concesso questa misera vittoria a sindacati che da tempo non chiedono più niente, avrebbe rinviato lo scatto d'età e ci avrebbe fatto sopra un po' di campagna elettorale. E CGIL CISL UIL avrebbero festeggiato. Il tutto, lo ripetiamo, al prezzo di una misura, non far andare in pensione dal 2019 cinque mesi dopo, socialmente irrilevante.
Invece Gentiloni ha tenuto duro: il folle automatismo che lega pensione e aspettativa di vita, una delle regole più assurde e jettatorie che il liberismo abbia inventato, gli scatti periodici dell'età pensionabile non si toccano.
Prendendo spunto dall’ultima gaffe televisiva di Luigi Di Maio - nella trasmissione di Fabio Fazio ha parlato dei suoi incontri all’estero con i propri <<alter ego>> -, Goffredo Buccini (Di Maio re delle gaffe? Lo avvicinano alla gente, <<Corriere della Sera>> del 14 novembre) svolge una riflessione sul modo in cui funzionano le relazioni fra plebe ed élite. Dopo avere stilato un impietoso elenco delle performance del nostro: congiuntivi massacrati, inglese approssimativo, Pinochet che diventa venezuelano, il sociologo Luciano Gallino trasformato nello psicologo Gallini, ecc., lo <<riabilita>> rivolgendosi così agli esponenti di quella sinistra che lo sfotte: voi, con tutta la vostra cultura, siete incapaci di comunicare con la gente, mentre Di Maio, se capirà che non deve rimpannucciarsi ma sfruttare la propria vocazione di Mike Buongiorno della politica, non avrà problemi a bagnarvi il naso, convertendosi in una icona pop perché il popolo potrà rispecchiarsi in lui (come si è rispecchiato, aggiungerei, nelle barzellette di Berlusconi e nei cachinni politicamente scorretti di Grillo).
Giusto, ma è solo una parte della verità. Buccini si limita a fotografare la superficie dell’esistente, vale a dire su un sistema politico ridotto a mero esercizio comunicativo.
È il caso di dirlo: abbiamo un problema. Noi, come lavoratrici e lavoratori, come operaie, casalinghi, riders, come militanti, abbiamo un grosso problema. Questo problema attualmente si aggira per la Germania creando nuovamente scompiglio. Sì, perché questo problema lo abbiamo avuto diverse volte in passato, ma continua a schivare l’interesse dei più.
Sono stati i cinque saggi tedeschi, amici della lungimirante Angela (cosi lungimirante che ha bisogno di cinque persone che le dicano dove sta e come sta messa), a rimettere in circolo il problema che si aggira tra noi come uno spettro. Si tratta del problema della giornata lavorativa che necessariamente significa anche quale lavoratore deve lavorare in quella giornata. Per aiutarci a risolvere il nostro problema, i cinque saggi del German Coucil of Economic Experts sembrano proporre l’esistenza di un lavoratore medio, un’entità che incarnando il desiderio medio della classe lavoratrice, una classe media ovviamente, sta lentamente distruggendo ogni traccia, anche minima, di tutele dei lavoratori, quelli non medi. Così nel momento in cui la giornata lavorativa è sempre meno sottoposta a forme giuridiche universali e si estende per tutte le ore del giorno e in tutti gli spazi del globo, abbiamo comunque una figura di lavoratore a cui fare riferimento per comprendere e accettare il nostro sfruttamento.
Trattato Onu-Ican. 243 parlamentari italiani hanno firmato per la ratifica del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari
L’Ican, coalizione internazionale di Ong insignita del Nobel per la Pace 2017, comunica che 243 parlamentari italiani hanno firmato l’«Impegno Ican» a promuovere la firma e la ratifica da parte del governo italiano del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari.
È il Trattato adottato dalle Nazioni Unite il 7 luglio 2017. Che all’Articolo 1 stabilisce che «ciascuno Stato parte si impegna a non permettere mai, in nessuna circostanza, qualsiasi stazionamento, installazione o spiegamento di qualsiasi arma nucleare nel proprio territorio; a non ricevere il trasferimento di armi nucleari né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». All’Articolo 4 il Trattato stabilisce: «Ciascuno Stato parte che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi».
Impegnandosi a promuovere l’adesione dell’Italia al Trattato Onu, i 243 parlamentari si sono quindi impegnati a promuovere:
1) la rapida rimozione dal territorio italiano delle bombe nucleari Usa B-61 e la non-installazione delle nuove B61-12 e di qualsiasi altra arma nucleare;
Chi ragiona in politichese non lo potrà mai capire: consenso elettorale e equilibri politici dipendono da una certa struttura sociale. Se questa è “equilibrata” – ossia con un livello di soddisfazione e benessere che copre la grande maggioranza della popolazione – anche la sfera della politica avrà un suo equilibrio, relativamente stabile degli anni. Se al contrario si moltiplicano le figure sociali che sentono peggiorare la propria condizione, allora anche l’equilibrio politico andrà a ramengo. Qualsiasi sia il marchingegno elettorale, qualsiasi sia il livello di “disponibilità” dei vari partiti alla collaborazione.
La notizia di stamattina è che la Germania, a due mesi dalle elezioni (24 settembre), non riesce a darsi un governo. Intorno alla mezzanotte le trattative performare una coalizione “giamaica” – unendo i colori identificativi di democristiani (Cdu e Csu bavarese), liberali e verdi – si sono interrotte con una vera e propria rottura che non lascia al momento immaginare soluzioni.
A far saltare il tavolo, alla fine, è stato il leader dei liberali Christian Lindner: “Manca la fiducia di base” fra i vari partiti, affermando che i liberali non vogliono “piantare in asso” gli elettori, e che, in questa situazione, “meglio non governare affatto che governare male”.
L’atteggiamento di sufficienza con
cui
storicamente i compagni aderenti ai gruppi della sinistra
rivoluzionaria del passato hanno guardato al movimento delle
donne, giudicandolo in base ad
una pretesa ortodossia marxista, la pretesa di autosufficienza
di chi si impegna nel “movimento” o nelle lotte sindacali, il
considerare
le donne proletarie, in particolare quelle del sud del mondo,
come sottomesse e arretrate, è un atteggiamento a dir poco
incauto.
La questione di genere è, nella prospettiva rivoluzionaria cui si richiamano i comunisti, una questione assolutamente centrale.
Non si è mai data nella storia una rivoluzione senza la partecipazione attiva e autonoma delle donne.
Nei tempi recenti, e soprattutto nelle grandi rivoluzioni degli ultimi due secoli, le donne sono state in prima fila, hanno anzi dato il là mobilitandosi per prime e trascinando con la loro determinazione l’intero proletariato.
La doppia o tripla oppressione che subiscono le donne in tutto il pianeta è sicuramente un peso, ma al tempo stesso un vantaggio. Esse hanno molte più ragioni di ribellarsi dei loro compagni, e infatti lo hanno fatto e lo fanno continuamente, conquistando con dure battaglie anche i minimi miglioramenti della loro condizione, pagati spesso con l’isolamento e la riprovazione sociale, quando non anche con l’aggressione fisica.
Pubblichiamo in anteprima la prefazione del volume Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo, scritto da Andrea Fumagalli (Derive Approdi, 2017). Si ringrazia l’editore
Alla fine
del 2007 (dieci anni fa) pubblicavo un libro dal titolo
“Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma
di accumulazione”[1]. Si trattava del
tentativo di sviluppare una critica dell’economia politica
delle forme di accumulazione e valorizzazione del capitalismo
contemporaneo,
sviluppatosi sulle ceneri e sulle trasformazioni del
capitalismo fordista-materiale che aveva caratterizzato la
seconda metà del secolo
scorso.
Venivano discusse le nuove forme dell’accumulazione capitalistica basate, da un lato, sulla finanza come strumento di valorizzazione e, dall’altro, sul ruolo sempre più rilevante della conoscenza e dello spazio come perni della riorganizzazione della produzione e del lavoro. Dopo il periodo del cd. post-fordismo, a partire dalla metà degli anni ’90, un nuovo paradigma si andava affermando in modo sufficientemente egemone e pervasivo in buona parte del globo. Avevamo così cominciato a parlare di capitalismo cognitivo, termine che, come noto, ha suscitato non poche polemiche, soprattutto all’interno di quel pensiero critico, di impostazione marxista, che ritenevano ancora dominanti le modalità di estrazione del plusvalore di derivazione fordista. Secondo questa visione, il processo di sussunzione reale, la netta separazione tra macchina e essere umano, tra lavoro produttivo di matrice salariale e lavoro tendenzialmente improduttivo (o residuale) che incorpora attività cognitive e relazionali (ritenute ancora intellettuali) erano ancora le basi per definire la natura e la forma del rapporto di sfruttamento insito nel rapporto capitale-lavoro.
Ovviamente
scomparso dalle librerie, torna rieditato da Pgreco Conversazioni
con Stalin, il libro di memorie del dirigente
comunista jugoslavo Milovan
Gilas, al tempo della pubblicazione (1962) già compromesso con
l’anticomunismo e di lì a poco definitivamente venduto
all’Occidente. Nonostante ciò, si tratta di un libro
bellissimo, per chi lo sa leggere. In prima battuta è
semplicemente lo sfogo
dell’ex dirigente in rotta col suo partito. Grattata via la
superficie del rancore emerge il punto di vista intimo di un
capo comunista, per
anni ai vertici del movimento comunista jugoslavo, posizione
che gli ha permesso numerosi incontri con la dirigenza
sovietica e in primo luogo con
Stalin. Da questi incontri Gilas ne ricava un’antropologia del
potere sovietico e un’essenza del comunismo. Ma andiamo con
ordine.
C’è un fatto che caratterizza i rapporti tra Jugoslavia e Urss, e che difficilmente si ritroverà nelle relazioni tra Unione sovietica e gli altri paesi del glacis: nonostante l’ovvia “devozione” per Stalin e l’Urss, il gruppo dirigente jugoslavo cercò di mantenere sempre le relazioni politiche su di un piano di parità e di indipendenza. Fatto questo reso possibile dalla particolare evoluzione della Resistenza jugoslava che, come noto, si liberò autonomamente dell’invasore nazi-fascista, ma non solo: in Jugoslavia si sviluppò parallelamente alla guerra d’indipendenza una massacrante guerra civile contro le formazioni monarchico-nazionaliste cetniche. Una doppia guerra che portò sia alla Liberazione che alla nascita di un nuovo Stato. Questo fatto impresse al comunismo jugoslavo la sua originalità nonché la predisposizione a salvaguardare gelosamente le conquiste epocali prodotte dalla Resistenza-Rivoluzione del ’41-’45. Di questa indipendenza sono intrise le pagine di questo diario.
Non bisogna farsi eccessive illusioni per evitare altrettanto smodate delusioni. Se però veramente, nonostante le incertezze e i ritardi di Rifondazione, si arriverà alla costruzione di una lista anticapitalista, saremo di fronte a un passaggio assai importante e probabilmente irreversibile, per il quale sarà forse valsa la pena di soffrire i dolori di un lunghissimo travaglio. E anche gli errori e i vicoli ciechi e persino le meschinità e l inadeguatezze personali si riveleranno come piccole astuzie della nostra pur piccola storia.
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Finalmente - per quanto obtorto collo e per la forzatura di una piccola avanguardia che ha colto il kairos - viene tracciata una linea divisoria nella pratica non solo nei confronti della sinistra liberale ma anche della sinistra complementare: solo ora, si può dire, dopo aver perso 10 anni, cominciamo a reagire alla catastrofe del 2008 aggredendone le cause principali e cioè la subalternità e la mentalità della riduzione del danno.
Due mesi dopo le elezioni del 24 settembre, la Germania si trova ancora senza governo. Per di più, sarà destinata a restarci ancora per molto, e già si affaccia l’ipotesi di nuove elezioni. Quello che viene portato avanti come esempio di “stabilità” politica si è impantanato nel più classico stallo all’italiana. Uno stallo che però ha motivazioni di portata generale. La Germania è solo l’ultimo dei paesi senza governo. Negli ultimi due anni, soltanto in Europa, abbiamo avuto la Spagna senza governo per un anno intero, l’Olanda per otto mesi, la Gran Bretagna ancora oggi senza maggioranza parlamentare. La “stabilità” non risiede evidentemente nei governi nazionali. Difatti, nessuno di questi tre paesi ha dovuto affrontare vendette finanziarie, attacchi speculativi, fuga degli investitori o declini produttivi. Al contrario, hanno tutti visto un significativo rialzo delle stime di crescita. Anche per l’Italia la prospettiva di lunghi mesi senza governo e di probabile ritorno alle elezioni non spaventa gli osservatori più avveduti. Come ha scritto ieri Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, «forse il rischio politico italiano, ovvero che non vi sia una maggioranza di governo dopo le prossime elezioni, è largamente sovrastimato. Alcuni osservatori più attenti, leggendo i programmi dei vari schieramenti, non sono così allarmati dal fatto che alla fine non vinca nessuno». Questo squarcio di sincerità contraddice anni di strepiti sulla necessità di una maggioranza governativa.
«La razionalità, secondo Freud, non ha niente di naturale. Essa è una dura e precaria conquista; lo è innanzi tutto nella sua genesi attraverso l’infanzia dell’individuo, ma anche nel suo mantenimento attraverso ciascun momento della vita individuale, e così nelle sue affermazioni culturali collettive attraverso la storia dell’umanità». Così cominciava uno fra i lavori più noti di Francesco Orlando, Illuminismo e retorica freudiana (1982), entro il quale il percorso della ragione occidentale era contraddittoriamente tratteggiato come un cammino «faticoso, repressivo», costellato di «aberrazioni»; e insieme, d’altra parte, come un inevitabile «progresso», sia pure pagato dalla civiltà in termini di repressione. In questo quadro, la letteratura viene a essere un alleato fondamentale per indagare la parabola di quella stessa civiltà, una “seconda vista” raffinata e confidenziale, capace di scrutare gli angoli marginali del vivere sociale, di raccontare le frustrazioni e le speranze, il senso del proibito, il dolore e l’aspirazione alla gioia disseminati lungo l’intera esistenza degli uomini.
La Cina avrà un ruolo centrale nella fase di ricostruzione della Siria. Un processo lungo e difficile, quello che dovrà rimettere in sesto un paese dilaniato da una guerra per procura lunga quasi 7 anni, che costerà centinaia di miliardi di dollari e alla quale Pechino non vuole rinunciare. Nel mese di luglio, la Repubblica Popolare ha annunciato un piano di da 2 miliardi di dollari per la realizzazione di un parco industriale in Siria per 150 aziende cinesi, anche se finora i dettagli trapelati sul progetto non sono molti. Nel mese di agosto, inoltre, numerose aziende cinesi hanno partecipato alla 59esima edizione della Fiera Internazionale di Damasco: evento preceduto dal “Syria Day Expo”, organizzato dall’ambasciata siriana a Pechino.
La Cina pronta a investire in Siria
A far emergere il nuovo protagonismo della Cina in Siria, come riporta Asia Times, è la notizia inerente la recente visita dell’ambasciatore cinese a Manin, cittadina di 100 mila abitanti situata a nord di Damasco. Un sopralluogo che è stato seguito, passo dopo passo, dall’agenzia di stampa governativa Sana: era dal 2011 che un diplomatico straniero non visitava la città. L’ambasciatore cinese Qi ha ispezionato i progetti di ristrutturazione e riqualificazione della città finanziati dal governo cinese attraverso il Comitato Internazionale della Croce Rossa.
“Abbiamo fatto anche cose buone” – Alessia Morani, renziana del PD
Il Movimento 5 Stelle ha vinto il ballottaggio col Polipo delle Libertà a Ostia, il Trono di Spada.
Il PD non s’era neanche qualificato.
È logico che proprio quest’anno il ministro dello Sport, Luca Lotti, sia un renziano.
Che il PD si proponga come “argine” al fascismo è grottesco, almeno quanto l’autodifesa di Minniti dalle accuse (tardive) dell’ONU sui campi di concentramento libici.
Il PD ha sistematicamente sbancato tutti gli argini al fascismo, e adesso è logico paghi almeno le conseguenze elettorali della marea nera alla quale ha consegnato il paese.
Il 40% preso alle elezioni europee meno di 4 anni fa sembra ormai lontano un quarantennio. Viene da chiedersi se sia davvero accaduto, o sia soltanto un falso ricordo stile Blade Runner.
Il tentativo del PD di rappattumare attorno a sé brandelli del defunto Ulivo è patetico quanto inutile. Chiunque degli Scappati di casa si rivenderà al Cazzaro perderà tutto il proprio già esiguo consenso elettorale, che gli deriva solo dall’essersene allontanato.
L’unità che Veltroni invoca sarebbe in realtà un omicidio-suicidio collettivo, come d’altronde tutte le sue iniziative politiche.
Chi sarà a raccogliere i frutti della pressoché certa disfatta PD alle elezioni nazionali?

Pubblichiamo con qualche trepidazione alcune pagine sul socialismo, partecipando a modo nostro all'anniversario e soprattutto al dibattito sul futuro della sinistra
<What does the economist
economize? "'Tis love, 'tis love," said the
Duchess, "that makes the world go round." "Somebody said,"
whispered Alice, "that it's done by everybody minding
their own business." "Ah well,"
replied the Duchess, "it means much the same thing." ...
if we economists
mind our own business, and do that business well, we can,
I believe, contribute mightily to the economizing, that is
to the full but thrifty
utilization, of that scarce resource Love – which we know,
just as well as anybody else, to be the most precious
thing in the world>
(D.H.Robertson 1954, p. 154, citazione di Alice da Lewis
Carroll)*
Sommerso dalla didattica e dal chiudere un po’ di lavori, non ho potuto seguire con grande attenzione quanto pubblicato in queste settimane in occasione del centenario della rivoluzione sovietica. Del resto quel poco che ho letto (in italiano o in inglese) non mi è stato di grande ispirazione. Manca una chiave. Questa chiave io non ce l’ho. So due o tre cose che, come al solito, ho imparato dai maestri. Un solo lavoro che ho letto recentemente (Foley 2017) mi è stato di qualche stimolo.
1. Non intendo qui diffondermi troppo
sui due
tipi di razionalità (e di funzioni); su entrambe sono state
scritte infinite pagine e considerazioni. Mi interessa semmai
chiarire alcune
differenze e distinzioni. Innanzitutto, la metis – l’astuzia,
il raggiro, l’inganno, ecc. (“il cavallo di Troia”)
– fa parte dell’arte strategica, ne può in certi casi
costituire l’aspetto principale, ma non fa conseguire, in
ultima
analisi, una vera supremazia, non consente di prevalere se non
in casi assai particolari e magari in presenza di una discreta
dose di ingenuità
dell’avversario. Nemmeno credo si possa identificare la
funzione strategica con la mera volontà di potenza, comunque
quest’ultima
possa essere intesa.
La strategia non è solo “arte”, non è solo carattere vitalistico e prorompente di una “personalità” – anche collettiva, in senso allora assai lato – portata a prevalere e a subordinare le altre, quelle “nemiche”. La strategia esige un elemento intuitivo (almeno all’apparenza), il cosiddetto colpo d’occhio, ma deve strettamente intrecciarsi con una precisa valutazione della situazione sul campo: risorse a disposizione, articolazione e movimento delle forze in campo, attenta mappatura e studio di quest’ultimo; con rapida presa in esame di ogni mutamento della situazione stessa e delle risposte da dare ai cambiamenti.
A distanza di dieci anni dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui ipotecari “subprime” negli USA, molti osservatori guardano con preoccupazione allo svilupparsi di altre “bolle”, invariabilmente collocate nell’ambito dei business “poveri”. La bolla dei mutui “subprime” non era basata su un business soltanto povero, ma poverissimo, se si considera che negli Stati Uniti la parola “casa” non indica un edificio di mattoni e cemento armato, bensì intelaiature in legno con pannelli prefabbricati appiccicate sopra, roba che una tromba d’aria si porta via come niente. Solo che, in quella circostanza, le case non furono portate via agli abitanti da un tornado ma dalle banche. Lo scoppio della bolla, in definitiva, non portò troppo male alle banche, ma solo alle vittime delle loro truffe finanziarie. Poco male, visto che già venti milioni di americani vivono “stabilmente” in roulotte e camper: se accadesse in Russia sarebbe un crimine di Putin, ma succede negli USA, perciò i media ci narrano che si tratta di uno stile di vita e di una scelta di libertà.
Oggi le bolle sotto osservazione sono soprattutto quelle del credito al consumo e del credito studentesco. In particolare, i debiti degli studenti statunitensi - e non solo statunitensi - hanno toccato vette non più ripagabili. Per compensare i creditori si dovrà pensare a forme aggiornate di schiavizzazione a vita dei laureati.
Il bitcoin, o chi per lui, è il deus ex machina del liberismo. Nel momento della sua più grande crisi, è apparso per salvarlo e rafforzarlo
La prima cosa importante da dire è che il termine "bitcoin" lo potete sostituire con un altro, non è veramente importante. Oggi rappresenta quel mondo, ma nessuno esclude che possa essere sostituito da un'altra criptovaluta più performante o gradita.
Ma di cosa stiamo parlando?
Molto semplicemente, al di là degli aspetti tecnici che vedono lavorare algoritmi, enorme capacità computazionale e, chissà un domani, anche l'intelligenza artificiale applicata all'interno del meccanismo di creazione e transazione di queste "monete", ciò che merita attenzione è l'aspetto politico del fenomeno.
Voglio fare un esempio, che per essere d'aiuto sarà abbastanza banale: televisione e liberismo.
Ecco, facciamo conto di ritenere la TV uno strumento che ha enormemente favorito la salita del liberismo economico, politico e sociale nel nostro Paese. È strumento di propaganda, crea modelli di comportamento e spinge sempre e comunque (tranne rarissime occasioni, tipo un Pasolini intervistato, che comunque ne spiegava i limiti devastanti) verso la società disegnata per essere culturalmente limitata, monovisionaria e, soprattutto, spinta a favore di quei paradigmi che un sovranista sano combatte e vuole rovesciare.
Dopo 60 anni di attesa, annuncia la ministra della Difesa Roberta Pinotti, sta per nascere a dicembre la Pesco, «Cooperazione strutturata permanente» dell’Unione europea nel settore militare, inizialmente tra 23 dei 27 stati membri.
Che cosa sia lo spiega il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Partecipando al Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea, egli sottolinea «l’importanza, evidenziata da tanti leader europei, che la Difesa europea debba essere sviluppata in modo tale da essere non competitiva ma complementare alla Nato». Il primo modo per farlo è che i paesi europei accrescano la propria spesa militare: la Pesco stabilisce che, tra «gli impegni comuni ambiziosi e più vincolanti» c’è «l’aumento periodico in termini reali dei bilanci per la Difesa al fine di raggiungere gli obiettivi concordati».
Al budget in continuo aumento della Nato, di cui fanno parte 21 dei 27 stati della Unione europea, si aggiunge ora il Fondo europeo della Difesa attraverso cui la Ue stanzierà 1,5 miliardi di euro l’anno per finanziare progetti di ricerca in tecnologie militari e acquistare sistemi d’arma comuni. Questa sarà la cifra di partenza, destinata a crescere nel corso degli anni.
Oltre all’aumento della spesa militare, tra gli impegni fondamentali della Pesco ci sono «lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione a partecipare insieme ad operazioni militari».
L'orribile morte di Regeni è il riflesso di una strategia geopolitica ben più grande, segnata dalla dottrina Barnett, un caos voluto dagli anglosassoni per assoggettare l'Europa e non solo
Il Comitato No Guerra No Nato, sezione di Genova, assiste con sgomento al reiterato tentativo, sia da parte dei media mainstream che da quelli alternativi, di veicolare la tesi che le responsabilità del "volutamente" efferato omicidio di Giulio Regeni, vadano attribuite al regime di Al-Sisi, una tesi che fa a pugni con la logica e gli interessi dei due paesi in questione.
Anche su Pandora TV, in una puntata della rubrica "Sarò Franco"[1], è stata portata avanti questa tesi. Con il presente articolo intendiamo contribuire, pur nel nostro piccolo, a fare chiarezza su un caso che contiene al suo interno tutte le contraddizioni del nostro tempo, senza al contempo voler mettere in dubbio in alcun modo, ovviamente, le capacità oltre che l’integrità politica e morale di Franco Fracassi, la cui ricostruzione del caso però, come detto, non ci appare congruente alla realtà dei fatti che possiamo vedere noi.
Sono trascorsi quasi due anni ormai da quando, lo scorso 25 gennaio 2016, Giulio Regeni veniva rapito e poi ucciso al Cairo. A distanza di pochi giorni dal ritrovamento del suo cadavere orribilmente torturato, seguono due fatti che fanno immediatamente sospettare il coinvolgimento dei servizi segreti angloamericani in tutta la faccenda.
Fumata nera per la coalizione "Giamaica" in Germania: i Liberali hanno detto no ad Angela Merkel. Probabile il ritorno alle urne. La lezione tedesca
Nessun futuro per una coalizione "Giamaica". Christian Lindner (Fdp) ha detto no a un governo di coalizione Cdu, Liberali e Verdi e Angela Merkel ha dovuto prendere atto che i margini di trattativa sono esauriti. Ma era stato lo stesso Lindner in ottobre a dire alla Faz che il maggiore ostacolo stava nella definizione della linea politica sui temi europei. "Il tema di fondo è la fine dell'era Merkel — spiega Vladimiro Giacché, economista ed esperto del mondo tedesco —. Oggi (ieri, ndr) lo Handelsblatt ha pubblicato un editoriale del suo direttore in cui si dice che siamo di fronte alla peggiore sconfitta della Merkel. E' vero".
* * * *
Questo fallimento era nelle cose?
Angela Merkel ha perso nettamente le elezioni del 24 settembre. Non ne è uscita peggio dell'Spd solo perché la formazione guidata da Schulz è ai suoi minimi dal 1949, ma la Cdu in termini percentuali ha perso più voti. Una candidatura, quella della Merkel, tutt'altro che scontata visti i problemi di popolarità della cancelliera, ma abilmente costruita facendone la figura in grado di raccogliere il testimone di Obama dopo l'avvento di Trump. Ora anche questo gioco mostra la corda.
Nell’ambito di un breve
intervento non posso che estrapolare alcuni aspetti della
riflessione gramsciana, cercando di tener ferma, come
metodologia, una visione complessiva
che non separi politica, economia e società. E cercherò di
mettere in evidenza come alcuni brani gramsciani che si
riferiscono alla
rivoluzione d’Ottobre, possano essere punti di riferimento per
l’attuale battaglia politico-culturale.
Una premessa sostanziale (a maggior ragione a fronte di distorsioni recenti e meno recenti): la formazione politica e culturale di Gramsci è profondamente segnata dall’evento della rivoluzione d’Ottobre. La rivoluzione socialista costituisce il problema fondamentale della sua epoca, e le strategie da mettere in atto in Italia e in Occidente per realizzare la rivoluzione rimangono al centro della riflessione dei Quaderni.
Quando pubblica, il 24 novembre 1917, sull’Avanti, la sua «Rivoluzione contro il “Capitale”», Antonio Gramsci è ancora un giovane militante del Partito socialista italiano, permeato dall’idealismo crociano e gentiliano.
Riportiamo la traduzione dall’inglese (a
cura di Michela
Pusterla e Franco Palazzi e rivista dall’autrice)
dell’articolo “On quitting. The labour of academia” di
Francesca Coin,
originariamente apparso alcuni giorni fa su Ephemera
– Theory and Politics in
Organization
Negli ultimi anni, si
è assistito a un evidente incremento della “quit lit”, un
nuovo genere di letteratura fatto di rubriche ed editoriali
che
raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o
senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Questo
articolo esamina
l’impatto dell’accademia neoliberale sulla soggettività.
Nell’università neoliberale, la soggettività
è intrappolata in una rete di aspettative contrastanti: da
un lato, ci si aspetta che si rispettino standard elevati di
concorrenza,
dall’altro, il corpo vive la competizione come una forma
incentivata di abuso di sé. In questo contesto, abbandonare
l’accademia
non significa semplicemente dimettersi da un incarico: è un
sintomo dell’urgenza di creare uno spazio tra il discorso
neoliberale e la
percezione di sé, un atto di ribellione volto ad abdicare
alla logica competitiva dell’accademia neoliberale e ad
abbracciare valori e
principî di altro tipo.
Introduzione
Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per The New Inquiry intitolato “On quitting”. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: «disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione» (Macharia, 2013).
C’è un periodo centrale
della storia contemporanea della Germania, dell’Europa e
persino del mondo, a quasi un secolo dal suo inizio, che
andrebbe riscoperto e
approfondito, a mio avviso, ma ad avviso anche di molti altri
commentatori politici attuali[1], al fine di
trarne la giusta esperienza per il presente e per i tempi
futuri o, più semplicemente, al fine di creare un quadro
dell’epoca più
veritiero ed oggettivo possibile. Cadere in una lettura
incompleta della storia, infatti, è alquanto facile ed un
approfondimento che vada
oltre la lettura di un semplice articolo di giornale o del
programma scolastico di storia è doveroso se si vogliono
cogliere tutte le sfumature
e non rimanere intrappolati nella “parzialità” cui spesso
veniamo relegati in quanto ultimi attori dei processi politici
e
sociali.
Il periodo in oggetto è la Repubblica di Weimar, Germania dal 1918 al 1933, periodo repubblicano transitorio tra l’epilogo dell’Impero, in seguito alla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, e l’avvento al potere di una delle dittatura più feroci della storia, quella nazista. Periodo in cui visse una fragile democrazia, con suffragio universale e una Costituzione “sociale”, molto simile a quella adottata poi, ad esempio, nel nostro Paese nel ‘48.
La frase è rimasta famosa, e viene usata per indicare giravolte politiche, anche di 180 gradi, a fini (ritenuti) piú importanti delle posizioni sostenute in precedenza. Non è inutile ricordare che è attribuita a colui che, il 25 luglio 1593, divenne re di Francia come Enrico IV (detto poi «il Grande»), che, da protestante («ugonotto»), per ascendere al trono “si fece” cattolico. La posta in gioco (Parigi, capitale del regno di Francia) valeva il rinnegamento del protestantesimo per il cattolicesimo.
Non è questo anche il caso di Di Maio & M5S? Di Maio è andato negli Usa a rassicurare il “grosso” alleato (per modo di dire) del nostro paese sugli intenti “tranquilli” di un futuro (eventuale) governo M5S (ma già con l’ambasciata Usa in Italia c’erano stati rapporti, con lo stesso Grillo), riconoscendo il “valore” della Nato; si è incontrato con esponenti della Chiesa, chiaramente dando “garanzie” su nessun “torbido” con la Chiesa stessa, in caso di futuro governo M5S; da tempo ha affermato che non c’era nessun contrasto con l’Ue in quanto tale, semmai con “alcune” sue politiche, e ora un esponente M5S ha conseguito un posto nella Commissione difesa dell’Ue. Inoltre Di Maio prende tutte le distanze dai partiti (detti) «euroscettici», mentre nel movimento ogni polemica con l’euro, nei fatti, è stata messa da parte, e nemmeno si criticano piú le sanzioni alla Russia, ma si dubita della loro «efficacia». E Di Maio afferma che adotterà la “politica di Trump” di forti tagli di tasse alle imprese.
Oggi sono avvenuti due fatti che il "senso comune globalista" vorrebbe far passare come "normali" e che "normali" non sono per niente.
Il primo è la condanna all'ergastolo per "crimini contro l'umanità" e "genocidio" ai danni del generale serbo Ratko Mladic.
Chi ha pronunciato il verdetto?
Il Tpi, ovvero il Tribunale internazionale per i crimini di guerra costituito proprio per le guerre che portarono alla fine dell'ex Jugoslavia, meglio conosciuto come Tribunale dell'Aia (istituito nel maggio del 1993 con la risoluzione 827 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite).
Il secondo fatto è la prima udienza della Corte Europea sui diritti dell'uomo sul caso Berlusconi, ovvero sulla decisione del parlamento italiano di farlo decadere da senatore e considerarlo incandidabile in base alla Legge Severino.
Cosa hanno in comune questi due fatti al netto della siderale differenza tra i due casi (la sanguinosa guerra civile in Jugoslavia e la misere vicende della "seconda repubblica"), e tra i due personaggi: un generale e combattente (mito vivente per milioni di serbi) ed un puttaniere miliardario che si crede di essere un grande statista?
Nel n. 57/2017 della rivista che è erede e prosecutrice di “Problemi del socialismo”, il celebre periodico fondato quasi sessant’anni fa da Lelio Basso, la densa polisemia di tale termine è affrontata da molteplici prospettive critiche in un dibattito a più voci, sia in riferimento alle sue definizioni nella storia culturale d’Occidente e d’Oriente, sia in rapporto alle sue elaborazioni nei problematici scenari di oggi.
Come ci ricorda Giacomo Marramao nel saggio introduttivo del nuovo numero (57/2017) di Parolechiave, rivista a lungo diretta da Claudio Pavone e poi da Mariuccia Salvati che dal 1993 è la nuova serie monografica del periodico Problemi del socialismo fondato nel 1958 da Lelio Basso, “la definizione di umanità e di umano è stata da sempre intrinsecamente conflittuale, in quanto ha sempre rappresentato un campo di lotta tra strategie, forze materiali, spinte ideali avverse, un terreno di scontro drammatico e spesso sanguinoso fra pratiche di potere e logiche discriminatorie verso l’esterno (autoctoni e stranieri, “noi” e “gli altri”) come verso l’interno (élite e massa).” “L’inumanità e la disumanità sono dunque state sin dalle origini innervate nell’umano come fattori costitutivi del suo significato”, e quindi “non è da oggi che si è prodotto lo sconfinamento tra umano e disumano: quello che a prima vista si presenta come confine è stato in realtà sempre una linea d’ombra lungo la quale venivano attivati tanto i rituali di inclusione quanto i meccanismi di esclusione o reiezione”.
A sinistra, tra un’elezione e l’altra, il tempo sembra congelato. I governi di Centrosinistra continuano a fare politiche di destra, e fuori dalle tornate elettorali in pochi sperimentano nuovo radicamento sociale, nuovo conflitto e nuove forme della politica. Poi arrivano le elezioni, e il tempo sembra non esserci più. Tutto a quel punto accelera inesorabilmente verso gli stessi dibattiti: «bisogna unire i comunisti», dicono in pochissimi; «no per salvarci bisogna unire la sinistra», risponde qualcuno; «si ma poi per battere le destre e Grillo bisogna unire il Centrosinistra», fa eco il benpensante.
Se leggiamo Repubblica siamo sicuri che ci stanno provando, non vorrebbero rassegnarsi allo scenario ad oggi più accreditato, quello in cui, dopo la collezione di sconfitte del Pd renziano, i due principali schieramenti elettorali sembrano ormai i Cinquestelle e il Centrodestra. E siccome la garanzia della crescita di Grillo – nonostante tutte le esperienze amministrative – e della resurrezione di Berlusconi sembra proprio Matteo Renzi, adesso tutti evocano la Coalizione. Sembra un po’ tardi, ma per riuscirci pare abbiano messo in campo il fior fiore del loro personale politico.
Nel ruolo di mediatore è stato scelto Piero Fassino, che nel 2007 era il segretario dei Ds e traghettò il vecchio partito nel Pd, successivamente è divenuto famoso per le sue profezie («Se Grillo vuole fondare un partito lo faccia, vediamo quanti voti prende…»).
E’ oramai ufficiale ciò che sottotraccia si intuiva oramai da qualche settimana: il tentativo della Merkel di formare un (peraltro fragilissimo) Governo “Giamaica” fallisce ufficialmente. A farlo fallire sono quei liberali che hanno prodotto l’ex Ministro delle Finanze Schaeuble, che con il suo “non-paper” di fine mandato ha lanciato proposte (come la creazione di un rischio-Paese per i portafogli di titoli pubblici detenuti dalle banche) che, ove attuate, comporterebbero il default di interi Stati membri, come l’Italia, ed il tracollo del loro sistema bancario, controbilanciandolo con una presa in carico integrale delle loro politiche economiche da parte di una sorta di “FMI europeo”, l’ESM riformato. In sostanza, in cambio dei necessari prestiti per sostenere economie fallite e sistemi bancari e dei pagamenti in corto circuito, l’ESM prenderebbe in carico tutte le politiche economiche (fiscali, di bilancio, del lavoro) dello stato membro, imponendo una dose massiccia e senza paracadute di riforme strutturali di tipo neoliberista. Poiché l’ESM sarebbe controllato in misura maggiore dalla Germania, che ne sarebbe il principale contribuente, tramite tale veicolo Schaeuble otterrebbe il risultato di far fallire economie manifatturiere tradizionalmente concorrenti della Germania e di metterle sotto tutela finanziaria e di politica economica principalmente della Germania, tramite un organismo tecnico non legato ad alcuna legittimazione politica o elettorale.

Prefazione al volume “Gramsci e il giudice” di Ruggero Giacomini
Tra i
tormenti che affliggono Gramsci in carcere c’è un dubbio,
semplice e atroce: i suoi compagni di partito si stanno
realmente impegnando
per la sua liberazione, oppure c’è qualcuno che trama
nell’ombra per ostacolarla o renderla impossibile? A partire
da questo
dubbio, alcuni interpreti si sono sbizzarriti in ricostruzioni
romanzesche, al cui centro campeggia l’avventurosa
affermazione secondo cui il
grande pensatore e rivoluzionario avrebbe concluso la sua
esistenza dando l’addio alla militanza comunista. Ho parlato
di ricostruzioni
romanzesche per il fatto che esse si fondano sul nulla. Non
solo i Quaderni, anche le Lettere dal carcere
testimoniano sino alla
fine l’interesse simpatetico di Gramsci per il paese scaturito
dalla rivoluzione d’Ottobre.
Non vengono trascurati neppure gli aspetti più minuti: lo dimostrano i riferimenti positivi (nelle lettere al figlio Delio dell’estate e del novembre 1936) al «giornale dei pionieri» e alla «giovane e valorosa filologia sovietica», alla «letteratura fresca» e «criticamente elaborata» sviluppatasi in Unione Sovietica su Puškin e Gogol (LC, ed. a cura di A. A. Santucci, Palermo 1996, pp. 779 e 786). Ed è sempre del 1936, anche se il mese è imprecisato, una lettera a Giulia in cui come punto di forza dell’educazione del figlio Delio viene sottolineato il fatto che egli ha vissuto non «la vita meschina e angusta di un paese della Sardegna» bensì la vita di «una città mondiale dove confluiscono enormi correnti di cultura e di interessi e di sentimenti che raggiungono anche i venditori di sigarette della strada» (LC, p. 794).
Negli ultimi giorni sta uscendo
un’intera biblioteca di articoli sui giganti della tecnologia
e credo che la maggior parte di essi siano scritti così bene,
e le idee ivi
contenute così bene espresse, che c’è poco da aggiungere.
Unica cosa, credo di poter avere la soluzione ai problemi che
sono
davanti agli occhi di molta gente. Temo altresì che non verrà
adottata, e che si farà in modo che non lo sia proprio. Se le
cose
stanno in questo modo, siamo davvero lontani da qualsiasi
soluzione. E questa è davvero una brutta notizia.
Cominciamo con una critica in senso generale -e financo benevola- scritta per il Guardian da Claire Wardle e Hossein Derakhshan.
In che modo le notizie sono diventate “false notizie”? Quando i media sono diventati sociali
I media sociali ci costringono a vivere sotto gli occhi di tutti, ci mettono al centro della scena in qualunque cosa facciamo ogni giorno. Erving Goffman, sociologo statunitense, ha formulato il concetto della “vita come teatro” nel suo libro Presentation of self in everyday life uscito nel 1956.
Tendiamo ad interpretare l'attuale
crisi per
mezzo delle teorie cicliche di una generazione più vecchia.
Mentre gli economisti ufficiali frugano in cerca di "germogli
verdi" [i primi
segnali che, dopo una recessione, un'economia sta crescendo
di nuovo] di recupero, i critici critici si domandano
soltanto se ci vorrà un
po' più tempo per "ripristinare" la crescita. È vero che se
partiamo dalle teorie dei cicli economici, o addirittura dalle
onde lunghe,
allora diventa facile supporre che boom e crolli si susseguano
puntuali come un orologio, e che le fasi di declino sempre
"preparano la strada" per
impennate di ripresa. Ma quanto è probabile, quando e se si
sistema questo macello, che vedremo una nuova età d'oro del
capitalismo?
[*1]
Potremmo cominciare col ricordare che gli anni del miracolo della precedente età d'oro (approssimativamente, 1950-1973) dipendevano non solo sa una guerra mondiale e da un enorme incremento della spesa pubblica, ma anche da passaggio senza precedenti della popolazione dall'agricoltura all'industria. Le popolazioni agricole si sono rivelate una potente arma nella ricerca della "modernizzazione", dal momento che hanno fornito una fonte di lavoro a basso costo per una nuova ondata di industrializzazione. Nel 1950, il 23% della forza lavoro tedesca veniva impiegata in agricoltura, il 31% in Francia, il 44% in Italia ed il 49% in Giappone - nel 2000, tutti questi paesi avevano la loro popolazione agricola al di sotto del 5%. [*2]
Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza, 2017) è il libro di Marta Fana uscito il 5 ottobre e già diventato un caso editoriale
«Che bello che riesci
a scrivere libri,
io infatti devo smetterla di scrivere sui giornali… ci sono
troppe cose più serie da dire».
Ricevevo questo messaggio nell’aprile del 2016 e sembra quasi uno scherzo rileggerlo adesso. Me lo mandava dal suo profilo twitter una giovane ricercatrice di economia di cui leggevo di tanto in tanto gli articoli che firmava per «il manifesto». Non sapevo ancora che aveva già messo in difficoltà il ministro Poletti sui numeri del jobs act e che in tv – che non guardo mai – le stavano cucendo addosso il vestito della “ragazza dei numeri” per il suo debunking statistico dei dati del governo. Mi disse che era una dottoranda italiana che faceva ricerca a Parigi e io colsi l’occasione per chiederle un suo parere su alcune osservazioni relative al rapporto tra classe media e classe lavoratrice. Si trattava, spiegavo, di cose che mi servivano da tradurre in narrativa per un manoscritto a cui stavo lavorando con fatica. Quando riassunsi i punti del mio ragionamento, commentò: «Ma questa è proprio la mia tesi di dottorato!» Mi sorprese questa sintonia, la ringraziai e continuai a leggerla con interesse sui quotidiani, soprattutto quando un suo pezzo epistolare indirizzato a Poletti mi fece fare un balzo sulla seggiola.
Non ebbi più contatti con lei fino a quando non la incontrai a una presentazione del mio libro Amianto a Modena, un anno fa. Complici i tempi stretti e un treno da prendere al volo per tornare a casa in serata, feci un passaggio un po’ troppo rapido sulla coscienza di classe del nuovo precariato, dando per scontato il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé.
Pubblichiamo con qualche trepidazione alcune pagine sul socialismo, partecipando a modo nostro all'anniversario e soprattutto al dibattito sul futuro della sinistra
<What does the economist
economize? "'Tis love, 'tis love," said the
Duchess, "that makes the world go round." "Somebody said,"
whispered Alice, "that it's done by everybody minding
their own business." "Ah well,"
replied the Duchess, "it means much the same thing." ...
if we economists
mind our own business, and do that business well, we can,
I believe, contribute mightily to the economizing, that is
to the full but thrifty
utilization, of that scarce resource Love – which we know,
just as well as anybody else, to be the most precious
thing in the world>
(D.H.Robertson 1954, p. 154, citazione di Alice da Lewis
Carroll)*
Sommerso dalla didattica e dal chiudere un po’ di lavori, non ho potuto seguire con grande attenzione quanto pubblicato in queste settimane in occasione del centenario della rivoluzione sovietica. Del resto quel poco che ho letto (in italiano o in inglese) non mi è stato di grande ispirazione. Manca una chiave. Questa chiave io non ce l’ho. So due o tre cose che, come al solito, ho imparato dai maestri. Un solo lavoro che ho letto recentemente (Foley 2017) mi è stato di qualche stimolo.
1. Non intendo qui diffondermi troppo
sui due
tipi di razionalità (e di funzioni); su entrambe sono state
scritte infinite pagine e considerazioni. Mi interessa semmai
chiarire alcune
differenze e distinzioni. Innanzitutto, la metis – l’astuzia,
il raggiro, l’inganno, ecc. (“il cavallo di Troia”)
– fa parte dell’arte strategica, ne può in certi casi
costituire l’aspetto principale, ma non fa conseguire, in
ultima
analisi, una vera supremazia, non consente di prevalere se non
in casi assai particolari e magari in presenza di una discreta
dose di ingenuità
dell’avversario. Nemmeno credo si possa identificare la
funzione strategica con la mera volontà di potenza, comunque
quest’ultima
possa essere intesa.
La strategia non è solo “arte”, non è solo carattere vitalistico e prorompente di una “personalità” – anche collettiva, in senso allora assai lato – portata a prevalere e a subordinare le altre, quelle “nemiche”. La strategia esige un elemento intuitivo (almeno all’apparenza), il cosiddetto colpo d’occhio, ma deve strettamente intrecciarsi con una precisa valutazione della situazione sul campo: risorse a disposizione, articolazione e movimento delle forze in campo, attenta mappatura e studio di quest’ultimo; con rapida presa in esame di ogni mutamento della situazione stessa e delle risposte da dare ai cambiamenti.
Nell’ambito di un breve
intervento non posso che estrapolare alcuni aspetti della
riflessione gramsciana, cercando di tener ferma, come
metodologia, una visione complessiva
che non separi politica, economia e società. E cercherò di
mettere in evidenza come alcuni brani gramsciani che si
riferiscono alla
rivoluzione d’Ottobre, possano essere punti di riferimento per
l’attuale battaglia politico-culturale.
Una premessa sostanziale (a maggior ragione a fronte di distorsioni recenti e meno recenti): la formazione politica e culturale di Gramsci è profondamente segnata dall’evento della rivoluzione d’Ottobre. La rivoluzione socialista costituisce il problema fondamentale della sua epoca, e le strategie da mettere in atto in Italia e in Occidente per realizzare la rivoluzione rimangono al centro della riflessione dei Quaderni.
Quando pubblica, il 24 novembre 1917, sull’Avanti, la sua «Rivoluzione contro il “Capitale”», Antonio Gramsci è ancora un giovane militante del Partito socialista italiano, permeato dall’idealismo crociano e gentiliano.
Riportiamo la traduzione dall’inglese (a
cura di Michela
Pusterla e Franco Palazzi e rivista dall’autrice)
dell’articolo “On quitting. The labour of academia” di
Francesca Coin,
originariamente apparso alcuni giorni fa su Ephemera
– Theory and Politics in
Organization
Negli ultimi anni, si
è assistito a un evidente incremento della “quit lit”, un
nuovo genere di letteratura fatto di rubriche ed editoriali
che
raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o
senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Questo
articolo esamina
l’impatto dell’accademia neoliberale sulla soggettività.
Nell’università neoliberale, la soggettività
è intrappolata in una rete di aspettative contrastanti: da
un lato, ci si aspetta che si rispettino standard elevati di
concorrenza,
dall’altro, il corpo vive la competizione come una forma
incentivata di abuso di sé. In questo contesto, abbandonare
l’accademia
non significa semplicemente dimettersi da un incarico: è un
sintomo dell’urgenza di creare uno spazio tra il discorso
neoliberale e la
percezione di sé, un atto di ribellione volto ad abdicare
alla logica competitiva dell’accademia neoliberale e ad
abbracciare valori e
principî di altro tipo.
Introduzione
Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per The New Inquiry intitolato “On quitting”. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: «disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione» (Macharia, 2013).
L’atteggiamento di sufficienza con
cui
storicamente i compagni aderenti ai gruppi della sinistra
rivoluzionaria del passato hanno guardato al movimento delle
donne, giudicandolo in base ad
una pretesa ortodossia marxista, la pretesa di autosufficienza
di chi si impegna nel “movimento” o nelle lotte sindacali, il
considerare
le donne proletarie, in particolare quelle del sud del mondo,
come sottomesse e arretrate, è un atteggiamento a dir poco
incauto.
La questione di genere è, nella prospettiva rivoluzionaria cui si richiamano i comunisti, una questione assolutamente centrale.
Non si è mai data nella storia una rivoluzione senza la partecipazione attiva e autonoma delle donne.
Nei tempi recenti, e soprattutto nelle grandi rivoluzioni degli ultimi due secoli, le donne sono state in prima fila, hanno anzi dato il là mobilitandosi per prime e trascinando con la loro determinazione l’intero proletariato.
La doppia o tripla oppressione che subiscono le donne in tutto il pianeta è sicuramente un peso, ma al tempo stesso un vantaggio. Esse hanno molte più ragioni di ribellarsi dei loro compagni, e infatti lo hanno fatto e lo fanno continuamente, conquistando con dure battaglie anche i minimi miglioramenti della loro condizione, pagati spesso con l’isolamento e la riprovazione sociale, quando non anche con l’aggressione fisica.
Pubblichiamo in anteprima la prefazione del volume Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo, scritto da Andrea Fumagalli (Derive Approdi, 2017). Si ringrazia l’editore
Alla fine
del 2007 (dieci anni fa) pubblicavo un libro dal titolo
“Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma
di accumulazione”[1]. Si trattava del
tentativo di sviluppare una critica dell’economia politica
delle forme di accumulazione e valorizzazione del capitalismo
contemporaneo,
sviluppatosi sulle ceneri e sulle trasformazioni del
capitalismo fordista-materiale che aveva caratterizzato la
seconda metà del secolo
scorso.
Venivano discusse le nuove forme dell’accumulazione capitalistica basate, da un lato, sulla finanza come strumento di valorizzazione e, dall’altro, sul ruolo sempre più rilevante della conoscenza e dello spazio come perni della riorganizzazione della produzione e del lavoro. Dopo il periodo del cd. post-fordismo, a partire dalla metà degli anni ’90, un nuovo paradigma si andava affermando in modo sufficientemente egemone e pervasivo in buona parte del globo. Avevamo così cominciato a parlare di capitalismo cognitivo, termine che, come noto, ha suscitato non poche polemiche, soprattutto all’interno di quel pensiero critico, di impostazione marxista, che ritenevano ancora dominanti le modalità di estrazione del plusvalore di derivazione fordista. Secondo questa visione, il processo di sussunzione reale, la netta separazione tra macchina e essere umano, tra lavoro produttivo di matrice salariale e lavoro tendenzialmente improduttivo (o residuale) che incorpora attività cognitive e relazionali (ritenute ancora intellettuali) erano ancora le basi per definire la natura e la forma del rapporto di sfruttamento insito nel rapporto capitale-lavoro.
Ovviamente
scomparso dalle librerie, torna rieditato da Pgreco Conversazioni
con Stalin, il libro di memorie del dirigente
comunista jugoslavo Milovan
Gilas, al tempo della pubblicazione (1962) già compromesso con
l’anticomunismo e di lì a poco definitivamente venduto
all’Occidente. Nonostante ciò, si tratta di un libro
bellissimo, per chi lo sa leggere. In prima battuta è
semplicemente lo sfogo
dell’ex dirigente in rotta col suo partito. Grattata via la
superficie del rancore emerge il punto di vista intimo di un
capo comunista, per
anni ai vertici del movimento comunista jugoslavo, posizione
che gli ha permesso numerosi incontri con la dirigenza
sovietica e in primo luogo con
Stalin. Da questi incontri Gilas ne ricava un’antropologia del
potere sovietico e un’essenza del comunismo. Ma andiamo con
ordine.
C’è un fatto che caratterizza i rapporti tra Jugoslavia e Urss, e che difficilmente si ritroverà nelle relazioni tra Unione sovietica e gli altri paesi del glacis: nonostante l’ovvia “devozione” per Stalin e l’Urss, il gruppo dirigente jugoslavo cercò di mantenere sempre le relazioni politiche su di un piano di parità e di indipendenza. Fatto questo reso possibile dalla particolare evoluzione della Resistenza jugoslava che, come noto, si liberò autonomamente dell’invasore nazi-fascista, ma non solo: in Jugoslavia si sviluppò parallelamente alla guerra d’indipendenza una massacrante guerra civile contro le formazioni monarchico-nazionaliste cetniche. Una doppia guerra che portò sia alla Liberazione che alla nascita di un nuovo Stato. Questo fatto impresse al comunismo jugoslavo la sua originalità nonché la predisposizione a salvaguardare gelosamente le conquiste epocali prodotte dalla Resistenza-Rivoluzione del ’41-’45. Di questa indipendenza sono intrise le pagine di questo diario.

Alcuni spunti di riflessione a partire dall’assemblea del 18 novembre a Roma
In
queste pagine abbiamo provato a sintetizzare i contenuti
espressi dalle mobilitazioni degli ultimi dieci anni di crisi:
assistiamo ogni
giorno alla guerra dei ricchi contro i poveri, di quelli che
hanno gli strumenti – economici, tecnici, legislativi – per
arricchirsi
sempre di più e quelli che resistono solo col proprio lavoro e
la propria determinazione.
Di tutte queste mobilitazioni abbiamo registrato le voci all’assemblea del 18/11 a Roma, dove decine di interventi, da più parti d’Italia, hanno raccontato esperienze di resistenza, partecipazione, attivismo, lotta; abbiamo provato a costruire un programma minimo che le tenga dentro e le connetta tutte.
Abbiamo voluto scrivere un testo breve e incisivo perché crediamo che non ci serva un lunghissimo elenco di promesse e proposte, ma pochi punti forti su cui in tanti possiamo continuare a impegnarci con l’obiettivo del protagonismo delle classi popolari.
Vorremmo provare a formulare assieme alcuni elementi di metodo e di intervento quotidiano, da portare avanti anche a prescindere dalla prossima scadenza elettorale: sui temi qui indicati vogliamo crescere e tornare ad essere protagonisti nei nostri territori, prima, durante e dopo le elezioni. Speriamo davvero che questo testo possa essere dibattuto, integrato, migliorato dalla partecipazione di tante e tanti.
“L’economia è il
metodo. L’obiettivo è cambiare l’anima”
Margaret Thatcher
I.
Una volta Lukács ha scritto che quando tutte le strade per
esprimersi sembrano chiuse, quando il contesto nel
quale si opera non offre (come la weberiana gabbia d’acciaio)
nessuno spazio per la libera azione del soggetto, quando il
sistema sociale che
abbiamo davanti appare come un Moloch inattaccabile e
immodificabile, allora il soggetto muove verso l’unico luogo
che gli appare
intatto, modificabile, non compromesso: la propria
interiorità.
Per Lukács è un trucco. Quell’interiorità è già assolutamente colonizzata dallo spazio esterno, ma la sua presunta autonomia garantisce al sistema sociale un doppio risultato. Da un lato, se tale spazio di libertà persiste, allora il sistema non apparirà così oppressivo; dall’altro il soggetto interiormente autonomo potrà sviluppare una proprio etica, creare nell’isolamento della propria interiorità un sistema di valori, anche in opposizione al sistema medesimo. Questa è la ragione per cui Lukács ce l’ha a morte con l’etica, che chiama, con chiaro intento sarcastico, “la prassi dell’individuo isolato”, vale a dire un sistema ideologico che, non interessato a socializzarsi, rafforza la percezione psicologica di una possibile separazione (autonomia) fra l’interiorità del soggetto e lo spazio esterno della prassi collettiva.
Quella che segue è la traduzione della postfazione all'ultimo libro di Tom Thomas, "Le capital automate", in uscita in Francia a fine novembre per le "Editions Jubarte". Inutile sottolineare che naturalmente l'analisi e le considerazioni espresse più avanti, si attagliano benissimo anche alla situazione italiana, pure in mancanza [per ora] del "fattore Macron"!
Queste elezioni sono un'occasione
per tornare al termine "populismo", termine mistificante come
si vedrà, ma abbondantemente utilizzato dai media per
stigmatizzare il "Front
Nazional" ed il partito degli "Insoumis". La crescita
esponenziale dell'influenza di questi partiti riguardo un
numero non trascurabile di proletari,
ha in effetti mostrato assai bene quanta importanza abbia
avuto sostenere che non serva a niente sostituire, come essi
sostengono, dei dirigenti del
"Comitato per la politica monetaria" (MPC) con degli altri
dirigenti che affermano di essere "anti-sistema", mentre
aspirano solo a dirigere loro
stessi quel sistema con lo scopo dichiarato di stimolarne
meglio la sua "crescita", vale a dire la valorizzazione e
l'accumulazione di capitale.
Questo piccolo libro ci ha ricordato il modo in cui l'opera geniale di K. Marx consente di affermare che, nel Comitato per la politica monetaria, è il movimento di auto-valorizzazione del capitale - in altre parole, il capitale che esiste solo in quanto valore che si valorizza - a dirigere gli agenti della produzione; e non loro a dirigere il capitale. Loro, vale a dire principalmente coloro che occupano i posti più elevati nel mondo aziendale, nei media, nella finanza e, in particolare, negli apparati dello Stato, e che si sforzano di assicurare una riproduzione sempre più allargata del capitale (la sua accumulazione). Loro sono - e non possono essere altro se non - i «funzionari del capitale».
Le cantonate capitano. Chi non le prende alzi la mano! Quando però diventano troppe sullo stesso argomento, esse ci segnalano qualcosa che non va. E ci obbligano a qualche riflessione.
Sto parlando della nuova legge elettorale, tema di cui tanti discutono spesso senza capirci granché, come nel caso di certi commentatori di cui ci siamo già occupati, a proposito dei cosiddetti "accordi tecnici nei collegi", talmente "tecnici" da essere tecnicamente impossibili (e guarda caso non se ne parla proprio più, chissà perché...). Qui però non mi riferisco a giornalisti dalla collaudata superficialità, bensì a soggetti solitamente "informati dei fatti".
Mi ha colpito in proposito uno scritto di Aldo Giannuli, persona molto preparata in materia. E' lo stesso Giannuli che ha istruito il percorso che ha portato alla formulazione della proposta di legge di M5S. Detto en passant, proposta a nostro avviso pessima, ma questo è un altro discorso. Di certo non si può dire però che Giannuli non conosca i sistemi elettorali. Al contrario.
A maggior ragione ho sgranato gli occhi di fronte a questa sua affermazione: «La legge attribuisce 232 seggi ai collegi uninominali e 398 alle circoscrizioni proporzionali, inoltre è previsto un premio di maggioranza per la lista di maggioranza relativa che superi il 40%». Lì per lì ho pensato di aver inteso male.
Il tormentone di queste settimane sui media di sistema è quello delle “fake news”, le false notizie che circolano in rete.
In uno dei tanti dibattiti televisivi, mi capita di ascoltare una parlamentare del PD, di cui ignoro felicemente il nome, mentre sostiene che addirittura “mettono a rischio la democrazia”, perché – argomenta l’onorevole – la distorsione della verità non consente a chi ne è vittima di formarsi un’opinione corretta e quindi di scegliere consapevolmente.
Eppure sono pronto a scommettere che se si prendessero tutte le bufale circolate in rete dall’inizio del secolo a oggi si scoprirebbe che il loro effetto cumulato è irrilevante, specie se paragonato a quello di alcune bufale propalate dai media di sistema.
Due a caso: le famose armi di distruzione di massa che hanno fornito il pretesto della guerra in Iraq, scatenata da Bush jr nel 2003; o l’asserita minaccia di un massacro di 50.000 civili in Libia, che secondo Obama rendeva improrogabile l’intervento del 2011 per rovesciare il “sanguinario dittatore Gheddafi”.
Insieme, queste due perle di manipolazione hanno comportato centinaia di migliaia di morti e in entrambi i casi le conseguenze si scontano ancora oggi.
Non riesco a ricordare nessuna bufala, fra quelle circolanti in rete, altrettanto letale.
La portata e la rapidità del collasso ambientale sono oltre ogni immaginazione
Quale delle seguenti consideriamo la questione ambientale più urgente al mondo? Il collasso climatico, l’inquinamento atmosferico, la scarsità di acqua, i rifiuti di plastica o l’espansionismo urbano? La mia risposta è: nessuna delle precedenti.
Sorprendentemente, credo che il collasso climatico occupi il terzo posto rispetto a due problemi che ricevono solo una minima parte di attenzione. Non è per sminuire il pericolo del surriscaldamento globale, che al contrario è una minaccia dell’esistenza. E’ semplicemente che ho capito che altri due problemi hanno un impatto così enorme ed immediato da far retrocedere questo gran problema al terzo posto.
Uno è la pesca intensiva, che in tutto il pianeta sta causando un collasso ecologico sistemico. L’altro è la cancellazione della vita non-umana dalla terra attraverso l’agricoltura. E forse non solo della vita non umana. Secondo la FAO (Food and Agriculture Organisation) per i ritmi attuali di perdita del suolo – dovuti in gran parte da pratiche agricole scadenti – ci sono rimasti solo 60 anni di raccolti. E questo prima che il Global Land Outlook Report, pubblicato a settembre, rivelasse che la produttività agricola mondiale è diminuita del 20%.
"I 16 Paesi CEEC (*) cominciano a rendersi conto che l’ingresso, accelerato, nella Nato e nella U.E. fu, in effetti, una sorta di “annessione” economica volta a creare ad Est tre nuovi grandi mercati: degli armamenti, dei prodotti commerciali e del lavoro a basso costo. Insomma, una manna per le multinazionali europee e d’Oltreoceano. Oggi, la parola d’ordine sembra essere: diversificare, accedere a nuove fonti di approvvigionamento finanziario, energetico e tecnologico. Guardare ad Oriente per ridurre la dipendenza dalla UE."
1…Ieri mattina, l’Andrass ut di Budapest (uno dei viali più belli del mondo, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità) era chiusa al traffico, ingabbiata in un reticolo di nastri segnaletici con la scritta “Rendorseg” (“polizia”); chiusa anche la Metro 1, la più antica d’Europa, che l’attraversa. Il movimento dei passanti era regolato da decine e decine di poliziotti che intimavano di procedere lungo i marciapiedi laterali, per lasciare sgombre le sei corsie della famosa ut, riservate a non si sa bene chi.
Intorno uno strano silenzio, squarciato dall’urlo, insistente e perforante, delle sirene spiegate di decine di mezzi delle forze dell’ordine, i soli autorizzati a scorazzare, a muoversi liberamente.
Non dobbiamo rassegnarci ad essere rappresentati da MDP, dai vari Bersani e D’Alema e da chi col Brancaccio ha tentato di mantenere in vita i cadaveri politici della sinistra di governo
Sabato 18 novembre, al Teatro Italia di Roma, alla convocazione del collettivo dell’ex OPG occupato Je So’ Pazzo hanno risposto i lavoratori garantiti, i precari, gli attivisti, gli studenti. Uomini, donne, giovani, anziani, italiani e stranieri che non vogliono rassegnarsi, come ha detto il segretario del Partito della Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, “ad essere rappresentati da Bersani o da D’Alema”. Concetto ribadito anche dall’eurodeputata Eleonora Forenza che seppellisce il cadavere del Brancaccio sottolineando come “non si potesse costruire nessuna reale alternativa con forze come MDP che hanno votato tutto, con forze che hanno sostenuto la modifica dell’art. 81 della costituzione sul pareggio di bilancio”.
“E non poteva che essere così, dal momento in cui MDP, con D’Alema e Bersani sono quelli che ancora oggi rivendicano la guerra, rivendicano le liberalizzazioni, e quei dispositivi che hanno massacrato le classi popolari in Italia e all’estero” aggiunge Carmine Tomeo, redattore del nostro giornale nonché quadro politico di Rifondazione, il cui intervento dal palco riproponiamo sotto forma di articolo.
Ma non solo di Italia si è parlato nella sede dell’ex dopolavoro ferroviario e che ha lanciato la parola d’ordine “potere al popolo”.
In tutta
Europa, come reazione all'attuale crisi socioeconomica e
democratica, si stanno diffondendo pulsioni indipendentiste:
nuove mini statualità in
opposizione allo strapotere finanziario di Bruxelles. Ma, come
dimostra la Catalogna, sono illusioni più che vie percorribili
per un reale
cambiamento. Che passa invece attraverso la valorizzazione dei
cittadini nel governo delle città, come dimostra Barcellona
con Ada Colau.
Lo scorso 5 ottobre Mauro Pili, deputato sardo di Unidos e appartenente al gruppo Misto, ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale per avviare un percorso “democratico per far scegliere ai cittadini se continuare a essere discriminati dallo Stato italiano o meno”. La sua non è una voce isolata: a quanto si apprende da un recente sondaggio, in Sardegna aumenta la percentuale del fronte indipendentista. I cittadini sardi si sentirebbero abbandonanti dallo Stato centrale, la disperazione per la crisi economica, la sfiducia nei confronti delle istituzioni, la burocrazia invincibile e impermeabile completerebbero il desolante quadro. Ma le pulsioni indipendentiste sono in crescita. Ovunque. Dal Nord al Sud Europa. Da Ovest ad Est. Non è un caso che una delegazione di indipendentisti sardi, così come di indipendentisti fiamminghi e veneti, senza contare la presenza del leghista Mario Borghezio, sia volata lo scorso 1 ottobre a Barcellona per vigilare sulle votazioni del referendum di autodeterminazione convocato unilateralmente dal governo catalano. Quella consultazione poi repressa dal governo centrale guidato da Mariano Rajoy.
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Ernest Jὒnger è stato un
Ribelle, un non allineato, ha vissuto il lungo secolo che ci
ha preceduto “il secolo breve” con il coraggio delle idee che
si fanno carne
e diventano parole. Ha smascherato la mediocrità conformista
degli intellettuali che hanno omaggiato la fine della natura
umana e con essa ogni
paradigma di verità. Il postmodernismo con la sua razionalità
debole, un esempio è il pensiero debole di Vattimo, ha
contribuito
a spezzare il senso di ribellione, favorendo l’accettazione
omologante all’interno del paradigma dell’economia. Ha
denunciato la
bandiera del “non impegno”, consapevole che non è sufficiente
la negazione, ma essa deve trasformarsi in impegno per la
libertà. Di intellettuali come Jὒnger sentiamo tutti nostalgia
e ne avvertiamo il terribile vuoto: “horror vacui”
è la nostra condizione. La sinistra è dialettica, vive del polemos,
ogni cultura ed identità necessitano della differenza
per misurare in senso qualitativo la propria storia. Il
pensiero di Junger ci sollecita a dare risposte a
sollecitazioni che benchè formulate
da una prospettiva altra, non possono che essere condivise. La
forza plastica che ne possiamo trarre è d’ausilio per
tollerare le
difficoltà della resistenza nel contesto-mondo irrazionale in
cui la comunità pensante pare arretrare, per lasciare spazio
al deserto
dell’ultimo uomo, all’anomia collettiva. E. Junger tratta del
tempo anonimo della società dello spettacolo nel quale
l’omogeneità e la linearità sono gli attributi di espressione
del tempo incardinato nella produzione, e che trasforma gli
uomini
in consumatori. E’ il regno animale dello spirito secondo la
definizione di Hegel.
La giornata di venerdì andrà ricordata per il primo sciopero in Italia dei lavoratori dello stabilimento Amazon di Castel Santangelo, Piacenza. Magazzino storico del colosso dell’e-commerce che si occupa di stoccare e spedire migliaia di prodotti in tutta Italia. Il comunicato che nei giorni scorsi ha indetto lo sciopero chiedeva una contrattazione integrativa che includa un aumento cospicuo dei premi di produttività in linea con la crescita del fatturato derivante dall’intensificarsi dei turni di lavoro. I lavoratori vogliono anche turni meno usuranti, soprattutto nei periodi di picco delle vendite, come quello iniziato ieri con il Black Friday. Nulla di rivoluzionario, le organizzazioni dei lavoratori chiedono l’apertura di un tavolo di trattativa con l’azienda per negoziare un miglioramento delle retribuzioni e condizioni di lavoro.
Per ora non si registra nessuna disponibilità aziendale. Anzi, quel che Amazon dichiara è la volontà di cercare il dialogo soprattutto con i capo reparto, i guardiani dell’ordine e della produttività degli altri. Lavoratori da fidelizzare e scagliare contro i sottoposti, in una guerra tra sfruttati.
Le rivendicazioni dei dipendenti diretti dell’azienda sono accompagnate da quelle dei sindacati rappresentativi degli assunti tramite contratto di somministrazione, quell’avanguardia del precariato usa e getta cui le aziende ricorrono nei periodi di maggiore intensità degli ordini.
Gianluigi Coppola, prendendo spunto dal conferimento del Nobel per l’economia a Thaler, pone in evidenza i legami originariamente esistenti tra scienza economica e filosofia e sostiene che il pensiero neoclassico affermatosi nella seconda metà del secolo scorso ci ha riportato alla filosofia dei presocratici nella cui visione l'uomo è un atomo, una realtà indivisibile e quel che accade al suo interno è dato e irrilevante ai fini dell’analisi economica. Coppola conclude la sua riflessione suggerendo di riscoprire gli economisti classici
Il conferimento nel 2017 del premio Nobel per l’economia a Richard Thaler, economista comportamentale, e nel 2002 a Daniel Kahneman, psicologo, unitamente alla crisi che la scienza economica sta vivendo per non aver previsto la recente crisi economica, hanno aperto un dibattito sui fondamenti metodologici della scienza economica stessa, sempre più basata su analisi di tipo quantitativo e sullo sviluppo di tecniche e di strumenti previsivi.
Al fine di dare un piccolo contributo a tale dibattito, mi sia consentito di compiere un volo pindarico e di ritornare nell’alveo del pensiero filosofico dell’antica Grecia che per la prima volta nella storia, secondo Emanuele Severino, ha concepito il divenire come il nascere e il morire, in contrapposizione al niente, e cercando il vero Senso del mondo, si è posto come previsione suprema che libera dall’angoscia e rende sopportabile il dolore (E. Severino, La filosofia antica e medioevale, 2010).
Che cosa è successo nel XX secolo?, uscito in Germania nel 2016, raccoglie e risistema dodici scritti redatti nel decennio 2005-2015, originati in gran parte da occasioni pubbliche (lectures, inaugurazioni, celebrazioni) e orbitanti come satelliti attorno ai pianeti delle opere più voluminose: l’ultimo quadro della trilogia Sfere (Schiume, del 2004; Cortina 2015) e Il mondo dentro il capitale (2005; Meltemi 2006); Devi cambiare la tua vita (2009; Cortina 2010); infine Die Schrecklichen Kinder der Neuzeit (2014, più o meno Gli “enfants terribles” dell’età moderna), libro tanto stimolante quanto irritante che ha suscitato, e a ragione, le reazioni furibonde della critica di ispirazione marxista e/o illuminista, e che andrebbe tradotto in italiano, perché illustra come meglio non si potrebbe, oltre alla consueta vertiginosa intelligenza di Sloterdijk, che la voragine reazionaria sulla quale vorrebbe volare alto è sempre pronta ad abbracciarlo (mortalmente) non appena la sua virtuosa, ammirevole e geniale acrobatica dia segno di perdere d’intensità.
I due saggi che dovrebbero segnare la rotta principale di percorrenza di questa raccolta, dato che uno le presta il titolo e l’altro, in posizione incipitaria, allarga al secolo appena iniziato la riflessione condotta sul precedente, il ventesimo appunto, sono quelli se non sbaglio più imparentati al “libro dello scandalo”.
Il 21 novembre BuzzFeed News pubblica un'inchiesta di Alberto Nardelli e Craig Silvermann su una rete di siti di notizie in Italia che sarebbe riconducibile a un medesimo imprenditore romano. Secondo i giornalisti questa rete pubblica articoli contro i migranti, notizie di stampo nazionalista e in genere fa disinformazione. Sempre secondo l’inchiesta, Web365, l’azienda collegata all’imprenditore, gestisce almeno 175 domini, come anche alcune pagine Facebook molto frequentate, al pari di testate giornalistiche italiane, e con un grande numero di iscritti.
A questa rete si collega anche il giornale online DirettaNews.it, una testata giornalistica regolarmente registrata al registro per la stampa tenuto dal tribunale di Velletri.
Nell’articolo non si parla esplicitamente di fake news, ma sostanzialmente si accusa l’azienda che sta dietro questa estesa rete di siti di fare disinformazione pubblicando articoli allarmistici e storie fuorvianti per ricavare denaro con la pubblicità online, ma anche per condizionare l’informazione.
Nell’articolo si evidenzia che “funzionari italiani” (così, genericamente) avrebbero affermato che siti e pagine Facebook come quelle gestite dall’azienda Web365 potrebbero avere un impatto sulle elezioni del prossimo anno.

Cancellata la seconda
assemblea del
Brancaccio, prevista per il 18 novembre, il gruppo
napoletano Je So' Pazzo ha preso la palla al balzo
per riunire, lo stesso giorno, quelli che
essi stessi han chiamato "l'esercito dei sognatori".
La proposta che i ragazzi napoletani, non senza intelligenza, hanno messo sul tavolo era chiara: costruire una lista elettorale la quale non usasse più i simboli del tradizionale antagonismo d'estrema sinistra, che sapesse parlare alla grande maggioranza dei cittadini maciullati dalla crisi sistemica. In poche parole: una lista populista di sinistra. Il grido di battaglia proposto è stato, non a caso, "potere al popolo".
Chissà, ci siamo detti, che proprio da quel di Napoli, anche grazie alla semina di De Magistris, non arrivi la resipiscenza tanto attesa di una sinistra incartapecorita e abbarbicata alla vetusta iconografia identitaria. Chissà, ci siamo detti, che non si recepisca finalmente la lezione d'Oltralpe di France Insoumise.
L'inferno, tuttavia, è lastricato di buone intenzioni. Detto in altri termini: accettabile il punto di partenza, non è detto che lo sia il punto d'arrivo.
Per
qualche
giorno – proprio mentre le istituzioni statali disperdevano
la protesta
dei rifugiati di Cona – i mass media rigurgitavano di
buoni propositi verso gli africani, con tanto di piani
Marshall per l’Africa,
spettacolari programmi di investimenti, propositi di
implementare i diritti democratici, e chi più ne ha più ne
metta. Per
l’istruzione, il futuro e la felicità dei giovani africani,
anzitutto.
Cos’è successo?
E’ successo che il 29-30 novembre si è tenuto in Costa d’Avorio, ad Abidjan, il quinto vertice congiunto dei capi di stato e di governo dell’Africa e dell’Unione europea e in circostanze come queste, la retorica istituzionale supera sé stessa in virtuosismi parossistici. Tanto più perché le vecchie potenze coloniali europee si vedono sottratto spazio vitale da Cina, India, Turchia, monarchie petrolifere, oltre che dal sempre incombente e insaziabile zio Sam, e sentono di dover recuperare terreno e credito.
In questo vertice si sono ovviamente intessuti rapporti di affari, ma al centro di tutto è stata la “questione migratoria”, e l’impegno imposto agli stati africani a selezionare e controllare il movimento migratorio verso l’Europa. E’ il tentativo di estendere all’intero continente il metodo-Minniti per la Libia, con la creazione di un sistema di spietati campi di concentramento per emigranti in fuga dalle guerre, dalla fame, dalla spoliazione delle loro terre, nei quali schiacciare la loro dignità e comprimere al massimo le loro aspettative prima di dare il via libera ai sopravvissuti a questi inferni perché affrontino la sempre più pericolosa traversata del Mediterraneo.
La redazione di Thomasproject ringrazia la rivista «Il Ponte» per la possibilità di riprodurre la recensione di Francesco Biagi al libro I reietti della città. Ghetto, periferia, stato di Loïc Wacquant (edizione italiana e traduzione a cura di Sonia Paone e Agostino Petrillo, Pisa, ETS, 2016, pp. 372; ed. or. Urban Outcasts: A Comparative Sociology of Advanced Marginality, Cambridge, Polity Press, 2008). L’articolo è uscito nel n. 10 de «Il Ponte», Ottobre 2017, ISSN: 0032-423 X
«Parlare oggi di “banlieue
problematica” o di “ghetto” significa evocare, in modo quasi
automatico, non delle
“realtà”, d’altronde largamente sconosciute da parte di
quelli che ne parlano più volentieri, ma dei fantasmi,
nutriti
di esperienze emotive suscitate da parole o immagini più o
meno incontrollate. […] È dunque, più che mai necessario
praticare un pensiero para-dossale: ossia il pensiero che,
erigendosi al tempo stesso contro il buon senso e contro i
buoni sentimenti, si esponga di
apparire ai benpensanti delle due sponde o come un partito
preso, mosso dal desiderio di épater le bourgeois,
o come una forma
d’indifferenza insopportabile nei confronti della miseria
dei più bisognosi. Si può operare una rottura rispetto alle
false
evidenze e agli errori inscritti nel pensiero sostanzialista
dei luoghi, solo a condizione di operare un’analisi rigorosa
dei rapporti tra le
strutture dello spazio sociale e le strutture dello spazio
fisico.»[1]
* * * *
Ludwig Wittgenstein nelle annotazioni filosofiche presenti in Pensieri diversi sostiene che «il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole» come se fosse «un’enorme rete di strade sbagliate ben praticabili» dove impietriti assistiamo «l’uno dopo l’altro percorrere le stesse strade e sappiamo già dove adesso devierà, dove proseguirà dritto senza notare la biforcazione».[2]
A cominciare da questo scritto, tratteremo una materia aggrovigliata che comprende l’attualità e la crisi del concetto di Stato, la risposta data con l’Unione europea e l’euro, questi due argomenti in relazione al divenire multipolare del Mondo, quale altra possibile strada si potrebbe percorrere riconoscendo l’esistenza di un problema-Stato ma non riconoscendosi nelle attuali soluzioni date. Lo faremo “con” e “contro” C. Schmitt che ci aiuterà anche a sviluppare -in seguito- una riflessione sulla geofilosofia
Ci
sono pensatori politici di due tipi, quelli che rimangono
teorici e quelli che bordeggiando contingenze pratiche,
finiscono con l’addomesticare
la propria teoria alla contingenza. Il “bordeggiamento” citato
è in qualche modo fisiologico visto che la destinazione della
filosofia politica è la ragion pratica ma un conto è
prevederla nel pensiero, altra cosa è piegare il pensiero alle
occasioni
della partecipazione della contingenza pratica. La linea del
pensiero politico -diciamo così- “puro” la possiamo
rappresentare con
Aristotele, Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Kant, Marx; la
linea teorica che ha avuto contatti con la pratica la possiamo
rinvenire in Platone, Bodin,
Locke, Montesquieu, Hegel, Lenin-Mao. Ognuno di essi fa coppia
con il corrispettivo dell’altra linea che gli è a volte coevo,
a volte di
poco successivo o comunque connesso per ispirazione od
opposizione ideologica[1]. La prima linea
ha il suo problema detto “problema teoria-prassi”, la seconda
linea ha il problema di come la prassi, che essendo storica è
sempre
contingente, ha piegato la teoria. Carl Schmitt, il cui
pensiero ha rilievo sul concetto del politico soprattutto in
senso giuridico, si
inserisce in questa seconda linea ed ha in Hans Kelsen il suo
corrispettivo inverso.
1. I segnali che lancia il
sistema mediatico-culturale di
controllo possono apparire contrastanti.
Se l'obiettivo finale, o meglio lo step prossimo venturo, sarebbe quello di diffondere e rendere operativo il paradigma della self-sovereign identity, rendendo progressivamente e irreversibilmente "inutili" gli Stati, occorre comprendere, tuttavia, che, per poter avviare questa mega start-up politico-tecnologica hanno bisogno dell'attuale cooperazione degli stessi Stati, affinchè, mediante la forza normativa formale, ed ancora decisiva, di cui dispongono, apprestino il quadro regolatorio fondamentale in cui il paradigma sia inizialmente validato e reso cogente.
Insomma, l'innesco ha bisogno della sovranità statale, a condizione che essa già risulti pre-orientata e fondamentalmente condizionata, dal diritto internazionale privatizzato.
2. Di questo fenomeno, di cooperazione attiva degli Stati nella loro stessa de-sovranizzazione, ne abbiamo vasti esempi già operativi: il primo, il più eclatante, è la stessa moneta unica, con il processo a cascata della soft law realizzativa dell'Unione bancaria; ma certamente non è da meno il sistema dell'accoglienza no-limits, fondato sul recepimento statale di fonti €uropee forzate fino all'alterazione sistematica delle stesse previsioni dei trattati, che pure, già di per sè, assolvono allo scopo di prefigurare il mercato del lavoro deflazionista-salariale globale (in particolare, e correlato allo "ius soli", p.12), condito di africanizzazione e islamizzazione per consolidare meglio l'accettazione della destrutturazione istituzionale, sociale e identitaria che il sistema comporta.
In vista dell’assemblea nazionale della campagna “BastaAlternaza” che si terrà Sabato 2 Dicembre a Roma al Csoa “Intifada” in Via Casalbruciato 15, proponiamo il documento che come Noi Restiamo abbiamo elaborato sull’ASL e la buona scuola
Il Contesto Europeo
Per una riflessione sul senso della legge 107/15 (la cosiddetta Buona Scuola) e in particolare sull’universalizzazione dell’alternanza scuola-lavoro non si può prescindere da una valutazione, seppur breve, del contesto nazionale e internazionale in cui si colloca, e in generale sulla fase storica che il modo di produzione capitalista sta vivendo oggi.
La crisi sistemica in cui viviamo si è manifestata ormai da più di dieci anni e non accenna a risolversi. L’incapacità del sistema di ritrovare un adeguata valorizzazione del capitale, unita alla tendenziale ritirata degli USA come unico stato egemone a livello mondiale, ha portato ad un forte incremento delle pressioni competitive inter-imperialistiche, e alla conseguente destabilizzazione di numerose regioni del mondo. Questa velocizzazione della competizione internazionale ha dato un forte impulso alla necessità di centralizzazione e rafforzamento dell’Unione Europea. Tale processo ovviamente non può che essere fortemente contraddittorio, e ha dato luogo a significative spinte contrarie, sia derivanti dall’opposizione popolare che alle contrapposizioni interne alle varie borghesie nazionali. La forma con cui il polo imperialista in costruzione sta rispondendo a tali contraddizioni passa attraverso la costituzione di un’Europa a due velocità, a cerchi concentrici, in cui il piano decisionale viene definitivamente trasferito nelle mani di una serie di paesi centrali, stretti intorno all’asse franco-tedesco.
Alcuni spunti di riflessione a partire dall’assemblea del 18 novembre a Roma
In
queste pagine abbiamo provato a sintetizzare i contenuti
espressi dalle mobilitazioni degli ultimi dieci anni di crisi:
assistiamo ogni
giorno alla guerra dei ricchi contro i poveri, di quelli che
hanno gli strumenti – economici, tecnici, legislativi – per
arricchirsi
sempre di più e quelli che resistono solo col proprio lavoro e
la propria determinazione.
Di tutte queste mobilitazioni abbiamo registrato le voci all’assemblea del 18/11 a Roma, dove decine di interventi, da più parti d’Italia, hanno raccontato esperienze di resistenza, partecipazione, attivismo, lotta; abbiamo provato a costruire un programma minimo che le tenga dentro e le connetta tutte.
Abbiamo voluto scrivere un testo breve e incisivo perché crediamo che non ci serva un lunghissimo elenco di promesse e proposte, ma pochi punti forti su cui in tanti possiamo continuare a impegnarci con l’obiettivo del protagonismo delle classi popolari.
Vorremmo provare a formulare assieme alcuni elementi di metodo e di intervento quotidiano, da portare avanti anche a prescindere dalla prossima scadenza elettorale: sui temi qui indicati vogliamo crescere e tornare ad essere protagonisti nei nostri territori, prima, durante e dopo le elezioni. Speriamo davvero che questo testo possa essere dibattuto, integrato, migliorato dalla partecipazione di tante e tanti.
“L’economia è il
metodo. L’obiettivo è cambiare l’anima”
Margaret Thatcher
I.
Una volta Lukács ha scritto che quando tutte le strade per
esprimersi sembrano chiuse, quando il contesto nel
quale si opera non offre (come la weberiana gabbia d’acciaio)
nessuno spazio per la libera azione del soggetto, quando il
sistema sociale che
abbiamo davanti appare come un Moloch inattaccabile e
immodificabile, allora il soggetto muove verso l’unico luogo
che gli appare
intatto, modificabile, non compromesso: la propria
interiorità.
Per Lukács è un trucco. Quell’interiorità è già assolutamente colonizzata dallo spazio esterno, ma la sua presunta autonomia garantisce al sistema sociale un doppio risultato. Da un lato, se tale spazio di libertà persiste, allora il sistema non apparirà così oppressivo; dall’altro il soggetto interiormente autonomo potrà sviluppare una proprio etica, creare nell’isolamento della propria interiorità un sistema di valori, anche in opposizione al sistema medesimo. Questa è la ragione per cui Lukács ce l’ha a morte con l’etica, che chiama, con chiaro intento sarcastico, “la prassi dell’individuo isolato”, vale a dire un sistema ideologico che, non interessato a socializzarsi, rafforza la percezione psicologica di una possibile separazione (autonomia) fra l’interiorità del soggetto e lo spazio esterno della prassi collettiva.
Quella che segue è la traduzione della postfazione all'ultimo libro di Tom Thomas, "Le capital automate", in uscita in Francia a fine novembre per le "Editions Jubarte". Inutile sottolineare che naturalmente l'analisi e le considerazioni espresse più avanti, si attagliano benissimo anche alla situazione italiana, pure in mancanza [per ora] del "fattore Macron"!
Queste elezioni sono un'occasione
per tornare al termine "populismo", termine mistificante come
si vedrà, ma abbondantemente utilizzato dai media per
stigmatizzare il "Front
Nazional" ed il partito degli "Insoumis". La crescita
esponenziale dell'influenza di questi partiti riguardo un
numero non trascurabile di proletari,
ha in effetti mostrato assai bene quanta importanza abbia
avuto sostenere che non serva a niente sostituire, come essi
sostengono, dei dirigenti del
"Comitato per la politica monetaria" (MPC) con degli altri
dirigenti che affermano di essere "anti-sistema", mentre
aspirano solo a dirigere loro
stessi quel sistema con lo scopo dichiarato di stimolarne
meglio la sua "crescita", vale a dire la valorizzazione e
l'accumulazione di capitale.
Questo piccolo libro ci ha ricordato il modo in cui l'opera geniale di K. Marx consente di affermare che, nel Comitato per la politica monetaria, è il movimento di auto-valorizzazione del capitale - in altre parole, il capitale che esiste solo in quanto valore che si valorizza - a dirigere gli agenti della produzione; e non loro a dirigere il capitale. Loro, vale a dire principalmente coloro che occupano i posti più elevati nel mondo aziendale, nei media, nella finanza e, in particolare, negli apparati dello Stato, e che si sforzano di assicurare una riproduzione sempre più allargata del capitale (la sua accumulazione). Loro sono - e non possono essere altro se non - i «funzionari del capitale».
In tutta
Europa, come reazione all'attuale crisi socioeconomica e
democratica, si stanno diffondendo pulsioni indipendentiste:
nuove mini statualità in
opposizione allo strapotere finanziario di Bruxelles. Ma, come
dimostra la Catalogna, sono illusioni più che vie percorribili
per un reale
cambiamento. Che passa invece attraverso la valorizzazione dei
cittadini nel governo delle città, come dimostra Barcellona
con Ada Colau.
Lo scorso 5 ottobre Mauro Pili, deputato sardo di Unidos e appartenente al gruppo Misto, ha presentato alla Camera una proposta di legge costituzionale per avviare un percorso “democratico per far scegliere ai cittadini se continuare a essere discriminati dallo Stato italiano o meno”. La sua non è una voce isolata: a quanto si apprende da un recente sondaggio, in Sardegna aumenta la percentuale del fronte indipendentista. I cittadini sardi si sentirebbero abbandonanti dallo Stato centrale, la disperazione per la crisi economica, la sfiducia nei confronti delle istituzioni, la burocrazia invincibile e impermeabile completerebbero il desolante quadro. Ma le pulsioni indipendentiste sono in crescita. Ovunque. Dal Nord al Sud Europa. Da Ovest ad Est. Non è un caso che una delegazione di indipendentisti sardi, così come di indipendentisti fiamminghi e veneti, senza contare la presenza del leghista Mario Borghezio, sia volata lo scorso 1 ottobre a Barcellona per vigilare sulle votazioni del referendum di autodeterminazione convocato unilateralmente dal governo catalano. Quella consultazione poi repressa dal governo centrale guidato da Mariano Rajoy.
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Ernest Jὒnger è stato un
Ribelle, un non allineato, ha vissuto il lungo secolo che ci
ha preceduto “il secolo breve” con il coraggio delle idee che
si fanno carne
e diventano parole. Ha smascherato la mediocrità conformista
degli intellettuali che hanno omaggiato la fine della natura
umana e con essa ogni
paradigma di verità. Il postmodernismo con la sua razionalità
debole, un esempio è il pensiero debole di Vattimo, ha
contribuito
a spezzare il senso di ribellione, favorendo l’accettazione
omologante all’interno del paradigma dell’economia. Ha
denunciato la
bandiera del “non impegno”, consapevole che non è sufficiente
la negazione, ma essa deve trasformarsi in impegno per la
libertà. Di intellettuali come Jὒnger sentiamo tutti nostalgia
e ne avvertiamo il terribile vuoto: “horror vacui”
è la nostra condizione. La sinistra è dialettica, vive del polemos,
ogni cultura ed identità necessitano della differenza
per misurare in senso qualitativo la propria storia. Il
pensiero di Junger ci sollecita a dare risposte a
sollecitazioni che benchè formulate
da una prospettiva altra, non possono che essere condivise. La
forza plastica che ne possiamo trarre è d’ausilio per
tollerare le
difficoltà della resistenza nel contesto-mondo irrazionale in
cui la comunità pensante pare arretrare, per lasciare spazio
al deserto
dell’ultimo uomo, all’anomia collettiva. E. Junger tratta del
tempo anonimo della società dello spettacolo nel quale
l’omogeneità e la linearità sono gli attributi di espressione
del tempo incardinato nella produzione, e che trasforma gli
uomini
in consumatori. E’ il regno animale dello spirito secondo la
definizione di Hegel.
Il Brancaccio è fallito. Meno male.
Forse qualcuno la smetterà di tentare di aggregare gli
sconfitti usando le stesse parole d’ordine che hanno causato
la sconfitta stessa.
Forse qualcuno la smetterà di credere che la proposta
dell’unità della sinistra sia il sostituto efficace di una
vera strategia
politica, quando per la maggior parte del popolo italiano
“sinistra” significa per lo più delusione e liberismo. Il
Brancaccio
è fallito e questo, nel piccolo mondo della sinistra radicale,
può essere un piccolo evento salutare perché impedisce che
tutta
quella sinistra si attacchi da subito al carro dei D’Alema e
dei Bersani, e si presti perciò a fare la forza di complemento
per i vari
governi d’emergenza che dovranno garantire l’ “europeismo” del
paese, e quindi la sua subordinazione al liberismo. E
perché dopo il fallimento qualcuno ha pensato di reagire.
Cosicché, dall’assemblea romana di Je so’pazz’, da
Rifondazione, dal Partito Comunista, da diverse realtà di base
e singoli militanti è emersa l’esigenza di formare una lista
popolare per le prossime elezioni. La reazione è comprensibile
e positiva, e addirittura, in qualcuno degli interventi in cui
si è
espressa, è accompagnata da qualche sortita dal linguaggio
abituale e da qualche significativo spostamento in direzione
anti Ue. Tanto che
Eurostop, l’organizzazione di sinistra che con maggior impegno
ed efficacia lavora per una rottura dei vincoli europei, ha
accettato
l’invito a discutere della fattibilità politica e tecnica
della lista elettorale.
Siamo tanti pesciolini rossi chiusi
in una
boccia che vedono il mondo attraverso le distorsioni del vetro
concavo. Possiamo anche considerarci imprigionati in un
labirinto di specchi deformanti
che ci danno un’immagine manipolata di noi stessi, in primis,
e di tutto ciò che ci circonda, in secundis. Dopodiché,
fidandoci di
quel che vediamo di noi stessi, siamo anche convinti che quel
tavolino Luigi XVI sia una qualche orrida formazione tumorale.
Ci tengono in una
costante condizione lisergica di cui l’espressione
cinematografica più riuscita rimane il raccapricciante
“Truman’s
show”. Con la differenza che, quanto sotto il cielo finto che
imprigionaTruman era tutto sorridente, consolatorio,
rassicurante, disarmante,
oggi quel che ci proiettano specchi e vetri deformanti sono
finzioni da incubo, destabilizzanti, terrorizzanti, tanto da
ridurre ognuno al suo
particolare “si salvi chi può”. Sto parlando dell’ininterrotto
assalto cui siamo sottoposti delle varie, ossessive, campagne,
ordinate dai padroni ai loro politici e da questi ai media,
ormai a edicole e schermi unificati.
Radko Mladic, Patrice Lumumba, Saddam Hussein, Muhammar Gheddafi, Sacco e Vanzetti, Che Guevara… Un segno di nobiltà in comune: fatti fuori dallo stesso boia.
Christopher Black è l’avvocato canadese che ha difeso Slobodan Milosevic.
Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, manifestolibri, 2017, pp. 128, € 12,00
E se
il
movimento del ’77 avesse lavorato per il re di Prussia? Se
quella generazione di giovani militanti contrapponendosi
frontalmente alla cultura,
ai valori e alle pratiche della sinistra storica in nome di un
altro tipo di comunismo non avesse fatto altro che aprire la
strada ai modelli
individualistici e consumistici che si sarebbero affermati
definitivamente negli anni successivi? È questa una delle
possibili chiavi
interpretative del ’77 che, attraverso la rassegna di
testimonianze e studi storici, emerge dal breve ma denso
volume di Alessio Gagliardi,
Il 77 tra storia e memoria. Nel libro affiorano molte
altre tematiche. Tra le più significative c’è la negazione
dell’idea che si possa tirare una netta linea di separazione
tra la cosiddetta ala creativa del movimento e quella
violenta. Però, dal
mio punto di vista, la domanda iniziale pone forse la
questione più inquietante. Rispondere affermativamente
significherebbe dare ragione a uno
dei mantra dei nostri tempi, formulato con esemplare chiarezza
da Margaret Thatcher poco tempo dopo le vicende qui
considerate: “there is no
alternative”. Se anche chi voleva fare la rivoluzione ha
finito per favorire l’affermazione dell’ideologia
neoliberista, quale
speranza può rimanere per pensare un cambiamento radicale?
Intervento di Ugo Mattei* al Convegno Costituzione, Comunità e Diritti – Torino, 19 novembre 2017 - Qui su youtube
Negli
ultimi tre o
quattro anni sono stati installati, soltanto nella parte
occidentale del mondo, quindi nel nord globale, circa un
miliardo e quattrocentomila sensori
per l’internet delle cose. Gran parte dei
quali sono costruiti nei muri delle case, nei nuovi televisori
– in tutti gli
apparecchi elettronici che comperiamo – e nelle automobili.
Parte di questi sensori, che sono invece fissi, sono inseriti
negli spazi pubblici e
sono quelli con i quali i nostri meccanismi elettronici si
collegano senza che noi lo sappiamo.
Queste cose vengono chiamate “Smart“, nel senso che noi sentiamo parlare costantemente di “Smart City“, “Smart Card” eccetera. Tutte le volte in cui si sente la parola “Smart” io penso sempre che gli “Smart” siano loro e i cretini siamo noi. Qui la situazione sta diventando davvero molto preoccupante, soprattutto alla luce di quello che è stato detto adesso. C’è in costruzione un gigantesco dispositivo (e qui proprio la parola “Dispositivo” studiata da Foucault è direttamente utilizzabile per parlare dei dispositivi elettronici che noi compriamo). Un gigantesco dispositivo di controllo sociale di tutti quanti, che viene ovviamente sperimentato per fare un passo in avanti in modo da rendere in qualche modo l’umanità coerente con la nuova frontiera.

Ogni
situazione
concreta impone un ragionamento anch’esso il più possibile
concreto. Le elezioni non sfuggono a questa semplice regola
della politica,
quella per cui non esistono schemi precostituiti. Ecco il
motivo per cui le imminenti elezioni di marzo costringono la
sinistra (quantomeno la
sinistra credibile, ché quella incredibile già va indossando
il costume double-face elettoralista/astensionista)
ad una
riflessione seria e originale. Il progetto di una lista di
sinistra, Potere al popolo, in questi giorni ha
contribuito a movimentare il
dibattito elettorale, costretto fino a pochi giorni fa a
barcamenarsi tra le pastoie liberali di Mdp-Si e il folklore
opportunista del Brancaccio. Un
dibattito che avremmo volentieri evitato, per due motivi:
siamo, in fondo, un piccolo collettivo cittadino, incapace di
spostare alcunché in
termini politici ed elettorali nazionali; parliamo di una
lista fatta in gran parte da compagni riconosciuti, dunque
anche posizioni critiche
esasperate avrebbero avuto poco senso. Lo scorso sabato però
Eurostop, la piattaforma politica anti-europeista di cui
facciamo parte, ha deciso
di aderire al progetto della lista Potere al popolo. A questo
punto ci è parso giusto dire la nostra in merito, perché è un
evento che ci coinvolge direttamente.
Dall’Unità in poi l’Italia ha compiuto un percorso “subottimale” ed è sempre cresciuta meno di quanto avrebbe potuto. Una recensione al volume curato da Vasta e Di Martino
Il volume
curato
da Di Martino e Vasta rappresenta probabilmente una svolta
nella crescente pubblicistica storico-economica. Il lavoro,
frutto di un collettivo di
accademici (oltre agli autori, in ordine di apparizione, E.
Felice, G.
Cappelli, A.
Nuvolari, A.
Colli e A.
Rinaldi), nasce da uno speciale
di Enterprise & Society, intitolato Wealthy
by
accident? Il punto interrogativo era
forse più in linea con l’interpretazione; ma più che in
questa, la
principale novità del volume sta nel modo in cui si concepisce
il ruolo della disciplina nel più generale dibattito pubblico.
Nel 1990, Zamagni mandava alle stampe una delle più importanti e citate sintesi della storia economica d’Italia. Se, come scriveva Fenoaltea, il ruolo della disciplina (e delle scienze sociali) è quello di proiettare, come nelle leggende dei nostri antenati, l’immagine che abbiamo del nostro presente, è inevitabile che le interpretazioni riflettano i tempi in cui vengono scritte. Il titolo del volume – Dalla Periferia al Centro – rifletteva l’ottimismo e l’orgoglio di un Paese che, forse ancor più che dopo il Miracolo, sentiva di essere scampato per sempre dalla miseria. In un modo che colpisce chi quegli anni non li ha vissuti, e ne ha spesso letto descrizioni incentrate su inflazione e finanza pubblica fuori controllo, la pubblicistica dell’epoca sembra riflettere, forse per la prima volta, la voglia degli italiani di definirsi e raccontarsi in virtù della propria economia, atipica, ma di successo; calabroni industriosi e lavoratori, seppur allergici al fisco.
Con la presentazione di “Liberi e uguali”, con un altro leader preso dall’antimafia, si completa il quadro dell’”offerta politica” di regime.
Per spiegare bene questa definizione conviene soffermarsi un attimo sulla descrizione puntuale di questo quadro.
Fin qui il pilastro del sistema partitico italiano è stato il Pd, che con l’ascesa di Matteo Renzi sembrava in grado di monopolizzare o quasi il consenso, tenendo insieme parte dei ceti popolari storicamente impiccati alla rappresentazione della “sinistra” socialdemocratica di provenienza Pci diventata nel tempo il nerbo dell’establishment liberista italiano; con la benedizione e la direzione discreta dell’Unione Europea.
Tutto appariva curato con estrema attenzione: a) un leader giovane e spiazzante, abile nel “rottamare” velocemente un quadro dirigente inchiodato ad antiche guerre tra clan, usurato da sconfitte clamorose e vittorie dimezzate; b) un’immagine di conseguenza “giovane”, efficientista, iper-modernista, social, post-ideologica, europeista e ultraliberista, ma con su stampigliato il marchio “di sinistra”; c) un’insieme di “riforme” sociali e istituzionali scritte a Bruxelles e imposte con la forza di un caterpillar a un Parlamento di nominati ansiosi solo di completare la legislatura; d) sindacati complici e totalmente immobili davanti alla demolizione del sistema dei diritti su cui avevano fondato la propria legittimità.
Persino leggendo tra le righe degli ultimi rapporti Goldman Sachs si legge chiaramente che l’attuale situazione di esagerati rendimenti finanziari non è sostenibile. La grande banca d’investimenti, che per definizione ha un approccio spregiudicatamente ottimista verso gli effetti miracolosi del mercato, rivela seppur con messaggi contraddittori e fumosi che nel mercato si registrano segni preoccupanti, storicamente visti solo alla vigilia della Grande Crisi del ’29. Un monito da non sottovalutare, per chi insiste ostinatamente a dire che la crisi sia ormai alle spalle e persista solo come percezione alimentata dalle cosiddette “fake news”
Alla Goldman Sachs non cambiano mai.
Il principale stratega azionario di Goldman, David Kostin, aveva recentemente previsto tre anni di mercato in rialzo da “esuberanza razionale“, alzando il target di riferimento per il 2018 dell’indice S&P da 2.500 a 2.850 fino a raggiungere 3.100 nel 2020, e aveva affermato che, qualora l’esuberanza fosse diventata “irrazionale”, il prezzo base S&P sarebbe potuto arrivare fino a 5.300 entro la fine del 2020. Una settimana dopo Christian Mueller-Glissmann, un altro stratega Goldman, ha deciso che fosse invece meglio vestire i panni del poliziotto cattivo e prepararsi ad ogni evenienza.
L’interminabile epidemia di “golpe blandi” propiziata dalla Casa Bianca ha preso di mira ancora una volta con l’Honduras. É stato lì dove, nel 2009, per la prima volta è stata applicata questa metodologia una volta che era fallito il golpe militare tradizionale tentato un anno prima in Bolivia. A partire da quel momento i governi indesiderati della regione sarebbero stati spazzati da un tridente letale composto dall’oligarchia mediatica, il potere giudiziario e i legislatori, il cui “potere di fuoco” combinato supera quello di qualsiasi esercito della regione. José Manuel “Mel” Zelaya è stato la sua prima vittima, alla quale seguiranno nel 2012 Fernando Lugo in Paraguay e nel 2016 Dilma Rousseff in Brasile. Sotto attacco sonoi governi di Bolivia, Venezuela e, ovviamente, Cuba, mentre in Ecuador il vecchio ricorso alla mazzetta e al tradimento uniti alla tecnica del “golpe blando” sembrano aver arrestato il percorso della Rivoluzione Cittadina di Rafael Correa. L’obiettivo strategico di Washington con i suoi “golpe bianchi” è far regredire l’America Latina alla condizione neocoloniale imperante durante la notte del 31 diciembre del 1958, un giorno prima del trionfo della Rivoluzione Cubana.
Nel caso onduregno il golpe funziona preventivamente, attraverso una scandalosa frode elettorale che ha suscitado solo la critica di alcuni pochi osservatori inviati dall’Unione Europea.
Civil Servant richiama la nostra attenzione sul fatto che la maggior parte degli introiti dei super-ricchi, che vivono dei proventi del proprio patrimonio, non entrano nel Pil. Partendo dalla considerazione che negli ultimi due decenni la ricchezza del pianeta è aumenta a ritmi circa 3 volte superiori a quelli del Pil, Civil Servant sostiene che ciò ha indubbiamente contribuito ad allargare la forbice tra ricchi e poveri, e probabilmente ha anche declassato il Pil a misura del tenore di vita di una parte soltanto della società, i meno abbienti
Recentemente Maurizio Franzini ci ha ricordato su questa rivista che Jeff Bezos, patron di Amazon, dichiara al fisco americano solo 81.000 dollari l’anno pur essendo tra gli uomini più ricchi della terra, e si è chiesto se non stiamo entrando nell’era di un capitalismo senza profitti. In effetti, se chiedete ad uno statistico esperto di contabilità nazionale quanto Pil produce Bezos, vi risponderà senza indugio che il nostro contribuisce alla ricchezza creata ogni anno negli USA solo per quei miseri 68.500 euro, meno del salario di parecchi colletti bianchi. Tutto il resto gli deriva da operazioni che non incidono sul Pil, se non marginalmente. I contabili nazionali, infatti, sono ancora affezionati ad un piccolo mondo antico in cui operai ed impiegati percepivano un salario e gli imprenditori incassavano solo profitti, rendite e dividendi. E queste forme di reddito si dividevano, più o meno ingiustamente, tutto il “valore aggiunto” creato ogni anno dall’economia.
Sette novembre 2017, i primi decreti attuativi della rivoluzione russa
Per commemorare i cento anni della rivoluzione russa abbiamo scelto di mettere in evidenza i decreti attuativi che la rivoluzione produsse nel suo svolgimento. La rivoluzione fu il mezzo attraverso il quale una classe sociale, gli operai, alla testa di tutti gli sfruttati prese il potere in Russia e rovesciò la piramide sociale in un colpo solo. Non ci interessa qui analizzare la sua lunga preparazione, troppe volte ci hanno detto che la rivoluzione ha bisogno di una lunga gestazione, che non si inventa da un giorno all’altro, che bisogna aspettare il maturarsi degli eventi, abbiamo scoperto che erano tutti argomenti usati per rendere inattuale la rivoluzione, per annacquarla nei tempi lunghi. Non ci interessa nemmeno addentrarci qui nella disamina dei problemi della cosiddetta costruzione del socialismo in URSS, troppe volte la discussione su questi problemi ha messo in secondo piano la potenza della rivoluzione fino a snaturarla quasi a renderla un evento inutilizzabile, visto i risultati. Allora ci limiteremo a studiare i pochi giorni che scorrono fra la decisione di passare all’azione, la conquista del potere e i primi decreti attuativi, la formazione del governo dei commissari del popolo. Ci interessa la velocità con cui queste decisioni vennero prese, la determinazione con cui i delegati degli operai, dei soldati e del contadini di tutta la Russia osarono in poche ore rovesciare diritti millenari, leggi e consuetudini della classe dominante, della borghesia, per spazzarla via ed instaurare un nuovo ordine sociale.
Riflessioni a partire da un importante lavoro di Vladimiro Giacché
Antonio Gramsci
definì l'Ottobre russo una rivoluzione contro il capitale, in
quanto si discostava dalle previsioni marxiane secondo cui la
rivoluzione sarebbe
stata possibile in paesi ad avanzato sviluppo capitalistico e
non nell'arretrata Russia. Probabilmente il grande dirigente
politico e teorico italiano
non poteva disporre di alcuni scritti dell'ultimo Marx proprio
sulla Russia che non escludevano invece una possibilità di
rottura
rivoluzionaria in quel paese [1]. Ma a prescindere da ciò,
Gramsci aveva ragione a respingere le posizioni dogmatiche che
pretendevano
un'applicazione senza mediazioni della teoria del Capitale a
tutte le situazioni.
Questa teoria, che poi in realtà è un grande abbozzo incompiuto, è stata elaborata a un elevato livello di astrazione: parla del modo di produzione capitalistico, dei suoi caratteri generali, comuni a tutte le realtà economico-sociali in cui prevale tale modo di produzione.
Naturalmente essa è indispensabile per individuare, partendo da questi caratteri generali, le particolarità delle singole, diverse realtà. Ma andremmo fuori strada se pensassimo che basti usare questa teoria generale per giungere a corrette decisioni politiche contingenti.
Domenica 26 Novembre 2017 presso il Coworking
Moltivolti di Palermo la redazione di PalermoGrad ha
incontrato in un forum di discussione
l’economista Massimo D’Angelillo. Abbiamo chiesto a Massimo,
traendo spunto dai contenuti di un memorabile libro
pubblicato insieme a
Leonardo Paggi per Einaudi nel 1986, I comunisti
italiani e il riformismo, delle ragioni storiche che
hanno determinato la tragica deriva
della sinistra che ha finito per abbracciare, culturalmente
oltre che politicamente, le parole d’ordine dell’austerità
liberista. A
partire da questa ricostruzione storica, l’autore di La
Germania e la crisi europea (Ombre corte, 2016) e di
un saggio
all’interno del volume collettaneo Rottamare Maastricht
(DeriveApprodi, 2016), si è soffermato sulle cause della
crisi economica
del 2008, sui vincoli della moneta unica e dell’egemonia
tedesca, sul declino italiano e sulle drammatiche condizioni
del Mezzogiorno. Nel
ringraziare D’Angelillo, pubblichiamo un suo contributo e ci
auguriamo di collaborare con lui anche in futuro.
* * * *
Gli ultimi anni si sono contraddistinti per una stagnazione economica decennale, e allo stesso tempo per una singolare incapacità di comprendere le origini della crisi italiana, soprattutto da parte dello schieramento culturale e politico che è sempre stato fonte di visioni alternative allo status quo: la sinistra.
Il testo che segue è l'introduzione al libro di Peter Frase, "Four Futures: Life After Capitalism", pubblicato nel 2016. Il testo è un'espansione delle idee contenute nell'articolo originale, del 2011, "Four Futures" [qui tradotto e pubblicato col titolo « E dopo? »]. Le idee sono fondamentalmente le stesse, ma il libro continua ed approfondisce diverse questioni che il testo originale toccava solamente, ed altre che non toccava nemmeno. Vale la pena leggerli entrambi
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« Si è molto parlato degli impatti che avranno congiuntamente sul nostro futuro, la Crisi Climatica e le nuove tecnologie di Automazione dei posti di lavoro. Come si inseriscono in questo quadro le relazioni capitaliste di proprietà e la produzione, e la politica, specificamente per quanto attiene alla Lotta di Classe? Sarà sufficiente la possibilità di un'automazione quasi generalizzata per garantire che avvenga questa automazione? E quale sarà l'impatto che essa avrà sulle condizioni di vita delle persone? A partire dalla fine del capitalismo, sulla base di questi elementi, quale tipo di scenari ci possiamo aspettare? »
(da: Peter Frase, " Four Futures: Life After Capitalism" ["Quattro futuri: la vita dopo il capitalismo"].)
Nel XXI secolo due spettri si aggirano sulla Terra: lo spettro della catastrofe ecologica e quello dell'automazione.
Nel 2013, un osservatorio del governo degli Stati Uniti ha registrato, per la prima volta nel registro storico, che la concentrazione atmosferica globale di anidride carbonica aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm).
La Camera ha approvato la legge sul “Whistleblowing”, termine statunitense che sta ad indicare l’azione del dipendente pubblico o privato che segnala casi di corruzione o illeciti di cui sia venuto a conoscenza grazie al proprio rapporto di lavoro. Inoltre l’identità del lavoratore che denuncia non può essere rivelata. La tutela è estesa anche ad eventuali comportamenti ritorsivi e discriminatori da parte dell’azienda nei confronti del lavoratore che ha denunciato illeciti. Una scelta legislativa di questo tipo apre ad un ulteriore imbarbarimento dei rapporti umani, lavorativi, di genere… già devastati dalla modificazione neoliberista della scala dei valori sociali.
Il culto del così detto “merito” ha portato alla venuta meno di ogni solidarietà sul posto di lavoro, il darwinismo sociale ha condotto alla sparizione di ogni consapevolezza di classe, alla demonizzazione dei poveri, al razzismo imperante nei confronti dei popoli del terzo mondo perché è chiaro che la guerra fra poveri indotta sul fronte interno, basata sul principio che se una persona è povera è per colpa sua, per incapacità, per pigrizia e inettitudine e infine per propensione alla delinquenza, si trasforma sul fronte esterno in un’ acclarata propensione a considerare i cittadini occidentali superiori, capaci, intelligenti e portatori di “democrazia” in contrapposizione ai popoli del terzo mondo che incapaci di governarsi e di sfruttare le proprie risorse hanno perfino l’ardire di sbarcare qui da noi e di rovinare la nostra società.
L’Honduras non è un paese qualsiasi dell’America Centrale, dalla nefasta epoca della United Fruit Company fino agli anni delle basi paramilitari dei "contras" nicaraguensi, il territorio è sempre stato utilizzato per il sostegno alle violente politiche militariste degli Stati Uniti nella regione
Da quel nefasto giorno di giugno 2009 quando l’esercito e la polizia dell’Honduras, su ordine di Washington, catturarono il presidente Mel Zelaya e deposero il governo, la democrazia cessò di esistere in tutti i suoi aspetti. Uno dopo l’altro, i presidenti che succedettero Zelaya (Micheletti, Lobo e l'attuale Hernández) possono essere considerati legittimi eredi di quella azione violenta e illegale contro un governo votato dal popolo.
Ecco perché non c’è da stupirsi per quanto accade in queste ore in cui, attraverso un colpo di stato elettorale, si intende imporre la rielezione dell'attuale presidente Juan Orlando Hernández, a cui la stragrande maggioranza degli honduregni si riferisce con disprezzo definendolo come JOH.
L’Honduras non è un paese qualsiasi dell’America Centrale, dalla nefasta epoca della United Fruit Company fino agli anni delle basi paramilitari dei "contras" nicaraguensi, il territorio è sempre stato utilizzato per il sostegno alle violente politiche militariste degli Stati Uniti nella regione.
Quanto avvenuto recentemente alla Gd-Coesia di Bologna, è un esempio significativo e una conferma di molte delle cose che andiamo segnalando da tempo sul nostro giornale.
Un lungo articolo del 1 dicembre su Il Sole 24 Ore, giornale della Confindustria, continua a interrogarsi e cercare di capire come sia stato possibile che l’Usb sia esplosa nei consensi tra i lavoratori in una fabbrica a tecnologia avanzata (quelle 4.0 come si dice oggi), pacificata sindacalmente (le ore di sciopero erano crollate negli anni), con una regolazione contrattuale sostanzialmente decente e pienamente inserita nel quadrante produttivo “europeo” del nostro paese (l’Emilia-Romagna).
Su questa vicenda vengono a coincidere alcuni elementi importanti sul piano sindacale, politico e se volete anche strategico:
A dispetto della travolgente crescita economica, gli italiani persistono a emigrare. Anzi, secondo il Corriere della Sera (29 novembre), «il numero di italiani che se ne vanno per cercare di farsi una vita all’estero continua a crescere verso livelli mai raggiunti prima». Se ne vanno soprattutto a Londra: «solo Italia, Grecia e Bulgaria registrano flussi in aumento rispetto all’anno prima e solo l’Italia (con 60mila iscrizioni) lo fa fra i grandi paesi di origine delle migrazioni verso la Gran Bretagna». Ancora: «spagnoli, portoghesi, irlandesi, polacchi, ungheresi o slovacchi fanno tutti segnare crolli a doppia cifra degli afflussi verso il Regno Unito». In numeri assoluti, tra il giugno 2016 e il giugno 2017 sono emigrati in Inghilterra 60mila italiani, +2% rispetto all’anno precedente. A Londra, al momento, vivono e lavorano 147mila italiani, mentre in tutto il Regno Unito gli italiani sono 700mila. Non va meglio in Germania, seconda destinazione preferita per i migranti italiani: «l’emigrazione italiana verso le Germania nel 2016 segna un rallentamento, ma molto lieve: l’ufficio statistico tedesco registra 50mila arrivi; sono meno dei 74mila del 2014, eppure più degli arrivi di italiani del 2012 quando in Italia c’era stata una distruzione netta di oltre 200mila posti di lavoro». Anche qui, «i flussi continuano a crescere mentre frenano per spagnoli o portoghesi».
A volte è necessario fermarsi un attimo e fotografare la realtà. Non serve procedere a dotte elucubrazioni o raffinate analisi: è sufficiente lanciare uno sguardo sommario ed annotare le condizioni in cui stiamo. Il quadro è sconfortante.
Mi riferisco alla situazione politico-partitica italiana a pochi mesi dalle elezioni. Una sfera noiosa e scollegata dalla realtà, direte voi. Sì, perfettamente d’accordo. Peccato però che i partiti italiani esprimeranno i parlamentari che siederanno a Roma, e che eleggeranno il prossimo governo nazionale. Istituzioni da cui sarebbe lecito (ma utopistico) attendersi delle risposte concrete e dei decisi cambi di marcia per migliorare le disastrate condizioni del Paese Reale. Ma se la politica è il luogo dove cercare le soluzioni, l’attuale sistema politico appare invece come la fonte principale dei problemi che ricadono su tutti noi.
Almeno tre coalizioni o partiti si propongono di “vincere le elezioni”. Centrosinistra, Centrodestra, Cinquestelle. Il Centrodestra. Molto più destra che centro, in effetti. Vi stanno Forza Italia dell’eterno Caimano, e due forze xenofobe, la LeganonpiùNord di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni. L’estrema destra ha recentemente riscoperto il problema della povertà e della miseria: vogliono riservare la prima agli italiani e la seconda agli stranieri.

1914 – 1917
Una inesausta tradizione critica imputa alla Rivoluzione del 1917 l’ ingiustificabile, eccessiva violenza che essa avrebbe esercitato contro gli uomini e le cose, ma soprattutto contro le leggi dell’evoluzione economica e della dinamica storica. Lo si chiami blanquismo, lo si imputi a hybris, lo si veda come opera dei demoni dostoevskijani o come applicazione delle aride geometrie sociali di Cernisevskij, l’errore imperdonabile dei bolscevichi sarebbe sempre lo stesso: l’aver agito fuori tempo e fuori luogo, imponendo la rivoluzione ad un paese troppo arretrato e smorzando sul nascere le possibilità di lento ma sicuro progresso della democrazia, e poi del socialismo, aperte dalla fine dello zarismo. Basta però tornare di poco indietro nel tempo e questa critica mostra tutta la propria infondatezza. Nell’agosto del 1914 la socialdemocrazia tedesca, stupor mundi, vanto del movimento operaio internazionale, immensa e rodata macchina concepita proprio per accompagnare lo sviluppo del dinamico capitalismo germanico verso un esito socialista, vota i crediti di guerra, si allea strettamente con la burocrazia e con l’esercito (iniziando così a legittimare quelle stesse forze che vent’anni dopo avrebbero condotto al nazismo) e contribuisce in maniera decisiva allo scatenamento del primo macello mondiale.
Il difetto fondamentale del neoliberalismo – o neoliberismo, come siamo abituati a chiamarlo in Italia – non è che è cinico, egoista, arido e privo di ideali. È proprio che tradisce l’economia, nella convinzione ideologica di possedere l’unica ricetta buona per lo sviluppo, da applicare uguale dappertutto. Con numerosi esempi il celebre economista Dani Rodrik dimostra sul Guardian che questa è una distorsione delle corrette idee economiche mainstream e che dove è stata applicata ha portato ad autentici disastri. Mentre un ricorso ai princìpi dell’economia di mercato graduale, temperato e adeguato alle esigenze dei singoli paesi è alla base dei grandi sviluppi economici dell’ultimo secolo. Il problema dei neoliberisti non è tanto che sono cattivi, insomma: è più che non capiscono l’economia
Il neoliberismo e le sue
ricette usuali – sempre più mercato, sempre meno Stato – di
fatto sono una distorsione della scienza economica
tradizionale.
Come anche i suoi critici più severi ammettono, il neoliberismo è difficile da definire. In termini generali, denota una preferenza per i mercati rispetto allo Stato, per gli incentivi economici rispetto alle regole culturali e per l’imprenditoria privata rispetto all’azione collettiva. È stato usato per descrivere una vasta gamma di fenomeni – da Augusto Pinochet a Margaret Thatcher e Ronald Reagan, dai Democratici di Clinton e del New Labour nel Regno Unito all’apertura dell’economia in Cina alla riforma dello stato sociale in Svezia.
Il termine è usato come una sorta di passepartout per indicare tutto ciò che sa di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione o austerità di bilancio pubblico. Oggi è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista.
Negli anni novanta, da giovane funzionario dell’allora Servizio Rapporti con l’Estero della Banca d’Italia, guidato da Fabrizio Saccomanni – convintissimo europeista – condivisi con tanti colleghi l’orgoglio e l’entusiasmo di essere parte del progetto di costruzione dell’euro. Con lo spirito di chi è artefice di una nuova grande impresa, lavorammo alla costituzione della BCE. Credevamo in un’Italia che contribuiva a ‘fare’ l’Europa; credevamo che la moneta unica avrebbe creato una zona di stabilità finanziaria in Europa, e credevamo che, sotto il vincolo dell’euro, il nostro Paese avrebbe adeguato le istituzioni e la sua stessa struttura produttiva ai migliori standard continentali – cosa di cui avevamo grande bisogno.
Quel progetto, che doveva portare a maggiore prosperità e benessere, è fallito e noi ci sbagliammo (i dati in tabella ne danno impietosa conferma).[1] Di quale altro esperimento sociale abbiamo bisogno per capire che il progetto non ha funzionato e che va cambiata strategia?
Dall’euro in poi, l’Italia ha continuato a non riformare le sue istituzioni e la sua economia, e la Grande Recessione ha mostrato non soltanto le profonde falle dell’Eurosistema che ho descritto qualche mese fa sul Sole24 ore, ma l’ancor più drammatica incapacità dei suoi stati membri di capire cos’è un’unione, come ha ben scritto Susanna Cafaro.
C’è una insurrezione in corso, ma voi non lo sapete, perché i media del fake globale non ve lo dicono e le notizie trapelano solo dalle reti informative al di fuori del sistema Nato: si tratta dell’Honduras che sta insorgendo dopo un decennio di dittatura americana esplicita, preceduta da un vero e proprio saccheggio delle multinazionali appoggiate dalle armi e dai servizi di Washington tanto da fare del Paese quasi il prototipo della politica Usa in America Latina. Sulle ragioni vicine e lontane di ciò che sta accadendo potete leggere questo articolo . Consideratelo come una sorta di introduzione all’ipocrisia dell’impero che ha il suo rito fondativo, il suo simbolo, il suo salmo goglottante di tacchino nel giorno del Ringraziamento che apre la sagra bottegaia e consumistica del Natale.
Già, ma in prima luogo cosa ringraziano fin dal 1637 anno nel quale la festa divenne in qualche modo ufficiale? Il massacro di 700 indiani Pequot bruciati vivi in un loro villaggio dai pii padri pellegrini ( e da truppaglia inglese di supporto) i quali pochi anni prima erano stati salvati dalla morte per fame da quegli stessi nativi che insegnarono loro a coltivare mais e ad allevare tacchini. Che infatti vengono ritualmente mangiati alla festa.
Risulta estremamente interessante, per capire quella che viene definita la "posta in gioco" delle prossime elezioni, questo articolo di Fabbrini sul Sole24 ore:
"La minaccia principale alla democrazia italiana, oggi, proviene dal suo interno e non dall’esterno. Consiste nello svuotamento delle sue istituzioni rappresentative e nella marginalizzazione del suo ruolo europeo. Quando l’idea che i cittadini debbono essere governati “da qualcuno come loro” ha vinto, come nel Regno Unito e negli Stati Uniti, gli esiti sono stati la Brexit e Donald Trump. L’Italia ha bisogno di un dibattito pubblico meno superficiale. Occorre andare a vedere la vera posta in gioco delle elezioni della prossima primavera. Quella posta in gioco concerne il nostro ruolo in Europa. Un ruolo che verrà deciso dall’esito dello scontro tra europeismo e anti-europeismo.
Ciò che lo caratterizza l’anti-europeismo è l’idea di ritornare a casa, alla sovranità dello Stato nazionale. Se quell’idea vincesse, avremmo la definitiva provincializzazione del nostro Paese. Ci rinchiuderemmo sulle nostre debolezze storiche e strutturali. Siccome gli anti-europeisti non saprebbero come affrontarle, allora dovremmo assistere alla litania dei complotti orditi contro di noi per impedirci di governare (una tecnica nota non solo in Venezuela ma anche al Comune di Roma)".
Si è svolta il 3 dicembre, a Catania, presso il “Midulla Centro Polifunzionale – San Cristoforo”, la prima assemblea pubblica per la presentazione del progetto politico ed elettorale denominato”Potere al Popolo”, progetto lanciato a livello nazionale dal centro sociale napoletano “Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo”. A promuovere l’iniziativa a Catania è la “Comunità Resistente Piazzetta”, in gran parte formata da studentesse e studenti medi e universitari.
Tante le foto e tanti i video sull’assemblea, che testimoniano la presenza di non meno di 200 persone, e fra di esse tanti volti noti della sinistra”radicale”etnea, e non pochi di essi hanno partecipato, recentemente, a vario titolo, alla campagna elettorale per le elezioni regionali sostenendo la lista “Cento Passi”, con Claudio Fava candidato presidente della regione.
In contemporanea con le varie iniziative nazionali di “Potere al Popolo”, la nascita di movimenti e partitelli sorti dalle continue scissioni che subisce il PD, portano in tanti – non tutti in buona fede – a dire o pensare che “Potere al Popolo “non è altro che una delle tante scissioni consumate”a sinistra”.
Su questo argomento, la “Piazzetta” ha divulgato un comunicato attraverso la pagina su Facebook:
“Lacerazioni? Scissioni? Litigate? Niente di tutto questo!
Ho seguito l’assemblea fondativa di quella che i giornali hanno definito per mesi la “lista unitaria”, anche se non sarà l’unica. Se non siete fan dei King Crimson faticherete a ricordare l’attuale formazione, poiché nei mesi sono stati sostituti diversi componenti: restano Sinistra italiana e Possibile, escono Rifondazione e i civici del Brancaccio riuniti da Tomaso Montanari e Anna Falcone, entrano Movimento democratico e progressista e Piero Grasso, resta in bilico Giuliano Pisapia, impegnato in un progetto solista, che sembrerebbe orientato a decidere con chi schierarsi dopo le elezioni, dato che prima non si sa chi vince.
In platea c’erano 1500 delegati dai territori a votare le proposte dell’assemblea ma non c’era niente da votare: né un programma – se ne parlerà a gennaio – né un nome, né un leader. Non c’erano mozioni, non ci saranno primarie. Roberto Speranza di Mdp, Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana, Giuseppe Civati di Possibile hanno dato per scontato che il capo politico del “quarto polo alternativo al Pd” sarà Piero Grasso, che fino a ieri era nel Pd.Grasso, intervenuto in quanto capo politico a chiusura dell’assemblea, ha a sua volta dato per scontato e che il nome della lista sarà “Liberi e Uguali”, declinato al maschile, per una lista di quattro maschi: le delegate – immagino lo scoramento – e i delegati devono averlo intuito incrociando le indiscrezioni dei giornali e lo slogan che Grasso ha scandito per tre volte alla fine del suo intervento.
Come il capitalismo ha cambiato il rapporto uomo-natura: Antropocene, Capitalocene, Ecocapitalismo e Chthulucene
«Bisogna smetterla con questa costosissima
cagata del riscaldamento
globale».
(Donald
J. Trump, Twitter, 1 gennaio 2014)
A 550 km dal circolo polare artico, sulle coste orientali della Groenlandia, si trova la Warming Island (‘l’isola del riscaldamento globale’), riconosciuta come tale nel 2005, quando il ghiacciaio che la univa alla terraferma, ritirandosi a causa dell’aumento della temperatura globale, ne provocò il definitivo distacco.
Quello del riscaldamento globale è uno dei fenomeni che appare oggi in cima alla lista delle principali emergenze ambientali del nostro pianeta. Il progressivo aumento della temperatura terrestre è dovuto all’emissione nell’atmosfera di crescenti quantità di gas serra, strettamente correlate ad attività umane industriali e a politiche economiche imperialiste. Tra gli altri fenomeni antropogenici di mutamento ambientale, la comunità scientifica annovera l’inquinamento (con l’immissione nell’atmosfera, nell’acqua e nel suolo di sostanze contaminanti), il buco dell’ozono, l’effetto serra, l’elettrosmog e l’estinzione di numerose specie naturali (con i suoi annessi fenomeni di deforestazione e desertificazione).
«Il capitale è
esso
stesso la contraddizione in processo» (Marx)
Ma questo obbligo ad ammassare quantità sempre maggiori di lavoro astratto tuttavia si oppone ad un'altra dinamica sistemica, quella che parallelamente appartiene all'essenza della logica capitalistica e che, in quanto tale, costituisce l'altro lato dell'autocontraddizione interna del capitalismo: se si è detto che il lavoro di ciascun individuo è socialmente valido solo in quanto "lavoro astratto", vale a dire come rappresentazione di un certo numero di unità di tempo astratto che sono state spese nella produzione di una qualsiasi merce, ciò include il fatto che la misura secondo cui ciascun lavoro viene valutato è allo stesso modo una categoria sociale che sfugge al controllo dell'individuo e della società nel suo insieme. La quantità di valore che rappresenta la realizzazione di un certo lavoro non si definisce a partire da quel lavoro, ma sempre in rapporto da uno standard sociale generale presupposto, che riflette il livello del progresso della produttività della società. In altre parole: il valore di una merce non è definito dal tempo di lavoro individuale che un individuo o una certa impresa impiega per la sua fabbricazione, ma dal tempo di lavoro che corrisponde al livello attuale della produttività della società Un lavoro è socialmente valido solo nella misura in cui viene utilizzato a tale livello.
Venerdì sera (1-12-2017) siamo stati, come redazione e come persone direttamente interessate, alla prima assemblea territoriale del progetto Potere al Popolo per la costruzione di una lista elettorale per le prossime elezioni politiche, organizzato a Padova dallo spazio Catai. Siamo usciti dalla lunga assemblea contenti come si è contenti di qualcosa che si può fare ma che è ancora tutto da costruire: (quindi anche un po’ preoccupati perché adesso bisogna cominciare a farlo). L’assemblea tenutasi venerdì è solo una delle numerosissime assemblee territoriali (oltre quaranta) che in questi giorni sono state organizzate a partire dalla primo ritrovo romano del 18 novembre, lanciato dall’ex-Opg di Napoli al grido di «nessuno ci rappresenta, rappresentiamoci da soli».
La sala in Arcella – quartiere periferico sfruttato nelle sedi elettorali solo per produrre paura e razzismo – era gremita di persone (ne abbiamo contati centocinquanta) di tutte le età; di militanti e di persone semplicemente interessate, provenienti da Padova e da buona parte del Veneto. Nell’aria e nei discorsi a margine si respirava interesse ed entusiasmo, il senso di un bisogno profondo di ciò che in quella sede si stava costruendo per opporsi allo spostamento a destra della politica istituzionale.
Gentilissimo Walter Veltroni, non ho mai avuto la fortuna di conoscerla, e probabilmente lei non ha idea di chi io sia. Sono una persona della sua generazione, un insegnante che da molti anni rivolge attenzione soprattutto ai giovani.
Leggo nell’intervista a La Repubblica che Lei è molto preoccupato per l’avanzata della destra e per i pericoli di crescente aggressività fascista. La capisco. Dirò di più, io credo che coloro che (come me, non come lei) hanno partecipato alle lotte sociali e si sono attivate per l’accoglienza degli stranieri e hanno alzato la voce contro il razzismo, debbano preoccuparsi non solo per la democrazia in generale, ma anche per la vita quotidiana.
Diversamente da lei non ho aspettato il dicembre 2017 per vedere l’onda nera. La vedo da quando, nel 1993 la Germania di Kohl e il Vaticano di Wojtila spinsero la Yugoslavia verso la guerra civile e verso il fascismo. Ora, finalmente, la vede anche lei, e di questo mi congratulo. Ma se posso chiederle qualcosa, mi perdoni, le chiederei di starsene zitto, magari di andare in Africa come aveva promesso di fare qualche anno fa.
Il problema è che tra i giovani senza futuro tra i cinquantenni scaraventati fuori dal mondo del lavoro, e i sessantenni costretti a continuare a lavorare fino allo sfinimento, la decisione di votare a destra è anzitutto una vendetta contro quelli come lei.
Si intensificano le voci che raccontano di un Donald Trump intenzionato a presentare nel giro di poche settimane, pare all’inizio del nuovo anno, una proposta forte per arrivare alla pace tra Israele e Palestina. L’idea è di quelle che ormai sono accolti con risatine di scetticismo o sospiri di noia (tipo: ancora?!?!), perché è lunga la lista dei leader, americani e non solo, che ci hanno provato senza successo.
Il momento, inoltre, non pare propizio. Sul lato della Palestina è in corso il tentativo di mettere d’accordo Fatah e Hamas, ovvero la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, fieramente rivali da quando, nel 2007, Fatah perse dopo una vera battaglia il controllo di Gaza a favore di Hamas, che peraltro aveva vinto le elezioni politiche del 2006. Un eventuale accordo tra le due anime politiche della Palestina sarebbe un grosso ostacolo alla pacificazione con Israele, che considera Hamas un movimento terroristico ed è in questo spalleggiato dagli Usa. Sul lato israeliano, prosegue la politica di allargamento degli insediamenti in terra palestinese, e lo stesso premier Benjamin Netanyahu ha promesso di costruire migliaia di nuove abitazioni in Cisgiordania, per incrementare la popolazione israeliana degli insediamenti che già conta oltre 700 mila persone, ovvero quasi il 10 per cento della popolazione dell’intero Israele.
Nel 2018 cade il quarantennale dell’era Berlusconi, cominciata nel 1978 con l’acquisizione da parte di Fininvest e l’inaugurazione ufficiale di Tele Milano 58, che diventerà Canale 5 nel 1980, la prima pietra del piccolo impero mediatico-pubblicitario che frutterà al Canaro il titolo di Sua Emittenza.
Fra i personaggi di Tele Milano 58 fin dall’inizio Barbara d’Urso, Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Claudio Cecchetto, e Mike Bongiorno.
I veri ministri di Berlusconi.
Nel 1978 Beppe Grillo partecipava come comico alla sua prima edizione di Sanremo su Raiuno.
Oggi, nel quarantesimo anno della sua era, Berlusconi torna a interpretare il suo ruolo preferito: il Salvatore della Patria dall’Apocalisse, stavolta non comunista, ma grillina.
Probabilmente il trucco funzionerà di nuovo, visto che l’Italia è un paese senza memoria, senza speranza, e senza dignità.
Sta già funzionando.
Nei sondaggi Forza Italia è in costante ripresa.
Il Polipo delle Libertà tutto compreso supera sia il PD che il M5S di dieci punti.
Eugenio Scalfari ha dichiarato che come premier preferirebbe Berlusconi a Di Maio.
La televisione americana ABC pesta una merda, quasi subito riconosciuta come tale, ma essa è talmente golosa per l’informazione mainstream italiana a causa della sua triplice sudditanza agli Usa, all’Europa dell’oligarchia e ai centri politici nazionali che lavorano per i primi due soggetti, che viene ripresa e mantenuta nei suoi termini originari. Un infortunio che come in un vaudeville si salda e si aggroviglia anche con il passaggio al Senato Usa di una riforma fiscale che farà pagare di più ai poveri e assolverà i ricchi (vedi Trump e la disuguaglianza radicalizzata ), cosa che anche l’Europa liberista e i suoi falsi oppositori interni non vedono l’ora di fare, generando così un insieme di condanna verso il presidente che ha spodestato il clan clinton-obamiano, ma anche di ambigua vicinanza alle mete del miliardario presidente.
Tutta la vicenda assume se possibile contorni ancora più ridicoli gravitando attorno alla celebre balla delle interferenze di Putin nella campagna elettorale americana e al Russiagate: la notizia sparata dalla ABC è che alla fine Michael Flynn, uno dei personaggi chiave della vicenda, ha confessato all’ Fbi, dopo essere passato per molte versioni e verità, di aver mentito e che i contatti stretti con la Russia c’erano effettivamente stati.

Costruiamo il pozzo di Babele
Kafka
1. La Rivoluzione d’Ottobre è accaduta. Questo nessuno lo potrà negare. C’è stata. Per un certo tempo, settantaquattro anni, superando condizioni di spaventosa arretratezza economica, continuo assedio e aggressione armata, ha mostrato agli uomini che può esistere un’altra forma di convivenza umana, non più basata sull’egoismo e sulla proprietà privata, bensì sulla solidarietà e comunanza dei beni. Naturalmente, che fosse possibile una organizzazione umana non basata sull’egoismo e la proprietà privata poteva e può ricavarsi dalla preistoria e dalla storia antica: parte del paleolitico, il neolitico e alcune grandi civiltà antiche, con i loro 200.000 anni di sviluppo (di cui gli ultimissimi millenni di dominio sociale non costituiscono che una frazione trascurabile), nonché molte società primitive studiate dall’antropologia, stanno lì a dimostrarlo; ma questi fatti inoppugnabili (insieme a quello, decisivo, che non esiste una natura umana determinata, ma che l’uomo possiede un’ampia apertura biologica e una quasi totale plasticità delle pulsioni) (1) non riescono a far breccia nella corazza dell’ideologia, della falsa coscienza socialmente necessaria che ci fa letteralmente percepire il non vero.
«Infatti
è facile vedere come tra le differenze che distinguono gli
uomini ve ne siano parecchie che passano per naturali,
mentre sono
solo il prodotto dell’abitudine e dei diversi generi di vita
che gli uomini adottano in società.»
«Può esservi un uomo tanto depravato, pigro e feroce, da costringermi a provvedergli i mezzi di vita mentre se ne sta in ozio?»
«Ignorate che una moltitudine di vostri fratelli, muore, o soffre nel bisogno di ciò che voi avete di troppo, e che vi ci sarebbe voluto un consenso espresso ed unanime di tutto il genere umano per poter prelevare sui mezzi di sussistenza comune tutto quel che andava al di là del vostro bisogno?»
«È contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, […] che un pugno d’uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine affamata manca del necessario.»
Jean-Jacques Rousseau
«Liberté, égalité, fraternité ou la mort». O, per dirla con Jeremy Corbyn, «For the many, not for the few». Dacché la modernità è nata, una porzione della specie umana non ha smesso di anelare all’eguaglianza, mentre un’altra, cospicua porzione ha continuato a brigare per la sua sussistenza, possibilmente a proprio favore.
Maurizio Franzini prende spunto dalla recente notizia secondo cui Bezos, CEO di Amazon, ha superato Bill Gates come uomo più ricco del mondo per riflettere sulla causa principale di questo sorpasso: il vertiginoso aumento del valore di Amazon in Borsa. Franzini dopo aver ricordato che esso sii è verificato in corrispondenza di profitti persistentemente molto bassi, si chiede cosa abbia reso possibile questa apparente anomalia e ipotizza che dietro di essa possa celarsi una nuova varietà di capitalismo: il capitalismo senza profitti
“Il venerdi
mattina le azioni di Amazon erano cresciute dell’8% rispetto
alla sera precedente facendo aumentare la ricchezza di Bezos
di
7 miliardi. Nel frattempo le azioni Microsoft hanno avuto
un’impennata del 7% sicché quell’aumento non è stato
sufficiente a
Bezos per scalzare Gates… ma alle 10 e un quarto Amazon è
cresciuta ancora del 2%, così la ricchezza di Bezos è salita a
90,6 miliardi di dollari superando finalmente quella di Gates
che ammontava a 90,1 miliardi”.
E’ questo il resoconto, da me liberamente tradotto, che si può leggere sul sito di Forbes della mattina di fine ottobre in cui Bezos, CEO di Amazon, è diventato l’uomo più ricco del mondo. In realtà, non è la prima volta; il sorpasso c’era già stato a fine luglio ma nel volgere di una notte si era verificato il controsorpasso e Gates si era ripreso lo scettro che è stato nelle sue mani per moltissimi anni, con l’eccezione di due brevi intervalli in cui lo ha ceduto a Warren Buffett e Carlos Slim.
Non sappiamo per quanto tempo Bezos (il cui patrimonio – non molto diversamente da quello di Gates – equivale a circa 250.000 appartamenti di buona metratura nel centro di Roma) resterà al comando di questa speciale classifica, e di per sé la questione non è molto interessante.
Premessa
Più le urne si avvicinano, più la confusione aumenta. Di tutto si discute fuorché di un banale dettaglio: il destino del Paese. Destino che rischia di decidersi a Bruxelles o, peggio ancora, a Berlino. Ma di questo — lo nota anche Federico Fubini sul Corsera — non c'è traccia nel cosiddetto «dibattito politico».
La cosa non è stupefacente, vista l'antica tradizione di parlar d'altro per schivare i problemi veri. Stavolta però il macigno è più grande del solito, perché alla fine l'Italia ne uscirà o come stato nuovamente sovrano, o come colonia definitivamente asservita all'Euro-Germania. Ma di tutto ciò parleremo in un prossimo articolo.
Qui ci limitiamo ad osservare l'impressionante accumulo di paradossi che si vanno producendo in vista delle imminenti elezioni politiche. Il fenomeno è interessante proprio perché, almeno a giudizio di chi scrive, esso discende largamente proprio dalla gigantesca fuga dalla realtà — di certo dalle responsabilità — di un'intera classe dirigente. E' questa una tendenza di lunga durata, ma certo un bilancio dei disastri prodotti dalla Seconda Repubblica non guasterebbe.
In queste settimane, in
vista delle prossime elezioni politiche, sono in corso, in
un’area variegata e che impropriamente potremmo definire di
“movimento”
e/o di “sinistra”, alcuni tentativi di dar vita a delle liste
alternative ai partiti tradizionali. Questa esigenza, è
importante
sottolinearlo, è nata anche in seguito alla svolta centrista e
moderata del M5S che, con la candidatura di Di Maio (che non
ha mancato, come
nella migliore tradizione di tutti i candidati premier, di
mandare messaggi più che rassicuranti a Washington, Bruxelles,
Londra e Berlino) ha
virato decisamente verso destra. Il M5S, infatti, esattamente
come tutti gli altri partiti, cerca ormai di accreditarsi come
una forza politica in
grado di garantire la famosa “governance”, cioè quella pace
sociale dove i padroni del vapore possono continuare a fare
quello che gli pare in totale assenza di conflitto sociale.
Questo gli elettori pentastellati probabilmente non lo
capiranno mai, non perché
sono stupidi ma perché è assai difficile che il M5S possa
andare al governo – con la inevitabile conseguenza di far
esplodere le
proprie contraddizioni – a meno di giravolte e tripli salti
carpiati (leggi alleanze improbabili con altri partiti) che
però gli sarebbe
impossibile gestire di fronte al proprio elettorato. E’ da
ricordare che il M5S negli anni scorsi è stato elettoralmente
sostenuto,
anche se non esplicitamente, anche da una buona fetta di
elettorato di sinistra radicale e di “movimento”, sindacati di
base, centri
sociali, associazionismo vario ecc.
Pubblichiamo la versione italiana dell’intervista realizzata da Vincent Dain a Samuele Mazzolini e pubblicata originalmente dal media francese Le Vent Se Lève il 4/12/2017
Le
elezioni municipali di giugno 2017 sono state vinte in modo
netto dai due principali partiti di destra: Forza Italia di
Silvio Berlusconi e la Lega
Nord di Matteo Salvini. Benché distanziate nei sondaggi
nazionali dal Movimento 5 Stelle (M5S) e dal Partito
Democratico (PD), le destre
italiane sembrano avere il vento in poppa. Quali sono gli
orientamenti e le strategie rispettive di queste due
formazioni?
In effetti le destre italiane erano state date per morte troppo presto e le elezioni municipali di giugno 2017 l’hanno dimostrato, così come l’hanno fatto le recenti elezioni regionali in Sicilia. Con la caduta del governo di Berlusconi nel 2011 e una serie di scandali coevi che hanno interessato la Lega Nord, la destra ha vissuto certamente uno sconquasso, ma è riuscita a rientrare in carreggiata. Partiamo dalla Lega Nord che ha compiuto un vero e proprio exploit. Pochi giorni fa è stato definitivamente sancito che il suo nome sarà Lega e non più Lega Nord. Questa trasformazione nominalistica suggella un processo avviato dal segretario Matteo Salvini sin da quando ha preso le redini del partito nel 2013. In nuce, il progetto salviniano è quello di trasformare il proprio partito nel corrispettivo italiano del Front National di Marine Le Pen, con la quale – non a caso – ha mantenuto in questi anni una stretta vicinanza. Non più, quindi, un partito che si occupa di rivendicazioni regionaliste, a trazione settentrionale e con tinte secessioniste, bensì un partito nazionale che offre un discorso a uso e consumo di tutto il Paese.
1914 – 1917
Una inesausta tradizione critica imputa alla Rivoluzione del 1917 l’ ingiustificabile, eccessiva violenza che essa avrebbe esercitato contro gli uomini e le cose, ma soprattutto contro le leggi dell’evoluzione economica e della dinamica storica. Lo si chiami blanquismo, lo si imputi a hybris, lo si veda come opera dei demoni dostoevskijani o come applicazione delle aride geometrie sociali di Cernisevskij, l’errore imperdonabile dei bolscevichi sarebbe sempre lo stesso: l’aver agito fuori tempo e fuori luogo, imponendo la rivoluzione ad un paese troppo arretrato e smorzando sul nascere le possibilità di lento ma sicuro progresso della democrazia, e poi del socialismo, aperte dalla fine dello zarismo. Basta però tornare di poco indietro nel tempo e questa critica mostra tutta la propria infondatezza. Nell’agosto del 1914 la socialdemocrazia tedesca, stupor mundi, vanto del movimento operaio internazionale, immensa e rodata macchina concepita proprio per accompagnare lo sviluppo del dinamico capitalismo germanico verso un esito socialista, vota i crediti di guerra, si allea strettamente con la burocrazia e con l’esercito (iniziando così a legittimare quelle stesse forze che vent’anni dopo avrebbero condotto al nazismo) e contribuisce in maniera decisiva allo scatenamento del primo macello mondiale.
Il difetto fondamentale del neoliberalismo – o neoliberismo, come siamo abituati a chiamarlo in Italia – non è che è cinico, egoista, arido e privo di ideali. È proprio che tradisce l’economia, nella convinzione ideologica di possedere l’unica ricetta buona per lo sviluppo, da applicare uguale dappertutto. Con numerosi esempi il celebre economista Dani Rodrik dimostra sul Guardian che questa è una distorsione delle corrette idee economiche mainstream e che dove è stata applicata ha portato ad autentici disastri. Mentre un ricorso ai princìpi dell’economia di mercato graduale, temperato e adeguato alle esigenze dei singoli paesi è alla base dei grandi sviluppi economici dell’ultimo secolo. Il problema dei neoliberisti non è tanto che sono cattivi, insomma: è più che non capiscono l’economia
Il neoliberismo e le sue
ricette usuali – sempre più mercato, sempre meno Stato – di
fatto sono una distorsione della scienza economica
tradizionale.
Come anche i suoi critici più severi ammettono, il neoliberismo è difficile da definire. In termini generali, denota una preferenza per i mercati rispetto allo Stato, per gli incentivi economici rispetto alle regole culturali e per l’imprenditoria privata rispetto all’azione collettiva. È stato usato per descrivere una vasta gamma di fenomeni – da Augusto Pinochet a Margaret Thatcher e Ronald Reagan, dai Democratici di Clinton e del New Labour nel Regno Unito all’apertura dell’economia in Cina alla riforma dello stato sociale in Svezia.
Il termine è usato come una sorta di passepartout per indicare tutto ciò che sa di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione o austerità di bilancio pubblico. Oggi è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista.
Come il capitalismo ha cambiato il rapporto uomo-natura: Antropocene, Capitalocene, Ecocapitalismo e Chthulucene
«Bisogna smetterla con questa costosissima
cagata del riscaldamento
globale».
(Donald
J. Trump, Twitter, 1 gennaio 2014)
A 550 km dal circolo polare artico, sulle coste orientali della Groenlandia, si trova la Warming Island (‘l’isola del riscaldamento globale’), riconosciuta come tale nel 2005, quando il ghiacciaio che la univa alla terraferma, ritirandosi a causa dell’aumento della temperatura globale, ne provocò il definitivo distacco.
Quello del riscaldamento globale è uno dei fenomeni che appare oggi in cima alla lista delle principali emergenze ambientali del nostro pianeta. Il progressivo aumento della temperatura terrestre è dovuto all’emissione nell’atmosfera di crescenti quantità di gas serra, strettamente correlate ad attività umane industriali e a politiche economiche imperialiste. Tra gli altri fenomeni antropogenici di mutamento ambientale, la comunità scientifica annovera l’inquinamento (con l’immissione nell’atmosfera, nell’acqua e nel suolo di sostanze contaminanti), il buco dell’ozono, l’effetto serra, l’elettrosmog e l’estinzione di numerose specie naturali (con i suoi annessi fenomeni di deforestazione e desertificazione).
«Il capitale è
esso
stesso la contraddizione in processo» (Marx)
Ma questo obbligo ad ammassare quantità sempre maggiori di lavoro astratto tuttavia si oppone ad un'altra dinamica sistemica, quella che parallelamente appartiene all'essenza della logica capitalistica e che, in quanto tale, costituisce l'altro lato dell'autocontraddizione interna del capitalismo: se si è detto che il lavoro di ciascun individuo è socialmente valido solo in quanto "lavoro astratto", vale a dire come rappresentazione di un certo numero di unità di tempo astratto che sono state spese nella produzione di una qualsiasi merce, ciò include il fatto che la misura secondo cui ciascun lavoro viene valutato è allo stesso modo una categoria sociale che sfugge al controllo dell'individuo e della società nel suo insieme. La quantità di valore che rappresenta la realizzazione di un certo lavoro non si definisce a partire da quel lavoro, ma sempre in rapporto da uno standard sociale generale presupposto, che riflette il livello del progresso della produttività della società. In altre parole: il valore di una merce non è definito dal tempo di lavoro individuale che un individuo o una certa impresa impiega per la sua fabbricazione, ma dal tempo di lavoro che corrisponde al livello attuale della produttività della società Un lavoro è socialmente valido solo nella misura in cui viene utilizzato a tale livello.
Ogni
situazione
concreta impone un ragionamento anch’esso il più possibile
concreto. Le elezioni non sfuggono a questa semplice regola
della politica,
quella per cui non esistono schemi precostituiti. Ecco il
motivo per cui le imminenti elezioni di marzo costringono la
sinistra (quantomeno la
sinistra credibile, ché quella incredibile già va indossando
il costume double-face elettoralista/astensionista)
ad una
riflessione seria e originale. Il progetto di una lista di
sinistra, Potere al popolo, in questi giorni ha
contribuito a movimentare il
dibattito elettorale, costretto fino a pochi giorni fa a
barcamenarsi tra le pastoie liberali di Mdp-Si e il folklore
opportunista del Brancaccio. Un
dibattito che avremmo volentieri evitato, per due motivi:
siamo, in fondo, un piccolo collettivo cittadino, incapace di
spostare alcunché in
termini politici ed elettorali nazionali; parliamo di una
lista fatta in gran parte da compagni riconosciuti, dunque
anche posizioni critiche
esasperate avrebbero avuto poco senso. Lo scorso sabato però
Eurostop, la piattaforma politica anti-europeista di cui
facciamo parte, ha deciso
di aderire al progetto della lista Potere al popolo. A questo
punto ci è parso giusto dire la nostra in merito, perché è un
evento che ci coinvolge direttamente.
Dall’Unità in poi l’Italia ha compiuto un percorso “subottimale” ed è sempre cresciuta meno di quanto avrebbe potuto. Una recensione al volume curato da Vasta e Di Martino
Il volume
curato
da Di Martino e Vasta rappresenta probabilmente una svolta
nella crescente pubblicistica storico-economica. Il lavoro,
frutto di un collettivo di
accademici (oltre agli autori, in ordine di apparizione, E.
Felice, G.
Cappelli, A.
Nuvolari, A.
Colli e A.
Rinaldi), nasce da uno speciale
di Enterprise & Society, intitolato Wealthy
by
accident? Il punto interrogativo era
forse più in linea con l’interpretazione; ma più che in
questa, la
principale novità del volume sta nel modo in cui si concepisce
il ruolo della disciplina nel più generale dibattito pubblico.
Nel 1990, Zamagni mandava alle stampe una delle più importanti e citate sintesi della storia economica d’Italia. Se, come scriveva Fenoaltea, il ruolo della disciplina (e delle scienze sociali) è quello di proiettare, come nelle leggende dei nostri antenati, l’immagine che abbiamo del nostro presente, è inevitabile che le interpretazioni riflettano i tempi in cui vengono scritte. Il titolo del volume – Dalla Periferia al Centro – rifletteva l’ottimismo e l’orgoglio di un Paese che, forse ancor più che dopo il Miracolo, sentiva di essere scampato per sempre dalla miseria. In un modo che colpisce chi quegli anni non li ha vissuti, e ne ha spesso letto descrizioni incentrate su inflazione e finanza pubblica fuori controllo, la pubblicistica dell’epoca sembra riflettere, forse per la prima volta, la voglia degli italiani di definirsi e raccontarsi in virtù della propria economia, atipica, ma di successo; calabroni industriosi e lavoratori, seppur allergici al fisco.

Recensione a: Robert Skidelsky e Nicolò Fraccaroli, Austerity vs Stimulus. The Political Future of Economic Recovery, Palgrave Macmillan, Londra 2017, pp. 183, 25 euro (scheda libro)
Il testo di Fraccaroli-Skidleski,
Austerity vs Stimulus, è una raccolta di articoli che
ha l’intento di presentare al lettore lo scontro intellettuale
che si
è combattuto, e che si combatte tutt’ora, rispetto
all’importanza della politica fiscale in tempi di crisi. Si
potrebbe dire che il
testo è una rivisitazione moderna del dibattito Keynes-Hayek
rispetto alle dinamiche del ciclo economico e alle politiche
necessarie a
contrastare i periodi di recessione.
Gli autori ci presentano un “saggio di montaggio” gradevole e che non cade mai in tecnicismi difficilmente comprensibili ai non addetti ai lavori. Terreno di battaglia è la grande crisi finanziaria del 2007 e gli avvenimenti che si sono susseguiti negli anni seguenti in Europa e negli Stati Uniti.
Il libro si articola in cinque sezioni dalle quali emergono tre posizioni di fondo: una pro-austerity, una anti-austerity e una intermedia tra le due.
I pro austerity
La sezione dei pro austerity è anticipata da un articolo di Hayek nel quale si sostiene un eccesso di indebitamento pubblico inevitabilmente conduce a una crescita del tasso di interesse e a uno spiazzamento degli investimenti. Con questo incipit gli autori ci presentano alcuni articoli di Alesina e Giavazzi, di Reinhart e Rogoff oltre che di Nial Ferguson e Basley sul dibattito inglese.
MC: In La nuova ragione del
mondo, riprendendo Foucault, lei e Dardot parlate del
neoliberalismo come di una forma di potere senza volto: non
c’è uno Stato
maggiore che prende le decisioni. In Guerra
alla democrazia avete invece cominciato ad
attribuire un volto e un nome al neoliberismo parlando di
«blocco oligarchico». Questo
blocco si compone di uomini politici, banchieri,
imprenditori, membri della finanza, delle istituzioni
pubbliche, ma anche dei media e delle
università. Si tratta di figure variegate, ma che compongono
un’élite che detiene il potere e di fondo anche i mezzi di
produzione. Perché, date queste premesse, non avete parlato
di «classe»? Può spiegarmi meglio le ragioni dell’utilizzo
del termine «blocco»?
CL: Siamo passati dal momento della governamentalità a un’analisi – in Guerra alla democrazia, 7/8 anni dopo ‒ che dà più importanza al sistema, alla cristallizzazione istituzionale del neoliberalismo come sistema mondiale di potere. Ciò che teniamo dell’analisi di Foucault è l’importanza che dà a tutto l’insieme normativo nella sua interpretazione del capitalismo, appoggiandosi, come fa sempre, sull’ordoliberalismo. Prendiamo sul serio l’ordoliberalismo, il quale insiste sul fatto che il mercato è un costrutto sociale e che le logiche di concorrenza si appoggiano su un costrutto. Il secondo cambiamento rispetto a La nuova ragione del mondo è il «volto».
“Mafia capitale” ha recentemente
prodotto le
proprie sentenze di primo grado (qui
un articolo, qui
la sentenza completa): niente
416 bis, nessuna associazione mafiosa, “soltanto” un sistema
ramificato di corruzione organizzato da due associazioni per
delinquere
collegate fisicamente dalla figura di Massimo Carminati. In
compenso dal 2014, dall’inizio cioè dell’operazione denominata
«Mondo di mezzo», si è prodotto una vasto e straniante
universo narrativo fatto di film, libri, documentari,
inchieste
giornalistiche e, in questi ultimi mesi, di una serie Netflix
dal grandissimo seguito mediatico: Suburra. La serie sfrutta
moduli narrativi ormai
standardizzati: da Romanzo criminale e Gomorra, passando per
Narcos, si è imposto un format discorsivo che travalica i
confini mediatici per
divenire fatto culturale, immaginario sociale. La
trasposizione seriale perde così i caratteri della finzione,
di fiction, per sfumare
indirettamente nell’inchiesta romanzata, alterando la
percezione della realtà, creandone anzi una parallela. Una
realtà
alternativa che progressivamente acquista più legittimità
delle versioni ufficiali, proprio perché presentata come il
“non
detto” delle sentenze e delle dichiarazioni politiche. La
verità “della strada” contro quella “del palazzo”.
Ci sono due piani paralleli e al tempo stesso sovrapposti attraverso cui è possibile cogliere le tracce telluriche di queste operazioni di politica culturale: da una parte svelare un lessico narrativo che ha come obiettivo la costruzione di mitopoiesi artefatte, cioè che procedono dall’alto verso il basso mentre si presentano camuffate dal basso verso l’alto.
E’ uscito questa mattina il manifesto di presentazione della proposta di lista popolare alle prossime elezioni. Sul programma continua il lavoro di confronto che sta raccogliendo decine di contributi e che dovrebbe definire i punti di convergenza. Qui di seguito il testo del manifesto. Domenica 17 dicembre ci sarà una nuova assemblea nazionale a Roma
Abbiamo aspettato troppo… Ora ci candidiamo noi!
Siamo le giovani e i giovani che lavorano a nero, precari, per 800 euro al mese perché ne hanno bisogno, che spesso emigrano per trovare di meglio.
Siamo lavoratori e lavoratrici sottoposte ogni giorno a ricatti sempre più pesanti e offensivi per la nostra dignità.
Siamo disoccupate, cassaintegrate, esodati.
Siamo i pensionati che campano con poco anche se hanno faticato una vita e ora non vedono prospettive per i loro figli.
Siamo le donne che lottano contro la violenza maschile, il patriarcato, le disparità di salario a parità di lavoro.
Siamo le persone LGBT discriminate sul lavoro e dalle istituzioni.
L’11 dicembre prossimo, presso la Casa della Memoria di Milano, si sarebbe dovuta tenere la proiezione del documentario (peraltro in quel luogo girato e da quella amministrazione commissionato) This Arm | Disarm, sull’opera di Paolo Gallerani e firmato dal collettivo OfficinaMultimediale e da Maurizio “Gibo” Gibertini. Il 5 dicembre compare nell’edizione milanese (cartacea) del quotidiano “la Repubblica” un articolo dal titolo Casa della Memoria in programma un ex degli anni di piombo. Praticamente in contemporanea, il giornalista estensore dell’articolo inoltra a Gibertini una comunicazione scritta da una serie di associazioni e indirizzata all’assessore alla Cultura di Milano e a varie altre figure istituzionali, fra le quali il sindaco Sala. In questa comunicazione si chiede di vietare la proiezione. Al di là delle gravi inesattezze e falsità contenute nel testo in questione, rispetto alle quali “Gibo” valuterà di tutelarsi nelle forme e sedi che riterrà opportune, questo fatto ci impone nuovamente la necessità di una riflessione e di una presa di parola collettiva contro l’ennesimo caso in cui viene impedita la libertà di espressione a chi ha la “colpa” di aver militato nei movimenti di lotta degli anni Settanta in Italia.
La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele ha suscitato aspre polemiche sia in Occidente che nel mondo mussulmano. Alla base della scelta di Trump c’è sicuramente la volontà di sdebitarsi verso la destra ebraica, decisiva per la sua elezione. Il nuovo status di Gerusalemme è però soprattutto la conseguenza di nuovo approccio statunitense al Medio Oriente e si collega alla storica decisione di installare una base militare permanente in Israele. Gli USA abdicano al ruolo di potenza imperiale “super partes” e si fanno carico soltanto della difesa d’Israele, lasciando che la Russia, in comune accordo con Iran e Turchia, colmi il vuoto di potere.
Un nuovo assetto per il Medio Oriente
Donald Trump ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale: con un enfatico annuncio, il 6 dicembre, il presidente degli Stati Uniti ha espresso la volontà di spostare entro i prossimi sei mesi l’ambasciata da Tel Aviv, centro finanziario dello Stato d’Israele e capitale del medesimo secondo l’etichetta della comunità internazionale, a Gerusalemme, sinora capitale soltanto per gli israeliani. L’ONU si è sempre infatti detta favorevole ad un’internazionalizzazione della città e gli stessi Stati Uniti, sebbene nel 1995 il Congresso avesse approvato il “Jerusalem Act” per spostare l’ambasciata all’interno degli Accordi di Oslo, avevano sempre resistito alle pressioni israeliane, temendo di inimicarsi gli alleati arabi.
"Dal momento che la realtà esterna è pura finzione”, scrisse Ballard, “lo scrittore non ha bisogno di inventare nulla, tutto è già dato". "Ogni giorno in rete si ha la riprova delle sue parole; internet è un mercato dell’identità", dice oggi Andrew O'Hagan che per Adelphi ha raccontato tre storie "scritte nel Far West" del web
Tutti ti valutano
per quello che appari. Pochi
comprendono quel che tu sei.
Niccolò
Machiavelli
«C’è un altro mondo, ma è in questo». L’emblematico esergo, tratto dal poeta francese Paul Éluard, apre il nuovo libro di Andrew O’Hagan, La vita segreta. Tre storie vere dell’era digitale (Adelphi, 2017), pubblicato da poco in Italia.
Il romanziere scozzese, ma sarebbe meglio definirlo ormai un autore di non-fiction novel, principia il volume con una prefazione che è già mise en abyme dell’opera stessa, cioè una dichiarazione poetica, d’intenti, in cui si legge:
«J.G. Ballard aveva previsto che lo scrittore non avrebbe più avuto un ruolo nella società – che sarebbe presto diventato superfluo, come certi personaggi dei romanzi ottocenteschi russi. “Dal momento che la realtà esterna è pura finzione”, scrisse Ballard, “lo scrittore non ha bisogno di inventare nulla, tutto è già dato”. Ogni giorno in rete si ha la riprova delle sue parole; internet è un mercato dell’identità».
L’annuncio del trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, che Trump ha riconosciuto come nuova capitale di Israele, ha avuto l’effetto di una bomba. Bizzarro destino per un simbolo di pace quale è un’ambasciata. Le poteste del mondo arabo sono solo le prime avvisaglie della Tempesta in arrivo.
Nel dare l’annuncio, Trump ha parlato di un “Tributo alla pace”. Purtroppo rischia di essere un diverso tipo di Tributo: un Tributo di sangue. Infatti alto è il rischio che l’incendio dilaghi, infiammando ancora di più lo scontro di civiltà, immaginato dai neocon e alimentato anche grazie all’apporto del loro avversario necessario, il Terrore globale, ché gli opposti estremismi si alimentano.
Accadrà in ambito palestinese, dove i votati allo scontro irriducibile con Israele rischiano di prendere il sopravvento sui più ragionevoli. E ciò accade proprio mentre la riconciliazione delle diverse anime palestinesi, avvenuta in questi giorni, attutendo le asperità di Hamas, avrebbe potuto rilanciare il processo di pace tra israeliani e palestinesi, come ha spiegato ieri sulle pagine della Repubblica Abraham Yeoshua.
Ma accadrà anche nel più ampio ambito dei Paesi arabi, dove i moderati faranno fatica a contenere le spinte revansciste dei movimenti radicali. Non solo: la nuova conflittualità offre nuovo slancio al Terrore, al quale si spalancano nuovi spazi di manovra.
Riceviamo e volentieri
pubblichiamo
questo testo di Dante Lepore sulla “questione ecologica”,
una delle grandi questioni mondiali del nostro tempo,
largamente dimenticata nel
dibattito in corso.
Certo, non mancano le grida di allarme. Di recente, ad esempio, G. Monbiot ha richiamato l’attenzione sull’Insectageddon – la catastrofica diminuzione degli insetti; altri scienziati hanno messo in primo piano il surriscaldamento globale; altre denunce ancora si concentrano sulla penuria (e lo spreco crescente) di acqua. Ma anche gli ecologisti più seri restano imprigionati in visioni parziali, che non arrivano ad afferrare la causa profonda, sistemica, delle minacce alla stessa sopravvivenza della specie, che è costituita dal modo di produzione capitalistico, e dalle sue implacabili, immodificabili, cieche leggi di movimento.
Il contributo di Dante Lepore va, invece, proprio in questa direzione e mette capo alla necessità di dare una risposta di lotta radicale e globale ai poteri globali che esercitano la distruttiva dittatura del capitale sulle nostre vite e sulla vita della natura.
* * * *
1. Marxismo e rapporto capitalistico uomo-natura: gli effetti contro l’uomo
Una delle conseguenze più deleterie scatenate dal capitalismo a danno della natura nel suo insieme animale e vegetale e della sua parte più evoluta e cosciente, l’uomo, sta nell’aver accelerato al massimo, nei ritmi e nel livello quantitativo, la scissione e il saccheggio di entrambi, con riflessi, da alcuni decenni, sull’intero ecosistema (dal greco, oikos significa ambiente), seminando ovunque dove prima c’era unità, comunità, uguaglianza, ogni genere di opposizione, differenza, dominio di alcuni su altri, diseguaglianza economica.
L’ intervista è avvenuta il 20 giugno 2007 a Milano in seguito a una richiesta di Paolo Gallerani ad Antonio Caronia, anche come preparazione di una futura presentazione del tema nel Corso di Scultura dell’ Accademia di Brera (Al momento della registrazione la discussione era già in corso)
Si parla molto di
“teoria delle
catastrofi”, sia a livello di definizione, che di
applicazione in tutti gli ambiti, dalla
psicologia, all’arte,
all’architettura. Partendo da Buckminster Fuller, si
arriva alle tensostrutture e ai crolli che ci sono stati a
causa del punto debole delle
strutture, per esempio nell’ombelico parabolico. Come si
può spiegare questa teoria?
È un argomento molto delicato, che richiede molta attenzione sia nei termini che nelle applicazioni. Intanto “teoria delle catastrofi” non vuol dire automaticamente teoria dei crolli, è una cosa diversa. Quando il matematico francese René Thom la formulò, questa teoria gli serviva per spiegare la nascita delle forme, e infatti il termine “morfogenesi” compare nei titoli di entrambi i suoi libri più importanti. Il termine “catastrofe”, che Thom naturalmente utilizza, indica semplicemente che nel processo che dà origine alle forme c’è un certo rapporto tra continuità e discontinuità, che ci sono dei momenti di rottura, che egli descrive appunto come le sette “catastrofi elementari”.
![]()
«Certo, il paradosso
è che
c’è stato bisogno di dimostrare che la passione, che fino
a questo momento era ritenuto un giogo per l’uomo, poteva
e doveva essere
vista come ciò che l’avrebbe emancipato»
(P.
Dardot e C. Lavalle, La nuova ragione del mondo,
2013
1. Un’antropologia delle passioni.
Il lettore attento scoprirà abbastanza presto come l’esergo tratto da Dardot e Lavalle sia un fruttuoso paradosso, rispetto alla tesi che questo scritto intende affermare. La passione, nella prospettiva antropologica che adotteremo, torna ad assumere le sembianze piene del giogo, ma lo fa seguendo delle linee “operative” piuttosto diverse rispetto a quelle previste dalla tradizione classica del pensiero: è giogo in quanto dispone il soggetto su un piano in cui la sua energia desiderante è captata e messa al servizio di obiettivi non suoi, senza che tuttavia occorra lungo il cammino alcuna “coercizione”.
Che possono mai avere in comune il tema del macchinico e quello dell’ingegneria delle passioni nel capitalismo contemporaneo? Peraltro, mentre il primo è stato pionieristicamente evidenziato dallo stesso Marx nell’ormai famoso Frammento sulle macchine (Marx, 1964) con annotazioni che rendono piena giustizia alla modernità del suo pensiero, sul secondo il marxismo tutto ha fatto calare una coltre assoluta di silenzio, disinteressandosi di fatto (ma anche di principio) della questione di come gli affetti lavorino spesso e (mal-)volentieri al servizio del capitale.
Il tasso di disoccupazione è una delle misure sintetiche rilevanti – insieme al tasso di crescita del PIL reale – sullo stato di salute del sistema economico. La sua definizione precisa è basata su accordi internazionali, per consentire la comparabilità dei dati tra diversi Paesi, e i questionari della Indagine trimestrale sulle Forze di Lavoro includono delle domande standardizzate, sulla base degli accordi presi.
Tuttavia, si può discutere su quanto la attuale definizione di “occupato” e “disoccupato” sia efficace per descrivere lo stato di salute del mercato del lavoro, e la possibilità di allargare o restringere la definizione dei due aggregati ha portato ad includere nei questionari ulteriori domande (in Italia dal 2004), che consentono di calcolare indicatori alternativi dei livelli di occupazione e disoccupazione.
Allo stato attuale è classificato come “occupato” chiunque, di età superiore ai 14 anni, abbia lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento, a fronte di una retribuzione (1). È invece considerato “disoccupato” chi soddisfa tutti i seguenti requisiti:
Parlare di elezioni implica sempre una “carica” nella discussione che rischia di mettere in secondo piano i nodi politici di fondo che di volta in volta si presentano e vanno affrontati. In questo caso pur parlando di elezioni in realtà stiamo misurando la capacità di un progetto come Eurostop di misurarsi con le evoluzioni della situazione reale; ora questa si manifesta con un processo di velocizzazione degli eventi che ci sottopone a “stress” ed alla verifica della nostra ipotesi di tenere testa a tali evoluzioni sia sul tornante elettorale che in quelle dei prossimi mesi.
Per fare ciò è necessario avere una idea più esatta possibile delle condizioni complessive in cui agiamo e questo prescinde dallo specifico elettorale a cui siamo chiamati ad operare.
Quali sono dunque i terreni su cui siamo chiamati a svolgere la nostra funzione politica?
Certamente il conflitto di classe è un terreno fondante su cui sviluppare iniziativa ed organizzazione e su questo piano certamente esistono delle “avanguardie” di questo conflitto nei settori classici della produzione che in quelli dove è impiegata forza lavoro immigrata. La crisi della Fiom nelle fabbriche metalmeccaniche in molte situazioni sia al nord che nelle altre aree del paese, la lotta dei lavoratori mentali della ricerca, quelle diffuse nella grande distribuzione organizzata, quelle dure nella logistica e nelle campagne meridionali dei braccianti sono i segni tangibili che la lotta di classe non si ferma.
Viviamo in un periodo di vera e propria emergenza europea, anche se ben pochi sembrano accorgersene. C’è una scadenza imminente a cui la stampa e la politica italiane non dedicano alcun risalto, ma che ha invece un rilievo economico e sociale enorme. L’art. 16 del Fiscal Compact (o Patto intergovernativo di bilancio europeo) stabilisce che entro cinque anni dalla sua entrata in vigore (ovvero entro il 1° gennaio 2018), sulla base di una valutazione della sua attuazione, i 25 Paesi Europei firmatari – tra cui l’Italia – siano tenuti a fare i passi necessari per incorporarne le norme nella cornice giuridica dei Trattati Europei.
A più riprese espressioni di insofferenza nei confronti del Patto sono state manifestate da parte di politici italiani di varia estrazione; e giuristi attenti alla legislazione comunitaria hanno denunciato che il Patto sarebbe contrario agli stessi principi sanciti dai Trattati Europei, e dunque in nessun modo incorporabile in essi. Peraltro già nel 2013, su iniziativa italiana, il Financial Times aveva pubblicato il “monito degli economisti“, firmato da alcuni dei più noti economisti viventi, che descriveva l’unificazione monetaria come un esperimento destinato a implodere a meno di una profonda rivisitazione del quadro di regole, tra le quali quelle previste dal Patto.
Una storia di colpi di stato e di un popolo che non si piega
È l’alba del 28 giugno del 2009. Un gruppo di militari si reca nell’abitazione privata di Manuel Zelaya: gli ordina di prendere le sue cose e lo porta via con la forza. Da qui lo porta alla base aerea Hernán Acosta Mejía, dove viene picchiato dai militari. Nel giro di poche ore, l’ormai ex presidente è già in Costa Rica.
Nelle medesime ore, il Congresso Nazionale dell’Honduras legge una presunta lettera scritta da Zelaya, con la data di tre giorni prima, in cui il presidente rinunciava al suo incarico. Viene, farsescamente, votata la destituzione, che trova il Congresso unanime. Al posto di Zelaya viene designato Roberto Micheletti, presidente del Congresso, che avrebbe dovuto sostituire l’ex presidente fino alla fine del mandato.
Dal Costa Rica, Zelaya denuncia di non aver scritto nessuna lettera e di essere stato vittima di un vero e proprio golpe.
Cosa aveva fatto, Manuel Zelaya, per meritare simile trattamento?
Il governo di Zelaya era inizialmente un governo liberale. Ma già dal primo anno, nel 2006, il presidente honduregno ha iniziato ad avvicinarsi all’esperienza bolivariana del Venezuela di Hugo Chávez. Due anni dopo Zelaya dichiara la virata di sinistra e socialista del suo governo. Poco dopo il Paese entra nel Petrocaribe e nell’ALBA.
L’ondata mediatica di fake news sulle fake news ha trovato finalmente un punto fermo. Si è infatti individuata la fonte dell’allarme; si tratta inoltre di una fonte insospettabile e al di sopra delle parti: il Dipartimento di Stato USA. Prima ancora che il quotidiano “New York Times” si facesse latore dell’allarme, al nostro governo era giunta un’informativa a riguardo proprio dal Dipartimento di Stato americano. Con ammirevole senso della legalità ci viene anche spiegato che la fonte (o la fonte della fonte?) non può addentrarsi nei dettagli delle prove per non violare la legge.
I contenuti dell’informativa risultano abbastanza sconcertanti, tanto da far supporre che al Dipartimento di Stato USA si rubino lo stipendio. Il nostro governo viene infatti “avvisato” del pericolo che dalla Russia provengano fake news tendenti a favorire le formazioni politiche più orientate ad un avvicinamento con la stessa Russia, cioè la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle. L’irrealismo dell’informativa appare abbastanza evidente, dato che in Italia non esiste una classe politica in grado di mettere minimamente in discussione la collocazione “atlantica e occidentale” del Paese; e non c’era neppure bisogno dei pellegrinaggi di Di Maio a Washington e di Salvini in Israele per accorgersene.
Senza tutto quello che va
comunemente sotto il nome di ‘lavoro di cura’ – mettere al
mondo e crescere bambini, occuparsi di amici e familiari
eccetera –
non vi sarebbero cultura, economia, organizzazione politica.
Ma tutti questi processi di ‘riproduzione sociale’ –
storicamente
assegnati al lavoro delle donne – vivono oggi una profonda
crisi. Una crisi che, secondo Nancy Fraser, autrice insieme ad
Axel Honneth di
Redistribuzione o riconoscimento?, è espressione più o meno
acuta delle contraddizioni sociali-riproduttive del
capitalismo
finanziarizzato, che da un lato dipende da questo lavoro di
cura per la produzione economica e dall’altro tende a
penalizzare quelle stesse
capacità riproduttive di cui ha bisogno.
La «crisi della cura» è oggi un argomento centrale nel dibattito pubblico[1]. Spesso associata alle idee di «mancanza di tempo», «conciliazione lavoro-famiglia» e «impoverimento sociale», fa riferimento alle pressioni che, da più direzioni, stanno attualmente limitando un insieme fondamentale di capacità sociali: mettere al mondo e crescere bambini, prendersi cura di amici e familiari, sostenere famiglie e più ampie comunità, e più in generale mantenere legami[2]. Storicamente, questi processi di «riproduzione sociale» sono stati assegnati al lavoro delle donne, anche se gli uomini ne hanno sempre svolto una parte.
G. Greenwald: "I media Usa hanno subito la debacle più umiliante da anni. Ora rifiutano trasparenza su quello che è successo"
VENERDÌ è
stato uno dei giorni più imbarazzanti per i media degli Stati
Uniti da molto tempo a questa parte. L'orgia di umiliazione è
stata
avviata dalla CNN, con MSNBC e CBS subito dopo, oltre agli
innumerevoli esperti, commentatori e operatori che si sono
uniti alla festa per tutto il
giorno. Alla fine della giornata, era chiaro che molti dei più
grandi e influenti diffusori di notizie della nazione avessero
dato una notizia
esplosiva ma completamente falsa a milioni di persone,
rifiutando poi di fornire alcuna spiegazione di come sia
successo.
Lo spettacolo è iniziato venerdì mattina alle 11.00. EST, quando il nome più affidabile in News ™ ha trascorso 12 minuti in diretta pubblicizzando un rapporto bomba esclusivo che sarebbe stato la prova che Wikileaks, lo scorso settembre, avesse segretamente aiutato la campagna di Trump, dando a Donald Trump in persona, l'accesso speciale ai messaggi di posta elettronica del DNC prima che venissero pubblicati su internet.
Pochi giorni fa, Renzi punzecchiava Grasso dicendo che, in realtà, in Liberi ed eguali a comandare sarà D’Alema. Immediata la replica stizzita del neo capo di Le : “Io comandato da D’Alema? E’ una vita che guido, se ne accorgeranno”. Dove: “Guido” sta al posto di “Comando”e “Se ne accorgeranno” è rivolto a Renzi ma è sottinteso, anche a D’Alema.
Nell’intervista, il Presidente del Senato, ricorda di aver diretto collegi giudicanti ed importanti uffici giudiziari e, pertanto, di sentirsi perfettamente in grado di guidare anche una forza politica (come dire: per tutta la vita ho prodotto vino, ora posso dirigere un albergo a cunque stelle).
Dalla lettura del pezzo ricaviamo facilmente che:
a. Grasso interpreta il suo ruolo in termini monocratici e non collegiali
b. ha perso una magnifica occasione per nascondere il suo narcisismo rispo0ndendo con ironia a Renzi o quantomeno, standosene zitto
c. non sospetta le differenze che passano fra il dirigere un ufficio giudiziario e guidare una forza politica
d. in breve arriverà a litigare aspramente con D’Alema (ma, secondo me, via via con tutti gli altri)
Antonio Casilli, professore alla Télécom ParisTech, è considerato uno dei maggiori esperti di capitalismo delle piattaforme. È noto per le ricerche pionieristiche sul «lavoro digitale» che rovesciano il senso comune apocalittico secondo il quale il lavoro è finito a causa dell’automazione. «Siamo noi a formare i robot con il nostro lavoro – sostiene – Produciamo i criteri sulla base dei quali operano. E poi li educhiamo ad apprendere come migliorare. Il problema non è che i robot ci rubano il lavoro, noi continuiamo a lavorare sempre di più e le piattaforme frammentano e rendono invisibile il lavoro necessario per fare funzionare gli algoritmi».
* * * *
In Italia hanno fatto molto discutere i licenziamenti di due lavoratori Ikea, Marica a Corsico (Milano) e Claudio a Bari. Sono stati licenziati perché le loro vite non si sono incastrate con l’algoritmo che governa la forza lavoro. Siamo tornati all’Ottocento?
Il capitalismo delle piattaforme digitali irrigidisce la
disciplina del lavoro, impone una misura e una valutazione
apparentemente
«scientifiche» che possono assomigliare alle vecchie
manifatture industriali. La differenza fondamentale è che i
lavoratori, in
cambio della sottomissione alla disciplina, non ottengono la
protezione sociale e la rappresentatività politica che prima
ottenevano in cambio
della subordinazione. Questo nuovo taylorismo ha tutti gli
svantaggi e nessuna delle compensazioni del vecchio. I
lavoratori sono prigionieri di una
contraddizione in termini: subordinati e precari al tempo
stesso.![]()
Dalla luce dei soviet all’ombra della Rivoluzione d’ottobre fino ad arrivare al buio pesto degli anni successivi, quelli del comunismo di Stato e di partito. In Il potere ai soviet (DeriveApprodi 2017), Pierre Dardot e Christian Laval tracciano in questo modo la parabola dell’assalto al cielo avvenuto cento anni fa. In prima battuta lo fanno confinando l’azione di Lenin, secondo loro anima nera del bolscevismo, in un astratto spazio politico e la sua riflessione teorica in un tempo lineare e uniforme, quasi predeterminato. In Lenin non ci sono oscillazioni, battute d’arresto, soluzioni di continuità dal Che fare? del 1902 fino quasi alla morte avvenuta nel gennaio del 1924. Solo in prossimità della fine Lenin si accorge che la macchina politica del partito-Stato che ha, più di tutti, voluto costruire gli si è rivoltata contro. Burocratismo, conformismo, autoritarismo, repressione violenta del dissenso, nel partito bolscevico sono presenti, per gli autori, già durante la rivoluzione che sovverte la Russia dal febbraio all’ottobre del 1917. Una linea imposta da Lenin che si è concretizzata nel rapporto strumentale del partito bolscevico con i soviet e nel «colpo di Stato leninista» durante l’insurrezione dell’ottobre.
A ben guardare, per Dardot e Laval, l’idiosincrasia di Lenin nei confronti dei soviet ha radici lontane. Risale al 1905 e alla sua incomprensione del contenuto politico e sociale del soviet di Pietroburgo.
Tanti titoli e titoloni sulla Brexit, che a noi in fondo cambia poco, e assenza quasi assoluta di dibattito sulla riforma dell’Europa, di importanza determinante per il nostro futuro. Siamo davvero un paese molto strano. E’ stato appena raggiunto un accordo sul Fiscal compact, il famigerato trattato intergovernativo che ci impone di attuare politiche restrittive di qui all’eternità, e si fatica a trovarne notizia sui media (una delle pochissime eccezioni è l’Huffington post). Iniziative di discussione finora quasi zero, giusto un convegno della Cgil un paio di settimane fa.
A rompere il silenzio prova ora un gruppo di intellettuali, per lo più economisti, che ha lanciato un appello invitando alla discussione e formulando alcune proposte. Il testo completo e i nomi dei promotori (tra cui il sottoscritto) si trova sulle riviste Economia e politica e Keynesblog.
Come era previsto al momento in cui l’accordo fu stipulato, nel 2012, dopo cinque anni – cioè ora – si doveva decidere se inserire il Fiscal compact nei Trattati. Questo avrebbe richiesto un’approvazione all’unanimità di tutti i paesi membri, ed evidentemente non si è voluto correre il rischio. Così si è deciso di emanarlo con una direttiva europea.
Un dato che emerge con chiarezza dalle elezioni politiche dei principali paesi europei è la spaccatura dell’elettorato tradizionale della sinistra sulla questione immigrazione: tra la base operaia e popolare anti-immigrazione e il ceto medio benestante – dei dipendenti pubblici, specie nel settore dell’educazione, degli studenti internazionali, dei professionisti, degli intellettuali, dei lavoratori ad alte qualifiche – a favore dell’apertura incondizionata delle frontiere. In genere, nei milieu politici e culturali progressisti questa sgradevole evidenza empirica viene rimossa, o liquidata sbrigativamente in termini moralistici: è un dovere etico accogliere i più svantaggiati, mentre chi solleva obiezioni all’imperativo degli open borders è bollato come razzista e xenofobo (anche se i due termini, come ricorda Luca Ricolfi, non sono affatto la stessa cosa). È chiaro che un atteggiamento di questo tipo, rivelatore di superbia intellettuale e disprezzo morale verso chi la pensa diversamente, non fa che acuire il distacco tra il comune sentire delle classi più deboli e le forze politiche che dovrebbero rappresentarle, a tutto vantaggio dei movimenti di estrema destra.
Prima di giudicare, andrebbe fatto lo sforzo di comprendere gli effetti economici e sociali, profondamente asimmetrici, che l’immigrazione provoca sulle popolazioni ospitanti.
Gli autori di questo post sono Marta Fana, dottore di ricerca in Economia e autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza 2017) e Davide Villani, dottorando di ricerca in Economia, Open University (Regno Unito)
All’interno del dibattito
sulle attuali condizioni del mondo del lavoro italiano, si
colloca la questione salariale. Secondo la teoria dominante,
ripresa qui su Econopoly
in un recente articolo firmato da Luca
Foresti, i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione)
hanno contribuito alla polarizzazione del
mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide
hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti,
sono
condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti.
Allo stesso tempo, lavoratori capaci di integrarsi o essere
integrati in settori
più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici)
sarebbero maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi.
Si
consumerebbe così la polarizzazione (e di conseguenza aumento
delle diseguaglianze interne), spinta(e) principalmente dalla
tecnologia.
Come in ogni visione a tradizione marginalista, inoltre, spetta ai lavoratori, schiacciati dalla concorrenza di altri lavoratori nella fascia bassa delle retribuzioni, “prepararsi a fare lavori più complessi e meglio pagati” e a quelli più produttivi reclamare la propria fetta, “meritata”, di valore aggiunto prodotto. All’interno di questo ragionamento, nessuno spazio è accordato, come ricorda Bogliacino (2014), al potere, o in termini classici ai rapporti di forza tra aziende e lavoratori.
In un precedente articolo si
introduceva la pseudo-formula della concentrazione.
L'idea tautologica di fondo è che
all'accrescersi della concentrazione dei capitali e dei poteri
di sorveglianza e di intervento decresca il grado di
democrazia. Che cioè, in
definizione, la democrazia ceda progressivamente terreno
all'oligarchia e al totalitarismo:
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Se la democrazia si realizza nella disseminazione non solo dei poteri decisionali ma anche del benessere, del risparmio e della proprietà (Cost. art. 47), non può stupire che il suo recente declino si sia accompagnato a innovazioni politiche, giuridiche ed economiche attivamente tese a promuovere un maggior grado di concentrazione. La tendenza riguarda tutti i settori, esprimendosi ad esempio in campo economico come concentrazione dei capitali, già caposaldo dell'analisi marxiana:
Si avvicina
la
fine della legislatura e si avvicinano le nuove elezioni
politiche, si scaldano i motori, c’è una sorta di fremito fra
gli apparati dei
partiti vecchi, nuovi, nuovissimi e qualcuno addirittura in
via di formazione come quello che viene dagli ex occupanti
dell’Opg (per qualche
povero sprovveduto che capitasse per caso a leggere queste
note: si tratta di giovani occupanti del vecchio manicomio
giudiziario di Napoli).
Si scatena immediatamente il dibattito a “sinistra”, cioè di quei rimasugli del sessantottismo e settantasettismo che, nostalgici di un movimento che fu, rimbalzano tra parole d’ordine, programmi o astensionismo di principio senza cavare – come suol dirsi – un ragno dal buco. Tentativi su tentativi che si ripetono e puntualmente falliscono senza che ci si domandi perché. Pazienza.
Va detto – per onestà - che a monte di questi atteggiamenti c’è, da una parte, una profonda ignoranza sulla storia della lotta delle classi e, dall’altra parte, la voglia tutta soggettiva (istica) di voler “incidere” nei processi storici attraverso la propria azione, una sorta di coscienza esterna da immettere nelle masse.
Ora, il voto rappresenta da sempre uno stato d’animo delle classi sociali a un certo stadio di sviluppo dei rapporti fra gli uomini. Esse vanno perciò distinte secondo tre fasi: un momento di stagnazione sociale, un movimento ascendente delle classi subordinate e un movimento in riflusso delle stesse.
Il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto in positivo le previsioni della crescita del pil a livello mondiale. Restano problemi di fondo, tra cui la vertiginosa crescita delle disparità di reddito e di ricchezza
La crescita dell’economia mondiale e i suoi problemi
Come è noto, di recente il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto in positivo le previsioni della crescita del pil a livello mondiale; mentre lo sviluppo complessivo del pianeta aveva registrato un più 3,1% nel 2016, esso dovrebbe raggiungere, secondo il Fondo, il 3,6% nel 2017 e il 3,7% nel 2018.
Nell’ambito di questo andamento tutto sommato positivo, non manca chi mette comunque in rilievo la persistenza di alcuni importanti problemi di fondo che, se non bene affrontati, rischiano di mettere in seria difficoltà il quadro dello sviluppo futuro.
Così Martin Wolf (Wolf, 2017) ha in questi giorni sottolineato la persistenza di due questioni di peso. La prima appare in relazione al fatto che il livello degli investimenti è, in particolare nei paesi del G-7, piuttosto insoddisfacente e comunque si colloca a livelli inferiori a quelli di prima della crisi; la seconda fa riferimento alla constatazione della permanenza di una montagna di debiti a livello delle imprese, oltre che, qua e la, delle famiglie e degli Stati.
“Chiunque compia il minimo sforzo può vedere che cosa ci riserva il futuro. È come l’uovo d’un serpente. Attraverso la fine membrana, si riesce a discernere il rettile perfettamente formato” – The Serpent’s Egg/Das Schlangenei, 1977
C’è qualcosa d’urgente, importante, e molto più efficace d’una manifestazione, che Renzi, Camusso, Bersani e i vari Democratici e Liberi&Uguali (uguali al PD) possono e devono fare contro la deriva fascista in atto.
Levarsi immediatamente dai coglioni.
Perché ne sono i principali responsabili.
Sono loro che hanno costretto le classi lavoratrici alla lotta fratricida, imponendo come pensiero unico il darwinismo sociale mercatista, la dottrina della disuguaglianza e della sopraffazione reciproca che è l’essenza del fascismo.
Sono loro che hanno ridotto la democrazia a una grottesca pantomima, e che adesso progettano di passare la campagna elettorale a scambiarsi insulti per poi tornare tutti insieme al governo con Berlusconi, e continuare a strangolare il paese secondo gli ordini del Mercato.
Sono loro che appena un anno fa hanno cercato di smantellare la Costituzione antifascista, col plauso della Merkel e di Obama che durante l’ultima visita di Renzi alla Casa Bianca ha auspicato la vittoria del Sì.
Con la Conferenza dei Servizi di martedì è giunta l’approvazione definitiva allo stadio della Roma. In un rarissimo episodio di coesione istituzionale, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico hanno messo da parte polemiche politiche ed elettorali per dare a quest’opera il via libera finale, salutato dal plauso pressoché totale dei media e dal giubilo irrefrenabile della tifoseria giallorossa.
In questo modo si chiude una vicenda dalla lunghissima gestazione. Primo proponente di uno stadio di proprietà dell’ASRoma fu infatti Dino Viola, indimenticato Presidente della Roma scudettata 1982-83, ma anche imprenditore degli armamenti e senatore della Democrazia Cristiana fra il 1983 e il 1987. Ne parlò nel 1985, ma non se ne fece nulla. Arriviamo così al settembre 2014, quando l’attuale Presidente James Pallotta e il Sindaco Marino raggiungono un accordo definitivo per realizzare il nuovo stadio presso l’ex ippodromo di Tor di Valle. La scelta dell’area non è un caso: essa appartiene a Luca Parnasi, ultimo erede di una delle più importanti famiglie di costruttori romani, partner di Pallotta nel progetto stadio nonché esposto per oltre 450 milioni di euro verso Unicredit – va da sé che l’istituto bancario è uno dei più grandi sponsor dell’operazione.
Dopo aver inaugurato nel 2009 la stagione del Golpe Soave con la deposizione del legittimo Presidente Manuel Zelaya, reo di essersi avvicinato all'Alba[1], in questo giorni in Honduras si sta scrivendo una nuova pagina di storia relativa a questa, ormai consolidata, strategia destabilizzante.
Il Golpe Soave, Blando o Istituzionale a seconda delle definizioni e delle sfumature di realizzazione viene attuato in forma incruenta attraverso l'azione convergente di alcuni settori della Magistratura, di forze politiche disposte a clamorosi ribaltoni degli esiti elettorali, di settori degli apparati di Sicurezza, con il fondamentale appoggio dei media, soprattutto privati, che ne preparano l'attuazione con potenti campagne diffamatorie tese a creare consenso nell'opinione pubblica interna e internazionale, intorno all'opera di deposizione di Presidenti eletti attraverso regolari passaggi elettorali. Il tutto sotto la regia internazionale dei poteri forti e delle strutture di Intelligence statunitensi.
Dopo il già citato caso di Zelaya, ricordiamo in ordine cronologico, tralasciando le numerose fallite, la deposizione del Presidente paraguayano, l'ex Vescovo Fernando Lugo, nel 2012 e quella più clamorosa di Dilma Roussef in Brasile nell'estate del 2016[2].
I nostri lettori hanno oramai dimestichezza sia con Carlo Formenti che con Manolo Monereo. Due pensatori e militanti che stimiamo assai. È appena uscito anche in Spagna uno dei lavori più importanti di Formenti, LA VARIANTE POPULISTA. Ne demmo appunto contezza, libro fresco di stampa, nell'ottobre 2016. Qui sotto la presentazione di Monereo
Non è un fantasma, è qualcosa di più materiale, più molecolare, più coerente: l'emergere di una sinistra sovranista. Intendiamoci una sinistra che cerca di riconciliare l'emancipazione sociale, la sovranità popolare e la ricostruzione di uno stato democratico avanzato. Il tornare a conciliare ha a che fare con l'inversione della rotta che negli ultimi trenta anni ha opposto questi valori alla sinistra realmente esistente, considerandoli come reliquie di un passato che non tornerà, o peggio, gli ostacoli da superare per confrontarsi alle sfide di questa tarda modernità.
Lo viviamo ogni giorno, a volte, come qui e ora in Spagna, drammaticamente.
In primo luogo, notiamo con grande allarme il risveglio di vecchi e nuovi nazionalismi e la tendenza in diversi Stati alla frammentazione ed alla rottura territoriale.
In secondo luogo, si difende con veemenza la globalizzazione e la sua specifica modalità di concretizzarsi nel nostro continente, l'Unione europea, sempre intesa come qualcosa di irreversibile e inevitabile che andrebbe soltanto modulata, temperata, democratizzata.

Il libro
del filosofo Domenico
Losurdo è del 2017,
e rappresenta una densa e coraggiosa carrellata su tutti i
motivi più sensibili della tradizione marxista, al contempo
con uno spirito
militante e rigore storico. A metà tra la storia delle idee e
l’interpretazione della dinamica storico-sociale la tesi del
filosofo
marxista, assolutamente al centro dei dibattiti che agitano la
contemporaneità nel campo del pensiero critico, è che abbiamo
avuto in
sostanza negli ultimi cento anni non un paradigma
marxista internazionale, ma almeno due: quello
occidentale e quello
orientale.
All’origine della divergenza, che a tratti è stata scontro, è una differenza essenziale di priorità, prima ancora che di posizione e ruolo:
Nel mio contributo vorrei rivisitare
le
principali conclusioni dei miei scritti sul 1917, soprattutto
per ciò che riguarda la spinosa, e tuttora profondamente
politicizzata questione,
su come i bolscevichi hanno prevalso nella lotta per il potere
a Pietrogrado nel 1917. Tuttavia, lasciatemi iniziare con
poche parole sulle opinioni
degli storici che in precedenza si sono occupati di
quest’argomento.
Per gli studiosi sovietici, la Rivoluzione d’ottobre del 1917 fu la legittima espressione della volontà delle masse rivoluzionarie di Pietrogrado: un’insurrezione popolare armata a sostegno del potere bolscevico, guidata da un partito d’avanguardia fortemente disciplinato e brillantemente diretto da V.I. Lenin. Gli storici occidentali, d’altro canto, tendevano a vedere il successo dei bolscevichi come conseguenza della debolezza del governo provvisorio nei confronti della sinistra radicale; un incidente storico o, più spesso, il risultato di un golpe militare ben riuscito, privo di un significativo sostegno popolare, realizzato da una piccola, compatta, profondamente autoritaria e cospirativa organizzazione controllata da Lenin e sovvenzionata dalla nemica Germania. Per gli storici che esprimono quest’ultima opinione – tra cui, attualmente, molti studiosi russi – la struttura e le pratiche del partito bolscevico nel 1917 rappresentano l’ineludibile antecedente dell’autoritarismo sovietico.
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Recentemente Banca d'Italia ha criticato la proposta di Moneta Fiscale. In questi due articoli i promotori del progetto – autori anche di un ebook per MicroMega – rispondono punto per punto alle questioni sollevate: “Se sono queste le critiche, ci permettiamo di sentirci ancora più confortati in merito alla bontà del progetto della Moneta Fiscale”.
Prima e dopo l'Ottobre. «La rivoluzione russa e i contadini. Marx e il populismo rivoluzionario» di Pier Paolo Poggio, per Jaca Book. La ripubblicazione di un testo uscito nel 1978 che propone la questione rurale alla lente dello sguardo moderno del «Moro»
In questo anno centenario della Rivoluzione sovietica appare quanto mai utile la ripubblicazione da parte della Jaca Book (con l’aggiunta di un’ampia e approfondita nuova introduzione) del libro di Pier Paolo Poggio, La rivoluzione russa e i contadini. Marx e il populismo rivoluzionario (LXXXII, pp.308, euro 25). Poggio non è solo lo storico che dirige da anni la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia e il Museo dell’Industria e del Lavoro (Musil), ma è soprattutto il curatore di un’impresa, tanto significativa e ricca nei contenuti quanto assai poco nota e letta, che è il progetto, in cinque volumi, L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, di cui sono usciti sempre per la Jaca Book i primi quattro poderosi volumi.
Il suo scopo è quello di salvaguardare e riproporre all’attenzione, affinché non scompaiano, sotto le macerie del muro di Berlino e l’autodissoluzione dell’Urss, i filoni di quel comunismo eretico e di quel pensiero critico prossimo o dialogante con il comunismo – ma lontano dal bolscevismo, dal marxismo-leninismo e dall’organizzazione teorica e politica dei partiti della III Internazionale – che ha attraversato, secondo molteplici ispirazioni, la storia del Novecento.
Domenica 26 Novembre il Nepal è tornato alle urne dopo un’attesa ventennale per eleggere i membri del parlamento. Sono state le prime elezioni dal 2007, anno in cui venne abolita la monarchia congiuntamente agli accordi di pace siglati dallo stato coi ribelli maoisti che dieci anni prima avevano dato il via ad una sanguinosa guerra civile costata la vita a più di 14mila persone.
Quella del ritorno alle urne è una notizia estremamente positiva per un paese tra i più poveri della regione che in 10 ha visto succedersi altrettanti governi. Una vera e propria paralisi che ha dato il via ad una corruzione dilagante investendo ogni strato della popolazione.
L’Assemblea Costituente venne eletta nel 2008 con un mandato di due anni, ma questo termine fu poi prorogato più volte poiché i partiti non riuscirono mai a trovare un accordo sulla nuova Costituzione. In particolare, i dissidi tra le parti si sono concentrati sulla volontà della maggioranza di dividere il paese in unità amministrative e regioni create a tavolino senza tenere conto di alcune importanti realtà tribali. Le tensioni che seguirono hanno seriamente rischiato di riaccendere i mai sopiti fuochi delle differenze etniche. L’incubo di un ritorno ad una guerra civile si fece sempre più pressante proprio a causa delle rivalità regionali tra il gruppo tribale hindu dei Madhesi/Therai (storicamente propensi ad una vera e propria autodeterminazione) e il governo centrale.
Le elezioni sono oramai vicine: un’altra legislatura è trascorsa. Su quella che verrà sembra esserci poca speranza, visto che già si ipotizzano nuove elezioni a giugno, se dal voto dovesse uscire un quadro politico instabile.
La crisi della politica italiana data ormai un quarto di secolo e ancora non se ne vede una plausibile via d’uscita. Il renzismo ha fatto il suo tempo. È naufragato insieme con il Partito democratico e ci ha consegnato un paese in condizioni istituzionali ed economiche più che preoccupanti e alla mercé della demagogia pentastellata. I dati del rapporto Censis, presentato a dicembre, disegnano un quadro allarmante. In un paese in cui la fiducia nella politica non è mai stata particolarmente alta, si registra un ulteriore scadimento: l’84% dei cittadini non nutre fiducia alcuna nei partiti politici e, viene da aggiungere, a ragione, in presenza di soggetti dediti solo a porsi all’attenzione dei media con una vocazione prevalente ad assecondare il governo. Inoltre, ben il 78% non confida neppure nel governo e, al di là delle tanto sbandierate riforme, permane l’ostilità nei confronti della pubblica amministrazione verso la quale il 52% degli italiani non nutre fiducia e, visto come vanno le cose –basti pensare alla sanità – il dato appare anche contenuto.
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Il declino della più antica banca italiana è iniziata nel 2007 in concomitanza della nascita del Partito democratico. A distanza di dieci anni, gli ex comunisti del Pd hanno ridotto in macerie il loro centro di potere senese (e toscano) e hanno perso il partito, consegnandolo agli ex democristiani. Cioè a Renzi
Sulla complessa vicenda del Monte dei Paschi di Siena, contrassegnata da inchieste giudiziarie e morti sospette, abbiamo alcuni fatti certi, su altri possiamo fare delle ipotesi, su altri ancora dobbiamo fermarci alle coincidenze ed essere prudenti su ogni considerazione. Vi sono infine circostanze su cui il mistero è così fitto da impedirci ogni riflessione.
Non sappiamo anzitutto cosa abbia spinto il colosso Abn Ambro ad acquistare, nel 2006, una banca italiana nota già allora per il suo stato disastroso. Eppure il gruppo olandese scala l’Antonveneta spendendo 7,3 miliardi di euro. Quando Abn Ambro entra in difficoltà, intervengono tre grandi banche europee: nel maggio del 2007 lo spagnolo Santander, la Royal Bank of Scotland e il colosso belga Fortis acquistano Abn Ambro investendo 71 miliardi. Sono operazioni che coinvolgono, badate bene, le più grandi banche europee.
Il Banco di Santander, legato all’Opus Dei, è interessato al ramo italiano e sudamericano del gruppo olandese, che nel complesso paga 19 miliardi (di cui 6,6 per Antonveneta). Antonveneta però è vicina al fallimento, cosicché i dirigenti del Santander (Botin e Gotti Tedeschi, personaggio di cerniera di tutto l’affare noto per essere stato dal 2009 al 2012 presidente dello Ior) contattano il Monte dei Paschi di Siena per verificarne la disponibilità all’acquisto.
Nel momento
in
cui esce nelle sale il film di Raoul Peck sul giovane Marx,
vale la pena interrogarsi sul rapporto che aveva Marx con la
rivoluzione, ed in
particolare con la Rivoluzione francese. Infatti, secondo
Michael Löwy, Marx è stato letteralmente affascinato dalla
Rivoluzione francese,
così come molti altri intellettuali tedeschi della sua
generazione: ai suoi occhi, essa era semplicemente la
rivoluzione per eccellenza -
più precisamente «la più colossale rivoluzione [Kolossalste]»
[*1].
Si sa che nel 1844, Marx aveva intenzione di scrivere un libro sulla Rivoluzione francese, a partire dalla storia della Convenzione. Nel 1843, egli aveva cominciato a consultare delle opere, a prendere delle note, a spulciare attentamente periodici e collezioni. Queste erano soprattutto delle opere tedesche - Karl Friederich Wilhelm, Ernst Ludwig Wachsmuth - ma in seguito predominano i libri francesi, fra i quali le memorie di Levasseur [montagnardo che aveva fatto parte della Convenzione], i cui estratti avevano riempito molte pagine dei quaderni di note di Marx redatti a Parigi nel 1844. Oltre a questi quaderni (riprodotti da Maximilien Rubel nel III volume delle "Œuvres" pubblicate nella "Pléïade"), i riferimenti citati in quegli articoli o in quei quaderni (soprattutto negli anni 1844-1848) testimoniano sulla vasta bibliografia consultata: La "Histoire parlementaire de la Révolution française", di Buchez et Roux, La "Histoire de la Révolution française", di Louis Blanc, quelle di Carlyle, Mignet, Thiers, Cabet, dei testi di Camille Desmoulin, Robespierre, Saint-Just, Marat, ecc. Si può trovare un resoconto parziale di questa bibliografia nell'articolo di Jean Bruhat su «Marx et la Révolution française», pubblicato negli «Annales historiques de la Révolution française», nell'aprile-giugno del 1966.
Incontro-dibattito sul libro La società artificiale. Miti e derive dell'impero virtuale, di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2017), presso il Csa Vittoria, Milano, 14 settembre 2017
Il
lavoro di ricerca è sempre un lavoro teso su una corda, nel
senso che stiamo cercando di affrontare dei processi sociali
nuovi, che ci
sorprendo perché, come abbiamo tentato di dire soprattutto nel
primo lavoro, L'impero virtuale (1), sono processi
ad altissima
velocità storica e sorpassano la nostra capacità di
adattamento. Il tempo, la storia, dell'Ottocento e del
Novecento, per rimanere negli
ultimi due secoli, aveva un passo molto più lento: il
lavoratore del sud Italia che veniva a lavorare alla Pirelli a
Milano o alla Fiat di
Torino, poteva arrivare anche digiuno di quella che era una
cultura del mondo del lavoro, sindacale, di classe ecc., e
aveva poi il tempo per entrare
progressivamente nei problemi che stava vivendo insieme ai
diversi contesti che attraversava e che erano abbastanza
omogenei: i contesti urbani dei
quartieri, quelli di fabbrica, i contesti sociali più
organizzati. Oggi questo non c'è più. Oggi i tempi sono
talmente violenti e
veloci che ci mettono di fronte a delle dinamiche che sono
mondiali, e che solo dieci anni fa non esistevano. Facebook,
per esempio, che nel 2007
entra come processo sociale non più riferito a un piccolo
gruppo di università, e dieci anni dopo raggiunge i due
miliardi di utenti.
È quindi comprensibile che le persone che vi si sono riversate
lo vivano più esperenzialmente e intuitivamente che avendone
contezza e
gli strumenti per leggere che cos'è, come funziona, come
funzionano loro stessi mentre utilizzano questo tipo di
strumenti.
Come di consueto la fondazione Agnelli ha divulgato nel mese di novembre le classifiche di qualità delle scuole superiori italiane redatte da Eduscopio. Le valutazioni, per quanto concerne i licei e gli istituti tecnici, riguardano gli esiti degli studenti nel primo anno di università attraverso i quali gli esperti di Eduscopio ritengono sia possibile dare un’idea abbastanza precisa della qualità dei singoli istituti, mentre per gli istituti professionali con gli stessi intenti si propongono classifiche relative alle assunzioni dei neodiplomati. Eduscopio si propone in questo modo di fornire un servizio alle famiglie nella scelta consapevole della scuola superiore.
Le classifiche, nel caso del rendimento universitario, presentano le scuole divise per indirizzo e collocazione geografica e si basano su un indice (FGA) espressione di una media tra voti degli esami universitari e i crediti ottenuti ponderata con altri fattori che possono incidere sul rendimento degli studenti ( per es. il tipo di facoltà o la distanza dalla sede di studio), anche se nei principali organi d’informazione le classifiche sono state rese noto senza punteggi FGA, ma solo tramite la posizione occupata dall’istituto. L’aspetto più significativo e statisticamente sicuro che emerge dai dati è che licei classici e scientifici, indipendentemente dalla posizione specifica in graduatoria di ogni istituto, garantiscono gli esiti universitari migliori per i loro studenti, che come notizia non è esattamente una sorpresa sbalorditiva.
Il clamore non si placa. La decisione del presidente Usa Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme continua a tenere banco per i suoi risvolti provocatori, a cui sono seguite interpretazioni e deduzioni spesso monodirezionali.
Tutto ruota intorno all’idea che finita (quasi) la guerra in Siria con l’ormai indiscutibile vittoria di Assad, il fronte pro sunnita abbia bisogno di un nuovo focolaio di crisi e insorgenza, così da evitare una stabilizzazione dell’area sotto l’egida del deus ex machina Iran e della sua alleata Mosca.
L’interpretazione è difficile da confutare, ma probabilmente non esaustiva.
Se pensiamo a Trump come lo sceriffo in stile Bush, pronto a scaricare bombe e tensione là dove capiti, il discorso fila: gli Usa cercano di riprendersi dalla brutta figura in Siria e facendo pressione sul mondo arabo e sui palestinesi in particolare, provano a rilanciare il ruolo di una malconcia Arabia Saudita, potenziale mediatore di futuri accordi fra Stato ebraico e Palestina.
L’argomento reggerebbe soprattutto se si continuasse a considerare Trump come un decisore estemporaneo, ostaggio di umori oscillanti, diversi a seconda del tempo e delle stagioni.
In realtà il presidente Usa dispone di una coperta corta e deve gestire con estrema cautela i disequilibri lasciati in eredità dall’era Obama, non più supportati da un mandato presidenziale ad essi coerente.
La speranza è una passione triste che rimuove la realtà del presente, diceva Spinoza. È una trappola: «una cosa infame inventata dai padroni», dice Mario Monicelli nel suo videotestamento spirituale.
È la trappola nella quale è caduta Taranto con la fabbrica, come riconosce uno degli operai intervistati da Marta Vignola nel suo La fabbrica. Memoria e narrazioni nella Taranto (post)industriale (Meltemi, pp. 214, € 16): libro d’inchiesta, ma anche di denuncia del paradigma dello sviluppo e del progresso. Libro che mette al lavoro la memoria, attraverso interviste narrative incrociate con un’accurata conoscenza dei documenti e dei fatti; ma che fa, anche, della memoria oggetto d’indagine, come riconosce Paolo Jedlowski nella presentazione, perché «la formazione di una memoria collettiva è un processo sociale». E anche, perché l’accumulo delle voci dell’inchiesta decostruisce la memoria apparente e consolante, il falso ricordo di un’età dell’oro pre-Italsider nella quale distese di ulivi e fiumi e mari cristallini si sposavano in una sorta di Arcadia.
In realtà, il rapporto di servaggio della città verso la fabbrica, che come il mostruoso Alien la tiene in vita, ma al tempo stesso la sfrutta finché non la uccide, era già precostituito alla fine dell’800, con la costruzione di Arsenale militare e cantieri Tosi.
Dai primissimi anni '90 la Jugoslavia si trasformò in un laboratorio per le ingerenze occidentali, vi vennero sperimentate tutte le tecniche di destabilizzazione che poi abbiamo visto applicate nel resto del mondo per un quarto di secolo. Dapprima ci si adoperò per smembrare lo Stato fomentando l'odio etnico (da cui venne coniato il neologismo "balcanizzazione") poi si scatenarono sanguinose guerre fratricide. Dove la NATO non riuscì ad arrivare con le bombe, arrivò con la guerra non convenzionale, varando il modello di regime change chiamato "rivoluzioni colorate". Gli avvoltoi atlantici hanno divorato il cadavere della Jugoslavia causando danni immani.
I Balcani si trovano in una fase più avanzata rispetto ai paesi che successivamente subirono la stessa ingerenza, anche per questo è d'interesse studiare la loro storia e scrutarne il futuro prossimo. A Roma il 6 e 7 dicembre 2017 si è tenuta una conferenza pubblica organizzata dal NATO Defence College dal titolo "I Balcani orientali ad un bivio". Questa è stata l'occasione per capire quali siano le intenzioni della NATO e cosa potrebbe succedere a breve.
Il dramma dei Balcani sono le tensioni etniche, tuttavia ci sono anche dei problemi consolidati relativi alla criminalità che in particolare si dedica a traffici di droga, sigarette, armi, esseri umani, ecc. In questa fase la NATO individua ulteriori e più pericolose minacce (almeno dal suo punto di vista), rappresentate dall'azione di tre entità: Russia, Cina e paesi arabi.

Per l’assemblea nazionale del 17 dicembre, alcune considerazioni sulla prospettiva futura di Potere al Popolo: la costruzione di un fronte anticapitalista dei comunisti
Il percorso
nato
al Teatro Italia su iniziativa dei compagni di
Je so’ pazzo, ad oggi denominato “Potere
al
popolo” ha sparigliato le carte del litigioso e
confuso mondo della sinistra, incidendo in
particolare sulle vie intraprese dalle organizzazioni ad
impostazione marxista.
I giovani e capaci militanti napoletani, coadiuvati dalle loro “articolazioni territoriali”, tra tutti i Clash city workers di Roma, inserendosi nello spazio lasciato libero dalle macerie del Brancaccio, sono riusciti a creare le condizioni per la nascita di un progetto coerente e ben delineato che, differentemente da molti precedenti tentativi fatti a sinistra, ha legami solidi e ben visibili con la classe lavoratrice e proletaria, con i precari, i disoccupati, gli occupanti, gli sfruttati, i licenziati… e più in generale con chi subisce la crisi generata dal capitale.
Molti lavoratori impegnati come avanguardie nelle diverse vertenze sono stati immediatamente coinvolti: da quelli di Almaviva, a quelli di Sky, agli autisti di Atac, ai metalmeccanici delle acciaierie di Terni, ai lavoratori autoconvocati della scuola e tanti altri ancora…
Cambio di vertice
all’Eurogruppo
Buone notizie dall’organo che raccoglie i Ministri delle finanze dei Paesi dell’Eurozona, e che in pratica decide le loro politiche economiche. Tra un mese circa lascerà l’attuale presidente, quel Jeroen Dijsselbloem che ricorderemo per le sue uscite particolarmente odiose, come l’affermazione per cui “il Sud spende soldi per alcool e donne”. Il politico olandese sempre prono ai diktat tedeschi, tanto da meritarsi l’appellativo di delivery boy: il “ragazzo delle consegne” al servizio dei custodi dell’ortodossia neoliberale utilizzata come strumento per asservire Bruxelles agli interessi di Berlino.
Dijsselbloem sarà sostituito da Mario Centeno, Ministro delle finanze portoghese, tra i principali artefici della politica adottata dal Primo ministro Antonio Costa: leader di un esecutivo socialista sostenuto da comunisti e verdi che ha adottato politiche di sostegno alla crescita attraverso aumenti salariali e pensionistici, riduzione dell’orario di lavoro e investimenti pubblici, in particolare nella sanità. Il tutto nonostante l’Unione europea abbia tentato di tutto per impedire la nascita di un esecutivo che con le sue ricette ha risollevato il Paese e sconfessato così le politiche rigoriste imposte dalla Troika.
Traduzione a cura di Rododak del post di
Panagiotis Grigoriou
sulla sua partecipazione alla sesta edizione del convegno
Euro, mercati, democrazia, postato
originariamente su Greek Crisis
Pioggia e vento. In passato in questo
periodo
credevamo di preparare il Natale. La scorsa settimana, gli
amministratori coloniali della Troika hanno trascorso il loro
solito soggiorno ad Atene,
per ricevere i ministri-istrioni locali all’hotel Hilton. Si
tratta in particolare di sorvegliare la puntuale esecuzione
del programma di
annientamento della loro preda. Il 2018 sarà l’anno in cui il
processo di degrecizzazione dell’economia diventerà più
veloce, passando per il sequestro dei beni dei greci, sia
privati sia pubblici. I ministri di Tsipras sorridono
costantemente alle telecamere, e i
greci li odiano. Sì, è odio, e questo significa l’assoluta
scomparsa dell’atto politico.
Le aste, oggi online, degli immobili sequestrati dalle banche e dal “fisco greco” sono state in grado di riprendere, secondo una richiesta… storica e insistente delIa Troika. I media riferiscono che saranno liquidati più di 18.000 immobili, ed è solo l’inizio. Va notato che coloro che perdono la loro proprietà (e più spesso si tratta di case e appartamenti utilizzati come prima casa) non avranno il diritto di “riscattarli” al 5% del loro valore (attraverso un accordo con le “loro” banche, per esempio), né, come regola generale, potranno farlo gli altri cittadini del paese. Perché gli acquirenti (i soli autorizzati a “ricomprare” questi beni al 5% del loro valore) sono esclusivamente legati ai famosi fondi esteri, o in alcuni casi ai loro partner greci, selezionati attraverso un vaglio molto severo.
A poche ore dalla telefonata fra il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo omologo Usa, Donald Trump, che ha avuto come oggetto, fra le altre cose, la crisi coreana, una delegazione del ministero della Difesa russo è arrivata proprio in Corea del Nord per una riunione con i vertici militari locali. L’incontro, fanno sapere le fonti russe, era stato organizzato già da tempo. Il vertice è il primo incontro della commissione militare congiunta tra Russia e Corea del Nord per l’implementazione dell’accordo concluso fra i rispettivi governi nel 2015 sulla prevenzione delle attività militari pericolose.
La delegazione russa del ministero della Difesa è arrivata a Pyongyang mercoledì con tutti i più alti onori del governo nordcoreano ma anche della stampa nazionale, che, attraverso l’agenzia statale Kcna, ha dato ampio risalto alla visita della delegazione russa. Alla guida della squadra, il contrammiraglio Victor Kalganov, vicedirettore del Centro di comando della difesa nazionale della Russia fotografato all’aeroporto di Pyongyang insieme ad altri tre funzionari del ministero della Difesa. I quattro rimarranno in Corea del Nord fino a sabato, in un clima che da parte russa definiscono “costruttivo”.
Alla veneranda età di 91 anni anche M.Friedman ammette di essersi sbagliato ("The use of quantity of money as a target has not been a success……I'm not sure I would as of today push it as hard as I once did”)
1. L'indipendenza delle banche centrali viene propugnata e imposta negli USA e in tutta €uropa (a cominciare dalla Francia con la famosa "legge Rotschild" del 1973 e, a seguire, in Italia con lo "statuto della moneta", v.pp.3-5, derivante dal divorzio, in contrapposizione al modello costituzionale) per combattere l'inflazione e "l'eccesso di spesa pubblica" (sempre inflattiva e improduttiva, naturalmente).
Si trattava, tra il volgere degli anni '70, col loro duplice shock petrolifero, e gli anni '80, con l'esaltazione della finanziarizzazione (prima degli Stati e di conseguenza dell'intera economia "liberalizzata") di ipostatizzare il monetarismo di Milton Friedman (poi da egli stesso rinnegato) e di imporre la politica monetaria restrittiva e, come tale, credibile, tutta affidata all'esclusiva competenza delle banche centrali "al riparo dal processo elettorale".
"Solo la rottura coi vincoli UE e con le complicità con essi può dare un futuro al paese."
Nella complice e colpevole disattenzione dei palazzi della politica, in questi giorni a Bruxelles si decide del futuro del nostro paese.
L'Italia è il paese UE con il più alto numero assoluto di poveri, quasi 11 milioni. Proprio mentre emerge questo nostro record mostruoso, il governo Gentiloni decide di aderire al nuovo accordo europeo sul Fiscal Compact. C'è un rapporto tra i due fatti?
Certamente, il secondo aggraverà il primo, il record di poveri non ce lo toglierà più nessuno.
In questi dieci anni di crisi i poveri sono triplicati e questo perché il lavoro e la vita stesse delle persone sono stati sacrificati al rigore di bilancio. Rigore feroce, nonostante che le fakenews del regime propagandino l'idea di una spesa pubblica troppo generosa verso i cittadini. In realtà il bilancio pubblico é in attivo da più di venti anni, cioè ogni anno i cittadini versano in tasse allo stato più di quanto ricevano in servizi e prestazioni. Il deficit della spesa pubblica deriva da una sola voce: gli interessi sul debito che si pagano alle banche. Essi ammontano a quasi 80 miliardi all'anno.
Lo stato ne copre circa 50 con i soldi dei cittadini, in particolare lavoratori, pensionati, ceti medi. Il resto sono deficit e manovre, che portano via altre risorse ai servizi pubblici.
L'ultimo rapporto del Reuters Institute, "Digital News Report 2017", pubblicato a giugno, analizza il modo di fruire l'informazione da parte dei cittadini di trentasei Paesi dell'area occidentale: Europa, America del nord e del sud, area del Pacifico. Non è una sorpresa, eppure il primo dato che cattura l'attenzione è il divario generazionale: chi è cresciuto in internet considera la rete la sua principale fonte d'informazione. Nella fascia di età 1824 anni il 64% legge le notizie online, ed è un numero di poco inferiore, il 58%, tra i 25-34 anni; sull'altro lato della scala, per gli over 55 è appena il 28%, che sale al 39% tra i 45-54 anni. All'interno di queste percentuali, il 33% tra i più giovani segue le news attraverso i social network (Facebook non ha rivali, con il suo 47%, subito dopo si posiziona Youtube con il 22% mentre Twitter è al 10%); nelle ultime due fasce di età, appena il 10 e il 7% si informa all'interno dei social. È evidente quindi che la rete e Facebook assumeranno in futuro sempre più importanza nel campo dell'informazione.
Politica e grande stampa denunciano un rischio per la democrazia collegato a questo passaggio di testimone tra i media tradizionali e il web, perché internet e i social sono anche il mezzo virale di diffusione delle fake news. Il rischio di fatto esiste ma non nei termini in cui viene presentato, e non collegato alle false notizie.
Vladimiro Giacché ci parla della raccolta da lui curata degli scritti di Lenin sull'economia della Russia dopo la rivoluzione di Ottobre
Vladimiro
Giacché ha recentemente curato una raccolta di scritti
di Lenin (Economia della rivoluzione,
edito da Il Saggiatore)
aventi come tema centrale i problemi della realizzazione del
sistema economico di transizione verso il
socialismo nella drammatica
realtà della Russia post rivoluzionaria.
La scelta degli articoli e le parti introduttive, sia quella
iniziale che quelle ai
singoli capitoli, rendono un grande servizio, nel centenario dell'Ottobre
russo, agevolando la comprensione delle difficoltà
incontrate lungo un quantomai impervio percorso.
Ne viene fuori chiaramente l'approccio leniniano a quelle
problematiche, all'interno di un quadro completamente
inedito e in cui predominavano
arretratezza economica, guerra civile, accerchiamento da
parte delle maggiori potenze imperialistiche, carestia e via
dicendo. Un approccio fatto di
assoluto antidogmatismo, di capacità di ammettere e
correggere gli errori, di praticare “ritirate strategiche”,
di scendere a patti
con forze avverse, per salvare la rivoluzione dalla
sconfitta.
* * * *
D. Intanto, Vladimiro, ti ringraziamo per la disponibilità a ragionare con noi di una storia che ci fornisce insegnamenti preziosi anche per l'oggi. Ti chiediamo preliminarmente le ragioni che ti hanno indotto a pubblicare questa antologia e se questo lavoro rientra in un programma più esteso di ricerca sull'economia dei paesi socialisti.
R. Da diversi anni desideravo pubblicare un’antologia di scritti economici di Lenin. Per due motivi.
Pubblichiamo
un intervento in forma epistolare di Sebastian Torres, un
compagno argentino che ha già collaborato con noi negli
ultimi anni,
nel quale viene tracciato un primo bilancio del regime
neoliberale del governo Macri, dopo il suo successo nelle
elezioni di medio termine. Il recente
passato argentino è stato caratterizzato da un deciso
protagonismo dei movimenti, che sono riusciti a conquistare
quote evidenti di potere
sociale. Allo stesso tempo la politica kirchnerista, che
cercava di catturarne e indirizzarne la vitalità, si è retta
anche grazie a una
peculiare combinazione di nazionalismo, statalismo e
neo-estrattivismo, che di fatto ha anticipato alcune scelte
del nuovo governo. È
probabilmente giunto il momento di formulare un giudizio
articolato tanto sulle vicende argentine quanto sulle
esperienze latino-americane degli
ultimi anni e sul loro tentativo di inceppare il tempo
complessivo della globalizzazione neoliberista. D’altra
parte, la violenza con cui si
vuole oggi cancellare ogni traccia di quelle esperienze
segnala che esse sono state certamente percepite come una
minaccia intollerabile
all’ordine neoliberale. Per questo occorre chiedersi se la
fine del kirchnerismo non possa segnare anche la fine
dell’incanto peronista e
della sua ipoteca simbolica e pratica sull’immaginazione
politica argentina.
In questi
giorni, il fenomeno bitcoin è su tutte le pagine de
giornali. Il bitcoin è una moneta elettronica o
criptomoneta che
è stata creata nel 2009 da un anonimo inventore, noto con lo
pseudonimo Satoshi Nakamoto. Per convenzione, il termine
Bitcoin, con
l’iniziale maiuscola, si riferisce alla tecnologia e alla
rete, mentre il minuscolo bitcoin si riferisce alla valuta
in sé.
Una delle caratteristiche che hanno reso celebre il bitcoin (il poter essere potenzialmente una moneta alternativa, oltre che complementare) sta nel fatto che essa non viene emessa da una istituzione monetaria in condizione di monopolio di emissione, non fa uso quindi né di un ente centrale né di meccanismi finanziari sofisticati. Il valore è determinato dall’incrocio tra domanda e offerta, in un contesto di cambi flessibili: esso utilizza un database distribuito tra i nodi della rete che tengono traccia delle transazioni, ma sfrutta la crittografia per gestire gli aspetti funzionali, come la generazione di nuova moneta e l’attribuzione della proprietà dei bitcoin.
La rete Bitcoin consente il possesso e il trasferimento anonimo delle monete; i dati necessari a utilizzare i propri bitcoin possono essere salvati su uno o più personal computer o dispositivi elettronici quali smartphone, sotto forma di “portafoglio” digitale, o mantenuti presso terze parti che svolgono funzioni simili a una banca.
La realtà ha disperso molte delle preoccupazioni espresse in un nostro precedente editoriale. Domenica, al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, il morto non è riuscito ad afferrare il vivo. Tenterà ancora di farlo, ma sarà sempre più difficile che abbia successo.
L’assemblea romana che ha finalmente lanciato #poterealpopolo come lista elettorale radicale, antagonista, passionale e razionale, segna infatti una discontinuità netta e, ci auguriamo, irreversibile con “la sinistra”, le sue pratiche di piccolo cabotaggio, la sua vocazione all’irrilevanza sociale. Una vera e propria mutazione genetica, ma questa volta salvifica e rigeneratrice.
E’ bene precisare cosa intendiamo per morto. Abbiamo detto fin da subito che “il morto” è una logica, non una persona o un’organizzazione particolare. E’ certamente morto il “cencelli” mentale che ha regolato fin qui i rapporti interni o tra organizzazioni, sia in vista delle innumerevoli e sempre più disperanti prove elettorali che nella vita politica quotidiana. Una mentalità non liquidabile come maledizione dei soli elettoralisti, ma ben presente anche negli ambiti antagonisti.
La Walt Disney ha dunque acquisito buona parte di 21st Century Fox, la grande multinazionale di proprietà di Rupert Murdoch. Ora a sfidarsi sul piano delle notizie diffuse tramite televisione e internet (con i loro carichi di pubblicità) a livello planetario sono soltanto tre emittenti, tutte statunitensi: Time Warner (CNN), Comcast (NBC) e Walt Disney tramite ABC e Sky. E se andiamo a vedere chi sono gli azionisti dei tre colossi scopriamo che ai primi posti compaiono sempre gli stessi nomi: si tratta di fondi di investimento, insomma il mondo della finanza. La democrazia è da tempo una parola vuota, ora parlare di democrazia è anche ridicolo
Ogni paese dispone di un’autorità antitrust. Ce l’ha l’Italia, ce l’hanno i singoli paesi europei, ce l’ha l’Unione Europea, ce l’hanno gli Stati Uniti. Il loro compito è impedire che sul mercato si strutturino imprese talmente forti da compromettere la concorrenza. Ciò nonostante ogni settore è sempre più dominato da colossi che la fanno da padrona a livello mondiale. Basti citare il caso delle sementi dove tre conglomerati (Bayer-Monsanto, Dow-Dupont, Syngenta-ChemChina) controllano il 65 per cento del mercato mondiale. Nell’ultimo quinquennio le concentrazioni si sono moltiplicate al ritmo di 7.000 all’anno trasformando il mondo in una palla stretta fra i tentacoli di poche centinaia di multinazionali.
[No spoiler]. L'ultimo episodio di Guerre Stellari si trova a fare i conti con la dimensione mitopoietica della saga. Non solo, infatti, l’eroica Resistenza potrebbe non sopravvivere, ma lo stesso ordine dei Jedi - come recita il titolo - rischia di estinguersi una volta per tutte. Come rammentava Foucault, spiegando che il genere umano, fin dai primordi, si radunava attorno a un fuoco a narrare per non essere ingoiato dalla notte: raccontare per non morire
Il mito è una storia che ci aiuta a capire, per analogia, alcuni aspetti misteriosi di noi stessi. Secondo questa concezione, un mito non è una falsità, ma un modo di raggiungere una profonda verità.
Cristopher Vogler
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana… Il nastro invisibile, con le parole di un blu metallizzato, scorre sullo sfondo intergalattico, fino a perdersi nello spazio infinito, suo punto di fuga ed eterno ritorno, per annunciare pregressi e ambientazione del nuovo episodio che lo spettatore si accinge a vedere.
La narratologia definisce questa tecnica in medias res, cioè quando un racconto comincia già nel mezzo delle vicende stesse di cui tratta. La utilizza Omero, nei suoi poemi epici, ed è uno stratagemma tanto antico quanto la storia dell’umanità, almeno quella scritta. Ed è ormai noto che questo sia solo uno dei vari elementi compositivi che George Lucas riprende ispirandosi al mito, meglio: alla mitologia. Come Christopher Vogler – asso della sceneggiatura hollywoodiana – per primo, anche il creatore di Star Wars è un “allievo” e fervido sostenitore delle teorie di Joseph Campbell, lo storico delle religioni convinto che gli ingredienti per il successo di una narrazione risiedano nell’utilizzo di una serie di figure archetipiche, da sempre presenti nell’inconscio collettivo, con implicazioni che possono andare ben oltre la pura finzione o costruzione fantastica.
Dopo anni in cui i media ci hanno dato la croce addosso perché l’Italia non cresceva, vi è stata una breve pausa autocelebrativa in cui ci si è fatto sapere che si era ricominciato a crescere. Ma la celebrazione è durata poco, cioè finché si è potuto attribuire il merito della crescita alle “riforme strutturali”. Adesso che risulta chiaro che c’è stato un aggancio italiano alla crescita europea favorita dalle iniezioni di liquidità della BCE, le trombe mediatiche del “colpanostrismo” hanno ripreso a suonare per lamentare che in Europa la crescita è “robusta”, ma che l’Italia cresce “meno” degli altri partner europei. Ecco dunque una nuova colpa da espiare e nuove palingenesi da indicare, con annessi i soliti salvataggi” e relativi sacrifici.
Nell’ottobre scorso giungeva trionfalmente la notizia che il PIL della Germania, su base trimestrale, segnava una crescita del 2,8%. Tale aumento portava le stime su base annuale nientemeno che al 2,2%. Roba da scialare. Se si va però a vedere meglio, si tratterebbe di un mezzo punto percentuale rispetto alle stime di crescita attribuite all’Italia. È vero che siamo il fanalino di coda, ma il distacco non è poi così marcato.
Solerti economisti da talk-show lamentano che l’Italia è in ritardo perché spreca risorse in sussidi a pioggia.

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Forse sono un po’
svanito/ma il domani non
esiste
e quest’oggi io non voglio essere triste
Gianfranco Manfredi, Ma non è una malattia, 1976
Il volume di Alessio Gagliardi (Il 77 tra storia e memoria, Manifestolibri, Roma, 2017, p. 122, euro 12) torna a ragionare sul ’77, ponendosi alcuni obiettivi precisi. Il primo è fuoriuscire dalla memoria e dalla rievocazione individuale come chiave di lettura di quel periodo. È un approccio, nota l’autore, che oscillando tra silenzio e ostentata rivendicazione “ha steso sul ’77 una coltre di reticenze, omissioni, distorsioni, prese di distanza, o al contrario, strumentalizzazioni celebrative” (p. 10). Il secondo è ridiscutere l’interpretazione oggi diventata senso comune e riproposta con forza dai principali media che hanno ridotto un complesso ed articolato movimento sociale “all’aspetto della violenza, che pure fu uno degli elementi distintivi”, identificando con essa l’intera esperienza del ’77, mentre sono stati lasciati fuori da ogni attenzione “altri elementi non meno rilevanti” (p.11). Il terzo è ripensare l’immagine, trasversalmente diffusa, del ’77 come “sintomo, spia, epitome di un momento di transizione” (p. 12) dell’Italia, dal fordismo al post-fordismo, dalla fabbriche al terziario avanzato, dai grandi partiti di massa e movimenti collettivi ai partiti personali e alla politica della società liquida; insomma il ’77 letto come anticipazione della modernizzazione degli anni Ottanta caratterizzata infine dalla crisi della politica e dal ritorno al privato.
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Costanzo Preve nel testo Storia
della
dialettica delinea attraverso lo sviluppo della
dialettica la tragedia del capitale. La storia della
dialettica è funzionale alla
drammatica comprensione del presente. La furia del
dileguare come affermava Hegel è la vita trascorsa
nell’immediatezza, ovvero
nell’irrazionalità, poiché è razionale solo ciò che è
compreso. Tutto ciò che è reale
è razionale, tutto ciò che è razionale è reale, la ben
nota citazione di Hegel nell’interpretazione di Preve
significa che solo ciò che è pensato diventa razionale, poiché
ciò che è mediato dalla dialettica del pensiero, dal
concetto, diviene reale, in quanto riconfigurato e
risimbolizzato. Il capitalismo globalizzato ha dichiarato
guerra ad ogni forma simbolica in modo
che gli “oggetti – merce” vampirizzino, come affermava Marx, i
suoi sudditi. Il dominio assoluto coincide con l’eliminazione
delle forme simboliche e dialettiche, è un tragico algoritmo
che cospira a far diventare l’umanità serva inconsapevole
dell’unico linguaggio possibile: la riduzione di ogni ente ed
esistente a funzione del sistema. Dalla Buona scuola
allo jus soli,
all’abolizione dell’articolo 18, ogni riforma, in realtà
controriforma, deve essere organica al sistema capitale. Preve
concettualizza essenziale nel suo scritto: la dialettica, il
dialogo socratico, è sostanziale e non solo formale, poiché si
esplica
all’interno di rapporti segnati dall’isonomia (uguaglianza
davanti alla legge) e dall’isegoria (uguale diritto di
parola). La polis
socratica è una società costituita da piccoli produttori,
nella quale la proprietà privata trova il suo limite nella
comunità quale fine dell’azione dei singoli, ovvero il singolo
ha senso solo all’interno della comunità per cui la
proprietà assume connotazioni sociali mai privatistiche.
Al bar, in treno o a una cena tra
amici,
capita sempre più spesso che all’improvviso qualcuno chieda:
“Hai visto quanto sto guadagnando con i Bitcoin?”. È
lì che la conversazione deraglia verso terreni inesplorati e
la maggior parte degli interlocutori rimane in silenzio.
Indomito, il primo
rincalza sostenendo di aver guadagnato dodicimila euro in sei
mesi. “Li ho comprati a 2000 e venduti a 14.000!”, afferma con
soddisfazione. Segue un altro momento di silenzio e stupore,
poi la richiesta di chiarimenti diventa irresistibile.
Al cenno “spiegami, cosa è questa cosa?”, si scatena un’infinita dissertazione, più o meno accurata, sul mondo Bitcoin. Poche notizie attraggono l’attenzione più dei guadagni facili e veloci. Ma prima di avventurarsi nel Far West delle valute digitali, con tutti i rischi annessi, è meglio capire bene cosa sono e come funzionano. Se all’inizio non è tutto perfettamente chiaro non c’è da preoccuparsi: anche gli esperti discutono ancora animatamente tra di loro su molti aspetti. Di seguito tre informazioni di cui non può più fare a meno chiunque voglia continuare ad andare al bar, prendere il treno o cenare con gli amici.
Si rafforza ogni giorno la sensazione che la struttura portante del capitale multinazionale, finanziario e non, stia cambiando cavallo e dunque stia scaricando Matteo Renzi e la sua banda di baldi arrivisti.
La randellata arrivata ieri dal ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, è di quelle che fanno davvero male. Stava deponendo davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta, voluta proprio dal Pd renziano per “provare” le colpe della Banca d’Italia nei numerosi scandali bancari degli ultimi anni. L’accusa, com’è noto, è quella di “mancata vigilanza” o addirittura di manipolazione del sistema tramite “consigli” sulle fusioni da effettuare tra istituti bancari.
Ma al centro sono finiti quasi subito gli incontri di Maria Elena Boschi con numerosi esponenti di primo piano del “sistema”, in cui la ex ministra delle “riforme costituzionali” e attuale sottosegretaria alla presidenza del consiglio in qualche modo perorava la causa di Banca Etruria, il cui vicepresidente era al tempo suo padre. Un clamoroso caso di conflitto di interessi, come minimo, che la “signorina Meb” prova da tempo a confutare alzando cortine fumogene (“normali incontri istituzionali”) o smentite presto smentite da altre testimonianze.
Fin qui, comunque, il sistema di protezione della Boschi aveva in qualche misura funzionato. La falla più grossa era stata aperta dal presidente della Consob, Giuseppe Vegas, che aveva ammesso di aver incontrato la Boschi e di aver parlato di Banca Etruria, sia pure in termini generici.
Ricevo dall’amico Claudio Zanetti, economista, queste riflessioni che sottopongo alla vostra attenzione. Torneremo spesso sul tema [a.g.]
Il bitcoin – rigorosamente con la b minuscola perché se fosse scritto con la B maiuscola significa che stiamo parlando della tecnologica o della rete – nasce nel 2009 su invenzione di un certo Satoshi Nakatomo – pseudonimo – che lanciò una sua idea che presentò in internet l’anno prima.
Già questo è un punto oscuro. Infatti quando lanciò questa cosa, inizialmente per circa 2 anni, cominciò a rispondere a varie e-mail che gli arrivavano, finché un po’ alla volta cercò di eclissarsi e dal 2011 nessuno ha più notizia di questa persona.
Dato che questa invenzione è geniale per due motivi – che fra poco andrò a spiegare – secondo voi, una persona inventa una cosa del genere e poi sparisce? Quando Fleming inventò la penicillina, o Einstein scoprì la teoria della relatività speciale e generale non sono spariti nel nulla per cui….
La genialità di questa invenzione consiste sul fatto che se io giro 1 bitcoin a qualcuno, a me sparisce.
Il cristianesimo è l’interiorizzazione dell’uomo. Questa frase rappresenta l’interpretazione più breve e completa del cristianesimo. Ne comprende infatti la definizione, l’esaltazione e la critica. Sant’Agostino, imbevuto di cultura classica, traghetta l’essere di Parmenide nel cristianesimo. Anche se si ispira ai neoplatonici, diventa così il Parmenide del cristianesimo, non il Platone, come si dice. La scoperta dell’Essere uno, continuo, totale e necessario (“non può non essere”), che non è stato e non sarà ma è, è una fede, è la fede e la religione di Parmenide. Il suo Della natura è l’espressione entusiastica di un’anima religiosa che ha trovato l’onto-teologia. Nel suo poema il saggio è “trasportato da cavalle focose, intatto attraverso ogni cosa, sulla via famosa della divinità”. Agostino ha prolungato, completato e personalizzato l’Essere astratto e impersonale di Parmenide in un Dio padre provvidente, amorevole e misericordioso – col diavolo per nemico. Ha così trasformato l’esteriorità pagana irta di difficoltà e problematicità, minacciata di inquietudine, dispersione e consunzione, in una interiorità personalizzata, quella dell’uomo che cerca la verità e Dio in strati sempre più intimi e profondi, giacché, “Per quanto cammini, i confini dell’anima non li troverai mai. Così profondo è il suo fondamento”, come aveva detto Eraclito.
Ha parlato anche il lider Massimo, chiarendo il concetto che andiamo (certo non da soli) dicendo da tempo: «Rischio Austria anche da noi, pronti a intese per il governo». Ecco come il fascismo slitta di significato e si trasforma nel più performante strumento di legittimazione dell’euroliberismo. L’alternativa alle forze ordoliberali di tutta Europa, ci dicono, è il ritorno del fascismo. Ritorno di cui, ovviamente, non c’è traccia nelle forme in cui viene descritto (non c’è alcuna “ri-nazionalizzazione delle masse” alle porte, e le politiche xenofobe presentate come cifra politica del fascismo in realtà vengono applicate dai democratici di tutta Europa – Minniti docet); manca il fascismo reale, sussunto completamente nelle logiche europeiste, ma il fascismo immaginario serve come riconoscimento retroattivo dell’assenza di alternative. Oltre la coalizione neoliberale (“democratici” e “conservatori” di tutto il continente), occhio, c’è Hitler; per quanto possono starvi sulla palle Renzi o Berlusconi, meglio loro che Ciano e Farinacci. Va da sé che se l’alternativa fosse davvero tra Casapound e il Partito Democratico, qualche dubbio potrebbe pure venirci sul frontismo come risposta tattica alla minaccia fascista. Ma questa alternativa, nella realtà, non è all’ordine del giorno. Il primo è il partito egemone in Europa – nelle sue versioni “di destra” e “di sinistra”; il secondo racimola lo zerovirgola nelle elezioni generali così come nella società.
Con il Jobs Act, in nome di una presunta guerra alla precarietà, privi della fondamentale tutela dell’articolo 18, siamo diventati tutti precari. Nonostante questo aziende di ogni dimensione continuano ad assumere con contratti a termine, che hanno ormai superato la soglia record del 14% del totale dei contratti di lavoro in essere. Insieme alla fregatura per chi di noi lavora si è aggiunta poi la fregatura per chi un lavoro lo cerca: dal primo gennaio del 2017, sparito l’assegno di mobilità, è rimasta solo la Naspi. Calcolata al 75% dell’imponibile degli ultimi quattro anni di lavoro (e non parametrizzata sul contratto di categoria, com’era per la cassa integrazione straordinaria e la mobilità) viene ridotta del 3% ogni mese a partire dal quarto, per mettere ulteriore pressione a chi cerca un posto nel far west del mercato del lavoro italiano. Di colpo, ma all’interno di un processo che parte dal pacchetto Treu e arriva alla riforma Fornero, sono spariti quindi alcuni dei diritti collettivi conquistati dai lavoratori del nostro Paese negli anni passati.
In cambio non ci è stato dato altro che la speranza individuale di un mercato sempre più liberalizzato, in cui la facilità di licenziare dovrebbe tradursi in facilità di assumere. Al momento, in realtà, i nuovi posti di lavoro, sempre più precari e malpagati, ci sono costati miliardi di euro di sgravi fiscali regalati alle imprese, mentre il tasso di occupazione ha continuano a crescere meno della media europea.
Il
neomercantilismo
è una modalità di riproduzione capitalistica basata
sull’obiettivo di generare crescita economica attraverso
l’aumento delle
esportazioni e la riduzione delle importazioni[1].
E’ questa la linea di
politica economica dominante oggi soprattutto (ma non solo)
nell’Eurozona e che si traduce mediaticamente nell’ossessione
della
competitività. L’Unione europea, nei Trattati più recenti che
ne hanno configurato l’architettura attuale, è
formalmente concepita come economia sociale di mercato estremamente
competitiva. I due strumenti fondamentali ipotizzati (e
attuati) per
raggiungere questo obiettivo, per tutti i Paesi
membri, consistono nel consolidamento fiscale (ovvero la
generazione di avanzi primari,
mediante riduzioni della spesa pubblica) e nelle c.d. riforme
strutturali, nella forma della liberalizzazione dei mercati
dei beni e dei servizi e
deregolamentazione del mercato del lavoro (per generare
moderazione salariale) e della detassazione degli utili
d’impresa. Ciò nella
convinzione che consentire alle imprese di contenere i costi
di produzione sia il presupposto essenziale per consentire
loro di vendere
all’estero a prezzi ridotti. In più, le misure di moderazione
salariale, combinate con il consolidamento fiscale, sono
pensate per
ridurre le importazioni.
Pubblichiamo questa ricca e articolata analisi di uno dei nostri redattori, Riccardo Achilli, pur non condividendone la proposta, convinti che sia comunque un contributo molto importante su un tema fondamentale quale quello della possibile uscita dall’euro e dalla UE
A
pochissimi mesi dalle imminenti elezioni politiche, in una
fase di sostanziale rimozione della riflessione sull’Europa,
dopo le
tornate elettorali nei principali Paesi europei che hanno, sia
pur per il momento, fugato i timori delle élite circa la
possibile vittoria dei
populismi anti-euro, corre l’esigenza di riprendere il filo
del ragionamento in proposito. Siamo al momento dello
scioglimento del nodo
fondamentale: è possibile, adesso, nelle condizioni createsi,
collocare al centro della proposta politica l’uscita
dall’euro?
Io sono stato, per molti motivi, un sostenitore molto acceso dell’uscita dall’euro, sia pure dentro compatibilità di accordo politico e di utilizzo del tema in termini negoziali, per strappare concessioni significative in termini di direzione delle politiche economiche dell’euro-area. Credo, però, che prima o poi la realtà si imponga, per così dire, da sola. Non guardarla in faccia è un crimine, per chi voglia fare politica, o anche solo ragionare politicamente. Ci sono motivi politici che rendono impraticabile la strada dell’uscita dall’euro come proposta programmatica da offrire all’elettorato. Motivi politici interni ed esterni.
Il saggio sostiene che, nonostante le significative trasformazioni successive, un momento ordoliberale agisca all’interno del programma neoliberale. L’ordoliberalismo stabilisce una specifica antropologia politica fondata sulla centralità dell’agire economico e su una temporalità a-rivoluzionaria che valoriz- za la continuità normativa della tradizione. Anche contro le specifiche configurazioni che lo Stato può assumere, in particolare di quella democratica, esso punta inoltre sulla costante riattivazione di un politico inteso come decisione fondamentale in favore dell’economico
«Die Gefahren des Chaos sah er
nicht»1.
1. Ordine e sistema
Il programma neoliberale si costruisce attorno al concetto di ordine. La frequenza del termine e la sua densità concettuale sono tali che dall’ordoliberalismo tedesco fino al compiuto neoliberalismo di Friedrich A. von Hayek è cosa ovvia affermarne la rilevanza2. Il programma neoliberale nasce dalla percezione di uno scacco epocale che va ben oltre la reazione alla crisi economica degli anni Trenta, che viene derubricata a conseguenza comprensibile delle normali dinamiche economiche3, mentre viene messo in primo piano lo stallo consolidato del progetto settecentesco di egemonia della libertà individuale. Questa diagnosi complessiva si accompagna in Germania alla dichiarazione di fallimento del «laboratorio borghese»4 che aveva dato forma alla politica tedesca nel XIX e nei primi decenni del XX secolo. Quel laboratorio, nel quale la scienza tedesca agiva da fattore costituzionale, viene ora abbandonato, perché non viene più considerato in grado di produrre mediazioni politiche e sociali all’altezza delle tensioni che attraversano la società. L’«eredità fallimentare dell’epoca borghese» deve essere rifiutata perché il suo patrimonio è stato accumulato sotto il segno dello storicismo, che ha prodotto un «fatalismo» politico che porta a compromettersi con ogni emergenza sociale, riconoscendole comunque una legittimità storica.
Dunque, non ci avevo visto male, un mese e mezzo fa, quando scrissi che la sparata di Renzi contro Bankitalia era solo guerriglia preventiva nei confronti della commissione Banche dove stava covando l’attacco su Banca Etruria e che su questo si sarebbe giocato un bel pezzo di campagna elettorale. Stiamo assistendo all’affondamento del Pd e questo è il colpo di grazia.
Colpisce la velocità con cui tanti stanno abbandonando la barca che affonda e, a leggere Repubblica e l’Huffinghton in questi giorni, sembra di legge “Il Fatto”: nessuna clemenza, Renzi e Boschi sono gentilmente invitati a farsi da parte per salvare il salvabile della ditta Pd.
Il punto è che per il Pd non c’è più niente da fare. Possono anche pensare ad un veloce rimpiazzo con Gentiloni, in attesa di trovare un nuovo segretario, ma non bisogna essere frate indovino per prevedere la débacle elettorale del Pd.
Dicono che al Pd sono rassegnati ad un 25% (stessa quota di 5 anni fa) mentre temono un 20%: non hanno capito niente, se dovessero prendere il 20 dovrebbero andare scalzi alla Madonna di Lourdes per ringraziare.
Vedremo i sondaggi dei prossimi giorni, ma già da adesso non è difficile immaginare la via crucis che si prospetta davanti al Pd. Intanto per un po’ tutti continueranno a picchiare il tamburo sulla questione Etruria, ma subito dopo si aprirà la tragedia delle candidature.
L’affollata assemblea tenutasi oggi al teatro Ambra Iovinelli di Roma, ha “accettato la sfida” del processo che porterà alla lista Potere al Popolo nelle prossime elezioni politiche. Per vedere concretamente questa opzione sul campo occorrerà raccogliere le firme necessarie in tutti collegi elettorali, e bisognerà farlo rapidamente. Eppure, a giudicare dalla spinta e dal clima che si è respirato in una freddissima giornata di dicembre, anche questa tappa verrà affrontata con slancio, lo stesso che è stato imposto un mese fa dai compagni del centro Je So Pazzo di Napoli.
In qualche modo la natura e il ritmo del processo di Potere al Popolo, anche in questo, hanno imposto la dovuta discontinuità rispetto a certe estenuate liturgie della “sinistra”. Un dato leggibile dalle quasi settanta assemblee locali che si sono svolte tra la prima assemblea (18 novembre) e quella di oggi. Il dibattito provocato da questa proposta ha attraversato tutte le realtà che l’hanno guardata con interesse già da come si era presentata. La Piattaforma Eurostop ha visto una sua vivace assemblea nazionale discutere e poi decidere a maggioranza che l’esperimento andava tentato. Ma anche dentro i partiti comunisti “storici” la discussione e la decisione risulta non essere stata affatto semplice.
Matteo Renzi è un modello obsoleto. Infatti non riceve più aggiornamenti.
Questa settimana s’è notato particolarmente nel suo logorroico e soporifero comizio a Piazza Pulita, l’ennesima anacronistica ripetizione del solito copione ormai completamente logoro, dalla litania sugli 80 euro panacea di tutti i mali, alla cazzata del milione di posti di lavoro che conta anche chi ha lavorato un’ora in un mese, alla rituale difesa della sua imbarazzante ministra-immagine, e della ripugnante controriforma anticostituzionale che portava il suo nome, alla mitizzazione di Obama, corresponsabile della carneficina siriana e libica.
Come Norma Desmond in “Viale del Tramonto”, Renzi continua a recitare un film che non ci sarà mai, per un pubblico che non c’è più.
Anche quando è in diretta sembra una replica vecchia di anni, persino più vecchia della sua stessa età.
Un fantasma smagnetizzato degli anni ’80, un Claudio Martelli in cromakey.
La cosa più patetica del suo vaniloquio di Piazza Pulita è stata la scusa accampata per il mancato ritiro della politica che aveva solennemente promesso: “M’hanno detto no, tu non hai diritto di decidere per i fatti tuoi di andare a fare i soldi in America, e lasciarci qui”.
Testuale.
#PotereAlPopolo. L’assemblea di Roma, a un mese dal primo appuntamento, lancia la lista alternativa al Pd e suoi derivati
Potere al Popolo, stavolta erano anche di più. Più degli 800 che erano arrivati al Teatro Italia ventinove giorni fa. Più di mille, stavolta, a gremire l’Ambra Jovinelli dopo aver prodotto un’ottantina di assemblee locali le cui immagini, ingrandite, scorrono sul maxischermo alle spalle della presidenza. Sugli spalti anche gli striscioni multilingue del corteo del giorno prima.
Potere al popolo, nel frattempo, è diventato il nome della lista. C’è un simbolo, ora, essenziale, con le sue mezzelune rosse e quella stella sghemba e rossa come se fosse scritta su un muro, di corsa, durante una giornata di lotta. Programma e manifesto politico stanno già circolando in rete. Il programma è credibile, radicale, radicalmente riformista ma riesce a far venire in mente parole che sembravano desuete e vengono pronunciate da molti oratori: rivoluzione, passione e anche popolo nella sua accezione di mondo degli umili, degli esclusi, degli sfruttati, senza l’ambiguità del grillismo e di ogni populismo. Per i candidati, verrà detto alla fine, saranno gli ambiti territoriali a compilare le liste prima del rush finale della raccolta di firme. Intanto, anche per squarciare la congiura del silenzio della stampa per bene, la lista si manifesterà già il 26 dicembre volantinando davanti ai centri commerciali aperti.
Michele Raitano interviene nel dibattito sull'incremento automatico dell'età pensionabile al crescere dell'aspettativa di vita. Dopo aver sostenuto che un'età pensionabile uguale per tutti non è ottimale sia dal punto di vista dell'efficienza sia da quello dell'equità, Raitano sottolinea, però, che per definire norme differenziate al riguardo occorrono studi approfonditi e non decisioni estemporanee condizionate dalle risorse di bilancio immediatamente disponibili e prese in prossimità dell’approvazione della Legge di Stabilità
Se c’è una professione che in Italia sembra non conoscere crisi è quella di “esperto di pensioni”, come conferma, tra le altre cose, la continua attenzione al tema dedicata da stampa e talk show. Con cadenza praticamente annuale, esattamente da 25 anni – la prima “grande e definitiva riforma” fu realizzata dal Governo Amato nel 1992 – il tema delle pensioni è al centro del dibattito di politica economica e ogni volta che una riforma viene introdotta la si definisce come “ultima ed epocale”.
Così avvenne quando a dicembre 2011, durante i giorni dell’emergenza economico-finanziaria, venne introdotta la “riforma Fornero” che, con durezza e mancanza di gradualità del tutto inedite nella storia delle continue riforme italiane, stabilì fra le altre cose, un repentino incremento dell’età pensionabile, riducendo in misura consistente le possibilità di ritiri anticipati.

Dalla rivista D-M-D' n°11
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“In altri termini: ciò deriva dal fatto che le forze produttive generate dal modo di produzione capitalista moderno, al pari del sistema di ripartizione di beni che esso ha creato, sono entrati in contraddizione flagrante con questo stesso modo di produzione, e ciò a un grado tale che diviene necessario un rovesciamento del modo di produzione e di ripartizione eliminando tutte le differenze di classe, se non si vuole vedere perire tutta la società.” [Engels, Anti-Duhring]
Nel 2099, i centri di produzione mondiali contavano solo poche unità umane, le quali dietro a spessi vetri e davanti a grandi monitor controllavano sterminate distese di robot superintelligenti. Questi non erano i robot impacciati del 2016, quando occorrevano algoritmi da milioni di linee di codice per simulare un piccolo movimento del braccio; ora i robot erano in grado di auto-apprendere e di trasformare in azione, all’istante, un comando che arrivava dal loro centro di controllo, ed erano in grado di impartire lo stesso ordine anche ai colleghi di lavoro.
All’interno di queste “cittadelle produttive” erano pochi gli uomini che avevano ancora un lavoro.
Le elezioni e la "sindrome da stanchezza democratica". Una critica a David Van Reybrouck dalla rivista Spazio filosofico
1. Introduzione
Rileggendo oggi Solar Lottery di Philip K. Dick, è quasi scontato riconoscere come già in quel primo romanzo fossero presenti molti dei motivi che avrebbero in seguito contrassegnato la produzione dello scrittore americano. Risulta in effetti evidente sin dalle prime pagine come la sua idea della science-fiction tendesse a fuoriuscire dal perimetro di una letteratura di genere destinata allora prevalentemente a un pubblico di giovani (e giovanissimi) lettori, e come la sua raffigurazione di un remoto futuro fosse in realtà una critica della società americana degli anni Cinquanta. Ma più di sessant’anni dopo la sua pubblicazione, si può forse intravedere in Solar Lottery anche una sorprendente prefigurazione delle società dell’inizio del XXI secolo e dei processi che investono le democrazie occidentali. In quel vecchio romanzo Dick immaginava infatti che le società occidentali avessero adottato il sistema della lotteria non solo per distribuire le merci ma anche per assegnare il potere politico. I governanti non erano dunque scelti dagli elettori e le procedure di voto erano state sostituite dall’estrazione a sorte di un Quizmaster, al quale era affidato un potere sostanzialmente assoluto1. E proprio per questo, se certo la distopia di Dick prefigurava la nascita dell’“azzardo di massa”2, lo scenario allestito nel romanzo può essere letto anche come l’anticipazione – certo estrema – di un ripensamento del ruolo che il momento della scelta elettorale ricopre nelle democrazie contemporanee.
Algoritmi come cervelli umani: promesse e illusioni del deep learning, la tecnica che ha rivoluzionato il campo
Come l’inverno dello scontento di
cui
parla Riccardo III nell’omonimo dramma shakespeariano, anche
l’inverno dell’intelligenza artificiale si è oramai
trasformato
in una gloriosa estate. È stato un inverno freddo e lungo.
Magari non trent’anni, come la guerra delle Due Rose a cui
allude Riccardo, ma
a chi lavora in quel settore sembrava comunque non finire mai.
La metafora non ce la siamo inventata, nell’ambiente si dice
proprio così:
“AI winter”, il periodo in cui gli investimenti
sull’intelligenza artificiale erano ai minimi storici, il
pubblico si era stufato di
promesse strombazzate e non mantenute, e molti tra gli stessi
ricercatori dubitavano che il loro lavoro andasse mai da
qualche parte. Per la
precisione di inverni ce ne sono stati due, uno alla fine
degli anni Settanta e un altro, il più rigido, tra la fine
degli Ottanta e la prima
metà dei Novanta. Ma le temperature sono rimaste bassine anche
dopo, se è vero che ancora nel 2012 il fisico David Deutsch
scriveva, nei
primi paragrafi di un suo saggio pubblicato su Aeon,
che “il
tentativo di ottenere un’intelligenza artificiale generale
non ha fatto alcun progresso durante sei decenni di
esistenza”.
Sabato scorso, mentre alcuni di noi erano a Roma al centro Congressi Frentani all'incontro nazionale per la "Lista del Popolo" promosso da Giulietto Chiesa e Ingroia, si svolgeva, non distante, l'assemblea della sinistra-radicale-radicale. Obbiettivo: scendere in campo in vista delle elezioni con una lista che si chiamerà Potere al Popolo.
Un'assemblea che contrariamente a quella di Ingroia e Chiesa ha avuto un indubbio successo. Ampia la partecipazione (teatro stracolmo), grande entusiasmo, grazie anzitutto alla forte presenza giovanile. La vera "mossa del cavallo", quella dei napoletani di Je So' Pazzo, ha sortito dunque l'effetto sperato, quello di galvanizzare e raggruppare i cascami della sinistra antagonista che considera il Pd un nemico e che rifiuta di andare a rimorchio del nuovo partito dalemiano-vendoliano di Liberi e Uguali. Che questo successo preceda quello elettorale (superare la soglia di sbarramento del 3% per mandare in Parlamento una decina di deputati) ne dubitiamo.
A scanso di equivoci voglio fare i miei auguri a questo "esercito di sognatori": nel desolante panorama politico italiano, nell'assenza oramai quasi certa di una lista del sovranismo costituzionale, meglio un Parlamento con una loro pattuglia che senza.
Allora, mi chiederete: "sei forse per votare Potere al Popolo?". No, a meno di fatti nuovi, non li voterò. Il principio tattico di sostenere il "male minore" vale se questo "male minore", essendo una forza di massa, serve almeno a sventare la vittoria del nemico e la stabilizzazione del suo regime. Con ogni evidenza, dato che parliamo di una esigua minoranza politica, non è questo il caso. In questi contesti vale semmai, se non il principio del "bene maggiore", quello del "bene minore", e Potere al Popolo non lo è, e non lo è per alcune sostanziali ragioni.
Alcune di queste ho già provato a spiegarle giorni addietro decifrando la visione sociale e politica dei napoletani di Je So' Pazzo. Il manifesto di Potere al Popolo, per quanto concordato con i diversi moribondi della sinistra radicale saliti sul carro partenopeo, mentre conferma i ragazzi napoletani come i veri artefici dell'impresa, giustifica quanto ho già scritto.
Questo grosso volume contiene gli atti di un seminario che si è tenuto Centro di Ricerche Interdisciplinari di Scienza e di Umanistica dell’Università Autonoma del Messico a partire dal 2009. I partecipanti non sono soltanto messicani o latinoamericani, ma comprendono anche europei e statunitensi, e addirittura due italiani: Marcello Musto e il sottoscritto. Raccoglie, quindi, un panorama ampio di studiosi marxisti o prossimi al marxismo, che rivela quanto sia vivace il dibattito marxista, soprattutto in America latina più che altrove.
Naturalmente in poche righe è impossibile parlare di tutti i saggi, quindi mi soffermerò sulle tematiche più interessanti. Ampio e documentato, ma soprattutto polemico è il saggio di Musto sui Manoscritti economico-filosofici del 1844. Musto ricostruisce la fortuna del testo dopo la pubblicazione postuma e si sofferma sul parallelismo tra la noncuranza degli studiosi del Diamat (cfr. p. 36) e l’affermazione di Althusser, secondo cui «la giovinezza di Marx non appartiene al marxismo» (riportata a p. 49). I primi si autogiustificavano, perché «l’ideologia stalinista, che aveva fatto dello stachanovismo una delle sue bandiere, provocò una profonda ostilità al concetto di alienazione, senza dubbio la principale novità teorica contenuta nei Manoscritti economico-filosofici del 1844» (p. 56). Il secondo, invece, conosceva molto poco l’opera di Marx – Musto ne dà diverse prove nel corso del suo lungo saggio – e i Manoscritti gli apparvero un’opera eccessivamente etico-umanistica.
Totalmente in contrario con il rifiuto althusseriano della presenza di un’etica umanistica in Marx, si dichiara uno dei due curatori del volume, José Gandarilla: «L’argomento del denaro, d’altra parte, non fa riferimento soltanto alla deduzione della teoria del denaro dalla teoria del valore, né a una possibile insufficienza della teorizzazione del valore […] secondo il mio giudizio, c’è qui, da parte di Marx, un’incursione in termini di ragione pratica, in termini di pratica politica, in termini di etica politica» (p. 115). Quindi, secondo Gandarilla in Marx si trova un’etica proprio nelle sue teorie, che secondo Althusser, sarebbero le più scientifiche. Non c’è dubbio che il valore, la sua espressione reale nel denaro, sono indicazioni che divengono etiche.
Un paio di anni fa mi capitò di leggere uno studio prodotto dall’università di Oxford e dalla società Deloitte in cui si analizzavano i mutamenti in corso nel mercato del lavoro inglese e quelli nei prossimi due decenni a causa della inarrestabile crescita dell’automazione applicata ai sistemi produttivi. Stavo lavorando a una relazione su questo tema e le stime elaborate da due “istituzioni” così prestigiose (una delle principali università mondiali e una società privata certamente addentro all’analisi economica applicata alla massimizzazione dei profitti) giungevano davvero a proposito.
Il report inglese non lasciava margini di ottimismo su que che sarebbe accaduto alle mansioni o professioni più legate alla fatica fisica, ai gesti ripetitivi, insomma al “lavoro alla catena”. E lo stesso si poteva dire di tutte quelle mansioni una volta chiamate “di concetto” che si muovono esattamente nello stesso modo del lavoro manuale, ma applicandosi alle pratiche burocratiche, amministrative, contabili, ecc.
Nulla di davvero nuovo, visto che da oltre tre decenni l’informatica sta eliminando figure un tempo molto numerose (dattilografe, addetti alla contabilità o alle buste paga, impiegati pubblici, ecc), fornendo programmi che possono fare le stesse operazioni “mentali” in una frazione del tempo necessario agli umani e pressoché senza errori.
Casapound gode di un invidiabile status mediatico-elettorale: è l’unico movimento politico a cui viene svolta (gratis) la campagna elettorale. Domenica è andata in onda l’ennesima trasmissione-propaganda, un lungo spot elettorale in prima serata e sulla più “antifascista” delle reti televisive: Rai 3. Protagonista, Casapound. Senza contraddittorio, senza confronto, senza attinenze con la realtà, senza vergogna. Esempio, fra i molti e forse ancor più sfacciato dei precedenti, della natura strumentale dell’antifascismo liberale, che da un lato permette e organizza il “pericolo fascista”, e dall’altra grida al nuovo fascismo come assicurazione elettorale.
I meccanismi narrativi utilizzati sono ormai smascherati. In primo luogo, il contesto: la periferia degradata di Tiburtino III. Poco importa che i fascisti, nel quartiere, non esistano, siano elemento esterno, cacciati dalla popolazione del quartiere e non più rientrati se non in piccoli gruppi provenienti, per l’appunto, da altri quartieri. Il prode Iannacone, senz’ombra di dubbio di provata fede antifascista, cammina per il quartiere, e lo fa accompagnato proprio da loro: dai fascisti. A quale titolo, non si capisce, visto che i due accompagnatori (Antonini&Di Stefano), non risiedono al Tiburtino III. L’importante non è allora farsi garantire da “gente del luogo”, ma presentare una realtà degradata oltre l’inverosimile, e proporre Casapound come unico soggetto politico “presente nel quartiere”.
Come sorge il potere? Dall’autoassoggettamento di molti o dalla prevaricazione di pochi?
La seconda ristampa del libro “L’anarchia selvaggia” di Pierre Clastres (Elèuthera, Milano 2017), un antropologo francese scomparso prematuramente nel 1977, ci consente di tornare a riflettere su due problemi centrali: il sorgere del potere e la distinzione / differenza tra società centralizzate e società acefale (nel linguaggio dell’autore “divise” e “indivise”).
Si tratta ovviamente di due problemi capitali, che non hanno esclusivamente una portata teorica, ma che costituiscono anche le problematiche all’interno delle quali si dispiegano le nostre vite quotidiane, scontrandosi con gli ostacoli che il potere e la divisione in dominanti e dominati frappongono alla nostra legittima realizzazione e alla nostra ragionevole richiesta di riconoscimento da parte degli altri.
Affrontando questi problemi Clastres, che fu forse l’allievo preferito di Claude Lévi-Strauss, cui tuttavia non risparmia critiche, talvolta assume il tono nietzschiano di colui che scopre qualcosa a cui nessuno prima ha mai pensato, quando invece purtroppo per il nostro amor proprio spesso ci limitiamo a ripetere qualcosa che qualcuno sia pure da noi dimenticato ha già detto. Ma questo è un po’ un difetto di tutti quelli che si sono richiamati alla cosiddetta French Theory, ossia il poststrutturalismo, che nella sua foga distruttiva ha accantonato la misura e la prudenza.
Con un lavoro lungo, di anni, un passo dopo l’altro, il neoliberismo ha ridisegnato tutta la società, ha investito tutti gli aspetti della vita, da quelli del mondo del lavoro a quelli ludici e personali, dalla sfera della sessualità a quella sociale, dai rapporti con gli oppressi e tra gli oppressi.
Questo attacco di cui si è fatta carico in prima linea la socialdemocrazia riformista è stato portato avanti con una determinazione, una pervicacia e una perfidia da lasciare gli oppressi e le oppresse attoniti, indifesi, spiazzati.
Tanto attoniti da non ragionare con la loro testa, tanto spiazzati da non seguire l’istinto, tanto indifesi da non recepire il ribaltamento totale che i termini e il lessico di sinistra avevano assunto nella sostanza. Hanno seguito i pifferai del PD e della triplice sindacale, hanno dato spazio alla “meritocrazia”, alla gerarchia, al “rendimento”, hanno accettato il controllo, le limitazioni del diritto di sciopero, i tagli, le privatizzazioni …si sono prestati alla guerra fra poveri, stigmatizzando il collega che non rendeva abbastanza, che non era ligio all’azienda, l’impiegata che portava i bambini a scuola o faceva la spesa nell’orario di lavoro, come se questo non fosse lavoro….
Credere a un’ indagine “affidata” all’ Ipsos, ma condotta a quattro mani secondi i criteri e le direttive stabilite dall’Ispi (Istituto per gli studi di politica americana… ah no, pardon, internazionale) e da Rainews è come credere ai messaggi della Madonna di Medjugorie, anzi peggio perché almeno i veggenti balcanici sono più furbi e sono meno servili verso la Beata Vergine che non i nostri sondaggiatori verso il sempre venerato San Iuesei, protettore dei burattini. Così viene fuori che gli italiani non sono più tanto preccupati per la crisi economica, che del resto come Rai News spiega quotidianamente è già molto dietro le spalle, ma per i missili nord coreani che si situano al secondo posto dopo il terrorismo.
Si potrebbe ironizzare a lungo su questi risultati e sulla cognizione degli italiani in merito alla Corea del Nord che probabilmente nemmeno sanno dove si trovi e che a quanto pare rimane un oggetto misterioso, colpito dalla congiura del silenzio spezzata solo da qualche esoterico cachinno. Ma non c’è alcun dubbio che questa scala di valori rappresenti esattamente quella stessa che viene fornita e inoculata dalla Rai e dalla stampa maistream. Persino sulla figura di Trump c’è chiarissimo questo calco delle pseudoidelogie di giornata: il presidente. essendo niente meno che a capo dell’amministrazione americana, verrebbe percepito come il leader più influente, più dello stesso Obama e al tempo stesso come fattore di instabilità. Insomma la battaglia tra Casa Bianca e deep state che si riverbera tale e quale nelle parole tra noi leggere.
Lo so, ora mi prenderete per matto. Ma io vi dico che uno stato sovrano, certo nel pieno rispetto dell'art.21 della Costituzione — «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure»— dovrebbe assumere il pieno controllo della rete.
Non dico che devono diventare di proprietà pubblica tutti i server, dico che lo dovrebbero diventare tutti i diversi provider che rifiutano di attenersi all'art. 41 della Carta:
«L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Qui sta il punto con internet: che grandi monopolisti a stelle e strisce (anzitutto Facebook, Google, Twitter e Amazon per altri versi) svolgono la loro attività violando la Costituzione in quanto contrastano "con l'utilità sociale e recano danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Aggiungo: alla salute ed alle capacità cognitive ed intellettuali dei cittadini.
Sui danni letali, psicologi, biologici e antropologici che questi mostri americani di internet stanno causando alle nuove generazioni, vi consiglio di leggere con molta attenzione quanto scriveva ieri in un editoriale sul Corriere della sera* l'insospettabile Massimo Gaggi.
La Piattaforma Eurostop ha partecipato attivamente all’affollata assemblea tenutasi domenica 17 dicembre al teatro Ambra Iovinelli di Roma, accettando così la sfida del processo che porterà alla lista Potere al Popolo nelle prossime elezioni politiche.
Per vedere concretamente questa opzione sul campo occorrerà adesso raccogliere le firme necessarie in tutti collegi elettorali, e bisognerà farlo rapidamente. Eppure, a giudicare dalla spinta e dal clima che si è respirato in una freddissima giornata di dicembre, anche questa tappa verrà affrontata con slancio, lo stesso che è stato imposto un mese fa dai compagni del centro Je So Pazzo di Napoli.
In qualche modo la natura e il ritmo impressi al processo di Potere al Popolo, anche in questo, hanno imposto la dovuta discontinuità rispetto a certe estenuate liturgie della “sinistra”. Un dato leggibile dalle quasi settanta assemblee locali che si sono svolte tra la prima assemblea (18 novembre) e quella di domenica scorsa.
Il dibattito provocato da questa proposta ha attraversato tutte le realtà che l’hanno guardata con interesse già da come si era presentata. Come noto la Piattaforma Eurostop ha visto una sua vivace assemblea nazionale discutere e poi decidere a maggioranza che l’esperimento andava tentato. Ma anche dentro i partiti comunisti “storici” o molti collettivi territoriali la discussione e la decisione risulta non essere stata affatto semplice.
Sorprendentemente, nel suo emozionato discorso di circostanza, al momento dell’investitura a leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso ha tessuto l’elogio del termine radicale.
E’ dunque una buona occasione per tornare a riflettere su questo aggettivo.
L’utilità immediata nasce dalla possibilità di chiarire una volta per tutte (si fa per dire) che radicale non significa estremista, settario, massimalista, come fa la grande stampa, interessata a mettere alla gogna quanti pensano alla politica come agente modificatore dei rapporti sociali. Nel lessico della sinistra esso ha ben più alto significato e più nobile origine. L’etimo storico risale al giovane Marx per il quale «essere radicale significa afferrare le cose alla radice».
DUNQUE SINONIMO di radicale non è estremista, ma profondo. Politica radicale è quella che guarda alle nascoste gerarchie di reddito e di potere su cui poggia l’intero edificio sociale. Essa non si limita alla gestione dell’esistente. Quest’ultima è la politica degradata ad amministrazione che ha svuotato la sinistra europea della sua tradizione e funzione storica. E’ il tran tran di gran parte delle nostre forze politiche, fiancheggiate dai grandi media, creatori di un sopramondo spettacolare in cui la finzione mercantile occulta abissi di iniquità reale.
CERTO NON MI SFUGGE che specie nei gruppi giovanili, nei movimenti, spesso alberga l’ingenua pretesa di trasformare in azione immediata l’ analisi radicale, di saltare la mediazione politica, la forma concertata di mutamento della realtà che tiene conto dei rapporti di forza in campo.

Si
riprenda
l’intervista rilasciata a Giampiero Mughini per Mondoperaio
del novembre 1977, in cui Lucio Colletti riconosce, con
accenti seccamente
autocritici, di aver visto per lungo tempo “il modello di
libertà in Stato e rivoluzione di Lenin, nella Comune di
Parigi,
nell’autogoverno dei produttori, nella democrazia diretta
roussoiana” (Tra marxismo e no, pp. 143-52).
Purtroppo, conclude,
gli esperimenti degli Stati del socialismo reale, avendo
dato vita a dittature, hanno dimostrato che quel modello,
cioè l’autogoverno dei
produttori e la democrazia diretta, è impraticabile.
Quest’autocritica sul credo politico è scandita
insieme alla
riaffermazione dei principi del materialismo, che per
Colletti coincidono con quelli delle scienze naturali,
mentre rispetto alla conoscenza del mondo
sociale ha oscillato tra una visione positivista – essa deve
adottare metodi scientifici (peraltro mai da lui definiti)
‒, e un velato
scetticismo sostenendo che rimane una questione irrisolta.
1. Contraddizioni dialettiche e opposizioni reali
Di un giudizio Colletti è rimasto sempre assolutamente convinto, che la ‘dialettica’ – elaborata da Hegel – fosse antiscientifica e si risolvesse in un’escatologia ‒ la storia del mondo è la “realizzazione dello spirito”, si legge nelle pagini finali del quarto volume delle Lezioni sulla filosofia della storia. Nel corso delle sue ricerche Colletti si accorse, tanto da restarne stordito, di non aver capito che Il Capitale di Marx, per lui esempio di indagine scientifica, fosse intriso di dialettica a cominciare dalle famose pagine del primo volume dedicate all’analisi del feticismo delle merci.
La Cina
“globale” ha prestato sempre più attenzione alla sua immagine,
alla diffusione e alla promozione della propria cultura, ben
consapevole del fatto che sul “soft power” i passi da compiere
sono ancora molti. Ma anche sotto l’aspetto del cosiddetto
“potere morbido” occorre ormai sganciarsi da una definizione
consolidata – quella che notoriamente fa capo allo studioso
statunitense Joseph Nye - perché rischia di “universalizzare”
un caso di studio particolare – gli Stati Uniti appunto –
per elevarlo a metro di giudizio globale in base al quale la
Cina è sistematicamente condannata come Paese privo di
particolare fascino e per
questo impossibilitata a mettere realmente in discussione
l’egemonia dell’american way of life. Mai infatti come in
questi tempi di
crescente impatto cinese sugli affari internazionali, si è
ricorsi a questo tipo di ragionamento, quasi si volesse
riaffermare quotidianamente
– possiamo chiamarla “ridotta del soft power” - ad una
centralità che nei fatti è sempre più in
discussione.
Il fatto è che – ed in parte già lo abbiamo visto – che quando si parla di “Beijing consensus” e di capacità attrattiva esercitata dalla Cina popolare il riferimento va fatto ai successi ottenuti sul piano economico e sociale che hanno portato un ex Paese coloniale alla condizione di potenza economica nell’epoca della globalizzazione.
A partire da un’analisi del rapporto tra diritto, territorio e il cosiddetto “spazio globale”, il saggio esamina e discute la crisi “spaziale” dell’età dei diritti, a fronte di una specificità urbana dello spazio europeo e di una persistenza degli Stati come attori politici principali, in rapporto funzionale o di tensione con i poteri indiretti del capitalismo finanziario. In particolare, l’autore mette in questione l’esistenza di un’alternativa credibile agli universali politici concreti. Contro uno spazio che rischia di caratterizzarsi come postdemocratico e decostituzionalizzato, l’autore propone un’analisi tesa a mostrare la necessità di recuperare il precipitato politico del costituzionalismo sociale e democratico rilanciandone il portato emancipativo e l’attualità, consapevole del rischio di muoversi tra residui (novecenteschi), persistenze concettuali (moderne) e illusioni (globaliste)
1.
Diritto senza territorio?
In questi ultimi decenni, segnati dal cosiddetto «globalismo giuridico»1, abbiamo assistito a un progressivo divorzio tra diritto e territorio2 e all’affermazione di uno spazio giuridico deterritorializzato, egemonizzato dai flussi finanziari. Depositatasi la polvere della retorica, della giustizia globale e della religione dei diritti umani quali fondamenti di un nuovo ordine mondiale, è rimasto ben poco. Mentre campeggiano i poteri economici transnazionali, che non avendo problemi di legittimazione politica, possono permettersi di ignorare gli effetti sui territori - cioè sui concreti legami sociali -dell’estrazione sistematica di valore in basso e della sua sussunzione in alto, nello spazio gassoso dei “flussi”.
Abbiamo accolto con entusiasmo la proposta fatta dai compagni di Je so pazzo perché pensiamo che sia un’occasione inaspettata ma importante per creare connessioni tra le esperienze di lotta che animano questo paese. Siamo assolutamente consapevoli che il passaggio elettorale non rappresenta il fine ma solo un mezzo per allargare le maglie attualmente molto strette della rappresentanza, politica aldilà che elettorale, di un blocco sociale disgregato; un mezzo per dare protagonismo alle lotte che fanno vivere questo paese e che sempre più si trovano ad essere marginalizzate o criminalizzate. Un’occasione quindi importante in una fase in cui la repressione preventiva, presente da elementi interni al Jobs Act fino all’operato di Minniti, mira a spazzare via ogni ipotesi antagonista. A differenza di altri percorsi, quello di Potere al Popolo non è un tentativo di normalizzare la conflittualità presente in ognuna delle rivendicazioni oggi necessarie per invertire il corso degli eventi, ma è piuttosto l’intelligenza tattica di saper cogliere un pertugio apertosi proprio laddove il nostro nemico di classe dopo quasi dieci anni di crisi diventa ogni giorno più debole, ovvero sul piano dell’egemonia culturale.
Come si riproduce “Mafia capitale”? Attraverso la privatizzazione dell’economia cittadina. Un processo ininterrotto, che non ha bisogno di sparatorie e minacce, di Buzzi e dei Carminati. In questi giorni Ama – l’azienda municipalizzata che si occupa della raccolta e smaltimento rifiuti – ha proceduto a esternalizzare l’ennesimo servizio di sua competenza: la raccolta del fogliame. Un bando monstre, di due anni e per il valore di 13 milioni di euro. Una situazione paradossale ma ormai strutturale: l’Ama, l’azienda pubblica che dovrebbe tenere le strade pulite, affida ai privati la pulizia delle strade. Producendo così due meccanismi perversi: da una parte accumulando debito pubblico, e sviluppando di conseguenza quella retorica sul debito utilizzata come grimaldello dei processi di privatizzazione; dall’altra favorendo la competizione al ribasso tra aziende, una competizione “oliata” da quegli stessi meccanismi indagati nelle inchieste sul «mondo di mezzo»: finanziamenti privati ai partiti, piccoli favori, cortesie istituzionali, eccetera.
L’esternalizzazione è dettata dalla carenza di organico: nonostante gli strepiti liberisti, nella pubblica amministrazione romana manca personale, così come manca in tutte le aziende di pubblica utilità. Pur di non assumerli, il Comune di Roma verserà nelle tasche di un’azienda privata 13 milioni di euro.
La scorsa settimana, gli economisti di sinistra del Regno Unito hanno tenuto un seminario sullo stato dell'economia ufficiale, così come viene insegnata nelle università. L'incontro è partito con l'affissione alla porta della London School of Economics, di un poster con 33 tesi che criticano l'economia ufficiale. Questo gesto spettacolare vorrebbe ricordarci c'è stato il cinquecentesimo anniversario di quando Martin Lutero inchiodò le sue 95 tesi alla Castle Church, di Wittenberg e provocò l'inizio della riforma protestante contro «l'unica vera religione» del cattolicesimo.
Gli economisti si proponevano di dirci che l'economia ufficiale è come era il cattolicesimo, e bisogna protestare contro di essa come aveva fatto allora Lutero, nel 1517. Come hanno scritto, «L'economia è a pezzi. Dal cambiamento climatico alla disuguaglianza, l'economia ufficiale (neoclassica) non ha fornito soluzioni ai problemi con cui ci misuriamo ed essa è tuttavia ancora dominante nel governo, nell'accademia ed in altre istituzioni economiche. E tempo di una nuova economia.»
Degli economisti faceva parte Ha-Joon Chang, dell'University of Cambridge, ed autore di "23 Things They Don’t Tell You About Capitalism and Economics: The User’s Guide.", Egli ha dichiarato che «l'economia neoclassica gioca lo stesso ruolo che nell'Europa medievale giocava la teologia cattolica - un sistema di pensiero che sostiene che le cose sono quel che sono perché così devono essere.»
Ci vorrebbe davvero un cambiamento della Costituzione per mettere in chiaro che questa Repubblica è fondata sulla corruzione, altro che sul lavoro. Mentre gli italiani o almeno il 90 per cento di essi è costretto a stringere la cinghia per obbedire a demenziali diktat europei cui nessuno ha pensato di opporsi, mentre la razza padrona, i clan che si spartiscono il potere tra politica, economia e finanza raschiano il fondo del barile e pretendono ancora più precarietà, ancora meno scuola e sanità, ancora più tagli alle pensioni e ancora più tasse, ci si permette di buttare soldi dalla finestra. Una cosa è certa questa operazione di smaltimento di civiltà voluta, ordinata e imposta dai poteri neoliberisti non avviene gratuitamente: i gestori del disastro e della svendita pretendono la percentuale per continuare a sopravvivere.
Questo lo sappiamo dalle molte inchieste che esplodono un po’ dovunque come geyser anche se poi, tra ritardi voluti e leggi di cortesia per i ladri, risultano tutti riverginati, ma lo sappiamo anche dalle molte assurdità che vengono inferte a un Paese che ha accettato regole di bilancio e di spesa corrente che lo costringono a rinnegare giorno dopo giorno le conquiste del lavoro.
Aldo Barba e Massimo Pivetti,i “La scomparsa della Sinistra in Europa” (Imprimatur, 2016)
Dal
Collettivo Aristoteles, un gruppo di giovani
torinesi che si occupano di tematiche economiche e
politiche, abbiamo ricevuto
questa intervista, da loro realizzata, agli autori del testo
“La
scomparsa della sinistra in
Europa”, e diamo corso volentieri alla
pubblicazione. Gli autori denunciano il suicidio politico
della sinistra, che aderendo al
progetto mondialista di libera circolazione di merci,
persone e capitali, con ciò stesso si è posta
nell’impossibilità di promuovere le politiche economiche
espansive di piena occupazione a tutela del lavoro, a causa
del
potente “vincolo esterno” della bilancia dei pagamenti. Così
facendo, la sinistra è venuta meno alla sua funzione e di
conseguenza sta scomparendo dal panorama politico. Gli
autori indicano una via e affermano con coraggio che un
paese potrebbe “andare anche da
solo” nella direzione delle politiche espansive, a patto di
attuare un opportuno regime di controlli delle transazioni
con l’estero, e
sottolineano anche l’effetto domino che si produrrebbe verso
gli altri partner, capace di innescare un circolo virtuoso
di coordinamento
espansivo. L’analisi prosegue poi con riguardo al problema
della immigrazione, considerato anch’esso centrale nella
perdita di consensi
della sinistra.
Nel lessico politico della sinistra
populismo è
parola bollata negativamente, su ciò concordano le due
principali correnti intellettuali e di pensiero politico
dell’Otto e del
Novecento, quella liberale e quella marxista. Anche in un
contesto profondamente diverso dal nostro, quale quello
americano, le cose non cambiano: i
liberali e i progressisti individuano nel populismo il loro
peggiore nemico; rimando in proposito al libro fondamentale,
anche se discutibile, di
Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Populista è
stato considerato il fascismo, così come il nazismo, nonché il
comunismo sovietico, ovviamente il peronismo, le dittature
sudamericane, ma anche Bossi e Berlusconi sono etichettati
come populisti (io stesso ho
curato una raccolta di saggi intitolata Dal leghismo al
neopopulismo).
Secondo Lasch sono le ideologie del progresso che individuano nel populismo l’avversario da sconfiggere; la posta in gioco riguarderebbe la modernizzazione, con il libero dispiegarsi della lotta di classe, la differenziazione del popolo in classi e lo sviluppo di una produzione ideologica e anche letteraria, capace di rappresentare il pieno avvento della modernità, la sconfitta dei provincialismi, dei regionalismi, di ogni forma di localismo. Forse qualcuno ricorderà il libro di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo (1965).
La storia non raccontata di una Libia divenuta un pericolo per il processo di globalizzazione e che doveva essere ricondotta all’ordine
La Libia
è
oramai una mera espressione geografica, per usare
un’espressione del principe Von Metternich. Dall’intervento
occidentale contro
Muhammar Gheddafi, il Paese – le regioni del Sahel con cui
confina – è infatti sprofondata nel caos, con un nugolo di
fazioni
autofinanziate mediante quella che si configura in tutta
evidenza come una moderna tratta degli schiavi e armate di
fucili, lanciarazzi, pistole, ecc.
sottratti dagli arsenali della Jamahiriya ormai distrutta che
si contendono il territorio. Una situazione da cui le grandi
imprese sperano di trarre
ottimi profitti, attraverso l’applicazione di disegni
egemonici studiati a tavolino quali quello spiegato
al «Corriere della
Sera» da Paolo Scaroni, l’ex amministratore delegato dell’Eni
riciclatosi come vice-presidente della Banca Rothschild (la
stessa in
cui si è formato Emmanuel Macron). A detta di Scaroni, «occorre
finirla con la finzione della Libia, Paese inventato»
dal
colonialismo italiano. È necessario «favorire la nascita
di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze
straniere che lo
aiutino a stare in piedi», cosa che spingerebbe
inevitabilmente Cirenaica e Fezzan a dotarsi di propri governi
regionali con lo scopo di
amministrare in autonomia le proprie ricchezze.
Scrisse Flaiano che "In ogni minoranza intelligente c'è una maggioranza di imbecilli". Mai aforisma fu più azzeccato per descrivere il desolante panorama politico italiano alle porte di importanti elezioni politiche.
Cosa spicca anzitutto in questo paesaggio? Spicca l'assenza di una lista del sovranismo costituzionale, dei patrioti democratici. Per dirla in parole semplici: non avremo una lista No Euro che ponga al centro la riconquista piena della sovranità nazionale. Tutti i tentativi, a partire da quello più coerente della C.L.N. di ITALIA RIBELLE E SOVRANA, sono falliti.
Questo fallimento sta dentro un primo paradosso: quello per cui l'Italia è il Paese in cui traballa l'egemonia di chi sta sopra, di chi comanda, ed è quello in cui si registra la più alta percentuale di cittadini che considerano l'uscita dalla gabbia eurista un'opzione preferibile al rimanerci.
Dal che sorge la domanda: come mai, malgrado esista un bacino potenzialmente molto ampio di elettori no-euro, non avremo una lista che lo incontri? Diversi sono i fattori, ne segnalo due macroscopici.
Il primo è la conclamata impotenza dei gruppi e delle associazioni del campo sovranista a fare fronte comune. Insipienza, infantilismo, imperizia politica, settarismi incrociati. La lista delle deficienze soggettive dei sovranisti potrebbe essere ancora più estesa. "In ogni minoranza intelligente c'è una maggioranza di imbecilli".
Il barometro dei rapporti fra Salvini e Berlusconi torna a segnare brutto tempo: Salvini torna a scalciare, mentre il Cavaliere (ex) si mostra sereno. Nel Pd e negli ambienti M5s si spera. L’unico che ha ragione è l’uomo di Arcore, perché Salvini, salvo suicidarsi, non può fare altro che allearsi con lui.
Ragioniamo sulle conseguenze di una rottura del centro destra in due tronconi più o meno equivalenti: Lega-Fratelli d’Italia (sempre che la Meloni segua Salvini) fra il 8 ed il 20% e Forza Italia intorno al 15.16% (cui però potrebbero affiancarsi liste di supporto di centro come cui stanno lavorando Quagliariello e Tosi o Sgarbi e Tremonti, per andare verso il 20%). In primo luogo, questo interromperebbe il trend positivo dell’alleanza che oggi può sperare nel fatidico 40%, escludendo il centro destra dalla corsa al governo.
Quella che oggi è la prima coalizione nei sondaggi, produrrebbe un terzo ed un quarto concorrente. Di conseguenza, questo sarebbe un regalo grande come una casa al M5s (che sarebbe incontestatamente il partito di maggioranza relativa e, con ogni probabilità, il primo anche confrontando le coalizioni) ed al Pd (che tornerebbe competitivo, per lo meno per un secondo posto con i suoi alleati, sottraendosi alla maledizione del terzo posto). Magari mollando Renzi e puntando su Gentiloni potrebbe registrare una imprevista resurrezione politica. Dunque un regalo secco agli avversari ed in cambio di cosa?
Come spesso ci accade di dire, avremmo fatto volentieri a meno di occuparci di certe cose maleodoranti. C’è sempre la sensazione che ti si appiccichino addosso, anche se ovviamente sei solo un osservatore (molto) esterno.
Ma le conseguenze della deposizione di Federico Ghizzoni, ex amministratore delegato di Unicredit, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, sono un fatto politico. Dunque dobbiamo prenderne tutti atto.
La vicenda è nota, l’hanno ripetuta tute le televisioni e i siti per una giornata intera: Ghizzoni ha riferito che Maria Elena Boschi, allora ministro “per le riforme costituzionali”, era andata da lui a chiedergli se la sua banca potesse assorbire Banca Etruria. Ovvero l’istituto vice-presieduto dal padre del ministro. “Mi chiese di valutare l’acquisizione della banca di Arezzo”.
E’ stata così confermata la “rivelazione scandalosa” contenuta nel libro di Ferruccio De Bortoli, ex direttore – fra l’altro – del Corriere della Sera e de IlSole24Ore. Circostanza prima negata dalla “signorina Meb” e ora ammessa sotto la rassicurante qualifica di “normale interesse all’economia del proprio territorio”.
Già questo, in una normale democrazia parlamentare, sarebbe sufficiente per pretendere – non “chiedere” – le dimissioni della signorina Meb da qualsiasi carica pubblica.
Dall’assemblea nazionale di Potere al Popolo nasce ufficialmente la candidatura alle elezioni politiche 2018
Roma, 17 dicembre. Ѐ un giorno importante per il Popolo, per quella parte del popolo che ritiene che questa volta è diverso, sarà diverso. Siamo all’Ambra Jovinelli, teatro storico della Capitale (primi anni del Novecento), per l’assemblea nazionale di Potere al Popolo e siamo in tanti, oltre mille. Si arriva alla spicciolata e l’aria che tira è frizzante, positiva. Aleggia il buonumore allo Jovinelli e una palese voglia di cambiamento. Ecco questo si respira. Sintomi di un desiderio di cambiamento forte, impegnativo, che sta trasformando il sogno napoletano, in realtà nazionale. Questa volta il cambiamento potrebbe davvero realizzarsi.
Ora sta ai militanti dei Movimenti, delle Associazioni, dei Partiti che hanno aderito alla sfida, ma anche alle singole persone fuori dal circuito della politica da anni, dare fiducia ai folli promotori, abbattendo le remore che vengono da chi vuole sminuire questo progetto, dagli eterni indecisi, dai troppo prudenti, da chi, inconsapevolmente, opta per una certa fittizia sinistra.
Ѐ necessario demolire preconcetti sulle opinioni populiste che viaggiano sui network.
Inevitabile che in queste settimane molti economisti e analisti abbiano cercato di capire e mettere in prospettiva il destino, per così dire, dei bitcoin. E ci mancherebbe! Dall’inizio dell’anno corrente questa moneta elettronica è passata da un valore di 1’000 dollari a oltre 10’000 dollari, e nessuno sa veramente quando finirà questo “viaggio epico” a più zeri. Sembra di sognare, eppure la storia della finanza è punteggiata da febbri misteriose, a partire da quella per i tulipani d’inizio Seicento, in Olanda, quando il prezzo di un bulbo raggiunse quello di una casa signorile. Almeno su questo sembra ci sia un accordo generale: i bitcoin sono un attivo speculativo. Altro che denaro, per quanto elettronico, per quanto scritturale, come per il 90 percento del denaro in circolazione! Gli mancano alcuni dei requisiti fondamentali per essere una vera moneta, quale quello di essere una riserva di valore, un mezzo di scambio e addirittura un’unità di conto.
Non solo non si può acquistare un granché con i bitcoin, ma è la velocità di variazione del suo valore che impedisce ai bitcoin di assomigliare anche lontanamente ad una normale valuta.

Ho sempre per le mani molta carta
stampata;
ma ho sempre studiato
pochi libri, per conservarmi sano il
cervello.
Ed è così che negli ultimi anni mi sono
assimilati i vostri e gli scritti di Marx.
(Lettera a Engels del 13 giugno 1894)
I clowns politici
hanno sempre di che
divertirci,
in questo paese dove fiorisce la commedia da
piangere e la tragedia da ridere.
(Lettera a Engels del 5
novembre 1894)
1. Un carteggio intenso in un periodo storico cruciale
«La Germania ebbe Marx ed Engels, e il primo Kautsky; la Polonia, Rosa Luxemburg; la Russia, Plekhanov e Lenin; l’Italia, Labriola, che (quando da noi c’era Sorel!) era in corrispondenza da pari a pari con Engels, poi Gramsci». Così Louis Althusser, in quella raccolta di saggi, Pour Marx, che fra anni ’60 e anni ’70 dètte un contributo importante alla ripresa del dibattito marxista, registrava, denunciando nel contempo «l’assenza di una reale cultura teorica nella storia del movimento operaio francese»2 , l’esistenza, in Italia, di una grande tradizione teorica del marxismo, che era stata perfino in grado di dialogare, attraverso Labriola, con uno dei due fondatori del marxismo stesso, cioè con Engels.
Chiunque
parli di
“crisi”, oggi, rischia di essere liquidato come un parolaio,
data la banalizzazione che il termine ha subito attraverso il
suo uso
continuo e superficiale. Ma c’è un senso preciso in cui noi
oggi stiamo effettivamente affrontando una crisi. Se la
caratterizziamo con
precisione e identifichiamo le sue dinamiche distintive,
possiamo determinare meglio cos’è necessario per risolverla.
Su queste basi,
inoltre, potremmo intravedere un sentiero che ci guidi oltre
l’attuale impasse, attraverso il riallineamento politico e
verso la trasformazione
della società.
A prima vista, l’attuale crisi sembra essere politica. La sua espressione più spettacolare è proprio qui, negli Stati Uniti: Donald Trump – la sua elezione, la sua presidenza e i conflitti che la circondano. Ma non mancano i casi analoghi altrove: il disastro della Brexit nel Regno Unito; la crisi di legittimità dell’Unione Europea e la disintegrazione dei partiti socialdemocratici e di centro-destra che l’hanno sostenuta; le crescenti fortune dei partiti razzisti e anti-immigrati in tutta l’Europa settentrionale e centro-orientale; e l’esplosione di forze autoritarie, alcune qualificabili come proto-fasciste, in America Latina, in Asia e nel Pacifico. La nostra crisi politica, se è questo che è, non è solo americana, ma globale.
1. Secondo lo
schema geopolitico proposto dal geografo Alford
John Mackinder in una celebre conferenza londinese davanti
alla Royal Geographical Society la sera del 25 gennaio del
1904, l’insieme delle
terre euroasiatiche (che costituiscono l’“isola del mondo”
perché fisicamente compatte dall’Atlantico al Pacifico e dal
Mar Glaciale Artico al deserto del Sahara) non è
gerarchicamente uniforme, essendocene una porzione che
rappresenta a suo dire il perno
geografico della storia (come recita il sottotitolo della
conferenza) ed il cui controllo politico potrebbe assicurare
addirittura il governo del
mondo. Su questa porzione di spazio euroasiatico, che
Mackinder chiama Heartland ossia il “cuore della terra”, si
incardinerebbero infatti
le variabili di spazio geografico e di tempo storico che
definiscono la nuova “scienza” della geopolitica. E siccome il
“cuore della
terra” è rappresentato dalla grande estensione delle steppe
euroasiatiche che vanno dal fiume Don alla penisola di
Kamciakta, esso
finisce per coincidere di fatto con la Russia, così che (primo
teorema geopolitico) chi la governa potrebbe essere in grado
(il condizionale
è d’obbligo) d’imporre la propria volontà al resto del
pianeta.
Alain
Touraine,
il decano dei sociologi francesi a cui si deve l’espressione
“società postindustriale”, ha dedicato i suoi ultimi libri
alla
disgregazione della società industriale e ai conflitti che
caratterizzano quanto viene definita “epoca postsociale”:
l’epoca
non più governata dalla dimensione socio economica dei
problemi, bensì da quella etico individuale. Ne “La fine delle
società” ha analizzato il capitalismo finanziario e il suo
ruolo nella crisi delle principali istituzioni politiche e
sociali: dallo
Stato alla famiglia, passando per i sindacati e i diversi
sistemi di protezione e controllo sociale (La fin des
sociétés,
2013). Con “Noi soggetti umani” ha sottolineato la necessità
di riscoprire i diritti umani per contrastare il capitalismo
finanziario attraverso un rigurgito etico individuale (Nous,
sujets humains, 2015). Infine, ne “Il nuovo secolo
politico” ha
riflettuto sul modo di affrontare i grandi temi che
monopolizzano il dibattito pubblico: dalla questione nazionale
a quella religiosa, passando per la
lotta al terrorismo e la sfida ambientale (Le nouveau
siècle politique, 2016).
Il secondo volume, un libro a cui l’autore afferma di sentirsi “più vicino che a tutti gli altri”, è da poco uscito in traduzione italiana (Noi, soggetti umani, trad. M.M. Matteri, Il Saggiatore, 2017, pp. 308). Offre l’occasione per una sintesi del pensiero di Touraine sul modo di reagire ai guasti prodotti dalla globalizzazione, e per valutarlo alla luce delle dinamiche che caratterizzano la costruzione europea.
C’è un tema trascurato nel dibattito
pubblico, ma che
nel contesto attuale può assumere una centralità
difficilmente eludibile. Si tratta della riduzione
dell’orario di
lavoro. Nel quadro attuale segnato dai cambiamenti nel
mercato del lavoro conseguenti all’avanzamento tecnologico e
alla globalizzazione
(descritti anche in
un articolo
precedente), gli autori propongono in questo
articolo una diversa lettura della tematica che riflette un
punto di vista teorico che prende
spunto dalle riflessioni dell’economista Thorstein Veblen,
il cui pensiero è stato già affrontato nell’articolo L’economica
tra istituzione ed
evoluzionismo
L’economia neoclassica
insegnata nei primi anni universitari presenta il tempo libero
come uno dei due
beni che determinano l’utilità individuale, sulla cui base
calcolare l’offerta di lavoro operaia. Gli individui
raggiungono
maggiori livelli di utilità quanto più è alta la loro
disponibilità di consumo e di tempo libero.
Tenendo conto della domanda di beni e della tecnologia utilizzata, ovvero il numero di operai necessari a ottenere la produzione richiesta dal mercato, il datore di lavoro richiede agli operai una quantità di lavoro che aumenta con il diminuire del livello salariale offerto dall’impresa. I lavoratori scelgono se accettare o meno la proposta dell’imprenditore sulla base della loro curva di offerta di lavoro, la quale aumenta con il crescere del salario offerto dall’impresa.
L’impostazione neoclassica prevede che un mercato del lavoro completamente libero stabilisca un salario in grado di equilibrare domanda e offerta di lavoro eliminando la disoccupazione involontaria. Quest’ultima può essere quindi generata solo dalla presenza di fattori che creano barriere al libero mercato. Tale teoria ha ricevuto numerose critiche perché non tiene conto né delle caratteristiche comportamentali analizzate, tra gli altri, dagli economisti keynesiani, né della contrattazione considerata dagli economisti classici come David Ricardo.
In Libia l’esercito italiano
è presente con forze speciali, addestra i militari legati ad
una delle parti in conflitto, invia 300 parà della Folgore a
protezione
dell’ospedale militare allestito per assistere i feriti della
milizia di Misurata, mantiene la copertura aerea attraverso la
portaerei Garibaldi
e i caccia dell'Aeronautica schierati nelle basi di Trapani,
Gioia del Colle e Sigonella oltre ai droni dell'Aeronautica
militare, monitora i confini
sud dove intende impiantare una propria base militare, è
presente con le sue navi dal 2015 per presidiare le
installazioni ENI al largo di
Mellitah.
Senza clamore, cioè senza che ne sia data informazione, la Brigata Sassari (precedentemente e attualmente operativa in Afghanistan e in Iraq) è ora sbarcata in Libia con il 3° Bersaglieri(1).
L’Italia ha codiretto, insieme a Francia ed Etiopia, la missione in appoggio alle forze del G5 Sahel( 2) (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania and Niger) che ha iniziato le operazioni “anti-terrorismo” alla fine di ottobre 2017(3) ed è finanziata dagli Stati Uniti con 60 milioni di dollari(4), ha firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger (accordo del quale, come riporta Analisi Difesa il 27 settembre, non sono stati resi noti i dettagli)(5).
Si
riprenda
l’intervista rilasciata a Giampiero Mughini per Mondoperaio
del novembre 1977, in cui Lucio Colletti riconosce, con
accenti seccamente
autocritici, di aver visto per lungo tempo “il modello di
libertà in Stato e rivoluzione di Lenin, nella Comune di
Parigi,
nell’autogoverno dei produttori, nella democrazia diretta
roussoiana” (Tra marxismo e no, pp. 143-52).
Purtroppo, conclude,
gli esperimenti degli Stati del socialismo reale, avendo
dato vita a dittature, hanno dimostrato che quel modello,
cioè l’autogoverno dei
produttori e la democrazia diretta, è impraticabile.
Quest’autocritica sul credo politico è scandita
insieme alla
riaffermazione dei principi del materialismo, che per
Colletti coincidono con quelli delle scienze naturali,
mentre rispetto alla conoscenza del mondo
sociale ha oscillato tra una visione positivista – essa deve
adottare metodi scientifici (peraltro mai da lui definiti)
‒, e un velato
scetticismo sostenendo che rimane una questione irrisolta.
1. Contraddizioni dialettiche e opposizioni reali
Di un giudizio Colletti è rimasto sempre assolutamente convinto, che la ‘dialettica’ – elaborata da Hegel – fosse antiscientifica e si risolvesse in un’escatologia ‒ la storia del mondo è la “realizzazione dello spirito”, si legge nelle pagini finali del quarto volume delle Lezioni sulla filosofia della storia. Nel corso delle sue ricerche Colletti si accorse, tanto da restarne stordito, di non aver capito che Il Capitale di Marx, per lui esempio di indagine scientifica, fosse intriso di dialettica a cominciare dalle famose pagine del primo volume dedicate all’analisi del feticismo delle merci.
La Cina
“globale” ha prestato sempre più attenzione alla sua immagine,
alla diffusione e alla promozione della propria cultura, ben
consapevole del fatto che sul “soft power” i passi da compiere
sono ancora molti. Ma anche sotto l’aspetto del cosiddetto
“potere morbido” occorre ormai sganciarsi da una definizione
consolidata – quella che notoriamente fa capo allo studioso
statunitense Joseph Nye - perché rischia di “universalizzare”
un caso di studio particolare – gli Stati Uniti appunto –
per elevarlo a metro di giudizio globale in base al quale la
Cina è sistematicamente condannata come Paese privo di
particolare fascino e per
questo impossibilitata a mettere realmente in discussione
l’egemonia dell’american way of life. Mai infatti come in
questi tempi di
crescente impatto cinese sugli affari internazionali, si è
ricorsi a questo tipo di ragionamento, quasi si volesse
riaffermare quotidianamente
– possiamo chiamarla “ridotta del soft power” - ad una
centralità che nei fatti è sempre più in
discussione.
Il fatto è che – ed in parte già lo abbiamo visto – che quando si parla di “Beijing consensus” e di capacità attrattiva esercitata dalla Cina popolare il riferimento va fatto ai successi ottenuti sul piano economico e sociale che hanno portato un ex Paese coloniale alla condizione di potenza economica nell’epoca della globalizzazione.
A partire da un’analisi del rapporto tra diritto, territorio e il cosiddetto “spazio globale”, il saggio esamina e discute la crisi “spaziale” dell’età dei diritti, a fronte di una specificità urbana dello spazio europeo e di una persistenza degli Stati come attori politici principali, in rapporto funzionale o di tensione con i poteri indiretti del capitalismo finanziario. In particolare, l’autore mette in questione l’esistenza di un’alternativa credibile agli universali politici concreti. Contro uno spazio che rischia di caratterizzarsi come postdemocratico e decostituzionalizzato, l’autore propone un’analisi tesa a mostrare la necessità di recuperare il precipitato politico del costituzionalismo sociale e democratico rilanciandone il portato emancipativo e l’attualità, consapevole del rischio di muoversi tra residui (novecenteschi), persistenze concettuali (moderne) e illusioni (globaliste)
1.
Diritto senza territorio?
In questi ultimi decenni, segnati dal cosiddetto «globalismo giuridico»1, abbiamo assistito a un progressivo divorzio tra diritto e territorio2 e all’affermazione di uno spazio giuridico deterritorializzato, egemonizzato dai flussi finanziari. Depositatasi la polvere della retorica, della giustizia globale e della religione dei diritti umani quali fondamenti di un nuovo ordine mondiale, è rimasto ben poco. Mentre campeggiano i poteri economici transnazionali, che non avendo problemi di legittimazione politica, possono permettersi di ignorare gli effetti sui territori - cioè sui concreti legami sociali -dell’estrazione sistematica di valore in basso e della sua sussunzione in alto, nello spazio gassoso dei “flussi”.
Aldo Barba e Massimo Pivetti,i “La scomparsa della Sinistra in Europa” (Imprimatur, 2016)
Dal
Collettivo Aristoteles, un gruppo di giovani
torinesi che si occupano di tematiche economiche e
politiche, abbiamo ricevuto
questa intervista, da loro realizzata, agli autori del testo
“La
scomparsa della sinistra in
Europa”, e diamo corso volentieri alla
pubblicazione. Gli autori denunciano il suicidio politico
della sinistra, che aderendo al
progetto mondialista di libera circolazione di merci,
persone e capitali, con ciò stesso si è posta
nell’impossibilità di promuovere le politiche economiche
espansive di piena occupazione a tutela del lavoro, a causa
del
potente “vincolo esterno” della bilancia dei pagamenti. Così
facendo, la sinistra è venuta meno alla sua funzione e di
conseguenza sta scomparendo dal panorama politico. Gli
autori indicano una via e affermano con coraggio che un
paese potrebbe “andare anche da
solo” nella direzione delle politiche espansive, a patto di
attuare un opportuno regime di controlli delle transazioni
con l’estero, e
sottolineano anche l’effetto domino che si produrrebbe verso
gli altri partner, capace di innescare un circolo virtuoso
di coordinamento
espansivo. L’analisi prosegue poi con riguardo al problema
della immigrazione, considerato anch’esso centrale nella
perdita di consensi
della sinistra.
Nel lessico politico della sinistra
populismo è
parola bollata negativamente, su ciò concordano le due
principali correnti intellettuali e di pensiero politico
dell’Otto e del
Novecento, quella liberale e quella marxista. Anche in un
contesto profondamente diverso dal nostro, quale quello
americano, le cose non cambiano: i
liberali e i progressisti individuano nel populismo il loro
peggiore nemico; rimando in proposito al libro fondamentale,
anche se discutibile, di
Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Populista è
stato considerato il fascismo, così come il nazismo, nonché il
comunismo sovietico, ovviamente il peronismo, le dittature
sudamericane, ma anche Bossi e Berlusconi sono etichettati
come populisti (io stesso ho
curato una raccolta di saggi intitolata Dal leghismo al
neopopulismo).
Secondo Lasch sono le ideologie del progresso che individuano nel populismo l’avversario da sconfiggere; la posta in gioco riguarderebbe la modernizzazione, con il libero dispiegarsi della lotta di classe, la differenziazione del popolo in classi e lo sviluppo di una produzione ideologica e anche letteraria, capace di rappresentare il pieno avvento della modernità, la sconfitta dei provincialismi, dei regionalismi, di ogni forma di localismo. Forse qualcuno ricorderà il libro di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo (1965).
La storia non raccontata di una Libia divenuta un pericolo per il processo di globalizzazione e che doveva essere ricondotta all’ordine
La Libia
è
oramai una mera espressione geografica, per usare
un’espressione del principe Von Metternich. Dall’intervento
occidentale contro
Muhammar Gheddafi, il Paese – le regioni del Sahel con cui
confina – è infatti sprofondata nel caos, con un nugolo di
fazioni
autofinanziate mediante quella che si configura in tutta
evidenza come una moderna tratta degli schiavi e armate di
fucili, lanciarazzi, pistole, ecc.
sottratti dagli arsenali della Jamahiriya ormai distrutta che
si contendono il territorio. Una situazione da cui le grandi
imprese sperano di trarre
ottimi profitti, attraverso l’applicazione di disegni
egemonici studiati a tavolino quali quello spiegato
al «Corriere della
Sera» da Paolo Scaroni, l’ex amministratore delegato dell’Eni
riciclatosi come vice-presidente della Banca Rothschild (la
stessa in
cui si è formato Emmanuel Macron). A detta di Scaroni, «occorre
finirla con la finzione della Libia, Paese inventato»
dal
colonialismo italiano. È necessario «favorire la nascita
di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze
straniere che lo
aiutino a stare in piedi», cosa che spingerebbe
inevitabilmente Cirenaica e Fezzan a dotarsi di propri governi
regionali con lo scopo di
amministrare in autonomia le proprie ricchezze.
Dalla rivista D-M-D' n°11
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“In altri termini: ciò deriva dal fatto che le forze produttive generate dal modo di produzione capitalista moderno, al pari del sistema di ripartizione di beni che esso ha creato, sono entrati in contraddizione flagrante con questo stesso modo di produzione, e ciò a un grado tale che diviene necessario un rovesciamento del modo di produzione e di ripartizione eliminando tutte le differenze di classe, se non si vuole vedere perire tutta la società.” [Engels, Anti-Duhring]
Nel 2099, i centri di produzione mondiali contavano solo poche unità umane, le quali dietro a spessi vetri e davanti a grandi monitor controllavano sterminate distese di robot superintelligenti. Questi non erano i robot impacciati del 2016, quando occorrevano algoritmi da milioni di linee di codice per simulare un piccolo movimento del braccio; ora i robot erano in grado di auto-apprendere e di trasformare in azione, all’istante, un comando che arrivava dal loro centro di controllo, ed erano in grado di impartire lo stesso ordine anche ai colleghi di lavoro.
All’interno di queste “cittadelle produttive” erano pochi gli uomini che avevano ancora un lavoro.
Le elezioni e la "sindrome da stanchezza democratica". Una critica a David Van Reybrouck dalla rivista Spazio filosofico
1. Introduzione
Rileggendo oggi Solar Lottery di Philip K. Dick, è quasi scontato riconoscere come già in quel primo romanzo fossero presenti molti dei motivi che avrebbero in seguito contrassegnato la produzione dello scrittore americano. Risulta in effetti evidente sin dalle prime pagine come la sua idea della science-fiction tendesse a fuoriuscire dal perimetro di una letteratura di genere destinata allora prevalentemente a un pubblico di giovani (e giovanissimi) lettori, e come la sua raffigurazione di un remoto futuro fosse in realtà una critica della società americana degli anni Cinquanta. Ma più di sessant’anni dopo la sua pubblicazione, si può forse intravedere in Solar Lottery anche una sorprendente prefigurazione delle società dell’inizio del XXI secolo e dei processi che investono le democrazie occidentali. In quel vecchio romanzo Dick immaginava infatti che le società occidentali avessero adottato il sistema della lotteria non solo per distribuire le merci ma anche per assegnare il potere politico. I governanti non erano dunque scelti dagli elettori e le procedure di voto erano state sostituite dall’estrazione a sorte di un Quizmaster, al quale era affidato un potere sostanzialmente assoluto1. E proprio per questo, se certo la distopia di Dick prefigurava la nascita dell’“azzardo di massa”2, lo scenario allestito nel romanzo può essere letto anche come l’anticipazione – certo estrema – di un ripensamento del ruolo che il momento della scelta elettorale ricopre nelle democrazie contemporanee.
Algoritmi come cervelli umani: promesse e illusioni del deep learning, la tecnica che ha rivoluzionato il campo
Come l’inverno dello scontento di
cui
parla Riccardo III nell’omonimo dramma shakespeariano, anche
l’inverno dell’intelligenza artificiale si è oramai
trasformato
in una gloriosa estate. È stato un inverno freddo e lungo.
Magari non trent’anni, come la guerra delle Due Rose a cui
allude Riccardo, ma
a chi lavora in quel settore sembrava comunque non finire mai.
La metafora non ce la siamo inventata, nell’ambiente si dice
proprio così:
“AI winter”, il periodo in cui gli investimenti
sull’intelligenza artificiale erano ai minimi storici, il
pubblico si era stufato di
promesse strombazzate e non mantenute, e molti tra gli stessi
ricercatori dubitavano che il loro lavoro andasse mai da
qualche parte. Per la
precisione di inverni ce ne sono stati due, uno alla fine
degli anni Settanta e un altro, il più rigido, tra la fine
degli Ottanta e la prima
metà dei Novanta. Ma le temperature sono rimaste bassine anche
dopo, se è vero che ancora nel 2012 il fisico David Deutsch
scriveva, nei
primi paragrafi di un suo saggio pubblicato su Aeon,
che “il tentativo
di ottenere un’intelligenza artificiale generale non ha
fatto alcun progresso durante sei decenni di esistenza”.

Gli esponenti della sinistra della “Terza Via” hanno presentato la globalizzazione come inevitabile e vantaggiosa per tutti. In realtà, non è né l’uno né l’altro e l’ordine liberale ne sta pagando il prezzo
Non
molto tempo fa, la discussione sulla globalizzazione era data
per morta e sepolta – dai partiti di sinistra come per quelli
di destra.
Nel 2005, il discorso di Tony Blair al congresso del Partito Laburista coglieva lo spirito del tempo: “Sento persone che dicono che dobbiamo fermarci e discutere della globalizzazione” – disse Blair al suo partito – “si potrebbe anche discutere se l’autunno debba seguire l’inverno”. Ci sarebbero stati imprevisti e disagi sul cammino; qualcuno sarebbe rimasto indietro, ma non importava: le persone dovevano andare avanti. Il nostro “mondo che cambia”, continuava Blair, “è pieno di opportunità, ma solo per quelli rapidi ad adattarsi e lenti a lamentarsi”.
Oggi, nessun politico competente potrebbe esortare i suoi elettori a non lamentarsi in questo modo. Le élite di Davos, i Blair e i Clinton si stanno scervellando, domandandosi come un processo che pensavano fosse inesorabile possa essersi invertito. Il commercio internazionale ha smesso di crescere rispetto alla produzione, i flussi finanziari transnazionali non si sono ancora ripresi dalla crisi globale di un decennio fa, e dopo lunghi anni di stasi nei dibattiti sul commercio mondiale, un nazionalista americano ha cavalcato un’onda populista per andare alla casa Bianca, da dove sta scoraggiando ogni sforzo a favore del multilateralismo.
Fino a pochi anni fa la qualifica
di ONG, introdotta en
passant dall'art. 71 dello Statuto delle Nazioni Unite
(1945), era certificata dal nostro Ministero degli esteri a
valle di un giudizio di
idoneità. Successivamente la legge 125/2014 ne ha resa la
definizione più incerta e sostanzialmente desueta, sicché nel
nostro
ordinamento la sigla sopravvive per designare le associazioni
già riconosciute come ONG in Italia o all'estero secondo i
rispettivi
ordinamenti, più in generale inquadrabili lato sensu
nei criteri fondamentali della precedente norma, che cioè
«abbiano
come fine istituzionale quello di svolgere attività di
cooperazione allo sviluppo in favore delle popolazioni del
terzo mondo» e
«non perseguano finalità di lucro» (legge 49/1987, art. 28).
Ma la caratteristica più importante delle ONG è che sono, appunto, «non governative», a sottolineare il fatto che si tratta di enti di diritto privato finanziati con fondi privati e indipendenti dagli apparati e dalle politiche degli Stati. Questi aspetti, così importanti da essere anticipati nel nome, risponderebbero all'intento di svolgere mansioni di assistenza alle popolazioni che i governi non possono o non vogliono assicurare. L'indipendenza svincolerebbe inoltre l'impegno umanitario dagli obiettivi politici del momento garantendone la neutralità e la continuità.
In questo articolo viene proposta una breve discussione sull’evoluzione della macroeconomia e della politica economica dopo Keynes. In particolare, viene descritta la diffusione di un nuovo standard di ricerca, dopo la «stagflazione» degli anni ‘70 del secolo scorso, che ripropone la fiducia (pre-keynesiana) nelle capacità di auto-regolazione dei mercati e considera la politica economica (anticiclica) come un possibile ostacolo al raggiungimento dell’equilibrio «naturale» del sistema economico. Infine, vengono discusse alcune prospettive per la macroeconomia dopo la Grande Recessione
1. Introduzione
Quando nel 1936 John Maynard Keynes pubblicò la sua Teoria Generale, i danni della Grande Depressione erano già evidenti. Con il suo contributo, Keynes individuò importanti misure di politica economica per superare la crisi attraverso l’intervento pubblico, in assenza di meccanismi di riequilibrio automatico del sistema economico. Il grande successo della Teoria Generale è dovuto proprio al bisogno di una nuova teoria macroeconomica in grado di comprendere cosa era andato storto e di indicare le soluzioni di politica economica per favorire una ripartenza dell’economia. La fiducia nell’intervento pubblico e nella politica economica continueranno a caratterizzare la teoria macroeconomica anche nel dopoguerra, fino agli anni ‘70 del secolo scorso, quando un nuovo cambiamento epocale viene accompagnato dall’aumento congiunto di inflazione e disoccupazione durante la crisi energetica.
La rivoluzione anti-keynesiana del monetarismo (di prima e seconda generazione) torna ad una impostazione (pre-keynesiana) contraddistinta dalla fiducia nelle capacità di auto-regolazione dell’economia di mercato, con il corollario che proprio le politiche economiche ostacolerebbero la tendenza del sistema verso il suo equilibrio naturale.
Di Moneta Fiscale, nelle sue possibili varianti e applicazioni, parlano ormai con intensità crescente tutte le principali forze politiche di opposizione, com’è noto da tempo ai lettori di Micromega (vedi la parte iniziale di questo articolo, apparso nel giugno scorso). Sul tema, il M5S ha tra l’altro presentato un emendamento all’ultima legge di bilancio. Naturalmente l’attuale maggioranza parlamentare a traino PD non l’ha approvato né era pensabile che lo facesse, e data la dimensione limitata della proposta, l’emendamento aveva più che altro una funzione di test. Significativo comunque è che sia stato dichiarato ammissibile dalla Ragioneria Generale dello Stato.
In Italia si sono quindi definiti due blocchi politici: gli allineati alle politiche di austerità “prescritte” dalla UE – blocco imperniato sul PD – e le opposizioni, che in forme varie stanno prendendo in esame l’introduzione di uno strumento fiscale finalizzato, in primo luogo, al rilancio della domanda interna. Nel frattempo, si parla anche di fantomatiche riforme dell’Eurozona, da cui in realtà non c’è da aspettarsi nulla di positivo (tenuto conto, tra le altre cose, che in Germania a crescere di peso politico sono solo i liberali “austeristi” e la destra nazionalista).
L’alternanza scuola-lavoro sta producendo buoni frutti”. Se ne è convinto Pietro Ichino, il giuslavorista che da una vita si prodiga per porre fine all’ingiustizia che affligge il mercato del lavoro italiano dove solo alcuni lavoratori sono protetti e garantiti e altri, poveretti, no. Ichino, che non tollera queste discriminazioni, propone di togliere le tutele a chi le ha: così siamo pari. Lo va spiegando da quando, alla fine degli Anni 70, si fece eleggere da indipendente nelle file del Pci, ma allora il suo verbo era troppo profetico. Nel 2007 il riscatto: un lungimirante Daniele Capezzone lo arruola per redigere un piano di riforme per l’Italia insieme agli economisti Alesina e Giavazzi, convinti sostenitori di tesi iettatorie quali: “La bolla dei subprime è sotto controllo e non produrrà una crisi finanziaria globale”, “L’abolizione dell’articolo 18 farà schizzare la produttività” e “Il liberismo è di sinistra” (questa è il titolo di un loro libro. No, non è una battuta).
Il neonato Pd di Veltroni premia Ichino facendolo eleggere senatore. Nel 2012 Ichino lascia il Pd e passa con Monti del quale si vantava di aver scritto il programma di governo (“Molte delle tesi esposte nell’agenda di Monti sono le stesse di un documento che presentai lo, i due scritti sono praticamente sovrapponibili”). Infine torna nel Pd renziano, che finalmente gli dà soddisfazione abolendo l’articolo 18.
Le amministrazioni degli Stati Uniti che si sono susseguite a partire dalla guerra di Corea fino ad oggi, senza apprezzabili distinzioni tra democratici e repubblicani, hanno sempre condotto nei confronti della Corea del Nord una politica aggressiva e tendenzialmente bellicista. Il motivo va cercato nella tattica del ‘divide et impera’, poiché non vi è dubbio che il processo di riunificazione della Corea rappresenterebbe una svolta storica non solo in Asia, ma nel mondo intero. Le stesse difficoltà incontrate dai due Stati negli anni novanta del secolo scorso (difficoltà, peraltro, aggravate dal peso crescente della spesa militare sui rispettivi bilanci), la prolungata carestia nel Nord e il crac economico-finanziario nel Sud, hanno messo all’ordine del giorno, da un lato, la necessità della riunificazione e, dall’altro, la sua impossibilità dovuta alla pervicace opposizione degli USA nei confronti di questa prospettiva e alla loro scelta di usare la Corea del Sud come avamposto politico e militare in funzione della loro strategia di contenimento e di attacco alla espansione della Cina e della Russia.
Nei decenni intercorsi a partire dalla guerra di Corea, scatenata dall’imperialismo USA sulla penisola coreana e sfociata nella divisione tra il Nord e il Sud, la Repubblica Popolare Democratica di Corea, diretta prima da Kim Il-sung e poi da Kim Jong-il, ha tenacemente perseguito l’obiettivo della riunificazione, mentre all’inizio degli anni novanta il dissolvimento dell’URSS e di altri paesi socialisti ha contribuito ad accentuare il carattere nazionale della “via coreana al socialismo”.
Sono sinceramente lieto dell’approvazione, da parte del Parlamento nazionale, della legge sul testamento biologico, e del pari mi rallegrerei se venisse finalmente disciplinata la delicata materia dell’eutanasia: ritengo infatti che ad ogni essere umano vada riconosciuta la “proprietà” della rispettiva esistenza, pur condivisa – nei fatti – con destino, malattie, volontà altrui e accidenti vari.
Mi domando, però, se non sia paradossale che a uomini ormai spogliati di ogni bene venga concessa – come premio di consolazione? – la facoltà (limitata e condizionata, peraltro) di decidere solamente della propria dipartita, del momento cioè in cui il loro valore economico-produttivo si azzera.
Assistiamo, d’altra parte, a un faticoso quanto esaltato progresso dei diritti civili proprio mentre i diritti sociali – quelli dei vivi – stanno lasciando questo mondo occidentale.Un tanto non è frutto del caso: al regime imperante piace mostrarsi munifico, sempreché il dono non gli costi nulla. Quando invece sono in palio interessi concreti la logica inesorabilmente si capovolge: tocca ai cittadini dare del loro, senza contropartita.
Il sistema politico-economico capitalista veste volentieri, semel in anno, l’uniforme di gala, che agli occhi di masse sapientemente dirette lo fa apparire seducente e “democratico”, ma è l’insulso baccanale di un giorno solo: sotto la livrea indossa sempre una tuta da lavoro imbrattata di sangue, sporcizia e lacrime.
Con la metafora della “mano invisibile” Adam Smith esprimeva la fiducia che, lasciando gli individui liberi di perseguire i propri interessi, la società avrebbe prosperato. Smith era anche un umanista e un filosofo morale, dunque era lontano da quell’idea di “mano invisibile” che si è affermata negli ultimi decenni e che confida nelle leggi anonime del libero mercato: oggi ormai l’intera società sembra regolata da un’entità invisibile, che non risponde a bisogni o istanze democratiche, e che impone un ordine insensato a cui i singoli (ma anche paesi e governi) devono sottomettersi per sopravvivere.
Il film La mano invisibile dello spagnolo David Macián ci racconta meglio di tante astratte elaborazioni il dramma generato dall’affermazione di questo tipo di ordine sociale. Il film è spiazzante: alcuni lavoratori sono assunti per recitare in uno spettacolo, davanti ad un pubblico che non vediamo mai, una parte che consiste nello svolgimento di una mansione assolutamente inutile. Non sappiamo chi e perché ha organizzato lo spettacolo (se per profitto o per un esperimento sociale), ma i lavoratori coinvolti nella rappresentazione sono veramente tali: hanno un contratto, uno stipendio, dei ritmi da rispettare nell’assolvere il loro inutile compito, vivono la precarietà e la minaccia di licenziamento, cosicché le dinamiche di questo microcosmo – che ci tengono incollati allo schermo per 80 minuti – ci aprono gli occhi sulla condizione del lavoro nella società contemporanea.
Claudio e Giandomenico Crapis, Umberto Eco e il Pci. Arte, cultura di massa e strutturalismo in un saggio dimenticato del 1963, Imprimatur, 2017
Con lieve ritardo (il libro è
uscito
circa un anno fa), leggiamo questo saggio che in realtà
introduce e commenta uno scambio intellettuale avvenuto tra
Umberto Eco e Rossana
Rossanda sulle colonne di Rinascita nell’autunno
del 1963. Il riferimento temporale è decisivo per comprendere
il contesto:
siamo dentro l’esplosione delle neoavanguardie (Novissimi,
Gruppo 63 e dintorni), sull’onda del loro eclettico
rapporto con
l’operaismo, e nel vortice della crescita elettorale del Pci.
C’è fermento insomma, e il rapporto tra politica e cultura è
posto all’ordine del giorno delle questioni dirimenti (bei
tempi). Lo scambio tra Eco e la Rossanda è solo una tessera di
un quadro
più vasto, che proprio su Rinascita troverà uno dei
luoghi di confronto. Grazie a Mario Spinella, Eco interviene
in una
discussione che procede già da qualche anno: il comunismo
italiano da tempo si domanda del rapporto progressivamente
meno organico con il mondo
intellettuale. Dagli anni Sessanta queste domande non
provengono più solo dall’interno del partito, né solo
rinfacciate dalla
cultura borghese: ad intervenire, sulla scorta delle
trasformazioni sociali del paese, sono una congerie di
scrittori, artisti, critici e militanti
politici che compongono quella che viene denominata «cultura
d’opposizione». Una cultura che utilizza il marxismo come
«metodo
di critica» ma non più come «concezione del mondo»
autosufficiente. Umberto Eco s’incarica di gettare il classico
sasso
nello stagno, generando un fervido confronto che svela una
certa dinamicità del dibattito marxista italiano sul piano
culturale, anche dentro
il Pci.
Pubblicato per Il Saggiatore lo
scorso 29 Giugno, Economia della
rivoluzione è un’antologia di scritti di
Vladimir Il’ič Ul’janov, detto
Lenin, ampiamente introdotta e commentata da Vladimiro
Giacché, filosofo normalista, economista e presidente del
Centro
Europa Ricerche
Quelli
raccolti in
Economia della rivoluzione sono dei testi che Lenin
dedicò alla politica economica sovietica a partire
dall’ottobre 1917,
anno della presa del potere da parte dei Soviet, fino al
marzo 1923, momento in cui la malattia che lo aveva colpito
gli impedì di proseguire
il suo lavoro per condurlo, quasi un anno più tardi, alla
morte. Articoli, saggi, abbozzi di risoluzioni politiche,
resoconti stenografici di
interventi pubblici, appunti, promemoria. Economia
della rivoluzione è un insieme eterogeneo di scritti
– già editi in
Opere Complete, pubblicate prima da Editori Riuniti
e poi, ampliate, da Edizioni Lotta Continua – organizzati da
Giacché secondo
una scansione temporale: I) la presa del potere e i primi
mesi di governo; II) lo scoppio della guerra civile e il
comunismo di guerra; III) la Nuova
politica economica.
Tre grandi capitoli all’interno dei quali prende corpo e si evolve la riflessione di Lenin, una riflessione che, nell’affrontare il problema dello sviluppo economico, continuamente si confronta con il portato della filosofia marxista e la sua ortodossia, riflette sulla necessità e sulla possibilità della formazione di una classe dirigente in un contesto arretrato, tratteggia i confini di una strategia politica costretta fra la ricerca del consenso, la dialettica con il capitalismo, l’imperialismo, si cimenta con i temi dell’emancipazione femminile.
Oltre cinquecento pagine che tornano attuali sia perché portatrici di una riflessione radicalmente alternativa al modo di produzione capitalistico, sia come esempio di un pensiero temerario, al tempo stesso rigoroso e pragmatico.
Giordano Sivini* è stato
docente di Sociologia alla facoltà di Economia dell’Università
della Calabria. Recentemente, insieme a Giuliana Commisso, ha
pubblicato il libro “Reddito di cittadinanza. Emancipazione
dal lavoro o lavoro coatto?” per le edizioni Asterios. Del
libro abbiamo
già parlato sul
nostro
giornale.
Due settimane fa, anche l’Eurostat ha certificato che in Italia ci sono ormai 18 milioni di persone a rischio povertà, contemporaneamente il governo ha varato l’ennesimo, risibile, provvedimento contro la povertà con l’introduzione del Rei (Reddito di inclusione). Il M5S continua a parlare di Reddito di Cittadinanza ma i contorni di questa proposta sfumano sempre più al peggio dentro il processo di normalizzazione di questo movimento. Siamo tornati a parlarne con Giordano Sivini, per approfondire le questioni sollevate nel suo libro e soprattutto la loro relazione con una realtà dai costi sociali sempre più pesanti per milioni di persone a crescente rischio povertà ed esclusione sociale. Una spirale che va spezzata, con forza e con urgenza.
* * * *
Cominciamo da un giudizio sul Rei o Reddito di Inclusione entrato recentemente in vigore. Come giudichi questo provvedimento del governo?
Il Reddito di Inclusione (Rei) è innanzi tutto una misura elettorale, per l’accelerazione del suo avvio dopo la lunga gestazione accompagnata dai ripetuti mirabolanti annunci dell’ineffabile ministro Poletti.
E infine, non meno importante, la Cgil deve svegliarsi e non lasciare che siano altri ad appropriarsi della difesa di pensioni, salario e diritti.
Questa è l’unica frase che mi ha pienamente convinto di un articolo apparso sul giornale on-line la Città futura (2018: una tessera antifascista per la Cgil. Le organizzazioni neofasciste attaccano la Cgil. La risposta deve essere all’altezza).
L’articolo prende spunto dai recenti casi di attacco diretto alla CGIL da parte di gruppuscoli neofascisti genovesi, e la invita a mettersi alla testa di un fronte antifascista:
La Cgil deve essere un presidio di democrazia in questo paese, insieme alle associazioni e ai movimenti antifascisti, proprio perché da sempre il principale obiettivo dei fascisti è stato il movimento dei lavoratori. La Cgil deve mobilitare il mondo del lavoro nelle piazze, nelle scuole, nei posti di lavoro.
La chiave di lettura del fenomeno odierno risente fortemente dell’esperienza di quasi cent’anni fa: il movimento operaio e le sue organizzazioni sono sotto attacco delle squadracce fasciste col beneplacito dello stato. L’articolo chiama a
un impegno costante a vigilare sui media, denunciando quelli che concedono loro uno spazio improprio, alludendo a una narrazione distorta sul loro “impegno sociale” nelle periferie, che finisce per sdoganarle anche nell’immaginario collettivo.
Questo post costituisce più un...ripassino (e quindi non eccederò coi links, aspettandomi che i lettori siano in grado di individuarne molti altri, rispetto a quelli che inserirò).
Ma testare se si abbiano le idee chiare - e quindi potersi permettere di porle alla prova della situazione sempre più drammatica che si profila nella nostra Patria-, è un cimento di cruciale importanza in questo momento. Essere pronti, ora, può fare la differenza in preparazione di "questo" Nuovo Anno...
* * * *
Bazaar 28 dicembre 2016 20:17
Quando sento parlare di liberali, di libertà, della democristiana Libertas, bè: trovo sempre un grande autore che chiarisce l'ovvio agli imbecilli che non si sanno collocare nella Storia:
«Quella che viene chiamata "libertà di volere" è essenzialmente la passione della superiorità rispetto a colui che deve obbedire: "Io sono libero, 'egli' deve obbedire" [...] quell'intima certezza che si sarà ubbiditi, e tutto questo appartiene ancora alla condizione di chi impartisce ordini. » Nietzsche, "Al di là del bene e del male"
Non ci può essere libertà metodologicamente individualista senza dialetticamente manifestarsi una schiavitù: libertà e potere sono il medesimo ente visto da due punti diversi.
Capita poche volte di incontrare un libro capace di influenzare nettamente il nostro modo di pensare. Ancora più raramente di incontrarne uno di cui non sapevamo nulla. Mi è capitato. Non è un testo sconosciuto: al contrario è famosissimo, commentato da secoli da generazioni di studiosi, addirittura venerato. Io non lo conoscevo, e penso che molti dei miei connazionali italiani, come me, non lo conoscano. L’autore si chiama Nagarjuna. È un breve e asciutto testo filosofico scritto 18 secoli fa in India e divenuto classico di riferimento della filosofia buddhista. Il titolo è una di quelle interminabili parole indiane, Mulamadhyamakakarika, reso in vari modi, per esempio I versi fondamentali del cammino di mezzo. L’ho letto nella traduzione inglese di un filosofo, Jay Garfield, accompagnata da un ottimo commento che aiuta a penetrarne il linguaggio. Garfield conosce a fondo la tradizione orientale, ma viene dalla filosofia analitica anglosassone, e presenta le idee di Nagarjuna con la chiarezza e la concretezza che caratterizzano questa scuola, mettendole in relazione con il pensiero occidentale.
Non sono capitato su questo libro per caso. Persone disparate mi chiedevano: «Hai letto Nagarjuna?», soprattutto a seguito di discussioni sulla meccanica quantistica, o altri argomenti di fondamenti della fisica. Io non ho mai guardato con simpatia ai tentativi di legare scienza moderna e pensiero orientale antico: mi sono sempre sembrati tirati per i capelli, riduttivi da entrambi i lati.
I giornalisti cittadini palestinesi sono stati in grado di cambiare la percezione pubblica della Palestina in Occidente attraverso le attività di sensibilizzazione in rete
L’annuncio del presidente degli USA
Donald Trump su Gerusalemme, il 6 dicembre, ha scatenato
l’indignazione in tutto il mondo, in particolare tra
palestinesi, arabi, musulmani e
sostenitori della Palestina.
Dimostrazioni popolari hanno avuto luogo dal Marocco all’Indonesia, tra una timida reazione dei politici di molti paesi arabi.
Mentre le proteste proseguono a Gaza e in Cisgiordania da due settimane con segnalazioni di proiettili artigianali sparati da Gaza senza nessuna rivendicazione da fazioni palestinesi, forze militari israeliane hanno usato forze sproporzionate. Sono venute alla luce scene scioccanti di bambini palestinesi arrestati, ammanettati e bendati, come nel caso dell’adolescente Fawzi al-Junadi, fotografato circondato da 22 soldati israeliani pesantemente armati nella città occupata di Hebron in Cisgiordania.
Una ricerca dell'OECD mostra l'accentuazione delle disparità in Europa, prodotte dalle politiche liberiste. L'Italia detiene alcuni poco invidiabili record di iniquità
Una ricerca del Centro Per le Opportunità e l'Uguaglianza (COPE) dell'OECD, Understanding the socio-economic divide in Europe, ha analizzato l'andamento della disuguaglianza nei vari paesi dell'Europa. La ricerca ha carattere prevalentemente statistico e quindi presenta pregi e difetti di approcci simili, i quali presentano il limite principale di attestarsi poco oltre la pura constatazione dell'andamento dei fenomeni, non andando quindi a fondo sulle relative cause. Tuttavia, ecco il pregio, forniscono informazioni indispensabili per le analisi della fase.
Come ormai è abbastanza noto, il metro prevalentemente usato per “misurare” le diseguaglianze è l'Indice Gini, che sonda il grado di concentrazione di un fenomeno, per esempio il reddito pro-capite o la ricchezza pro-capite. La massima diseguaglianza, ovviamente, si ha quando tutta la ricchezza esistente è concentrata su un unico soggetto. In tal caso l'indice assume il valore di 1 o, che fa lo stesso, del 100%. All'estremo opposto, si ha la massima equità se tutti i soggetti dispongono di pari ricchezza, senza differenza alcuna: In tal caso l'indice assume valore zero. Quindi più aumenta il suo valore e maggiore è la disparità. È abbastanza frequente che un'indagine sulle diseguaglianze cominci col rendere conto di tale indicatore.

Intervista a Guglielmo Carchedi sulle caratteristiche del lavoro mentale, della produzione di conoscenza in Internet e sulla validità della teoria del valore anche per la produzione di conoscenza
Guglielmo Carchedi, economista marxista di
fama internazionale, è stato fra coloro che più radicalmente
hanno combattuto le
interpretazioni di tipo neoricardiano del Capitale di Marx,
contestando la determinazione simultanea –
à la Sraffa – del saggio del profitto, dei prezzi di
produzione dei fattori produttivi e
dei prodotti. Introducendo nella sua analisi il
fattore tempo e interpretando la teoria del valore di Marx
come un sistema di non equilibrio, ha
mostrato che tale interpretazione consente di superare tutte
le obiezioni fatte al procedimento marxiano di
trasformazione dei valori in prezzi di
produzione. Insieme a Alan Freeman ha curato e pubblicato un
volume che è una pietra miliare di questa critica [1].
Ha letto anche, sempre con lenti marxiane, le caratteristiche di questa crisi economica, producendo tra l'altro un'analisi di classe delle contraddizioni insite nel processo di integrazione economica europea [2]. Recentemente ha dato un contributo teorico importante [3] per controbattere molte teorie di moda, sul lavoro cognitivo e su Internet in particolare, tendenti oggettivamente a disarmare la classe lavoratrice espungendone la componente dei lavoratori mentali e sostenendo l'inapplicabilità della teoria del valore al lavoro mentale. Insomma il suo contributo a confutare i “confutatori” ci consente di parlare ancora di pluslavoro e plusvalore e di individuare ancora nella classe lavoratrice il soggetto principale di un possibile superamento del modo di produzione capitalistico.
James O’Connor è ben conosciuto, prima che
per la sua proposta di un approccio “ecomarxista”, per la
sua
analisi della crisi fiscale dello stato. Di qui, l’estrema
attualità di un autore che cerca di esaminare, dal punto di
vista di un
marxismo “critico”, problemi che al tempo in cui scrive sono
“emergenti” e che oggi sono autentiche “emergenze”.
In entrambi i casi, O’Connor osserva come il capitale
esporti le proprie contraddizioni fuori dai ristretti
confini della produzione, per
ritrovarsi ad affrontarle quindi nel proprio ambiente: la
produzione capitalistica funziona, da un certo punto di
vista, come la macchina di Carnot,
incapace di generare movimento senza esportare disordine al
di fuori dei propri confini. Ma, diversamente dalla macchina
di Carnot, che continua a
compiere gli stessi movimenti, ci troviamo qui di fronte a
processi storici, dove il capitalismo si espande
colonizzando nuovi ambiti e nuovi
territori, per ritrovarvi di volta in volta le proprie
stesse contraddizioni. Un discorso di questo genere si
colloca, in realtà, a pieno
titolo sulla scia di un complesso di riflessioni
sull’imperialismo, a partire da Hobson, Lenin e Rosa
Luxemburg.
In ogni caso, esiste un filo rosso che unisce l’autore della Crisi fiscale dello stato, nei primi anni settanta, all’autore di Natural Causes un quarto di secolo dopo. Il filo rosso può essere individuato nell’analisi dei rapporti tra capitalismo, stato e movimenti sociali (dai movimenti di protesta degli anni sessanta ai movimenti ecologici degli anni ottanta e novanta).
G8 2001: produssero prove false, lanciarono sassi ai manifestanti, dissero bugie, furono condannati. Ma tornano in ruoli chiave della polizia
Quella che per centinaia di migliaia di persone (nonché per Amnesty International) è la più grave sospensione dei diritti umani in Occidente dalla fine della II guerra mondiale, per gli apparati politico-militari è probabilmente un patto da rispettare. Solo così si spiegano gli avanzamenti o i posizionamenti di reduci di quelle imprese (condannati in tre gradi di giudizio) in ruoli chiave della polizia di stato. E’ una questione politica non amministrativa come prova a impostarla il Viminale. E riguarda la relazione tra polizia e democrazia non le routine sull’avvicendamento dei funzionari.
Dopo le polemiche per la nomina, da parte del ministro Minniti, a numero due della Direzione investigativa antimafia di Gilberto Caldarozzi, condannato a tre anni e otto mesi in via definitiva per falso per i fatti del G8, scoppia un altro scandalo, questa volta su Pietro Troiani. Troiani, condannato anche lui per falso perché portò le false molotov alla scuola Diaz, andrà a dirigere il centro operativo autostradale di Roma.
Nel corso degli ultimi decenni c’è stata un’indubbia sottovalutazione di gran parte delle forze di sinistra dei rischi derivanti dai processi di internazionalizzazione del capitalismo maturo, e ci si è ritrovati, senza troppo accorgersene o preoccuparsene, ad agire dentro un terreno di gioco che si è fatto col tempo assai ostile e inospitale.
Tutti gli strumenti di cui si era dotato il movimento operaio durante il “secolo breve” per governare e orientare i processi economici, dagli anni ’70 ad oggi sono stati a poco a poco spuntati. Prima la globalizzazione neoliberista, poi il cosiddetto pilota automatico messo in moto dalla tecnocrazia europea hanno svuotato le istituzioni democratiche di poteri e funzioni e immobilizzato la politica in un recinto. Oggi le decisioni economiche si impongono come qualcosa di oggettivo e naturale, e mai come oggi quelle stesse decisioni o non arrivano agli organi rappresentativi, o se arrivano vi arrivano prese in altra sede, in una sede in cui la stragrande maggioranza dei cittadini non ha alcuna voce in capitolo.
Il movimento operaio è stato protagonista del secolo scorso, non solo perché difendeva gli ultimi, ma perché aveva creato degli strumenti di lotta straordinari. Con la globalizzazione e la nuova architettura europea sono venuti meno i vecchi strumenti dell’agire politico della sinistra [G. Di Donato – T. Bucci, Quale Sinistra?, Roma, 2016].
Due giorni or sono, a firma di Rosa Gilbert, è uscito, sul britannico The Indipendent, un pezzo in cui si afferma che l’unica sinistra, in Italia, è rappresentata da Potere al Popolo, procedendo poi in un paragone, quello con Momentum di Jeremy Corbyn, non certo lusinghiero per un movimento che voglia fare della lotta radicale, al Capitale e alle sue molteplici e velenose ramificazioni, il perno cardine della sua stessa esistenza politica.
Capisco, allora, che possa far piacere leggere su un Tabloid come The Indipendent -in un articolo che, sicuramente, fa impallidire i nostri media mainstream per obiettività e analisi della situazione sul campo in Italia- di Potere al Popolo, di Je so’ pazzo e dell’ex Opg, dell’Usb e dei centri sociali, e nello specifico di Napoli, quale epicentro da cui nasce quest’innovativa proposta politica; pur tuttavia, non penso ci sia da rallegrarsi se lo stesso The Indipendent propone un’equazione, seppur procedendo per sommi capi, tra Potere al Popolo e Momentum di Corbyn. E tanto meno c’è da gioire se quell’equivalenza pone, come ulteriori termini di paragone, il Podemos spagnolo di Iglesias -la battaglia per l’indipendentismo catalano ne ha evidenziato tutte le fragilità sul piano dell’auspicabile rottura con l’Ue e lo Stato monarchico-franchista castigliano- o Insoumise di Melenchon, in Francia.
1.
Il caos espresso in Catalogna dall’equa condivisione di opinioni tra “indipendentisti” e “unionisti” sfida la ragione. Perché ciascuno dei campi è a sua volta diviso tra destra neoliberista reazionaria dichiarata e sinistra più sensibile alle deplorevoli condizioni dei lavoratori. Certo, alcuni di questi partiti di sinistra sono favorevoli al liberismo (che di per sé è una contraddizione!); ma altri sono potenzialmente anticapitalisti, anche se condividono le illusioni – la maggioranza in Europa – della possibilità di “riformare le istituzioni dell’ Unione europea”, benché costruite in cemento armato per rendere ciò impossibile.
Tuttavia, nonostante queste differenze, entrambi danno priorità alla loro scelta “nazionale” (o meglio ancora “nazionalitaria”). Sono persino disposti a governare insieme in una coalizione eterogenea “indipendentista” o “unionista”. Ho sentito soltanto un partecipante catalano a questi dibattiti – il rappresentante di Podemos – osar dire chiaramente che non darà il suo sostegno a nessuna coalizione diretta dalla destra.
L’ ideologia dominante ha così raggiunto il suo obiettivo: sostituire alla priorità della coscienza sociale (la lotta di classe) il primato di altre identità, in questo caso nazionali. È una deriva tragica.
China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00
Voglio
chiudere
questo centenario di scarse e, ancor più, confuse
celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed
interessanti pubblicati
dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli
dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che condussero
alla Rivoluzione di
Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo
anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso
degli anni, ha continuato a dedicare grande
attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il ‘900
e il suo immaginario sociale, culturale e politico.
Forse per questo motivo, il testo non è opera di uno storico tradizionale e non è figlio soltanto di un impegno militante, ma proviene dalla penna di uno dei più importanti autori di letteratura dark fantasy e SF degli ultimi anni: China Miéville (Londra 1972). Vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari in ambito fantascientifico e horror ( premio Bram Stoker nel 1999; premi Arthur C. Clarke e British Fantasy per il 2001; International Horror Guild e ancora Bram Stoker per il 2003; premi Arthur C. Clarke e Locus per il 2005; premio Locus per il 2008; poi ancora vincitore dei premi Locus, Arthur C. Clarke, British Science Fiction e World Fantasy in anni successivi e infine finalista per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo), lo scrittore è stato e rimane però ancora militante della sinistra radicale inglese.
Anche Marx fa ricorso a
Shakespeare per
parlare dell'estraneità della lingua, della lingua come
qualcosa che ossessiona, che non è mai del tutto integrata.
Harald Weinrich lega
insieme Shakespeare e Goethe nell'analogia del francese
visto come lingua della menzogna. Derrida, da dentro tale
lingua, in "Spettri di
Marx" commenta "Il 18 brumaio"
di Marx, soprattutto per quel che riguarda la parte in cui
Viene detto che
«indossa la maschera dell'apostolo Paolo», allo
stesso modo in cui la Rivoluzione del 1789-1814 «ha
indossato
alternativamente come quelle della Repubblica romana e
quella dell'Impero romano.»
Si può qui ricordare che nel suo saggio dedicato a Lutero, Aby Warburg affronta quella figura storica mettendo in evidenza la sua dimensione di traduttore e di mediatore culturale (allo stesso modo di Erasmo, Lutero è stato uno dei pochi a dominare il greco nel XVI secolo, traducendo, a partire dal 1921, il Nuovo Testamento in tedesco). Lutero, in quanto operatore della differenza sia linguistica che ideologica, opera sui passaggi, sulle contaminazioni: «Attraverso la mediazione fedele di quelle vie migratorie che portano l'ellenismo in Arabia, in Spagna, in Italia e in Germania», scrive Warburg, «gli dei planetari sono sopravvissuti nelle parole e nelle immagini come divinità viventi», e più avanti: «L'astrologo dell'epoca della Riforma attraversa questi due estremi opposti - l'astrazione matematica ed il vincolo culturale -, irreconciliabili per il naturalista di oggi giorno, come se fosse il punto di inversione di uno stato d'animo omogeneo e di un'ampia oscillazione» (Aby Warburg, Divinazione antica pagana in testi e immagini dell'età di Lutero).
Gentiloni ha annunciato alla vigilia del Natale, in sordina ed in mezzo alla distrazione dei regali natalizi, l'intervento in Niger. Ma la reazione politica al momento non è stata incisiva e si perde nella solita retorica dell'intervento umanitario per stabilizzare il paese. Ma la verità è un'altra
L’annuncio
dell’intervento
italiano in Niger, fatto da Gentiloni su una portaerei,
ha colto di sorpresa solo gli osservatori più distratti. La
scorsa estate, nel
periodo del giro di vite Minniti sugli sbarchi dalla Libia,
il governo del Niger era già stato accolto a palazzo
Chigi. Motivo
ufficiale: una serie di discussioni, e di richieste di
finanziamento da parte del paese africano, legate alla
questione del contenimento dei
flussi migratori. Minniti infatti, all’epoca (e
non solo), sosteneva che le frontiere della Ue coincidessero
con la Libia e che,
proprio per quello, rafforzare la vigilanza in Niger avrebbe
significato un alleggerimento dei problemi alla frontiera
libica.
Naturalmente l’ovvietà di un Niger devastato dalle crisi idriche (si veda qui) e quindi produttore di immigrazione di massa in fuga verso l’Europa, è ufficialmente negata. Perchè per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza. Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger vediamo che non comprende il solo paese in questione.
Per l’economista Emiliano Brancaccio chi ha appoggiato le ricette deflazioniste di questi anni non può diffondere appelli al “voto utile” per frenare il populismo xenofobo, dato che proprio quelle politiche hanno spianato la strada all’attuale revival fascistoide: “Il vento di estrema destra è forte ed è destinato a durare: non potrà certo essere arrestato escogitando tattiche elettorali di corto respiro”.
“Se ti dichiari antifascista, non puoi essere un ‘deflazionista’ che invoca nuove ondate di austerity e di privatizzazioni, sostiene le deregolamentazioni del lavoro e promuove la gara al ribasso dei salari e dei prezzi, perché proprio queste politiche favoriscono l’avanzata delle destre estreme”. E' il giudizio dell'economista Emiliano Brancaccio, uno studioso che da tempo richiama l’attenzione sui fattori economici alla base del rinnovato successo dell’ultra-destra. Tra raid contro gli immigrati, assalti alle redazioni giornalistiche, svastiche di moda tra i poliziotti, e soprattutto l’ingresso di forze xenofobe nei governi di alcuni Paesi d'Europa, si discute in questi giorni del ritorno di una possibile “minaccia fascista”. Da Zizek a Chomsky, vari intellettuali sono stati interpellati per cercare di capire se questo pericolo sia concreto e quali possano essere le sue cause. Su questo Brancaccio non ha dubbi: il pericolo esiste e viene accentuato dalle politiche economiche dominanti, alle quali ha dedicato studi critici la cui rilevanza è stata riconosciuta persino da Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale.
"L'Europa cresce (tutta) e il merito è suo". Con questo titolone Corriere Economia ha stabilito che Mario Draghi è "l'uomo dell'anno".
L'editoriale di Danilo Staino è tutto un panegirico volto a giustificare il titolone, che se l'economia europea è tornata ad espandersi, gran parte del merito è della politica monetaria "accomodante" adottata dalla Bce.
Vero o falso? Falso!
Non che il cosiddetto Quantitative easing non abbia avuto una grande importanza. Ciò che è vero è che l'acquisto da parte della Bce di 80 miliardi al mese di titoli (oggi ridotti a 60 e da gennaio a 30), avendo evitato il default sul debito pubblico dell'Italia, ha di fatto salvato l'Eurozona dal collasso. Ma da qui a dire che l'economia della Unione europea è in "crescita" è grazie al miracolo di Draghi, ce ne corre.
E qui dobbiamo segnalare che quando Draghi, nel luglio 2012 pronunciò la fatidica frase "Whatever it takes", la Federal Reserve americana e le principali banche centrali, avevano già avviato, e su larga scala, politiche monetarie "accomodanti". Per dire che la "svolta" monetaria della Bce, era un passo obbligato per tenere testa ai principali competitori mondiali — se i tuoi concorrenti portano il tasso d'interesse a zero essi stanno di fatto svalutando la loro moneta con ciò rendendo più competitive le loro merci rispetto alle tue.
Il pericolo guerra fredda serve alla Nato a ottenere nuovi finanziamenti. Ma è la politica occidentale nel confronti dell’orso ex sovietico che fa acqua. E fomenta estremismi e populismi
Allegri ragazzi, abbiamo una nuova parola d’ordine: “contenere la Russia”. Per un po’ abbiamo giocherellato con “i terroristi viaggiano sui barconi dei migranti”, poi con “i foreign fighters sono di ritorno in Europa e pronti a colpire”, poi con “Kim Jong-un vuole l’apocalisse atomica”. Ma vuoi mettere come funziona il vecchio e caro babau dei comunisti che mangiano i bambini, anche se i comunisti non ci sono più e di bambini non ne facciamo?
Come sempre, come quando si dava per imminente, or non è molto, l’invasione russa dei Paesi Baltici, sono bastate due dichiarazioni del Pentagono e della sua agenzia in Europa, la Nato, perché Tv e giornali si dessero da fare. Pare quindi che il Regno Unito si sia sentito minacciato da una nave da guerra russa che gironzolava “vicino alle acque territoriali britanniche nel Mare del Nord”, come se “vicino” volesse dire “dentro”. E che i sottomarini russi che incrociano nell’Atlantico mettano in pericolo gli Usa, perché sui fondali passano i cavi in fibra ottica essenziali ai collegamenti internazionali. Come se le acque dell’Atlantico fossero una proprietà della Casa Bianca e la Russia non facesse altro che tagliare cavi.
Il 21 Dicembre 2017 la Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, presso l’Aula del IV piano di Palazzo San Macuto, ha svolto l’audizione di Vittorio Grilli ex direttore generale del Ministero dell’Economia dal 2005 al 2011 e Ministro dell’Economia e delle Finanze nel governo Monti luglio 2012 ad aprile 2013.*
In quella seduta a Grilli sono stati chiesti chiarimenti sulla stipula dei contratti dei derivati della banca d’affari Usa Morgan Stanley acquistati dal Ministero delle Finanze nel 2011, quando il medesimo vi svolgeva le funzioni di direttore generale. Quei contratti avevano delle clausole rescissorie capestro che sono state pagate cache(!) per un ammontare di 3,1 miliardi per l’estinzione anticipata esercitata dall’istituto statunitense. “Non rispettare in quel momento un contratto avrebbe avuto conseguenze gravissime” ha riferito Grilli davanti ai membri della commissione aggiungendo «Aprire un contenzioso voleva dire automaticamente per l’Italia metterla in condizione di pre-default o di default, non saremmo stati più capaci di ripagare un debito da 500 miliardi l’anno; portare una controparte in Tribunale avrebbe avuto una conseguenza devastante» per il debito pubblico."**
Ma quella clausola rescissoria? Grilli ha scaricato tutta la responsabilità della vicenda dei derivati Morgan Stanley sull’alta dirigente ancora in carica, Maria Cannata, la quale avrebbe tenuto all’oscuro di tutto l’allora direttore generale del MEF.
Nell’epoca nella quale la metà degli elettori non va a votare, la prossima scadenza elettorale non manca ugualmente di suscitare attese e trepidazioni. Per ridimensionare l’effettiva portata della scadenza elettorale, occorre ricordare che poco più di un anno fa una significativa maggioranza di elettori aveva respinto il progetto renziano di riforma costituzionale. Eppure, a distanza di pochi mesi, nel febbraio di quest’anno, di fatto è passata, in modo surrettizio, una vera e propria riforma costituzionale camuffata da sentenza della Consulta. Praticamente un colpo di Stato. Un altro colpo di Stato dopo i tanti a cui ci aveva abituato Giorgio Napolitano.
Alcuni hanno salutato la sentenza con entusiasmo, come una restaurazione dei principi costituzionali; altri ne hanno invece sottolineato elusioni ed ambiguità. I più però non hanno notato che una sedicente “giurisprudenza” costituzionale si è in effetti trasformata, del tutto abusivamente, in una nuova legiferazione costituzionale.
La sentenza della Corte Costituzionale ha sì smantellato gran parte dell’impianto della legge elettorale renziana detta “Italicum”, ma, nel farlo, ha introdotto modifiche sostanziali dell’ordinamento. La prima modifica riguarda l’accettazione della cosiddetta “governabilità”.
La Corte infatti indica la “stabilità del governo del Paese” e la “rapidità del processo decisionale” come “obbiettivi di rilevanza costituzionale”.

La parola/è un condottiero/della
forza
umana, scriveva Majakovskij nel 1926 in uno dei suoi
magistrali versi, con i quali reagiva furioso al suicidio del
poeta Sergèj
Esénin, un gesto di insopportabile rinuncia a combattere con
la parola e quindi a esaltare la vita dopo che si sia
contribuito anche a
trasformarla. Majakovskij è stato il più grande poeta
rivoluzionario, per aver trasformato se stesso nel proprio
tempo mentre questo
tempo lavorava al progresso della civiltà con un dinamismo che
non ha pari nella storia mondiale. Un dinamismo ciclopico, per
parafrasare
Pasternak, che travolge o stravolge, in cui «tutti si sentono
grandi nel loro disorientamento», «come se ognuno fosse
oppresso
[…] da una natura eroica rivelatasi in lui» (Il dottor
Živago).
È con la parola quale condottiero della forza umana e delle sue debolezze che Guido Carpi, profondo conoscitore dell’universo culturale e politico russo, ha scelto di narrare la rivoluzione nel suo Centenario, interpellando protagonisti e testimoni attivi che ne registrano le fasi, gli umori, le illusioni e disillusioni, le attese di palingenesi o le angosce apocalittiche. La ricchezza delle loro testimonianze biografiche, letterarie, poetiche, artistiche, filosofiche e politiche, le diverse emotività che essi esprimono o i diversi destini che essi incarnano, le loro diverse posizioni rispetto agli eventi e le conseguenti scelte politiche restituiscono l’immagine di un periodo storico drammatico ed esaltante, in cui forte è la coscienza del tramonto di un’epoca, che alcuni cercano di ritardare, o di transizione e trasformazione verso una società altra che invece altri vogliono contribuire a progettare.
Il «compromesso costituente» tra cultura liberale, cattolica e socialista-comunista e il «compromesso fordista-keynesiano» tra capitale e lavoro sono due sintesi o formule correnti: vengono spesso incastrate, talvolta sovrapposte o quasi, per via della loro convergenza sulla centralità del lavoro, posto dal primo a fondazione della costituenda repubblica, dall'altro al centro del circolo virtuoso di produzione di massa e consumo di massa. A partire da una rilettura critica di queste sintesi, si proporranno alcune linee di ricerca per la storia repubblicana, non prive di rilievo per il lessico politico contemporaneo
1. Introduzione: oltre
l'illuminismo
In un celebre discorso tenuto all’Assemblea Costituente il 6 marzo 1947, rispondendo alle critiche rivolte da Piero Calamandrei al progetto elaborato dalla Commissione dei 75, Lelio Basso spiegò che la Costituzione avrebbe dovuto essere «aperta verso tutte le trasformazioni democratiche future, e Costituzione che sia riflesso delle trasformazioni già avvenute o in atto, ed espressione della coscienza popolare collettiva»1. In questa dimensione, e non in quella della politica politicante, il Partito Socialista di Unità Proletaria era pronto a votare «con perfetta lealtà» articoli come quello in cui si accettava la proprietà privata (per la precisione, la si riconosceva e garantiva, assieme alla sua funzione sociale), vedendo in essi l’«espressione della complessa realtà oggi in atto».
La legge fondamentale dello Stato avrebbe dovuto esprimere perciò non solo il compromesso tra i partiti e le tradizioni politiche del paese, né la giustapposizione di illuminismo e mazzinianismo (una fusione di cui il progetto dei 75 recava ancora l’impronta nei «diritti e doveri del cittadino»), ma anche «il punto di equilibrio delle forze sociali che sono in atto in un determinato momento».
Cosa rappresentano le criptovalute nella fase acuta di crisi del modo di produzione del capitale
Se
è normale che i media più potenti del mondo – Google
e Facebook in testa – continuino a fomentare con
pubblicità ingannevoli e articoli poco credibili la favola
del bitcoin e delle criptovalute, la cosa che più
preoccupa è
che esiste un numero crescente di compagni e compagne che –
spesso a causa di una mancanza di conoscenza delle basi del
socialismo scientifico
– aderiscono con entusiasmo all’idea di criptovaluta
giacché, secondo alcuni di costoro, essa avrebbe una portata
rivoluzionaria, permettendo una emancipazione degli scambi
di merci dall’autorità monetaria borghese.
È già di per sé abbastanza risibile pensare che monete create, ai loro fini, da personaggi molto prossimi alle mafie, al riciclo di denaro sporco, commercio di organi e di esseri umani (e chi più ne ha, più ne metta) possano rappresentare il “dollaro dell’avvenire”. L’affascinante meccanismo tecnico con cui i bitcoin vengono prodotti è un ennesimo giuoco di prestigio con cui si cerca di velare la realtà che vede invece le criptovalute emergere dal ventre più marcio e oscuro del capitalismo moderno.
In questo breve articolo ci proponiamo di fornire alcuni elementi utili, dal nostro punto di vista, a mostrare come le criptovalute non siano altro che un prodotto interno al capitalismo in fase di crisi acuta che viene gestito in maniera solo parzialmente differente, rispetto al passato, dalla classe dominante.
Come riportato da Vox, secondo un recente studio di storici dell’economia esiste una correlazione statistica forte e diretta tra le misure di austerità di Bruning tra il 1930 e 1932 in Germania e l’ascesa al potere del nazismo. L’austerità aiuta colmare le lacune delle tesi classiche sull’affermazione del nazismo, anche se, a detta degli stessi autori, non fu certamente l’unica causa. Questo studio rappresenta comunque un avvertimento per la situazione attuale dell’eurozona: a parità di condizioni, l’austerità favorisce il successo di politiche radicali di destra
Migliaia
di
storici, economisti, sociologi e altri ricercatori hanno
trascorso più di 80 anni cercando di dare un senso
all’improvvisa ascesa al
potere del partito nazista.
La spiegazione standard è che gli elettori tedeschi si riversarono sul partito nel 1932 e nel 1933 in risposta alle sofferenze della Grande Depressione, alla quale i partiti convenzionali non riuscirono a porre fine. Ma altri hanno cercato di spiegare il colpo di stato di Hitler, in tutto o in parte, facendo riferimento all’ossessione della cultura tedesca per l’ordine e l’autorità, a secoli di virulento antisemitismo tedesco e alla popolarità delle associazioni locali come quelle dei veterani, i circoli di scacchi e di canto corale che i nazisti usarono per facilitare il reclutamento.
Un nuovo articolo di un gruppo di storici dell’economia si concentra su un altro colpevole: l’austerità, e in particolare il pacchetto di duri tagli alle spese e di aumenti delle tasse che il cancelliere conservatore tedesco Heinrich Brüning promulgò tra il 1930 e il 1932.
Intervista a Guglielmo Carchedi sulle caratteristiche del lavoro mentale, della produzione di conoscenza in Internet e sulla validità della teoria del valore anche per la produzione di conoscenza
Guglielmo Carchedi,
economista marxista di fama internazionale, è stato fra
coloro che più radicalmente hanno combattuto le
interpretazioni di tipo neoricardiano del Capitale di
Marx, contestando la determinazione simultanea
– à la Sraffa – del saggio del profitto, dei prezzi di
produzione dei fattori produttivi e
dei prodotti. Introducendo nella sua analisi il
fattore tempo e interpretando la teoria del valore di Marx
come un sistema di non equilibrio, ha
mostrato che tale interpretazione consente di superare
tutte le obiezioni fatte al procedimento marxiano di
trasformazione dei valori in prezzi di
produzione. Insieme a Alan Freeman ha curato e pubblicato
un volume che è una pietra miliare di questa critica [1].
Ha letto anche, sempre con lenti marxiane, le caratteristiche di questa crisi economica, producendo tra l'altro un'analisi di classe delle contraddizioni insite nel processo di integrazione economica europea [2]. Recentemente ha dato un contributo teorico importante [3] per controbattere molte teorie di moda, sul lavoro cognitivo e su Internet in particolare, tendenti oggettivamente a disarmare la classe lavoratrice espungendone la componente dei lavoratori mentali e sostenendo l'inapplicabilità della teoria del valore al lavoro mentale. Insomma il suo contributo a confutare i “confutatori” ci consente di parlare ancora di pluslavoro e plusvalore e di individuare ancora nella classe lavoratrice il soggetto principale di un possibile superamento del modo di produzione capitalistico.
James O’Connor è ben conosciuto, prima che
per la sua proposta di un approccio “ecomarxista”, per la
sua
analisi della crisi fiscale dello stato. Di qui, l’estrema
attualità di un autore che cerca di esaminare, dal punto
di vista di un
marxismo “critico”, problemi che al tempo in cui scrive
sono “emergenti” e che oggi sono autentiche “emergenze”.
In entrambi i casi, O’Connor osserva come il capitale
esporti le proprie contraddizioni fuori dai ristretti
confini della produzione, per
ritrovarsi ad affrontarle quindi nel proprio ambiente: la
produzione capitalistica funziona, da un certo punto di
vista, come la macchina di Carnot,
incapace di generare movimento senza esportare disordine
al di fuori dei propri confini. Ma, diversamente dalla
macchina di Carnot, che continua a
compiere gli stessi movimenti, ci troviamo qui di fronte a
processi storici, dove il capitalismo si espande
colonizzando nuovi ambiti e nuovi
territori, per ritrovarvi di volta in volta le proprie
stesse contraddizioni. Un discorso di questo genere si
colloca, in realtà, a pieno
titolo sulla scia di un complesso di riflessioni
sull’imperialismo, a partire da Hobson, Lenin e Rosa
Luxemburg.
In ogni caso, esiste un filo rosso che unisce l’autore della Crisi fiscale dello stato, nei primi anni settanta, all’autore di Natural Causes un quarto di secolo dopo. Il filo rosso può essere individuato nell’analisi dei rapporti tra capitalismo, stato e movimenti sociali (dai movimenti di protesta degli anni sessanta ai movimenti ecologici degli anni ottanta e novanta).
China Miéville, OTTOBRE. Storia della Rivoluzione russa, Nutrimenti 2017, pp. 416, € 19,00
Voglio
chiudere
questo centenario di scarse e, ancor più, confuse
celebrazioni parlando di uno dei pochi testi originali ed
interessanti pubblicati
dall’editoria italiana nel corso dell’anno tra quelli
dedicati alla ricostruzione degli avvenimenti che
condussero alla Rivoluzione di
Ottobre. Non a caso il testo proviene dal mondo
anglo-sassone la cui tradizione storiografica, nel corso
degli anni, ha continuato a dedicare grande
attenzione ad uno degli episodi destinati a fondare il
‘900 e il suo immaginario sociale, culturale e politico.
Forse per questo motivo, il testo non è opera di uno storico tradizionale e non è figlio soltanto di un impegno militante, ma proviene dalla penna di uno dei più importanti autori di letteratura dark fantasy e SF degli ultimi anni: China Miéville (Londra 1972). Vincitore di numerosi e prestigiosi premi letterari in ambito fantascientifico e horror ( premio Bram Stoker nel 1999; premi Arthur C. Clarke e British Fantasy per il 2001; International Horror Guild e ancora Bram Stoker per il 2003; premi Arthur C. Clarke e Locus per il 2005; premio Locus per il 2008; poi ancora vincitore dei premi Locus, Arthur C. Clarke, British Science Fiction e World Fantasy in anni successivi e infine finalista per il premio Hugo 2012 nella categoria Miglior romanzo), lo scrittore è stato e rimane però ancora militante della sinistra radicale inglese.
Anche Marx fa
ricorso a Shakespeare per
parlare dell'estraneità della lingua, della lingua come
qualcosa che ossessiona, che non è mai del tutto
integrata. Harald Weinrich lega
insieme Shakespeare e Goethe nell'analogia del francese
visto come lingua della menzogna. Derrida, da dentro tale
lingua, in "Spettri di
Marx" commenta "Il 18
brumaio" di Marx, soprattutto per quel
che riguarda la parte in cui Viene detto che
«indossa la maschera dell'apostolo Paolo»,
allo stesso modo in cui la Rivoluzione del 1789-1814
«ha indossato
alternativamente come quelle della Repubblica romana e
quella dell'Impero romano.»
Si può qui ricordare che nel suo saggio dedicato a Lutero, Aby Warburg affronta quella figura storica mettendo in evidenza la sua dimensione di traduttore e di mediatore culturale (allo stesso modo di Erasmo, Lutero è stato uno dei pochi a dominare il greco nel XVI secolo, traducendo, a partire dal 1921, il Nuovo Testamento in tedesco). Lutero, in quanto operatore della differenza sia linguistica che ideologica, opera sui passaggi, sulle contaminazioni: «Attraverso la mediazione fedele di quelle vie migratorie che portano l'ellenismo in Arabia, in Spagna, in Italia e in Germania», scrive Warburg, «gli dei planetari sono sopravvissuti nelle parole e nelle immagini come divinità viventi», e più avanti: «L'astrologo dell'epoca della Riforma attraversa questi due estremi opposti - l'astrazione matematica ed il vincolo culturale -, irreconciliabili per il naturalista di oggi giorno, come se fosse il punto di inversione di uno stato d'animo omogeneo e di un'ampia oscillazione» (Aby Warburg, Divinazione antica pagana in testi e immagini dell'età di Lutero).
Gentiloni ha annunciato alla vigilia del Natale, in sordina ed in mezzo alla distrazione dei regali natalizi, l'intervento in Niger. Ma la reazione politica al momento non è stata incisiva e si perde nella solita retorica dell'intervento umanitario per stabilizzare il paese. Ma la verità è un'altra
L’annuncio
dell’intervento
italiano in Niger, fatto da Gentiloni su una portaerei,
ha colto di sorpresa solo gli osservatori più distratti.
La scorsa estate, nel
periodo del giro di vite Minniti sugli sbarchi dalla
Libia, il governo del Niger era già stato accolto
a palazzo Chigi. Motivo
ufficiale: una serie di discussioni, e di richieste di
finanziamento da parte del paese africano, legate alla
questione del contenimento dei
flussi migratori. Minniti infatti, all’epoca (e
non solo), sosteneva che le frontiere della Ue
coincidessero con la Libia e che,
proprio per quello, rafforzare la vigilanza in Niger
avrebbe significato un alleggerimento dei problemi alla
frontiera libica.
Naturalmente l’ovvietà di un Niger devastato dalle crisi idriche (si veda qui) e quindi produttore di immigrazione di massa in fuga verso l’Europa, è ufficialmente negata. Perchè per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza. Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger vediamo che non comprende il solo paese in questione.

In Europa è in atto una unione
tra 27 stati, con una sezione rinforzata che adotta una moneta
comune a 19 Paesi. Cosa s’intende per “Unione”? Nei fatti,
l’Unione europea è una confederazione. Una confederazione
altro non è che una alleanza intorno ad uno o più aspetti
della
politica interstatale. Tali alleanze sono giuridicamente
regolate da un trattato o da una rete di trattati. Una
confederazione, nonostante
l’assonanza, non ha nulla a che fare con una federazione. Una
federazione è un modo di organizzare internamente uno stato
sovrano mentre
nella confederazione gli stati associati rimangono sovrani
individuali tranne che per le questioni che hanno deciso di
mettere assieme
nell’alleanza. Nessuno al momento ha dichiarato, né sembra
avere intenzione ed obiettivo, di voler fare della
confederazione europea una
futura federazione[1].
Il perno del piano confederale europeo, non è la Germania, è la Francia. L’ Unione europea è in primis, è in essenza e ragion d’essere, il trattato di pace tra Francia e Germania, convivenza storicamente difficile che ha segnato la storia europea negli ultimi due secoli. Lo stato della relazione tra Francia e Germania è oggi in un impasse. La Francia ha superato la crisi politica di una paventata affermazione delle forze politiche più nazionaliste e critiche su i prezzi di sovranità pagati da Parigi per serrare Berlino in una rete di condivisioni che senza portare ad alcuna effettiva fusione che ripetiamo, in realtà nessuno vuole, garantisse l’impossibilità di ritrovarsi in una situazione di reciproco conflitto.
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L’ultima frontiera del
totalitarismo del capitalismo assoluto è il monopolio del
tempo. I totalitarismi del novecento hanno organizzato il
tempo dei loro sudditi, lo
hanno reso funzionale ai desideri di onnipotenza, di
trasformazione eternizzante del presente. Tale operazione
operava nel tempo, nella carne dei
sudditi. Il presente era giustificato nella sua eternità, in
quanto sintesi finale del passato volto verso il futuro: il
fascismo rendeva
ipostasi il presente, in quanto destino segnato dall’impero
romano, pertanto l’epoca di mezzo doveva essere cancellata; si
pensi alle
operazione urbane a Roma, durante il fascismo, per
ricongiungere “il nuovo che avanzava” con i monumenti che
rammentavano la grandezza del
passato come il Colosseo. Il piccone demolitore di Piacentini,
l’architetto del regime, nel 1931 doveva ridisegnare il tempo
della storia, ma
c’era una storia ancora… bugiarda, una storia che esigeva un’
improbabile dialettica. L’homo novus che il fascismo
auspicava era l’uomo che avrebbe abbandonato la tradizione
italica per rinnovarla in senso biologico. La guerra di
Etiopia fu tra i tanti fini
progettati dal Fascismo l’aperta sperimentazione per
verificare se, dopo un ventennio circa, l’homo novus
si fosse concretizzato.
Renzo De Felice nei suoi studi dimostra che la differenza tra
nazismo e fascismo consiste, anche, nel diverso disporsi verso
il parametro del tempo:
il fascismo si orienta verso il futuro, mentre il nazismo
verso il passato.
Non saremo mai abbastanza grati al Corriere della Sera per la sua esistenza e per le cose che scrivono i suoi editorialisti. Essi infatti ci facilitano il compito nell’individuare i nemici, le cose che pensano, quello che vogliono e il senso profondo dell’inimicizia tra classi e interessi sociali contrapposti.
L’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere del 2 dicembre (“I politici e la cuoca di Lenin”), ci fornisce tutto il materiale utile per riaffermare, anche nel XXI Secolo, il senso e il segno del conflitto di classe nel nostro e negli altri paesi, alle prese con con classi dominanti ispirate dal liberalismo politico e dal liberismo economico.
L’editoriale del Corriere comincia e conclude con una tesi: il governo è roba da competenti. Di solito questi sono solo i “simili” ai proprietari e ai giornalisti del Corriere stesso. Chi rimette in discussione tale asimmetria è un incompetente, un avventurista, un nemico mortale. E’ una ideologia talmente intrisa della propria pretesa superiorità morale (e del senso di una sorta di destino manifesto per il dominio dei “borghesi”) che cercano di insinuarla come dogma anche nella scuola, una istituzione universale nata per dare opportunità e visioni più ampie di quelle dell’homo economicus ispirate dai bocconiani e dai loro simili.
La narrazione ufficiale sulle manifestazioni in Iran sta seguendo il protocollo obbligato in questi casi. Non manca ovviamente la solita ragazza che si ribella al regime rifiutando di mettersi il velo. Secondo le regole ferree dell’istupidimento propagandistico, niente di meglio che propinare una fiaba edificante e piena di buoni sentimenti. Il tutto viene narrato in modo abbastanza vago e impreciso, tanto da risultare inverificabile.
Il presidente iraniano Rohani ha dunque chiuso con una rogna un 2017 che era stato per lui pieno di trionfi. Rohani, capo dell’ala clepto-clericale e affaristica del regime iraniano, era stato rieletto nel maggio scorso e la sua vittoria elettorale fu salutata da un balzo della Borsa di Teheran. Appena un paio di mesi fa Rohani aveva anche annunciato e celebrato, insieme con Assad, la vittoria militare in Siria sul cosiddetto “Isis-Daesh”, cioè sui mercenari americo-sauditi.
Uno dei maggiori problemi che ha dovuto affrontare Assad in Siria è stata la presenza ostile delle ONG, tra l’altro sempre pronte ad accusare il regime di ogni nefandezza. In particolare, due anni fa Assad, in sede ONU, ha accusato esplicitamente l’ONG “Medici senza Frontiere” di essere gestita dai servizi segreti francesi.
Si sa, ogni protesta “incolore” somma molteplici e contraddittorie ragioni. Nel corso degli anni il Medioriente è stato terreno di sperimentazione di varie forme di proxy wars, conflitti a intensità variabile dove a contendersi il bottino erano per lo più referenti internazionali in lotta per mezzo di agenti locali. Se c’è un dato che emerge dal ventennio di proteste e rivolte che hanno caratterizzato il mondo arabo, questo è il loro carattere dipendente: ogni movimento è finito col servire interessi esterni alle stesse popolazioni mobilitate. La mancata autonomia della protesta popolare araba è un fatto che impone di volta in volta una sua valutazione.
Districarsi nell’interpretazione dei fenomeni di protesta mediorientali è per questo decisamente impervio. Il rischio è di scadere nel complottismo come lente attraverso la quale guardare ogni fenomeno sociale non apertamente antimperialista o, al contrario, rimanere affascinati dalla piazza senza coglierne le sfumature politiche (sfumature che però appaiono fondamentali per il futuro di quelle stesse popolazioni). Fanno ad ogni modo riflettere le parole di Jamileh Kadivar, ex deputata del parlamento iraniano e protagonista del “movimento” di protesta del 2009 (definito “Onda verde”), intervistata ieri dal Corriere della Sera. Alla domanda se «queste proteste siano fomentate da agenti stranieri», la risposta fornita appare fin troppo esplicita: «Inizialmente i manifestanti urlavano contro Rouhani.
Sono stato assunto alla Direzione Pubblicità e Stampa dell’Olivetti nel gennaio 1964 e ci sono rimasto poco, due anni soltanto. Avevo incontrato Franco Fortini nelle riunioni di redazione dei «Quaderni Rossi» e dei «Quaderni Piacentini», quando il suo rapporto con l’azienda di Ivrea si era già concluso. Adriano Olivetti era morto nel 1960, la sua eredità stava per essere smantellata ma quattro anni dopo, se c’era un luogo dove la sua memoria era custodita ancora con venerazione, quello era la Direzione Pubblicità e Stampa in via Clerici, a Milano, all’ultimo piano. La dirigeva Riccardo Musatti e per segretaria aveva quella che era stata la segretaria personale di Adriano, una figura leggendaria in azienda, partigiana combattente, un pezzo di donna che m’incuteva soggezione ed alla quale non ero proprio simpatico.
Non ho avuto pertanto esperienza diretta del rapporto di Franco con l’Olivetti, tra di noi ne abbiamo parlato pochissimo, perché quando entrai all’Olivetti s’era già consumata la frattura nei «Quaderni Rossi» ed io avevo seguito Mario Tronti e Toni Negri nella preparazione di «Classe Operaia» mentre lui era rimasto legato ai seguaci di Panzieri che avrebbero fatto uscire ancora alcuni numeri di «Quaderni Rossi». Le nostre occasioni d’incontro erano diminuite, restavano quelle officiate da Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio.
Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi.
Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate.
In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale.
Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi, i consumi, questo produce nuovi fallimenti e così via. Peraltro la flessione occupazionale, in termini lineari, produce anche una contrazione del gettito fiscale, con il risultato di spingere ad una nuova stretta per mantenere costante il gettito. E di questo passo si fa bancarotta.
Ormai è chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto. Una personale opinione? No, fornirò tutti i dati perché sia concreta
Il 20 dicembre, I 28 ministri
europei
dell’Ambiente si sono incontrati a Bruxelles per discutere il
piano per la riduzione delle emissioni di CO2 preparato dalla
Commissione, in
accordo con le decisioni della Conferenza di Parigi sui
cambiamenti climatici. Bene, è ormai chiaro che abbiamo perso
la battaglia per
mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto.
Ora, sicuramente questa di seguito può essere considerata la mia personale opinione, priva di obiettività. Per questo fornirò molti dati, elementi storici e fatti, perchè sia concreta. I dati e i fatti hanno una buona qualità: concentrano l’attenzione su ogni dibattito, mentre le idee no. Quindi tutti voi che non amate i fatti, per favore smettete di leggere qui. Vi risparmierete un articolo noioso, come probabilmente sono tutti i miei articoli, perchè non sto cercando di intrattenere ma di sensibilizzare. Se smettete di leggere, perderete inoltre l’opportunità di conoscere il nostro triste destino.
Come è cosa comune in politica oggigiorno, gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori e sulla visione.
Da un po’
di tempo Facebook funziona in modo strano. Account congelati
o cancellati senza apparente motivo, altri inibiti a
condividere link o contenuti propri
per settimane o mesi. Senza una spiegazione, se non un vago
riferimento alle “regole della community”. Senza che venisse
nemmeno indicata
quale regola fosse stata violata. Insomma: una selezione
arbitraria di cosa poteva essere fatto circolare oppure no
che ha costretto a individuare nei
contenuti stessi la ragione della “censura” feisbukkiana.
Molti hanno a quel punto segnalato che il “blocco” era arrivato subito dopo aver postato o rilanciato notizie provenienti dalla Palestina. Specie dopo le proteste innescate dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendo di fatto questa come capitale dello Stato ebraico (uno Stato confessionale, dunque, come l’Arabia Saudita o l’Iran), su cui i palestinesi non dovrebbero più avere pretese.
Poi questa inchiesta di Glenn Greenwald è arrivata a confermare quanto avevamo cominciato a sospettare.
* * * *
Già a settembre 2016 avevamo evidenziato che alcuni rappresentanti della piattaforma Facebook stavano incontrando alcuni delegati del governo Israeliano, per stabilire la cancellazione di un numero di accounts palestinesi accusati di “sobillazione”.
Con l’assemblea del 2 dicembre, la Piattaforma Eurostop ha deciso di verificare se ci fossero o meno le condizioni per una partecipazione attiva al percorso della lista elettorale che ha preso il nome Potere al Popolo.
I compagni che hanno avviato questa verifica sono arrivati alla conclusione che tali condizioni c’erano, e con la riunione del Coordinamento nazionale di metà dicembre hanno definitivamente avviato tutti i passi per una partecipazione attiva.
Abbiamo contribuito alla stesura dei 15 punti del programma di Potere al Popolo nel quale ci sono buona parte degli obiettivi fondativi della Piattaforma Eurostop: dalla rottura dell’Unione Europea dei trattati all’uscita dalla Nato, dalle nazionalizzazioni/ripubblicizzazione di banche e aziende strategiche all’amnistia per i reati connessi alle lotte sociali e sindacali. Buona parte non significa tutti. Sul No all’euro ad esempio non si è potuto definire una posizione comune anche se ci sono sensibilità crescenti. E’ evidente che essendo quello di Potere al Popolo un percorso unitario con altre forze si è dovuti convergere su un denominatore comune possibile, così come è stato fatto per le manifestazioni del No sociale lo scorso anno e del 22 ottobre di quest’anno.
Nel discorso di fine anno del Presidente della Repubblica il richiamo alla Costituzione, al legame con l’Europa, all’importanza della fase elettorale e alla responsabilità dei ruoli istituzionali non hanno rappresentato solo frasi di rito ma sono anche un sintomo che lo Stato ha paura perchè sa di non avere soluzioni in mano a fronte di un risentimento che cresce nella massa e che gli anni a venire saranno molto duri, per noi.
Cosa abbiamo scorto di nuovo nel discorso di fine anno, ed in questo caso anche di fine legislatura, fatto dal Presidente della Repubblica a reti unificate? La paura. La paura del futuro che si fa largo anche tra coloro che per un lungo periodo si sentivano al caldo sicuri della propria forza di controllo mediatico e finanziario della massa della popolazione. La gestione del controllo proveniva anche da un ruolo che lo Stato attraverso i propri Governi e le dirigenze ministeriali esprimevano e portavano avanti nel rapporto capitale-lavoro. La globalizzazione ha creato delle circostanze differenti in cui i media sono sempre più difficili da gestire e la finanza con tutta la sua forza economica si è liberata di certi vincoli che la costringevano ad osservare i dettami di Banche Centrali e Governi in carica.
Non so voi, ma io mi son chiesto quale fosse mai l'origine e l'etimologia dell'aggettivo "illiberale".
L'anzianità di servizio e la memoria mi suggeriscono che sia un neologismo...liberale.
E infatti è un' espressione recente, che sta (Treccani) per un'opinione o un regime politico che «contrasta con i principî di libertà che sono il fondamento dello spirito e delle concezioni liberali».
Una parola, che possiede quindi, nativamente, un'indiscutibile connotazione ideologica. Scopro quindi che l'autorevole Cambridge English Dictionary raddoppia la dose di veleno, offrendone un secondo e più insidioso significato. Illiberale è infatti addirittura sinonimo di: intolleranza, mentalità ristretta, oscurantismo, fondamentalismo.
Perché mai, mi chiedo, Lorsignori non vanno al sodo e non usano per i loro nemici, l'aggettivo anti-liberale? Dev'essere che suona politicamente scorretto, e sappiamo quanto questa élite progressista tenga al bon ton politico e al galateo linguistico. Ciò che non deve trarre in inganno.
Il passo dall'aggettivo mellifluo alla vera e propria categoria politica demonizzante è infatti breve. Ecco dunque che da una ventina d'anni l'éliteci martella col concetto di "democrazia illiberale".
Oggigiorno, si mostra assai arduo e, in certo senso, avventato impegnarsi nell’edizione critica di un qualsivoglia testo heideggeriano. Per un verso, infatti, risulta fattualmente complesso riuscire a superare illesi l’intricata trafila burocratica, alla quale deve sottostare un editore per poter riuscire a editare, per i propri tipi, un’opera del filosofo di Messkirch. D’altro canto, le temperie – cronachistiche più che realmente filosofiche – nelle quali è stata coinvolta la figura storica di Martin Heidegger, dall’edizione dei Quaderni neri sino ad oggi, sembra gettare discredito su chiunque voglia ancora tornare ad approfondire il lascito heideggeriano. Tuttavia, l’iniziativa di quegli studiosi, che non si arrendono nell’abbandonare l’essenza più profonda del pensiero alla superficialità delle mode, merita sempre incoraggiamento e attenzione. Il desiderio di ritornare continuamente all’essenza più profonda della meditazione attira infatti la più autentica cura per il pensiero filosofico, cioè quella che non esclude il frutto di una speculazione, individuata da un singolo pensatore, facendo leva sulla discutibile personalità di quello stesso filosofo. Quell’attenzione profonda per la verità si pone piuttosto l’intento di considerare anche le più piccole forme della manifestazione del vero, vale a dire quelle che si possono essere date anche in quello che potrebbe sembrarci il più abietto degli esseri umani.

La figura
di Piero
Sraffa è perlopiù sconosciuta al grande pubblico italiano,
persino a quello più colto; appena più fortunata è la
figura di Antonio Gramsci. Eppure si tratta di due degli
studiosi sociali più straordinari – i più straordinari – che
il
nostro Paese può vantare nel ventesimo secolo. Il volume di
Giancarlo De Vivo (Nella bufera del Novecento – Antonio
Gramsci e Piero
Sraffa tra lotta politica e teoria critica,
Castelvecchi, 2017) apre una serie di squarci sull’interazione
intellettuale, politica e umana
che si stabilì fra i due nei frangenti drammatici del
novecento, come recita l’azzeccato titolo. Il libro non si
rivolge solo ad
accademici e “specialisti”, ma è di grande interesse per ogni
lettore colto.
Gramsci e Sraffa si conobbero, com’è noto, nella Torino dell’immediato primo dopoguerra, entrambe allievi di Umberto Cosmo (come Terracini e Togliatti). I periodi di più intenso colloquio furono dunque quello torinese (1919-1921) e quello romano (1924-1926). Ma mai si interruppe il filo, né nel periodo 1921-24 in cui prima Sraffa (a Londra) e poi Gramsci (a Mosca) furono assenti dall’Italia. Da Londra Sraffa continuò a collaborare all’Ordine Nuovo. Dopo l’arresto di Gramsci nel novembre 1926 Sraffa funse da collegamento con il Partito comunista in esilio. Sino alla concessione della libertà condizionale nel 1934 Sraffa poté purtroppo incontrare Gramsci solo una volta nel 1927, mentre la corrispondenza poté svolgersi solo in maniera indiretta attraverso la cognata del prigioniero, Tatiana Schucht.
Mi associo agli auguri arrivatimi
da tanti
amici per feste debabbonatalizzate, che permettano a tutti,
specie nel Sud del mondo, sottoposto alla predazione e al
genocidio del nuovo
colonialismo,, di festeggiare a casa propria senza i push and
pull factors dei deportatori e, come al solito, per un anno
migliore di questo e
peggiore del successivo. E, soprattutto, senza lo sciroppo
tossico dell’ipocrisia buonista, arma del nemico e metastasi
malthusiana del tempo
sorosiano.
Le feste dei padroni: gabelle e censure
Il regime criptorenzista e mafiomassonico inaugura l’anno nuovo con l’ulteriore potenziamento dell’imperialismo neoliberista e totalitario: 500 professionisti del militarismo sub imperialista italiota in Niger, per allargare le nostre missioni militari al prezzo di €1.504.000.00 sottratti a pensioni, sanità, scuola, ambiente e per assistere Usa e Francia nell’occupazione, distruzione, rapina di quel paese, deposito di uranio e minerali vari. Nuovo capitolo dell’espansionismo militare USA/Israele/UE nel Sahel e in tutto il continente.
Cominciamo da una nota barzelletta:
un
vecchietto guida sul Grande Raccordo Anulare di Roma,
ascoltando la radio, quando la musica viene interrotta da
un’allerta sul traffico:
“Un’auto sta guidando contromano sul Raccordo, fate molta
attenzione. La polizia sta accorrendo sul posto”. E il nostro
anziano
amico commenta: “Come, una macchina sola? Ma sono tantissime!”
Adesso, diamo uno sguardo al tweet di questo giornalista tedesco:
“Italia e Francia erano solite risolvere i loro problemi svalutando. Ora dovranno imparare a fare diversamente”.
Prima di qualsiasi commento, guardiamo questo grafico, basato sui dati del PACIFIC Exchange Rate Services:
Mi si coinvolge spesso in un dilemma antico: se chi mente sia in buona o cattiva fede, se sia un pollo o una volpe, uno stupido o un furbo. La risposta all'interrogativo parrebbe urgente per formarsi un giudizio su personalità pubbliche e interlocutori, ma non lo è. È anzi un peccato intellettuale, quello di separare i buoni dai cattivi, così antico da essere originario: «Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,17).
Le conseguenze di quella tentazione sono illustrate dal mito e da una lunga produzione filosofica sul libero arbitrio (se cioè si sia liberi di mentire, più in generale di nuocere) e sulla coscienza (se si sia consapevoli di farlo). La conclusione è che il male certamente esiste in causa ed effetto, ma difficilmente in intenzione. Se quest'ultima può essere strumentalmente riconosciuta dal diritto distinguendo in intenzionali, preterintenzionali, premeditate, colpose ecc. le trasgressioni alla legge, il suo primo movente resta comunque e sempre l'idea - vuoi anche malfondata, provvisoria, in certi casi allucinata - di un bene finale che giustifica i mezzi. Così Tommaso d'Aquino nel De Veritate:
La volontà tende infatti naturalmente al bene come al suo proprio oggetto. Se talvolta tende tuttavia al male, ciò accade perché il male le si propone sotto le spoglie di un bene [sub specie boni].
Nel 1963 Tullio De Mauro pubblica la Storia linguistica dell’Italia unita con l’editore Laterza. Non c’è bisogno di ricordare, ancora una volta, quanto questo libro abbia rivoluzionato lo sguardo sulla lingua e, più in generale, sulla società italiana in un Paese in bilico fra spinte conservatrici e riformiste.
La lingua non è l’energia elettrica che si nazionalizza, né la scuola dell’obbligo, che si rende più comprensiva; far passare l’idea che la lingua sia un processo, e che in quanto tale sia passibile di scelte politiche, è essa stessa una vera rivoluzione. La Storia linguistica dell’Italia unita è una scossa nei confronti di chi, Manzoni (frainteso) alla mano, vorrebbe che per l’italiano esistesse una formula unica, da replicare a prescindere dalle trasformazioni storiche e sociali. Ma, secondo De Mauro, «la formula manzoniana racchiudeva ben altro insegnamento che non la famosissima prescrizione di seguire l’uso della parlata fiorentina, quale fu pedissequamente applicata dal ‘manzonismo de gli stenterelli’ e ingenuamente teorizzata dal De Amicis ne L’idioma gentile. Essa poneva in realtà e inverava, col più autorevole esempio, il gran principio del ‘riferirsi al linguaggio parlato come a mezzo di controllo del patrimonio linguistico tradizionale’».
È da poco uscito nelle sale “Come un gatto in tangenziale”, l’ultimo film di Riccardo Milani che racconta l’incontro tra due persone appartenenti a classi sociali differenti. Giovanni (Antonio Albanese) lavora per un think tank europeo che si occupa della riqualificazione delle periferie italiane e vive in un quartiere centrale della Roma bene. Monica (Paola Cortellesi) tira a campare lavorando in una mensa di una casa di riposo e vive a Bastogi, quartiere periferico popolato, secondo il regista, da una fauna affatto variegata di panzoni unti e pigri che odiano il lavoro e amano crogiolarsi nell’autocommiserazione sfoggiando un ottuso antieuropeismo, perché troppo sempliciotti e provinciali per comprendere che la politica “non è tutta un magna magna”. I destini di Giovanni e Monica si incrociano quando i loro figli tredicenni si mettono assieme. Lo sbiadito Giovanni, che in gioventù occupava casa sfitte e si dichiarava comunista, è però molto preoccupato per la sua ricca e perfetta figlioletta: non riesce proprio a tollerare che Agnese frequenti quel coattone impresentabile del figlio di Monica che non sa pronunciare correttamente la “c” e vive in quell’orrendo far west che è Bastogi, quindi comincia a pedinare la figlia. Lo stesso vale per Monica che segue suo figlio Alessio, anche se con motivazioni diverse: il suo è l’atteggiamento della “poraccia” incolta che nutre una profonda sfiducia nei confronti di chiunque non faccia parte della sua classe sociale.
Liberté, égalité, fraternité, il motto nazionale della Repubblica francese, risalente al 1700 e associato alla rivoluzione dell’Ottantanove, sembra essere stato l’ispiratore del nome del nuovo raggruppamento della sinistra italiana, ma con una variante significativa in quanto nella versione di questa sinistra è caduto l’ultimo elemento del motto, fraternité, che per l’appunto è l’elemento veramente rivoluzionario. Voglio dire che liberté ed égalité rientrano a pieno titolo in una teoria liberale della società, mentre fraternité – concetto che ovviamente non va letto in chiave religiosa – va oltre il liberalismo e apre a una società socialista. Ma questo aspetto sembra essere sfuggito – e pour cause, dico io – ai fondatori del nuovo raggruppamento che, per quanto siano contro il renzismo, non per questo assumono il socialismo a loro punto di riferimento. Se così è, niente di nuovo sotto il cielo della sinistra italiana.
«Nasciamo liberi e uguali per ridare dignità al lavoro», ha detto Fassina il 4 dicembre scorso al telegiornale di Rai 3. Una dichiarazione sibillina perché per la dignità del lavoro la libertà e l’uguaglianza senz’altro servono, ma non sono gli elementi dirimenti: occorrerebbe anche sapere a chi appartengono la materia prima e i mezzi di produzione. In altre parole, quale modo di produzione adottare.
L'Internazionale Situazionista in un libro di Gianfranco Marelli
Dopo oltre vent’anni dalla prima edizione (1996) de L’amara vittoria del situazionismo. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957-1972, Gianfranco Marelli torna con una nuova edizione dell’opera (Mimesis, 2017), frutto di una passione e di uno studio mai interrotti. Molti sono i dati e le storie che si aggiungono alla edizione originaria, ma invariato rimane il suo giudizio finale sulla parabola di quella che il filosofo Mario Perniola definisce l’ultima avanguardia del XX secolo: come gli stessi situazionisti nel primo articolo del numero (giugno 1958) della loro rivista parlano di «amara vittoria del surrealismo», giacché «non essendo stata fatta la rivoluzione, tutto ciò che per il surrealismo ha costituito un margine di libertà si è trovato riverniciato e utilizzato dal mondo repressivo che i surrealisti hanno combattuto», così «La fine dell’Internationale Situationniste coincise con il successo del situazionismo, non perché la società contemporanea avesse assorbito, in tutti i suoi strati sociali, l’implacabile critica rivoluzionaria al punto da essersi convinta della verità delle prospettive situazioniste – ché in tal caso sarebbe stata una dolce vittoria – ma perché la mancanza di condizioni realmente rivoluzionarie, dopo i turbinosi avvenimenti del Maggio francese, aveva consentito al dominio capitalista di recuperare ed assimilare le istanze innovative di questo movimento
Per il 2018 regaliamo ai lettori questo saggio filosofico di Paolo Bartolini. Buona lettura
Le basi
filosofiche per pensare il processo di individuazione
In un’epoca “estrema” come la nostra, posta sulla soglia di una transizione storica e antropologica di portata globale, mi pare urgente sondare il legame, sottile e tenace, che tiene insieme pensiero filosofico, psicologie del profondo e critica sociale. L’emergere nelle scienze, nella filosofia e nella teoria politica di un paradigma della complessità sistemico e antiriduzionista,1 denota l’urgenza di una nuova presa in cura della vita che, unendo conoscenza e premura, sapere e sapienza, possa permettere alle diverse culture umane non solo di dialogare fra loro, ma anche di individuare azioni comuni per resistere alla deriva del presente e promuovere nuove forme di giustizia sociale e ambientale.
La sfida che ci aspetta, a ben vedere, è multidimensionale e ha risvolti ecologici, economici, politici e spirituali.
Nulla, d’altronde, può sottrarsi al movimento impetuoso che, già nel presente, prefigura il futuro.
Su Jacobin
un vecchio articolo del 2015 di Jonah Birch “Le
molte vite di Francois
Miterrand”, rilanciato dalla traduzione
di Voci
dall’Estero, e citato anche nelle “Sei
lezioni” di Sergio
Cesaratto (un libro da non perdere), consente di riprendere la
lettura di uno snodo essenziale della storia del novecento: la
repentina svolta verso
il liberismo dei governi francese, nel 1982-3, e inglesi già
nel 1976.
Barba e Pivetti, nel loro “La scomparsa della sinistra in Europa”, sottolineano in proposito che “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti” (Marx). E’ sicuramente giusto, ma la massima è bifronte: le idee dominanti sono quelle che si qualificano come moderne, potenti e giuste al contempo, e che si affermano insieme alla classe che le incarna meglio. Un cambiamento di idee è anche un cambiamento del dominio di una classe, o per meglio dire della creazione del dominio. Ciò che avviene in Francia e Inghilterra è quindi una scelta della classe dominante, prima ancora che delle sue idee.
Con questo cambio di orientamento da una, sia pure parziale, egemonia delle forze del lavoro e quindi della visione, oltre che degli interessi, dei ceti produttivi allargati si passa al dominio del capitale e della sua logica e quindi della visione, oltre che degli interessi, dei rentier e dei ceti speculativi. Un passaggio che si verifica in particolare nel decennio che va dal 1975 al 1985, anche se si dispiega più compiutamente in quello successivo.
Se l'indipendentismo è risultato maggioritario col 47,5% dei voti – vincendo ma non convincendo, fermo ai 2milioni di consensi del 2015 – la vera vincitrice del voto catalano è stata la destra nazionalista spagnola. La sinistra di Catalunya en Comú-Podem ha perso nei quartieri popolari proprio a scapito di Ciudadanos. Ora serve una nuova strategia per uscire dalla polarizzazione dello scontro e da un’impasse che rischia di cronicizzarsi
Una
catastrofe
annunciata: hanno vinto le destre. Ogni analisi sensata del
voto catalano deve assumere questo dato. Una pagina buia per
le sinistre, per el
cambio nel Paese e per la stessa Catalogna che, divisa,
rischia un processo di ulsterizzazione. La sconfitta del
premier Mariano Rajoy (con la
repressione annessa) è un mero contentino. La polarizzazione
dello scontro ha portato, infatti, al trionfo della destra
nazionalista
(Ciudadanos) e della destra indipendentista (Junts
per Catalunya).
Il partito di Albert Rivera, la Podemos di destra come qualcuno la definiva agli albori, ottiene il 25,3% affermandosi come primo partito. L'ex governatore, fuggito in Belgio, Carles Puigdemont conferma, invece, la sua leadership all'interno dell’eterogeneo blocco indipendentista che, nelle elezioni del 21 dicembre, risulta maggioritario in Catalogna.
I partiti indipendentisti (Junts per Catalunya, Esquerra Republicana de Catalunya, Candidatura d’Unitat Popular) mantengono la maggioranza assoluta nel Parlamento di Barcellona (70 deputati su 135, ne avevano 72 nell’ultima legislatura), favoriti dalla legge elettorale che premia le circoscrizioni rurali. Guadagnano circa 100mila voti rispetto al settembre del 2015, ma perdono lo 0,3% per l’altissima partecipazione (79%), dimostrando però che quasi la metà dei catalani (47,5%) difendono ancora l’indipendenza della regione.
Questo è uno dei testi introduttivi all’ebook Città, spazi abbandonati, autogestione, curato dalla redazione di Infoaut sulla base del convegno organizzato il 3 ottobre 2017 a Bologna dal Laboratorio Crash
La metropoli non si fotografa, non si fa fotografare. Si può percorrere e attraversare in un movimento continuo alla ricerca dei punti di crisi e delle fratture nella valorizzazione capitalistica dello spazio urbano. Non si fa fotografare perché è allo stesso tempo un laboratorio della produzione sociale e il palcoscenico di un immenso accumulo di eventi e di conflitti. Una fotografia sarebbe sempre troppo mossa e mancante di prospettiva. La crisi di questo decennio, poi, ha accelerato il cambiamento delle coordinate delle aree metropolitane e degli assetti territoriali: il non-urbano è stato sussunto dall’urbano e la progressiva reificazione dello spazio pubblico, dovuta all’assorbimento di una parte significativa delle relazioni spaziali da parte dei media mainstream, dei social network e delle internet company, si sta traducendo in grandi operazioni di marketing in cui convergono luoghi reali e virtuali in immaginari ibridi e in nuove estetiche metropolitane.
Rigenerare gentrificando
La crisi, con il suo andamento sussultorio, mette in tensione acuta sia la struttura economica sia la società, facendo emerge di nuovo la «questione urbana». Una nuova «questione», rispetto al passato, dove non esiste una linea netta di demarcazione tra il declino e la riorganizzazione degli spazi della produzione e della riproduzione sociale.
Dopo la sfida lanciata dagli Stati Uniti a Cina e Russia per la leadership globale, come affermato dalla nuova National Security Strategy, Vladimir Putin e Xi Jinping rispondono agli Stati Uniti rafforzando il legame fra i loro rispettivi Paesi. Nel suo messaggio di fine anno, con gli auguri ai capi di Stato e di governo di tutto il mondo, il presidente russo, rivolgendosi a Donald Trump, ha invocato “una cooperazione pragmatica orientata verso una prospettiva a lungo termine” che si basi su “uguaglianza e rispetto reciproco come fondamento per lo sviluppo delle relazioni bilaterali”. Pragmatismo che si sostanzia nella volontà di mantenere rapporti incentrati il più possibile sulla collaborazione, ma nella prospettiva di costruire una politica estera che si fondi esclusivamente sugli interessi nazionali. Prospettiva per altro non dissimile da quella prospettata dall’amministrazione Trump, in cui “America first” e “America great” sono chiaramente linee-guida che possono coesistere fino a un certo punto con l’espansione dell’influenza russa nel mondo.
La sfida strategica americana sarà, come detto, rivolta a scardinare la crescita d’influenza di Cina e Russia. Due Paesi che spesso vengono visti come solidi alleati ma che, molto più pragmaticamente, hanno compreso di poter fare blocco in questa movimentata fase di transizione geopolitica in cui gli Usa stanno ricalibrando la loro politica estera.
Due sono i volumi collettivi, in stretta correlazione con la produzione teorica di Roberto Esposito. Si recupera la tradizione nazionale che guarda al tema del linguaggio e alla vocazione pratico-politica
Con due volumi collettivi, Effetto Italian Thought (a cura di Enrica Lisciani-Petrini e Giusi Strummiello, pp. 268, euro 22) e Decostruzione o biopolitica? (a cura di Elettra Stimilli, pp. 142, euro 18) prende l’avvio un ambizioso progetto collegato alla collana Materiali IT della casa editrice Quodlibet, che vorrebbe «rendere conto dell’importanza assunta nel panorama filosofico internazionale dal pensiero italiano contemporaneo («Italian Theory» o «Italian Thought»)».
Il disegno, in stretta correlazione con la produzione filosofica di Roberto Esposito, può essere sintetizzato lungo tre direttrici. In primo luogo, un tentativo di definire in modo più stringente il campo della «Italian Theory», sorto a partire dal successo in ambito internazionale di un certo numero di pensatori italiani, in prevalenza afferenti al cosiddetto post-operaismo: l’Italian Thought sembra voler focalizzare, pur senza esclusioni preconcette, l’attenzione sulla produzione filosofica che si riconosce erede dell’operaismo trontiano e si interseca con la ricerca del «secondo» Foucault biopolitico.
Come sono lontani i giorni delle oceaniche manifestazioni del 1979 contro gli Usa e dell’occupazione della sua ambasciata, con gli europei – la Francia in primis - che gongolavano perché fiutavano affari d’oro con quel paese. Un grande paese, ricco di materie prime, che pretendeva di sottrarsi dalle grinfie dell’imperialismo a Stelle e strisce, per un proprio sviluppo autoctono. E oggi? A distanza di soli 39 anni, dopo una guerra di dieci anni con l’Iraq – sostenuto in quell’infausto atteggiamento dal governo di Saddam Hussein, pro doma sua e per conto dell’impero del Male (gli Usa, sempre loro) – e un poderoso sviluppo economico, la crisi generale e mondiale del modo di produzione capitalistico comincia a bussare prepotentemente anche alle porte di uno dei più importanti paesi mediorientali.
Le scarse notizie riferiscono che la parte maggioritaria delle proteste si stia sviluppando in periferia. Nessuna meraviglia, anzi una ulteriore conferma: è nella logica capitalistica sviluppare le risorse concentrandole nei grandi centri urbani e impoverendo le periferie, specialmente in un paese con la necessità di recuperare un ritardo industriale e tecnologico nei confronti dell’Occidente. E l’Iran per cercare di farsi largo nella concorrenza sempre più agguerrita a livello internazionale deve ridurre drasticamente le spese statali e il costo della mano d’opera del proprio proletariato.
In Catalogna emerge nelle urne la fragilità della sinistra e l’ambiguità dei nazionalismi
Parafrasando Winston Churchill si potrebbe dire, a proposito degli indipendentisti catalani di sinistra: “Tra indipendenza e socialismo avete scelto la prima. Non l’otterrete e non avrete il secondo”.
I risultati elettorali delle elezioni regionali catalane del 21 dicembre mi pare si possa dire abbiano pienamente confermato i dubbi e le cautele in materia di indipendentismo e sinistra di classe. La Cup, Candidatura di Unità Popolare, quasi dimezza il suo capitale di consensi tra il 2015 e oggi, perdendo il 3,5% dei voti; mentre la sinistra non indipendentista della sindaca Ada Colau, CatComu-Podem perde anch’essa seggi nel parlamento di Barcellona. Il risultato non può rendere felici, ma spinge a comprenderne le ragioni.
L’indipendentismo e le sue radici di classe: al sud e al nord del mondo
Dietro i partiti ci sono sempre degli attori più concreti, solidi e meno formali, costituiti dalle classi sociali, dagli uomini e donne che le compongono e dai loro interessi materiali, dalle loro aspirazioni e prospettive. La regola vale anche per i processi di costruzione di uno Stato indipendente.

Una recensione analitica a “Non è lavoro, è sfruttamento”, edito da Laterza (Roma-Bari 2017), che sarà presentato giovedì 11 alle 17.30 alla Biblioteca Comunale di Siena. Qui i dettagli della presentazione
Leggendo la cronaca
quotidiana del declino industriale italiano, non ultimo il
dibattito fra Calenda ed Emiliano sul futuro/passato dell’Ilva
a Taranto, viene in mente una formidabile sentenza di Max
Weber sull’etica spuria di chi dibattendo su tali questioni
parte da una pregiudiziale
pretesa di ragione, un’etica che «invece di preoccuparsi di
ciò che riguarda il politico, vale a dire il futuro e la
responsabilità davanti a esso, si occupa di questioni
politicamente sterili – in quanto inestricabili – come quello
della colpa
commessa nel passato» (Scritti politici, Donzelli,
Roma 1999, p. 219). Non che le colpe e le responsabilità,
specie in sede
penale, non abbiano la loro importanza, ma farle pesare
all’interno di un dibattito politico significa falsificare del
tutto il
politico, offuscare la presa di responsabilità di
fronte al futuro che dovrebbe esserne il compito.
Di fronte al declino industriale italiano il dibattito politico si polarizza così, tristemente, dietro la catena delle colpe e delle responsabilità trasformando concetti e argomentazioni in slogan lanciati fra contrapposte tifoserie: chi ha fatto le riforme contro chi non le ha fatte, chi ha accresciuto il debito pubblico contro chi ha praticato l’ortodossia ipercoerentista dell’austerità, mancando completamente l’obiettivo politico delle questioni.
Per quasi trecentocinquanta anni, i
diritti umani sono
stati un importante, se non dominante, strumento dell’impegno
mirante alla giustizia sociale. Nel corso di buona parte di
questa storia, i
diritti umani son stati invocati al fine di demarcare la
propria posizione sul campo di battaglia. È altrettanto
importante notare che, prima
del XVII secolo, la giustizia sociale veniva promossa, il più
delle volte, attraverso una lingua diversa da quella dei
diritti umani. Se
bisogna dare credito alle Chroniques di Froissart,
le Jacquerie della campagna francese ed i contadini
inglesi coinvolti
nella rivolta del 1381 non possedevano una vera e propria
nozione di diritti umani universali. Tentavano, invece, di
rimpiazzare dei signori ritenuti
iniqui, o facevano appello ai loro reggenti in modo da
ottenere riparazione all’ingiustizia. Essi non reclamavano i
propri diritti –
poiché non ne avevano conoscenza – bensì equità e un
trattamento umano. John Ball, uno dei leader della rivolta
inglese, la
quale giunse a un momento di illusoria “liberazione” contadina
nel 1381, si riferisce abbia predicato: “Veniamo chiamati
servi e
picchiati se siamo lenti al loro servizio, eppure non abbiamo
un signore cui rivolgere le nostre lamentele, nessuno che ci
ascolti e ci renda
giustizia. Andiamo dal Re – egli è giovane – e mostriamogli a
qual punto siamo oppressi, riferiamogli che vogliamo che le
cose
cambino, o altrimenti le cambieremo noi stessi” [1]. Non ci si
appellava, dunque, ad un insieme di diritti, bensì alla
saggezza ed
al senso di giustizia incarnati da un potere superiore, potere
superiore che, per altro, si sarebbe infine rivelato infido.
Come affermato dal
traduttore delle Chroniques, Geoffrey Brereton,
Froissart “non si serve di una parola esattamente
corrispondente di
“eguale”. Invece, ricorre a “tutt’uno” o “tutti insieme” per
indicare un destino condiviso.
L’uguaglianza, sembrerebbe, è una condizione necessaria del
ricorso moderno al concetto di “diritti universali”, priva di
riscontro in Froissart.
Quando,
due o
tre anni fa, la rivista napoletana d’inchiesta Monitor
iniziò a segnalare, con il consueto rigore, le falle nel
rapporto
tra il sindaco di Napoli e i movimenti, il baratro che separa
i proclami rivoluzionari dalla realtà quotidiana, i miraggi di
palingenesi
coltivati da molti militanti e i limiti di quello che sarebbe
diventato il populismo in salsa partenopea, la reazione più
diffusa a sinistra fu
un mix di malcelato fastidio e zeppate rancorose. Uno degli
articoli più contestati, ad esempio, fu una garbata
riflessione sull’alleanza
in chiave ideologica ed elettorale tra primo cittadino e
centri sociali (vecchi e nuovi), le che frasi che circolavano
nell’aria appartenevano
più a riflessi pseudo-polizieschi che alla dialettica
hegeliana: “Ma questi chi sono?”, “Sì, ma cosa fanno loro
per cambiare le cose?”; addirittura un “Perché non li firmano
gli articoli?” – che ovviamente vale solo per i
rompicoglioni e mai per gli amici, che possono nascondersi
dietro nickname improbabili e nomi collettivi -, e
l’immancabile “E allora
ditelo, che volete il ritorno di Bassolino e del Pd!” i
Sono passati 18 mesi da allora, ma sembrano cinque anni: la durata di un’intera legislatura. Questo perché, non appena De Magistris fu rieletto nella primavera del 2016, l’atmosfera era ancora molto diversa.
Nel
XX secolo gli operai e i comunisti hanno esercitato una
eccezionale influenza nelle vicende italiane. La storia del
PSI, quella del PCI e
quella della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta
espongono un patrimonio imponente di esperienze che ha avuto
innanzitutto il merito di
collegare inestricabilmente la dimensione politica e quella
sociale dell’attività delle classi subalterne. La lotta per
i miglioramenti
reali della vita quotidiana si saldava a un orizzonte di
liberazione globale che conferiva forza alle battaglie
sindacali e alla richiesta di riforme.
Non a caso, quando questo orizzonte è venuto meno, è mancata
anche la spinta all’unità, l’intelligenza pratica,
l’analisi della realtà e l’innovazione organizzativa. Ne è
scaturita una condizione di minorità e di sudditanza che
ha abituato alla frammentazione, alla sfiducia, e alla
confusione culturale. In una parola, da molti anni a questa
parte il proletariato italiano
risulta privo di quella indipendenza e autorevolezza
politica che ne avevano fatto uno dei protagonisti maggiori
della storia europea e uno dei punti
di riferimento indiscussi del dibattito rivoluzionario
internazionale.
Fino a qualche settimana fa, le elezioni politiche previste per il marzo del 2018 non sembravano proporre alcun elemento di novità sostanziale. Il processo apparentemente tormentato di riaccorpamento alla sinistra del PD di una nuova formazione politica zeppa di ex-ministri e sottosegretari, di magistrati di alto rango e di vecchi e nuovi professionisti delle istituzioni, è apparso sin da subito un mero episodio trasformistico tutto interno alla vicenda di un ceto politico irreparabilmente scollegato dalle classi popolari.
I grillini
amano sorprenderci sempre, in materia di democrazia
rappresentativa. Li avevamo lasciati, all’inizio di questa
legislatura, fermi nella loro
idea che il voto di fiducia non fosse indispensabile alla
nascita di un governo: basta trovare le maggioranze su ogni
singolo provvedimento, dicevano,
chi vuole appoggiarci ci voti quando vuole. E per cinque anni
hanno denunciato come un crimine più o meno tutti i voti di
fiducia. Ora invece,
sorpresa, la fiducia diventa una sorta di totem. Che cosa è
successo?
Il nuovo Codice etico e il Regolamento per la selezione dei candidati alle elezioni 2018 adottati dal Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni, e resi pubblici in questi giorni, contengono alcune novità. Per esempio, l’avviso di garanzia non è più un’infamia che impedisce la candidatura: saranno gli organi di garanzia a decidere caso per caso. Una ragionevole revisione dell’intransigenza originaria. Oppure, un altro punto, ingiustamente criticato: le candidature per i collegi uninominali non vengono decise dalla rete, ma dal Capo Politico del Movimento. Partitocrazia? Forse, ma tutto sommato meglio così: in fondo è sensato che le candidature siano definite politicamente, e non con elezioni online di dubbia legittimità democratica.
Da qualche
tempo si è riacceso il conflitto nel comparto carni modenese.
O meglio: riemerge la situazione di cronico malessere che cova
da almeno due
decenni sotto le ceneri, sbottando rabbia e mobilitazione.
Quando parliamo di questo territorio – l’angolo di provincia
compreso tra
Castelnuovo, Castelvetro, Spilamberto, Vignola – stiamo
parlando di un pezzo importante del Pil italiano, circa tre
miliardi di euro, realizzati
da 179 aziende, 5000 addetti, con 8 milioni di quintali
all’anno di carni fresche lavorate e salumi: una macchina
produttiva potente che importa
dagli allevamenti del nord Europa 200 camion di suini
macellati ogni giorno – la materia prima che, lavorata in
loco, rifornirà tutti i
grandi marchi nazionali ed esteri.
Il monoteismo del prosciutto regna sovrano, in questi luoghi; tra i miasmi degli stabilimenti aleggia un vago sentore calvinista – impresa e denaro come manifestazioni della benevolenza divina. Un maialino bronzeo troneggia nella piazza centrale di Castelnuovo Rangone – omaggio a se stessa, di una comunità sobria, laboriosa e danarosa, che vede il suino come metafora della vita.
La figura
di Piero
Sraffa è perlopiù sconosciuta al grande pubblico italiano,
persino a quello più colto; appena più fortunata è la
figura di Antonio Gramsci. Eppure si tratta di due degli
studiosi sociali più straordinari – i più straordinari – che
il
nostro Paese può vantare nel ventesimo secolo. Il volume di
Giancarlo De Vivo (Nella bufera del Novecento – Antonio
Gramsci e Piero
Sraffa tra lotta politica e teoria critica,
Castelvecchi, 2017) apre una serie di squarci sull’interazione
intellettuale, politica e umana
che si stabilì fra i due nei frangenti drammatici del
novecento, come recita l’azzeccato titolo. Il libro non si
rivolge solo ad
accademici e “specialisti”, ma è di grande interesse per ogni
lettore colto.
Gramsci e Sraffa si conobbero, com’è noto, nella Torino dell’immediato primo dopoguerra, entrambe allievi di Umberto Cosmo (come Terracini e Togliatti). I periodi di più intenso colloquio furono dunque quello torinese (1919-1921) e quello romano (1924-1926). Ma mai si interruppe il filo, neppure nel periodo 1921-24 in cui prima Sraffa (a Londra) e poi Gramsci (a Mosca) furono assenti dall’Italia. Da Londra Sraffa continuò a collaborare all’Ordine Nuovo. Dopo l’arresto di Gramsci nel novembre 1926 Sraffa funse da collegamento con il Partito comunista in esilio. Sino alla concessione della libertà condizionale nel 1934 Sraffa poté purtroppo incontrare Gramsci solo una volta nel 1927, mentre la corrispondenza poté svolgersi solo in maniera indiretta attraverso la cognata del prigioniero, Tatiana Schucht.
Mi associo agli auguri arrivatimi
da tanti
amici per feste debabbonatalizzate, che permettano a tutti,
specie nel Sud del mondo, sottoposto alla predazione e al
genocidio del nuovo
colonialismo,, di festeggiare a casa propria senza i push and
pull factors dei deportatori e, come al solito, per un anno
migliore di questo e
peggiore del successivo. E, soprattutto, senza lo sciroppo
tossico dell’ipocrisia buonista, arma del nemico e metastasi
malthusiana del tempo
sorosiano.
Le feste dei padroni: gabelle e censure
Il regime criptorenzista e mafiomassonico inaugura l’anno nuovo con l’ulteriore potenziamento dell’imperialismo neoliberista e totalitario: 500 professionisti del militarismo sub imperialista italiota in Niger, per allargare le nostre missioni militari al prezzo di €1.504.000.00 sottratti a pensioni, sanità, scuola, ambiente e per assistere Usa e Francia nell’occupazione, distruzione, rapina di quel paese, deposito di uranio e minerali vari. Nuovo capitolo dell’espansionismo militare USA/Israele/UE nel Sahel e in tutto il continente.
Cominciamo da una nota barzelletta:
un
vecchietto guida sul Grande Raccordo Anulare di Roma,
ascoltando la radio, quando la musica viene interrotta da
un’allerta sul traffico:
“Un’auto sta guidando contromano sul Raccordo, fate molta
attenzione. La polizia sta accorrendo sul posto”. E il nostro
anziano
amico commenta: “Come, una macchina sola? Ma sono tantissime!”
Adesso, diamo uno sguardo al tweet di questo giornalista tedesco:
“Italia e Francia erano solite risolvere i loro problemi svalutando. Ora dovranno imparare a fare diversamente”.
Prima di qualsiasi commento, guardiamo questo grafico, basato sui dati del PACIFIC Exchange Rate Services:
In Europa è in atto una unione
tra 27 stati, con una sezione rinforzata che adotta una moneta
comune a 19 Paesi. Cosa s’intende per “Unione”? Nei fatti,
l’Unione europea è una confederazione. Una confederazione
altro non è che una alleanza intorno ad uno o più aspetti
della
politica interstatale. Tali alleanze sono giuridicamente
regolate da un trattato o da una rete di trattati. Una
confederazione, nonostante
l’assonanza, non ha nulla a che fare con una federazione. Una
federazione è un modo di organizzare internamente uno stato
sovrano mentre
nella confederazione gli stati associati rimangono sovrani
individuali tranne che per le questioni che hanno deciso di
mettere assieme
nell’alleanza. Nessuno al momento ha dichiarato, né sembra
avere intenzione ed obiettivo, di voler fare della
confederazione europea una
futura federazione[1].
Il perno del piano confederale europeo, non è la Germania, è la Francia. L’ Unione europea è in primis, è in essenza e ragion d’essere, il trattato di pace tra Francia e Germania, convivenza storicamente difficile che ha segnato la storia europea negli ultimi due secoli. Lo stato della relazione tra Francia e Germania è oggi in un impasse. La Francia ha superato la crisi politica di una paventata affermazione delle forze politiche più nazionaliste e critiche su i prezzi di sovranità pagati da Parigi per serrare Berlino in una rete di condivisioni che senza portare ad alcuna effettiva fusione che ripetiamo, in realtà nessuno vuole, garantisse l’impossibilità di ritrovarsi in una situazione di reciproco conflitto.
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L’ultima frontiera del
totalitarismo del capitalismo assoluto è il monopolio del
tempo. I totalitarismi del novecento hanno organizzato il
tempo dei loro sudditi, lo
hanno reso funzionale ai desideri di onnipotenza, di
trasformazione eternizzante del presente. Tale operazione
operava nel tempo, nella carne dei
sudditi. Il presente era giustificato nella sua eternità, in
quanto sintesi finale del passato volto verso il futuro: il
fascismo rendeva
ipostasi il presente, in quanto destino segnato dall’impero
romano, pertanto l’epoca di mezzo doveva essere cancellata; si
pensi alle
operazione urbane a Roma, durante il fascismo, per
ricongiungere “il nuovo che avanzava” con i monumenti che
rammentavano la grandezza del
passato come il Colosseo. Il piccone demolitore di Piacentini,
l’architetto del regime, nel 1931 doveva ridisegnare il tempo
della storia, ma
c’era una storia ancora… bugiarda, una storia che esigeva un’
improbabile dialettica. L’homo novus che il fascismo
auspicava era l’uomo che avrebbe abbandonato la tradizione
italica per rinnovarla in senso biologico. La guerra di
Etiopia fu tra i tanti fini
progettati dal Fascismo l’aperta sperimentazione per
verificare se, dopo un ventennio circa, l’homo novus
si fosse concretizzato.
Renzo De Felice nei suoi studi dimostra che la differenza tra
nazismo e fascismo consiste, anche, nel diverso disporsi verso
il parametro del tempo:
il fascismo si orienta verso il futuro, mentre il nazismo
verso il passato.
Ormai è chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto. Una personale opinione? No, fornirò tutti i dati perché sia concreta
Il 20 dicembre, I 28 ministri
europei
dell’Ambiente si sono incontrati a Bruxelles per discutere il
piano per la riduzione delle emissioni di CO2 preparato dalla
Commissione, in
accordo con le decisioni della Conferenza di Parigi sui
cambiamenti climatici. Bene, è ormai chiaro che abbiamo perso
la battaglia per
mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto.
Ora, sicuramente questa di seguito può essere considerata la mia personale opinione, priva di obiettività. Per questo fornirò molti dati, elementi storici e fatti, perchè sia concreta. I dati e i fatti hanno una buona qualità: concentrano l’attenzione su ogni dibattito, mentre le idee no. Quindi tutti voi che non amate i fatti, per favore smettete di leggere qui. Vi risparmierete un articolo noioso, come probabilmente sono tutti i miei articoli, perchè non sto cercando di intrattenere ma di sensibilizzare. Se smettete di leggere, perderete inoltre l’opportunità di conoscere il nostro triste destino.
Come è cosa comune in politica oggigiorno, gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori e sulla visione.
Da un po’
di tempo Facebook funziona in modo strano. Account congelati
o cancellati senza apparente motivo, altri inibiti a
condividere link o contenuti propri
per settimane o mesi. Senza una spiegazione, se non un vago
riferimento alle “regole della community”. Senza che venisse
nemmeno indicata
quale regola fosse stata violata. Insomma: una selezione
arbitraria di cosa poteva essere fatto circolare oppure no
che ha costretto a individuare nei
contenuti stessi la ragione della “censura” feisbukkiana.
Molti hanno a quel punto segnalato che il “blocco” era arrivato subito dopo aver postato o rilanciato notizie provenienti dalla Palestina. Specie dopo le proteste innescate dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, riconoscendo di fatto questa come capitale dello Stato ebraico (uno Stato confessionale, dunque, come l’Arabia Saudita o l’Iran), su cui i palestinesi non dovrebbero più avere pretese.
Poi questa inchiesta di Glenn Greenwald è arrivata a confermare quanto avevamo cominciato a sospettare.
* * * *
Già a settembre 2016 avevamo evidenziato che alcuni rappresentanti della piattaforma Facebook stavano incontrando alcuni delegati del governo Israeliano, per stabilire la cancellazione di un numero di accounts palestinesi accusati di “sobillazione”.

La
straordinaria e ininterrotta sequela di abbagli, errori,
madornali gaffe, pastrocchi politici, sbandamenti ora a destra
ora a destra,
incapacità di governo, incapacità d’opposizione, che vede
protagonista il M5S, è qualcosa di raro visto in politica. Per
di
più, il fuoco di sbarramento a media unificati – da Repubblica
al Manifesto, dal Fatto al Corriere
– contribuisce a raccontare il M5S come male principale della
politica italiana. Giornalisti pagati unicamente per svelarne
la natura corrotta e
para-nazista trovano alloggio presso ogni testata, ogni
televisione, per non dire delle case editrici, blog,
settimanali. La maggior parte di queste
critiche sono suffragate da fatti incontrovertibili.
L’incapacità del M5S di essere forza politica credibile è un
dato di fatto.
Eppure, da più di cinque anni rimane saldamento il primo
partito italiano. Anche fosse il secondo, o il terzo, il
discorso non cambierebbe. La
Lega o il Pd, Forza Italia o Rifondazione: tutti i soggetti
politici hanno pagato elettoralmente il prezzo della propria
incoerenza e
incapacità, nel presente o in passato. Tutti tranne il M5S.
Chi da anni si accanisce contro il partito di Grillo, svelando
non si sa più
a chi la sua natura reazionaria, ancora oggi non riesce a
spiegare i motivi di questa tenuta elettorale, che è anche una
tenuta politica, se
non dando la colpa all’elettorato.
Condivido con voi l’amabile conversazione che ho avuto stamane. Tutto è partito da questo tweet di una (tra le poche rimaste) sostenitrice del PD.
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Enrica sosteneva che, negli anni bui della sovranità monetaria, la lira era solita dimezzare il suo valore da un giorno all altro.
[Intervento al ciclo “Figure e interpreti del Sessantotto”, coordinato da Pier Paolo Poggio, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2 ottobre 2017, nell’ambito del centenario della nascita di Fortini, pubblicato originariamente da http://www.fondazionecriticasociale.org/]
Quando mi è
stato chiesto di intervenire su Fortini e il ’68 ho pensato
che un modo per affrontare un tema così impegnativo, e con una
bibliografia
tutt’altro che esigua, poteva essere quello di partire da un flash,
da un momento specifico, lasciando alla discussione il compito
di tentare sintesi e svolgere discorsi più ampi. Un episodio
significativo, da leggere nel contesto del lungo lavoro
intellettuale di Fortini,
del suo “impatto” sulla cultura circostante, mi è parso allora
quello che data all’anno precedente, 1967: per la precisione
23 aprile 1967.
Firenze, piazza Strozzi. La piazza è colma di studenti convenuti per una manifestazione contro la guerra del Vietnam. Dal ’65 gli Stati Uniti bombardano il Vietnam del Nord con una intensità che supera di molto quella della campagna contro la Germania nazista: è l’operazione Rolling Thunder, che tuttavia non impedirà, come sappiamo, la vittoria finale dei vietnamiti. Anche a Berlino, a Pechino gli studenti sono in rivolta, e di lì a poco lo saranno a Berkeley (“The Summer of Love”). Proprio quel giorno era arrivata, inoltre, la notizia del colpo di stato in Grecia. Anni dopo, ha scritto Fortini (cito da Notizie sui testi in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, 2003, p. 1794):
L’accelerazione è un tratto caratterizzante della civiltà tardocapitalista ed è, anche, una delle cause principali, se non la principale, della sua natura distruttiva. Il motore che più di ogni altro alimenta questa folle corsa verso le catastrofi – economiche, ambientali, sociali, culturali, antropologiche, politiche e morali – è lo sviluppo tecnologico, anche se la sua debordante potenza si comprende solo tenendo conto delle sue strette relazioni, da un lato con la ricerca del profitto, dall’altro con il persistere di una profonda e diffusa fede nel suo ruolo intrinsecamente positivo; convinzione che, come tutte le fedi irrazionali, è affetta da dissonanza cognitiva, non si lascia cioè intaccare da nessuna smentita empirica.
Due recenti notizie offrono altrettante conferme di questa diagnosi. La prima sta ottenendo da qualche giorno un enorme rilievo internazionale, occupando pagine e pagine di giornali e ampi spazi nei notiziari televisivi: da qualche mese il dorato mondo di Silicon Valley convive con un incubo di cui il resto dell’umanità è venuto a conoscenza solo negli ultimi giorni: i processori sempre più potenti e performanti che sono l’anima dei nostri computer, tablet, smartphone (ma anche dei grandi server aziendali e governativi) sono affetti – e non da ieri bensì da anni! – da due difetti di design (che gli esperti hanno battezzato con i sinistri nomi di Meltdown e Spectre) che li rendono penetrabili da hacker a caccia di dati personali, password, informazioni sensibili (dai conti correnti alle informazioni militari).
Per una volta torno all'antico e rispolvero il blog. Per certe quisquilie un po' pedanti, non mi pare il caso di imbrattare Il Format.
Nei mesi scorsi, a proposito dei poteri del governo Gentiloni, si è letto la qualunque: addirittura, si è visto un accademico, il prof. Bin (quando un professore diventa renziano, immediatamente dimentica qualsiasi senso della misura), scagliarsi addirittura contro un semplice quanto incomprensibile articolo del Fatto Quotidiano.
Niente di male, anche perché il timore sotteso a quelle polemiche - l'approvazione "a camere sciolte" dello ius soli - era evidentemente rivolto ad una circostanza assolutamente irrealizzabile. Di recente, però, la questione si è riproposta sotto un punto di vista più inquietante.
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I rapporti tra la Turchia e le istituzioni euro-atlantiche, in peggioramento da anni, sono ormai prossimi alla rottura: se la tentata rivoluzione colorata di Gezi Park del 2013 ha segnato l’inizio del gelo, il fallito golpe del luglio 2016 ha impresso lo slancio finale all’uscita di Ankara dall’orbita occidentale. Le manovre mediatico-finaziarie-giudiziarie per piegare Recep Erdogan si sono rivelate fallimentari, grazie al sostegno offerto dal blocco euroasiatico (Cina-Russia-Iran): la Turchia sarà dunque con grande probabilità il primo membro a lasciare la NATO, riducendo ulteriormente l’influenza atlantica nella regione e, soprattutto, fornendo un prezioso esempio a chi aspirasse a seguirla.
Uscire dalla NATO è possibile: il caso turco farà scuola
Nel travagliato passaggio dal sistema internazionale a guida atlantica a quello incentrato sulle potenze eurasiatiche, passaggio che sta producendo “terremoti” ovunque i due blocchi entrino in frizione (Paesi Baltici, Ucraina, Siria, Yemen, Pakistan, Birmania, Nord Corea, etc.), merita senza dubbio un approfondimento il capitolo turco, alla luce della sua rilevanza geopolitica e del significato politico-istituzionale: la Turchia infatti, non soltanto ha definitivamente abbandonato il processo di convergenza verso l’Unione Europea, ma sarà anche con alta probabilità il primo Paese a lasciare (o ad essere espulsa?) dall’Alleanza Nord Atlantica, fornendo un esempio a quei Paesi che accarezzassero (o hanno accarezzato in passato, come l’Italia di Enrico Mattei e di Aldo Moro) l’idea di svincolarsi dal giogo angloamericano.
Sulla denominazione delle formazioni partitiche, a partire dalla fine della Prima repubblica, ma ancor da prima, la politologia ha potuto esercitarsi, facendo ampio ricorso al sarcasmo nel porre in luce come già in essa sia impresso il marchio del vuoto ideologico. Non intendiamo tornare su Forza Italia o su margherite, ulivi e altre vegetazioni ormai sfiorite nel panorama parlamentare; né intendiamo insistere sul deplorato stemma del M5S: certo più acconcio alla réclame di un albergo per parvenus alle Maldive, che non a un movimento che ambisca al governo del paese. Viceversa, ci interroghiamo sulle nomenclature di una sinistra divisa, che ora si affaccia alle elezioni come «Liberi e Uguali».
Prima annotazione: in entrambi i casi, ovvero sia nel Pd, sia nel nuovo schieramento dalemiano-bersaniano, non compare la parola “socialismo”. Si tace sulla propria ragion d’essere storica, ma per poi presentarsi in modo alternativo: nel caso del Pd con il richiamo a una democrazia, ridotta, come amava dire un grande padre liberale, a «scatolone vuoto»; nel caso di «Liberi e Uguali», con un mero appello allo scolastico binomio libertà-eguaglianza.
Forse è sfuggito, nel corso della più recente scissione, che il binomio è, per sua intrinseca valenza semantica, antinomico: un accrescimento dell’autonomia personale comporta l’inevitabile restrizione del parametro egualitaristico; un incremento del motivo egualitaristico volge per forza di cose a una massificazione, che investe e tende a ledere la sfera del merito individuale.
In questa bella, rigorosa e approfondita recensione Cesaratto sintetizza così bene gli argomenti sviluppati da de Vivo che verrebbe quasi voglia di dire: letta la recensione non c’è bisogno di leggere il libro. Ma non lo dirò, perché l’opera è veramente importante e va letta con attenzione. E consiglio di leggerla in parallelo con un'altra opera importante: P. Sraffa, "Lettere a Tania per Gramsci" (a cura di V. Gerratana), Editori Riuniti, Roma 1991. Il testo di de Vivo delucida un’ampia serie di problemi storiografici, teorici e politici su cui anche alcune menti eccelse si sono perse. La più importante di tutte le questioni controverse riguarda il rapporto di Sraffa con il pensiero di Marx. De Vivo contribuisce a chiarire che il lavoro teorico dell’amico di Gramsci va letto come tutto interno al marxismo e anzi come un contributo originale alla rinascita della teoria economica Marxista. È servito a riportare la critica dell’economia politica agli alti livelli di rigore analitico e dignità teorica che gli spettano e dal quale erano stati allontanati da alcuni giudizi fuorvianti di economisti marginalisti e dalle difese superficiali di alcuni epigoni.
Un problema molto importante riguarda il rapporto di Sraffa con il pensiero di Ricardo. Su tale questione regna ancora il massimo di confusione, sia tra gli economisti marxisti che tra i marginalisti, confusione che viene normalmente espressa nella tesi secondo cui Sraffa sarebbe un neoricardiano.
Con il contributo del compagno Alessandro Pascale, continua la nostra rassegna dedicata alla riflessione sul tema “i comunisti e la questione nazionale”
È
molto importante che Marx21.it abbia lanciato una
discussione su un tema importante e assolutamente non
marginale come quello riguardante la sovranità nazionale. Nel
tracciare le righe
seguenti sintetizzerò alcune conclusioni a cui sono giunto
nell'opera “In Difesa del Socialismo Reale e del
Marxismo-Leninismo”
(scaricabile gratuitamente su intellettualecollettivo.it),
che si intrecciano profondamente con questa questione.
La gran parte del movimento comunista italiano ha vissuto gli ultimi decenni in balìa del revisionismo, facendosi dettare le parole d'ordine, e talvolta perfino l'analisi, dalla borghesia e da intellettuali di area progressista ma non marxista. Il fatto che oggi parlare di sovranità nazionale sia un tabù e che si lasci il tema alle destre non deve stupire insomma: è il simbolo di una strutturale incapacità analitica dovuta ad un profondo revisionismo che affonda le sue origini assai lontano nel tempo: in Italia almeno agli anni di Berlinguer, il quale, con l'abbandono formalizzato del marxismo-leninismo da parte del PCI, a favore dell'ottica eurocomunista, legittimò inconsapevolmente un filone culturale cosmopolita che con l'internazionalismo proletario non ha nulla a che fare.
Potrebbe
sembrare forse azzardato, ma credo sia possibile sostenere che
non esiste un solo e unico modo per descrivere il capitalismo.
Non intendo
in generale, altrimenti sarebbe ovvio, ma anche quando
condividiamo, per linee generali, una prospettiva che voglia
dirsi autenticamente marxiana. In
altre parole, anche se partissimo da uno stesso paradigma
molti sarebbero gli elementi teorici che possono, a tal fine,
essere selezionati a scapito
di altri. Il problema deve allora essere collocato a un altro
livello: la questione in gioco non è infatti quella di
riuscire a costruire uno
schema teorico coerente e accurato sul funzionamento del
capitalismo, ma accordare quella stessa astrazione
teorica in modo che sia in grado
di determinare una trasformazione della realtà capitalistica
stessa. Economia politica del comune (DeriveApprodi,
2017) l’ultimo
libro di Andrea Fumagalli, lavora alla perfezione dentro
questa tensione irrinunciabile. Nel testo si dispongono
infatti, in modo sinergico, diversi
strati di riflessioni che spostano continuamente in
avanti l’analisi teorica fino a portarla al cospetto della
prassi – e in modo
ancor più prezioso, quest’ultima (la riflessione sulla pratica
politica) segue contemporaneamente l’andamento inverso.
L’organizzazione stessa del volume, il suo indice, ci dice
qualcosa di questa sua prima e fondamentale qualità
metodologica.
Tutti parlano del libro esplosivo su Trump, con rivelazioni sensazionali di come Donald si fa il ciuffo, di come lui e la moglie dormono in camere separate, di cosa si dice alle sue spalle nei corridoi della Casa Bianca, di cosa ha fatto suo figlio maggiore che, incontrando una avvocatessa russa alla Trump Tower di New York, ha tradito la patria e sovvertito l’esito delle elezioni presidenziali. Quasi nessuno, invece, parla di un libro dal contenuto veramente esplosivo, uscito poco prima a firma del presidente Donald Trump: «Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti».
È un documento periodico redatto dai poteri forti delle diverse amministrazioni, anzitutto da quelli militari.
Rispetto al precedente, pubblicato dall’amministrazione Obama nel 2015, quello dell’amministrazione Trump contiene elementi di sostanziale continuità. Basilare il concetto che, per «mettere l’America al primo posto perché sia sicura, prospera e libera», occorre avere «la forza e la volontà di esercitare la leadership Usa nel mondo».
Lo stesso concetto espresso dall’amministrazione Obama (così come dalle precedenti): «Per garantire la sicurezza del suo popolo, l’America deve dirigere da una posizione di forza».
Cina e India tendono a pesare sempre di più sullo scacchiere mondiale nell’ambito di un processo che qualcuno ha definito come quello di una rapida orientalizzazione in atto del mondo. Un processo che qui in Italia appare del tutto assente dal dibattito politico ed economico
Può essere utile, in questo incerto inizio d’anno, fare brevemente il punto sulla situazione e sulle prospettive economiche, tecnologiche e sociali comparate di Cina e d’India, tema sul quale il livello di informazioni appare da noi piuttosto ridotto, comunque confuso e in larga parte fuorviante, mentre i due paesi tendono a pesare sempre di più sullo scacchiere mondiale, nell’ambito di un processo che qualcuno ha, a nostro parere correttamente, individuato come quello di una rapida orientalizzazione in atto del mondo. Tale processo è da noi del tutto assente da un dibattito politico ed economico che appare anche per questo come asfittico.
Lo sviluppo economico
Al momento in cui, verso la fine degli anni settanta del Novecento, Deng Tsiao Ping avviò la grande trasformazione dell’economia cinese, le dimensioni del pil di quel paese e di quello indiano erano sostanzialmente le stesse, con l’India che presentava un leggero vantaggio in termini di pil pro-capite, mentre peraltro gli indicatori sociali, dal livello di istruzione alla sanità, alla concentrazione della ricchezza, pendevano già nettamente a favore della Cina.
Il conte Gentiloni ha chiuso l’anno e il mandato con l’invio d’un contingente della Folgore in Africa.
Buon 1882.
Per la gioia dell’amico Macron, e naturalmente dell’ENI, ai parà in Niger seguiranno specialisti del Genio, addestratori, esperti delle forze speciali.
Il loro compito ufficiale sarà “contrastare il traffico di migranti”.
Ammazziamoli a casa loro. È così che il conte è risalito nei sondaggi.
Il sobrio, banale Gentiloni: non era difficile prevedere il suo avvento dopo Renzi.
Lo schema ormai è consolidato.
Dopo la Quaresima tornerà il Carnevale, per questo Berlusconi e Di Maio sperano, e si preparano a passare tutta la campagna elettorale promettendo soldi facili a tutti come un casinò online.
Il PD ha invece già definitivamente bruciato il suo Cazzaro.
La Commissione banche è stata un’idea sua.
Lo chiamano Capitan Boomerang.
E’ una potente cannonata quella che un nutrito gruppo di intellettuali e ambientalisti ha sparato contro il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. In un manifesto firmato da personalità tra le più autorevoli in questo campo si denuncia l’intera politica del ministro, accusato per di più di intimidazione nei confronti di soprintendenti e direttori, che “non possono assolutamente fare dichiarazioni, denunciare lo stato di confusione fra Soprintendenze, Poli Museali e Fondazioni di diritto privato, di depotenziamento strutturale, di esasperata burocratizzazione in cui versano gli organismi e gli uffici”. E infatti in calce al Manifesto le firme di soprintendenti ci sono, ma solo degli “ex”, che ovviamente non sono più soggetti a eventuali ritorsioni.
Tra i promotori ci sono esponenti di associazioni ambientaliste, ex – appunto – soprintendenti e alti dirigenti del settore, archeologi e altri docenti universitari, magistrati, urbanisti, storici dell’arte. Alcuni tra i nomi più noti al grande pubblico: il magistrato Gianfranco Amendola, gli ex soprintendenti per l’archeologia a Roma Adriano La Regina e a Napoli Giorgio Nebbia, il giornalista e scrittore Corrado Stajano, l’urbanista Vezio De Lucia, l’architetto Pier Luigi Cervellati, lo storico dell’arte Tomaso Montanari, l’economista Salvatore Bragantini e il giornalista e saggista Vittorio Emiliani. Il manifesto è stato pubblicato da vari siti (per esempio qui).
In caso vi fosse serenamente sfuggito, nei giorni scorsi il candidato premier del M5S, Luigi Di Maio, ha spiegato al Mattino la strategia di politica economica del suo movimento. Si tratta della reiterazione del libro dei sogni, impreziosito da alcune gemme che permettono di capire che questi personaggi sono del tutto privi di legame col mondo reale e proprio per questo motivo hanno grande successo in questo paese. Proviamo un’esegesi ragionata delle risposte di Di Maio.
Chiave di volta della strategia pentastellata è, come noto, il reddito di cittadinanza, che dovrebbe operare in attesa del ritrovamento di un impiego, ovviamente per chi è in età attiva. In tale strategia, un ruolo fondamentale lo giocherebbero i centri per l’impiego, che il M5S vuole potenziare. Nell’intervista, emerge che secondo Di Maio il problema sarebbe la difficoltà geografica di incrocio tra domanda ed offerta di lavoro:
«Ovvero, fino ad oggi domanda ed offerta si incontrano esclusivamente su base provinciale, o al massimo regionale. Non ci sono, se si escludono i Neet, banche dati uniche. Per fare un esempio i centri per l’impiego di Trento non dialogano con quelli di Napoli. Li metteremo tutti in rete. Chi otterrà il sostegno dovrà poi partecipare obbligatoriamente a corsi di formazione e per otto ore settimanali dovrà impegnarsi in lavori socialmente utili nei Comuni di residenza. Una volta trovato, anche su scala nazionale, un lavoro confacente alle caratteristiche del cittadino non si potrà rifiutare la proposta, pena la perdita immediata del sussidio».

Il saggio qui pubblicato segue i precedenti intorno alla questione del populismo già apparsi su questo blog a firma dello stesso Michele Nobile: «Donald Trump: vedette pseudopopulista della società dello spettacolo» e «Pseudopopulismo e stile paranoide in politica». Se ne consiglia caldamente la lettura
1. Un radicale cambiamento nell’approccio ai
fenomeni detti populisti
Populista! è ingiuria assai frequente, direi quanto il prezzemolo in cucina, tanto che fra le battute del teatro politico ha preso il posto di un’altra, che pare obsoleta: comunista!
Tuttavia, gli epiteti populismo e populista sono straordinariamente versatili.
Populisti sarebbero Marine Le Pen e l’olandese Geert Wilders, Beppe Grillo e Matteo Salvini, il turco Recep Tayyip Erdoğan e i britannici Nigel Farage e Boris Johnson; ma alla lista possono aggiungersi anche Alexīs Tsipras e Syriza prima maniera, Jeremy Corbyn e Bernie Sanders. Se poi lasciamo vagare l’etichetta del populismo nel tempo e nello spazio, vedremo che essa si appiccica a Gandhi e Nasser, a Frantz Fanon, Julius Nyerere e Thomas Sankara e, ovviamente, ai tanti populisti latinoamericani: Víctor Raúl Haya de la Torre, Lázaro Cárdenas, Juan Domingo Perón e sua moglie Evita, Víctor Paz Estenssoro e Fidel Castro, fino ai più recenti neopopulismi: il subcomandante Marcos, Hugo Chávez, Evo Morales e Rafael Correa.
Questa intervista si è svolta a Bologna nell’ottobre 2017. La trascrizione è di Shendi Veli, l’editing di Franco Palazzi
A:
La cosa che mi ha stupito leggendo questo libretto con il
tuo commento [“Malgrado voi”
(1977)]
è che tu avevi anche parlato di un bisogno
di capire bene la nuova connessione tra il sapere, la
tecnologia ed il lavoro.
Dato che sono molto interessata alle trasformazioni dello
sviluppo economico, connesso anche alla cosiddetta
digitalizzazione, al virtuale, etc, sono
stata stupita che tu già alla fine degli
anni settanta sostenevi che per capire bene la nuova
composizione della classe e
ricostruire l’Autonomi bisognava rivolgere
l’attenzione verso questa connessione;
purtroppo credo che
i movimenti non fossero in grado di sviluppare un
comportamento collettivo per affrontare tale cambiamento.
Dal punto di vista tuo e delle lotte degli
anni settanta, come descriveresti questo sviluppo nella
composizione di classe ma anche nello sviluppo economico?
B: Il movimento del settantasette italiano, e non solo quello italiano – però adesso parliamo di quello italiano o vorrei dire bolognese – ha un carattere complesso. Ci sono vari elementi, perché c’è un elemento diciamo anarchico, autonomo, ribellista che è simile a quello dei movimenti che dalla California degli anni sessanta va fino agli Sponti tedeschi, fino al punk. È un movimento giovanile ribelle, con caratteristiche particolarmente creative.
I fallimenti dell’euro hanno imposto un duro prezzo alla maggior parte dei paesi dell’eurozona in termini di crescita, di disoccupazione, di esplosione delle diseguaglianze. E hanno, al tempo stesso, messo in crisi, quando non eliminato dalla scena, la vecchia sinistra di governo. Su questo dovrebbe concentrarsi il dibattito, ma la sinistra italiana non lo fa
1.
A metà del secolo scorso, la Francia, che sedeva tra
le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, decise di
promuovere un
accordo con la Germania che avrebbe cambiato il senso tragico
della storia dei conflitti franco-tedeschi che avevano
dominato la prima parte del
secolo. Il protagonista politico della svolta fu Robert
Schuman. L’occasione fu data dall’accordo sull’uso congiunto
del carbone
della Ruhr di cui la Francia, impegnata nella pianificazione
economica diretta da Jean Monnet, aveva assoluto bisogno.
Nacque così, per iniziativa francese, la CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo accordo transnazionale nell’Europa contemporanea. La seconda tappa fu qualche anno dopo, nel 1957, l’istituzione del Mercato comune che, al pari della CECA, comprendeva, oltre a Francia e Germania, l’Italia e i paesi del Benelux. Gli effetti furono pari alle aspettative. Il “miracolo economico” tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta si estese dalla Germania all’Italia. L’Europa dei sei paesi fondatori della CEE, la Comunità economica europea,cresceva a vista d’occhio in un clima di tendenziale piena occupazione.
Con l’avvento di Charles de Gaulle, la Francia, dopo oltre un decennio, uscì finalmente dal vicolo cieco dei conflitti coloniali in Vietnam e in Algeria, e poté rilanciare l’impegno per la costruzione europea, ribadendo e rafforzando la partnership franco-tedesca.
Il Natale, il giorno in cui siamo tutti buoni, è andato. Possiamo tornare ad essere cattivi. Tuttavia questo non serve nel commentare il programma di: “Potere al Popolo”. Basta constatare.
Il testo è infatti la solita lista della spesa in perfetto sinistrese. Una lista così lunga dove trova spazio anche la contrarietà all’allevamento intensivo dei maiali nel mantovano! Sembra uno dei vari programmi elettorale delle tante esperienze della sinistra radicale. Tante cose giuste per carità, ma mancano i nodi, i nessi, le gerarchie, un progetto. Non è un programma. Ed è anche un documento tipico di una coalizione: ognuno mette il proprio pezzo per riconoscersi.
In questo modo, negli aspetti principali, ci troviamo inevitabilmente dinnanzi a veri e propri cortocircuiti.
Molto dipende dalla posizione sull’Unione Europea e sull’euro: “… la rottura dell’Unione dei Trattati”, da cui originano approccio e conseguenze. Vale a dire che non si pone il terreno nazionale, l’indipendenza, come luogo prioritario della rottura e del proprio agire.
Cosa vuole dire infatti questa frase? Se si volesse rompere l’Unione non si aggiungerebbe … dei Trattati. Dunque non si vuole rompere l’Unione ma modificarne le politiche come se l’Unione, l’euro, i trattati, il capitalismo liberista fossero cose distinte. Una frase altisonante, dunque, per una politica moderata: il solito massimalismo.
Il segreto di una buona campagna elettorale è scacciare il principio di realtà per sostituirlo con i “gusti”, cioè trasformare i programmi in menù. Per questo motivo nelle prossime elezioni non dovrà mancare il soggetto del “più-europeismo”. Per alimentare il mito del simulacro europeo, niente di più adatto di un simulacro di partito, quella girandola di sigle originata dal vecchio “Partito Radicale”. Già accusata di parassitismo dal Partito Radicale “madre”, la radicale Bonino non è stata neppure in grado di raccogliere le firme necessarie alla presentazione della lista e quindi ha dovuto ricorrere a soccorsi esterni parassitando il partito di Bruno Tabacci. Il pericolo in agguato in ogni campagna elettorale è che la realtà rifaccia capolino, perciò figure come Emma Bonino risultano preziose per la loro capacità innata di creare confusione con la loro stessa esistenza.
Il problema è che, mentre la Bonino ci propone le scorpacciate di Europa, vi sono altri soggetti che non si preoccupano nemmeno più di rispettare le apparenze della messinscena europea. La Polonia è beneficiaria netta dei fondi europei, cioè riceve molto di più di quanto non versi, ed è anche il primo Paese nella graduatoria dei beneficiari. Eppure il governo di Varsavia può permettersi di sfidare regolarmente la Commissione Europea su migrazione e giustizia, perché tanto a Bruxelles il vero potere non è la Commissione ma è la NATO.
Tutta la sua analisi si basa sull’idea che il debito ha avuto un ruolo determinante nella storia. Perché?
Il debito sovrano è stato un elemento dominante in tutta una serie di avvenimenti storici maggiori. È stato il caso, a partire dal 19° secolo, degli Stati che lottavano per la loro indipendenza, in America Latina dal Messico all’Argentina, come in Grecia. Per finanziare la guerra d’indipendenza, questi paesi nascenti hanno contratto prestiti presso banchieri di Londra a condizioni leonine, che in realtà li hanno portati in un nuovo ciclo di subordinazione.
Altri Stati hanno perso completamente, in forma ufficiale, la loro sovranità. La Tunisia aveva una relativa autonomia nell’impero ottomano, ma si era indebitata con i banchieri di Parigi. È chiaramente utilizzando l’arma del debito che la Francia ha giustificato la sua messa sotto tutela e colonizzazione. Dieci anni dopo, nel 1882, anche l’Egitto ha perso la sua indipendenza, occupato militarmente dalla Gran Bretagna, che voleva recuperare i debiti contratti dal paese presso banche inglesi, prima di essere trasformato in colonia.
Ci si può spingere a dire che il debito è impiegato volutamente, per «bloccare» posizioni di dominio di un paese su un altro?
Non si tratta di un complotto globale e sistematico.
È difficile dire con certezza quale sia stata la vera ragione per la quale Kim Jong-un abbia scelto di aprire al dialogo con la Corea del Sud. Probabilmente, tutto nasce a causa di una concomitanza di fattori che hanno reso impossibile al leader nordcoreano rifiutare la proposta di un timido inizio di negoziati con il Sud. In primo luogo la pressione internazionale nei confronti di Pyongyang, ormai divenuta un vero e proprio assedio, che ha inciso sia sulla credibilità delle proposte nordcoreane, sia, soprattutto, sulla fragile economia del Paese. In secondo luogo, l’inevitabile rischio di una guerra, con la minaccia della fine del regno dei Kim e del sistema improntato sulla loro dinastia. In terzo luogo, il fatto che il leader nordcoreano, ottenuto un certo livello di deterrenza, possa sedersi al tavolo dei negoziati con una certa garanzia di non essere attaccato. Infine, non va dimenticato l’approccio molto più moderato di Moon Jae-in, che è stato eletto anche per la sua volontà di dialogare con i vicini settentrionali evitando ogni possibile escalation bellica e non disdegnando un riavvicinamento fra Seul e i suoi vicini asiatici evitando un totale allineamento con gli Stati Uniti. Questa serie di fattori, unita alla cornice olimpica e alla possibilità di mostrare al mondo un volto diverso della Corea del Nord, hanno fatto sì che da Pyongyang giungessero segnali di disgelo. Quasi a voler dimostrare che da parte della Corea del Nord si fosse compreso che la corda rischiava di spezzarsi, con tutti i rischi che questo potrebbe comportare.
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Luciana Castellina nell’articolo pubblicato nell’inserto del Manifesto del 29 dicembre 2017, “Nella mia agenda gli indizi di futuro migliore”, scrive che
“la prima scadenza importante della mia agenda 2017 è in data 14 gennaio : a Palermo celebriamo il compleanno – il 95mo – di Nicola Cipolla. La sua storia coincide con quella delle grandi lotte per la terra in Sicilia; e testimonia il prezzo che fu necessario pagare per strappare la riforma agraria più avanzata d’Italia : 36 dirigenti sindacali ammazzati fra ’46 e ’47 ”.
Osservo che il giudizio della Castellina sulla riforma agraria realizzata in Sicilia nel dicembre 1950 è errato.
Non c’è dubbio che le lotte per l’occupazione delle terre del ‘44 - ’50, in Sicilia e non solo, segnarono una svolta politica notevole di liberazione. Erano appena passati cinquant’anni e quindi viva era la memoria nel ’44 del grande movimento di liberazione dei Fasci Siciliani del 1893, represso militarmente dal governo Crispi e soprattutto vivo era il ricordo delle lotte per la terra del 1919-20. Quelle epiche del 44-50 ebbero soprattutto un grande movente nel d.lgs. Gullo n. 279 dell’ottobre ’44 sulla concessione delle terre incolte ed anche nel coevo d.lgs., sempre di Gullo, n. 311/44 sulla ripartizione dei prodotti nella mezzadria c.d. impropria.
A quasi un anno dal suo insediamento possiamo dire che, nel bene e nel male, la caratteristica più interessante della presidenza di Donald Trump è stata la sua rinuncia all’universalismo di facciata.
L’universalismo è quell’idea secondo cui è moralmente necessario difendere in maniera imparziale gli interessi fondamentali di tutte le persone: uomini e donne, compatrioti e stranieri, abili e disabili, bianchi e neri, abbienti e nullatenenti. È un’idea che ha origini antichissime e che, per esempio, in epoca moderna trova uno sviluppo importante nella Rivoluzione Francese (con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino) e nella Rivoluzione Haitiana (1791-1804) dei giacobini neri, abolizionisti e anticolonialisti.
L’universalismo è di facciata quando è una strategia retorica usata per legittimare moralmente un dato potere o una data istituzione. Chi governa si richiama ad istanze universaliste per far credere che il suo potere venga esercitato in maniera equa. Ma difendere gli interessi fondamentali di tutti è politicamente complicato e spesso incompatibile coi desideri dei gruppi sociali più forti. È dunque raro che, senza una forte spinta dal basso, all’universalismo di facciata corrispondano politiche effettivamente universaliste. L’universalismo di facciata è una delle forme di autocelebrazione del potere.
Intervista su una rivista del PD. Dopo l'introduzione di Matteo Renzi (e Marco Fortis) e un articolo di Tommaso Nannicini, a pag. 30 c'è una intervista al sottoscritto da parte di un dottorando di Siena (Andrea Incerpi), che ringrazio per averla pubblicata integralmente. Chapeau, certamente più pluralismo che fra Liberi & Uniformi
Sono passati dieci anni dalla crisi
finanziaria che ha messo in ginocchio i mercati del lavoro e
dei capitali eppure i suoi effetti,
seppur mitigati dalla decorrenza del tempo piuttosto che da
efficaci misure di politica economica a livello europeo,
sono ancora visibili. Austerity,
rigore fiscale e riduzione della spesa pubblica sono stati i
mantra dei governi dell’Eurozona, con effetti spesso
discutibili sui principali
indicatori economici. Il pensiero ortodosso che si riconosce
in questo spettro di politiche restrittive non è mai
sembrato così in
discussione. Ed è proprio uno dei maggiori esponenti del
pensiero critico italiano, il prof. Sergio Cesaratto, a
fornire un contributo
analitico partendo da una diversa prospettiva.
Quella che pone al centro della crescita il ruolo dell’Europa, il mondo dei lavoratori e un nuovo nucleo di forze progressiste.
* * * *
La crisi degli ultimi anni ha fatto crescere il numero di “euroscettici”. È ancora possibile ipotizzare la futura sostenibilità dell’Eurozona?
La ripresa europea è considerate fragile e trainata da fattori esterni. Inoltre non vi sono, né vi possono essere, grandi prospettive per una rivoluzione politica dell’Eurozona.
La nostra
società si sta esprimendo ed ha compiuto atti importanti nella
realizzazione dello sfruttamento illimitato. Questa violenza
strutturale si
è incarnata nell’ideologia neoliberista che è una sorta di
macchina infernale e che è stata veicolata attraverso la
divinizzazione del potere dei mercati. Sotto gli occhi di
tutti ci sono gli effetti di questa nuova organizzazione
sociale a partire dalla miseria di
una parte sempre più grande delle società economicamente più
avanzate e lo straordinario aumento del divario fra i redditi.
Quindi, un’affermazione scomposta della vita personale intesa
come una sorta di darwinismo che instaura la lotta di tutti
contro tutti, il
cinismo come norma, la ricchezza come premio di questa
selezione, la traduzione nella vita quotidiana con
l’assuefazione alla precarietà,
all’insicurezza e all’infelicità che permea l’esistenza. Con
una precarizzazione così diffusa da ridurre il
lavoratore/trice a mano d’opera docile sotto la permanente
minaccia della disoccupazione. L’aspetto paradossale è che
questo ordine
economico e sociale si spaccia e si promuove sotto il segno
della libertà e addirittura come società armoniosa.
Pubblichiamo in anteprima la traduzione italiana della voce “Mario Tronti” scritta da Davide Gallo Lassere per il dizionario sul marxismo che verrà pubblicato da Routledge in occasione del bicentenario della nascita del Moro di Treviri. Proprio oggi esce per Il Mulino l’antologia di scritti di Tronti con il titolo “Il demone della politica”
Il
comunismo del Novecento – la nostra Heimat
Scrutare il mondo con sguardo politico. Confrontarsi con la storia innanzitutto, e solo in seguito con la teoria. Perseguire non tanto l’inserzione in una tradizione di pensiero, ma degli strumenti per organizzare la lotta. Ecco, a grandi linee, l’approccio sviluppato da Mario Tronti lungo l’arco della sua vita. Politico pensante piuttosto che pensatore politico, l’autore dell’opera fondatrice dell’operaismo fa sistematicamente implodere la separazione tra teoria e pratica. Secondo Tronti, la teoria è sempre politica, e la politica è sempre teorica; è a partire dalla pratica che si produce della teoria e la teoria può e deve esprimere una produttività politica. Come egli scrive in un articolo giovanile, “se il Capitale è nello stesso tempo un’opera scientifica e un momento d’azione politica che sposta la realtà oggettiva delle cose, si potrebbe sostenere inversamente che la stessa rivoluzione d’Ottobre o la Comune di Parigi sono nello stesso tempo un grande movimento pratico e una potente scoperta teorica”[1].
Malgrado le svolte significative conosciute nel corso del tempo – dal conflitto ancorato nella materialità della classe a una visione metafisica della conflittualità -, questo stile di militanza che fonde ricerca teorica e azione politica è diventato uno dei marchi di fabbrica di Tronti, determinato dal sentimento di appartenenza destinale a una parte del mondo sociale che – una volta sconfitta dalle forze della storia – assume dei tratti tragici[2].
Trovo molto interessante, come sempre del resto, e anche complessivamente condivisibile, questa analisi di Pierluigi Fagan.
Una posizione che, peraltro, nella sua proposta conclusiva (la costruzione di un polo o di una confederazione di paesi latino-mediterranei in alternativa all’UE o comunque in grado di condizionarla) mi pare in parte simile (ma eventualmente saranno loro stessi a smentirlo, confermarlo o confutarlo) a quella assunta dalla piattaforma di Eurostop.
Tuttavia pongo alcune personali considerazioni critiche.
Fagan sostiene che, oltre ad essere impraticabile per tante ragioni prevalentemente di ordine economico, il ritorno alla “sovranità nazionale” (se anche si addivenisse politicamente a quella decisione – spiega – un paese come l’Italia sarebbe comunque alla mercè delle altre economie e dei grandi agglomerati o alleanze di vari stati molto più potenti economicamente ecc.), sarebbe anche antistorico.
Quest’ultima considerazione non mi pare corretta. Mi spiego. Non mi sembra che i grandi stati nazionali di sempre siano venuti meno alla loro “vocazione” nazionale” e nazionalista. Penso alla Francia, alla Germania (anche se questa non può averla dal punto di vista militare e quindi si limita all’espansionismo e alla egemonia economica) ma anche alla Russia (per non parlare degli USA e della GB…).
Sentiamo confusamente di trovarci a un punto stranissimo della storia. Tutti hanno in questo momento più di quanto abbiano mai avuto i loro avi. Quindi ci troviamo in un punto elevato.
Eppure intuiamo che qualcosa di terrificante si stia muovendo sotto i nostri piedi. C’è molto incertezza su cosa siano esattamente quei tremori e quel rombo confuso, ma per la prima volta in due secoli, ci rendiamo conto che la salita è finita. Il nostro punto elevato è quindi un picco. Come in quei grafici che si vedono nei fumetti, e noi stiamo lì in cima.
Ora, ho sempre sognato che qualcuno riuscisse a cogliere e spiegare in maniera chiara cosa sia quel rombo o quei tremori.
Ho visto tantissimi libri di esperti campo singolo, che ci spiegano qualche aspetto: crisi economica, ingiustizie sociali, migrazioni, inquinamento, trasformazione tecnologica, cambiamenti climatici, debito, scarsità di risorse, distruzione della biodiversità, disoccupazione…
Ogni volta, è un pugno nello stomaco, ma rimani con molti dati (facili da dimenticare) e la sensazione che ci sia qualcosa che collega tutto, però non riesci a metterlo bene a fuoco.
Se solo esistesse un libro piccolo, leggibile, non retorico, che permettesse a noi capre – non specialiste ma curiose – di capire il picco su cui ci troviamo…
Al forum Ambrosetti di Cernobbio, nel settembre scorso, gli aspiranti premier Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno spiegato ad un pubblico di manager, banchieri, tagliatori di teste, la loro idea politica sull’Italia.
Com’è noto, manager e banchieri ancora li guardano con una studiata prudenza. Ma sia Di Maio che Salvini hanno tranquillizzato quelli che stanno rovinando la vita a milioni di persone, non affondando la lama nel tema più destabilizzante, quello che metterebbe maggiormente in discussione le attuali relazioni di potere. La fuoriuscita dalla Ue, dall’euro e dunque dall’Eurozona, appunto.
Era solo il 2014 quando Salvini organizzò un “Basta euro tour” in giro per l’Italia andando in giro (accompagnato spesso dai fascisti di CasaPound) per dire che occorreva uscire dall’euro. Poi Salvini su questo tema si è via via silenziato e con lui anche i fascisti, che bofonchiano contro banche ed eurocrati, ma preferiscono accanirsi contro gli immigrati.
Lo stesso è accaduto al M5S, che prese una barca di voti nel 2013 annunciando di voler fare un referendum sull’euro. “Il referendum sull’euro è una estrema ratio, che spero di non dover usare” – ha affermato invece Di Maio intervistato da Bruno Vespa. “Non credo che per l’Italia sia più il momento di uscire dall’euro, anche perché per l’Italia ci sarà più spazio visto che l’asse franco-tedesco non è più così forte come prima”.
Legge di bilancio e politica estera: Trump continua nel solco della tradizione imperialista americana con alcune varianti di tattica e di approccio
L’amministrazione Trump giunge alle soglie del suo primo anno di vita con un importante successo politico, il varo di una legge fiscale tra le più inique e classiste della storia americana. Negli stessi giorni il presidente presenta pubblicamente un documento predisposto dalla sua amministrazione, con la supervisione del suo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Mc Master [1].
Nel fascicolo di 68 pagine, frutto di un lavoro durato 11 mesi, sono quattro i concetti chiave contenuti nel primo documento di questo tipo elaborato dal presidente entrato in carica all’inizio del 2017: protezione della patria, sviluppo della prosperità, preservazione della pace attraverso la forza e una nuova spinta all’influenza americana a livello globale. Tutte idee in linea con il motto “America First” più volte ripetuto da Donald Trump nel corso della sua campagna elettorale nel 2016. Cina e Russia sono descritte come “potenze rivali” determinate a sfidare Washington e il suo ruolo di leader a livello internazionale [2].
Vengono quindi ribaditi, e lo fa soprattutto Trump nel suo intervento di presentazione alla stampa, quelli che sono stati i cavalli di battaglia del suo primo anno di presidenza in politica estera.
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Niamey, gennaio 017. C’è lei, la sabbia, di cui siamo creature . C’è lei, la polvere, che si rifugia nelle borse, nelle scarpe e soprattutto negli occhi di coloro che poco sanno del grande SUD. C’è lei, l’acqua salata, delle lacrime e del mare che le inghiotte come fa la notte col tramonto della civiltà che si spegne accanto al pozzo. L’ultimo, battezzato ESPOIR è controllato dai militari che spiano i punti di ristoro dei viaggiatori di sabbia. I pozzi armati sono l’ultimo ritrovato nel variegato panorama del deserto. L’acqua è detenuta perché illegale.
Ci siamo noi, sconosciuti fino a qualche mese fa, al SUD della LIBIA, e d’improvviso ricercati per interposta persona. Terra di mezzo per la ‘spartenza’di quanti, incoscienti e pazzi e profeti, si azzardano a indossare la sabbia, la polvere e infine il mare come padrini dell’umana arroganza. Corteggiano i muri, disabitati, delle rive che si ‘sguardano’senza vedersi. Ci sono loro, nomi, volti, storie e follie da esportare agli stolti che pensano di salvarsi senza lacrime di perdono. Hanno sepolto i loro documenti per non tornare indietro.
Ci sono le bandiere degli eserciti e delle multinazionali dell’estrazione della fecondità della terra. Strade che le carovane hanno dimenticato e quelle che i mercanti e i contrabbandieri inventano ogni notte. Si fanno prove quotidiane di occupazione coi droni armati e le piste di atterraggio per le operazioni militari.

Pubblichiamo la prefazione di Paolo Leon al libro Squilibrio – Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico di Roberto Romano e Stefano Lucarelli, Ediesse Libri
L’economia come
scienza compiuta, quando, pur differenziate, le ricerche
riposavano su un apparente solido terreno comune, è stata
travolta dalla crisi
iniziata a settembre 2007. Al progredire della crisi e
all’assistere al “doppio tuffo” – simile nell’andamento alla
crisi del 1929: il “double dip” – molti hanno scoperto Keynes,
ma non le politiche di Roosevelt,
che ebbero un effetto lento ma sicuro sulla ripresa. Anzi, gli
economisti “standard”, che definisco pseudo keynesiani, hanno
creduto che
il pensiero di Keynes fosse corretto nella crisi, ma sbagliato
quando la crisi si fosse risolta, abbandonando una qualsiasi
logica e affidandosi a un
misto di realismo e fede.
Anche durante la crisi, del resto, le politiche keynesiane non sono state applicate con la forza sufficiente, mentre prevalgono da allora le cosiddette politiche dell’offerta. Si tratta di azioni volte a limitare il ruolo dello Stato, della democrazia rappresentativa e del sindacato (per ridurre il deficit pubblico e, inevitabilmente, anche la domanda che ne derivava), a stimolare l’aumento della produttività e, riducendo i salari e peggiorando la distribuzione del reddito, a rincorrere una maggiore competitività.
È
un uomo distinto, ha poco più di sessant’anni e si occupa di
diritti umani e di disuguaglianze sociali. Se un ragazzino
di 15 anni lo sentisse parlare penserebbe che Sergio Segio
sia un docente universitario di lungo corso. Mai potrebbe
immaginare che Segio ha passato
gran parte della sua vita in carcere ed era il comandate
militare di un’organizzazione armata di estrema sinistra:
Prima Linea. Un gruppo
protagonista negli ‘anni di Piombo’ di violenze e omicidi ai
danni di docenti universitari, magistrati e agenti di
polizia. Dopo oltre 20
anni di reclusione, Segio dal 2004 è un uomo libero e oltre
all’impegno nel volontariato ha collaborato con vari
quotidiani nazionali e
da qualche anno dirige il magazine Human Right.
Quest’intervista – che Segio ci ha concesso gentilmente e
che si è svolta in forma
indiretta, con consegna delle domande in forma scritta e
presentazione scritta delle risposte – non nasce come
apologia della lotta armata
né come la riabilitazione dell’immagine di una figura
controversa. Ma come pretesto per approfondire una stagione
della nostra storia da
un punto di vista inedito, spesso conosciuto in maniera
superficiale e non dalla voce dei suoi protagonisti.
* * * *
Segio, il gruppo terroristico che ha fondato, Prima Linea, in sei anni (1976-1983) si è macchiato di 23 omicidi. Tra i vari motivi di rimorso, quali sono le cose che hanno provocato un senso di pentimento maggiore?
Non è necessario essere
dei veggenti, ma neppure fini analisti, per prevedere che uno
degli argomenti al centro della prossima campagna elettorale
sarà costituito dal
tema del reddito.
Le tre principali forze politiche (5 Stelle, Pd e infine, ultima in ordine di apparizione, Forza Italia) si stanno sfidando. I 5 Stelle da anni hanno lanciato la proposta di “reddito di cittadinanza”, il Pd ha recentemente proposto e fatto approvare la misura del “reddito di inclusione” (ReI), Berlusconi, per non essere da meno, ha aggiunto la proposta del “reddito di dignità”, scippando un’espressione da tempo utilizzata da una campagna promossa dall’associazione Libera e da altre realtà della società civile.
In tutti i casi, il tema del reddito è strumentalmente utilizzato per altri fini e in particolare viene declinato come forma di controllo della povertà. Tale interpretazione è propedeutica all’imposizione di un sistema di welfare che si avvicini il più possibile al workfare liberista di matrice anglosassone, eliminando ciò che resta del welfare universalistico (in materia di sanità e scuola pubblica).
Le Donne in Nero incominciarono a
gironzolare
in aree di conflitto alla fine degli anni’80. Furono fondate,
in piena prima Intifada, da un gruppetto di bene intenzionate
donne israeliane che
ritennero di superare lo scontro tra palestinesi in lotta di
liberazione e invasori ebrei in fregola di colonizzazione,
promuovendo iniziative
congiunte di pace e riconciliazione. L’operazione aveva un
vizio che ne minava ogni possibilità di risultato positivo:
l’utopia che
tra dominanti e dominati si potesse arrivare alla pacifica
convivenza, rimandando a un qualche roseo futuro la soluzione
del problema. Che, invece, in
questo modo, veniva sottratta a chi aveva i titoli per
richiederla “con tutti i mezzi”, come prescrive la Carta
dell’ONU, a sua
disposizione. Tuttavia, diversamente da altre epifanie di
donne in nero, mirate con ogni evidenza ad annacquare le
giuste lotte in un paralizzante
volemose bene a prescindere e a sabotarle condividendo i
pretesti del carnefice (“democrazia”, “diritti umani”, “donne
imprigionate nel velo”, “dittatori”), quella in Palestina ha
avuto l’indubbio merito di diffondere conoscenze sulle
nequizie
dei genocidi sionisti.
Cobb-Douglas aggregate production function surely represents the cornerstone of the neoclassical theory. However, its good fit implies the respect for a series of unrealistic and increasingly restrictive hypothesis. So, this article attempts to summarize and to analyze the most important objections to Cobb-Douglas function raised by heterodox economists
1. Struttura elementare della
funzione Cobb-Douglas
La funzione matematica elaborata da Cobb e Douglas (1928) può essere considerata la pietra d’angolo dell’impianto teorico neoclassico. Stabilendo una relazione piana e diretta fra output di prodotto e input produttivi, essa costituisce la più nota funzione di produzione utilizzata nell’analisi economica aggregata (Prescott 1988, p. 532). Nella sua forma elementare, si presenta come segue:
Dove Y rappresenta l’output, A un multi-fattore di produttività della tecnologia adottata, K lo stock di capitale fisico, L il lavoro e α e β le quote distributive del reddito che vanno ai profitti e ai salari, e nel contempo l’elasticità di sostituzione statica di L e K. Teorizzata inizialmente per spiegare la distribuzione del reddito, essa è stata successivamente rielaborata da Solow (1956) per descrivere analiticamente i processi di sviluppo economico.
Nel 1970 esce in Venezuela la prima
traduzione
in lingua straniera di Verifica dei poteri. È però già
nel 1966, a un anno dalla prima edizione italiana, che Fortini
(grazie alla mediazione di Alberto Filippi) entra in contatto
con Rafael Di Prisco, studioso di letteratura dell’Università
di Caracas
interessato al lavoro di traduzione, con cui inizia uno
scambio epistolare per discutere alcune modifiche da apportare
al libro.
Los poderes culturales (il titolo scelto da Di Prisco), pubblicato presso le Ediciones de la Biblioteca de la Universidad Central de Venezuela, si presenta al lettore venezuelano con alcuni tagli1 suggeriti da Fortini nel tentativo di eliminare testi di interesse specificamente italiano, mentre particolarmente rilevante è l’aggiunta del saggio Due avanguardie che, dopo pochi anni, entrerà a far parte anche dell’edizione italiana di Verifica del 1969. Oltre alle modifiche richieste al curatore, Fortini pensa di aggiungere al testo alcune note esplicative e di colmare alcune omissioni necessarie per agevolare il lettore straniero. Quello a cui però Fortini tiene maggiormente, e che si legge con chiarezza nella sua prima lettera a Di Prisco (1966), è inserire una prefazione al volume che gli permetta di presentarsi in maniera diretta al nuovo pubblico. Uno scritto «rivolto ad immaginari studenti sudamericani vuol chiedersi che cosa significa, oggi, conoscere gli altri popoli e se, paradossalmente, non sia oggi più importante e grave intendere le somiglianze che credere di poter capire le differenze.
La
straordinaria e ininterrotta sequela di abbagli, errori,
madornali gaffe, pastrocchi politici, sbandamenti ora a destra
ora a destra,
incapacità di governo, incapacità d’opposizione, che vede
protagonista il M5S, è qualcosa di raro visto in politica. Per
di
più, il fuoco di sbarramento a media unificati – da Repubblica
al Manifesto, dal Fatto al Corriere
– contribuisce a raccontare il M5S come male principale della
politica italiana. Giornalisti pagati unicamente per svelarne
la natura corrotta e
para-nazista trovano alloggio presso ogni testata, ogni
televisione, per non dire delle case editrici, blog,
settimanali. La maggior parte di queste
critiche sono suffragate da fatti incontrovertibili.
L’incapacità del M5S di essere forza politica credibile è un
dato di fatto.
Eppure, da più di cinque anni rimane saldamento il primo
partito italiano. Anche fosse il secondo, o il terzo, il
discorso non cambierebbe. La
Lega o il Pd, Forza Italia o Rifondazione: tutti i soggetti
politici hanno pagato elettoralmente il prezzo della propria
incoerenza e
incapacità, nel presente o in passato. Tutti tranne il M5S.
Chi da anni si accanisce contro il partito di Grillo, svelando
non si sa più
a chi la sua natura reazionaria, ancora oggi non riesce a
spiegare i motivi di questa tenuta elettorale, che è anche una
tenuta politica, se
non dando la colpa all’elettorato.
Condivido con voi l’amabile conversazione che ho avuto stamane. Tutto è partito da questo tweet di una (tra le poche rimaste) sostenitrice del PD.
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Enrica sosteneva che, negli anni bui della sovranità monetaria, la lira era solita dimezzare il suo valore da un giorno all altro.
[Intervento al ciclo “Figure e interpreti del Sessantotto”, coordinato da Pier Paolo Poggio, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2 ottobre 2017, nell’ambito del centenario della nascita di Fortini, pubblicato originariamente da http://www.fondazionecriticasociale.org/]
Quando mi è
stato chiesto di intervenire su Fortini e il ’68 ho pensato
che un modo per affrontare un tema così impegnativo, e con una
bibliografia
tutt’altro che esigua, poteva essere quello di partire da un flash,
da un momento specifico, lasciando alla discussione il compito
di tentare sintesi e svolgere discorsi più ampi. Un episodio
significativo, da leggere nel contesto del lungo lavoro
intellettuale di Fortini,
del suo “impatto” sulla cultura circostante, mi è parso allora
quello che data all’anno precedente, 1967: per la precisione
23 aprile 1967.
Firenze, piazza Strozzi. La piazza è colma di studenti convenuti per una manifestazione contro la guerra del Vietnam. Dal ’65 gli Stati Uniti bombardano il Vietnam del Nord con una intensità che supera di molto quella della campagna contro la Germania nazista: è l’operazione Rolling Thunder, che tuttavia non impedirà, come sappiamo, la vittoria finale dei vietnamiti. Anche a Berlino, a Pechino gli studenti sono in rivolta, e di lì a poco lo saranno a Berkeley (“The Summer of Love”). Proprio quel giorno era arrivata, inoltre, la notizia del colpo di stato in Grecia. Anni dopo, ha scritto Fortini (cito da Notizie sui testi in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano, 2003, p. 1794):
Con il contributo del compagno Alessandro Pascale, continua la nostra rassegna dedicata alla riflessione sul tema “i comunisti e la questione nazionale”
È
molto importante che Marx21.it abbia lanciato una
discussione su un tema importante e assolutamente non
marginale come quello riguardante la sovranità nazionale. Nel
tracciare le righe
seguenti sintetizzerò alcune conclusioni a cui sono giunto
nell'opera “In Difesa del Socialismo Reale e del
Marxismo-Leninismo”
(scaricabile gratuitamente su intellettualecollettivo.it),
che si intrecciano profondamente con questa questione.
La gran parte del movimento comunista italiano ha vissuto gli ultimi decenni in balìa del revisionismo, facendosi dettare le parole d'ordine, e talvolta perfino l'analisi, dalla borghesia e da intellettuali di area progressista ma non marxista. Il fatto che oggi parlare di sovranità nazionale sia un tabù e che si lasci il tema alle destre non deve stupire insomma: è il simbolo di una strutturale incapacità analitica dovuta ad un profondo revisionismo che affonda le sue origini assai lontano nel tempo: in Italia almeno agli anni di Berlinguer, il quale, con l'abbandono formalizzato del marxismo-leninismo da parte del PCI, a favore dell'ottica eurocomunista, legittimò inconsapevolmente un filone culturale cosmopolita che con l'internazionalismo proletario non ha nulla a che fare.
Potrebbe
sembrare forse azzardato, ma credo sia possibile sostenere che
non esiste un solo e unico modo per descrivere il capitalismo.
Non intendo
in generale, altrimenti sarebbe ovvio, ma anche quando
condividiamo, per linee generali, una prospettiva che voglia
dirsi autenticamente marxiana. In
altre parole, anche se partissimo da uno stesso paradigma
molti sarebbero gli elementi teorici che possono, a tal fine,
essere selezionati a scapito
di altri. Il problema deve allora essere collocato a un altro
livello: la questione in gioco non è infatti quella di
riuscire a costruire uno
schema teorico coerente e accurato sul funzionamento del
capitalismo, ma accordare quella stessa astrazione
teorica in modo che sia in grado
di determinare una trasformazione della realtà capitalistica
stessa. Economia politica del comune (DeriveApprodi,
2017) l’ultimo
libro di Andrea Fumagalli, lavora alla perfezione dentro
questa tensione irrinunciabile. Nel testo si dispongono
infatti, in modo sinergico, diversi
strati di riflessioni che spostano continuamente in
avanti l’analisi teorica fino a portarla al cospetto della
prassi – e in modo
ancor più prezioso, quest’ultima (la riflessione sulla pratica
politica) segue contemporaneamente l’andamento inverso.
L’organizzazione stessa del volume, il suo indice, ci dice
qualcosa di questa sua prima e fondamentale qualità
metodologica.

La nostra intervista a Giorgio Cremaschi, ex Segretario Fiom e candidato a Napoli e Bologna per la Lista Potere al popolo. "Lavoro, Welfare e diritti sociali possono tornare protagonisti in questo paese solo con la rottura chiara con Bruxelles"
Partiamo dalla sua
candidatura. Perché
dopo 50 anni di militanza attiva, come ha ricordato in un
suo recente scritto, ha scelto di candidarsi alle elezioni
al Parlamento italiano solo ora?
E cosa l’ha convinto di Potere al Popolo?
Mi hanno convinto la crisi drammatica che vive la politica nel nostro paese e il coraggio e l'entusiasmo dei giovani di Je So Pazzo. Qualcosa dobbiamo fare e dobbiamo farlo ora. Il delirio mediatico, economico e culturale che espelle tutto ciò che non è conforme al pensiero unico dominante è stata sicuramente la spinta decisiva. Vorrei essere molto chiaro su questo punto: siamo tornati al livello della politica borghese ottocentesca in cui il mantra del sistema verso le classi meno abbienti era: “Non si può far nulla”. Prendete la decisione ultima votata ieri sul Niger auspicata dall’UE e voluta da Macron. Abbiamo deciso di mandare i nostri soldati all’ordine di Macron in un’iniziativa neo-coloniale per difendere il governo più corrotto dell’Africa, responsabile di disastri economici che spingono tante persone ad emigrare, e, pensate, lo hanno votato insieme centro destra e centro sinistra, che poi alla sera fanno finta di litigare in TV. Ecco se la Politica oggi in Italia si è trasformata in un’enorme e perenne fake news, mettersi in gioco è un dovere ed è per questo che ho accettato la sfida.
"Cadrebbe la visione marxista della storia se,
anziché riconoscere un tipo unico del rapporto
di produzione capitalista (come di ogni altro
precedente) che
corre da una rivoluzione all'altra,
se ne ammettessero tipi
diversi successivi."
La teoria dei fondatori del comunismo critico ha dimostrato grande duttilità ed è servita a spiegare fenomeni economico-sociali dell'antica Roma, delle società orientali, del feudalesimo. Non ha bisogno del chirurgo plastico per adattarsi alla situazione del XXI secolo.
Il capitalismo è uno, ha varie fasi e l'imperialismo è la fase monopolistica del capitale, non un sistema economico sociale a sé. Il marxismo è una teoria unica, non ha bisogno di prendere qualcosa a prestito da un qualsivoglia Keynes o da un qualche Friedman Milton.
L'eclettismo crea confusione in teoria e in pratica. Montereste pezzi studiati per un fucile a canna liscia su un fucile a canna rigata? Probabilmente vi esploderebbe tra le mani.
Mescolando la teoria di Marx con quella di altri presunti maestri se ne rende impossibile il suo funzionamento, la sua applicazione. Se Marx non vi convince, passate ad un'altra teoria, non create dei Frankenstein teorici e pratici.
A partire dalla rilettura di Ralf Dahrendorf (“Quadrare il cerchio”, Laterza, 1995), una riflessione critica sulla post-democrazia confuciana teorizzata da Parag Khanna nel volume “La rinascita delle città-Stato”, di recente pubblicazione per Fazi: una proposta di governance tecnocratico-burocratica a misura degli interessi dominanti
La tirannia del
costume è generalmente
un ostacolo
al progresso dell’umanità. […] Questo è il caso, per
esempio, di tutto l’Oriente. In
Oriente il costume
domina arbitro supremo in tutte le cose»[1].
John Stuart
Mill
«Prima che l’umanità
soffochi (o si delizi) nella
prigione (o nel paradiso) di un impero globale
di marca occidentale o di una società di
mercato
globale gravitante attorno all’Oriente asiatico,
potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie)
della crescente violenza che ha accompagnato il
disfacimento dell’ordine della Guerra Fredda»[2].
Giovanni
Arrighi
Nostalgia di un mondo alla fine
Nel pieno della grande transizione di fine Novecento, il sociologo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf diede alle stampe uno smilzo libretto impregnato della consapevolezza melanconicamente profetica di assistere al tramonto del mondo in cui si era riconosciuto per tutta la sua esistenza militante. Il Primo Mondo, quale Occidente illuminato e civile, interpretato e propugnato con le categorie del liberale critico di stampo popperiano e newdealista: «a volte si ha l’impressione che la grande stagione stia per concludersi, o che sia quanto meno in pericolo»[3].
1. Solo alcune brevi riflessioni.
Vi confesso che sarei tentato di entrare in "silenzio-blog" fino all'avvenuto svolgimento delle elezioni.
Appare sempre più evidente, infatti che, dopo che il popolo italiano ha subito un crescendo pluridecennale di politiche di consolidamento del bilancio pubblico (tentato ed anche fallito perché perseguito, tutt'ora, sulla base di idee economico-scientifiche rivelatesi approssimative nei loro presupposti e fini), i programmi delle forze politiche più importanti, glissano sulla loro posizione riguardo alla prosecuzione o meno di tale linea di politica economico-fiscale.
Il problema sta tutto, ovviamente, nelle fatidiche "coperture" da trovare dentro un ordinamento che, via fiscal compact e persino nella Costituzione, adotta l'obiettivo del pareggio strutturale di bilancio.
2. Questa stessa linea, peraltro, come abbiamo visto, ha convertito il futuro in una minaccia e quindi ha innescato negli elettori l'atteggiamento culturale diffuso del cercare di indovinare, tra le righe di promesse elettorali cui non possono ragionevolmente attribuire un'eccessiva credibilità, come, dopo le elezioni, verrà distribuito, tra i vari segmenti di società non appartenenti alla elites "cosmopolita", il peso di ulteriori sacrifici economici, che determineranno una sorta di lotteria nell'infliggere un ancor più marcato peggioramento della propria condizione economica.
Presentato alla stampa dai leader di CDU, CSU e SPD, l’accordo che definisce i contenuti programmatici della nuova coalizione di governo segna una torsione neo-autoritaria nella politica della Germania. I movimenti sociali tedeschi dovranno ora essere all’altezza della nuova sfida
Una solida certezza, probabilmente l’alleanza più rappresentativa degli interessi convergenti di pezzi della società tedesca (dalla grande industria vicina alla CDU ai sindacati confederali legati all’SPD, alla borghesia conservatrice della cattolica Baviera).
A nulla sono serviti i pugni sul tavolo del socialdemocratico Schulz o i malumori della base dell’SPD (in particolare quella più vicina ai sindacati di metalmeccanici e servizi). L’inerzia del “senso di responsabilità” contro il salto nel buio “populista”, ha portato la Cancelliera Angela Merkel ad incassare un nuovo accordo politico per i prossimi anni. Ancora una volta è lei la vincitrice della partita, ancora una volta è l’SPD ad aver perso. Ma a tutti coloro che pensano che al più antico partito europeo possa toccare la sorte del PASOK o del PSF (o forse del PD italiano) basti ricordare che anche nei periodi difficili dal Programma di Gotha a Weimar, la socialdemocrazia tedesca è sempre riuscita a “superare la nottata” (e questo non è mai stato un bene per il conflitto politico e i movimenti rivoluzionari).
Come apparirebbe ai nostri occhi un grattacielo se – anziché essere realizzato da un’impresa di costruzioni con capi cantiere che danno ordini e operai che eseguono – fosse innalzato seguendo le regole di organizzazione spontanea che hanno visto la nascita di Wikipedia o del software libero? Di questo ci parla Cory Doctorow in “Walkaway”, il suo ultimo e acclamatissimo romanzo.
Non è solo un problema di cantieri edili. In tutti i campi, da sempre, accettiamo le gerarchie – con il loro inevitabile portato di obbedienze e coercizioni – perché sappiamo che così possiamo raggiungere risultati (ad esempio, costruire un grattacielo) che sarebbero impossibili se fossimo lasciati soli e liberi di fare ciò che vogliamo. E spesso il modo più efficace per lavorare insieme è mettere qualcuno a comandare e supervisionare e gli altri a obbedire.
Ma se gerarchie, costrizioni, obbedienze, sono un male che accettiamo malvolentieri solo in quanto necessario, perché non pensare, sulla falsariga del modello Wikipedia, ad un mondo integralmente organizzato su forme di produzione decentralizzate e collaborative (commons-based peer production, secondo la dizione coniata da Yochai Benkler)?
Liberi e Uguali ha aperto la campagna elettorale proponendo di abolire le tasse universitarie. È un tema importante che tocca la questione del diritto allo studio e sul quale esistono pareri diversi. In questi giorni ospiteremo due opinioni opposte, quella di Marco Bollettino e quella di Alessandro Brizzi. Una versione più breve dell’intervento di Bollettino è uscita su www.stradeonline.it
Dal palco dell’Ergife di Roma, in occasione dell’assemblea nazionale di Liberi e Uguali, Pietro Grasso ha lanciato l’idea di abolire le tasse universitarie. La proposta, ha spiegato l’ex Presidente del Senato, «costa 1,6 miliardi. […] Avere un’università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei, significa credere davvero sui giovani, non a parole ma con fatti concreti. Ne beneficerà il Paese: dare a tutti la possibilità di studiare». Non si sono fatte ovviamente attendere le critiche, da tutto il Partito Democratico al Ministro Calenda che l’ha addirittura giudicata come “Trumpiana”. Ma questa proposta favorirebbe davvero i ricchi o, come affermato da Grasso, darebbe a tutti la possibilità di studiare?
Università per tutti
Per valutare correttamente una proposta politica, non possiamo limitarci a giudicarne le intenzioni. Dobbiamo, invece, analizzare quanto costa e se è efficace nel raggiungere gli obiettivi prefissati.
La straordinaria riuscita dell’assemblea di Potere al Popolo in uno stracolmo cinema Modernissimo va ben oltre il dato, importante, dell’avvio e della presentazione della campagna elettorale della Lista.
Chi era presente e quanti hanno seguito le dirette web hanno avuto modo di cogliere alcuni aspetti positivi che, a mio avviso, travalicano il pur significativo passaggio elettorale che ci apprestiamo a compiere collettivamente.
Già dalla composizione della platea si è potuto riscontrare una presenza veramente composita e trasversale: non solo gli attivisti di sempre del conflitto metropolitano partenopeo ma tantissimi volti di compagne e compagni ritornati ad “affacciarsi” ad un evento politico dopo la lunga fase delle delusioni, delle frantumazioni e delle sconfitte male metabolizzate.
Inoltre erano presenti esperienze di impegno civile, associativo e di base che – finalmente – iniziano a porsi il tema della “politica”, del “progetto collettivo” e, quindi, dell’alternativa possibile dopo il lungo inalveamento nelle piccole “nicchie di resistenza” dignitose ma, nel lungo periodo, inefficaci.
Il compagno Alberto Ferretti ci segnala, per la rubrica "i comunisti e la questione nazionale" , un suo contributo pubblicato nel blog Ottobre. Volentieri lo proponiamo ai nostri lettori
Larga
parte della sinistra radicale tende oggi a minimizzare i
crimini nordamericani, stigmatizzando ed equiparando
l’ossessione
“antiamericana” (che esiste in molti settori radicali della
destra occidentale) alla lotta anti-imperialista propria alle
forze
marxiste-leniniste. Questo accade quando si parla
genericamente di imperialismo, decorrelandolo dal suo
carattere economico, cioè come fase
apicale, o suprema, dello sviluppo capitalistico guidato dal
capitale finanziario dominante, e lo si riduce alla semplice
politica estera
“soggettiva” degli Stati e potenze, qualsiasi ne siano le
ragioni.
Si cade così in una contraddizione: quella cioè di ragionare in termini geopolitici, ma di imputare a chiunque si schieri – nell’ambito dei conflitti in corso in particolare in Medio Oriente – da una parte o dall’altra della barricata, di fare della “geopolitica”, di aver abbandonato cioè la lotta di classe al fine di “tifare” per l’una o l’altra grande potenza in un’ottica “banalmente” anti-imperialista.
Questa visione sottende due gravi errori: il primo che non vi sia un contenuto di lotte di classe nella lotta delle nazioni sfruttate contro l’imperialismo e, come corollario, si considerano aprioristicamente tutti gli Stati-nazione attualmente esistenti come “imperialisti”; l’altro che l’unico compito del proletariato odierno sia combattere contro tutti gli Stati-nazione esistenti in quanto espressione del potere delle classi capitalistiche, esattamente come ai tempi di Marx e Engels o della Seconda Internazionale.
Con le attuali trasformazioni tecnologiche – digitalizzazione, automazione, capitalismo delle ‘piattaforme’ – la funzione dello Stato cambia radicalmente: da regolatore del lavoro, l’intervento pubblico diventa il presupposto dell’esistenza stessa del lavoro. Socializzare la ricchezza prodotta è l’unica strada per stabilire un equilibrio tra produzione e consumo ed evitare catastrofi sociali infinitamente peggiori di quelle già […]
Ecco, una voce squillante ci ingiunge di
ritornare
in noi stessi, riempie di figure le oscurità in cui ci
aggiravamo, i fantasmi fuggono lontano …
(En clara vox redarguit …)
1.- La politica e la cultura italiana avrebbero bisogno di una voce che riempia di figure l’oscurità indistinta e scacci i fantasmi.
Anche molti tra coloro che cercavano di comprendere con spirito libero la verità delle sfide che il mondo di oggi propone erano – fino a non molto tempo fa – spaesati, balbettavano, fuori di sé, discorsi che non erano i loro, non riuscivano a chiudere il cerchio tra i dati della realtà e le proposte politiche se non compiendo un salto fideistico in un qualcosa che in futuro sarebbe dovuto intervenire (la “ripresa” da “agganciare”, un “nuovo capitale umano” che avrebbe incontrato “una nuova domanda di lavoro prodotta dall’automazione stessa” …). Oppure evocavano politiche di giustizia affidate più ai sentimenti che al realismo (e dunque cieche nei confronti dei duri vincoli che lo stato delle cose impone). In questo clima una parte della sinistra credeva di potersi dimostrare utile perché – sulla base della sua tradizione, orientata allo sviluppo delle forze produttive e alla modernizzazione – pensava di essere più brava (e dunque anche più equilibrata e saggia) nell’applicare le ricette del neoliberismo.
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E’ stato diffuso il
documento “Un patto per la costituzione e per la democrazia
”, che riproduco in calce, ed in merito al quale ritengo
giusto
svolgere alcune notazioni critiche.
Comincio con l’osservare che il non tener conto dei mutamenti intervenuti nella realtà economico-sociale, come mi sembra si faccia nel documento in questione, può essere all’origine di certe posizioni che reputo astratte.
1. Va innanzitutto preso atto che la forma parlamentare voluta dalla Costituzione del ’47 è stata già modificata dalla Costituzione materiale vigente.
Infatti, anche limitando l’esame a quest’ultima legislatura, emerge che:
• si è fatto ricorso per ben 95 volte alla decretazione d’urgenza, che la Costituzione ‘formale’ indica nell’art. 77 come del tutto straordinaria, solo per i casi di effettiva urgenza.
• la procedura normale di approvazione delle leggi, indicata dall’art. 72 della costituzione ‘formale’, è stata travolta dal ricorso molto frequente al voto di fiducia, avvenuto per ben 107 volte.
Pubblichiamo una riflessione circa il dibattito su Il Manifesto tra Luciana Castellina e la lista Potere al Popolo
L’ormai celebre intervento di Luciana Castellina sul Manifesto dedicato a Potere al popolo, e la sua successiva replica alle critiche sulla stessa testata, aiutano a sviluppare qualche riflessione. Di quelle che servono più di mezza giornata.
Ora, per chi non conosca Luciana Castellina dobbiamo dire
che, oltre ad essere una compagna storica, è anche una persona
aperta, curiosa,
capace di condividere esperienze straordinarie. Il punto è
che, al momento in cui emergono delle criticità politiche la
compagna
Castellina manifesta il solito riflesso condizionato, tipico
di quel genere di impostazione culturale. Il riflesso si
concretizza nel consueto
richiamo all’unità della sinistra, o di ciò che si suppone
essere di sinistra, preludio ad una più complessiva difesa dei
valori costituzionali. Uno schema anni ’50, togliattiano, un
evergreen dei valori unitari che riemerge,
appunto, ad ogni
criticità politica. Fino ad arrivare, con la zattera
del tempo, fino a noi. Non è un caso, infatti, che Castellina,
mettendo in campo i classici a suo avviso utili per
legittimare il suo discorso,
parli di Lenin, Gramsci e Togliatti. Lasciando perdere i primi
due, anche per non finire in discussioni dottrinarie, rimane
esemplare l’uso di
Togliatti nell’argomentazione politica odierna.
Matteo Renzi promette di abolire il canone Rai, ed estendere gli 80€.
Matteo Salvini promette la fiat tax.
Pietro Grasso promette di abolire le tasse universitarie.
Persino i Cinquestelle, auto-proclamati paladini del rispetto delle leggi, adesso promettono di cancellarne almeno 400 da scegliere con un sondaggio online, e vanno a caccia dei voti degli evasori assicurando l’abolizione dello Spesometro, del Redditometro, del Cazzarometro.
Da un capo all’altro del parlamento, il coro è unanime e monocorde: Meno Tasse Per Tutti.
Non sono diventati tutti berlusconiani.
Sono diventati tutti Berlusconi.
È lo stadio terminale della sindrome di Palmer Eldritch.
Il processo in atto da tempo adesso è compiuto.
Azzimato e ghignante, Luigi Di Maio è il Berlusconi del 1994 che si spaccia per grande rinnovatore post-Tangentopoli, promettendo la Rivoluzione Liberale, il Nuovo Miracolo Italiano, e reclutando cantanti e conduttori Tv.
Egolatra e megalomane, Renzi è il Berlusconi dell’era imperiale, che col suo clan di marpioni e veline s’espande ad occupare bulimicamente qualsiasi posizione di potere disponibile, politico, economico, mediatico, amministrativo.
Commentando il libro di Laurie MacFarlaine sulla creazione della ricchezza, in particolare in Inghilterra, a partire dalla semplice rendita immobiliare, radicata nel differenziale di valore fondiario, avevamo caratterizzato le città come macchine produttive di quella particolare merce universale che è il capitale astratto. Di questo le città sono eminentemente fonte di produzione attraverso i meccanismi della rendita.
La rendita non è mai neutrale, come non lo è mai il denaro. Nel profondo enigma del valore, che l’economia marginalista intese dissolvere nella magia della sua riduzione a numeri differenziali apparentemente oggettivi, ma sottilmente ancorati ad una teoria morale, l’incremento della quantità di un astratto indicatore di scambio come il denaro, ottenibile nell’eventuale compravendita da un bene cosiddetto “immobile” (in quanto essenzialmente caratterizzato dalla sua posizione), non corrisponde a vedere bene all’aumento di alcun bene d’uso concreto. Non viene, cioè, prodotto nulla di diverso quando una casa in un dato luogo, conformemente alle altre limitrofe in analoghe condizioni, vede attribuirsi dai “compratori” (reali o potenziali) una maggiore attrattività nella metrica astratta del denaro necessario per averne l’uso esclusivo (ed il diritto di rivendita, soprattutto).
In queste ore abbiamo scoperto che il nostro paese è affetto da “macronite”, una malattia endemica che divampa spesso soprattutto nelle redazioni e nei gruppi d’opinione. “Facciamo come X o Y”, “servirebbe un leader come X o Y”… E’ un virus piuttosto diffuso che, insieme al “vincolo esterno” usato per piegare il paese alle scelte più antipopolari, viene utilizzato come una clava nella narrazione mediatica sulle priorità sociali oggetto di conflitto e dei rapporti di forza.
La visita di Macron in Italia è così diventata l’ennesima dimostrazione di tossicità distribuita a piene mani. Il sostegno piuttosto esplicito che Macròn ha dato a Gentiloni (e al suo partito, il Pd) non ha suscitato le prevedibili e dovute reazioni contro le “ingerenze sui problemi interni”.
Tutte le maggiori forze politiche si sono infatti abituate ad abbassare la testa verso il più forte – ieri i presidenti Usa, oggi quelli dei maggiori stati europei – soprattutto perché il dominio del “vincolo esterno” sulle scelte interne è in vigore e agisce senza contrasti e in misura crescente dal 1992. Ossia dall’anno del Trattato di Maastricht e della famosa legge finanziaria “lacrime e sangue” di Giuliano Amato, fatta specificamente per centrare i parametri dell’Unione Europea appena costituita.
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Il capitalismo assoluto dei nostri giorni con le sue passioni tristi, con la vita continuamente offesa, è nella sua evidenza così lampante che si può essere divisi sui programmi politici, sulle alternative, ma su versanti opposti da un punto di vista politico ed filosofico possiamo incontrare autori vicini per le critiche al sistema. Ciò è di importanza notevole poiché evidenzia che quanto la sinistra ha espresso, trova conferma in pensatori appartenenti a diverse tradizioni. Il caso Nietzsche è emblematico, difficile collocarlo in una precisa corrente, sicuramente notevoli sono le forzature di coloro che hanno tentato di porlo a sinistra. Fondamentali sono le sue critiche al sistema capitalistico nel quale ravvisa l’affermarsi di un uomo parodia di se stesso, perché perso tra le luci abbaglianti delle vetrine, nei mercanteggiamenti, totalmente indifferente verso i suoi simili. Un uomo che vive per soddisfare le sue piccole voglie, deresponsabilizzato verso se stesso e verso la comunità, individuo atomizzato, nazionalista per convenienza, sempre pronto a vendersi al primo offerente. Un uomo in vendita. Un uomo educato dal mercato ad essere poco differente dalla merce, ad agire in nome dell’utile.
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Il recente dibattito interno al femminismo, testimoniato anche dall'Almanacco di Filosofia di “Micromega”, apre uno spazio per la ripresa delle correnti anticapitalistiche del femminismo, aiutandole a ricavarsi un ruolo egemonico nel movimento delle donne e a contenere l’influenza delle correnti “emancipazioniste” e dell’estremismo “genderista”, che funzionano da vie di penetrazione dell’immaginario neoliberista nel movimento
Sull’ultimo numero del 2017, nel
suo Almanacco di Filosofia, “MicroMega” ospita la dura
polemica che ha opposto, da un lato, lo storico Vojin Saša
Vukadinovič e Alice Schwarzer (direttrice di EMMA, rivista
storica del femminismo tedesco), dall’altro, la filosofa
statunitense Judith
Butler e la sociologa tedesca Sabine Hark[i].
Prendendo spunto da letture
dissonanti del noto episodio della notte del 31 dicembre 2015,
allorché una folla di immigrati musulmani invase il centro di
Colonia
esercitando molestie sessuali nei confronti delle cittadine
tedesche che festeggiavano il capodanno, i due fronti si sono
scambiati accuse di razzismo
(Butler - Hark contro Vukadinovič - Schwarzer) e di un
relativismo culturale giustificatorio, se non complice, nei
confronti delle pulsioni
maschiliste dell’islamismo (Vukadinovič – Schwarzer contro
Butler – Hark). Al netto della virulenza verbale (con insulti
reciproci degni di una rissa fra stalinisti e trotskisti), il
confronto sollecita una riflessione in merito a ciò che mi
pare caratterizzi
buona parte del dibattito teorico, tanto nel campo femminista
“ortodosso” quanto in quello dei gender studies,
vale a dire una
sorta di oscillazione fra cattivo universalismo e cattivo
relativismo.
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Una discussione tra filosofi marxisti sulla dialettica («Rinascita», 1962) e un saggio sullo stesso tema («La Cultura», 2003)
Nel suo insieme, sia per le
acquisizioni
critico-metodologiche sia per la reinterpretazione complessiva
di Marx (in senso umanistico e storicistico) alla luce
specialmente della Kritik
del 1843, la scuola filosofica di Della Volpe si configurò
fra anni ’50 e anni ’60 come un campo teorico autonomo, una
sorta di
articolata ‘koiné’ capace di esercitare un influsso vasto e
profondo sullo schieramento culturale della sinistra italiana,
non meno
che nella impostazione di concreti problemi di ideologia e di
azione politica che interessavano il presente e le prospettive
del movimento operaio. La
discussione tra filosofi marxisti su «Rinascita» (si badi, una
rivista più politica che teorica) tra giugno e novembre del
1962
agì da cartina di tornasole di un travaglio che metteva in
gioco non solo questioni di interpretazione teorica e di
orientamento culturale, ma
soprattutto temi ricchi di scottanti implicazioni politiche,
quali il rapporto fra teoria e pratica e, fuor di cifra, lo
stesso dibattito sullo
sviluppo capitalistico del paese1 e sulla strategia
del movimento operaio di fronte alla linea attuata dalle forze
dominanti con il
varo del centro-sinistra. Per questo aspetto, essa rappresentò
un tentativo importante di ricomposizione unitaria della
teoria marxista e di
superamento delle alternative presenti, ormai da tempo, in
essa2.
Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00
E se l’errore di previsione più
grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito
alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non
potrebbe svolgere?
Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele
Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi
necessario, appena
pubblicato da Colibrì.
Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.
Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:
“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.
Ve ne sarete accorti, da qualche giorno Renzi sta tornando buono per il mainstream. Per mesi l'hanno punzecchiato, e di tanto in tanto bastonato, ma adesso basta che il Pd è già troppo in basso nei sondaggi. Non che l'esito delle urne sia del tutto predeterminabile dal concerto dei media, ma lorsignori ci provano. Eccome, se ci provano!
Per il blocco oligarchico, messa in sicurezza la linea eurista, addormentato cioè il dibattito sull'Europa al fine di renderlo quasi monocorde e certamente innocuo, è ora il momento di provare a disegnare gli scenari più consoni del dopo-voto. Finito il tempo degli anestesisti, è ormai arrivato quello degli stregoni.
Sull'esito del lavoro degli anestesisti, certo frutto di tanti fattori, ha già scritto in maniera mirabilmente sintetica Sandokan: «Sulla questione delle questioni, quella della gabbia dell'euro e dell'Unione europea, si registra un contestuale avvicinamento delle posizioni di tutte le diverse forze politiche in campo». Insomma, tutti a criticare l'Europa così com'è, ma tutti a vendere nel mercato elettorale l'unica soluzione totalmente impossibile, cioè quella della "ridiscussione", "riforma", "revisione" dei trattati che è del tutto irrealizzabile, altro non fosse che per la necessità di un voto unanime di 27 Paesi con i loro diversi (e spesso contrapposti) interessi in campo. Da qui la sua conclusione: «le elezioni 2018 passeranno, l'euro resterà, e nessuno gli torcerà un capello».
Come noto, anche la Germania proseguirà nel solco della “grande coalizione” (congresso Spd permettendo). Nonostante i proclami socialdemocratici (“mai più un governo con la Cdu!”), la realtà ha ricondotto la “sinistra” tedesca a ben più miti consigli. Ma la “grande coalizione” è l’unica possibilità di governo nell’Unione europea, al di là della convenienza politica che inviterebbe il partito di opposizione a smarcarsi dal governo per evitare sicuri tracolli elettorali. Il processo è fin troppo conosciuto per destare sorpresa. Quello su cui invece bisognerebbe intendersi è che la coalizione liberista non ha come unica forma quella dell’accordo tra partiti di “centrodestra” e “centrosinistra”.
La “grande coalizione” trova il suo fondamento persino epistemologico in due obiettivi di natura strategica: in primo luogo, gestire la progressiva ritirata del welfare in Europa attraverso la necessaria copertura data dal rapporto tra “sinistra” e sindacati al fine di garantire la pace sociale; l’altro obiettivo è il rafforzamento dell’Unione europea, frenando e delegittimando qualsiasi “ritorno al nazionale”. Fatti salvi questi due obiettivi, tutto è contrattabile. Si possono avere governi più attenti ai diritti civili, altri chiusi a ogni apertura civica; si possono avere esecutivi liberali e altri meno; certi governi possono reintrodurre forme di spesa pubblica (esclusivamente assistenziale), altri invece favorire strategie più marcatamente liberiste.
Ho ricevuto una lettera da Margaret Huang, direttrice esecutiva di Amnesty International. Sta raccogliendo fondi contro Trump per il suo “gelido disprezzo per i nostri cari diritti umani” ed il suo sfruttamento di “odio, misoginia, razzismo e xenofobia”, con cui ha “incoraggiato e potenziato i segmenti più violenti della nostra società”.
Considerando l’ostilità della fazione Identity Politics verso il presidente, si può capire perché la signora Huang inquadri la sua raccolta fondi in questo modo. Ma sono i trumpiani ad essere i segmenti più potenti e violenti della nostra società o lo sono le agenzie di sicurezza, la polizia, i neocon, i media presstitute ed i partiti repubblicano e democratico?
John Kiriakou, Ray McGovern, Philip Giraldi, Edward Snowden ed altri ci informano che sono i loro ex datori di lavoro, le agenzie di sicurezza, che non devono rispondere a nessuno e sono violenti per natura. Le agenzie di sicurezza sono certamente incoraggiate da tutto ciò che hanno ottenuto impunemente, incluso il complotto noto come Russiagate.
I crimini contro l’umanità che il governo americano ha compiuto da quando il regime Clinton ha attaccato la Serbia non sono stati commessi dai deplorevoli trumpiani.
Piangono lacrime di coccodrillo i padroni di Internet e i loro sponsor. Ora ci fanno sapere che il nuovo corso dei Social per contrastare le famigerate “Fake news di Putin” sarebbe già costato a Facebook miliardi di dollari e temiamo che già si prospettino (al pari di quelli che l’Unione Europea eroga ai “giornalisti anti-Putin”) finanziamenti pubblici per aiutare le aziende proprietarie di social nella loro bella crociata neo-maccartista. Apre le danze, in Italia, l’Huffington Post dapprima con l’articolo “Più foto di gatti e meno news, la scelta di Facebook fa paura” poi con "Mark Zuckerberg ha perso 3,3 miliardi di dollari con il nuovo algoritmo di Facebook: la stima di Forbes”, segue Il Corriere della Sera e tutti gli altri.
Ma come stanno, davvero, le cose?
Intanto parliamo degli algoritmi che, su Facebook, come su altri social indirizzano alla lettura di determinati post (tra quelli degli innumerevoli “amici” e siti clikkati negli anni) orientando, quindi, gli interessi, le opinioni, gli acquisti... di miliardi di utenti. Già il 27 agosto scorso e il 15 dicembre 2016 Facebook aveva annunciato di aver aggiornato i suoi algoritmi per “contrastare la diffusione delle fake news”, oggi l’annuncio di Mark Zuckerberg di una radicale modifica degli algoritmi, finalizzata, - ovviamente – a garantire che “il tempo che spendiamo tutti su Facebook sia tempo ben speso.”
In piena campagna elettorale arrivano le ultime novità di Facebook e Twitter per manipolare l’opinione pubblica.
Le prossime elezioni potrebbero essere molto differenti o forse solo un po’ “bulgare”
Si avvicinano le elezioni e in Italia potremo essere tra i primi al mondo a sperimentare gli effetti dei nuovi provvedimenti contro la libertà di pensiero e di espressione.
La prima novità arriva da Facebook che ha deciso di tutelarci contro le “fake news” (leggi notizie non allineate al politicamente corretto) riducendo con un apposito algoritmo il flusso di notizie provenienti da profili di informazione verso la nostra bacheca e privilegiando invece quelle che riguardano i nostri rapporti personali, più gattini meno politica.
La cosa è stata spiegata molto bene in “La rivoluzione Facebook contro le «notizie false»” pubblicato su La Stampa:
Grazie al nuovo algoritmo saranno visualizzati meno articoli provenienti dalle pagine pubbliche che seguiamo, meno video o meme virali. E sarà dato spazio invece ai contenuti personali pubblicati dai nostri amici: fotografie, consigli, ma anche opinioni e sfoghi. «Vogliamo che il tempo che trascorriamo su Fb sia tempo ben speso» scrive il fondatore. Quindi basta stare lì a cliccare sui gattini. Basta diffondere notizie false e spargere odio online. Cercate la ex fidanzatina delle medie, che è meglio. «Abbiamo creato Facebook per aiutare le persone a rimanere in contatto e a essere vicini a chi ci interessa. Ecco perché abbiamo sempre messo gli amici e la famiglia al centro della nostra esperienza».
La nota discute criticamente la dottrina marxista dello Stato quale venne sviluppata da Lenin alla vigilia dello scoppio della Rivoluzione d’ottobre sulla base delle idee principali di Marx ed Engels sulla questione. Si argomenta che questa dottrina, a partire dalla sua tesi centrale di un’incompatibilità tra la nozione di Stato e quella di libertà, non ha reso nel complesso un buon servizio alla causa della classe lavoratrice nel capitalismo
1. Due
compiti della sinistra
Fino a una quarantina di anni fa, all’interno del capitalismo industrialmente avanzato, nella sinistra era ancora diffusa la consapevolezza che ciò che poteva indurre i capitalisti e i loro rappresentanti a fare delle concessioni importanti sul terreno economico era solo il timore di perdite maggiori, o addirittura il timore di perdere tutto. In generale, dunque, che i suoi compiti avrebbero dovuto essere sostanzialmente due: riuscire a tenere sempre vivo questo timore; sapere di volta in volta come sfruttarlo, ossia avere chiari i programmi e le misure necessarie a migliorare, attraverso l’intervento dello Stato, le condizioni di vita e di lavoro dei salariati e delle masse popolari – in pratica, le misure necessarie a migliorare il funzionamento stesso del capitalismo. Veniva al riguardo tenuto presente, da un lato, che a fronte di livelli di attività stabilmente elevati, quindi anche di una massa di profitti stabilmente elevata, i capitalisti e i loro rappresentanti avrebbero potuto col tempo abituarsi a considerare come normale un minor saggio di rendimento del capitale, finendo per accettare margini di profitto più contenuti e una minore quota dei redditi da capitale e impresa nel prodotto; dall’altro, che una parte della borghesia, la parte più istruita e socialmente sensibile, avrebbe anch’essa ricavato senso di tranquillità e di benessere da un contesto culturale e sociale non eccessivamente degradato e sufficientemente coeso; quindi, che avrebbe potuto essere indotta a sostenere, piuttosto che a contrastare, misure di riformismo socialdemocratico.
Valerio Evangelisti:
Io voto
(Potere al Popolo)
Forse non sarei nemmeno andato a votare, se non fosse accaduto un fatto che, ai miei occhi, ha del prodigioso. Espulsi dal Teatro Brancaccio, in cui si sarebbe dovuta rifondare per l’ennesima volta la “sinistra” (con i D’Alema, i Bersani, i Civati, gli Speranza, gli Epifani e altri walking dead), i giovani e meno giovani del centro sociale Je so’ pazzo, ex OPG, tra i più attivi sul territorio napoletano, decidono di continuare da soli.
Riescono a riunire ottocento persone di tutte le età, ed è l’inizio di una valanga. Si tengono, in breve tempo, duecento affollatissime assemblee in ogni regione d’Italia, incluse quelle in cui l’antagonismo politico-sociale sembrava spento per sempre. Aderiscono al progetto nomi storici della sinistra “vera” e non liberale, di integrità non discutibile: Heidi Giuliani, madre di un martire divenuto simbolo di lotta, Nicoletta Dosio, l’instancabile ribelle e fuggiasca No Tav, Giorgio Cremaschi, una vita per i metalmeccanici e per il riscatto operaio. E tanti, tanti altri.
Soprattutto, si adunano sotto la nuova sigla – Potere al Popolo! – i frammenti di una classe subalterna modellata, nel presente, dai rantoli di un’economia e di un dominio antiumani, che solo in nuove guerre e oppressioni trovano slancio vitale. Precari, disoccupati, pseudo-apprendisti licenziati e riassunti (se va bene) ogni quattro mesi, gente che sbarca il lunario come può.
Su alcuni ambigui strumenti per cambiare il presente
La terza legge della dinamica sembrerebbe
l’unico strumento che abbiamo a disposizione per descrivere
quanto è accaduto
nel corso degli ultimi due decenni in Italia: se è vero,
infatti, che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e
contraria, possiamo dire
che questo assunto si adatta perfettamente alla riscoperta,
nel dibattito pubblico, del ruolo e dell’importanza del
diritto, soprattutto alla
luce della degenerazione della politica nostrana. Un ventennio
di processi berlusconiani ha reso l’opinione pubblica edotta
di una serie di
tecnicismi (dalla prescrizione, passando per la ricusazione
del giudice naturale per legittimo sospetto, fino alle
immunità extra-funzionali,
oggetto di tanti piccoli e grandi lodi ad personam,
oltre al cosiddetto «utilizzatore finale» di olgettiniana
memoria), tecnicismi
che fino a pochi anni fa erano appannaggio soltanto degli
specialisti del processo penale. La legislatura che volge al
termine, invece, ci ha reso dei
veri e propri esperti di diritto parlamentare, visto che non
si è parlato altro che di «canguri», fiducie su
maxi-emendamenti
governativi,«franchi tiratori», verifica del numero legale e
richiesta di voto segreto in Aula. Il culmine lo si è toccato
però l’anno scorso quando, in concomitanza con il referendum
del 4 dicembre, i salotti televisivi e le pagine dei giornali
venivano
invasi da costituzionalisti di ogni sorta e di ogni età ,
pronti a spiegare alla povera pensionata di turno, digiuna
anche delle nozioni minime
di diritto pubblico, l’inutilità e il danno dell’esistenza del
Cnel per l’umanità.
Uno degli argomenti più forti della controrivoluzione oligarchica che ha investito l’Occidente dagli anni ’70 è sempre stato il “non c’è alternativa”. Non c’è alternativa alle liberalizzazioni e alle privatizzazioni, non c’è alternativa a concentrare le ricchezze nelle mani di pochi, non c’è alternativa a lasciare la finanza a briglie sciolte. Il modello di modernizzazione neoliberale – basato sulla compressione di salari e diritti a vantaggio di una ristretta élite – è stato così presentato come un dato naturale, un’inevitabile soluzione politico-economica per tutte le società che non volessero venir escluse dall’economia globale. Questo mito è stata alimentato e potenziato da un fattore geopolitico non indifferente: la decadenza prima e la scomparsa poi dell’Unione Sovietica.
Con tutte le sue tragiche contraddizioni, l’Urss aveva rappresentato fin dalla Rivoluzione d’Ottobre (1917) un polo alternativo a quello liberal-capitalista capitanato dagli Stati Uniti. I popoli oppressi – dall’Africa all’Estremo Oriente – avevano per decenni guardato a Mosca per cercare un modello di sviluppo economico che permettesse ai loro paesi di emanciparsi politicamente ed economicamente dall’Occidente. E da Mosca era arrivato per decenni ai popoli oppressi quell’aiuto economico ed intellettuale necessario per liberarsi dalla pesante ipoteca occidentale.
Una analisi a tutto tondo del perché la gratuità dell’istruzione universitaria è un buon principio. La gratuità degli studi universitari esiste in numerosi paesi europei ed è stata cavallo di battaglia di svariati movimenti studenteschi
La recente proposta di gratuità dell’istruzione universitaria, fatta da Liberi e Uguali durante l’assemblea programmatica della settimana scorsa, ha visto un’aggressiva levata di scudi da parte dei diversi schieramenti politici, Partito Democratico in primis. Già Forges Davanzati ha scritto qui delle ragioni in favore della proposta. Aggiungiamo alcuni elementi che vanno nella stessa direzione, prima analizzando le principali critiche, poi portando alcune riflessioni “in positivo” sulla scelta di spostare i costi dell’università sulla fiscalità generale.
Due sono le critiche che sono già state affrontate in più sedi – a cui rimandiamo: ROARS e Valigia Blu – mentre qui ci limitiamo a una sintesi. La prima è quella secondo cui “in Italia studiare all’università costa già poco”. Per quanto la recente istituzione di una no-tax area per gli studenti sotto i 13.000 euro di ISEE (con criteri più restrittivi dal secondo anno di studi) dovrebbe migliorare la situazione, l’Italia resta un Paese in cui gli studi universitari costano più della media europea. Questa osservazione è derivata da dati OCSE che mostrano che, se si considera solo l’istruzione pubblica, in Italia uno studente universitario paga in media poco meno di 2.000 dollari all’anno: in Europa, solo Spagna, Olanda e Inghilterra richiedono contributi più alti.
«Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra» di Alessandro Dal Lago, per Cortina editore. Quale forma di partecipazione si offre con la promessa dell’agire collettivo e dell’appartenenza?
«Questa è l’essenza di ciò che si chiama populismo: parlare per conto di un popolo che non c’è». Proviamo a prendere le mosse da questa affermazione di pregevole nettezza tratta dal primo capitolo del nuovo libro di Alessandro Dal Lago (Populismo digitale, Raffaello Cortina, pp. 170, euro 14). Nella sua semplicità la definizione ha il merito di mettere a fuoco la coincidenza tra l’idea di popolo e il suo uso politico, di cui l’autore ripercorre sommariamente la storia fino alla nostra contemporaneità digitale.
POPOLO, INSOMMA, è il nome che legittima il potere o il suo sovvertimento, sotto forma di una inafferrabile trascendenza. Che si pretenda di «servirlo», di «guidarlo» o, ancora, di interpretarne la «volontà». Si pensi a un principio equivoco come quella «autodeterminazione dei popoli» che se da un lato ha animato le lotte contro il colonialismo, dall’altro ne ha anche coperto le derive autoritarie. Per non parlare della proliferazione di piccole patrie nutrite di un nazionalismo esasperato e intollerante, che a questo principio si richiamano.
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In Tunisia il 2018 si è aperto con una nuova ondata di proteste che ha coinvolto almeno 20 città, compresa Sidi Bouzid, la città da cui a fine dicembre 2010 partirono le mobilitazioni di massa che diedero il “la” all’intifada araba del 2011-2012. Sono tornati in piazza migliaia di lavoratori, studenti, disoccupati, attivisti politici e sindacali. In molte città ci sono stati scontri con le forze dell’ordine, e sono state assaltate anche banche e stazioni della polizia. La risposta del governo non si è fatta attendere: tra il 9 e il 12 gennaio sono stati arrestati più di 1000 manifestanti in tutto il paese. L’acme della repressione è stato a Tebourba, città dell’entroterra a 30 km da Tunisi, dove nel corso di una manifestazione la polizia ha ucciso Khomsi el-Yerfeni.
I motivi immediati che hanno riempito ancora una volta le piazze tunisine sono la disoccupazione dilagante, la crescita del costo della vita e, in particolare, gli aumenti della tassazione su carburanti, tessere telefoniche, internet, frutta e verdura imposti con la nuova legge di bilancio entrata in vigore il 1° gennaio. Misure adottate per sanare il debito con il Fondo monetario internazionale -che nel 2016 ha concesso a Tunisi un prestito di 2,9 miliardi di dollari- e con l’Unione Europea, che hanno imposto la diminuzione graduale del debito pubblico al 50% del Pil attraverso la riduzione delle spese pubbliche, degli impiegati statali, dei sussidi per l’energia, oltre alla ristrutturazione delle banche pubbliche a favore dell’intermediazione finanziaria privata e all’introduzione di una serie di misure a favore delle imprese.

Che il Pd
abbia cambiato natura e che negli ultimi anni sia diventato il
partito di Renzi non è il solo Diamanti a ripeterlo da tempo
(e molti altri con
lui); passo dopo passo, incoraggiata da una crescente
pressione mediatica, la mutazione si è alla fine realizzata e
il risultato è ormai
sotto gli occhi di tutti.
Di questo esito si è molto parlato e si parla, poca attenzione è stata invece dedicata ai fatti e alle ragioni che l’hanno determinato.
Sì, certo: l’unificazione tra Ds e Margherita era stata una «fusione fredda», tanto che i due apparati di partito erano rimasti in realtà separati (e la Margherita si era sciolta solo nel 2012, dopo che Lusi si era “appropriato” della cassa del gruppo). Ma nel 2007 la musica era diversa e il racconto celebrava invece il tentativo virtuoso di far convivere la tradizione socialdemocratica dei Ds (sufficientemente omogenei attorno ai loro dirigenti) e il solidarismo di varie componenti cattoliche (abbastanza variegate tra loro e pure affiancate da alcune frange laiche).
Le elezioni politiche del 2006 (17,5% per i Ds e 10,7% per la Margherita) avevano indicato i rispettivi rapporti di forza; le primarie del nuovo Pd avevano poi consacrato Veltroni col 75% e relegato Rosy Bindi al 12,93% ed Enrico Letta all’11,2%, evidenziando la natura di partito organizzato dei Ds e quella di movimento e di cordate sparse propria della Margherita.
A quarantanni di
distanza, le diverse iniziative e pubblicazioni che si
riferiscono al '77, lo propongono prevalentemente come l'anno
dei movimenti e del diffondersi
della violenza armata organizzata e degli atti terroristici.
Scompare in questo modo il '77 operaio cioè la straordinaria presenza in campo della soggettività degli operai che dalla fine degli anni sessanta, ha rappresentato la vera novità, nei modi, nei contenuti e nelle forme per la trasformazione democratica della società.
Mi riferisco alla vertenza del gruppo Fiat, che allora coinvolgeva circa 200.000 tra lavoratori e lavoratrici, che dopo 100 ore di sciopero, si concluse nel mese di luglio con un grande successo e allo sciopero generale dei metalmeccanici promosso dalla Flm con manifestazione a Roma il 2 dicembre '77, contro le politiche economiche del governo monocolore di Giulio Andreotti, il cosidetto "governo delle astensioni" che si reggeva sul voto di "non sfiducia" del Pci, cioè sull'astensione alla Camera e sull'uscita dall'aula, al Senato.
Tutto ciò non può e non deve essere oscurato o negato nella trasmissione della memoria, perché semplicemente non aiuta a capire che cosa è successo prima, durante e dopo il '77 nella storia sociale politica di questo paese.
Per questo l'iniziativa sul '77 operaio, deve anche essere l'occasione per una riflessione sull'importanza di quella stagione.
E’ da qualche tempo che la
Siria è ai margini delle cronache e analisi, salvo che per i
fissati, in buona, ma più spesso in malafede, del popolo curdo
santo
subito. Qualsiasi costo comporti quella santificazione:
pulizie etniche, distruzione di integrità nazionali, invasione
e occupazione di padrini
coloniali, rafforzamento ed espansione di Israele, ulteriori
devastazioni, lutti, sangue. Coloro che si sentono dalla parte
dell’ennesimo paese
che la “comunità internazionale” (Nato, Israele, UE e Usa)
sbatte al muro per cibarsi poi dei suoi frammenti, pensano che
un’assidua attenzione e un irriducibile sostegno alla causa
della Siria unita, laica, sovrana, multiconfessionale e
multietnica,
antimperialista, antisionista, progressista, non siano poi più
tanto urgenti, “visto che si è vinto”. Una vittoria che,
però, ad altri rischia di suonare come l’illusorio “mission
accomplished” di Bush il Fesso sulla nave USS Abraham Lincoln.
Come è noto, al proclama di missione compiuta seguirono, ad
oggi, 17 anni di guerre e terrorismo, un genocidio strisciante
di cui fanno parte,
oltre ai 3 milioni di iracheni, oltre 5mila GIs americani.
Tout va bien, madame la Marquise
In effetti, a un giro d’orizzonte un po’ disinvolto il quadro potrebbe apparire discreto, sicuramente migliore di 6 anni fa, quando USraele, Turchia e principastri del Golfo disseminarono la Siria di terroristi jihadisti, rastrellati in Medioriente, Asia e tra gli immigrati in Europa (che il buonismo d’annata ritiene integrati ed assimilati), addestrati in Turchia e Giordania, riempiti di petrodollari e droghe stimolanti crocefissioni e squartamenti.
Più che tanti tomi
di
Aristotele,
tre modeste invenzioni hanno cambiato la faccia
del mondo:
la bussola, la stampa, la polvere da
sparo.
Francesco Bacone, 1620
Premessa
La lotta dei lavoratori di Amazon di Piacenza rompe un incantesimo e apre una nuova epoca.
Amazon è una delle sette sorelle del silicio, i signori della Rete; così sono chiamate le nuove multinazionali dell’informatica.
I signori del silicio stanno sostituendo le antiche sette sorelle del petrolio nel dominio del mondo.
La determinazione dei ritmi e delle modalità di lavoro in Amazon, come in tante altre imprese, è affidata ad un algoritmo: l’algoritmo ha assunto anche il ruolo del vecchio Capo cottimo.
Ma l’algoritmo si configura - a differenza del Capo cottimo - come una presenza oggettiva, univoca, neutra. Una potenza astratta, immateriale, cioè il massimo della potenza: una potenza apparentemente assoluta, la potenza del razionale.
Lo sciopero dei lavoratori di Amazon non è quindi uno sciopero tra i tanti, ma assurge al livello di un atto di ribellione, di un segno che, anche nel nuovo Eden del capitalismo informazionale – mito costruito e sostenuto da una formidabile campagna ideologica, senza badare a spese, il rapporto tra Capitale e Lavoro non ha niente di oggettivo, resta un rapporto di forza, la cui dialettica conflittuale non può essere spenta.
Perché
leggere oggi György Lukács? Soprattutto quando la sua opera
più famosa, Storia e coscienza di classe,
è così chiaramente espressione del suo specifico momento
storico: la rivoluzione mondiale abortita del 1917-1919, cui
aveva partecipato,
tentando di seguire Vladimir Lenin e Rosa Luxemburg.
Si tratta di lezioni "filosofiche" da imparare o di principi da racimolare dall'opera di Lukács, o c'è piuttosto il pericolo - come ha detto Mike Macnair del Partito Comunista della Gran Bretagna - di un "eccesso teorico" che preclude ogni possibilità politica, rinchiudendo la lotta per il socialismo in minuscole sette autoritarie, e politicamente sterili. fondate su "accordi teorici"?
L'articolo di Mike Macnair: "Lukács: The philosophy trap” [“Lukács: La trappola filosofica”] affronta la questione della relazione fra teoria e pratica nella storia di quel che appare come "Leninismo", esaminando in particolare "Storia e coscienza di classe" (1923) e "Lenin" (1924), ma anche il saggio di Karl Korsch "Marxismo e filosofia" (1923). La questione attiene a quale tipo di generalizzazione teorica della coscienza potrebbe derivare dall'esperienza del bolscevismo (1903-1921).
1. L’Unione Europea e
la
sovranità popolare
In un recente documento di analisi la Rete dei comunisti sottolineava che «spesso i paesi oggetto delle ripetute aggressioni imperialiste non finiscono del mirino a causa della natura del loro governo o del loro sistema sociale, ma a causa delle loro risorse, della loro posizione o della loro appartenenza alla sfera d’influenza di una potenza concorrente»[1].
Tale è il caso del Donbass, per esempio, un territorio conteso tra gli imperialismi euro-atlantico e russo, con interessi divergenti e belligeranti, e, nondimeno, con una popolazione marcatamente russofila o, almeno, russofona, che rivendica il diritto di poter disporre di sovranità contro l’ingerenza dell’“Occidente” europeo e statunitense nella crisi ucraina che ha portato al governo le attuali classi dirigenti nazionaliste, scioviniste e filo-atlantiche.
La crisi ucraina riproduce, mutatis mutandis, la più classica delle configurazioni del dominio imperialista nella fase dello sviluppo transnazionale del capitalismo: se la tendenza degli Stati imperialisti è all’aggregazione sovranazionale (non senza contraddizioni), per quanto riguarda i paesi subordinati all’imperialismo, o contesi tra opposti interessi imperialistici, «la tendenza è alla disgregazione delle vecchie formazioni nazionali, verso un ritorno in chiave moderna e subalterna alle autonomie sub-nazionali e regionali, territoriali ed etnico-religiose»[2].
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Il recente dibattito interno al femminismo, testimoniato anche dall'Almanacco di Filosofia di “Micromega”, apre uno spazio per la ripresa delle correnti anticapitalistiche del femminismo, aiutandole a ricavarsi un ruolo egemonico nel movimento delle donne e a contenere l’influenza delle correnti “emancipazioniste” e dell’estremismo “genderista”, che funzionano da vie di penetrazione dell’immaginario neoliberista nel movimento
Sull’ultimo numero del 2017, nel
suo Almanacco di Filosofia, “MicroMega” ospita la dura
polemica che ha opposto, da un lato, lo storico Vojin Saša
Vukadinovič e Alice Schwarzer (direttrice di EMMA, rivista
storica del femminismo tedesco), dall’altro, la filosofa
statunitense Judith
Butler e la sociologa tedesca Sabine Hark[i].
Prendendo spunto da letture
dissonanti del noto episodio della notte del 31 dicembre 2015,
allorché una folla di immigrati musulmani invase il centro di
Colonia
esercitando molestie sessuali nei confronti delle cittadine
tedesche che festeggiavano il capodanno, i due fronti si sono
scambiati accuse di razzismo
(Butler - Hark contro Vukadinovič - Schwarzer) e di un
relativismo culturale giustificatorio, se non complice, nei
confronti delle pulsioni
maschiliste dell’islamismo (Vukadinovič – Schwarzer contro
Butler – Hark). Al netto della virulenza verbale (con insulti
reciproci degni di una rissa fra stalinisti e trotskisti), il
confronto sollecita una riflessione in merito a ciò che mi
pare caratterizzi
buona parte del dibattito teorico, tanto nel campo femminista
“ortodosso” quanto in quello dei gender studies,
vale a dire una
sorta di oscillazione fra cattivo universalismo e cattivo
relativismo.
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Una discussione tra filosofi marxisti sulla dialettica («Rinascita», 1962) e un saggio sullo stesso tema («La Cultura», 2003)
Nel suo insieme, sia per le
acquisizioni
critico-metodologiche sia per la reinterpretazione complessiva
di Marx (in senso umanistico e storicistico) alla luce
specialmente della Kritik
del 1843, la scuola filosofica di Della Volpe si configurò
fra anni ’50 e anni ’60 come un campo teorico autonomo, una
sorta di
articolata ‘koiné’ capace di esercitare un influsso vasto e
profondo sullo schieramento culturale della sinistra italiana,
non meno
che nella impostazione di concreti problemi di ideologia e di
azione politica che interessavano il presente e le prospettive
del movimento operaio. La
discussione tra filosofi marxisti su «Rinascita» (si badi, una
rivista più politica che teorica) tra giugno e novembre del
1962
agì da cartina di tornasole di un travaglio che metteva in
gioco non solo questioni di interpretazione teorica e di
orientamento culturale, ma
soprattutto temi ricchi di scottanti implicazioni politiche,
quali il rapporto fra teoria e pratica e, fuor di cifra, lo
stesso dibattito sullo
sviluppo capitalistico del paese1 e sulla strategia
del movimento operaio di fronte alla linea attuata dalle forze
dominanti con il varo
del centro-sinistra. Per questo aspetto, essa rappresentò un
tentativo importante di ricomposizione unitaria della teoria
marxista e di
superamento delle alternative presenti, ormai da tempo, in
essa2.
Michele Castaldo, Marx e il torto delle cose 1871 – 1917 – 2017, Edizioni Colibrì 2017, pp.446, € 22,00
E se l’errore di previsione più
grande di Marx fosse stato proprio quello di aver attribuito
alla classe operaia un ruolo rivoluzionario che in realtà non
potrebbe svolgere?
Questo il tutt’altro che scontato quesito posto da Michele
Castaldo al centro di un testo stimolante, e per certi versi
necessario, appena
pubblicato da Colibrì.
Stimolante poiché obbliga a riflettere su un luogo comune, una sorta di autentico dogma della fede rivoluzionaria, che in tempi oscuri come quelli che stiamo attraversando potrebbe rivelarsi inattuale, almeno nel cuore delle metropoli imperialiste, e necessario poiché costringe chi si occupa di politica in chiave antagonista a fare i conti non solo con le fin troppo scontate convinzioni cui si accennava prima, ma anche con una ideale continuità tra Marx e Lenin, tra Marx e marxismo-leninismo, che a ben vedere non è sempre data e così facile riscontrare.
Il presupposto da cui parte l’autore è il seguente, delineato fin dalle pagine della Prefazione:
“Il punto chiave è se il modo di produzione capitalistico, come determinato storico di un processo tecnico-scientifico dell’uomo, regga a causa del dominio della borghesia o a causa di leggi proprie.

C'è chi
immagina che l'esperienza storica dell'Ottobre 1917 sia ancora
e sempre pregna di mirabolanti lezioni da impartire al
presente, in
primis riguardo alla «necessità del partito»... o della
democrazia nel partito... o della non-democrazia nel partito
(non ebbe
forse ragione Lenin, solo contro tutti, sostenendo le Tesi
di Aprile?); o, all'opposto, riguardo alle ragioni per
cui la forma-partito o l'idea
comunista tout court debbano necessariamente
tramutarsi in un nuovo dominio... Insomma, ce n'è per tutti i
gusti. Potendo disporre di
una macchina del tempo, sarebbe interessante spedire tutti
questi cultori della Historia Magistra Vitae proprio
nella Russia del 1917, per
vedere allora quanto poco il senno di poi sarebbe loro di
conforto. Alcuni di costoro si scannano ancora per sapere
esattamente in quale
anno-mese-giorno le cose hanno cominciato a buttar male per la
rivoluzione. Nel '21 (NEP)? Nel '24 (morte di Lenin)? Nel... (compilare
a piacere,
ndr)? Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là. Poi
arriva il solito anarchico impolverato, con l'aria di quello a
cui non la
si dà a bere: «...e Kronstadt???». Ecco un piccolo
campionario dei temi e dei dibattiti che non appaiono in
questo breve
testo, se non per l'unico uso che oggi se ne può fare: lo
scherzo.
Queste
note analizzano alcuni aspetti della relazione tra il mercato
del lavoro, i migranti e i rifugiati nell’Unione Europea,
tenendo
conto dei recenti flussi migratori provenienti non solo
dall’Asia e dall’Africa, ma anche dall’Ucraina, dove continua
un conflitto a
bassa intensità. La gestione dei recenti flussi di
rifugiati e migranti ha esacerbato la segmentazione del
mercato del lavoro
dell’UE, rafforzando il processo di degradazione.
La politica migratoria e del lavoro dell’UE si basa sulla
segmentazione del
mercato del lavoro, che genera forti differenze salariali e
processi di stigmatizzazione e razzismo. Tuttavia, i migranti
e i rifugiati, sostenuti
anche da una parte dell’associazionismo di base e da alcuni
sindacati, si muovono per contrastare questa tendenza.
Negli ultimi anni i flussi di migranti e rifugiati provenienti dall’Asia e dall’Africa attraverso il Mediterraneo hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica europea. Le immagini degli sbarchi, dei campi e delle persone che camminano attraversando i confini sono diventate familiari, così come la presenza dei rifugiati.
Ci sono
molti modi per mancare il confronto con Lenin al quale il
centenario del 1917 vorrebbe chiamarci. Il primo è quello di
assorbire Lenin dentro
una oziosa linea di continuità con tutta l’esperienza
sovietica, e farne l’origine del fallimento del socialismo
reale. Strada
privilegiata dalla gran parte del pensiero politico liberale:
Lenin qui è il nome di un processo storico lineare e
necessitato che conduce dal
1917 al 1989, senza alcuna soluzione di continuità. Non è mai
mancato, per la verità, alla costruzione di una tale pretesa
di
omogeneità del corso storico, il contributo di alcuni
marxisti, per cui la tragedia segreta del socialismo reale
andrebbe fatta risalire
direttamente a Lenin, e quindi, dopo il 1989, non resterebbe
che produrre un’improbabile cesura antileninista che salvi un
ipotetico Marx in
purezza da qualsiasi successivo ‘leninismo’.
Del resto, la stessa pretesa continuità, lo stesso riassorbimento del ‘momento Lenin’ all’interno di un unico processo storico necessitato, si riscontra, se solo se ne rovesci il segno, nell’apologetica staliniana, cui si deve l’invenzione di un leninismo inteso esattamente come ricostruzione di un’Origine della rivoluzione del tutto funzionale alla legittimazione dello Stato sovietico come si andrà costituendo in seguito.
Da Bloomberg una sintesi del piano franco-tedesco per ristrutturare l’eurozona che potrebbe essere attuato dopo questo ciclo elettorale italiano: si tratta di un documento elaborato da eminenti economisti francesi e tedeschi con nuove proposte volte a superare lo stallo delle infinite discussioni sul ministro delle finanze europeo o sull’unione fiscale, e che da un lato danno ad intendere ai paesi del sud un atteggiamento critico verso l’austerità superando la regola del 3%, e dall’altro rassicurano gli elettori del nord sul tanto temuto azzardo morale. Il risultato non cambia: liquidare quel che resta del risparmio privato e del patrimonio pubblico del nostro paese. Grazie a Orizzonte 48 per la segnalazione
Una proposta progettata da eminenti economisti francesi e tedeschi per sconfiggere i facili argomenti contro le riforme.
Al giorno d’oggi gli esperti potrebbero non essere graditi, ma quando si tratta di riformare la zona euro, il consenso degli esperti è importante quanto il consenso politico. La maggior parte degli elettori comprende solo le linee di base delle riforme; ma se gli esperti concordano sui dettagli, questo può essere rassicurante. Fortunatamente per i leader politici, ora esiste un consenso tra gli esperti: è presentato in un documento firmato da 14 economisti francesi e tedeschi appartenenti ai più importanti istituti di ricerca che influenzano le politiche economiche in questi due paesi e alle più importanti università degli USA.
Il «Nuclear Posture Review 2018», il rapporto del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati uniti, è attualmente in fase di revisione alla Casa Bianca.
In attesa che sia pubblicata la versione definitiva approvata dal presidente Trump, è filtrata (più propriamente è stata fatta filtrare dal Pentagono) la bozza del documento di 64 pagine. Esso descrive un mondo in cui gli Stati uniti hanno di fronte «una gamma senza precedenti di minacce», provenienti da stati e soggetti non-statali.
Mentre gli Usa hanno continuato a ridurre le loro forze nucleari – sostiene il Pentagono – Russia e Cina basano le loro strategie su forze nucleari dotate di nuove capacità e assumono «un comportamento sempre più aggressivo anche nello spazio esterno e nel cyberspazio».
La Corea del Nord continua illecitamente a dotarsi di armi nucleari. L’Iran, nonostante abbia accettato il piano che gli impedisce di sviluppare un programma nucleare militare, mantiene «la capacità tecnologica di costruire un’arma nucleare nel giro di un anno». Falsificando una serie di dati, il Pentagono cerca di dimostrare che le forze nucleari degli Stati uniti sono in gran parte obsolete e necessitano di una radicale ristrutturazione.
Non dice che gli Usa hanno già avviato, nel 2014 con l’amministrazione Obama, il maggiore programma di riarmo nucleare dalla fine della guerra fredda dal costo di oltre 1000 miliardi di dollari.
Il libro, edito da Mimesis nel 2017, è una raccolta di saggi curata da Emiliana Armano, Annalisa Murgia e Maurizio Teli, e si muove tra la critica alle forme del “lavoro digitale”, nel quale si trova all’opera quella che un autore chiama la “punta di lancia” della deregolazione: aumento della ineguaglianza, e attacco alle forme di vita consolidate.
Se il “lavoro” è tutto ciò che crea valore scambiabile e misurabile, allora quello che viene nascosto accuratamente nelle pieghe delle più promettenti start-up e consolidati giganti del settore, e che viene incorporato nei risultati apparentemente ottenuti da scintillanti sistemi di intelligenza artificiale, è semplicemente una nuova forma di lavoro servile, del tutto privo di dignità e disperato. Il “valore” è catturato, rubato, senza quasi che ce ne si avveda.
Questo cambiamento epocale è reso possibile, ed insieme irresistibile, semplicemente dalla interconnessione insieme alla normalizzazione resa possibile dalla digitalizzazione anche di prestazioni sottili ed una volta considerate creative e irriproducibili, come le consulenze grafiche, il design, la progettazione tutta. Ma anche la normalizzazione, come dice chiaramente Zunckenberg, delle normali conversazioni, delle “conoscenze” che da esse si possono catturare, attraverso la creazione di uniformità e la canalizzazione di questi flussi informativi.
La proposta di abolizione delle tasse universitarie, formulata dal Presidente Grasso, ha tre fondamentali meriti.
Il primo è l’aver riportato, dopo anni di silenzio o di denigrazione, l’Università al centro del dibattito pubblico e l’aver messo in discussione l’assioma per il quale l’istruzione serve esclusivamente ad accrescere l’occupabilità dei giovani (secondo la discutibile teoria che fa dipendere la disoccupazione giovanile al mancato incontro fra domanda e offerta di competenze) e a rendere competitive le nostre imprese. In altri termini, la proposta rinvia alla desiderabilità di avere una popolazione con elevato grado di istruzione, rispetto a una popolazione con basso livello di scolarizzazione, muovendosi in aperto contrasto con le politiche di sottofinanziamento dell’Università, che la hanno resa – proprio tramite aumenti delle tasse – sempre più Università di classe.
Il secondo merito della proposta consiste nel portare il nostro Paese in linea con le migliori prassi di altri Paesi europei, Germania in primis, a partire dal dato per il quale le tasse di iscrizione in Italia sono le più alte dell’Eurozona e la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro è fra le più basse.
Confindustria detta la linea che Calenda e Bentivogli (Cisl) traducono in programma politico: un nuovo patto sociale (neocorporativo) per l’industria 4.0. Le formazioni politiche si adeguano, con l’unica, chiara eccezione di Potere al popolo
La tensione, certamente non nuova, tra il segretario nazionale del PD ed ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi ed il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, si mostra come uno scontro all’interno del centro di potere politico ed economico ed è sintomatico dell’asse che il capitalismo italiano sta costruendo. D’altronde, la consacrazione di Calenda al ruolo di rappresentante politico del capitalismo italiano si è avuta qualche mese fa: a maggio dello scorso anno, nel corso dell’assemblea annuale di Confindustria.
In quell’occasione, la relazione del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia fu abbastanza sobria, anche se ovviamente non fece mancare l’elenco delle cose da fare, lanciando “un progetto di lungo respiro, che restituisca fiducia nel futuro”, che secondo il capo degli industriali italiani dovrà servire “per tornare a crescere e comporre la frattura sociale”. I punti, come è facile intuire, furono i soliti: continuare sulla strada delle riforme già avviata; rinnovare e potenziare il Jobs act; aumentare la produttività a cui legare le retribuzioni e via di questo passo snocciolando l’armamentario padronale.
Come la Banca d’Italia documenta nelle sue informazioni
statistiche sul debito
pubblico, le monete
metalliche, che pure hanno corso legale, sono
considerate passività dello Stato che le emette e sono
conteggiate ai fini del debito.
Analogamente, le banconote emesse dalla
banca centrale e, per estensione, le riserve
dalla stessa create – che
peraltro rappresentano la gran parte della base monetaria di
ogni economia contemporanea – costituiscono passività
della banca
centrale che le emette e sono
contabilizzate come debito di quest’ultima nei
confronti dei possessori.
Tuttavia, alla luce di una corretta applicazione dei principi di contabilità generale, la configurazione formale della moneta legale come “debito”, ancorché fondata su un indubbio “principio di legalità” (in prima battuta la moneta emessa è debito “perché così dice la legge”), lascia non poco perplessi. Il debito comporta un rapporto obbligatorio tra le parti e, sebbene il nostro codice civile non definisca espressamente l’obbligazione giuridica, l’intera giurisprudenza mondiale considera ancora valida la definizione insuperata del corpus juris giustinianeo:
Il 20 gennaio di un anno fa ci ha lasciati Bruno Amoroso, economista e saggista italiano, allievo di Federico Caffè (qui gli articoli inviati a Comune). Per ricordarlo pubblichiamo questo articolo (titolo originale Mondializzazione e comunità, lavoro e bene comune in Bruno Amoroso), uscito in Ciao Bruno (Castelvecchi) di Antonio Castronovi
Quelli che sono in alto hanno dichiarato
guerra ai popoli. Come resistere, come ricostruire comunità
solidali passando “dalla
cooperazione per competere” alla “competizione per
cooperare” per dirla con Bruno Amoroso? La priorità, al
tempo della
globalizzazione, dovrebbe essere liberare territori e
comunità. “La globalizzazione non è un fenomeno oggettivo
della
modernizzazione, è una forma contingente assunta dal
capitalismo – scrive Amoroso -, uno stadio particolare ed
eventualmente, il suo
ultimo stadio. È il capitalismo nella sua forma più maligna,
poiché si diffonde come una forma tumorale; come una
metastasi si
concentra su poche aree strategiche, … sul resto enormi
effetti distruttivi. Con buona pace delle moltitudini di
Toni Negri e dei new-global
della globalizzazione buona…”. Mondializzazione, comunità,
bene comune: un viaggio nel pensiero di Bruno Amoroso
* * * *
“Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili” (Bertolt Brecht, In morte di Lenin).
Da alcuni anni, anzi decenni, è in corso nel mondo una guerra che è stata definita come “terzo conflitto mondiale”. I protagonisti ne sono le élite globali del capitalismo triadico che la combattono – con gli strumenti della guerra democratica, della politica, del terrorismo, della guerra economica e delle guerre di religione – contro i popoli, gli stati sovrani, le comunità locali che non intendono sottomettersi ai diktat della omologazione del mondo ai dettami dell’impero globale.
Le critiche provenienti da sinistra dimenticano che l’Italia è in una fase non rivoluzionaria e dunque alle elezioni bisogna andare con parole d’ordine radicali ma compatibili col sistema
I
compagni di Piattaforma Comunista,
sul n. 85 di Gennaio 2018 del loro giornale, Scintilla,
trattano di Potere al popolo. A differenza
nostra, i marxisti-leninisti de quo, avendo
compiuto una scelta astensionistica, si scagliano contro la
lista sottolineandone limiti e
contraddizioni. Nonostante i toni, la tirata contro questo “minestrone
elettoralista” ed il relativo “pasticcio
indigeribile di populismo di ‘sinistra’, di mutualismo
proudhoniano, di riformismo di destra, e dell'idea di un
‘controllo e
vigilanza popolare dal basso’ dei territori della Repubblica
e degli organismi e istituzioni borghesi che vi sorgono”,
sembra basata
più che altro sulla diversa analisi della fase nella quale ci
troviamo.
Sul programma di Potere al popolo, infatti, si legge che “Per noi potere al popolo significa restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza; significa realizzare la democrazia nel suo senso vero e originario. Per arrivarci abbiamo bisogno di fare dei passaggi intermedi e, soprattutto, di costruire e sperimentare un metodo, che noi abbiamo chiamato controllo popolare”. Abbiamo dunque un obiettivo strategico, il riconoscimento della necessità di tappe intermedie e un metodo.
In una serie di esternazioni che hanno inaugurato la campagna elettorale del centrodestra, Silvio Berlusconi ha esibito il suo fiuto di animale politico. In primo luogo, da qualche settimana batte il tasto sul fatto che le prossime elezioni si configurano come uno scontro frontale fra centrodestra e M5S, ignorando il Pd, e più in generale la sinistra, liquidati come relitti del passato. È una visione che rispecchia l’insegnamento delle elezioni americane, che hanno visto il trionfo di Trump – un populista di destra – contro un Partito Democratico che si è suicidato sbarrando con ogni mezzo la strada all’unico candidato – il populista di sinistra Bernie Sanders – che avrebbe potuto battere Trump.
Berlusconi snobba il Pd perché ha capito che la sinistra tradizionale, una volta convertitasi da alternativa a “ruota di scorta” delle politiche liberiste, ha perso appeal nei confronti delle classi popolari, mentre fatica a competere con la destra per la conquista delle classi medio alte. Teme invece il M5S, non solo perché vola nei sondaggi, ma anche e soprattutto perché, ad onta dei passi indietro compiuti sui punti più radicali del programma originario, e della progressiva “normalizzazione” della sua immagine da forza antisistema a forza di governo, appare tuttora in grado di attrarre il voto di protesta di milioni di elettori incazzati nei confronti delle élite che ne ignorano bisogni e interessi.
Dividere il popolo: è la mossa preliminare. È la mossa controrivoluzionaria che tanti rivoluzionari, dal Robespierre del maggio ’93 al Mao del ‘libretto rosso’, hanno paventato e tentato di sventare. Ma è anche la mossa preliminare di chi, a cose avvenute e a sangue versato, le rivoluzioni e le controrivoluzioni vuole capirle al di là delle retoriche contrapposte che sono parte integrante della battaglia. Ed è infatti la mossa preliminare di Luciano Canfora nel suo Cleofonte deve morire Teatro e politica in Aristofane (Laterza «Cultura storica», pp. 518, € 24,00), che è un’appassionante indagine su Aristofane, su Atene, sulle sue guerre civili, e su coloro che di quelle lotte furono protagonisti palesi o pupari occulti. Certo, in omaggio ai sofismi di cui Aristofane si fa beffe negli Acarnesi («Euripide c’è e non c’è, se hai comprendonio»), potremmo dire che questo è e non è un libro su Aristofane e su Atene. Ma non per sobillare o avallare letture allusive (qualcuno ha già colto in questo libro inesistenti moniti contro gli odierni abusi del dileggio ad personam, e attendiamo con ansia chi evocherà attualissimi «comici al potere»); il libro è e non è su Aristofane e su Atene perché esso coniuga l’analisi dei singoli eventi o «atomi di storia» – così Canfora ha parafrasato altrove gli erga di Tucidide – con un’attenzione spietata alla regolarità, pur mai stereotipata, dei fenomeni politici. Perciò questo è un libro che espone «cose terribili ma doverose», come si vanta, per stare ancora agli Acarnesi, il perfido Diceopoli.
L’Hi Tech della Silicon Valley è uno strumento troppo potente perché potesse non ricadere sotto il controllo diretto o indiretto delle agenzie governative USA.
Quello che attualmente sappiamo.
Grazie alle rivelazioni dello ‘spifferatore’ Edward Snowden, il quale rivelò a una squadra di agguerriti giornalisti d’inchiesta del ‘Guardian’ che la National Security Agency esercitava una sorveglianza capillare e massiccia sui miliardi di comunicazioni sia interne che esterne agli Stati Uniti, è stato possibile acclarare l’esistenza di un rapporto di stretta collaborazione tra alcune agenzie governative statunitensi e le principali imprese della Silicon Valley. Verizon, At&T e Sprint Nextel furono le prime ad essere scoperte a passare dati alle autorità attraverso un sistema, denominato Prism, in grado di assicurare all’intelligence nazionale la possibilità di accedere in maniera diretta ai server di cui si servivano le compagnie in questione e ottenere qualsiasi tipo di informazione (messaggi, fotografie, e-mail, ecc.). Il ‘Washington Post’ svelò che Prism era entrato in vigore nel 2007, sotto la seconda amministrazione Bush, e che tra le aziende che avevano accettato di aderire al tale sistema di sorveglianza figuravano nomi di altissimo livello quali Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, PalTalk, Skype, Aol, YouTube e Apple.
“Nessuno si fida più di
nessuno
ormai,
e siamo tutti molto stanchi” – John
Carpenter’s The Thing, 1982
Berlusconiane nello spirito e nella lettera, tutte le mirabolanti promesse elettorali di questa campagna hanno una fondamentale caratteristica in comune: sono tutte cazzate.
È così evidente che persino i media mainstream a modo loro lo ammettono: “Non ci sono le coperture finanziarie”.
La copertura delle cazzate che manca però non è solo quella economica. Ad essere crollata ormai è proprio la facciata mediatica.
È l’effetto Trump/Fake News: media e sistema politico si stanno smascherando a vicenda, distruggendosi reciprocamente la credibilità residua, e tornare indietro è impossibile.
Gli italiani che voteranno lo stesso, perlopiù voteranno contro.
Chi odia particolarmente Renzi e Berlusconi voterà M5S, nonostante i riciclati araldi del berlusconismo che il Movimento sta imbarcando, Emilio Carelli, co-fondatore del TG5, ex direttore di SKY Tg24 e vicepresidente di Confindustria Radio TV, Gianluigi Paragone, ex direttore di Libero e della Padania.
1. Nell'approssimarsi di queste elezioni, forse decisive o, più probabilmente, momento estremo di una (finora) successful strategia conservativa, facciamo il punto-nave della società italiana, intesa come Stato-comunità, che si muove sulla traiettoria impressa dalle intenzioni della classe dirigente, sempre meno nazionale, che detiene il potere effettivo di governo.
Per definire tale punto-nave occorrono alcuni "punti di posizione", correlati a dei "punti cospicui", la cui esatta stima combinata ci fornisce la rotta effettiva (diversa, in quanto corretta in funzione della traiettoria effettivamente percorsa, rispetto alla rotta teorica, inizialmente dichiarata, e tanto più diversa in quanto la navigazione venga intrapresa trascurando, con negligenza o intenzionalmente, una serie di forze che influiscono fisicamente sul moto o sugli strumenti di sua rilevazione).
2. Appare possibile compiere un'operazione analogica di questo tipo rispetto ad un'intera società nazionale, nel cui interesse esclusivo dovrebbero agire i titolari delle istituzioni, secondo un solenne impegno previsto dalla Costituzione, all'art.54; una Nazione che, a tutt'oggi, risulterebbe ancora "entificata" in quella che un tempo poteva essere chiamata, (senza subire accuse di collettivismo - nazionalismo guerrafondaio - protezionismo- anti€uropeismo e via dicendo), Repubblica democratica fondata sul lavoro.
E spero di non avere dato luogo a notizie scioccanti qualificabili come fakenews.

Unire le classi
subalterne, ricostruire una democrazia progressiva,
restituire potere al popolo.
Un appello per il mondo della cultura, dell’arte,
della formazione e dell’Università, della comunicazione
L’«Occidente
liberale» è la realizzazione o la negazione della democrazia?
E l’Italia è ancora un paese
democratico? E lo è nella stessa misura in cui lo è stato nei
decenni alle nostre spalle e cioè in quel senso avanzato e
progressivo che avevano in mente i partigiani nel liberare il
paese dall’occupante nazifascista e i Padri costituenti nel
sottolineare nella
nostra Carta fondamentale la centralità del lavoro e della
partecipazione popolare ma anche della pace,
dell’antimperialismo e
dell’anticolonialismo, ovvero del principio di eguaglianza sul
piano interno e su quello internazionale?
E’ vero: non c’è forse paese nel quale si vada così spesso a votare.
Tuttavia, la crescita esponenziale dell’astensionismo - sistematicamente sollecitato dall’ideologia dominante e dalle principali forze politiche sulla scorta del modello anglosassone e giunto ormai a livelli tali da rendere illegittimo ogni risultato elettorale -, si configura come il sintomo della de-emancipazione di fatto di milioni di persone e cioè come una revoca sostanziale di un suffragio universale divenuto, nella pratica, inutile.
Chi votiamo, oltretutto, quando andiamo alle urne? Abbiamo veramente quella libertà di scelta che l’ampiezza apparente dell’offerta lascia presagire?
Dante Lepore, Schiavitù del terzo millennio, ©Associazione Culturale PonSinMor, www.ponsinmor.info, Gassino Torinese, pp. 400, Offerta minima € 15, e-mail: pons...@ponsinmor.info
Prefazione
Questo saggio fu motivato da una polemica, sorta oltre due anni fa, tra militanti già impegnati in attività sindacale e politica, in occasione della stesura di un documento orientato a favorire un movimento per la rivendicazione del salario garantito, che ne distinguesse i fondamenti marxisti rispetto ai vari propugnatori del «reddito universale di cittadinanza» (da UniNomade , Fumagalli ed altri, fino al movimento 5 stelle).
Nell’elaborazione del documento c’erano allusioni alla «schiavitù» da me proposta e intesa come condizione permanente dei lavoratori produttivi in una società divisa in classi, ma che alcuni intervenuti interpretavano come espressioni puramente evocative e «retoriche» non corrispondenti alla condizione giuridica attuale definita più «dignitosa» proprio perché, a loro dire, il lavoro salariato, se inteso e denominato in termini di «schiavitù» salariata, potrebbe risultare soltanto offensivo per gli operai e non portare a risultati auspicabili, possibili e immediati nelle attuali condizioni socio-economiche e politiche. Sarebbe necessario di conseguenza rendere tali condizioni ancora migliori e sempre più avanzate nella direzione della libertà, concepita come il lato opposto del male assoluto, la schiavitù.
E’ circolato, a fine anno 2017,
un appello sottoscritto da diversi economisti, italiani e non
solo, favorevole a un superamento del Fiscal Compact,
contrario a un suo
“rafforzamento istituzionale”, preoccupato per il rischio di
implosione dell’Unione Europea che una riconferma del patto
fiscale,
ormai scaduto, comporterebbe. Tra gli economisti firmatari
figurano anche nomi importanti per il loro contributo alla
critica della teoria economica
mainstream. Per quanto sia apprezzabile una posizione critica,
ed altrettanto apprezzabile il tentativo di mettere in agenda
una discussione sul
Fiscal Compact che, colpevolmente, non sembra appassionare i
nostri media, devo tuttavia confessare che il contenuto
dell’appello mi lascia
molto perplesso. Noto una sproporzione ingiustificabile tra i
principi generali di allarme e denuncia che si leggono in
apertura e in chiusura
dell’appello, e le concrete proposte di riforma, che mi
suonano invece timide, non risolutive e anche incoerenti con
lo stesso desiderio di un
superamento del patto fiscale che ha inutilmente soffocato le
economie e peggiorato le condizioni materiali dell’esistenza
di gran parte della
popolazione dei paesi che l’hanno sottoscritto. La biografia
scientifica di alcuni firmatari, su cui nutro anche profondo
rispetto personale e
professionale, mi lasciano ancora più sorpreso. Come cantava
De André, “voi avevate voci potenti….”; ebbene,
perchè usare quelle voci per bisbigliare, e per promuovere
proposte che qualunque economista consensuale e dottrinario
potrebbe sottoscrivere,
e niente di più?
Dopo Gerusalemme capitale, Netanyahu ha ridotto l’opposizione armata dei palestinesi a un problema di ordine pubblico, ha incrementato la politica degli insediamenti, e il suo partito Likud ha proposto l’annessione diretta di tutti gli insediamenti di Giudea e Samaria: la causa palestinese è morta
Non ci sono molti modi per dirlo e l’unico che abbia senso è il più diretto e brutale: la causa palestinese è finita. Non si tornerà alla Linea Verde e agli pseudo-confini in essere tra il 1949 e il 1967, Gerusalemme Est non sarà mai la capitale dello Stato di Palestina anche per la semplice ragione che non ci sarà mai uno Stato di Palestina. Benjamin “Bibi” Netanyahu, primo leader del Governo a essere nato nello Stato di Israele, quattro volte primo ministro e secondo premier più longevo dopo il padre della patria David Ben Gurion, ha vinto. Ha ridotto l’opposizione armata dei palestinesi a un problema di ordine pubblico, ha incrementato la politica degli insediamenti (oggi il 10% della popolazione israeliana vive nelle “colonie”), il suo partito Likud ha proposto l’annessione diretta di tutti gli insediamenti di Giudea e Samaria (chiamate “aree liberate”), lui si è presentato agli elettori con la promessa che lo Stato palestinese non sarà mai creato (e l’hanno rieletto), si è fatto dare soldi e armi da Obama e Gerusalemme da Trump.
Oggi ci occupiamo di Potere al Popolo —coalizione elettorale di cui abbiamo già scritto QUI e QUI — per vedere cosa dice sull'Unione europea e l'euro.
Recita il programma elettorale di Potere al Popolo dal titolo, appunto UNIONE EUROPEA.
«Negli ultimi 25 anni e oltre, l’Unione Europea è diventata sempre più protagonista delle nostre vite. (...) I ricchi, i padroni delle grandi multinazionali, delle grandi industrie, delle banche, le classi dominanti del continente approfittano di questo ”nuovo” strumento di governo che, unito al “vecchio” stato nazionale, impoverisce e opprime sempre più chi lavora. L’Unione Europea è uno strumento delle classi dominanti che favorisce l’applicazione delle famigerate e impopolari “riforme strutturali” senza nessuna verifica democratica. (...) Noi ci sentiamo naturalmente vicini ai tanti popoli che vivono nel nostro stesso continente, con i quali la nostra storia si è intrecciata e si intreccia tuttora e che soffrono come noi a causa di decenni di politiche neoliberiste; insieme a tutti costoro vogliamo ricostruire il protagonismo delle classi popolari nello spazio europeo. Per questo lottiamo per:
- rompere l’Unione Europea dei trattati; - costruire un’altra Europa fondata sulla solidarietà tra lavoratrici e lavoratori, sui diritti sociali, che promuova pace e politiche condivise con i popoli della sponda sud del Mediterraneo;
La notizia è fresca: la Russia ha pianificato esercitazioni congiunte e cooperazione militare con il Vietnam per i prossimi tre anni. Come riportato dalla Tass, lo hanno dichiarato il ministro della difesa russo Shoigu e il presidente vietnamita Tran Dai Quang.
Al di là degli aspetti tecnici, l’ennesima tappa del flirt Mosca-Hanoi ha importanti ritorni strategici, contestualizzati in un panorama molto diverso da quello classico della Guerra fredda.
Il Vietnam ha stregato due generazioni: quella che ci ha fatto la guerra e quella che l’ha vista al cinema. In questo arco di tempo, è rimasto intorpidito nella retorica, fatta di bandiere rosse e sacrari, tanto gloriosi quanto lontani dai grandi giochi. Tra riforme e turismo però, con una rapida progressione, la tendenza si è invertita, fino a rompere l’isolamento di un Paese destinato a recitare ancora un ruolo importante negli orizzonti geopolitici asiatici.
Primo aspetto da considerare è il rapporto controverso con la Cina, sponsor cambogiano nella guerra del ’78, nemica diretta in quella del ’79 e da sempre antagonista per l’egemonia regionale.
La forza lavoro è nascosta dietro gli algoritmi. Ora si tratta di aprire lo scrigno. La domanda non è che cos’è il lavoro, ma la più concreta, e potente: cosa può oggi una forza lavoro? Anteprima di ForzaLavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi Editore) di Roberto Ciccarelli. In libreria da domani.
Le redazioni dei programmi televisivi mi chiedono talvolta di trovare un caso umano. Un autore legge su un quotidiano una notizia sui nuovi «schiavi», espressione idiomatica intesa come sinonimo di povertà estrema, mancanza di diritti, lavoro povero. Il giornalista si mette sulle tracce di una «storia». In alcuni casi arriva a me che mi occupo, anche da giornalista, di lavoro. Rifiuto di fare i nomi, non conosco schiavi, né casi umani, rispondo. Come me, lo fanno gli interessati. Sentirsi definire schiavi, soggetti privi di libertà, cose senza volontà, è un’offesa. Soprattutto quando la schiavitù è usata come una metafora che trasforma la vulnerabilità personale in uno stigma sociale.
Per gli antichi lo schiavo era un animale parlante. Per i contemporanei è un caso umano da intervistare. Questa rappresentazione della forza lavoro accomuna i talk show, i quotidiani e l’editoria. Una ricerca sui titoli dei volumi pubblicati negli ultimi anni dimostra la ricorrenza della parola «schiavi» e, in subordine, «precari», sempre rappresentati in chiave vittimaria. Sottrarsi è salutare.
Il tempo passato a cucinare è considerato sprecato da chi, specie negli USA, promuove dei sostituti del pasto in polvere. Eppure il cibo è quanto di più sociale e comunitario esista. Forse il tempo del lavoro ha ingoiato anche questa pausa giornaliera
Dal 2014 negli USA e in Canada è in vendita Soylent, un frappè a base di proteine di soia, olio di canola, isomaltulosio (un carboidrato disaccaride composto da glucosio e fruttosio), vitamine e minerali. Teoricamente, potreste mangiare solo Soylent e avere un’alimentazione bilanciata. Per preparare un “pasto” bastano tre minuti, Soylent è in polvere. Aggiungete acqua e mescolate: istantaneo, nessun sapore, nessuna consistenza.
Soylent è il capostipite, ma esistono vari sostituti del pasto: Ambronite, NutraFit, UltraMet, Myoplex, GNC, ecc. La domanda per noi che viviamo nel ricco occidente, in un’epoca di sovrabbondanza di cibo a costi mai così bassi, è: perché esiste un mercato per questi prodotti?
Mangiare, comunque mangiamo, è uno degli atti più culturali che ci siano. Seminare del grano, aspettare che maturi, lavorarlo in una pasta dura, accendere un fuoco, bollire dell’acqua, importare pomodori da un altro continente, mischiarli alla pasta ormai ammorbidita e usare un tridente per portare il risultato alla bocca sarebbe impensabile senza un bagaglio culturale consolidato a guidarci.
Le strabilianti
promesse miliardarie di meno
tasse e più welfare fatte dai partiti italiani in vista
delle elezioni sono poco più di aria fritta perché
toccherà a
Bruxelles, a Berlino e a Francoforte decidere sui nostri
conti. Sono infatti le istituzioni europee e la grande
finanza a decidere del destino dei
cittadini italiani, mentre le elezioni nazionali e la
nostra democrazia parlamentare ormai contano poco. Il
problema è che l'Italia è il
ventre molle dell'eurozona, in particolare per il suo
elevato debito pubblico, e nessuno ci farà degli sconti:
l'Unione Europea, e il governo
tedesco che comanda la UE germanizzata, ci imporranno
sicuramente ancora austerità e sacrifici. La nuova
grande speranza dei nostri politici,
propagandata dalla fanfara dei media dominanti, è che il
nuovo governo tedesco popolar socialista di
Merkel-Schulz in via di costituzione
accetti la proposta di alleanza “europeista” fatta da
Emmanuel Macron e che l'intesa annunciata tra Berlino e
Parigi per il rilancio
dell'integrazione europea aiuti il nostro paese a
ottenere più flessibilità sui conti pubblici, e quindi a
uscire dalla crisi. Ma questa
è una falsa speranza e una pia illusione. Ai due paesi
europei, nostri vicini e concorrenti, può infatti
convenire che l'Italia resti
nel tunnel della crisi.
Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171
La situazione dei palestinesi si aggrava
in una forma così accelerata che si può ormai misurare
quotidianamente. Il
deterioramento viene regolarmente documentato dalle
agenzie specializzate delle Nazioni Unite e tuttavia sul
piano politico i principali membri
dell’ONU permettono la continuazione della finzione che
l’occupazione israeliana sia temporanea e cesserà quando
verrà
firmato un accordo di pace. Israele non è però un
custode temporaneo, ad interim, della
Cisgiordania e di Gerusalemme orientale,
nonché di Gaza. Come osserva Ilan Pappé nel capitolo su
Gaza, il nono, del suo ultimo libro, non bisogna quindi
farsi confondere dal
‘ritiro’ voluto
nel 2005 da Ariel Sharon deciso piuttosto a
metterla sotto assedio. Per l’ONU Israele rimane
formalmente il paese occupante della Striscia. Dal 1967
il governo di Tel Aviv tratta i
territori della
Cisgiordania e del Golan – quest’ ultimo illegalmente
annesso nel 1981
– come zone di popolamento coloniale rimaneggiando ed
espellendo gli abitanti dalle aree scelte per gli
insediamenti, distruggendone le case e
limitandone gli spostamenti, costruendo strade per soli
ebrei. Il punto è che l’occupazione in corso dal 1967
non è mai stata
considerata come temporanea da parte dei vari governi
israeliani. Essa
si presenta come la
continuazione della pulizia etnica condotta in maniera
massiccia dal dicembre del 1947 fino al 1949 con
prolungamenti fino agli inizi degli anni
’50 quando gli abitanti di Majdal, ribattezzata
Ashkelon, furono messi su dei camion e scaricati oltre
il confine della striscia di Gaza.
Ciao Viola
anzitutto grazie per la tua disponibilità a questa
intervista. Prima domanda: chi è Viola
Carofalo? In breve puoi descrivere la tua storia
personale e politica? Sarai candidata?
La mia storia politica e personale non è molto diversa da quella di tutti i militanti e gli attivisti di Potere al popolo: non ho un lavoro stabile; nello specifico sono ricercatrice precaria in filosofia all'università; ho militato per anni nei collettivi universitari, nelle occupazioni di spazi da dedicare alle attività sociali in città a fianco dei disoccupati, dei lavoratori e degli immigrati, e ho sempre partecipato ai cosiddetti movimenti “antagonisti”, che avevano come scopo quello di costruire e di proporre un’alternativa a quei cambiamenti della società, che si sono avverati negli ultimi vent'anni.
Per quanto riguarda la candidatura: no, non sarò candidata. Abbiamo dovuto scegliere un capo politico perché questa legge elettorale ce lo ha imposto; la scelta è caduta su di me, e ne sono felice; ma proprio per scardinare la logica personalistica delle elezioni politiche, abbiamo ritenuto opportuno che il capo politico non fosse anche candidato.
E’ passata una settimana da quando il ministro dell’interno Minniti, ha annunciato la rivoluzionaria invenzione di un red button per denunciare le fake news sul sito della polizia. Per prima cosa occupiamoci della traduzione: red button uguale bottone rosso; fake news uguale notizie false, ok, possiamo incominciare.
L’iniziativa, di cui si sono occupati tutti i giornali, le radio, le tivù, il web, i commentatori, gli esperti (e quasi tutti per dire che è una cazzata), è stata presentata come risposta al pericoloso allarme sociale delle bufale online, “con specifico riguardo al corrente periodo di competizione elettorale” (il virgolettato è nel comunicato ufficiale). Insomma, se durante tutto l’anno leggiamo ovunque che gli immigrati hanno la jacuzzi nell’hotel a cinque stelle, va bene, ma se durante il “periodo di competizione elettorale” leggiamo che la Boldrini va al cinema con un killer uzbeko tatuato, allora allarme rosso, anzi red button.
Non starò qui a ripassare il rosario delle reazioni, più o meno colte e articolate, sul fatto che la polizia si metta a controllare se una notizia è vera o no (il comunicato parla di “contronarrazione istituzionale”): Orwell l’abbiamo letto tutti. Vorrei invece inviare un messaggio di sincera solidarietà alla “task force di esperti” che “in tempo reale, 24 ore su 24, effettuerà approfondite analisi” per scoprire se una notizia è falsa.
Renzi e Gentiloni, Berlusconi e Salvini, Grillo e Di Maio apparentemente si scontrano su tutto. Se però andiamo a vedere la sostanza dei loro programmi economici, beh l’ubbidienza ai vincoli dell’austerità europea è comune.
Il PD ha lanciato la campagna elettorale assieme ai suoi cespugli rispolverando dalle ragnatele l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente nella versione da figurine Panini, la sola che possa essere compresa dal segretario democratico. Gli Stati Uniti socialisti di Europa erano l’idea originaria di Altiero Spinelli. Come si sa la UE ha imposto il potere autoritario liberista delle banche sugli stati sottomessi d’Europa. Quindi Renzi con questa battuta, naturalmente epurata di ogni legame con il socialismo, semplicemente issa la bandiera UE a copertura della continuità delle politiche di austerità. Come hanno sempre fatto tutti i governanti in questi anni. Nel settembre del 2016 l’allora presidente del consiglio incontrò su una nave da guerra, al largo di Ventotene, Hollande e Merkel. Allora non poteva parlare di Stati Uniti alla presenza dei padroni della UE, lo avrebbero ridicolizzato, quindi fece solo qualche spot elettorale per il referendum che poi avrebbe perso.
Ora ci riprova. Nel 1700 un conservatore inglese, Johnson, affermò che il patriottismo era l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi vale per l’europeismo.
Non si brinda mai tanto quanto nelle occasioni che hanno bisogno di scongiuri e di segni apotropaici per richiamare l’attenzione della fortuna o cercare di invertire la fuga. Non si sa quanti brindisi furono fatti negli stati maggiori tedeschi dopo aver fermato per poco tempo le armte sovietiche sulla Vistola o per aver sbaragliato la gigantesca operazione market garden più o meno nello stesso periodo. E oggi si brinda a Bonn, brinda naturalmente anche Juncker che pure non ha bisogno di occasioni speciali per farlo, alla notizia che l’assemblea dei socialdemocratici tedeschi ha approvato con 362 voti contro 279 l’avvio di negoziati per rifare una coalizione con la Cdu della Merkel.
Ora bisogna chiedersi se sia davvero “Un’ottima notizia per un’Europa più unita, forte e democratica” come dice il presidente della commissione Ue o si tratti invece del segnale di una debolezza tale da far considerare salvifico per la Ue, la problematica riproposizione di un’alleanza che ha fatto il suo tempo e che appare come l’ultima spiaggia piuttosto che come un punto di inizio. Di certo c’è il fatto che non si vedono più le condizioni per una riedizione della grande coalizione che comunque nascerebbe su una spaccatura a metà dei socialdemocratici e su numeri molto diversi dal passato visto che l’alleanza non rappresenta più come prima quasi il 70% dell’elettorato, ma una percentuale appena superiore ala 50.
La decisione statunitense di addestrare specificamente circa 30.000 uomini di una milizia curda alla frontiera turco-siriana era considerabile un’iniziativa avventata e dalle conseguenze catastrofiche - e tale si è subito rivelata - ma, paradossalmente, è anche comprensibile nella globale situazione siriana. Lasciamo stare i profili di violazione della sovranità dello Stato siriano, giacché gli Usa fanno e disfanno il diritto internazionale a loro piacimento e i media presentano ciò come se fosse normale.
I motivi del giudizio di avventatezza sono facilmente individuabili. Il minore di essi sta nella notoria inaffidabilità delle organizzazioni politico-militari curde, accompagnata da un opportunismo pasticcione e tuttavia di continuo strumentalizzato e tradito dai loro alleati del momento.
Dato che l’iniziativa in questione significa il rafforzamento della presenza curda nel nord siriano - cioè sotto il confine turco - era peraltro ovvio che il governo di Ankara non avrebbe mai lasciato correre un tale precedente in favore di un nucleo armato che considera affiliato al Pkk di Turchia.
Ci vuole davvero un bel coraggio. Chiamate missioni militari di pace gli avamposti delle conquiste neoliberali camuffate da buon samaritano. Arriviamo a quota 35, con le due ultime partorite dalla diplomazia di sabbia del nostro Paese. Nel Sahel c’è posto per tutti. Controllori di frontiere, migranti, risorse, capitali e soprattutto traffici, di armi, cocaina, terroristi, attivisti e transumanti.
Immaginiamo per un attimo che l’Assemblea Nazionale del Niger avesse discusso se inviare o meno una missione militare in Italia. Concepita per controllare il territorio e i traffici di migranti per le raccolte di pomodori e carciofi nelle campagne pugliesi. Una missione di pace nigerina in Italia, con qualche centinaio di militari per addestrare la guardia di finanza e incoraggiare i sindacati. Pensiamo solo per un momento alle colorite reazioni nell’italica penisola. Fantapolitica non diversa o peggiore di quella chiamata ‘reale’ nel Sahel. Una vera di-missione.
La deriva italiana non è cominciata in questi giorni di polvere. Si è andata delineando nello spazio e nel tempo dell’Africa coloniale, si è rafforzata nell’onda lunga fascista e si è infine imposta come narrazione unica col regime neoliberista. Poche le resistenze, minate alla base dalla miopia politica e dai reiterati tradimenti dei valori costituzionali.

Nell'episodio 7 della prima serie
di
Futurama, Fry deglutisce inavvertitamente l'imperatore
Bont del pianeta Trisol, popolato da corpi acquatici alieni,
succedendogli al trono. Ma
Bont, contrariamente alle apparenze, non è morto. Continua a
vivere nel corpo di Fry e da lì invita i suoi sudditi a
squarciare
l'involucro umano che lo tiene prigioniero. Assediato dai
trisoliani armati, Fry chiede aiuto al dott. Zoidberg, lo
stravagante medico-mollusco di
bordo, il quale lo rassicura:
- Rilassati, Fry. Basterà frullarti in una centrifuga ad alta velocità per separare il fluido più denso di Sua Maestà.
- Ma così non mi romperò le ossa?
- Ah giusto, le ossa! Mi dimentico sempre delle ossa.
La scena mi è ritornata in mente leggendo un articolo recente del Sole 24 Ore che, dice nel titolo, «Se tutti pagassero le tasse il debito pubblico si estinguerebbe in 18 anni».
Ora, so che è difficile. Ma invito i lettori a non soffermarsi sul fatto che i titoli di debito pubblico hanno una scadenza e che non rinnovarli per «estinguerne» il montante equivarrebbe a sottrarre allo Stato italiano 2.250 miliardi, catapultandolo nel Quarto Mondo.
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Io e Mario Galati, i due
‘epistolografi’ di cui viene qui proposto il carteggio
telematico, ci siamo conosciuti frequentando il sito di
‘sinistra in
rete’. Anche se non apparteniamo alla stessa generazione,
entrambi proveniamo dalla tradizione comunista del movimento
operaio; entrambi
cerchiamo di recare il nostro contributo alla costruzione
del partito comunista in un Paese che, almeno finora, ne è
privo, anche se,
formalmente e putativamente, di partiti così denominati ne
conta quasi una dozzina. Io e Mario, non appena abbiamo
potuto, grazie alla cortese
mediazione del coordinatore del sito, stabilire un rapporto
diretto di comunicazione, siamo stati d’accordo
nell’individuare due questioni
nodali del processo di costruzione del partito comunista:
l’analisi dell’imperialismo e il giudizio su Palmiro
Togliatti. Che altro
aggiungere se non domandare scusa ai compagni e agli amici
interessati a questo àmbito di temi e di problemi, che
leggeranno i nostri testi,
dei margini inevitabili di approssimazione che sono inerenti
al genere letterario che abbiamo prescelto per introdurci in
tale àmbito?
Confidiamo però che quanto si è perso in termini di rigore
teorico e filologico possa essere compensato da quanto si
guadagnerà
in termini di efficacia espositiva. [E. B.]
* * * *
Per la conoscenza reciproca ed un confronto
teorico-politico e ideologico
(lettera del 1° luglio 2017)
Caro Mario Galati, ti ringrazio (posso darti del tu?) per la pronta disponibilità che hai dato a Tonino. Il motivo è semplice: ho apprezzato i tuoi commenti agli articoli pubblicati sul sito di “sinistrainrete” (comprese le osservazioni critiche al mio articolo sull’‘ultimo Engels’), nonché il chiaro e pugnace orientamento comunista che li caratterizza.
Oggi la prima riunione dell'anno della Bce. Due conti sui paesi che hanno beneficiato di più delle politiche monetarie espansive mentre si decide il ritiro del Qe
Con l’avvicinarsi delle elezioni politiche si riaccende il dibattito sul debito pubblico italiano e sulla opportunità o meno di sforare la soglia del 3 per cento del deficit annuo. Il debito pubblico italiano è oggetto di attenzione anche in Germania. Qui, in assenza di un governo (a quattro mesi dal voto di settembre), e con Wolfgang Schäuble “promosso” a presidente del Bundestag, il ruolo del falco è assunto da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank. Weidmann per un verso insiste sulla riduzione dei titoli di stato nei portafogli delle banche, quale precondizione per avviare il terzo pilastro dell’Unione bancaria, e dall’altro lato preme per una conclusione quanto più possibile ravvicinata del programma di Quantitative easing (Qe).
La Banca centrale europea oggi riunirà per la prima volta quest’anno il Consiglio direttivo e inizierà a dimezzare gli acquisti mensili di titoli di stato.
Pur con meritevoli eccezioni, al momento occuparsi di tempi di lavoro pare un vezzo, una tensione legittima ma secondaria di fronte al dilagare del precariato e della povertà
Psicologi, più che economisti. Servono psicologi, per comprendere la gigantesca rimozione che colpisce la politica italiana: non passa giorno senza allarmi mediatici sui robot che “rubano” lavoro, eppure la distribuzione dei tempi di lavoro nemmeno si affaccia ai margini del dibattito politico.
L’ennesima occasione persa è questa campagna elettorale, che sul tema vedeva due soggetti partire in pole position. Uno, a sorpresa, era il M5S: nel 2016 i deputati Tiziana Ciprini e Claudio Cominardi hanno meritoriamente promosso uno studio sull’evoluzione del lavoro, con il sociologo Domenico De Masi e numerosi esperti; nel 2017 hanno poi elaborato un “programma lavoro”, a cui anche chi scrive ha contribuito da esterno, nella convinzione che l’egemonia culturale avanzi per strade spesso imprevedibili. Il programma, poi votato dagli iscritti, era fondato proprio sulla riduzione degli orari di lavoro, con alcuni realistici indirizzi traducibili in un articolato Disegno di legge.
In cui finalmente si svela il segreto di come funziona il mondo
Ieri, si faceva la fila dalla Vinaia Messicana. Voi magari non lo sapete, ma lo sa tutto il quartiere che la Vinaia Messicana ha appena avuto un bambino, quindi a servire, c’era suo marito, che non conosce bene tutti i meccanismi del posto.
Si sente suonare un telefono, “è il tablet!” mi spiega e continua a servire. Il telefono continua a suonare, senza mai smettere.
“E’ Foodora, c’è un tizio che ha ordinato due bottiglie di vino, ma quel tipo di vino l’abbiamo finito, non so che fare…”
Mentre il tablet suona, inizia a suonare pure il telefono, quello vero. Lui risponde,
“è Foodora, che mi ricorda che il tablet sta suonando”
“E perché non gli chiedi come fare se è finito il vino…”
“No, è una voce registrata, non si può comunicare”.
Il tablet continua a suonare incessantemente, e il telefono pure. Dopo meno di cinque minuti dall’inizio, appare sulla porta un ragazzo con uno zaino,
“sono qui per conto di Foodora, devo prendere due bottiglie e consegnarle entro dieci minuti!”
Insieme, il marito della vinaia e il ragazzo riescono a risolvere la faccenda, parlando direttamente con l’acquirente, il quale accetta una sostituzione delle bottiglie.
Diventa ormai sempre più difficile sostenere una tesi molto diffusa, soprattutto in Occidente, secondo la quale con la Belt and Road Initiative (Bri) ci troveremmo di fronte ad una versione cinese del Piano Marshall. Vale a dire a quel progetto di assistenza economica che gli Stati Uniti misero in piedi al termine della seconda guerra mondiale per risollevare economicamente l’Europa occidentale e, al contempo, contrastare una possibile avanzata delle sinistre comuniste, in linea con le indicazioni del rapporto Clifford-Elsey: di fronte a partiti comunisti forti e ben organizzati e alla strategia di Mosca volta all’infiltrazione e alla conquista del potere dall’interno, la risposta americana doveva essere diretta alla “creazione di un forte rapporto di interdipendenza tra i Paesi minacciati e tra di essi e gli Stati Uniti” e a riguardo non poteva esserci altra soluzione per consolidare un blocco occidentale se non attraverso un programma di assistenza economica [Mammarella G., 1990, p. 24-25].
Sebbene goda di maggiore consenso tra i media occidentali, il richiamo al piano Marshall e ad una sua nuova declinazione cinese è stato introdotto anche nella stessa Cina da un noto economista come Xu Shanda, membro della Conferenza consultiva del popolo cinese.
La guerra siriana ha una nuova evoluzione. Nell’articolo di una settimana fa avevamo accennato come due nuove criticità avessero aperto una fase nuova. Da una parte l’offensiva dell’esercito siriano su Idlib, in mano ad al Nusra (al Qaeda) rischiava di provocare un conflitto tra Damasco e Ankara, che da sempre rivendica quella zona e che ha un filo diretto con le milizie che la occupano. Dall’altra l’annuncio di Washington sull’intenzione di armare le milizie curde presenti in Siria aveva suscitato le ire di Damasco, Ankara, Teheran e le preoccupazioni di Mosca.
Due criticità che hanno scatenato un nuovo conflitto, stavolta nel cantone di Afrin, controllato dalle milizie curde del PYD (democratic union party), che Ankara considera terroriste al pari del Pkk (Partîya Karkerén Kurdîstan, partito dei lavoratori del Kurdistan).
Uno sviluppo alquanto lineare: i turchi hanno provato a ostacolare in tutti i modi la campagna dell’esercito di Damasco contro Idlib, in particolare chiedendo a Iran e Russia di mettere un freno ad Assad. Inutilmente, dal momento che Mosca e Teheran hanno continuato a sostenere le ragioni e le forze siriane.
Il presidente turco si è visto così alle stette: poteva sì sostenere le milizie jihadiste stanziate a Idlib, ma non poteva correre il rischio di un ingaggio diretto da parte dell’esercito turco: equivaleva a una dichiarazione di guerra contro Damasco.
La campagna mediatica per il pareggio di bilancio e la lotta al debito pubblico da parte degli economisti, liberisti prima e neoliberisti oggi, è divenuta così ossessiva e martellante da essere passivamente accettata come verità dall’opinione pubblica.
È stata costruita una narrazione unica, supportata e amplificata dai media mainstream, per la quale la crisi economica sarebbe la conseguenza inevitabile dei comportamenti irresponsabili e dispendiosi tenuti dagli Stati nazionali, ultimo baluardo di democrazia nella dittatura del mercato unico iper-globalizzato.
Attraverso una sapiente arte manipolatoria, la questione del debito è stata ricondotta a una categoria etico-morale, da cui ne deriva che le politiche economiche di austerity attualmente applicate rappresenterebbero l’unica strada percorribile, nonché la pena necessaria e inevitabile per espiare i peccati commessi. Facendo leva su meccanismi psicologici e innati dell’uomo, come il senso di colpa, teorie economiche prive di fondamento scientifico vengono riconosciute come assiomatiche e perciò inconfutabili.
Così, misure di austerità, fatte di tagli alla spesa pubblica, inasprimento fiscale ai fini di ridurre il debito pubblico – nonché ricorso massiccio alle privatizzazioni e alle (s)vendite di asset pubblici nazionali a investitori stranieri- vengono applicate in tutto il mondo, dall’Africa all’Europa, senza risparmiare nessuno.
Austerity vs Stimulus: The Political Future of Economic Recovery, a cura di Robert Skidelsky e Nicolò Fraccaroli, Palgrave Macmillan, 178 pagine: http://www.palgrave.com/de/book/9783319504384
L’austerità ha fallito ed
è tempo di bilanci. Ma è soprattutto giunto il momento di
chiedersi perché, nonostante le politiche di restrizione
fiscale
abbiano sortito effetti più che negativi sul corso della
crisi che ha travolto le economie occidentali (e quella
europea in particolare), la
discussione tra quanti ne sostengono l’efficacia e i fautori
di posizioni keynesiane sia più accesa che mai. Secondo Robert
Skidelsky e Nicolò Fraccaroli ,
entrambi storici dell’economia, è importante comprendere il
motivo per
cui l’idea di austerità si è andata affermando in termini
ideologici, arrivando a forzare l’interpretazione degli
andamenti
economici di volta in volta osservati pur di giustificare
l’adozione di misure draconiane. E’ questo il tema di fondo
che anima
Austerity vs Stimulus, un’agile
raccolta di articoli (in parte originali e in parte
ripubblicazioni di precedenti
uscite in volumi o da fonti giornalistiche) attraverso cui
Skidelsky e Fraccaroli intendono mostrare come l’idea di
austerità abbia
acquistato sempre maggior forza soprattutto in virtù di un
messaggio politico divenuto centrale per i partiti di centro
– destra, che
hanno dominato la scena politica europea da prima e lungo
tutto l’arco della crisi. L’austerità si sposa infatti con
la visione che
la crescita economica debba essere trainata dal settore
privato e che a tal fine l’intervento pubblico non
interferisca con i meccanismi di
“autoregolazione” del mercato.
Sbilanciamo le elezioni/Al di là dei periodici sussulti alla presentazione dei dati statistici sull’occupazione il progressivo deterioramento delle condizioni di lavoro in atto nel paese non sembra scuotere la nostra classe politica
Sembrerebbe
una
questione importante per la politica italiana se si
considerano i periodici sussulti alla presentazione dei dati
statistici sull’occupazione in
cui i pochi decimi percentuali di variazione del tasso di
disoccupazione o la crescita di qualche migliaio di occupati a
tempo determinato sollevano
entusiasmi o scoramenti per l’avvicinarsi o l’allontanarsi del
mitico milione di nuovi posti di lavoro dell’era
berlusconiana.
Eppure, molto più contenute e generiche sono le riflessioni
della nostra classe dirigente alle altre numerose indicazioni
(anche statistiche)
che denunciano il persistente deterioramento che, da lunga
data, subisce il “lavoro” – inteso sia come condizione per la
sopravvivenza economica, ma anche come strumento di inclusione
civile –, processo strettamente legato all’estendersi delle
disuguaglianze
sociali e all’ampliarsi delle povertà.
Eppure le informazioni al riguardo sono molte, le situazioni deplorate, le implicazioni temute; ma al di là del loro formale riconoscimento, non sembrano scuotere la nostra classe politica. Anzi, il fatto che il tasso di occupazione e quello di disoccupazione stiano recuperando i livelli di dieci anni fa è cantato come il superamento della lunga recessione e qualcuno si azzarda anche a menarne vanto. Ma se un’occupazione retribuita ha senso solo se offre una prospettiva di reddito in grado di garantire nel tempo condizioni di esistenza dignitose, non sono certamente questi dati a confortarci.
1.
La Rivoluzione
Quello tra Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre è un legame molto profondo:
Se Marx fosse morto senza aver partecipato alla fondazione della Prima Internazionale egli sarebbe sempre Marx. Se Lenin fosse morto senza aver potuto costruire il Partito Bolscevico, senza aver potuto dispiegare la propria guida nella rivoluzione del 1905 e, più tardi, in quella del 1917, senza aver potuto fondare l’Internazionale Comunista, non sarebbe stato Lenin1.
Ma il legame di Lenin con la rivoluzione oltrepassa il crocevia storico e politico dell’Ottobre. Anche quando sembra lontanissima, la rivoluzione è sempre il punto di riferimento costante rispetto al quale Lenin misura ogni scelta
Proprio l’attualità della rivoluzione, che è l’idea fondamentale di Lenin, è anche il punto che lo collega decisivamente a Marx. Poiché il materialismo storico, come espressione concettuale della lotta di liberazione del proletariato, poteva essere afferrato e formulato teoricamente solo in quel determinato momento storico in cui la sua attualità pratica fosse venuta all’ordine del giorno della storia2.
Tutta la riflessione di Lenin è infatti concentrata su un punto apparentemente semplice eppure denso di significato: il compito dei rivoluzionari è ‘fare la rivoluzione’, agire per fare avanzare il processo rivoluzionario. E questo, tanto che la rivoluzione sia ‘all’ordine del giorno’, tanto che la rivoluzione appaia lontana, come spesso era accaduto nei lunghi giorni del confino e dell’esilio.
E' uscito su Il fatto del 24/1/18 un mio pezzo di cui trovate qui l'originale, più lungo
C’è un solo tema che sembra veramente ossessionare i vertici tedeschi ed europei: come costringere l’Italia a ridurre il suo debito pubblico, costi quello che costi (all’Italia). Prima abbiamo avuto il non-paper di Schauble, ora abbiamo il paper di 14 economisti franco-tedeschi radunati allo scopo da Merkel e Macron (AAVV 2018). Leggerlo è un viaggio nel surreale. I nostri economisti partono invero col piede giusto giudicando le attuali istituzioni e regole della politica fiscale europea macchinose, arbitrarie e pro-cicliche. Fatto è che le proposte avanzate nel paper sono ancor di più cervellotiche e vessatorie, con lo sguardo rivolto esclusivamente a mettere l’Italia sotto scacco. Se applicate probabilmente destabilizzerebbero i mercati. Dei veri problemi, crescita e occupazione, il documento non fa menzione. Keynes non è mai esistito.
Nello specifico il paper si pone l’obiettivo di rafforzare la disciplina fiscale in cambio di una qualche “condivisione dei rischi” fra i partner. Il rigore non basta mai, evidentemente. E per non sbagliarsi i Paesi ad alto debito dovranno avere più disciplina e meno “risk sharing” degli altri, non sia mai che se ne approfittino.
Sepolti sotto la valanga di fatti che ne smentiscono quotidianamente le menzogne - la globalizzazione regala prosperità a tutti, l’austerità è l’unica via per rilanciare la crescita, i tagli alla spesa pubblica e le privatizzazioni creano nuove opportunità di lavoro, per citarne solo alcune) gli agit prop del pensiero unico neoliberista richiamano all’ordine i media: il loro tasso di asservimento agli interessi delle élite, ancorché elevato, non basta, devono fare di più e di meglio, devono far sì che nella mente della gente vi sia spazio solo per le verità di regime. E, con l’avvicinarsi delle elezioni, i toni salgono ulteriormente.
Così Mario Monti, in un editoriale dal titolo “Promesse e debiti (nostri)” (Corriere della Sera del 22 gennaio), paragona le promesse elettorali che prevedono una qualche forma di allentamento della linea del rigore imposta dalla Ue a trazione tedesca a una specie di “voto di scambio” mafioso. Chiunque affermi la possibilità di adottare politiche economiche alternative, sostiene, mente sapendo di mentire, diffonde fake news. Non fatevi ingannare, tuona, le promesse sono dei partiti, <<ma il debito è nostro>>. Affermazione paradossale, visto che qualche riga sopra tesse le lodi del <<divorzio>> fra Banca d’Italia e Tesoro, evento che, come ogni economista onesto sa, è la prima se non l’unica causa di aumento del nostro debito pubblico.
Col passare del tempo l’Unione europea diviene sempre più un processo inevitabile. E’ bene rendersene conto: uscita intatta dalla crisi economica, difficilmente entrerà in crisi politica di qui a breve. Passi falsi, incomprensioni e competizioni nazionali rimarranno all’ordine del giorno, ma nessuno di questi rallentamenti avrà la forza di interrompere il consolidamento della Ue. Soprattutto per un motivo: complice la crisi, negli ultimi anni molte delle aziende strategiche dei paesi europei sono andate fondendosi tra loro. Conviene ricordare che il progetto europeista nasce esattamente dalla condivisione industriale: attraverso la Ceca – Comunità europea del carbone e dell’acciaio – prendeva forma una relazione industriale che sostanziava l’unione politica. Nell’ultimo anno il processo di fusione industriale ha subito un’accelerazione traumatica, silenziata nei suoi significati politici: l’Opa di Atlantia (Italia) su Abertis (Spagna) nel settore autostradale; l’accordo Stx (Francia) con Fincantieri (Italia) nella cantieristica navale civile e militare; la fusione, tutta italiana, tra Fs e Anas, tale da creare un “campione” europeo nei trasporti ferroviari e autostradali, avvenuta peraltro in risposta alla fusione tra Siemens (Germania) e Alstom (Francia) nel settore trasporti autostradali, ferroviari e navali. In altre parole: Germania, Francia e Italia procedono integrando le proprie economie nei settori decisivi.
L’incipit del Vangelo di Giovanni ci intratteneva illustrandoci la potenza del Logos. Un paio di millenni dopo Naomi Klein ci ha rivelato invece la potenza del “logo”, cioè del marchio. Con una descrizione spesso efficace, la Klein ci ha spiegato l’avvento del modello di “impresa vuota”, alla Nike; un’impresa che non produce nulla, che si concentra sulla pubblicità al marchio (ed al life-style ad esso legato) e che subappalta interamente la produzione a piccole imprese di Paesi poveri; imprese costrette a farsi concorrenza al ribasso tra loro.
Tutto vero, ma tante mezze verità possono comporre menzogne intere. Basta distrarre l’attenzione dal punto principale attirandola sul dettaglio sbagliato: il marchio, appunto. Il tema del ”logo” - e dello stile di vita che esso evoca - è piaciuto molto alla “sinistra” del “politicorretto” poiché sposta il conflitto sul piano astratto dell’estetica di se stessi, sulla ricerca del nostro vero essere al di là del consumismo, delle mode e delle apparenze. Così ogni progressista occidentale può pensare che, diventando lui più bello dentro, magari salverà anche milioni di persone dallo sfruttamento.
Quanto a “bellezza dentro” però anche la Nike non scherza. Dai siti della stessa Nike scopriamo infatti tutte le attività benefiche di questa azienda. In particolare la Nike risulta essere la principale finanziatrice di una corporation “non profit”, Women’s World Banking.
Per un’efficace strategia politica di Sinistra, accanto a una valida analisi del presente, occorre provare a prevedere quello che accadrà. Una Sinistra che si proponga di modificare lo stato delle cose, non può eludere il nodo del futuro: non le basta capire come intervenire sulla situazione data; le occorre anche cogliere i movimenti profondi della struttura sociale che, se lasciati a sé stessi, orienteranno l’evoluzione collettiva. Tuttavia, questo esercizio è uno dei più ambiziosi e rischiosi che un ricercatore possa intraprendere. Esso presenta un margine di errore talmente elevato, che molti studiosi lo giudicano vano e irrazionale. Chi lo effettua seriamente è un intellettuale metodologicamente avvertito, che decide di mettere in gioco parte della propria reputazione pur di non rinunciare allo “squarcio di luce” che dalla prognosi può scaturire. Recentemente, in questi termini si sono coraggiosamente confrontati con l’avvenire due dei maggiori sociologi contemporanei, Randall Collins e Wolfgang Streeck, e un eminente economista dello sviluppo, Branko Milanovic. Mentre di Streeck e Milanovic parlerò in successivi articoli, oggi mi soffermo sul contributo di Collins, che espongo liberamente, rafforzandone alcuni passaggi con mie considerazioni[1].

Vladimiro Giacché, della cui amicizia mi onoro
da lunga data, è uno dei più autorevoli economisti europei.
Ha svolto
i suoi studi universitari a Pisa e a Bochum, in Germania, è
laureato in filosofia alla Normale ed è presidente del
Centro Europa
Ricerche. In Italia e in Germania è considerato una delle
voci più critiche dell’assetto istituzionale europeo e
dell’ordinamento finanziario basato sull’euro, con
particolare riferimento al ruolo della Germania,
specialmente nei confronti del Sud
d’Europa. Dell’intervista che mi ha concesso alcuni brani
sono inseriti nel mio nuovo docufilm “O la Troika o
la Vita
– Epicentro Sud – Non si uccidono così anche i paesi?” E
a proposito di paesi, popoli, nazioni, culture da uccidere,
ho trovato che uno dei libri più drammaticamente istruttivi
su come la classe dirigente tedesca, nelle sue varie
espressioni
politico-partitiche, ha devastato e vampirizzato la parte
del suo popolo riunito nella DDR, Repubblica Democratica
Tedesca, sia l’irrinunciabile
“Anschluss”, pubblicato da Imprimatur nel 2013. Se
ne possono trarre ampie indicazioni su cosa Berlino, il suo
retroterra
atlantico e i suoi strumenti finanziari abbiano riservato
alla Grecia e stiano riservando all’Italia.
* * * *
FG Popolari, Ligresti, Monte dei Paschi…Siamo al collasso del sistema bancario italiano?
VG Sicuramente la situazione attuale, la nuova normativa della cosiddetta Unione Bancaria Europea è qualcosa che ha paralizzato in misura molto drastica il nostro sistema. In particolare, i tedeschi sono riusciti nel capolavoro di tenere fuori dalla Vigilanza Europea la gran parte delle loro banche che fanno credito alle imprese.
Detto approssimativamente:
Dire di due cose, che
esse siano identiche, è un nonsenso; e
dire di
una cosa, che essa sia identica a se stessa,
non dice nulla
(L. Wittgenstein, Tractatus
logico-philosophicus, 5.5303)
È cosa facilmente verificabile per chiunque che il concetto di identità sia oggigiorno uno dei più frequentemente utilizzati in tutti gli ambiti del discorso pubblico e questo ha dato luogo ad una moltiplicazione delle sue possibili declinazioni e delle sue differenti accezioni: identità occidentale, europea, nazionale, culturale, religiosa, etnica, locale o regionale, personale ecc. E poco importa se molte di queste espressioni abbiano oppure non abbiano un senso compiuto che ne permetta un utilizzo valido e pertinente, perché la rivendicazione identitaria sembra essere diventata un’ossessione a tal punto evidente, pervasiva e diffusa da non riuscire più neppure a mascherare le dinamiche che la producono, le esigenze e le difficoltà individuali e collettive che la alimentano. È come se lo sbriciolamento della realtà sociale, politica, economica, lavorativa – conseguenza di un mondo reso globale da un mercato totale in costante corto circuito e aggrovigliato su stesso nel circolo vizioso della riproduzione di iniquità sociale – avesse reso necessario il ricorso a pratiche identitarie, ovvero all’arroccamento difensivo su posizioni identitarie sufficientemente forti per fornire l’illusione di un barlume di sicurezza.
Si va diffondendo l’idea, anche negli ambienti politicamente e culturalmente radicali, che i processi tecnologici siano inevitabili e inarrestabili e per questo motivo non ci resterebbe che subirli scendendo a compromessi onorevoli . Nulla, secondo certe teorie, è possibile per arrestare i processi di automazione, da qui la rivendicazione di un reddito di cittadinanza rafforzando al contempo la cultura del rifiuto del lavoro come risposta a quel lavoro gratuito affermatosi dentro quella economia della promessa.
Queste teorie ormai considerano irrilevanti i movimenti politici e sociali, inadeguati e incapaci a cogliere le trasformazioni e a contrastarne la realizzazione pratica. Certo che gli stessi movimenti e le realtà organizzate debbono rivedere profondamente il loro stesso modo di agire, uscire dalla logica della rappresentanza istituzionale che facendola da padrona induce a ogni forma di compromesso, a subire e sottoscrivere accordi sindacali indecorosi come il testo unico sulla rappresentanza o i bonus al posto degli aumenti contrattuali (tanto per restare all'ambito sindacale) o a calarsi nelle dispute elettorali dimenticando ogni altro impegno nella speranza, mai sopita, di occultare la perdita del consenso reale dietro a qualche parlamentare.
Dalla guerra in Iraq nel 1991 a oggi, nessun tribunale internazionale ha mai processato e giudicato i vincitori delle guerre di aggressione condotte dall’Occidente e dagli alleati del Golfo. E dire che la guerra di aggressione è bandita in modo assoluto dalla carta delle nazioni unite ed è considerata il «crimine internazionale supremo» sin dall’epoca del tribunale di Norimberga (che però giudicò solo i vinti).
Alcune volte gli Stati presi di mira hanno provato a reagire ricorrendo a istanze internazionali (si pensi alla Jugoslavia durante i bombardamenti Nato del 1999); altre volte erano i cittadini danneggiati a provare le strade dei tribunali internazionali, sul lato penale e civile. Il primo non ha mai sortito effetti; per il secondo, alle vittime civili – «effetti collaterali» – afghane, irachene, pakistane sono stati elargiti risibili risarcimenti a cura dei responsabili, si vedano gli Usa con gli abitanti dei villaggi sterminati dai droni. Troppo poco, decisamente.
Si sta muovendo con coraggio contro l’impunità Khaled el Hamedi, cittadino libico, fondatore dell’associazione Vittime della Nato. Un bombardamento dell’operazione Unified Protector sterminò la sua famiglia il 20 giugno 2011 a Sorman. Dalle macerie furono estratti i corpi maciullati della moglie Safae Ahmed Azawi, incinta, dei suoi due figli piccoli Khaled e Alkhweldi, della nipote Salam, della zia Najia, del cugino Mohamed; uccisi anche i bambini dei suoi vicini di casa e due lavoratori. Abbiamo rivolto alcune domande al legale di Khaled, Jan Fermon, che sta preparando una conferenza stampa a Bruxelles, il 29 gennaio.
Dicono i promotori: "Oggi quasi tutte le commemorazioni per la Giornata della Memoria s'incentrano più o meno su un solo gruppo di deportati, a scapito degli altri. Ma così non conservano la memoria, l’offuscano." Perciò propongono lo studio di diverse deportazioni, in particolare quelle che vengono sistematicamente dimenticate
Chi erano le persone deportate nei campi di concentramento nazisti, quegli orrendi luoghi di sterminio che ricordiamo ogni anno per la Giornata della Memoria?
Gli storici ci dicono che la stragrande maggioranza dei deportati non furono le persone invise al Regime Fascista a causa della loro religione o etnia – cioè, gli ebrei. E allora chi erano tutti gli altri? E perché anche lorofurono arrestati e deportati nei campi di sterminio?
Alcuni di loro erano rom, omosessuali, disabili: appartenevano, cioè, a gruppi di deportati di cui sentiamo a volte parlare e che vengono effettivamente ricordati nelle cerimonie annuali per la Giornata della Memoria – seppure non sempre e , spesso, solo en passant . Tuttavia, anche se sommiamo i numeri di queste tre categorie di deportati al numero degli ebrei internati dai nazisti, arriviamo comunque a meno della metà del totale delle persone rinchiuse nei campi di lavoro e di sterminio.
E degli altri, che sappiamo di preciso? Poco o niente.
Il Partito Democratico corre verso la catastrofe, impiccato a una legge elettorale scritta per far fuori i concorrenti, soprattutto quelli nuovi. E’ la stessa implosione che va vivendo la sua “costola sinistra”, Liberi e uguali, con gli stessi problemi, la stessa “cultura politica” (diciamo…) e la stessa indifferenza verso gli elettori.
Diciassette ore di discussione in direzione nazionale non hanno ridotto le distanze tra gli appetiti dei renziani e quelli delle minoranze interne (Orlando ed Emiliano), preparando una piccola esplosione di cui ora bisognerà vedere dimensioni e conseguenze. I sondaggi, da mesi, registrano impietosamente la perdita di appeal del gruppo di pirati insediatosi al Nazareno per pura ottusità politica del vecchio ceto politico (a forza di “inseguire il nuovo” si sono auto-delegittimati come “vecchiume inguardabile”, aprendo le dighe a qualsiasi scorreria). Ora sembra plausibile un nuovo drastico smottamento, dato che niente e nessuno potrà mettere una toppa sull’indecoroso balletto intorno alle caselle “sicure” da riempire.
In quale direzione avverrà tale frana non è facile dire. L’alveo naturale sarebbe in teoria quello dei bersanian-dalemiani, ma sono in questo momento frantumati dagli stessi assilli, accoltellamenti, faide e ripicche. I Cinque Stelle non godono per nulla di buona fama, in quella fetta di elettorato.
La scorsa settimana Facebook ha annunciato importanti cambiamenti al suo News Feed (ossia la homepage del social network): ridurrà il numero di pubblicazioni delle pagine che appaiono in homepage (passando dall'attuale 5% della loro presenza sul Feed al 4%) e favorirà invece le pubblicazioni degli amici.
Questo non significa che "le notizie spariranno da Facebook", come hanno scritto allarmati alcuni giornalisti. Vuol dire semplicemente che le pubblicazioni dei nostri amici avranno un peso ancora maggiore, mentre i contenuti pubblicati dalle pagine (che già avevano una visibilità ridotta) vedranno diminuire la loro audience. Già oggi, in realtà, molte delle notizie che troviamo su Facebook giungono a noi grazie ai nostri contatti, che le leggono e le condividono sul social network.
Se da un lato è comprensibile la preoccupazione di media mainstream che hanno affidato la loro strategia sui social a notizie clickbait (come per es. "Un cane sfonda il vetro di una porta per andare a prendere la sua pallina", "Le pantofole unicorno che si illuminano sono tutto ciò che state aspettando", etc.), dall'altro il lettore non deve preoccuparsi eccessivamente. Considerando che la nostra esperienza informativa online è in larga misura selettiva, con i cambiamenti all'algoritmo annunciati recentemente le notizie continueranno ad arrivare a coloro che vogliono informarsi.
Il saggio
di
Jonathan Friedman contro il politicamente corretto (Politicamente
corretto. Il conformismo culturale come regime, Meltemi
editore) può
essere nato da un’occasione contingente (il risentimento per
le accuse di razzismo rivolte alla moglie – antropologa come
lui –
“colpevole” di avere sostenuto che in alcune comunità di
migranti africani persistono credenze tribali), e qualcuno
potrebbe
rimproverargli di essersi eccessivamente concentrato sulla
realtà svedese, ma nessuno può negargli il merito di avere
magistralmente
messo a nudo la dinamica e le radici di un fenomeno che ha
contribuito in misura significativa alla mutazione genetica
delle sinistre occidentali (e
non solo di quella svedese). Il suo lavoro è di importanza
pari a quella di autori come Boltanski e Chiapello (cfr. Il
nuovo spirito del
capitalismo, ancora Meltemi), che hanno analizzato
l’integrazione delle culture sessantottine nelle politiche
aziendali del capitalismo
postfordista, e di Nancy Fraser (vedi, fra gli altri, un
suo recente articolo), la quale
ha evidenziato la convergenza fra correnti mainstream del
femminismo e ideologia neoliberista.
Per esporre le tesi del libro non ne rispetterò la struttura espositiva ma seguirò un percorso in sei tappe: l’”ibridismo” come collante ideologico della politically correctness; le giustificazioni filosofiche del politicamente corretto; gli interessi di classe che la sfruttano come strumento di un progetto egemonico; l’ideologia politicamente corretta come dispositivo per la ridefinizione del nemico; élite transnazionali versus popolazioni locali e totalitarismo globalista; considerazioni conclusive: il politicamente corretto è un attacco alla civiltà moderna o un sintomo della sua natura autodistruttiva?
Il sistema bancario ha bisogno di smaltire i crediti deteriorati il più rapidamente possibile e deve essere compito dei pubblici poteri aiutare in tutti i modi possibili tale processo. Con le necessarie contropartite
Come è noto, la crisi dei mutui
subprime ha visto il sistema bancario come un
protagonista fondamentale del gioco. Dopo lo scoppio delle
difficoltà, nonostante le
promesse fatte a suo tempo dal mondo politico al di qua e al
di la dell’Atlantico, le riforme del sistema sono state
complessivamente
insufficienti e ora, almeno negli Stati Uniti, assistiamo alla
volontà di Trump di cancellare gran parte di quello che era
stato comunque fatto
nel paese.
Alcuni studiosi e persone di buona volontà a questo punto rincarano la dose per quanto riguarda le ipotesi di riforma del sistema e propongono una ristrutturazione radicale dello stesso. Intanto avanza rapidamente e parallelamente l’innovazione tecnologica, che sta di fatto rivoluzionando il settore finanziario come quello dei veicoli, della grande distribuzione e così via.
In tutto questo turbinio, il caso italiano appare possedere delle caratteristiche molto specifiche.
Dopo che la crisi del 2008 aveva, tra l’altro, fatto rilevare la pessima situazione del sistema bancario di molti paesi, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Spagna alla Germania, le nostre classi dirigenti, sostanzialmente compatte, avevano ripetuto a lungo che il nostro sistema finanziario era invece sano e non aveva problemi.
Tra qualche anno, quando la polvere di questi tempi grigi si sarà infine depositata nell'ampio magazzino della storia, verrà il momento di ringraziare Renzi. Grazie di aver distrutto il Pd, grazie di averlo fatto in breve tempo. Magari sarebbe andata così comunque, ma tu ci hai aiutato non poco. Di nuovo, grazie!
La vicenda della composizione delle liste elettorali al Nazareno è di quelle che merita qualche riga di commento. Come previsto, Renzi ha fatto piazza pulita di ogni opposizione interna. Una pulizia etnica che certo Bersani e i suoi avevano da tempo immaginato (tra parentesi, è questo il vero motivo della nascita di LeU, che altro non c'è).
Sia chiaro, Renzi non è certo l'unico leader di partito a muoversi come un monarca. Così hanno fatto Di Maio e Salvini, come pure - e ci sarebbe da ridere! - il pesce lesso numero 2 (essendo il numero 1 Gentiloni) della politica italiana: quel Pietro Grasso che si trova lì solo perché gli altri si son guardati tutti allo specchio. E tuttavia Renzi è stato insuperabile.
Da mesi avevamo chiara una cosa, che se il segretario del Pd era rimasto inamovibile al suo posto pur non azzeccandone più una da tempo immemorabile (basti pensare al Rosatellum), è anche perché i suoi - un gruppo di parassiti attaccati al potere come l'edera alla pianta - gli hanno imposto di arrivare almeno al momento per loro cruciale: quello della composizione delle liste elettorali.
Quando si pensa alla gran scena del mondo si immagina una tragedia, un dramma. insomma una rappresentazione piena di rumore e di furore, ma queste sono solo le terribili conseguenze sulla platea mentre sul impera qualcosa che somiglia un po’ al vaudeville, un po’ al teatro dell’arte e per certi versi alla commedia dell’assurdo. Negli ultimi due anni abbiamo assistito alle grottesche sanzioni contro Mosca, non solo di per sé scandalosamente ingiuste, ma anche caricate da un chiaro interesse americano a castrare l’Europa del gas russo per sostituirlo con quello Usa, considerato quasi un sottoprodotto del petrolio estratto con il fracking visto che è relativamente poco usato nel Paese e costa troppo per imporsi sul mercato. I petrolieri della fratturazione, indebitati fino alla radice dei capelli, non hanno alcuna voglia o possibilità di fare altri costosi investimenti per recuperare questo gas senza uno sbocco di mercato certo. Trump lo ha persino detto chiaro e tondo con i suoi toni sempre così composti ed equilibrati di demente senile, mostrando che se mettere un muro tra l’Europa e la Russia è vitale per l’isolamento strategico di quest’ultima, costituisce anche una posssibile manna per gli affari d’oltre atlantico. Infatti ha imposto alla Ue un limite per l’importazione di gas dalla Russia che non deve andare oltre il 40% del totale.
Al link qui sotto trovate un’ intervista fattami da Tatiana Santi, corrispondente da Roma dell’ottima agenzia di notizie ed emittente radiofonica russa “Sputnik”. Tema del colloquio, dalla madre di tutte le false notizie, il Russiagate, lo strumento con il quale la doppia piovra anglosionista-neocon dello Stato Profondo (Cia, NSA, FBI) e del Governo Ombra (le lobby finanzcapitaliste, Big Oil, Big Pharma, Big Agro, Big Bank, ecc.) cerca di condizionare la politica estera di Usa, UE e aggregati, fino alle effettive, costanti e decisive interferenze Usa nella vita politica italiana. C’è qualche refuso nel testo, come quando si parla di soldati italiani sbarcati in Sicilia. Evidentemente si parla di “soldati americani”.
https://it.sputniknews.com/opinioni/201801245556545-le-continue-ingerenze-usa-in-italia/
Dalla megaproduzione di fake news sulle farlocche ingerenze di Putin, affidata all’Intelligence, ormai centro di potere svincolato da ogni ordinamento istituzionale, ai grandi media, cane posto a guardia degli interessi dell’élite (non per nulla recentemente esaltati dal lavoro del fiduciario numero 1 a Hollywood, Spielberg), il salto alle modalità con cui i regimi Usa storicamente e infallibilmente si interessano della politiche ed elezioni altrui è stato automatico. E dovuto.
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Il 4 marzo si vota e le forze politiche concorrenti stanno tutte uscendo allo scoperto ognuna con il proprio programma e le proprie proposte. E’ presente il Pd ovvero il partito che negli ultimi anni si è distinto per una attività di governo ultra-liberista, filo-atlantista, amica del capitalismo transnazionale e dei suoi interessi; segue il partito del cavaliere intento a negoziare con il compare Salvini in quello che ormai più che una trattativa sembra il simpatico giochino delle tre carte, “il 3% c’è il 3% non c’è, leghisti fate il vostro gioco”. Favoriti sono i cinquestelle nonostante negli ultimi tempi la Di Maio & Company, sia nelle politiche sull’immigrazione sia nell’atteggiamento verso l’Unione Europea, abbia rivisto i suoi piani spostandosi sempre più verso posizioni moderate, conservando intatta l’indole giustizialista nella lotta alla corruzione.
La novità delle prossime legislative sembra essere un movimento, sorto alla fine del 2017, il quale mira a portare avanti la causa di una sinistra degna di tal nome. Si parla ovviamente di Potere al Popolo. La sua discesa in campo rappresenta un’interessante occasione per riflettere sulla situazione della sinistra italiana e di tutti quei movimenti che si oppongono all’attuale ordine costituito.
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L’Olocausto non sfugge alla sacra legge del capitale: la mercificazione. La legge della valorizzazione è la categoria politica del capitale. Pur contradicendo la natura stessa della politica, dal gr. πόλις «città», la quale è relazione sociale condivisa, ha significati di ordine metaforico: la merce è il mezzo dello scambio, la valorizzazione illimitata. E’ anche la tattica della politica imperiale, che deve ridurre tutto all’irrilevanza, porre su un piano orizzontale ogni evento e in tal modo liberata dai vincoli etici e comunitari, tutto può essere usato, come mezzo per dimenticanza, per fondare il popolo dei lotofagi, Λωτοϕάγοι, Lotophăgi, immagine usata da Omero nell’Odissea come da Platone nella Repubblica per rappresentare i mangiatori di loto (oppio mediatico oggi), pianta della dimenticanza. L’olocausto prodotto dell’industria è il mezzo con il quale si traccia una linea fittizia tra il bene ed il male da usare in modo ideologico, in totale spregio delle vittime degli olocausti. L’olocausto degli ebrei è oggi un collante per aggregare le folle atomizzate del liberismo; in nome del bene – il liberismo assoluto-, ricordano il male assoluto: il nazifascismo. Il male è proiettato all’esterno, dimentichi delle tragedie dei micro e macro olocausti che si consumano nei nostri giorni.

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Oramai da molti anni, nel nostro sistema previdenziale sta maturando una vera e propria “bomba sociale” che va affrontata con urgenza[1]. Le sue origini affondano nella combinazione dei cambiamenti intervenuti nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale a partire dagli anni ’90 e, in particolare, con il passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo per il calcolo delle pensioni.
Il metodo contributivo, in primo luogo, ha irrigidito il funzionamento del sistema pensionistico: lo ha ancorato alla logica dell’equilibrio attuariale, ma a discapito dell’equità previdenziale; ha uguagliato i tassi di rendimento interni, ma riducendo fortemente le possibilità redistributive. In secondo luogo, da un lato, ha stabilizzato la spesa e, anzi, tende a ridurne l’incidenza sul PIL; d’altro lato, a ciascuna generazione ripropone con più forza per la vecchiaia la stessa distribuzione dei redditi della vita attiva. Non da ultimo, ostacola la possibilità di adattamenti micro e macro delle prestazioni pensionistiche alle condizioni economico-sociali correnti.
A quest’ultimo riguardo, va ricordato che i sistemi pensionistici – pubblici o privati, a capitalizzazione o a ripartizione – pur con diversa trasparenza, svolgono la funzione di redistribuire parte del reddito correntemente prodotto dalle generazioni attive a quelle anziane contemporanee.[2]
Pubblichiamo l’introduzione del volume Lavoro, Natura, Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, di Emanuele Leonardi, appena uscito per i tipi di Orthotes
Ancora fino a pochi anni fa un
libro dedicato al rapporto tra scienze sociali e crisi
ecologica, nonché alle implicazioni politiche di tale
rapporto, avrebbe richiesto
un’introduzione finalizzata a mostrare la rilevanza della
questione ambientale per il dibattito pubblico e/o per quello
scientifico. Mi pare si
possa tranquillamente affermare che le cose stiano oggi in
modo ben diverso, come dimostra per esempio la vastissima eco
mediatica destata dalla firma
dell’Accordo di Parigi al termine delle ventunesima Conferenza
delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici
delle Nazioni
Unite (Dicembre 2015). Ce ne fosse bisogno, una prova
ulteriore potrebbero essere i profondi investimenti
economico-diplomatici legati al recentissimo
G7 Ambiente – tenutosi a Bologna nel Giugno del 2017 – che ha
rappresentato un primo momento di teso confronto tra
l’amministrazione
americana guidata dal negazionista Donald Trump e i restanti
governi delle nazioni più industrializzate del pianeta,
impegnatissimi (a parole)
nella lotta al riscaldamento globale.
Mi soffermo brevemente su questi due ‘eventi-prova’ perché mi danno la possibilità di chiarire l’oggetto polemico della riflessione che segue e di inquadrare le domande di ricerca che l’hanno guidata. Partiamo dall’Accordo di Parigi, il trattato internazionale che sostituisce il Protocollo di Kyoto (siglato nel 1997 e ratificato nel 2005 – d’ora in poi PK) e su cui è destinata a basarsi nel prossimo futuro la politica climatica globale.
Dunque Bagnai si candida con la Lega.
Alcuni sono sconcertati, altri entusiasti. Crediamo abbiano torto entrambe le fazioni-
Bagnai giustifica questa scelta a causa dell’insensato europeismo della pluralità della sinistra: né LeU, né Potere al popolo pongono la questione dell’uscita dall’euro. A sinistra, anzi, c’è chi stupidamente afferma che la scelta di Bagnai è la fine inevitabile di qualsiasi impostazione indipendentista, salvo che, ovviamente, non si parli di altri paesi europei, latino americani o del vicino oriente: “Not in my back yard”. L’opinione di costoro non vale le tastiere su cui sbattono le dita invece di resettare il cervello. In effetti le uniche posizioni no euro le troviamo a destra.
In questo contesto si può comprendere l’idea di continuare nella Lega la battaglia noeuro ritenuta (a ragione) strategica. Non c’è nulla di sconcertante.
Noi, tuttavia, non siamo affatto entusiasti di questa scelta.
In primo luogo la Lega ha fatto un accordo con quel Berlusconi che questa volta ha deciso di coprirsi sotto le sottane della Merkel e dell’Unione: ha imparato la lezione del “golpe”. E’ la solita confusione ed incoerenza italiana: ci si allea fra posizioni opposte!! Inoltre, la presentazione della candidatura, avvenuta il giorno in cui Berlusconi era a Bruxelles a rassicurare tutti, ci dice dell’uso strumentale ed elettoralistico che di Bagnai fa Salvini.
Un interessante sondaggio sulla composizione sociale degli elettori italiani (Corriere della Sera di sabato 27 gennaio) certifica il gran canyon che separa la realtà dai desiderata della sinistra. Secondo tale rilevazione (che, ricordiamo, non fa altro che comprovare una dinamica in corso da diversi anni) l’ex bacino elettorale storicamente comunista – operai, impiegati pubblici, insegnanti – vota in massima parte (con punte del 40%) il M5S. Al contrario, il sezionamento delle intenzioni di voto per classi sociali e posizioni professionali svela la tara di classe della “sinistra”: per Pd, ma soprattutto per Liberi e Uguali, votano principalmente pensionati, studenti, imprenditori e dirigenti aziendali. Il voto per i partiti populisti, e in massima parte per il M5S, ricorda da vicino i settori Wasp che hanno garantito l’elezione presidenziale di Donald Trump, ma anche in qualche modo la vicenda del referendum inglese sulla Brexit: una (ex) classe operaia bianca e impoverita che vota per chi promette, a parole, una difesa del proprio tenore di reddito. Non è detto che sia sicuramente così, di certo però la tendenza secondo la quale la sinistra – sia essa “moderata” che presuntamente “radicale” – non riesce più a intercettare il voto di classe la dice lunga sulla percezione di questa nella società.
Periodicamente si levano voci in direzione di una eliminazione del denaro contante, le motivazioni sono ovviamente dettate dal bene comune e da motivi di prevenzione del crimine.
La realtà è che gli effetti non detti sarebbero disastrosi per la democrazia e la libertà
Sul corriere della Sera del 29 gennaio campeggiava in prima pagina un articolo dal titolo “Perché pagare in contanti non conviene a nessuno” del neo acquisto Milena Gabanelli che argomentava sull’opportunità di eliminare il denaro contante cercando di convincere i lettori che il suo uso non conviene a nessuno, neanche quindi a chi fosse per sua sprovvedutezza convinto del contrario.
Non è la prima volta che la giornalista ex RAI batte sull’argomento e il precedente episodio ci riconduce sempre alle colonne del Corriere, il riferimento è ad un articolo dal titolo “Il contante, la nostra croce“ pubblicato il 23 agosto 2012 sul sito del Corriere della Sera per rilanciare la puntata di Report del 15 aprile dello stesso anno e della quale venne anche fornito un link: CONTANTI SALUTI AL NERO. Il tema dell’abolizione del contante è quindi caro al giornale di Via Solferino e al pensiero politicamente corretto che lo anima.
Da sempre considero poco e stimo anche meno l’«arte contemporanea» (mi limito qui a pittura e scultura), i “critici d’arte” che ne “illuminano” le qualità, il “circuito d’arte” (mercanti, gallerie, aste, mostre e commesse su interventi statali, musei ad hoc) che la propina al pubblico (con business non da poco).
E da sempre trovo scema l’affermazione “va apprezzata perché esprime la nostra epoca”: magari l’“esprime” (piuttosto: la “manifesta”), ma perché apprezzarla? Dopo una mostra “sulla luce” a Venezia, a Firenze, città dai numeri impressionanti di turisti (come Venezia, Roma, e altrove) che non vengono per le “espressioni della nostra epoca”, ho visto i gommoni rosso-arancioni contornanti le finestre di palazzo Strozzi, l’enorme tartaruga metallica in Piazza della Signoria, e qui poi l’immenso ammasso grigio metallico e i pupazzi in cera, piú una rotella nell’adiacente Piazza S. Firenze.
Opere ammirate da chi fa o vuol far parte del “circuito d’arte” (con servili media) ed esposte per decisione del Comune. Ho tralasciato letture “illuminanti” su tali “cose” (niente sprechi di tempo e “fiato”) e nomi degli autori (scaramanzia: il nominato si rafforza): è certo che la tartarugona non significa niente, i gommoni deturpano (rimovibili, per fortuna), l’ammasso è una scarica di biche, gli sgraziati in cera sono insensati, la rotellona è un aggeggio.
Allora, domani finisce il calciomercato d’inverno e contemporaneamente devono essere consegnate al Viminale le liste per il Parlamento - se qualcuno vuole vederci un nesso faccia pure - comunque adesso le squadre per il 4 marzo sono fatte e ciascuno può scegliere la sua o programmare un week end all’estero.
Non so se avete notato che attorno alla compilazione ci sono state lievissime polemiche, diciamo, e allora vorrei sintetizzare brevemente i metodi scelti da ciascuno per rappresentare il popolo italiano.
Partito democratico
Metodo Jeffrey Dahmer detto il cannibale di Milwaukee.
Renzi si è mangiato
tutto, compreso il suo partito, di cui restano solo le ossa.
Obiettivo finale: garantire la sopravvivenza politica a se
stesso e ai suoi cari sperando
che la fine di Berlusconi gli garantisca l’eredità. Strategia
già usata in passato da Gianfranco Fini e altri senza molto
successo, anche se adesso Renzi è favorito dal fattore
biologico. A chi lo accusa di aver portato via il Pd dalla
sinistra Renzi ha replicato
che la sinistra potrà comunque vederlo a weekend alternati.
Solidarietà agli elettori di Bolzano che si ritrovano la
Boschi ma anche a
quelli di Peschiera Borromeo e Cologno monzese che troveranno
sulla scheda il nome di un ex corteggiatore di Uomini e donne.
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Ritengo positiva la risposta
data dalla portavoce di
Potere al Popolo, Viola Carofalo, ai firmatari del Patto per
la Costituzione, Felice Besostri e altri costituzionalisti
(*).
La Carofalo evidenzia innanzitutto che le condizioni minime poste nel ‘Patto’ sono “insufficienti ad assicurare davvero a tutti i lavoratori la difesa dei diritti costituzionali alle ferie, al riposo, a un salario decente, alla pace, alla salute, perché essi sono stati sistematicamente negati”.
E negati, dice la Carofalo, non solo con le leggi ordinarie, tipo il Jobs Act ed il decreto Poletti, ma anche con leggi di revisione costituzionale che la classe dominante borghese ha compiuto specie con la modifica degli artt. 81 e 97 cost., per non parlare di quella, anch’essa molto rilevante, dell’art. 118, ultimo comma , cost..
Per cui giustamente dice che in conseguenza delle suddette modifiche molti “principi costituzionali (elencati nel ‘Patto’) sono oggi lettera morta”. Si che quella vigente non è più la Costituzione liberaldemocratica del ’47, ma una costituzione liberale.
Scrive ad esempio la Carofalo che, introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio con gli artt. 81 e 97 novellati, “non è (oggi) possibile attuare l’articolo 3 cost . Invero, non potendosi fare spese fuori bilancio, non possono “rimuoversi gli ostacoli di ordine economico e sociale ”di cui in esso si parla. Il secondo comma dell’art. 81 prescrive infatti che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. Non quindi per motivi sociali e di giustizia.
«Tutta la teoria sul lavoro
intellettuale e manuale esposta in queste
pagine deve essere interpretata come contributo
all’edificazione del socialismo dopo la rivoluzione, non
come teoria della rivoluzione. Ma una
rivoluzione tende ai propri effetti finali contenendo già in
sé gli elementi che trasforma in risultati. La teoria di
tali risultati
fornisce quindi indicazioni almeno parziali sulle forme
della rivoluzione»1
Premessa
Nel pensiero radicale italiano2, che eredita e sviluppa la tradizione marxista-operaista, le condizioni del lavoro costituiscono la base del concetto di rivoluzione: studiarle significa gettare luce su un progetto di trasformazione della società. Intendere il lavoro come oggetto privilegiato della teoria rivoluzionaria significa trattarlo tanto come tema su cui verte l’indagine filosofica, quanto come obiettivo polemico e principale nemico dell’azione politica; la combinazione di entrambi i momenti costituisce un modo coerente di ripensare l’unità di teoria e prassi, nel senso cui pure allude il giovane Marx nell’ultima delle Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo».
Volendo contribuire a un simile programma, queste pagine mirano a mettere in evidenza una delle contraddizioni che attraversano la società del XXI secolo: è vero che uno dei requisiti della società comunista, cioè, del risultato della rivoluzione, consiste nella soppressione della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma, al contempo, è vero anche che l’unità di mano e mente qualifica sempre più il lavoro nel capitalismo contemporaneo3.
Di sicuro, in economia non sempre il semplice è il sigillo del vero. Lo dimostra la discussione in corso attorno al futuro del costo del denaro, cioè dei tassi di interesse, negli Stati Uniti come nel resto del mondo. Di primo acchito, tutto sembra convergere nella stessa direzione, e cioè che nei prossimi mesi assisteremo ad un progressivo aumento dei tassi di interesse per contrastare la ripresa inflazionistica. Questa previsione è basata su un ragionamento semplice e lineare, ed è ormai diventata una vera e propria narrazione. Vediamo quale è la sua logica interna.
Dall’anno scorso, dopo dieci anni di crisi profonda, le economie, a partire da quella statunitense, sono in ripresa; i tassi di disoccupazione sono ormai prossimi ai minimi storici; le Banche centrali, a partire dalla Federal Reserve, puntano all’aumento graduale dei tassi di interesse a breve termine e alla riduzione drastica dell’acquisto di titoli obbligazionari (si passa cioè dal quantitative easing al quantitative tightenening); la riforma fiscale di Donald Trump, decisamente a favore degli alti redditi e delle imprese, è destinata a generare un considerevole aumento del debito pubblico americano, il che farà aumentare i tassi di interesse sui Buoni del Tesoro a lungo termine per attirare capitali dal resto del mondo (sia detto per inciso, è sottraendo risparmio al resto del mondo che gli Stati Uniti finanziano i loro deficit pubblici); l’afflusso di capitali verso gli Stati Uniti, infine, non farà che rafforzare la politica monetaria restrittiva nel timore di un aumento ulteriore dell’inflazione.
I più giovani non lo ricordano, ma c’è stato un tempo in cui “socialista” non significava ”ladro”, “Sinistra” non significava “Destra”, “libertà” non significava “Berlusconi”.
Oggi ce ne stiamo seduti davanti alla Tv a mangiare la nostra zuppa surgelata, che non si chiama né zuppa, né surgelata, ma qualcosa tipo “Viva L’Amore” o “Baciami Ancora”, e guardiamo Berlusconi chiamare “comunista” un partito che ha abolito l’articolo 18, e “buonista” un governo che finanzia campi di concentramento.
Poi parte la pubblicità di “Morgana, la poltrona vegana” che dice “Affrettati, l’offerta è limitata nel tempo”, e lo dice da 3 anni.
Dallo smartphone scopriamo d’avere un nuovo “amico” sul social, e ci chiediamo “Ma questo chi cazzo è?” Il nome non ci dice niente.
D’altronde, nessun nome dice più niente.
Il giornale di Belpietro si chiama “La Verità”. Il partito della Lorenzin si chiama “Popolare”. Lo straccio per i pavimenti si chiama “Revolution”. E la poltrona è vegana. In effetti, chi si siederebbe su una poltrona carnivora?
Uscito incolume dal giorno della memoria, una di quelle ipocrisie così care alla menzogneria occidentale che invece di aborrire le tragedie le usa come alibi per provocarne di nuove, vale forse la pena di uscire dalle atmosfere celebrative per allargare il campo in senso spaziale e temporale. Non so davvero cosa sappiano le nuove generazioni sulla Shoa, perché le mie personali esperienze in merito sono raccapriccianti, ma temo che la stragrande maggioranza ignava immagina che si sia trattato di un episodio, che Hitler fosse brutto, cattivo, pazzo, che Mussolini abbia sbagliato ad andargli dietro e che tutto si concluda in una conchiglia di anni che probabilmente non sono nemmeno ben individuati dai più. Potremmo pensare a una sorta di analfabetismo storico circoscritto, ma sbaglieremmo perché è appunto questo il concetto centrale che viene diffuso a piene mani dalle centrali comunicative che hanno la loro radice nel mondo anglosassone: quello dell’evento “speciale”, dell’incidente che si è prodotto praticamente senza ragioni esplicitate, che a suo tempo ha giustificato la messa sotto tutela dell’Europa e che oggi ipostatizza in un passato da esorcizzare le vergogne del presente.
E così, alla fine, i Socialdemocratici tedeschi hanno detto sì. Daranno vita a una Grande coalizione con i Cristianodemocratici di Angela Merkel: la quarta, dopo quelle che hanno sostenuto l’esecutivo presieduto da Kurt Georg Kiesinger, politico dall’inquietante passato nazista (1966-69), il primo e il terzo governo Merkel (2005-09 e 2013-17). La prima volta con la Cancelliera era stata preceduta da affermazioni bellicose: i massimi dirigenti della Spd avevano giurato che mai e poi mai avrebbero accettato un esecutivo non guidato dal loro leader di allora, Gerhard Schröder. Anche recentemente Martin Schulz aveva urlato ai quattro venti che l’alleanza con i Cristianodemocratici non era cosa, che aveva capito la lezione: si era trattato di un abbraccio mortale, principale responsabile del crollo di consensi elettorali dimezzatisi nell’arco degli ultimi vent’anni (dal 40% del 1998 all’attuale 20%).
Quindi nulla di nuovo e imprevedibile. In linea con il lento e oramai definitivo allineamento dei Socialdemocratici all’ortodossia neoliberale, non a caso iniziato con la loro partecipazione alla prima Grande coalizione, e conclusosi con il secondo governo presieduto da Schröder: quello che ha mortificato lo Stato sociale tedesco e provocato un impressionante impoverimento dei lavoratori.
A due cose ha creduto il Novecento, il secolo che ci ha lasciato più orfani che eredi. All’importanza irriducibile della singolarità, non sostituibile, non rimandabile, non compensabile con promesse oltremondane (sono nati da ciò tanto l’individualismo più sfrenato quanto il totalitarismo più ferreo: ci giochiamo tutto qui e ora, la nostra vita è irripetibile, decisiva, epocale). E al lavoro come misura del valore, come potere, come compartecipazione della singolarità alla creazione del mondo. Secolo del soggetto e secolo del lavoro (e che molte fascinose dottrine si siano scagliate contro questa coppia non fa che confermarne la centralità, come sempre le eresie ribadiscono l’ortodossia). Una metafisica con tutti i crismi: non il mero riscontro di ciò che è ma il tentativo di estrarne tutto il possibile che vi è implicito.
Che ne è dunque della singolarità in un’epoca in cui tutto coopera a togliere potenza, dignità ed esistenza stessa a quell’autotrascendersi mondano che è stato individuato nel lavoro? A questo risponde fin dal titolo il nuovo libro di Giorgio Falco, Ipotesi di una sconfitta (Einaudi). In apparenza un memoir autobiografico (la storia dei mille mestieri esercitati dall’autore, impossibilitato a ricalcare le orme del padre, dipendente per tutta la vita della stessa azienda tranviaria), in realtà molto di più: una diagnosi dell’epoca in corpore vili, stilata con la spietatezza che è possibile solo a chi sceglie come cavia sé stesso.

Makroskop mi ha richiesto, tradotto e pubblicato un articolo sulle elezioni che pubblico con minimi ritocchi (anche perché l'ho scritto 15 giorni fa).E' piaciuto anche in Spagna, per cui lo tradurranno anche lì. Ma non è detto che nei prossimi giorni non cambi idea (ammesso che ne abbia una precisa). Con l'occasione, intervista su Radio radicale, notiziario delle 14,05, cliccare "scarica" e poi andare al minuto 27. Si parla dei medesimi temi, cominciando dalla questione Bagnai
E tu che
fai? Ti astieni oppure voti per qualcuno, si domanda il popolo
di sinistra in questi giorni. Al di là dell’offerta
elettorale, che
descriveremo più avanti, c’è un problema di fondo che riguarda
la democrazia italiana e quella degli altri Paesi
dell’eurozona, con l’esclusione della Germania (e dei suoi
satelliti). In democrazia si vota fondamentalmente per due
ordini di questioni:
le scelte socio-economiche e i diritti civili.
1. Io voto a sinistra di Phillips
Con riguardo alla prima scelta, agli studenti di economia viene raccontato che un tempo, in epoca keynesiana, esisteva un menu di scelte macroeconomiche chiamato curva di Phillips: tale curva (figura 1) poneva in reazione il livello della disoccupazione con quello dell’inflazione. L’idea era che a livelli bassi di disoccupazione, a sinistra della curva [sic], il rafforzamento del potere contrattuale del sindacato avrebbe condotto a un aumento dei salari reali, ma anche dei prezzi; viceversa, a destra della curva, il prezzo di una bassa inflazione era un elevato numero di disoccupati. In questo bel tempo antico i lavoratori, rappresentati dalla sinistra, privilegiavano piena occupazione e salari elevati, mentre la piccola e media borghesia (preoccupata dei propri risparmi) privilegiava la bassa inflazione e la pace sociale votando centro-destra.
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A metà della Montagna
incantata, Thomas Mann introduce il personaggio di
Naphta, un ebreo gesuita che da lì in poi si contende col
massone Settembrini il ruolo
di pedagogo del protagonista Castorp. Mentre Settembrini
descrive con passione la razionalità del progresso umano,
Naphta esalta con
razionalità implacabile le passioni più oscure e diaboliche.
In lui l’anima reazionaria coincide con quella rivoluzionaria:
Mann
lo definisce appunto “un rivoluzionario della conservazione”,
un rivoluzionario “aristocratico”. Naphta è loico,
ascetico e spietato. I suoi “poiché” chiudono ogni
dimostrazione in una griglia di ferrea causalità, e la
riaprono su
vertiginose ambiguità dialettiche. Ha come bestia nera la
borghesia, contro cui difende il Medioevo e annuncia il
comunismo. Secondo lui lo
“spirito vivente” del primo Novecento “fonde in sé gli
elementi del passato col più lontano avvenire per una vera
rivoluzione”. Una rivoluzione in cui il carattere sanguinoso
delle epoche teocratiche incontrerà quello delle dittature
proletarie:
“se vogliamo che venga il regno”, spiega, “il dualismo di bene
e male, di aldilà e aldiquà, di spirito e potere, deve
annullarsi temporaneamente in un principio che unisca ascesi e
dominio. Ecco quella che io chiamo la necessità del terrore”.
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In un
contesto internazionale, europeo e medio-orientale carico di
tensioni e di incognite, effetto di una grande crisi
irrisolta, l'Italia va verso
l'ennesima giostra elettorale. Il "popolo sovrano" è stato
convocato alle urne: ha facoltà di scegliere tra la bellezza
di 75 simboli.
Le elezioni democratiche non hanno mai detto bene ai
lavoratori anche quando, rarissimamente, i loro partiti le
hanno vinte, o non le hanno perse.
Restano, tuttavia, un indicatore degli umori e degli
orientamenti dei diversi strati e classi sociali, e della
capacità delle forze politiche
di determinarli, indirizzarli, interpretarli. Perciò è il caso
di chiedersi se in vista del 4 marzo c'è qualcosa di nuovo
sotto
il sole. Dal nostro osservatorio tre sembrano le cose
interessanti, anche se non sono nuove, o del tutto nuove. Una
sola sarebbe sorprendente davvero,
ma è al semplice stato di ipotesi...
Un forte astensionismo
La prima è un forte astensionismo, destinato forse a allargarsi. I sondaggi lo danno oltre il 30%, con punte del 45% (almeno) tra i 18-24enni. Non è però un semplice fatto generazionale. La tendenza a non votare è particolarmente accentuata tra gli operai (vedi l'inchiesta di Griseri a Mirafiori) e negli strati sociali più precari ed emarginati, come accade da decenni negli Stati Uniti e in tempi recenti in molti paesi europei.
In tutte le vicende puzzolenti c’è un odore nauseabondo che gira per ogni dove e un materiale tossico che qualcuno cerca di occultare tenacemente.
Ai buoni analisti, in questi casi, viene raccomandato di distinguere con chiarezza ciò che è certo da ciò che sembra. E proviamo a fare questa sacrosanta opera di chiarificazione con la vicenda del prode Luigi Di Maio, lanciatosi con sprezzo del pericolo tra i peggiori squali della finanza globale, riunitisi in un riservatissimo club di Knightsbridge, a Londra, soltanto per sentire i suoi progetti per l’Italia. In fondo il Movimento 5 Stelle rischia di essere il primo partito, alle elezioni del 4 marzo, dunque è “normale” che i più forti tra i poteri forti – i gestori dei fondi di investimento – si preoccupino di “testare” i candidati più accreditati. Meno normale, ovviamente, che un “capo politico” di una forza nata come “antisistema” si presti al rito più antico della prostituzione politica.
L’incontro c’è stato, viene ammesso dallo stesso Di Maio. E questa è l’unica certezza. Quel che si sono detti è invece materia oscura, visto che c’è la Reuters – agenzia di stampa piuttosto ben introdotta nell’ambiente della finanza internazionale – dà conto di una fonte presente all’incontro che riferisce quanto segue: “Di Maio ha detto ripetutamente che se non avrà seggi sufficienti per governare da solo, vede la probabilità di un governo sostenuto da tutti i principali partiti, inclusi i 5 stelle“.
Leggo che qualcuno di Casa Pound avrebbe detto in tv che l'aborto è un omicidio e andrebbe proibito, suscitando reazioni indignate.
Inevitabile che accadesse.
È una tattica efficace, ampiamente sperimentata negli Stati Uniti: i liberisti in difficoltà o che temono la crescita dell'opposizione alle loro politiche economiche, scatenano la destra su questioni puramente civili e senza implicazioni finanziarie. Con due obiettivi. Il primo è ovvio: mantenere il sostegno dei conservatori, dei tradizionalisti e dei nazionalisti, che stanno cominciando a diffidare della globalizzazione e del materialismo consumista ma che si fanno sempre riconquistare dalla retorica della vita, della libertà e della ricerca della felicità, ossia del successo. La destra sociale è stata inventata per questo: per vendere un populismo incendiario a chiacchiere ma nei fatti totalmente innocuo (vedi Trump e il suo idillico rapporto con Wall Street e con i miliardari di Davos).
Altrettanto importante è però il secondo obiettivo: risucchiare la sinistra in una battaglia che in questo momento non dovrebbe assolutamente combattere, sia perché l'esito della guerra si decide altrove e le sue forze sono insufficienti, sia perché quello specifico scontro è già stato vinto una volta per tutte.
100 miliardi di euro tra Bot, Cct e Btp vanno a scadenza, tra marzo e maggio. Ma i mercati sono tranquilli, come se fossero già decise le larghe intese Pd-Fi
È già possibile cominciare a ragionare sul dopo 4 marzo. Certamente non è facile, potrebbe essere imprudente. Per il semplice motivo che la legge elettorale, oltre a profili di dubbia costituzionalità, presenta anche un’assoluta imprevedibilità.
I suoi inventori si sono dimostrati dei classici apprendisti stregoni. Avrebbero voluto fare una legge per garantire stabilità e prevedibilità, otterranno con ogni probabilità esattamente il contrario. Sarà comunque davvero difficile, se non impossibile, che gli italiani – per riprendere il mantra dei sostenitori delle ultime leggi elettorali – la sera stessa, finiti gli scrutini, possano conoscere il loro nuovo governo.
L’escamotage delle coalizioni prive di idealità e programmi definiti non è sufficiente a risolvere il problema. Però, può proprio essere questa la scappatoia. Non è affatto impossibile che le coalizioni formatesi per la campagna elettorale tornino a scomporsi il giorno dopo il voto, per concorrere a formare governi di intese più o meno larghe. Tali comunque da essere sorretti da una maggioranza parlamentare ben diversa da quella che è stata presentata ai cittadini durante la campagna elettorale. La stessa ipotesi di un governo del Presidente può aiutare anziché contraddire questo esito.
Se c’è un saggio novecentesco dalla attualità impressionante sul quale continuare a interrogarsi con urgenza è senza dubbio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin.
Un testo relativamente breve ma densissimo di riflessioni tuttora illuminanti, dalla vita editoriale complessa e frastagliata: ne esistono cinque versioni(dal settembre 1935 all’agosto 1936, poi corrette e integrate fino al 1939-40) delle quali quattro in tedesco e una in francese, l’unica pubblicata in vita dell’autore sulla rivista della Scuola di Francoforte, tradotta dal giovane Pierre Klossowski, ma rinnegata da Benjamin per i tagli operati sul testo, senza il suo consenso, da Max Horkheimer.
L’ultima stesura apparirà postuma solo nel ’55. Il testo è cruciale per molti motivi. Innanzitutto, per aver colto immediatamente l’influenza della tecnologia sull’arte e aver riflettuto con originale lucidità sul tema. Un’influenza (la riproducibilità) che modifica non solo la fruizione da parte del pubblico e la potenziale strumentalizzazione da parte del potere politico, ma lo status stesso dell’opera d’arte.
Soprattutto, questo processo induce allo smarrimento dell’”aura” (concetto mutuato da Baudelaire), ovvero del valore sacrale dell’opera, rimosso completamente nell’era della cultura di massa.
Benjamin evidenzia il passaggio dal valore religioso al valore politico dell’opera d’arte. Una relazione tra arte e politica, secondo Benjamin, di segno opposto nei totalitarismi contemporanei alla stesura del saggio: mentre il fascismo estetizza la politica, il comunismo politicizza l’arte.
Il fisico e docente universitario in pensione sostiene: "Il mio parere personale è che la Corea del Nord non costituisca la minaccia principale, ma lo siano in primo luogo gli Stati Uniti"
L’intelligenza superiore è un errore dell’evoluzione, incapace di sopravvivere per più di un breve attimo nella storia evolutiva.
[Ernst Mayr (1904-2005), genetista evoluzionista]
La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie e ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. […] l’occhialuto uomo […] inventa gli ordigni fuori del suo corpo […] Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, di fronte al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
[Italo Svevo, La Coscienza di Zeno, 1923].
Scrivo con un nodo alla gola. Le vittime, l'ecatombe nucleare di Hiroshima e Nagasaki non hanno insegnato niente sono servite a nulla, non hanno insegnato nulla? È mai concepibile che l'essere umano soffra di amnesia cronica, non sia capace di conservare e tramandare la memoria, la sola guida che può evitarci di ricadere negli stessi errori del passato?
Quando la
cancelliera Merkel invoca il “multilateralismo”, invita il
presidente Trump a ricordare le lezioni della storia e il
tardivo
intervento degli Usa nella Prima guerra mondiale, dovrebbe
ricordare un altro precedente storico, il trattato di pace di
Versailles del 1919.
L’allora presidente francese Clemenceau impose alla Germania
come paese sconfitto condizioni sui debiti di guerra
vessatorie e impossibili da
rispettare: esse causarono il revanscismo tedesco e l’avvento
del nazismo. Lo intuì già nel 1919 John Maynard Keynes nel suo
scritto “Le conseguenze economiche
della pace“: qui Keynes dimostrò l’impossibilità per la
Germania di pagare i
debiti di guerra.
Usiamo la figura retorica dell’analogia: l’austerità oggi è ostetrica di nuovi fascismi come lo fu il Trattato di Versailles del 1919. Questo è il titolo del prologo del mio libro “Sud Colonia Tedesca“. E l’assenza a sinistra di una proposta di riforma keynesiana dei Trattati Ue accelererà l’avanzata delle destre. Analogamente a quanto fece Keynes, oggi andrebbe analizzata la natura della politica monetaria prima di Jean Claude Trichet poi di Mario Draghi: essa ha generato un debito italiano di 435 miliardi con la Bce. Qualora eletti, cosa faranno Renzi, Berlusconi, Grasso, Salvini, Bonino, Meloni con questo debito?
1. La prima
proposizione che deve essere chiara per non perdere la bussola
nel corso di questo estenuante periodo di campagna elettorale,
è che ogni cosa
che verrà comunicata dal sistema dei big-media, - a partire
dal lunare
dibattito sulle coperture
delle misure fiscali proposte dai vari partiti, e definite
sprezzantemente elargitive (dire espansive sarebbe
concedergli una chiarezza che non
hanno), fino alla telenovela
sempre
più grottesca delle candidature-, serve a distrarre
dalle future certezze e prospettive vincolanti del
post-elezioni.
Sappiamo infatti che, a vincolo esterno immutato, l'indirizzo politico (cioè economico, fiscale, industriale, occupazionale, e ovviamente di politica monetaria) è predeterminato a prescindere da qualsiasi esito delle elezioni e da qualsiasi conseguente composizione del parlamento.
Anche se, in questa particolare tornata, si ha un non paradossale interesse, delle elites, come deve ammettere Wolf, alla conservazione della crescita astensionistica che caratterizza l'avvenuta instaurazione di un sistema ordoliberale e sovranazionale "al riparo dal processo elettorale" (pur con qualche rimedio possibile de iure condendo ma anche de iure condito).
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ll capitalismo è un sistema di
relazioni che vanno dall'interno verso
l'esterno,
dall'esterno verso l'interno, dall'alto verso il
basso e dal basso verso l'alto.
Tutto è relativo, tutto
è in catene.
Il capitalismo è una condizione sia
del mondo che dell'anima
(Franz Kafka, in Janouch
1971,151–2).
Gli anni Sessanta sono stati un laboratorio di rivolta sociale diffusa e innovazione teorica. È passato mezzo secolo da quel decennio che ha visto, tra l'altro, apparire alcuni testi chiave volti a decifrare la natura delle moderne relazioni sociali capitalistiche. Operai e capitale di Mario Tronti e, seppure assai diversi, la raccolta francese Lire le Capital e il testo di Jacques Camatte sul Sesto capitolo inedito del Capitale sono stati da allora fonti di ispirazione nello sforzo di comprendere il capitale e il modo migliore per distruggerlo. In termini di ampio impatto immediato, tuttavia, il posto d’onore spetta certamente a La Sociétè du Spectacle di Guy Debord, un libro tradotto in una dozzina di lingue nel periodo immediatamente successivo al Maggio francese. La società dello spettacolo è un testo che continua ad affascinare, non da ultimo nell'era di Internet. Né può essere una coincidenza se, caduti nell’ombra con la sconfitta dell'ondata di lotte internazionali post-1968, Debord e i suoi compagni situazionisti sono stati riscoperti proprio negli anni Novanta, un decennio segnato sia dal crollo del socialismo reale sia dall'ascesa del World Wide Web.
L'ultimo rapporto di Oxfam, «Ricompensare il lavoro, non la ricchezza», è un atto d’accusa verso i governi e le élite economico-finanziarie del mondo, responsabili della gigantesca opera di redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto.
«We are the 99%», era lo slogan di Occupy Wall Street, ricordate? Oggi la nota ong inglese sugella questo dato con numeri inconfutabili, aggiungendo, peraltro, che la tendenza alla polarizzazione del reddito ha subito nell’ultimo anno una pesante accelerazione.
I numeri in sintesi.
Tra il 2016 e il 2017, l’82% dell’incremento della ricchezza mondiale ha reso ancora più ricco l’1% più ricco della popolazione. Del restante 18%, non ha visto nemmeno una briciola il 50% più povero. Scandaloso: attualmente 42 super-ricchi possiedono più di 4 miliardi di persone messe insieme.
Le donne più penalizzate degli uomini: «Negli ultimi gradini della piramide sociale troviamo spesso le lavoratrici: in tutto il mondo guadagnano meno degli uomini», si legge nel rapporto.
E l’Italia? Con il primato del più alto numero di poveri in Europa, il nostro Paese non fa, ovviamente, eccezione.
La Grecia di Tsipras affronta l'ultima parte della svendita totale del suo patrimonio e della sua civiltà. Sul mercato finisce la stessa democrazia
La Grecia di Alexis Tsipras è entrata nella «fase laboratorio»: vedere cosa succede ad un paese lasciato nelle mani dei creditori. Disse Milton Friedman: «Lo shock serve a far diventare politicamente inevitabile quello che socialmente è inaccettabile»: lo shock della Grecia risale al’estate del 2015 quando con la giacca gettata sul tavolo al grido di «prendetevi anche questa» il primo ministro Alexis Tsipras firmò la resa senza condizioni della sua nazione sconfitta. Umiliato di fronte al proprio paese e al mondo da Angela Merkel, volutamente. Sul tavolo, quella notte, non finì solo la Grecia, ma la stessa democrazia che l’occidente ha vissuto in quelli che il grande storico Hobsbawm ha definito «i gloriosi trent'anni». Il voto greco, consapevole, che rifiutava il commissariamento della Trojka ad ogni costo, ad ogni costo veniva tradito in cambio di un piano lacrime e sangue, ancor più punitivo perché doveva sanzionare l’ardire di un popolo intero che osava ribellarsi alla volontà suprema dell’Europa finanziaria. Che solo in quel caso e per pochi giorni gettò la maschera della finta solidarietà, dei traditi valori di Ventotene, e si manifestò nella pura essenza del terrorismo finanziario.
Proviamo a tradurre con parole semplici e chiare che cosa sta succedendo in questo inizio del 2018 nel movimento generale del modo di produzione capitalistico che si riflette nell’incontro di Davos, dove si tiene in questi giorni il Forum mondiale dell’economia. Premettiamo che i migliori economisti si dimostrano sempre dei dilettanti allo sbaraglio, poiché la natura dell’economia capitalistica ha leggi proprie che sfuggono a ogni razionalità, in modo particolare a questo stadio di sviluppo dei rapporti di produzione e di scambio. In questo modo l’uomo è dominato da tali leggi e non viceversa.
Quando diciamo movimento generale di un modo di produzione intendiamo semplicemente prendere le distanze dalla stragrande maggioranza di accademici e studiosi che si prostrano ai piedi del dio capitale nel tentativo di risolvere una crisi generale di sistema. Trump, Merkel, Macron, Gentiloni et similia non sono altro che dei poveri cristi che pestano l’acqua nel mortaio. Peggio ancora tutti quei personaggi (“personaggetti” direbbe il filosofo De Luca da Salerno) reduci del ‘900 che fu, alla ricerca della via perduta, cioè di quando il movimento dell’accumulazione capitalistica cresceva e si espandeva e con esso il proletariato lottava rivendicando quota parte di quell’accumulazione che avveniva sulla sua pelle.
Il presidente Trump è sbarcato dall’elicottero al Forum economico mondiale di Davos. Qui, preceduto dai suonatori di ottoni dell’orchestra di Friburgo, ha annunciato che «il mondo sta assistendo alla rinascita di una forte e prosperosa America», grazie alle riduzioni di tasse e riforme attuate dalla sua amministrazione in base al principio «America First», ossia quello di mettere l’America al primo posto.
Ciò «non significa America da sola: quando gli Stati uniti crescono, cresce tutto il mondo». Ma, ha aggiunto, «non possiamo avere un commercio libero e aperto se alcuni paesi sfruttano il sistema a spese di altri».
Chiaro il riferimento soprattutto alla Cina e alla Russia, accusate di «distorcere i mercati globali» attraverso «sussidi industriali e una pervasiva pianificazione economica a guida statale».
Emerge così il nodo della questione. Gli Stati uniti sono ancora la prima potenza economica del mondo, soprattutto grazie ai capitali con cui dominano il mercato finanziario globale, alle multinazionali con cui sfruttano risorse di ogni continente, ai brevetti tecnologici in loro possesso, al ruolo pervasivo dei loro gruppi multimediali che influenzano le opinioni e i gusti della gente su scala planetaria. La loro supremazia economica (compresa quella del dollaro) viene però messa sempre più in pericolo dall’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.
In occasione della giornata della memoria abbiamo assistito all’abituale esegesi celebrative dell’Olocausto a cui – da sempre – si accompagna la perniciosa narrazione che tende ad assolutizzare ed astrarre questa tragedia dal contesto storico in cui si è consumata.
Con la assurda precisione a cui avremmo più tardi dovuto abituarci, i tedeschi fecero l’appello. Alla fine “Wieviel Stuck ?”domandò il maresciallo. E il caporale salutò di scatto e rispose che i pezzi erano 650, e che tutto era in ordine. Allora ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi. E la cosa fu così nuova ed insensata che non provammo dolore, né nel corpo, né nell’anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera? (Primo Levi)
Come si può percuotere un uomo senza collera? E’ molto semplice. Quegli uomini non stavano percuotendo un uomo. Potremmo dire che stavano percuotendo degli oggetti. E perciò potremmo insistere sulla reificazione delle persone, su di una sorta di materialismo che non riconosce le persone, sulla manipolabilità degli altri soggetti. Una strada già battuta. Io vorrei seguire invece un’altra strada, anch’essa già battuta, ma non sino in fondo, dalla Hannah Arendt che seguiva il processo Eichmann.

La definizione di “europei” è geo-storicamente,
notoriamente, precaria. Ma, per quanto precaria come ogni
definizioni di “popolo-nazione”, concetto che ha spesso bordi
sfuggenti[1], ha senso in
posizioni comparative. Si constata l’esistenza dell’europeo
quando lo si mette accanto al non europeo. Al suo interno, il
sistema europeo,
risulta dotato di molti sottosistemi ognuno con all’interno un
sottosistema che a sua volta ha un sottosistema e così via. Al
secondo
livello, dopo gli “europei” e prima di arrivare alle
“nazioni”, si trovano le grandi famiglie storico-culturali che
sono per
lo meno quattro: gli europei del nord che includono
anglosassoni, germani e scandinavi; gli europei del sud-ovest
che includono francesi, iberici,
italici e greci (i franchi erano popoli appartenenti sia a
questo sistema ed in parte al precedente) detti
“greco-latino-mediterranei”;
gli europei del nord-est (polacchi, cechi, slovacchi,
ungheresi e baltici) e quelli del sud-est i balcanici, bulgari
e rumeni. Due di queste aree sono
storicamente attratte dal fuori del sistema europeo: gli
anglosassoni che hanno avuto storica propensione atlantica e
comunque in generale
“oceanica”; l’area del sud-est bulgara-rumena-moldava che è
contigua all’Ucraina e quindi all’area ponto-russa e
quella balcanica dove si mischiano popolazioni ortodosse
(Montenegro, Macedonia, Serbia) cattoliche (Slovenia e
Croazia) e musulmane (Bosnia
Erzegovina, Albania), dove la dominazione ottomana ha lasciato
impronte durevoli data una presenza in loco per più di cinque
secoli.
Leggere a proposito della
catastrofe climatica
a venire, nell'indifferente provoca uno sbadiglio dettato
dalla noia: si è già sentito tutto ed è già successo tutto, ma
di regola non si vede proprio niente. A partire dalle notizie,
di certo già sentite molte volte, a proposito del fatto che
abbiamo di nuovo a
che fare con il mese più torrido che ci sia mai stato da
quando esiste un registro metereologico, la vita ignorante
continua nella sua
falsità, come sempre apparentemente "normale". Ma questa
normalità immaginaria si basa appunto solo sull'ignoranza del
soggetto
narcisista della postmodernità, che arriva senza dubbio ad
immaginare diverse fini del mondo, ma, dall'altro lato, non
riesce a pensare niente
di più plausibile del fatto che il mondo deve essere
finanziabile, costi quel che costi! Il denaro, come si sa, non
manca.
Naturalmente, anche aprire il giornale e leggere del capitalismo e delle catastrofi che ha scatenato, nemmeno questa è una novità. Vale tuttavia la pena affrontare la questione in maniera più dettagliata. Il testo di Daniel Cuhna cerca di sviluppare, nei termini della critica del valore, il problema del dominio capitalista della natura, insieme alle questioni a tale dominio associate - in maniera diversa rispetto a come hanno fatto Adorno e Horkheimer ne La Dialettica dell'Illuminismo, in cui anche essi tendono alla mitologia, riferendosi sempre alla valorizzazione del valore realmente capitalista.
La
concorrenza perfetta invocata da economisti e governi non
intacca i meccanismi che accrescono le disuguaglianze
economiche. Al riguardo ecco la
proposta di Piketty. La proposta di una imposta annuale sul
capitale fortemente progressiva e mondialmente estesa
appartiene al filone del socialismo
utopista, intrinsecamente irrealizzabile
In questa corposa opera scientifica di quasi mille pagine (Il Capitale nel XXI secolo) Piketty - sulla base dei dati disponibili - presenta in maniera dettagliata, talvolta persino ridondante, lo stato attuale delle nostre conoscenze storiche sulla dinamica della distribuzione dei redditi e dei patrimoni a partire dal XVIII secolo, traendone, in ultimo, insegnamenti per il secolo in corso. La lezione principale - che conferma peraltro molti altri studi nonché la comune esperienza - è che il sistema capitalistico, se abbandonato a se stesso, continua a produrre progressiva divergenza economica all’interno della società, mettendo persino in discussione quello stato sociale faticosamente conquistato dai cittadini europei.
Il testo, non certo sintetico, costituisce uno studio serio che ha il merito di chiarire, su basi oggettive, la distribuzione della ricchezza mondiale, la sua dinamica storica e la direzione futura prevedibile, nonché quello di formulare una possibile soluzione chiara dei gravi problemi, della quale espone anche gli attuali ostacoli da rimuovere per la sua effettiva realizzazione.
Quando io uso una parola» spiega Humpty Dumpty ad Alice, nel noto racconto di Lewis Carroll, «quella significa ciò che io voglio che significhi – né più né meno». «La questione», ribatte Alice, «è se si può costringere una parola a significare cose tanto diverse fra loro». «La questione» (questa la contro replica di Humpty Dumpty) «è chi comanda – ecco tutto».
Il dubbio di Alice ritorna alla mente, leggendo le pagine dell’ultimo libro di Giorgio Galli e Mario Caligiuri Come si comanda il mondo. Teorie, volti, intrecci (pagine 232 , euro 16) edito da Rubbettino. A “comandare” il mondo è una struttura impersonale, sistemica oppure – questa è la chiave scelta dagli Autori – dietro la maschera, c’è il volto (e la mano) molto concreto di una superclasse? Il potere è un intreccio di relazioni liquide che si sottrae non solo alla politica ma ad ogni forma della decisione oppure, semplicemente, come aveva intuito fra gli altri Ulrich Beck, la politica non è più il luogo sovrano della decisione? (E allora quel luogo – scatta così la strategia di Alice – va reinventato).
Galli, decano dei politologi italiani, e Caligiuri, tra i massimi studiosi di intelligence, propendono per questa seconda ipotesi. Spiegando: «la politica è stata neutralizzata dall’economia attraverso un potere che non è anonimo o legato agli sviluppi dell’innovazione tecnologia o dell’intelligenza artificiale, bensì è rappresentato dai manager che controllano determinate multinazionali economiche e finanziarie».
In un mondo in cui spesso si ritiene che le città debbano essere smart, le attività imprenditoriali visionarie, i lavoratori sempre più flessibili e i governi snelli e minimalisti, riconoscere nella digital economy la cifra peculiare del capitalismo contemporaneo è una cogente necessità politica per la sinistra del ventunesimo secolo. Comprendere le conseguenze dell’utilizzo di internet per la produzione e il consumo di massa rappresenta infatti la chiave principale per agire sul presente e anticipare il prossimo futuro. Con queste decise parole Nick Srnicek, giornalista e docente di economia digitale al King’s College di Londra, motiva le ragioni che lo hanno portato a scrivere Platform Capitalism (Polity Press, 2017).
Il libro si propone principalmente come una guida a termini e concetti arrivati di recente alle orecchie del grande pubblico – ad esempio quelli di big data, di gig economy e di online platform– in chiave storica, economica e politica. Il saggio verte attorno a due idee principali. La prima è che, a seguito del lungo declino della profittabilità della manifattura, il capitalismo stia trovando nelle informazioni che ciascuno di noi lascia sulla rete la principale fonte di crescita economica; la seconda, invece, è che questo tipo di produzione sia il risultato della progressiva sparizione del rapporto di lavoro classico-fordista in favore di forme sempre più diversificate e precarie.
Stefano Righetti, La ragione ecologica. Saggi intorno all’Etica dello spazio, Prefazione di Piero Bevilacqua, Postfazione di Manlio Iofrida, Mucchi, Modena, 2017, pp. 189, € 16,00
Comincio con un aneddoto personale. Alcuni anni fa, nella strada in cui abito venne abbattuto un abete. Era proprio un bell’albero, alto e, soprattutto in estate, guardarlo dalla finestra mi comunicava un senso di frescura e di tranquillità. Ricordo che provai un lancinante dolore nel vedere le motoseghe che tagliavano quell’abete che, in un modo o in un altro, mi era stato amico. L’albero non si trovava però sul suolo pubblico ma all’interno di un giardino condominiale. A detta degli abitanti del palazzo, infatti, quell’abete, nelle giornate di vento, si muoveva troppo e rischiava di cadere (ma forse non sapevano quanto sia bello ascoltare il fruscio del vento fra i rami). E così è stato abbattuto. Questo è un esempio di scissione della cultura dell’uomo e della sua coscienza dall’ambiente naturale: l’essere umano, senza porsi troppe domande, decide di abbattere un albero nello stesso identico modo in cui elimina dalla sua proprietà un vecchio oggetto ingombrante. L’abbattimento di questo abete è solo una infinitesimale goccia nel mare magnum degli scempi ambientali che quotidianamente vengono perpetrati sulla faccia della Terra.
Tre settimane fa Macron è piombato a Roma a rassicurare Gentiloni. Non è vero che voi Italiani non contate un cece: Germania e Francia comandano, ma con l’Italia c’è un rapporto diverso, un feeling particolare. Se lo dice lui. Tanta tenerezza da parte di Macron perché Gentiloni spedisce un battaglione di paracadutisti in Niger, un Paese disastrato dal quale la Francia ricava oltre il 30% del suo fabbisogno di uranio, oltre che diamanti e altro. Un Paese abituato a fare una politica estera e coloniale al di sopra dei propri mezzi militari e finanziari, la Francia, va a parassitare le risorse militari e finanziarie di un altro Paese, l’Italia, che in politica estera non conosce la parolina “no” e che in politica interna è invece abituato alle prevaricazioni sul parlamento in nome della presunta “popolarità” del Presidente del Consiglio di turno. Se poi risultasse vera la notizia di stampa secondo cui il governo nigerino non sarebbe stato neppure consultato da Macron prima di coinvolgere l’Italia, allora Gentiloni si sarebbe andato a cacciare in una rete di imbarazzi diplomatici.
Stavolta però persino la stampa ufficiale, anzi ufficialissima (come “Il Sole - 24 ore”), riconosce che è ben arduo scovare un qualche interesse italiano in questa nuova avventura militare in Africa.
Siamo giunti al nono giorno dell’operazione militare turca contro il Cantone di Afrin, guidato dal Pyd curdo, ala siriana del Pkk. Non è possibile, al momento, recapitare fonti valide rispetto alla consistenza della complicata avanzata di terra delle forze armate di Ankara e, soprattutto, delle varie fazioni fondamentaliste sunnite satelliti, i cui combattenti stanno fungendo da “carne da cannone” nell’ambito di durissimi combattimenti. Tuttavia pian piano vengono fuori alcuni tasselli del mosaico del quadro politico all’interno del quale si svolge l’ennesimo atto di aggressione da parte del regime erdoganiano.
Innanzitutto, nei giorni immediatamente precedente alla decisione di pigiare sull’acceleratore, si sono diffuse dichiarazioni relative al fatto che gli USA stessero predisponendo, all’interno dei ranghi delle alleate Syrian Democratic Forces (SDF), composte per la maggior parte dalle milizie curde Ypg/Ypj, una vera e propria milizia di frontiera; inoltre, alcune testate arabe riportavano che gli USA fossero anche pronti ad inviare personale diplomatico nelle aree a nord-est della Siria in mano alle stesse SDF. Questi due passi avrebbero configurato l’avvio di un percorso per il riconoscimento formale di un vero e proprio stato curdo, che Ankara non avrebbe mai permesso.
[Nelle
prossime settimane verranno pubblicati una serie di
interventi riguardanti Potere al Popolo.
All’interno della redazione è in atto un
dibattito intenso sul nuovo soggetto politico nato a
novembre dalla proposta
dell’ex-Opg di Napoli. Fra noi alcuni ci stanno lavorando
attivamente, altri no; in ogni caso il dibattito ha prodotto
una serie di domande,
problemi, criticità rispetto a un progetto difficile da
comprendere nella sua complessità, in particolare in
rapporto al momento storico
– il presente – nel quale tutto ciò sta accadendo. A partire
dall’impegno dei singoli e dai dubbi di tutti, abbiamo
chiesto
un contributo ad alcune figure del panorama culturale
italiano, accademici e non accademici, scienziati e
umanisti, scrittori, sociologi, giornalisti,
giuristi… figure attive politicamente o meno; entusiasti o
critici nei confronti di Potere a Popolo; con i quali, in
ogni caso, pensiamo di
condividere una serie di valori che banalmente possiamo
chiamare di sinistra.
(Molti non ci hanno risposto).
Abbiamo
chiesto un intervento che
argomentasse entusiasmi, dubbi, problematicità e nodi
fondamentali, e – favorevole o contrario al progetto –
riuscisse a produrre
un discorso critico, in un momento come la campagna
elettorale ostile ad accogliere le contraddizioni.]
Anti-Blanchard – Un approccio
comparato allo studio della macroeconomia –
è un saggio pubblicato nel 2012 e riedito nel 2017 da Franco
Angeli.
L’autore Emiliano Brancaccio parte dalla premessa che il
pensiero dominante nella letteratura economica, il cosiddetto
mainstream, vede tra i
suoi rappresentanti di spicco Olivier Blanchard, capo
economista al Fondo Monetario Internazionale fino al 2015,
professore presso il MIT di Boston e
autore di uno dei più importanti testi di macroeconomia. In
Italia il testo di Blanchard viene adottato in molte facoltà
di economia,
grazie anche all’adattamento della versione italiana di
Alessia Amighini e Francesco Giavazzi per Il Mulino editore.
Con questo saggio Brancaccio vorrebbe evidenziare che, oltre alla scuola dominante macroeconomica che trae le origini dalla cosiddetta “sintesi neoclassica”, esistono degli approcci alternativi. Entrambi gli approcci utilizzano la teoria keynesiana. Tuttavia, mentre la teoria dominante relega i principi dell’economista inglese in un orizzonte temporale di breve periodo e solo per poche e precise circostanze, il modello alternativo tiene conto dei contributi di Keynes anche in un orizzonte temporale di lungo periodo.
Con questi
brevi
appunti intendiamo, se possibile, aprire una possibilità di
riflessione sul difficile tema del fondamento della verità,
della certezza e
del senso, a partire dalla seguente proposizione di Ludwig
Wittgenstein contenuta in Della Certezza: «Se il
vero è ciò
che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso» [1]. In questo
passo, Wittgenstein intende affermare che, in qualche
modo e in un qualche senso, il fondamento è infondato.
Ma in quale modo e in
quale senso si potrebbe dire ciò? E soprattutto, in quale modo
e in quale senso che non sia assiomaticamente
aristotelico, ovvero
anapoditticamente dato per certo generando così un circolo
vizioso evidente fra la certezza e la sua stessa posizione? Il
Wittgenstein uscito
fuori dalla chiusura logicistica asfittica del Tractatus
Logico – Philosophicus, il Wittgenstein apertosi alla
visione estetica delle
cose contenuta nelle Ricerche Filosofiche,
risponderebbe forse, in modo un po’ enigmatico, che il
fondamento è “una forma
di vita”: la nostra. E, soprattutto, superato qualsiasi
residuo di logicismo, che non c’è più bisogno di rinnegarlo,
come
dire: keep calm and hold your Grund.
Quest’intuizione, che per i filosofi non costruttivisti risulta essere tutt’altro che autoevidente, porta a una serie di considerazioni dalla cogenza filosofica inusitata. Infatti, dovremmo partire dalla considerazione del fatto che il vero, se è se stesso, deve essere fondato, altrimenti non sarebbe vero, ma falso.
È di pochi giorni fa (17 gennaio) la notizia che l’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes a sud di Nantes non verrà costruito[1]. Il governo rinuncia, dopo 50 anni di polemiche. È la fine di una dura lotta per la riappropriazione di quel territorio che era stato destinato alla costruzione di un hub aeroportuale di grandi dimensioni, inizialmente progettato per l’arrivo e il decollo dei Concorde, ponte privilegiato per il continente nord-americano. Sebbene il tempo del Concorde sia definitivamente tramontato più di 15 anni fa (2003), l’idea di proseguire comunque nel progetto del grande scalo è continuata, nonostante la forte opposizione degli abitanti e soprattutto dei contadini locali.
Come raccontato da Anna Maria Merlo sulle pagine de Il Manifesto e da Ivan du Roy e Nolwenn Weiler in un bell’articolo su Dinamo Press, la storia emblematica dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes inizia nel 1968, quando la zona viene individuata per la costruzione di questa nuova infrastruttura aeroportuale, che avrebbe dovuto sostituire Nantes-Atlantique, nato negli anni ‘30.
Viene creata la Zad, che ufficialmente significa zone d’aménagement différée (zona di sfruttamento razionale differito) e che il movimento di protesta e di occupazione dei luoghi interpreta come zone à défendre (zona da difendere).
"Non ho nulla da nascondere", "Non ho fatto nulla di male o di illegale, quindi non importa se sono spiato". Questo è l'argomento sul quale si scontrano sistematicamente i difensori delle nostre libertà digitali. Ma avere "nulla da nascondere", e accettare di fornire tutti i propri dati a Facebook, Google e una moltitudine di servizi "gratuiti" pur sapendo, più precisamente dopo le rivelazioni di Edward Snowden, che questi dati alimentano direttamente la sorveglianza di massa: questo è davvero un ragionamento sostenibile nel lungo periodo? È questa la società che vogliamo? Uscito nelle sale per alcuni mesi, prima del lancio sotto una licenza Creative Commons programmata per il 30 settembre, il documentario Nothing to Hide" (Nulla da Nascondere) di Marc Meillassoux è una risposta entusiasmante a questa cruciale domanda per il nostro futuro
Giugno 2013. Dalla camera d'albergo di Hong Kong, dove è recluso, Edward Snowden osserva lo scandalo di intercettazioni della NSA scoppiare in diretta televisiva, dopo otto giorni in cui ha rivelato tutto al giornalisti davanti alla telecamera di Laura Poitras ( Citizenfour ). Da allora sono passati quattro anni. E se Prism - dal nome del programma NSA progettato per scansionare le comunicazioni digitali scambiate su AOL, Apple, Facebook, Google, YouTube, Microsoft, Skype, Paltalk e Yahoo! - e diversi affari successivi hanno largamente contribuito a sensibilizzare i cittadini sulla conoscenza dei dati e sulla sorveglianza di massa, molti di loro hanno infine perso interesse per la questione, con la scusa che non hanno "nulla nascondere".
Recensione a: Paolo Ceri, Francesca Veltri, Il Movimento nella rete. Storia e struttura del Movimento a 5 stelle, Rosenberg & Sellier, Torino 2017, pp. 368, 19 euro, (scheda libro)
La vasta letteratura sul Movimento 5 Stelle (M5S) si arricchisce di un nuovo capitolo: Il Movimento nella Rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle scritto dai sociologi Paolo Ceri (direttore della rivista Quaderni di Sociologia) e Francesca Veltri (ricercatrice all’Università della Calabria). Si tratta di un tentativo, particolarmente ben riuscito, di ricostruire la storia del M5S, la sua evoluzione – non si utilizzerà in questa sede il termine «istituzionalizzazione» – e la configurazione degli istituti di democrazia diretta all’interno del movimento. Il libro è diviso in due parti ben caratterizzate, che appaiono a prima vista come due saggi tra loro separati più che come sezioni di uno stesso libro: il primo è focalizzato sulla ricostruzione “storica”, il secondo su quella sociologica, con alcune fugaci incursioni nella scienza politica.
Il dettaglio delle vicende è rimarchevole: si parte dalle prime fasi di costruzione del movimento, dai dubbi e dalle incertezze dei militanti della prima ora, per passare poi – punto questo innovativo e di interesse – alle diverse concezioni di movimento, che hanno accompagnato la tumultuosa strutturazione del M5S.
Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018
Con molto piacere scrivo del nuovo lavoro di Domenico Moro: "La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra.". Questo nuovo libro è in continuità con il punto di vista da lui esplicitato in questi ultimi anni sulla natura dell’euro e la necessità di un suo superamento. La chiave è però originale rispetto al consueto approccio economico con cui è affrontato il tema dalle diverse impostazioni che si confrontano ormai da tempo. Prova ad affrontare la questione partendo dalle radici strutturali del nazionalismo contestualizzandolo nelle diverse fasi storiche in cui questo ha assunto diverse connotazioni. Costruisce una risposta razionale a quelle obiezioni che provengono anche da sinistra all’uscita dall’euro. Obiezioni che indicano questa scelta come regressiva e portatrice del “ritorno alla nazione” contrapposta ad un campo sovranazionale che, in qualche modo, anche la moneta unica garantirebbe seppure con politiche da contrastare. Ed è proprio la connotazione negativa che la nazione assume nella prima metà del Novecento, ci dice Moro, che determina una tale rigida lettura. Ma in questo ragionamento si sottovaluta che in quella fase storica la base nazionale di accumulazione rendeva “utile” per le borghesie dominanti il nazionalismo che deflagherà nella Prima e nella Seconda guerra mondiale.
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Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018
L’ultimo libro di Domenico Moro, “La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra” (Imprimatur Ed. 2018), in libreria tra qualche giorno, è una naturale prosecuzione della sua penultima opera “Globalizzazione e decadenza industriale” (Imprimatur 2015).
L’autore dichiara subito la sua tesi di fondo già nel titolo del libro : l’uscita dall’euro non è appannaggio delle destre ma puo’ essere, deve essere, anche una opzione di forze di sinistra fino ad ora riluttanti ad assumere una posizione netta e convinta sulla necessità, per il nostro paese, di riconquistare il diritto di decidere sul proprio destino.
Il sociologo francese Alain Touraine nel suo libro “Come uscire dal Liberalismo” aveva avvertito che “in Francia la parola liberalismo era diventata impronunciabile, allora se ne era trovata un’altra: Europa”. Questa affermazione dello studioso francese non dispiacerà al nostro autore che passa in rassegna cio’ che è stata ed è l’Europa di oggi dove l’integrazione europea è lo strumento con cui l’elite economica transnazionale ha preso il sopravvento sui più importanti poteri degli Stati sovrani.

Affrontare Lenin in quanto
filosofo,
significa discutere lo statuto del materialismo e la sfida
politica in ciò insita. A tal proposito, Materialismo ed
empiriocriticismo
è un’opera fondamentale del suo pensiero filosofico. Scritto
nel 1908 e pubblicato nel 1909, questo lavoro tratta in
particolare la
teoria della conoscenza dal punto di vista del materialismo.
Avremo modo di vedere, tra l’altro, come proprio qui si trovi
il nocciolo del
materialismo di Lenin. Innanzitutto, è doveroso sottolineare
che, agli occhi del rivoluzionario russo, la sfida consistente
nella difesa del
materialismo non ha origine in una semplice questione
filosofica o epistemologica: si tratta anche di una questione
politica. In effetti, secondo
Lenin, conoscere il mondo circostante «obiettivamente» è
condizione necessaria per trasformarlo efficacemente, in modo
tale che le
cause reali dei fenomeni e delle forze operanti nella natura,
e nella società, non risultino dissimulate dietro la facciata,
indefinitamente
rimaneggiata, di convenzioni sociali e ideologie dominanti.
Prima di entrare nel vivo della materia, vorrei fornire una rassegna delle numerose idee preconcette riguardanti il contesto in cui è stato redatto Materialismo ed empiriocriticismo. Infatti, benché false, queste ultime continuano, nonostante tutto, a trovare spazio nei vari commenti sull’opera in questione.
Ho molti amici che si stanno
impegnando in
questa tornata elettorale con “Liberi e Uguali”, come
ne ho che si impegnano con “Potere al Popolo”,
qualcuno persino con il “Partito Democratico”. Su
questo ultimo il mio giudizio, maturato anche dolorosamente
negli anni,
è piuttosto drastico, si tratta ad essere generosi di un caso
di sonnambulismo,
sulle altre due forze
posso essere più articolato. Del programma
dei primi, che è
appena uscito, vorrei tentare una prima lettura, anche se
parziale, di quello
del secondo movimento diremo
poi.
Prima di cominciare una precisazione: non si sceglie, penso mai, di votare per una o l’altra forza per il programma, ciò non significa però che questo non conti. Il programma conta, come gli uomini e le loro storie, e come la meccanica delle organizzazioni che vi sono dietro, sia in Partiti strutturati e con una storia sia, e ancora, più in “liste” più o meno artificialmente indotte dalla costrizione di una pessima legge elettorale. Nessuna delle tre cose, naturalmente, determina da sola, ma tutte e tre si influenzano a vicenda e rendono più facile qualche esito o ne ostacolano altri.
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L’epoca
della naturalizzazione del presente vive del consumo del
tempo. Si vive la dimensione non del tempo vissuto ma del
tempo consumato. La prima
dimensione umanizza, fonda relazioni e comunità, poiché nel
tempo vissuto vive la storia di un io per la comunità. Il
capitalismo
assoluto erodendo la dialettica, la pluralità argomentativa,
ha sostituito il tempo vissuto con il tempo da consumare. Tale
dimensione entra
nella relazioni sociali le quali divengono sempre più
asociali, l’altro è un mezzo da utilizzare in vista delle
merci, del
guadagno immediato: tempo che consuma le persone, le comunità,
i paesaggi, i suoli. La cifra della contemporaneità è il
consumo;
il problema è che si continua a citare il tempo vissuto,
nella assoluta inconsapevolezza che la vita vissuta arretra
per lasciare spazio
al consumo. La storia come luogo della liberazione e
dell’emancipazione è dimensione di un tempo che non si osa
pensare. Il tempo
consumato, trasforma le persone in consumatori, in maschere
tecnocratiche, taglia la relazione tra il sentire ed il
pensare, Nietzsche direbbe tra il
dionisiaco e l’apollineo, tra la vitalità, il desiderio
autentico ed il pensiero logico. L’uomo scisso del capitalismo
assoluto
consuma senza sentire l’offesa quotidiana, bruca la religione
del cattivo infinito senza ascoltare la dignità ferita. In
media la
scissione del soggetto alienato, estraniato da se stesso
favorisce il capitalismo assoluto, poiché inibisce sul nascere
la partecipazione
politica, la rabbia da trasformare in risorsa motivante del
pensiero.
Perché le proposte di Emma Bonino finirebbero per distruggere i diritti sociali e l’economia italiana
Nell’intervista rilasciata al Sole24ore il 1 febbraio Emma Bonino spiega le misure contenute nel suo programma elettorale, che dovrebbero condurre alla riduzione del debito pubblico in percentuale sul Pil. La Bonino propone un inasprimento dell’austerity del Fiscal compact e una ulteriore riduzione fiscale per le imprese, compensata con l’aumento dell’Iva. Tali misure iperliberiste, però, sono state già sperimentate e hanno sortito esiti devastanti. Si tratta di misure, infatti, che non solo spostano ricchezza dai poveri ai ricchi, ma hanno un effetto depressivo sulla produzione (e sull’occupazione), portando non alla diminuzione bensì all’aumento del debito pubblico.
La prima proposta, per ridurre addirittura di 22 punti percentuali il debito, è di bloccare “la spesa pubblica primaria nominale” al livello del 2017 per 5 anni. Che cos’è la spesa pubblica primaria? È la spesa pubblica al netto della spesa per interessi sul debito pubblico, cioè si tratta della spesa per far funzionare la macchina statale e distribuire servizi sociali e contributi alle famiglie. Che si tratti di spesa nominale vuol dire che non si considera l’aumento dovuto all’inflazione.
Vorrei partire da due questioni molto differenti, che però possono permettere di aggiungere un pezzetto al vasto dibattito che si è sviluppato attorno alla vicenda del brevetto dei braccialetti Amazon (per una ricostruzione, si rimanda qui). Sono due storie distinte, ma che presentano un tratto comune, e restituiscono una parte spesso assente in questo dibattito.
La prima è una storia che attraversa tutta la sponda sud del Mediterraneo, all’inizio degli anni dieci. Le proteste che agitarono (e che ancora agitano) Tunisia, Libia, Marocco, Giordania Egitto e Siria, e che sfociarono nelle cosiddette “Primavere arabe” avevano alcune parole chiave: hurreyah, karemah, watania.
Se libertà (hurreyah) e nazione (watania) sono concetti tradizionali che hanno accompagnato i moti di rivolta contro l’oppressione politica, il concetto che più mi aveva colpito era karemah, che significa dignità. Allo Stato, agli stati, si chiedeva a gran voce di riportare la dignità del lavoro, dei diritti economico-sociali al centro del dibattito, perché le condizioni di sfruttamento, l’incapacità di poter scegliere, crescere, indipendentemente dal proprio livello di istruzione, era inaccettabile a tutte le latitudini.
In Germania la Volkswagen adoperava cavie umane per testare la tossicità dei gas di scarico. Un esperimento analogo si sta svolgendo in Italia. L’attuale campagna elettorale sta testando la sopravvivenza degli italiani a un clima completamente saturo di stronzate.
I PDestri che millantavano di voler abolire il Senato, adesso ci si candidano in massa. Renzi ha messo in lista solo renziani e berlusconiani. Ha rifondato il PCI, Partito Cazzari Italiani.
Il conte Gentiloni s’è finto scandalizzato dall’intenzione di Amazon di trasformare i suoi operai in droni borg, benché la cosa fosse già prevista dal Jobs Act.
Nel PD se ne intendono di borg. Hanno la faccia come il cubo.
La Boschi, che aveva adoperato il suo presunto radicamento nel territorio toscano come scusa per le sue ingerenze bancarie, adesso si candida a Bolzano. Dice che conosce già qualche parola di tedesco. “Volkswagen”.
Il rianimato Polipo delle Libertà ha subappaltato le liste ad ogni organizzazione criminale disponibile, escluse le baby gang perché non hanno ancora l’età per votare.
Anche il normalizzato e moderato Movimento 5 Stelle ha aperto ormai anche esplicitamente a trasformisti e riciclati, leghisti, renziani, e notabili di ogni categoria.
Poco più di un secolo e mezzo fa Marx definì l’ Economist come “l’organo europeo dell’aristocrazia finanziaria” e questa funzione non solo non è venuta meno, ma anzi è divenuta ancora più centrale ed evidente nella contemporaneità oligarchica: dunque non è soltanto una curiosità se il settimanale ha dedicato il suo ultimo numero alla “prossima guerra e alla crescente minaccia di conflitto tra le grandi potenze”. La tesi che viene illustrata è tutta all’interno di quell’ anglostupidigia formata da un insieme agitato, ma non mescolato di ipocrisia, ottusità ideologica e imperialismo inossidabile: “Negli ultimi 25 anni, la guerra è costata troppe vite. Eppure, mentre infuriavano le lotte civili e religiose in Siria, Africa centrale, Afghanistan e Iraq, uno scontro devastante tra le grandi potenze mondiali è rimasto pressoché inimmaginabile. Ma questo è venuto meno … si sono prodotti cambiamenti forti e di lungo periodo nella geopolitica, mentre la proliferazione di nuove tecnologie sta erodendo lo straordinario dominio militare goduto dall’America e dai suoi alleati. Un conflitto di grandezza e intensità mai visto dopo la seconda guerra mondiale è ancora una volta plausibile.”
Davanti a una platea di ambasciatori e giornalisti internazionali completata la svolta a U: Ue "casa" dei 5 stelle, Hamas "terrorista". E sull'Eni...
Quando Luigi Di Maio prende l'ultimo lustro di politica estera del Movimento 5 stelle, lo rivolta come un calzino, e ne dà una versione aggiornata in vista delle elezioni del prossimo 4 marzo, ad ascoltarlo la platea è di quelle importanti. In prima fila Elisabetta Belloni, il potentissimo Segretario generale della Farnesina. A pochi metri da lei, Michele Valensise, tra i suoi più influenti predecessori, un rapporto privilegiato con la Germania, per anni portavoce della politica estera dei governi di Silvio Berlusconi.
Quella al Link Campus, università internazionale nella periferia ovest di Roma, in un palazzo dove fino al 1655, quando intorno c'era solo campagna, il Papa veniva a trascorrere le vacanze estive, non è una mattinata come tutte le altre. Perché il candidato premier a 5 stelle è chiamato dal padrone di casa, il professor Piero Schiavazzi, a fornire per la prima volta un quadro organico di quella che sarà la politica estera del Movimento una volta al governo.
Di Maio prende la parola. Ha un testo su cui appoggiarsi, ma parla a braccio. Venti minuti in cui stravolge l'agenda-meetup.
Con L’altro Marx,
Della Porta Editori 2014, Ettore Cinnella, ripercorre
l’evoluzione del pensiero di Marx nell’ultimo decennio della
sua vita. Un Marx che,
per l’autore, non ha piú le certezze dello scienziato sociale,
né quelle dell’impegno politico. È piuttosto uno
studioso acutissimo capace di ripensarsi fino a, scrive
nell’introduzione,
mettere in forse alcune leggi generali della formazione del mondo capitalistico da lui individuate e descritte nelle opere della maturità […] Bisognerebbe quindi […] gettare alle ortiche le sue disastrose ricette politiche e cercare di trarre invece frutto dal suo acume intellettuale. Egli fu pensatore poliedrico e contraddittorio, secondo me ancora da scoprire e conoscere. Questo libro […] vuole mostrare anzitutto che la visione della storia e della rivoluzione di Marx è assai meno monolitica di quanto si creda1
aggiungendo poi, in accordo col marxista britannico Teodor Shanin,2 che alle tradizionali fonti del pensiero marxiano – la filosofia tedesca, il socialismo francese e l’economia politica britannica – occorrerebbe aggiungere il populismo rivoluzionario russo. Cinnella ricostruisce l’evoluzione del pensiero marxiano, in assenza, causa la morte, di un’opera che ne sistematizzasse le conclusioni, tramite l’attenta e documentatissima analisi del carteggio che Marx ebbe coi giovani socialisti rivoluzionari, che testimonia anche la stima e l’amicizia che lo legò ad alcuni di loro. Essi ebbero il merito non solo di fargli conoscere importanti aspetti della realtà russa, oltre quanto era direttamente reperibile in Europa occidentale, ma anche di stimolarlo a studiare meglio quel paese, con le possibili implicazioni sul piano teorico.
La prima
domanda
è molto semplice: conosci Potere al popolo?
Non ho seguito direttamente l’iniziativa di Potere al Popolo. Ero all’estero nel momento in cui è stata cancellata l’assemblea del Brancaccio ed è stata indetta l’assemblea fondativa, dunque non ho potuto seguire quest’esperienza se non attraverso terzi (attraverso amici che magari sono coinvolti direttamente, o attraverso i media). L’idea che mi sono fatta, in questo senso, è un’idea indiretta, attraverso la quale penso di aver colto solo alcuni aspetti del percorso da cui il progetto nasce e delle finalità che si pone.
La seconda domanda richiede una risposta forse un po’ impressionistica, legata al nome della lista e ai due termini che in esso compaiono. Potere e Popolo infatti sono due termini ormai desueti nel discorso di sinistra. Come valuti la scelta?
Forse questa è la domanda più delicata: il concetto di popolo non solo è desueto ma è anche divisivo, in quest’epoca, forse anzitutto in Italia. Il concetto di popolo nasce dall’identificazione hobbesiana con lo Stato-nazione, e allude a una specie di volontà unica che esiste come riflesso dello stato, “se stato, allora popolo”, diceva Virno commentando Hobbes. Questo “uno”, di fatto, non è mai dato ma esiste nell’immaginario collettivo e oggi esiste ancorpiù come espressione della nostalgia.
Occorre riprendere il controllo democratico sulla tecnica oltre che sul capitalismo, imponendo a tecnica e capitalismo, ormai una cosa sola, di tornare ad essere mezzi e non fini
Cui prodest, cioè a
chi giova –
la gig economy? Certamente – e soprattutto – al capitalismo.
Al suo incessante divenire, alla sua strutturale e
schumpeteriana
distruzione (molta) creatrice (poca), alla
sua oggi apparentemente incontenibile disruption –
che è quel
processo che accade «quando una tecnologia di rottura si
impone sul mercato sconvolgendolo totalmente, causando un
cortocircuito delle regole
esistenti, anzi ristrutturando brutalmente alcune modalità di
azione o alcune tipologie di relazione sociale»[1].
La domanda deriva da un passo della Medea di Seneca che nel dettaglio recita: cui prodest scelus, is fecit – ovvero «il delitto l’ha commesso colui al quale esso giova». Il delitto – in questo caso commesso sul corpo sociale e individuale, oltre che sul diritto (posto che sharing e gig economy hanno la vocazione ad aggirare le norme esistenti, chiamando però tutto questo libera concorrenza[2]) – l’ha commesso il capitalismo, perché ciò era necessario e funzionale al suo funzionamento e accrescimento, producendo uomini ancor più funzionali a tale funzionamento 2.0, ovvero alla flessibilizzazione dell’apparato produttivo e, con questo, dell’intera società. Gig economy, voucher, alternanza scuola-lavoro e poi ancora sharing economy, uberizzazione del lavoro, lavoro on demand, Fabbrica 4.0, algoritmi e machine learning (nomi diversi per un processo unico) – sono il trionfo dell’uomo flessibile, dell’homo oeconomicus neoliberale, nel declino dell’homo civilis.
In questo periodo si porta molto la Bonino.
Nel senso che leggo sui giornali diverse dichiarazioni di voto per lei e il suo partito, specialmente da parte di giornalisti e intellettuali di sinistra.
Frequentando per lavoro e per amicizie in prevalenza lo stesso giro, ho di persona e sui social lo stesso segnale: amici e colleghi di sinistra che votano Bonino o pensano di farlo.
Nel paese reale - cioè fuori dal giro di cui sopra - non sembra che ci sia altrettanto entusiasmo: secondo l'ultimo Euromedia i Radicali italiani sono all'1,5 per cento, per Emg all'1,6, Demopolis li include semplicemente in "altri partiti sotto il 3 per cento".
Niente di strano: è la consueta forbice tra giornalisti-intellettuali-scrittori-professionistidelprimomunicipio da una parte, e il resto del mondo dall'altra. Questione di complessità notevole che non affronto qui.
Quello che mi interessa è il meccanismo per cui questi amici o colleghi o altro scelgono Bonino, o ne sono tentati. La dinamica psicologica, che mi permetto di ipotizzare. Senza altre basi che le chiacchierate con loro e la lettura delle loro argomentazioni.
E a mio avviso la questione parte, banalmente, dal Pd.
Libero Federici, Il misterioso eliotropismo. Filosofia, politica e diritto in Walter Benjamin, Prefazione di Laura Bazzicalupo, Ombre corte, 2017, pp. 141, € 13.00
Cinquant’anni sono ormai passati da quando il movimento studentesco tedesco decise di intitolare un’aula della Freie Universität berlinese a Walter Benjamin, l’intellettuale ebreo-tedesco amico di Adorno e di Brecht, morto suicida nel 1940 sul confine franco-spagnolo, mentre tentava di scappare dalla persecuzione nazista. Cinquant’anni, e tanta acqua è passata sotto i ponti – acqua politica, filosofica, filologica. Cosicchè ormai è difficile, e per certi versi impossibile, restituire un quadro complessivo di questa complicata e affascinante figura di pensatore, sempre sospeso tra formazione letteraria e filosofica, scoperta dell’ebraismo, impegno politico, erudizione, raffinatezza concettuale e stilistica, esoterismo intellettuale. Estremamente complicato, ma non impossibile, appare ora giocare la sua figura, come fecero cinquant’anni fa gli studenti berlinesi, contro l’ortodossia filosofica di matrice francofortese. Mi riferisco ad Adorno che, insieme all’altro amico fraterno di Benjamin, il massimo esperto di mistica ebraica Gershom Scholem, aveva curato nel 1966 un’edizione in due volumi delle lettere che il filosofo berlinese aveva inviato a una ampia rete di amici, conoscenti, colleghi e autorità accademiche.
Care compagne e cari compagni, dopo anni di lotte, di discussioni e di critica dell’esistente, dobbiamo rilevare con Gentiloni che siamo a un passo dal socialismo reale in quanto la tecnologia è riuscita a intaccare e forse a superare lo strumento principe dello sfruttamento capitalista, il lavoro. Il nostro caro ex-presidente del Consiglio, infatti, ci avverte attraverso un sentito proclama della messa in discussione della natura stessa del lavoro.
Che cosa, quindi, mette in discussione questo pilastro fondamentale della società? Un braccialetto. Questo precipitato tecnologico rivoluzionario al servizio del capitale, introdotto da Amazon per controllare i suoi dipendenti, è diventato oggetto di discussione e di riflessione sulle malepratiche del lavoro. Insomma, finché i facchini si spaccano la schiena nei magazzini va bene e se osano bloccare i cancelli gli danno dei mafiosi. Ma un braccialetto no. Vorremmo qui dire due cose non solo al signor Gentiloni, ma anche a chi, sgomento, si indigna di fronte ai prodigi della tecnica cattiva e vorrebbe correre ai ripari. Certo, concordiamo sul fatto che il lavoro sia la sfida ossessiva di chi è al governo, un po’ meno sul fatto che questo governo abbia introdotto delle ottime leggi sul mercato del lavoro.
Il libro, ripercorrendo i molteplici percorsi che hanno storicamente collegato Oriente e Occidente, offre un contributo importante per ripensare in una prospettiva non eurocentrica la complessità delle radici antiche del nostro mondo globalizzato.
Come ci ricorda un recente racconto di PierLuigi Luisi, La regina di Samarcanda (Aracne 2017), evocare la via della seta – designazione metonimica che indica l’insieme delle strade che dalla remota antichità hanno collegato l’Asia all’Europa e al Mediterraneo – equivale a ripercorrere un fertile spazio dell’immaginario la cui inesauribile suggestione si irradia e si rifrange in innumerevoli affabulazioni, dal Viaggio in Occidente (Xiyou ji) di Wu Cheng’en a Le città invisibili di Italo Calvino. Ma “quel mondo che ci riempie di meraviglia e di stupore”, come lo definiva Goethe affacciandovisi attraverso Il Milione di Marco Polo, se per un verso ha le fantasmagoriche sembianze che vi hanno conferito tante seducenti narrazioni, dall’altro si configura da sempre come un concretissimo ambito di traffici e di scambi in cui è in primo piano la corposa materialità delle merci: dall’ambra alla seta, dal cobalto alle spezie, dalle ceramiche alla carta.
Il dominio crescente del capitale sul lavoro è figlio anche della storica subalternità della socialdemocrazia al pensiero economico mainstream
Scrive Marta Fana,
ricercatrice in economia presso l’Institut d’Études
Politiques di Sciences
Po a Parigi, che il risultato a cui si è ormai
pervenuti nel mondo del lavoro, nel rapporto tra lavoratore
e impresa, “è
l’avanzare di forme di sfruttamento sempre più rapaci che
pervadono ogni settore economico, con labili differenze tra
lavoro manuale e
cognitivo” [1]. Come si può darle torto? La svalorizzazione
del lavoro a cui assistiamo da qualche decennio è progredita
di pari
passo con la valorizzazione del capitale. I rapporti di
produzione favorevoli al capitale si manifestano ad esempio
nell’intensificazione dei
ritmi di lavoro, nel ricorso a forme estese di precarietà,
alla possibilità di spostare la produzione dove la mano
d’opera costa
meno. Un ricatto costante sui lavoratori che consente la
riduzione dei costi di produzione e scambio delle merci, che
si traduce in una distribuzione
della ricchezza prodotta sempre più favorevole alla crescita
del profitto e sempre più svantaggiosa per il lavoro. In
sintesi, il
dominio crescente del capitale sul lavoro
si manifesta in maniera immediata nella distribuzione della
ricchezza, aggravando le disuguaglianze.

Un’analisi
del
declino economico italiano che, oltre ad essere
scientificamente robusta, comporta preziose indicazioni di policy
per una Sinistra rinnovata,
prende le mosse dall’assunzione secondo cui, nel lungo
periodo, corre una relazione costante tra il saggio di
crescita dell’output e il
saggio di crescita della produttività del lavoro[1].
Questa relazione è
biunivoca, nel senso che ogni suo termine, nel mentre
influenza l’altro, ne è influenzato. Nel caso concreto
dell’Italia, sembra
rilevante interpretare la relazione dal lato della domanda
aggregata: è la prolungata caduta, da almeno un ventennio,
della domanda interna a
spiegare, in misura sostanziale, il rallentamento della
produttività. Ciò è accaduto per molteplici intrecciate
ragioni, che si
sono amplificate a vicenda: l’innalzamento della
disuguaglianza nella distribuzione dei redditi ha ridotto la
quota dei salari sul Pil, e quindi
il potere d’acquisto di ampie fasce della popolazione;
l’orientamento degli imprenditori a dirigere gli elevati
profitti degli scorsi
decenni verso rendite, anziché verso impieghi produttivi, ha
indebolito gli investimenti privati; l’elevata propensione al
risparmio,
specialmente da parte delle classi medie, ha, per tanti anni,
trovato uno sbocco sicuro e redditizio nell’acquisto dei
titoli di Stato, per
rifinanziare il colossale debito pubblico; la scelta politica
di tassare poco le banche e le imprese ha comportato una
pronunciata pressione fiscale
sui redditi da lavoro.
Per Lenny Benbara, la France
Insoumise ha
sottovalutato il talento di Emmanuel Macron, al punto di
essersi fatta mettere sotto scacco da qualche mese a questa
parte. Se il movimento vuole
ottenere nuove vittorie, la difficoltà sarà quella di
incarnare la collera e la speranza, il cambiamento e
l’ordine.
* * * *
D: Dopo le elezioni legislative, la France Insoumise sembrava destinata a diventare la principale forza di opposizione a Emmanuel Macron. Invece, François Ruffin ha dichiarato di recente che il movimento vive “un periodo di riflusso” di fronte al successo di Macron. Come spiegate questa impasse?
R: Innanzi tutto, bisogna riconoscere che Emmanuel Macron è molto dotato. Molti lo avevano sottovalutato, io per primo. In un contesto di caduta molto forte della politicizzazione dopo le elezioni presidenziali e di divisione dei sindacati, è avanzato velocemente e con forza verso la riforma della legge sul lavoro, che rappresentava il punto più accidentato per l’inizio del suo quinquennio presidenziale. Ciò nonostante, per non limitarsi a una postura da tecnocrate che vuole “flessibilizzare il mercato del lavoro”, ha tentato di accompagnare al suo gesto una posizione forte sulla politica internazionale e sulla restaurazione della verticalità del potere, in netta discontinuità col suo predecessore.
Dietro alle promesse dei programmi elettorali c'è la subalternità ai dettami dell'Europa e della finanza internazionale. Potere al Popolo costituisce l'unica vera opposizione e il punto di partenza per ricostruire uno schieramento antagonista di classe
Con
la presentazione delle liste e dei programmi, entra nel
pieno la corrida elettorale. Il capo da abbattere è ancora
una volta il
proletariato.
Se vogliamo capire qualcosa dai programmi presentati è necessario preliminarmente una loro disinfestazione dalla montagna di promesse che i vari schieramenti rivolgono ai rispettivi potenziali bacini elettorali: redditi minimi garantiti variamente denominati, posti di lavoro, bonus orientati in direzioni disparate, tagli delle tasse, tagli degli sprechi e dei costi della politica e chi più ne ha più ne metta. Pur essendo cosa non priva di interesse, non c'è qui lo spazio per una critica di queste promesse e dobbiamo andare al sodo.
Il sodo è il livello di compatibilità con i dettami dell'Europa e della grande finanza che, dal trattato di Maastricht in poi, senza differenze rilevanti fra la loro gestione da parte dei governi di centrodestra e di centrosinistra, hanno frantumato i diritti dei lavoratori e precarizzato la loto vita, accresciuto la disoccupazione, tagliato i servizi essenziali e le prestazioni del welfare, tolto allo stato ogni possibilità di intervento programmato nell'economia, in barba alla costituzione formale, considerata un orpello inutile in questa fase di globalizzazione dell'economia.
“Perché dovrei andare a votare?” si chiedeva Sartre molti anni fa. Perché sono stato convinto che è il solo atto politico della mia vita. In realtà, proseguiva, mettere il suffragio nell’urna è il contrario di un atto: significa confermare la mia passività, abdicare al mio potere, cioè alla possibilità che è in ciascuno di noi di costituire con tutti gli altri un gruppo sovrano che non ha bisogno di rappresentanti. Confermo cioè l’impotenza, la separazione, la sospettosità, il pessimismo che connota il pensiero di un individuo immerso nella serialità, nell’atomismo. Nella solitudine dell’urna non agisco in qualità di membro di uno o più gruppi, appartenenza che connota la mia concreta esistenza sociale, ma come cittadino, qualità che mi rende astrattamente uguale a tutti gli altri. Nella cabina elettorale mi limito a decidere di obbedire al potere di un partito che esiste indipendentemente dal mio voto. Siamo nel 1973 e Sartre può ancora contrapporre al potere legale che scaturisce dalle urne quello legittimo, ancora embrionale, sparso, oscuro anche a se stesso, rappresentato dal vasto e diffuso, sebbene ancora disorganizzato, movimento antigerarchico e libertario che è nato dal maggio ’681.
L'argomentazione di Moishe Postone, a favore di una rilettura della teoria di Marx, ha però un'altra più potente freccia al suo arco e che finora abbiamo trascurato.
L'argomento di Postone è sorprendentemente semplice: C'è un limite materiale reale alla quantità di valore che può funzionare come capitale, cioè, come valore auto-espandibile. Questo limite è uguale alla somma del valore di scambio pagato alla classe operaia sotto forma di salari. Il capitale è produzione per il profitto, e per questa produzione esso richiede l'impiego di lavoro salariato. Da ciò ne consegue che il limite imposto alla produzione per il profitto è dato dal limite imposto all'utilizzo di forza lavoro impiegata allo scopo dell'auto-espansione del valore. Perciò, la forza lavoro, la merce capitalista per antonomasia, non media solamente la produzione di ricchezza materiale e la sua propria produzione, ma essa media anche la produzione di capitale, vale a dire, di valore auto-espandibile.
Nel Capitale (V3, 15), Marx spiega che l'estrazione di così tanto plusvalore da parte del lavoratore non è l'atto finale della produzione capitalistica. Il plusvalore estratto deve ora essere riconvertito in denaro:
La crisi dell’eurozona (EZ) ha disvelato in modo eclatante i limiti e le imperfezioni dell’attuale assetto delle relazioni istituzionali, economiche e monetarie in Europa. La crisi dell’EZ ha radici lontane. Amartya Sen, con mirabile sintesi, inquadrava la crisi del progetto europeo come una sorta di “punizione” derivante da errori di varia natura: (i) di policy (l’anteposizione dell’unione monetaria a quella politica); (ii) di teoria economica (l’aver trascurato la lezione keynesiana abbracciando in modo via via più radicale un approccio ‘supply side’ alla politica economica); (iii) di approccio decisionale (il ‘feticismo’ delle regole contabili anteposto alla razionalità economica); (iv) di travisamento intellettuale (le misure di austerità propagandate come riforme). L’accumularsi di questi errori ha portato l’Europa all’attuale paradosso: da un lato, un progetto originariamente finalizzato a promuovere convergenza e armonizzazione tra i paesi membri; dall’altro, una realtà caratterizzata da grandi divisioni tra aree forti e deboli, tra aree che gestiscono le catene del valore creando opportunità di sviluppo per nuove periferie e aree deindustrializzate, tra aree che crescono e aree che perdono forza lavoro qualificata e che dipendono da flussi finanziari esterni.
Nell’Europa a trazione franco-tedesca si progettano modifiche di sistema che renderanno ancora più blindata e insindacabile la governance eurocomunitaria. Gli elementi del progetto sono rintracciabili nel non-paper di Wolfgang Schaeuble e nel documento dei 14 economisti (franco-tedeschi). L’obiettivo è quello di approntare un dispositivo di controllo sovranazionale ed extra-democratico più automatico e coercitivo di quanto non sia già l’attuale impianto.
La gestione sovranazionale delle politiche economiche nazionali – impermeabile all’impopolarità poiché accuratamente al riparo dal processo elettorale (ovvero dal processo democratico), disporrà dunque di ulteriori e più sofisticati strumenti di ricatto nei confronti degli eventuali riottosi.
Stante il precedente greco, c’è motivo di credere che non esiterà a servirsene appena se ne presenti l’occasione; del resto la redenzione dei popoli passa attraverso ciò che qualcuno, con felice sintesi, riepilogò nella locuzione “durezza del vivere“.
Nonostante sia questo un tema cruciale per il nostro futuro, la sua assenza nel dibattito elettorale, o l’indaguatezza con cui viene affrontato le rare volte che ciò accade (vedi qui un avvilito articolo di Carlo Clericetti), dànno la misura della grave insipienza di cui soffre la grandissima parte del nostro ceto politico, patologicamente chiuso nella propria autoreferenza, e della piaggeria del giornalismo nostrano che si guarda bene dal volerlo stanare.
Continuiamo con le schede sui programmi delle diverse forze politiche che troveremo il 4 marzo sulla scheda elettorale. Ricordiamo che mettiamo a fuoco, dei diversi programmi, quanto dicono dell'Unione europea e dell'euro. Oggi ci occupiamo dei 5 Stelle. Scopriremo grandi sorprese...
Non abbiamo messo a caso, dovendo quest'oggi parlare del Movimento 5 Stelle versione 2.0 (ovvero la versione addomesticata con Luigi Di Maio capo politico) l'immagine del padre del neoliberismo Von Hayek. E sì, perché se quello originario era un mix di liberismo e antiliberismo, il programma elettorale della versione 2.0 è neoliberismo conclamato. E' sotto gli occhi di tutti che il profilo protestatario e popolare del grillismo delle origini ha lasciato il posto ad un soggetto tutto proteso a leccare il culo alla borghesia e ad essere accettato dal sistema entro il suo perimetro.
Non ci occupiamo qui di tutti i voltafaccia compiuti dalla cupola a Cinque Stelle, che sono svariati. Né vogliamo parlare del regime interno e della rivelatasi fandonia della "democrazia diretta". Ci occupiamo di quel che dice oggi M5S sull'Unione europea e sull'euro.
Di segnali, del pornografico passaggio dal no-euro al sì-euro, ce ne sono stati diversi, il più clamoroso fu, nel gennaio dell'anno scorso, il tentativo, goffamente fallito di entrare nel gruppo ALDE del Parlamento (si fa per dire) europeo, tra tutti quello più liberista ed eurista.
Intervento alla giornata di confronto
Care
compagne cari compagni,
purtroppo un brutto tenace malanno mi impedisce di essere presente oggi. Non ho voluto mancare all’appuntamento e ho scritto queste note in sei punti, nei quali pongo i temi per me centrali del confronto politico sulla questione europea e del suo rapporto con quella della sovranità. Ho espresso tesi politiche in forma anche un po’ brutale per favorire una discussione senza fronzoli sui temi e sulle parole di fondo: rottura, sovranità, stato. È ovvio che i primi interlocutori per noi di Eurostop sono le compagne e i compagni di Potere al Popolo, esperienza nella quale ci siamo impegnati con grande entusiasmo. Ci aspettiamo qui un confronto vero. Ringrazio chi leggerà queste note.
1) La questione europea è il nodo centrale della politica oggi, il fatto che sia spesso posta in secondo piano nel dibattito elettorale tra le principali forze politiche, è solo il segno che le scelte vengono fatte senza che sia possibile discuterne davvero, come appunto la stessa Unione Europea impone da tempo.
Noi poniamo la questione europea innanzitutto come una questione di democrazia. La questione di fondo è la totale incompatibilità tra l’Unione e la nostra Costituzione. Questa è l’alternativa reale in campo oggi. Quelle che hanno affascinato alcuni settori della sinistra, gli Stati Uniti di Europa oggi ripresi da Renzi, o gli stati socialisti di Europa per i più radicali, sono bubbole senza aggancio con la realtà.
“E a un
tratto Ulrich riassunse in modo
assai comico tutta la questione,
ponendosi la
domanda se in fin dei
conti, dato che di intelligenza ce n’è
certamente abbastanza, il guaio non
stia semplicemente in
questo, che
l’intelligenza stessa non è intelligente”
Robert Musil
Impegnarsi in un discorso sul cretinismo, seppure riferito al solo ambiente culturale, è un’impresa improba e scivolosa. Non solo, infatti, è facile smarrirsi nella complessità di una tematica così vasta e articolata, ma si rischia soprattutto di arrivare alla conclusione poco o punto lusinghiera che in fondo il fenomeno ci riguarda molto da vicino.
Insomma, siamo quasi tutti un po’ cretini, chi più, chi meno. E se talvolta di questa condizione beota possiamo addirittura farne un vanto o una bandiera, come quando ci compiacciamo di non comprendere le astruserie di un mondo demenziale, più spesso ci capita di provare un senso di frustrazione e di mortificazione per quanto sfugge al nostro intelletto e alle nostre capacità.
Com’è noto, una certa idiozia confina paradossalmente con la genialità e/o la santità. Tale è la sospensione imprecisabile del candido (ma anche oscuro) Myškin di Dostoevskji. Più esplicito – anche se non privo di una sua sfuggente enigmaticità – è il messaggio evangelico sulla purezza dei poveri di spirito, che sta all’origine della figura stessa dell’Idiota dostoevskiano e della sua straziata cristologia.
Vorrei
avere la penna e l'estro di Flavio Baroncelli, per scrivere
di «politicamente corretto». Vorrei avere il suo acume, la
sua leggerezza e la
sua ironia per commentare gli argomenti esposti da Jonathan
Friedman in un saggio che esce in questi giorni (in lingua
originale in un'edizione con
copyright dell'autore, PC Worlds. Political Correctness
and Rising Elites at the End of Hegemony e
contemporaneamente tradotto in lingua
italiana da Francesca Nicola e Pietro Zanini e a cura dello
stesso, per l'editore Meltemi, col titolo Politicamente
corretto. Il conformismo
morale come regime). Flavio Baroncelli era un
filosofo intelligente e schietto oltre che un caro amico;
insegnava Filosofia morale a Genova e
aveva pubblicato nel 1996 presso Donzelli un volumetto sul
politicamente corretto (Il razzismo è una gaffe. Eccessi
e virtù del
«politically correct»). Baroncelli sarebbe stato
perfetto per fustigare col suo stile ironico e la sua
scrittura effervescente le
grevi e tormentate pagine che l'antropologo nordamericano
Jonathan Friedman, che ha vissuto e insegnato in Svezia più
di quarant'anni, dedica
al politicamente corretto; Flavio però ci ha lasciati undici
anni fa e così dovete accontentarvi di me. Aggiungo che il
libro di Fredman
è stato scritto negli anni novanta e aggiornato con un breve
poscritto: esce ora con la motivazione che i fenomeni
descritti hanno retto alla
prova dei tempi e anzi si sono estesi a molti altri paesi
oltre alla gelida e lontana Svezia.
La storia insegna che agli appartenenti alle organizzazioni fasciste non deve essere lasciato spazio
Rivendichiamo con forza l’azione di martedì notte a Roma con cui abbiamo voluto rappresentare il collegamento politico intrinseco tra l’episodio di terrorismo fascista di Macerata, l’aumento della violenza fascista a cui assistiamo da tempo con aggressioni a migranti e militanti antifascisti da una parte, e il clima creato ad arte nella società contro i migranti. Clima promosso da quelle forze politiche che hanno interesse a scaricare il peso della crisi sociale di cui loro sono responsabili contro gli ultimi, per fomentare la più classica delle guerre tra poveri. L’equazione migranti=insicurezza, diffusa a piene mani dal sistema politico e mediatico, trasforma un femminicidio come purtroppo tanti in questo paese in uno strumento da usare in una sporca partita politica, giocata tra l’altro anche sul corpo delle donne.
Se nella società aumentano le contraddizioni e il malcontento provocati da una crisi sistemica non certo superabile con una insignificante ripresa economica puramente statistica (tanto più che questa si fonda su definitiva precarizzazione del lavoro e ingenti investimenti in automazione, che non possono che provocare in questo contesto più disoccupazione), i partiti che si sono incaricati di gestire le politiche di massacro sociale imposte dall’Unione Europea, primo fra tutti ovviamente il PD, trovano nello sdoganamento di “improponibili” xenofobi e neo-fascisti vari un’arma fondamentale per potersi presentare come baluardo della democrazia e della stabilità.
Macerata è una delle città più significative – storicamente e artisticamente . del Centroitalia e delle Marche. Agli smemorati dell’eterno presente senza capo né coda, fuscelli al vento strappati dalle loro radicime che non diventeranno mai né roseti, né querce, ricordo che a Macerata, strappata allo Stato della Chiesa, Giuseppe Garibaldi formò la Legione Maceratese. Legione che a Roma, in difesa della Repubblica Romana contro papalini e francesi, il 30 aprile 1849, conseguì la grande vittoria di Porta San Pancrazio. Luogo suggestivo sul Gianicolo, cui vale la pena fare una passeggiata e dedicarci un pensiero, per sapere da dove veniamo, chi siamo e dove vorremmo andare, a dispetto del ferro da stiro che qualche manovratore va passando sul "chi siamo" nostro e dell’umanità.
Quel pasticciaccio brutto di Via Velini
Di Macerata tutti parlano e straparlano oggi come si trattasse del Bronx, o dell’Alabama del Ku Klux Klan. Ci si sono buttati a pesce tutti i fakenewisti di sistema e di regime e l’arte degenerata della distrazione di massa, del depistaggio, è stata elevata alla settima potenza. Tra ragazza bianca maciullata, umani neri falciati da fucilatore bianco, Hitler ante portas, la sagra degli stereotipi funzionali ai propri fini ha investito, a partire dalla bella, solida, tranquilla città, un’Italia che deve restare in stato perpetuo di arruffamento a base di paura e sospetto...
A volte anche i giornalisti capiscono qualcosa. E vanno a indagare su quel qualcosa. Ad esempio, sul modello economico vincente degli ultimi anni: quello basato sul precariato, sul cottimo, sul dumping salariale, sul lavoro a chiamata, somministrato, intermittente, insomma ad arbitrio.
I giornalisti in questione, nel caso, sono Maurizio Di Fazio e Riccardo Staglianò, autori di due diversi libri usciti in questi giorni.
Di Fazio ha scritto “Italian job, viaggio nel cuore nero del mercato del lavoro italiano” (Sperling & Kupfer); Staglianò è autore di “Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri” (Einaudi). Due viaggi paralleli nelle dinamiche produttive le cui conseguenze poi finiscono per riguardare tutta la società, compresa quella parte non (ancora?) caduta nei gironi infernali di cui nei due libri si parla.
“Italian job” raccoglie una serie di inchieste realizzate sul campo da Di Fazio, con nomi e cognomi delle aziende in cui è stato o di cui ha raccolto le testimonianze: Lidl, Amazon, Deliveroo, Foodora, RyanAir, Almaviva, MondoConvenienza. Ma il viaggio attraversa anche il mondo della sanità, dell’editoria, dello spettacolo.
Negli ultimi anni il binomio degrado/decoro è entrato prepotentemente nel lessico pubblico conquistando una centralità nel dibattito politico e nelle agende di governo delle città e del Paese. Si tratta di concetti labili e apparentemente “neutri”, che possono cioè essere stiracchiati in ogni direzione, ma che sempre più spesso, però, finiscono col sovrapporsi e il coniugarsi con il tema della sicurezza. Il lavoro di Carmen Pisanello, che giovedì presenteremo come Carovana delle Periferie al Sally Brown, ha, da questo punto di vista, il grande merito di spiegare le ragioni profonde del successo di quella che si va configurando come una vera e propria ideologia, una falsa coscienza che si sta sempre più dimostrando capace di indirizzare e influenzare le politiche urbane ridisegnando le città in funzione della rendita e della valorizzazione del territorio. La Pisanello, però, non si limita a smascherarne gli aspetti fenomenici o a denunciarne la finta neutralità, ma coglie il nesso profondo tra questa ideologia e la crisi, e più in generale il neoliberismo, cosa che rende il libro politicamente utile per chi, come noi, prova a tradurre in conflitto l’idea di una città pubblica e solidale.
Per un periodo storico relativamente breve, corrispondente ai cosiddetti “gloriosi trenta”, nei paesi imperialisti la cattura e l’orientamento del consenso delle classi subalterne da parte delle classi dominanti si è prodotto principalmente “in positivo”.
Pubblichiamo un intervento-rielaborazione di Enrico Bartolomei della sua introduzione per il volume “Esclusi. La globalizzazione neoliberista del colonialismo di insediamento” (Derive Approdi, 2017).
Esclusi (DeriveApprodi 2017) raccoglie una serie di saggi sul colonialismo di insediamento, una forma particolare di colonialismo in cui la popolazione indigena viene rimpiazzata da una nuova società di coloni che si insediano in pianta stabile nel territorio colonizzato. Il colonialismo di insediamento non è la stessa cosa del colonialismo classico: nel primo caso la potenza coloniale mira allo sfruttamento dei mercati, delle risorse e della manodopera indigena, trasferendo nella colonia solamente il personale amministrativo, militare e gli uomini d’affari; nel secondo, i coloni che si trasferiscono nel territorio conquistato mirano a sostituirsi alla popolazione nativa. Un chiaro esempio di colonialismo classico è la dominazione britannica in India, mentre esempi di colonialismo di insediamento sono gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Sudafrica, Israele. Benché siano fenomeni distinti, a volte i due tipi di colonialismo possono coesistere: si pensi al caso dell’Algeria sotto il dominio francese, o alla Palestina sotto il Mandato britannico.

Una possibile articolazione del progetto e dei compiti dei comunisti
Sulla scena politico-elettorale italiana, in
vista delle prossime elezioni, nel “campo di sinistra”, si è
imposta una nuova
proposta elettorale, politica e organizzativa: “Potere al Popolo”.
L’iniziativa, lanciata da Je so’ pazzo di Napoli, ha suscitato subito un notevole entusiasmo ed ha coinvolto una quantità di soggetti che, pur essendo da tempo attivi nei conflitti sociali territoriali e protagonisti di lotte significative, finora non hanno potuto o saputo creare un coordinamento a livello nazionale. Lo stesso interesse ha toccato numerosi compagni che spesso militano in organizzazioni comuniste, o che quanto meno proprio al comunismo fanno riferimento. Stante le numerose assemblee e iniziative che stanno partendo in numerose città, con il risultato di aver creato minimi, seppur significativi, contatti, sinergie e livelli organizzativi, vi sono motivi per sperare che questo fermento non vada perduto dopo le elezioni, anche in caso negativo, e che il coordinamento rimanga attivo ed operante in riferimento agli obiettivi politici esplicitati nel manifesto elettorale. Non è impossibile che Potere al Popolo possa costituire un embrione di movimento politico organizzato con obiettivi di difesa del proletariato e delle masse subalterne e dunque necessariamente anticapitalistici.
C’è tra gli esseri
umani, almeno quelli fuoriusciti dall’egemonia del pensiero
magico o di quello religioso, la credenza che una buona
diagnosi sia indispensabile
per una cura efficace. Fuor di metafora, se abbiamo capito
cosa è successo a Macerata e dintorni, potremmo cercare di
situare l’evento
specifico in uno scenario che gli fornisca maggiore
intelligibilità. Non so poi, in realtà, se un tale tentativo
possa favorire in alcun
modo migliori interventi terapeutici.
Quello che abbiamo visto a Macerata e dintorni è il palesarsi di un terrorismo politico di matrice razzista e neofascista, giustificato dalle forze politiche della destra che concorrono oggi alle elezioni legislative. Non solo, ma questa giustificazione ha una solida base nella società “civile”. (Non ho voglia di fare giochi di parole, mi limito alle virgolette.) Quanto non può essere sottovalutato nell’attentato di Macerata è che, intorno ad esso, si saldano per la prima volta con forza elementi diversi: l’ideologia razzista (che caratterizza la propaganda leghista dalle origini), l’ideologia nazifascista (che apparteneva ancora un decennio fa a gruppuscoli marginali), il populismo autoritario di Berlusconi (vecchio di più di vent’anni) e per finire un passaggio all’atto terrorista (tentata strage su cittadini inermi), rivendicato teatralmente in quanto tale. A ciò si aggiunga il fattore decisivo: l’imminente consultazione elettorale per il governo del paese (Nella storia italiana, il fascismo mussoliniano ha avuto strada aperta nelle istituzioni dello stato anche grazie a un cinico, idiota, argomento di realpolitik: meglio averli dentro il governo, che fuori nella strade a provocare tafferugli.)
Riportiamo l'intervento di Alessandro Visalli in risposta all'articolo [riportato in calce] di Roberto Buffagni e la successiva discussione svoltasi su L'Italia e il Mondo
* * * *
di Alessandro Visalli
Il pezzo di Roberto Buffagni è molto bello e terribile. Non siamo davvero più abituati a traguardare nei fatti il radicale altro che vi può essere incluso. L’obiettivo mi sembra un troppo facile multiculturalismo, l’idea di una sussunzione senza resti nella tecnica, ovvero nello spirito della tecnica moderna, nella creazione di valore proprio del capitalismo (nella riduzione di tutto a misura, a metrica), dell’uomo intero. Ma l’uomo ha ottenuto questo risultato, questa potente capacità di farsi macchina di valore, schermandosi e disincantando il mondo stesso. Ci sono voluti secoli e non è neppure mai davvero riuscito del tutto. Questo processo, che si raggruma in modo particolarmente chiaro nello scientismo (ed in quella sua sublimazione che è l’economia contemporanea), postula la separazione tra mente e corpo con il confinamento di tutto il senso, di tutto il significato ed il pensiero nell’intramentale (il termine è di Charles Taylor, L’Età secolare, pp.174). Quando si ottiene questo effetto, al quale nessuno di noi è esente e che ci ha determinati, la realtà diviene meccanismo. Ed il meccanismo prevede uno ‘sviluppo’. Ma non tutti gli uomini sono formati in questo modo, ed alcuni hanno radicamenti diversi. Hanno una vita religiosa intrecciata con la vita sociale, non separabile, e non separabile da un cosmo.
Volete capire cosa sia il neocapitalismo e smascherarne i trucchi retorici? Leggete i commenti di CNN sul crollo della borsa. La cui causa sarebbe la preoccupazione, cito, “che un ulteriore rafforzamento dell’economia possa far partire l’inflazione, assente negli ultimi nove anni; il che costringerebbe la Federal Reserve ad alzare i tassi di interesse”.
Che significa? Significa che dalla crisi del 2008, ininterrottamente, chi aveva capitali o sapeva come procurarseli (ai ricchi, le banche li offrivano a costo zero o quasi) ha fatto un sacco di soldi mentre il costo del lavoro e delle materie prime è restato uguale o è calato, determinando l’impoverimento dei lavoratori e della classe media, oltre che il saccheggio dell’ambiente e dei beni comuni. Si capisce che l’ineguaglianza economica sia aumentata oscenamente, con la complicità dei media e dei partiti liberisti di destra e di quelli di sinistra (in Italia, berlusconiani e piddini, che se non verranno spazzati via nelle elezioni di marzo continueranno la privatizzazione e americanizzazione del paese). Con candore CNN ci spiega che solo a queste condizioni l’economia può continuare a rafforzarsi; se invece portasse benefici diffusi e uno sviuppo equo e sostenibile, meglio allora che si raffreddi.
E’ importante affrontare la questione dell’Unione Europea pur nella differenza di posizioni, in quanto qualsiasi giudizio è costretto comunque a fare i conti con le dinamiche che concretamente si manifestano, e si manifesteranno, in modo sempre più evidente.
La nostra posizione netta sulla rottura dell’Unione Europea nasce da un giudizio sulla natura di questa costruzione economico-istituzionale che è legata alla competizione globale e più specificamente a quella interimperialistica. Che questa sia in pieno dispiegamento lo stanno a dimostrare i fatti prodotti dalla presidenza Trump dove protezionismo economico e rilancio degli armamenti, anche nucleari, sono i classici provvedimenti di una potenza in difficoltà che deve riaffermare il proprio primato internazionale a discapito dei propri competitori, e l’UE ne è uno dei principali.
L’aggressività degli USA, in crisi di egemonia, non può che indurre l’UE ad un ulteriore processo di riorganizzazione per tenere testa su tutti i campi alla competizione e questo processo si basa inevitabilmente sulle ristrutturazioni produttive, sulle delocalizzazioni, sull’aumento della precarietà e sulla riduzione del salario complessivo ad appannaggio della classe lavoratrice. L’ipocrita allarme lanciato dai centri studi e ripreso dai media sulle crescenti disuguaglianze ed impoverimento, che ormai riguarda anche i cosiddetti ceti medi, stanno li a dimostrarlo.
Li hanno battezzati Zohr, Leviathan e Aphrodite. Ma dietro quei nomi, vagamente mitologici, si nascondono interessi terribilmente materiali. Interessi capaci di scatenare conflitti commerciali, scontri internazionali e dispute territoriali.
È la guerra del gas. Si combatte in tutto il sud est del Mediterraneo. E l’Italia c’è dentro fino al collo. Per capirlo bastano le dichiarazioni rilasciate dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e dal suo omologo turco Recep Tayyp Erdogan negli ultimi otto giorni. Il 31 gennaio durante l’inaugurazione di Zohr, il più importante giacimento di gas del Mediterraneo scoperto dall’Eni 190 chilometri a nord di Port Said, il presidente egiziano si lascia andare a significative dichiarazioni sul caso Giulio Regeni. «Non smetteremo di cercare i criminali che hanno fatto questo», annuncia il presidente davanti all’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini e all’amministratore delegato dell’Eni Claudio De Scalzi. E subito dopo aggiunge che chi ha ucciso il ricercatore italiano lo ha fatto «per rovinare i rapporti con l’Italia» e «per danneggiare l’Egitto». Le parole pronunciate nel secondo anniversario dell’assassinio ricalcano i sospetti nutriti dai nostri servizi di sicurezza sin dal 3 febbraio 2016 quando il corpo del ricercatore riemerge dal deserto in corrispondenza con la visita di una delegazione d’imprenditori guidati dall’allora ministro dell’economia Federica Guidi.
Nel post precedente scrivevo dell’attacco a Facebook lanciato recentemente da due dei suoi fondatori e da sua eminenza (grigia) SoroS. Una utente ha commentato l’articolo con queste parole:
È anche un forte distrattore ossia fornisce stimoli visivi tali per cui l attenzione non si ferma su nulla quindi non si ritiene nulla e apprendimento e memoria vengono sollecitati sterilmente. Le notifiche in quadratino rosso sono il distrattore peggiore perché cadono alla periferia del campo visivo e sono salienti a livello motivazionale perché costituiscono il feedback gratificante di cui parla lei nell’articolo. Questo inficia tutti i meccanismi cognitivi principali facendo funzionare il cervello come una macchina accelerata al massimo con il freno a mano innescato.
Ora, ripeto, se volete parlare male di Facebook, io voglio essere il primo a farlo. Sospetto che i social, insieme alla pubblicità, ai cartoni animati dai ritmi indiavolati e ai media per immagini in genere, associati all’età sempre più bassa in cui i bambini vi entrano in contatto, sia alla base di una involuzione nelle capacità di astrazione, soprattutto linguistica, e di attenzione che chi vive a stretto contatto con le giovani generazioni (come me) sperimenta anno dopo anno (su questo fenomeno ha scritto parole illuminanti Giovanni Sartori nel suo Homo videns).
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Niamey, febbraio 018. Carica nel baule dell’auto due sacchi neri di plastica. Dentro ci sono due borse che è tutto quanto Mamadou Sadio ha protetto dalla polvere del deserto e dalla dogana nigerina. Per arrivare a Niamey si è venduto l’Android comprato come ricordo nel suo secondo soggiorno in Algeria. La prima volta aveva sedici anni e, dopo aver fatto il manovale per qualche mese, si è messo alla scuola di un sarto. Faceva ricami e con questi sbarcava il lunario che nel frattempo si era trasformato in nostalgia di casa. Orfano di entrambi i genitori pensava di trovare in Guinea, suo paese di origine, quanto guadagnava in Algeria. Mamadou decide di tornarvi perché la sua patria è come una matrigna senza nome. Un amico gli paga il viaggio e i briganti ne profittano per arraffare i soldi imprestati per il transito. Ad Algeri comincia col fare il manovale come la prima volta e poi ritorna alla sartoria.
C’est una volta il West che si è traformato in Far West, un Western all’italiana. Ancora meno attrattivo dei Western- spaghetti. Rimangono come un pugno di dollari da non spartire con nessuno e il sistema organizzato di depredazione globale. Un crepuscolo nel quale il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Lo ricordava Antonio Gramsci.
Quale
deve
essere l’approccio dei comunisti nei confronti del momento
elettorale, quali gli obiettivi da perseguire? Quale deve
essere la relazione tra la
battaglia strategica per la rottura sistemica, le vertenze
dei settori sociali e dei lavoratori e la rappresentanza
politica dei settori di massa? Ha
senso oggi riproporre un modello puramente identitario della
soggettività comunista, o quello del “partito di massa”,
senza
confrontarsi con le condizioni e i gradi di coscienza
imposti da decenni di scomposizione di classe?
Sulla base di questo documento e attraverso le diverse iniziative di dibattito in cantiere invitiamo i comunisti a confrontarsi su questi temi mentre siamo impegnati in una campagna elettorale che vede la Piattaforma Eurostop, movimento politico animato dalla Rete dei Comunisti insieme ad altre organizzazioni politiche, sociali e sindacali, parte integrante della lista Potere al Popolo.
La nostra impostazione
Dagli anni ’90 la Rete dei Comunisti ha fatto della teoria dei tre fronti la propria strategia in una fase non rivoluzionaria. L’analisi della nuova composizione di classe, con la trasformazioni che ha subito in termini quantitativi e qualitativi la classe operaia, pilastro sociale su cui si fondava la forza del movimento comunista e di classe nel nostro paese dal dopoguerra, l’emergere di nuovi soggetti sociali soprattutto nelle aree metropolitane ,unita al bilancio della sconfitta storica subita dal movimento operaio internazionale con la caduta dell’Unione Sovietica, e la conseguente egemonia globale del capitalismo, ci ha costretti a elaborare una strategia che sapesse dare ai comunisti una funzione nel nuovo scenario.
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Le scarpe
pesanti il gomito sui libri
il sigaro spento non per il dubbio
ma
per il dubbio e
la certezza
nell’ultima
foto
dall’altra parte del vero
occhi
smarriti
guardandoci.
Alle
sue spalle guardiamo i libri deperiti
i
tappeti il legno gotico
del San Martino a cavallo
che
si taglia il mantello
per
darne metà al mendicante.
Gli uomini sono esseri mirabili
(F.
Fortini, Paesaggio con
serpente).
Individuare nella centralità del rapporto teoria-prassi la vera essenza del marxismo è il modo più corretto e più produttivo per definire le premesse di una nuova filosofia politica a quasi cinquant’anni dalla morte di György Lukács (1885-1971). In effetti, solo un’indagine che sappia andare oltre la ricostruzione di biografie intellettuali pur prestigiose per porsi sul terreno di un’analisi bifronte (non solo descrittiva ma anche prescrittiva, non solo gnoseologica ma anche teleologica) della prassi storicamente costituita può permettere di cogliere il rilievo di questa centralità nell’opera di colui che è stato senza dubbio uno dei più grandi pensatori marxisti del nostro secolo. Il testo, fra i molti, che meglio si presta ad una tale disamina è il saggio, tanto affascinante quanto sottovalutato, che il giovane Lukács scrive sull’opera e sulla personalità di Lenin in occasione della morte di quest’ultimo (1924).
Se
ne L’uso dei corpi (Neri Pozza 2014), il volume che
logicamente chiude la serie Homo sacer, Giorgio
Agamben, quasi
in esordio, sosteneva che ogni opera «non può essere
conclusa, ma solo abbandonata (e, eventualmente, continuata
da altri)» (p. 9),
l’aver “abbandonato” il progetto in questione non è affatto
coinciso con un abbandonare la pratica della scrittura da
parte
dell’autore.
Agamben ha continuato, con una costanza sorprendente, a pubblicare una serie di libri, dall’oggetto apparentemente disparato, che però rappresentano a loro modo una continuazione coerente del suo percorso. Da un lato ci sono lavori che sviluppano e approfondiscono il tema della “forma-di-vita” (Autoritratto nello studio, Che cos’è reale?, Pulcinella), dall’altro una serie di testi, per lo più raccolte di saggi d’occasione, che approfondiscono il punto di vista dell’autore su temi centrali della sua opera. In questo senso vanno letti Che cos’è la filosofia? e Il fuoco e il racconto, quanto anche il recente Creazione e Anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, uscito da poco per i tipi Neri Pozza, che raccoglie cinque conferenze tenute tra il 2012 e il 2013 presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio.
Il libro si apre con un’affermazione – e un’argomentazione – cara ad Agamben: vale a dire quella che, sulle orme di Michel Foucault, sostiene che «L’archeologia è la sola via di accesso al presente», in quanto «l’indagine sul passato non è che l’ombra portata di un’interrogazione rivolta al presente» (p. 9).
Il tema della tassazione dei redditi investe, nella particolare congiuntura economica, lo Stato e l’organizzazione della società e dello stesso Stato. È lecito domandarsi in che modo le forze politiche intendono tassare i redditi e come affrontano-trattano il tema, sapendo bene che non siamo alla vigilia del 1963 quando si insediò la Commissione per la riforma tributaria presieduta da Cosciani.
Il dibattito politico legato alla riduzione delle tasse (per tutti o per pochi) è ormai degenerato in luoghi comuni che inficiano la credibilità di quasi tutta la classe dirigente che si candida a governare il paese. Qualche dirigente politico lega la riduzione delle tasse alla lotta all’evasione fiscale (tra i 100 e 120 mld di euro), ma l’impianto del sistema fiscale nazionale, che fa acqua da tutte le parti, si pensi all’IRPEF, non viene messo in discussione in nessun modo. Sebbene il contribuente italiano paghi le tasse bestemmiando lo Stato, è altrettanto vero che non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana (Gobetti, Rivoluzione Liberale, 1924). La discussione sulla necessità di allargare la base imponibile, che attiene alla redistribuzione del carico fiscale (art. 53 della Costituzione), è rimossa fin dalle sue fondamenta.
La scena recitata da Bianca Berlinguer nell’ultima puntata di Carta Bianca è la cifra reale dello stato dell’informazione mainstream. La studiata incertezza davanti al nome della lista (“Potere… al Po… polo”, per far capire “ma che cazzo sto leggendo?”), il malcelato disprezzo per la persona che stava annunciando (presentata una prima volta come “segretaria”, poi come “portavoce”, pronunciando poi solo il nome senza il cognome, fino a voltarle le spalle prima ancora dell’ingresso in studio), il pervicace rifiuto nel darle parola (45 secondi in tutto, spesi in battutine a mezzi con Vittorio Sgarbi – un signore, al confronto della conduttrice – di cui solo 10 per “il vostro programma in due parole”, con risposta interrotta a metà col solito “ma dove si trovano i soldi?”)…
Aggiungiamoci il dato “strutturale”: l’unica chiamata in una trasmissione serale Rai è arrivata il giorno di apertura del festival di Sanremo, e Viola è stata mandata in onda intorno alle 23. Difficile far di peggio…
Di fatto, una prassi che appare come un distillato di odio sociale molto “professionale” per tutti quelli che in quel momento Viola Carofalo stava rappresentando; odio stimolato probabilmente dai più recenti sondaggi, secondo cui Potere al Popolo sta facendo scorreria nella presunta “riserva di caccia” di Liberi e Uguali.
Il Governo, che nel periodo elettorale resta in carica per il «disbrigo degli affari correnti», sta per assumere altri vincolanti impegni nella Nato per conto dell’Italia.
Saranno ufficializzati nel Consiglio Nord Atlantico che si svolge il 14-15 febbraio a Bruxelles a livello di ministri della difesa (per l’Italia Roberta Pinotti).
L’agenda non è stata ancora comunicata. È però già scritta nella «National Defense Strategy 2018», che il segretario Usa alla Difesa Jim Mattis ha rilasciato il 19 gennaio.
A differenza dei precedenti, il rapporto del Pentagono è quest’anno «top secret». Ne è stato pubblicato solo un riassunto, sufficiente comunque a farci capire che cosa si prepara in Europa.
Accusando la Russia di «violare i confini di nazioni limitrofe ed esercitare potere di veto sulle decisioni dei suoi vicini», il rapporto dichiara: «Il modo più sicuro di prevenire la guerra è essere preparati a vincerne una». Chiede quindi agli alleati europei di «mantenere l’impegno ad aumentare la spesa per potenziare la Nato».
L’Italia si è già impegnata nella Nato a portare la propria spesa militare dagli attuali circa 70 milioni di euro al giorno a circa 100 milioni di euro al giorno.
Ieri Wall Street durante la seduta è arrivata a perdere oltre il 6% ma la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione tranquillizzante: “Preoccupati per i cali, ma fiducia nell’economia”. A livello globale, nota l’agenzia finanziaria Bloomberg, siamo nel mezzo di un ribasso azionario che non si vedeva da un paio d’anni. Ma cosa significa tutto questo per i nostri Paesi e il nostro futuro? Con l’economista Ilaria Bifarini, Lo Speciale ha provato a spiegarlo: “Purtroppo la psicosi dell’inflazione e la “sindrome da finanziere” hanno contagiato anche il cittadino medio”.
* * * *
Il Dow Jones ha perso 1000 punti ieri. E’ in arrivo il crollo definitivo dei mercati, cosa sta succedendo?
“Qualcuno aveva già previsto il crollo della Borsa americana e su questo ribasso aveva scommesso una cifra elevata: 1,8 miliardi di dollari. Questo qualcuno è il magnate della finanza George Soros, che dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca pronostica un’implosione del mercato azionario americano. Considerando l’ostilità del finanziere ungherese nei confronti del presidente americano – ultima la sua dichiarazione contro il taglio delle tasse previsto dalla riforma Trump – e la potente ramificazione del potere finanziario su scala globale, non sarebbe azzardato pensare a un attacco contro la politica economica messa in atto dall’attuale amministrazione americana.
La guerra idiota di Trump contro Putin a base di sanzioni ha effetto opposto a quello voluto
A marzo si vota anche in Russia, non solo in Italia. A Mosca le cose non sembrano così incerte come a Roma: la rielezione di Vladimir Putin a presidente della Federazione Russa sembra scontata. Ma, dopo le mosse dei grandi attori mondiali a Davos sul commercio internazionale, sul protezionismo e sui futuri scenari finanziari internazionali, ciò che avviene in Russia merita una più attenta disamina che vada oltre i soliti argomenti ideologici e mediatici. C’è l’ala cosiddetta liberale, o meglio dire liberista, guidata dall’ex ministro delle Finanze, Alexey Kudrin, che fa affidamento sulle sanzioni economiche votate dal Congresso americano lo scorso luglio per indebolire Putin. Si ricordi che il dato più rilevante delle sanzioni è quello finanziario che sarà reso operativo prima delle elezioni russe.
A seguito all’ordine presidenziale di Trump, il Tesoro americano ha stilato un “Rapporto sul Cremlino” mettendo nel “mirino” oltre 200 alti funzionari ed uomini d’affari russi. Il Ministero del Tesoro ha il potere di blocco e di sequestro dei fondi detenuti all’estero dai grandi magnati russi. Fondi che si calcolano in circa mille miliardi di dollari. Le sanzioni americane sono molto mirate su ben determinati personaggi e su certi settori economici.

Premessa.
Potere al
Popolo è in Italia la vera sinistra alternativa. La sinistra
è la volontà di cambio dell’attuale modello sociale. E’
per la liberazione della società e per una pratica politica
e sociale che affronti e contesti le classi dominanti e
l’imperialismo. In
Italia c’è una sinistra sparsa in organizzazioni politiche e
movimenti che Potere al Popolo deve unire.
* * * *
AFV. Ormai sono anni che si sente parlare di unità della sinistra, con molti tentativi falliti che si sono trasformati in un allontanato dei suoi elettori, cos’è che differenzia Potere al Popolo dalle esperienze precedenti?
I tentativi che si sono ripetuti in questi ultimi anni seguivano ormai lo stesso stanco ritualismo. Si trattava di cartelli elettorali in cui il nostro popolo stentava a intravedere una progettualità che avesse per obiettivo la trasformazione della realtà; li percepiva invece come semplice sommatoria di più organizzazioni con l'obiettivo dichiarato di entrare in Parlamento. Il fallimento della Sinistra Arcobaleno nel 2008 ha costituito un trauma da cui parte della sinistra del paese ha stentato a riprendersi. Di lì, per anni, cè stata una coazione a ripetere. Nomi diversi per tentativi simili. La ricerca del personaggio famoso, per inseguire la personalizzazione della politica, che ha imperato in questo paese negli ultimi ventanni. Le tensioni intorno alle candidature, gli scontri fratricidi.
Un fantasma si aggira per l’Europa
e
purtroppo questa volta non è il fantasma del proletariato. La
sua sagoma sinistra si staglia dietro le parole ed i lessici,
fra i discorsi del
nostro quotidiano, fra le congiunzioni dei nostri pensieri. E’
il fantasma di un pensiero dominante, quello neoliberale in
crisi, e quindi ancor
più micidiale che negli anni della globalizzazione. E tuttavia
si tratta di un fantasma in carne ed ossa, incarnato da una
classe dominante che
impone determinate scelte e determinate pratiche
governamentali.
Oggi viviamo in un totalitarismo della classe dirigente. Potremmo definire questa élite come classe dirigente economica, ma la posizione predicativa che l’economico assume in questa formula troverebbe poca pregnanza. Si tratta infatti di gestire e dirigere l’esistente non più secondo il piano gerarchico e ordinativo della sovranità statale o sovranazionale, ma del governo delle vite.
E’ una classe che vive dei propri privilegi, di ceto, di reddito, di status ecc., e che domina non solo nel nostro paese, ma in Europa e a ben vedere sul pianeta intero. La definizione di classe dirigente è la più adatta: tramontate le alternative all’orizzonte del possibile, (l’orizzonte degli eventi secondo una fisica capitalistica-neoliberale), si tratta semplicemente di gestire l’esistente.
Persino la statunitense Central
Intelligence Agency, non sospettabile sicuramente di simpatie
per la Cina, ha ormai ammesso che il prodotto interno lordo
cinese ha superato quello
statunitense a partire dal 2015, usando (a modo suo, certo,
ossia in modo parziale) il criterio della parità del potere
d’acquisto: tale
dato di fatto esplosivo emerge con chiarezza dalle
interessanti pubblicazioni annuali della CIA, ossia il CIA
World Factbook del 2015 e del 2016, con
le loro informazioni che riguardano il confronto tra
l’economia cinese e quella statunitense, non utilizzando il
prodotto interno lordo nominale
e puramente monetario ma invece uno strumento analitico più
raffinato e soprattutto corrispondente alla realtà
contemporanea.
Il criterio della parità del potere d’acquisto (PPA) è stato introdotto dopo il 1945 dagli economisti sotto l’egida delle organizzazioni internazionali, al fine di calcolare e confrontare il prodotto interno lordo delle diverse formazioni statali, tenendo conto della differenza esistente tra il potere d’acquisto reale nelle diverse nazioni e astraendo invece dalle eventuali fluttuazioni nel tasso di cambio.
Quindi il prodotto interno lordo di un paese, attraverso l’utilizzo del PPA, viene di regola convertito in dollari internazionali tenendo conto della diversità nei poteri d’acquisto nazionali, differenziandosi a volte – come nel caso cinese e indiano – in modo molto sensibile dal prodotto interno nominale invece espresso da determinati paesi.[1]
Il crollo del socialismo reale segnò davvero la fine di un’epoca? Con questa domanda, dall’aspetto docile come un pranzo in famiglia, si apre Il collasso della modernizzazione di Robert Kurz, un libro così spiazzante che sono stati necessari ventisei anni di difficoltosa digestione (il libro uscì in Germania nel 1991), e una crisi economica mondiale – largamente prevista dall’autore – perché qualcuno si convincesse a concedergli finalmente la pubblicazione anche in Italia.
Ventisei anni in cui, quasi di nascosto, le analisi di Kurz si sono nutrite di conferme, sono diventate ingombranti – impossibile ormai non notarle – giganti paradossali: anacronistiche alla nascita, si sono fatte attuali invecchiando; costruite sui rottami della dissoluzione sovietica, sembrano nuove rispetto agli edifici teorici appena costruiti, già pieni di crepe e infiltrazioni; dedotte da un reperto archeologico, la teoria del valore di Marx, che era stato considerato ferro vecchio persino dai marxisti, hanno l’ambizione di spiegare la contemporaneità; pensate infine come un attacco senza precedenti alla modernità capitalista, propongono una definizione di anticapitalismo così stringente, netta, da ridurre l’insieme degli anticapitalisti contemporanei all’insieme vuoto. “Nessuna rivoluzione, da nessuna parte”, recita il titolo di uno degli articoli di Kurz.
Apro Facebook e sembra che il fascismo sia sul punto di tornare al potere. Mi immagino già orde di teste rasate, lucidi anfibi in mostra, passi compatti, serrati e qualcuno che, dai margini, tambureggia ritmi marziali, preludio di una nuova marcia su Roma. E, dulcis in fundo, masse informi ormai conquistate da un nuovo mito millenarista. Magari sono solo io, che vivo all’estero da un po’, a non averlo capito. Ma dopo qualche rapida consultazione, tiro un sospiro di sollievo. Non è così, la mia bolla di amici virtuali a volte gioca certi scherzi.
Di sicuro, non tira una bella aria. I giovani continuano a dimenarsi tra lavori precari che li costringono a mille rinunce, in un mesto destino che li accomuna ai percettori di pensioni sempre più magre. In molti temono per il proprio lavoro (si dice che ormai licenziare sia diventato un gioco da ragazzi), mentre i servizi pubblici, duole dirlo, lasciano sempre più a desiderare. Senza contare che sì, quello che è successo sabato scorso a Macerata è davvero il sintomo di un marcio profondo.
Ma andiamo per ordine. Dicevamo che il fascismo non è di nuovo in auge. I suoi autoproclamati eredi navigano ben al di sotto dell’1% nei sondaggi in vista di elezioni ormai imminenti.
Il libro di Jerry Kaplan, imprenditore e ingegnere informatico, esperto di Intelligenza Artificiale che ha seguito dall’avvio del termine negli anni cinquanta è del 2015, cui ha fatto seguito “Intelligenza artificiale”, dell’anno successivo.
In entrambi Kaplan si impegna a diradare un poco del fumo rilasciato da decenni dal marketing delle aziende produttrici (di hardware e software, a partire da IBM negli anni cinquanta) e dalla strategia competitiva dei dipartimenti universitari in caccia di lucrosi finanziamenti e per questo di eccitanti etichette. La cosiddetta “intelligenza artificiale” non ha nulla del primo termine, almeno in senso antropologico, in sostanza chiedersi se un software di automazione è “intelligente” è tanto pertinente quanto chiedersi se un sottomarino nuota: fa il suo lavoro, ma non lo fa in quel modo.
I software non hanno menti, ma sono veloci, e ottengono i loro risultati, ma noi non sappiamo come.
Alla fine Kaplan rinvia allo stesso allarme che viene da tante parti: siamo alla vigilia di un gigantesco scontro tra modi di fare le cose, dietro le quinte, che coinvolgerà un’enorme quantità di attività produttive fisiche e mentali. L’autore, che è certamente lontano da questa prospettiva, dà ragione a Marx nel senso che lo scontro è alla fine tra capitale e lavoratori, la cui forza-lavoro è sempre meno centrale, dunque vale sempre meno.
È ormai evidente che la possibile ricostruzione di una forza di sinistra nel nostro Paese passi da forme di netta discontinuità dal liberismo economico. Il cosiddetto centrosinistra da tempo è ormai del tutto aderente alla logica capitalistica egemone, sia in termini politici, sia in termini culturali. Da qui si origina la sua perdurante debolezza, che ovviamente si traduce in uno spostamento dei consensi verso il Movimento di Grillo. La scelta del cartello “Liberi e Uguali” di affidarsi a un capo in tutto e per tutto impolitico lascia trasparire non solo un’adesione ai principi della leadership carismatica (in verità, rivelatasi assai farsesca, se consideriamo gli evidenti deficit di Grasso sul piano della comunicazione e dello stile), ma anche un’incapacità concreta di elaborare un reale corredo valoriale alternativo, magari in grado di rimettere in circolo la parola “socialismo”.
D’altro canto, Bersani, che pure è persona stimabile, ama da tempo definirsi “liberale”. E liberali si definiscono (e sono) i suoi ex amici del Partito democratico, compagine ormai pienamente avvolta nel renzismo e votata alla costruzione di un centro moderato, con la quale però LeU continua ad avere non pochi punti di contatto (e non solo in ragione di possibili alleanze: si ricordi che la campagna elettorale di Grasso ha avuto inizio con uno svarione sulla tassazione universitaria, che è indice della volontà di voler parlare solo al ceto medio).
Mi ha lasciato assai perplesso la lettera aperta uscita
alcuni giorni fa, proveniente da ambienti per lo più
sociologici. Lettera
aperta alla Fondazione
Feltrinelli
E il tono trionfale con cui il Manifesto ne annuncia il
successo conferma la mia impressione negativa.
I firmatari si indignano per la presenza alla Fondazione Feltrinelli di de Benoist e Philippot. Ma cosa avrebbero e hanno avuto da dire a proposito dei numerosi incontri ai quali la medesima Fondazione ha invitato esponenti liberal statunitensi o europei, personaggi che hanno sostenuto e sostengono quel progetto di ricolonizzazione del mondo che passa per le infinite guerre Nato e USA degli ultimi decenni?
Sono autori e professori che rappresentano una destra diversa, perché universalista-immediatista, ma certamente non meno pericolosa di quella particolarista, comunitarista o eurasiatista; anzi in questa fase forse più pericolosa perché assai più efficace. Eppure, nessuno a mai protestato per la loro presenza in Italia, forse in omaggio a quel defunto paradigma unitario antifascista che però proprio i liberali hanno per primi revisionato a al quale occorrerebbe oggi contrapporre un autonomo revisionismo di sinistra.
0. Ringrazio molto gli
organizzatori
non solo per l’invito ma specialmente per il tema che mi è
stato assegnato: “La rivoluzione in Occidente”.
Forse, è ora che ne parliamo e che – soprattutto – ci pensiamo, e ci pensiamo seriamente. Io credo che la fase storica che viviamo, la fase della crisi del capitale globalizzato e, dunque, della fine di ogni possibile tratto egemonico del capitalismo (una fine ben rappresentata dalla persona stessa di Trump) ci spinga, ci costringa ad una simile riflessione sulla rivoluzione, cioè su come l’umanità associata possa fuoruscire dal capitalismo prima che il capitalismo metta in atto la catastrofe globale che porta nel suo seno.
Insomma, non è più il tempo del sensato consiglio che – a quanto si dice – risale a Togliatti: “Alla rivoluzione bisogna pensarci sempre e non bisogna nominarla mai”.
No, ora è il tempo di pensarla e di nominarla, di nominarla per poterla pensare, e viceversa di ripensare concretamente la rivoluzione, fuori dalla nostalgia e dai dogmatismi, per potere tornare a nominarla, fra le masse, facendone la nostra forza (d’altronde – forse non ce ne rendiamo conto abbastanza – è la proposta concreta della rivoluzione la vera e la sola forza dei comunisti).
Marta Fana, dottore di ricerca
presso l’Institut d’Études Politique de SciencesPo a Parigi e
giornalista, ha scritto un libro che, giunto alla terza
edizione in
poche settimane, è diventato occasione per tornare a discutere
della condizione del lavoro in Italia. Si intitola Non
è lavoro, è
sfruttamento con involontario ossimoro, poiché,
evidentemente, il lavoro è sempre sfruttamento. Benché infatti
abbia
fondato la possibilità per gli individui di uscire da
relazioni di servitù e la possibilità di “esistere per sé
stessi”, tuttavia, a partire dall’avvento del sistema di
produzione capitalistico, esso è attività comandata (“lavoro
comandato,” nell’espressione di Adam Smith), cioè, anche e
soprattutto, fonte di ricchezza per altri. Certo, Marx non era
arrivato
a immaginare un mondo nel quale l’accumulazione sarebbe stata
capace di crescere pur evitando di pagare del tutto (o quasi)
la
“merce” per eccellenza, “la madre di tutte le merci” come l’ha
definita Sergio
Bologna, cioè esattamente
il lavoro. Processo che si sta traducendo in
un’esplosione esponenziale della dinamica dello sfruttamento
che si scarica sugli esseri
viventi e sulle risorse naturali, con creazione di profitti
smisurati che non generano alcuno sviluppo per il pianeta e i
suoi abitanti ma solo il
dilagare della diseguaglianza e della sofferenza.
“E così si è
visto, in generale, che le medesime cause che determinano la
caduta
del saggio di profitto, danno origine a forze antagonistiche
che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa
caduta. E se non fosse per
questa azione contrastante non sarebbe la caduta del saggio
di profitto ad essere incomprensibile, ma al contrario la
relativa lentezza di questa
caduta. In tal modo la legge si riduce ad una semplice
tendenza, la cui efficacia si manifesta in modo convincente
solo in condizioni determinate e
nel corso di lunghi periodi di tempo”[1].
Nell’esposizione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, contenuta nel III libro de Il Capitale, c’è un contrasto tra la struttura dell’argomentazione e il suo contenuto. La struttura argomentativa, distribuita sui due capitoli “La legge in quanto tale” e “Cause antagonistiche”, presenta una legge contrastata da fenomeni perturbatori. Il saggio di profitto è come una piuma lasciata cadere dall’alto, rallentata dalla densità dell’aria, temporaneamente risollevata dal vento: sappiamo che, alla fine, tra le diverse forze in gioco avrà la meglio la forza di gravità; alla lunga, per la legge della caduta dei gravi, la piuma arriverà a terra. Il contenuto dell’argomentazione ci costringe ad abbandonare questa analogia, perché veniamo a sapere che le cause che determinano la caduta del saggio di profitto e quelle che la contrastano sono le medesime. Non abbiamo dunque una forza che prevale su altre forze (per intensità, durata, ecc.), ma una medesima causa che ha effetti contrastanti.
Per la prima volta da quando, ormai sei anni fa, si è accesa la crudele guerra di Siria, le forze armate americane hanno attaccato direttamente l’esercito regolare di Bashar al-Assad. Due incursioni aeree pesanti (a nome della coalizione internazionale) contro le colonne siriane che muovevano verso Est e verso l’Eufrate per attaccare le milizie curde e delle Forze siriane democratiche attestate appena al di là del fiume.
L’episodio ha scatenato molti allarmi. Si è parlato di possibile escalation militare, ventilando la solita ipotesi di uno scontro Usa-Russia. E si è detto che la strage di soldati siriani ingarbuglia ancor più la già intricata e sanguinosa situazione siriana.
In realtà è vero il contrario. I portavoce del Pentagono hanno detto che l’operazione, preparata per una settimana, è stata condotta informando i comandi russi, i quali peraltro non hanno smentito. Cosa che peraltro corrisponde all’atteggiamento che il Cremlino ha tenuto senza mai deflettere in questi anni di impegno militare in Siria, ovvero: sostegno pieno ad Assad e al suo governo senza però farsi coinvolgere da altre questioni. I russi non si frappongono alle incursioni israeliane nello spazio aereo siriano del Sud e non si sono fatti coinvolgere nello scontro tra esercito regolare siriano e americani nei deserti dell’Est.
L'accordo firmato in Baden-Wuttemberg da IgMetall sulla riduzione della settimana lavorativa merita di essere analizzato sotto tre aspetti: in che cosa consiste realmente; qual è stata la risposta padronale italiana; che cosa ne possiamo fare noi
28, 35, 40: diamo i numeri
L'accordo prevede, nella parte economica, la rivalutazione degli stipendi del 4,3% a fronte del 6% chiesto dal sindacato, l'erogazione di 100 euro una tantum ad Aprile ed un bonus annuo, fino al 2020, di 400 euro più il 27,5% dello stipendio mensile. Il bonus è subordinato all'assenza di difficoltà economiche per l'azienda. La parte normativa, invece, prevede la possibilità, per le lavoratrici e i lavoratori con figli o parenti a cui prestare assistenza, di richiedere di lavorare 28 ore a settimana per un periodo di tempo che potrà andare dai 6 ai 24 mesi, con riduzione dello stipendio – inizialmente la IG Metall si era opposta – compensato da ulteriori 8 giorni di ferie. In compenso, la Confindustria del Baden-Wuttemberg – ma si presume una rapida estensione dell'accordo anche agli altri Lander – potrà chiedere a lavoratrici e lavoratori di aderire temporaneamente ad un allungamento della settimana lavorativa fino a 40 ore, per soddisfare eventuali picchi produttivi.
Il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia (TPIJ) ha chiuso i battenti negli ultimi giorni del 2017, ponendo fine a uno dei più vergognosi processi di manipolazione del diritto internazionale di cui si abbia memoria. Esattamente come fece il nazifascismo a Lipsia, il nuovo ordine mondiale ha avuto all'Aia il suo simulacro di giustizia.
Nel febbraio del 1933, pochi giorni dopo aver assunto la guida del governo tedesco, i nazifascisti incendiarono l'edificio del parlamento tedesco, il Reichstag, e incolparono i comunisti del crimine.
Nei giorni seguenti, militanti ed eletti del Partito Comunista Tedesco venivano arrestati e accusati di essere gli autori dell'incendio, insieme a tre comunisti bulgari, tra cui il dirigente dell'Internazionale Comunista Georghi Dimitrov. La messa in scena svoltasi a Lipsia, trasmessa via radio, aveva tutte le caratteristiche per trasformarsi in un autodafé anticomunista e nella definitiva consacrazione del potere nazista, se non fosse stato per la vibrante e coraggiosa difesa di Dimitrov che ha reso evidente agli occhi del mondo che erano stati i fascisti e non i comunisti ad appiccare il fuoco.
In questo commento recentemente apparso sul Telegraph si mettono in luce i tentativi attualmente in corso in Gran Bretagna per bloccare e screditare il processo democratico della Brexit. Gli argomenti sono sempre gli stessi, utilizzati ormai in qualsiasi paese in cui la volontà popolare è abbastanza forte da minacciare lo status quo e gli interessi delle élite: una surreale celebrazione di modelli di governance pre-ottocenteschi, con tutto il potere concentrato nelle mani di un’aristocrazia di burocrati non-eletti, paternalisticamente ritenuti gli unici capaci di comprendere la complessità del mondo odierno. Di fronte a queste derive autoritarie e oscurantiste, è necessario che i cittadini resistano e rivendichino con forza la prevalenza del buonsenso e della trasparenza
In politica non esiste un progresso costante, solo un’infinita e deprimente circolarità. Democrazia e libertà sono inevitabilmente vulnerabili ed effimere; sono sempre messe in dubbio da chi detiene il potere e si ritiene più intelligente degli altri, e quindi costantemente a rischio di essere sovvertite.
Nell’antichità, Platone auspicava nella Repubblica che la fiducia popolare fosse riposta nei re-filosofi, perché solo loro avevano accesso alla vera saggezza. Come Sir Karl Popper avrebbe argomentato più di 2000 anni dopo, la preferenza di Platone per l’ingegneria sociale ha contribuito ad alimentare le ideologie totalitarie del XX secolo.
…La sicurezza dovrebbe essere un valore fondante della convivenza civile, condiviso da tutte le forze democratiche. Tuttavia, se proprio le si vuol dare una connotazione politica credo che tutelare la sicurezza dei cittadini sia più interesse della sinistra e delle forze progressiste e meno della destra. Se non altro per il fatto che la domanda di sicurezza proviene, prevalentemente, dai ceti medi e meno abbienti i quali si rivolgono allo Stato poiché, a differenza delle classi agiate, non dispongono di mezzi propri per tutelarsi…
1… In questa campagna elettorale, come nelle precedenti, da destra e da sinistra si fa un gran parlare del problema della sicurezza dei cittadini, spesso enfatizzandolo, per sperare di racimolare qualche manciata di voti. Ma, a parte le furbizie elettorali, la questione esiste, in Italia e in altri Paesi, e sarebbe il caso di occuparsene sul serio e non solo nelle campagne elettorali.
Tuttavia, per quanto populista, demagogico sia l’approccio, sarebbe da stolti non vedere che si tratta di una questione reale e anche urgente.
Purtroppo, i leader e i loro “esperti” dei salotti televisivi puntano sulla paura, sul terrore, provocati da un fatto di cronaca più per commuovere che per far riflettere il pubblico. E quindi dagli al clandestino, allo psicopatico, all’assassino seriale, al guardone, ecc. Figure che non si possono, certo, ignorare o sottovalutare, ma che non possono diventare il capro espiatorio di responsabilità assai più vaste.

L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria
«E infine la divisione del lavoro offre anche il
primo esempio del fatto che fin
tanto che gli uomini si trovano nella società naturale,
fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse
particolare e interesse
comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non
volontariamente ma naturalmente, l’azione propria
dell’uomo
diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che
lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena
il lavoro cominci a ad
essere diviso ciascuno ha una sfera di attività
determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla
quale non può sfuggire: è
cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve
restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove
nella società comunista, in
cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può
perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società
regola la
produzione generale e appunto in tal modo mi rende
possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la
mattina andare a caccia, il
pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo
pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza
diventare né cacciatore,
né pescatore, né pastore, né critico».
L’idelogia tedesca, 1846.
L’epoca ideologica per antonomasia è proprio l’epoca attuale, nella quale il dicitur mediatico – a tambur battente – ci annuncia che le ideologie sono morte. Da tale postulato si deduce che viviamo nell’epoca dell’oggettivo, la verità è stata svelata e dunque è inutile sporgersi oltre l’orizzonte attuale.
L’inverno è arrivato. Una
spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione
di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico,
finanziario e sociale. Quasi
dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione
cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in
Occidente. Soltanto la
torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri
delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing,
impedì che
l’economia globale finisse in cenere. Ma gli effetti del
Quantitative easing sono paragonabili a una coltre che ha
cristallizzato la
volatilità delle piazze borsistiche: oggi, il mondo
finanziario vive immobilizzato allo zero termico, in quel
glaciale torpore imposto dal
pilota automatico delle banche centrali.
* * * *
Riprendiamo qui sui Diavoli la versione estesa di un articolo sulle conseguenze politiche del Quantitative easing europeo, pubblicato da Guido Brera sul «Corriere della Sera» del 19 dicembre 2017.
L’inverno è arrivato. Una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico, finanziario e sociale.
Quasi dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in Occidente. Soltanto la torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing, impedì che l’economia globale finisse in cenere.
Il lato ormai chiaro e scoperchiato di Oxfam, lo conosciamo tutti: la charity britannica è accusata di aver coperto una notevole attività di bunga bunga nei propri uffici a Haiti e forse altrove.
Di questo non so dire nulla, e anzi ho sempre qualche dubbio quando esplodono scandali insieme così clamorosi e così difficili da dimostrare.
Questo scandalo però ha permesso di scoprire un lato ben più oscuro di Oxfam, come racconta in un interessante articolo Theodore Dalrymple.
Ma prima andiamo sul sito italiano di Oxfam.
Dove troviamo la foto di una certa signora Aramla, nazionalità imprecisata.
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«Nessuna stabilità dunque da una vittoria della destra. Anzi, quasi certamente una maggiore instabilità di quella che avremmo con la palude di "governi del presidente" o similari. Buffo che dopo un quarto di secolo di Seconda Repubblica possa tornare a galla un reperto archeologico di nome Silvio Berlusconi. Buffo, ma in qualche modo logico. Perché lo schifo di questa stagione politica, che con lui è cominciata, forse è proprio con lui che dovrà finire».
Da settimane dicon tutti le stesse cose: (1) che dalle urne del 4 marzo non verrà fuori una maggioranza parlamentare, (2) che saranno perciò necessarie alleanze diverse da quelle presenti sulla scheda elettorale, (3) che forse nascerà un non meglio precisato "governo del presidente", (4) che in ogni caso l'instabilità politica caratterizzerà anche la prossima legislatura.
Ma siamo proprio sicuri che andrà così? Tolto il quarto punto, sul quale possiamo scommettere, gli altri tre si basano su una fotografia vecchia di un paio di mesi. Foto oggi sbiadita assai, perché se resta vero che la coalizione di destra tutto sembra fuorché un'alleanza di governo, i due competitors sistemici —la micro-coalizione a guida piddina ed M5S— tanto competitivi non sembrano proprio.
Riproposto da Orthotes «Mille piani» di Gilles Deleuze e Felix Guattari. A venti anni dalla prima edizione, l’analisi del libro può risultare familiare e priva di radicalità . L’attualità di questo classico del Novecento risiede nella ricerca di una politica adeguata al capitalismo
«Mille piani, fra i nostri libri, è stato quello accolto peggio. Eppure, se lo preferiamo, non è al modo in cui una madre può preferire un figlio disgraziato». Così, nella prefazione all’edizione italiana di Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, uscita nel 1987, Gilles Deleuze e Felix Guattari descrivono il loro rapporto con quest’opera ambiziosissima, che era apparsa in Francia nel 1980, a segnare quasi uno spartiacque tra la chiusura dei cicli di lotte formidabili dei Settanta e la grande normalizzazione del decennio successivo. E infatti, in quella prefazione, i due chiamano in causa il Sessantotto come riferimento fondamentale: l’Anti-Edipo, ricordano, era stato pubblicato quando ancora era prossima «l’epoca agitata», mentre Mille piani era stato varato nella «calma già piatta».
È FUORI STRADA, però, chi oppone un Anti-Edipo eccessivo, sovversivo, e «desiderante» a un Mille piani meditato e filosofico. Deleuze e Guattari dicono, in quella premessa, tutt’altra cosa: amiamo questo libro perché si libera definitivamente dell’Edipo, lasciandosi dietro ogni tonalità semplicemente oppositiva, perché allarga il quadro e si spinge finalmente in terre «vergini d’Edipo».
L’enorme corteo di Macerata ha, per ora, impedito lo smarcamento della sinistra liberale dalla questione antifascista. Minniti, Renzi, il Pd e la Cgil hanno dovuto prendere atto di un sentimento popolare tutt’oggi presente, magari non forte come in passato, ma capace di reagire all’a-fascismo istituzionale. In questi giorni Macerata si è trasformata in un simbolo, confine tra l’antifascismo e la barbarie. Chi non ha scelto è direttamente invischiato nello sfaldamento dei rapporti sociali che investe oggi la “democrazia” occidentale. Detto dunque della necessità di essere presenti, di imporre la mobilitazione all’ignavia e al razzismo, di riprenderci con la forza della presenza fisica una cittadina suo malgrado divenuta simbolica, bisogna anche prendere atto che Macerata non può bastare. Non tanto, ovviamente, perché un singolo episodio non ha in alcun modo la forza di cambiare una strategia di lungo periodo. Non può bastare perché Macerata ha ricomposto per un giorno un fronte antifascista che non esiste, né può esistere più, nella realtà. La “sinistra” da Grasso e D’Alema ai “centri sociali” non ha più nulla di comune, perché “sinistra” non è più il contenitore politico-ideologico entro cui marciano le diverse anime presenti sabato a Macerata. Non è “sinistra” Liberi e Uguali, così come non è “sinistra” quel mondo dell’associazionismo e Ong che vede ancora nel Pd il proprio referente politico, la sponda istituzionale “meno peggio” di Forza Italia.
Il cosiddetto “ritorno del fascismo” in Italia fa parte di un fenomeno di dimensioni globali. La sua origine va ricercata nella crisi di egemonia del neoliberalismo e nell’impasse dei movimenti sociali. Per contrastare la torsione autoritaria è necessario mettere in discussione alcuni luoghi comuni che animano il dibattito in rete dopo i fatti di Macerata
«La verità è che non si può scegliere la forma
di guerra che si vuole»: così scriveva
Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere discutendo
di strategie militari. Negli ultimi mesi, e ancora di più
dopo i fatti di
Macerata, mentre ci si ritrova di fronte alla stessa amara e
realistica constatazione secondo la quale non possiamo
sceglierci il terreno di battaglia
che vogliamo, ci si chiede in quale “forma di guerra” siamo
precipitati.
A pochi giorni dall’attentato fascista e dal surreale dibattito politico-mediatico che ne è scaturito, si rincorrono in rete analisi che sembrano ricondurre la situazione attuale al puro e semplice “sdoganamento” istituzionale e mediatico dei gruppi neofascisti. In altri casi, il consenso riscosso dall’ordine del discorso razzista viene trattato come il disvelamento di una qualche natura inconfessabile degli italiani (e dei poveri) rimasta latente e riemersa ora come conseguenza estrema dell’impoverimento economico prodotto dalla crisi.
Di fronte a queste interpretazioni più o meno implicite, lo spazio disponibile per l’azione politica rimane confinato dentro perimetri stretti: al pur necessario antifascismo militante si finisce per attribuire una valenza “eroica“ nella stessa misura in cui cresce il senso di isolamento e accerchiamento nei confronti della società; a medio termine a sinistra si confida nella formazione di governi di larghe intese in grado di frenare l’avanzata della destra più estrema; sul lungo periodo, si invita alla virtù della pazienza, consapevoli che il peggio deve ancora venire e che solo dopo che sarà arrivato, potremo sperare di rialzarci.
Introduzione
Il termine comunismo detiene,
almeno dalla
caduta del Muro di Berlino, una certa opacità spettrale. Il
«disastro oscuro»1 dei socialismi realizzati e il
conseguente trionfo su scala globale del capitalismo
neoliberista, hanno infatti relegato il comunismo – la sua
tradizione ideologica, le sue
pratiche e, non da ultimo, le categorie politiche e
filosofiche del marxismo – nel novero dei cadaveri della
Storia. Da più di un
decennio, però, questa narrazione sembra esser messa in
crisi. Marx è tornato sotto l’attenzione di molti studiosi,
e non solo. La
riflessione accademica fa nuovamente spazio ad argomenti
riconducibili, in qualche modo, al concetto di
‘transizione’. Rivolte o movimenti
politici alternativi hanno fatto la loro comparsa un po’
ovunque con una fenomenologia spesso simile: cioè cercando,
tramite una
riscrittura populista o contro-populista della più
tradizionale pratica politica di sinistra, di contrastare
l’egemonia
economico-politica del capitalismo.
Risulta di estremo interesse allora che nel 2009 si sia tenuto a Londra, al Birkbeck Institute of Humanities, un convegno dedicato all’«Idea di comunismo». A questo ne sono seguiti altri, in Europa e nel mondo, i quali, in un modo o nell’altro, hanno rimesso all’ordine del giorno un dibattito sul nome ‘comunismo’. È senz’altro degno ricordare che ciò accada nella cornice di quella che molti analisti hanno definito la più devastante crisi economico-finanziaria attraversata dal capitalismo fin dai tempi della Grande Depressione.
Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio coming out elettorale partendo da un ragionamento.
Come ho detto più volte, il principale problema del momento è l’indecente offerta politica che è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe, quindi voto più che per adesione, pensando agli effetti del mio voto in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali.
Partiamo da quello che assolutamente non si piò votare: centro destra e centro sinistra che sono solo avversari da battere e basta. E, per essere più precisi, l’avversario peggiore e quello di “sinistra” proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come sinistra e, in questo modo, riesce a fare quello che la destra aperta non riesce a fare: art. 18, jobs act, buona scuola eccetera sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non riuscì a fare per la reazione di sindacati ed opposizione. Renzi ci è riuscito e, per poco, non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016. La destra berlusconiana, anche se solo tatticamente e non certo per adesione ai valori costituzionali, ha votato No con noi, mentre il Pd era l’eversore che voleva stravolgere la Costituzione e il nemico costituzionale è un nemico strategico assoluto, dopo non c’è possibilità di intesa: non glielo perdoneremo mai.
C'è chi trova singolare il Comunicato di Programma 101 sulle prossime elezioni poiché non contiene un'indicazione di voto bensì di NON-VOTO.
Esso infatti indica a chi il voto non dovrebbe essere dato: non alle due coalizioni sistemiche di centro-sinistra (compresa l'appendice esterna di Liberi e Uguali) e di centro-destra (compresa la Lega di Salvini) e nemmeno al Movimento 5 Stelle.
Qual è il criterio sotteso a questa posizione?
Siccome ognuno di questi tre poli si colloca nel campo del neoliberismo —tutti loro promettono, in caso di accesso al governo, di ubbidire al grande capitalismo finanziario e all'Euro-pa— che essi perdano voti sarebbe un bene per il popolo lavoratore e per il Paese. Questo risultato si può ottenere in tre maniere: non andando a votare, andandoci annullando la scheda, oppure "turandosi il naso" votando per una delle liste minori anti-liberiste a vocazione democratica, socialista e costituzionale —non quindi per i "fascisti del terzo millennio". Perché turarsi il naso è presto detto: la loro vocazione costituzionale e antiliberista è monca e inconseguente, dal momento che nessuna di queste liste chiede l'uscita dell'Italia dall'Unione europea e dall'eurozona, ovvero non contempla la piena sovranità nazionale — coppia uscita- sovranità senza la quale tutte le loro pompose rivendicazioni sociali risultano astratte e irrealizzabili.
“Abbastanza non è più abbastanza”, in questa frase è racchiuso tutto Realismo capitalista, il seminale libro di Mark Fisher, appena tradotto in Italia nella neonata collana Not di Nero editions (https://not.neroeditions.com/mark-fisher-realismo-capitalista/) a dieci anni dalla sua pubblicazione in Inghilterra e ad un anno dalla morte dell’autore.
La citazione per l’esattezza continua così: “Abbastanza non è più abbastanza. È una sindrome che suonerà familiare a quei tanti lavoratori per i quali una valutazione «sufficiente» delle proprie prestazioni non è più… sufficiente”.
Questa frase ha continuato a risuonarmi in testa. È diventata un tormentone. Mi sono trovato a ripeterla o a leggerla a tutti quelli che incontravo. Così sono iniziati gli aneddoti: come quello di una mia amica che mi racconta che, al momento di acquistare una macchina, l’impiegata della concessionaria che ha curato la vendita, una volta finita la transazione, le ha sottoposto un questionario di soddisfazione, spiegando che sì, comunemente in una scala da uno a dieci otto sarebbe una buona valutazione, ma non per il suo capo, che si chiederebbe perché non dieci, cosa cioè è andato storto a tal punto da far scendere di due punti il gradimento rispetto alla piena soddisfazione.

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Pubblichiamo una recensione di Franco Galdini a Sulla ricchezza, il nuovo libro di Flavio Briatore
Con le
conseguenze della crisi economica mondiale ancora presenti
nella realtà quotidiana di milioni di italiani, non c’è da
stupirsi che
un
libro sul come creare
ricchezza e benessere
per tutti susciti
interesse. A maggior ragione se
l’autore è un personaggio ricco, famoso e controverso come
l’imprenditore piemontese Flavio Briatore. La ricetta di
Briatore
è semplice: l’Italia dovrebbe «rilanciare il turismo e farne
il traino della propria economia» (pg. 55). In
quest’ottica, “il turismo dovrebbe essere la prima grande
industria italiana, la turbina dello sviluppo, la forza
propulsiva di
un’intera generazione di giovani, che avrebbe non soltanto una
fonte diretta di guadagno, ma anche una straordinaria
occasione di crescita
culturale e imprenditoriale grazie al confronto diretto con
persone che vivono e operano in un mercato internazionale e
globale” (pg. 54-5).
Anche se il turismo di massa può coesistere con l’accoglienza di qualità (pg. 23-7), Briatore preferisce concentrarsi su quest’ultima per il fatto che, a suo avviso, l’Italia si rifiuta di sviluppare questo ramo di crescita importante per un misto di invidia sociale verso i ricchi (pg. 2, 6, 57, 169) e miopia della classe dirigente che non ha «alcuna consapevolezza di quanto il settore del turismo sia importante ai fini dell’economia e del futuro» (pg. 33).
Il
1917 di Martov fu singolare e ne derivò una lettura
minoritaria, complessivamente erronea, ma a tratti acuta e
presaga della
rivoluzione. Martov (Julij Osipovič Cederbaum, Costantinopoli
1873-Schönberg 1923), dopo essere passato da Odessa a
Pietroburgo per sfuggire
ai pogrom, si era avvicinati al marxismo e fu arrestato per la
prima volta nel 1892, esiliato a Vilna, in Lituania, dove
contribuisce alla
costituzione del Bund (Unione generale dei lavoratori ebrei).
Ritornato a Pietroburgo, fonda insieme a Lenin, l’Unione di
lotta per
l’emancipazione della classe operaia: nel 1896 vengono
entrambi esiliati in Siberia. Contrae la tubercolosi, come la
maggior parte dei carcerati
di epoca zarista, e non ne guarirà mai. Nel 1898 confluiscono
nel riorganizzato Partito Operaio Socialdemocratico Russo
(POSDR) e fondano, con
Plechanov e Vera Zásulič la rivista «Iskra». Nel 1903
redazione e Posdr si spaccano in due tendenze: Lenin è alla
testa
di quella maggioritaria (bolscevica), Martov di quella
minoritaria (menscevica). Nel 1905 Martov oscilla fra una
rivoluzione popolare non compromessa
con gli elementi borghesi e la partecipazione a una coalizione
con la borghesia liberale (i cadetti). Nel 1914 si oppone alla
guerra imperialista,
avvicinandosi a Lenin e Trockij e partecipando alle conferenze
internazionaliste di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916).
Nonostante la pretesa liberista dell’efficienza e autoregolamentazione dei mercati, tre recenti studi dimostrano che i mercati di norma sono truccati: favoriscono una ristretta élite che approfitta della possibilità di accedere a informazioni nascoste al pubblico a discapito di tutti gli altri. Se aggiungiamo che le ultime crisi globali hanno avuto origine proprio dagli squilibri dei mercati, risulta sempre più chiara la necessità che siano gli Stati a regolamentare e limitare con decisione l’invasività dei mercati per impedire ingiuste speculazioni e scongiurare i maggiori rischi di crisi sistemiche
Tre nuovi paper scientifici recentemente pubblicati sembrano confermare quanto molti sostengono da anni: i “mercati efficienti” non solo sono inefficienti – da un punto di vista informativo – ma sono pure decisamente truccati. Dei tre paper, secondo l’Economist, uno sostiene che gli Insider con gli agganci giusti hanno guadagnato perfino dalla crisi finanziaria, mentre gli altri due si spingono a suggerire che l’intero sistema di negoziazione delle azioni è truccato.
A differenza di quanto fanno solitamente coloro che denunciano i casi di insider trading – che richiedono di solito occasionali soffiate e vaste, costose indagini, che comprendono l’esame di prove complesse provenienti da telefonate, e-mail o informatori muniti di apparecchi di registrazione – i paper fanno un uso originale di analisi schematiche su dati per scoprire che probabilmente l’insider trading è molto diffuso, come riporta l’Economist.
Oggi parlo del mio quartiere, ma non è colpa mia.
Il Corriere della Sera infatti dedica una pagina a una questione locale, elevandola tuttavia a metafora di un problema nazionale: «L'illusione caduta di piazza Vittorio».
Piazza Vittorio, architettura sabauda, è il cuore di un rione chiamato Esquilino nel quale ho appunto la fortuna di abitare da una quindicina d'anni.
Notoriamente è un quartiere molto multietnico: cinesi, bangladeshi, arabi, africani e altro. Non so se in quest'ordine, ma sicuramente con i cinesi in testa per presenza visibile e attività commerciali.
Sotto casa mia - a memoria - ho un casalinghi gestito da cinesi, due ristoranti di cucina giappo gestiti da cinesi, una tintoria cinese, un'altra tintoria di bangladeshi, due alimentari di bangladeshi, un falaferaro e pizza al trancio egiziano, un money transfer arabo (non so di che paese). Il ristorante-pizzeria è italiano ma i cuochi sono tutti asiatici e africani, tranne il pizzaiolo che è albanese (ma quando non è di turno, le pizze le fa un africano).
La forte presenza di comunità straniere è visibile anche nelle scuole del quartiere.
Dicevo: oggi il Corriere ha dedicato al quartiere un ampio spazio sulle sue pagine nazionali, prendendo come spunto una petizione di alcuni «residenti famosi» (sic).
The past is a foreign country: they do things differently there, così inizia Messaggero d’amore il romanzo romantico di Leslie Poles Hartley; inizia con una dichiarazione di poetica sostanziale, il passato è un paese straniero. Questa frase è probabilmente più famosa ed essenziale dello stesso romanzo che la contiene e più volte è stata ripresa proprio per la sua capacità di sintetizzare il sentimento della nostalgia capace di contenere e rivelare due ulteriori quanto angusti sentimenti, quello del risentimento e quello a tratti meno indagato del rimpianto.
Ormai è diventato quasi ovvio definire la nostra epoca o meglio la nostra società come quella del risentimento, un sentimento che è visibile quasi in ogni momento della nostra quotidianità. Dalla mattina fino alla sera il risentimento accompagna i gesti di una comunità sotto pressione continua, qualcuno prima o poi esplode, magari semplicemente per un autobus perso o per un lavoro andato male o per un parcheggio introvabile: la banalità chiude il Novecento, il risentimento la accompagna nel nuovo secolo.
Tuttavia il risentimento sembra indagare un movimento ancora sociale, diffuso e comune, ma se è nel gesto individuale che si palesa è nell’origine dell’individuo che si perde, che resta sostanzialmente una visione di superficie.
Le prossime elezioni italiane sembrano confermare le tesi di Ernesto Laclau, per il quale l’unico orizzonte della politica è il populismo, in diverse varianti e in contesa egemonica tra loro. Io credo che si debba invece cercare un’alternativa, oltre questa apparenza di superficie e opporre la divisione del sociale al fantasma del Popolo-Uno.
Laclau pensava che fossero quattro le caratteristiche fondamentali di un movimento populista: la crisi dell’ordine simbolico democratico, l’identificazione di massa con l’Io ideale incarnato dal Capo, la costituzione di un “altro”, come nemico esterno del popolo, la capacità di comporre almeno provvisoriamente in unità domande e critiche apparentemente incompatibili. Ora sembra che i principali contendenti delle elezioni italiane rientrino tutti in questo contesto. Sui migranti, per esempio, e dunque sulla frontiera da stabilire tra noi e loro, tra Minniti, Berlusconi, Di Maio e Salvini c’è solo una differenza di grado e di modalità, non di principio (il peggiore per ora è Minniti, finanziatore di veri e propri campi di concentramento in Libia).
Tutti personalizzano e incarnano il proprio movimento nella figura di un capo e accettano una logica sociale gerarchica e piramidale. Tutti si muovono in un’ottica di critica della finanza e non del capitale.
Come per “Liberi ed Eguali”, il cui programma
ho tentato di leggere qualche
giorno fa anche per “Potere al Popolo” molti amici si
stanno impegnando.
Vale quindi ora la pena di dare uno sguardo al programma anche di questa giovane formazione.
Ma anche in questo caso, come per il precedente, bisogna considerare che non è mai per questo che si sceglie di votare, lo si fa (eventualmente) per il quadro generale. Tuttavia, anche se non è tutto, il programma conta, insieme ad esso contano gli uomini coinvolti nell’impresa e le loro storie. Inoltre ha importanza la meccanica delle organizzazioni che vi sono dietro, ed in particolare ciò conta in un rassemblement come questo. Una lista elettorale (come LeU, del resto) dove si trovano sia Partiti strutturati e con una storia non breve né semplice, come Rifondazione Comunista, sia organizzazioni più o meno liquide della sinistra radicale come Euro-stop (rappresentata dall’ottimo Cremaschi ed al quale aderiscono a sua volta sigle come l’Unione Sindacale di Base, Contropiano, il neonato Partito Comunista Italiano, la Rete dei Comunisti, Militant, e diversi altri), sia diverse reti di centri sociali, e tra queste il promotore ufficiale: L’OPG occupato “Je so pazzo”, una delle più innovative e interessanti realtà di movimento napoletane.
E' stato pubblicato il nuovo fascicolo della South Atlantic Quarterly, vol. 116, n.4 – October! To commemorate the Future – numero curato da Michael Hardt e Sandro Mezzadra e dedicato a riflessioni sul tempo attuale alla luce della Rivoluzione. Dopo l’introduzione dei curatori [qui] e il testo di G. Amendola [qui], pubblichiamo, grazie alla cortese autorizzazione della rivista e dell’editore, il testo di T. Negri. Concluderemo infine le pubblicazioni con il testo di M. Hardt – EN
1. Chiunque affronti il
problema della democrazia in termini marxisti – alla ricerca
cioè di un potere costituente a misura della classe
lavoratrice – si
trova di fronte al rapporto storico tra struttura oggettiva
del processo economico e dinamica soggettiva della decisione.
Quest’ultima non
sarà qui interpretata alla maniera della scienza politica
classica e cioè come elemento puntuale, drammatico, e
evenemenziale di
innovazione istituzionale bensì come processo, insieme, di
destituzione del vecchio potere ed espressivo di un constituency
da parte
del soggetto rivoluzionario. Se vogliamo capire come questo
processo non si risolve semplicemente in un “momento” – che
esso
cioè non è un’ “eccezione” ma piuttosto un’ “eccedenza” –
possiamo assumere un punto di vista
“genealogico”, alla Foucault, meglio un “punto di vista di
classe”. Così lo chiamavano gli “operaisti”
quando descrivevano, preparavano e costruivano un processo
rivoluzionario nella prospettiva della realizzazione di una
tendenza, gestita dalle lotte
di classe operaia ed interpretata da un soggetto che ne pone
in atto l’organizzazione. È d’altronde il metodo de Il
Principe – ma il soggetto non è evidentemente lo stesso
nell’indagine che sviluppiamo: qui il soggetto è la classe
operaia russa nel periodo nel quale si forma nei soviet,
si organizza nel partito e sviluppa la sua lotta tra il 1905 e
il 1917 – e poi
dissolve, nel “secolo breve”, le sue originali istituzioni
nella gestione socialista del capitale. Quindi, la prima
domanda da porsi
è quale fosse la struttura della classe operaia russa, meglio,
la composizione che ne ha permesso questo sviluppo.
Che sull'Europa - meglio, sull'euro e l'UE - la politica della Lega, al pari di quella di M5S, abbia subito una profonda svolta nell'ultimo anno è un fatto sotto gli occhi di tutti. Sarà stata la sconfitta di Marine Le Pen in Francia, come pure la scelta di allearsi con Forza Italia, ma sta di fatto che il "Basta euro" ricorda ormai solo una delle tante felpe salviniane del passato.
Ma vediamo cosa ci dice in proposito l'attuale programma leghista, scaricabile QUI.
A pagina 8 si legge che:
«L’Unione Europea è... un gigantesco ente sovranazionale, privo di una vera legittimazione democratica e strutturato attraverso una tentacolare struttura burocratica che detta l’agenda ai nostri Governi anche a scapito della tutela fisica ed economica dei cittadini dei singoli Stati membri».
Insomma, un giudizio fortemente negativo, al quale segue però questo passaggio:
«Noi vogliamo restare all’interno dell’Unione Europea solo a condizione di ridiscutere tutti i Trattati che pongono vincoli all’esercizio della nostra piena e legittima sovranità, tornando di fatto alla Comunità Economia Europea precedente al Trattato di Maastricht».
Come si vede anche Salvini ha deciso di adottare una sua variante della stessa litania altreurista che caratterizza quasi tutte le liste in campo.
Non c’è “qualcosa” di marcio in Italia, come nella Danimarca di Amleto. Marcia è tutta la classe dirigente. Marci sono i mediocri imprenditori che sono diventani miliardari o milionari approfittando della mancanza di regole e del vuoto etico consentiti dal liberismo (la famosa deregulation che i coglioni pensano sia meglio della burocrazia); marci sono i politici dei partiti che da venticinque anni si alternano al potere con il solo scopo di lucrare attraverso la svendita del paese alle multinazionali straniere. Marci sono gli intellettuali e soprattutto i giornalisti, che per un tozzo di pane e qualche promessa (la maggior parte) o osceni stipendi (le grandi firme e le star della televisione) manipolano le coscienze e fanno i cani da guardia ai ricchi e ai furbi.
Il paese sta sprofondando nella crisi: la produzione industriale si è spaventosamente contratta, tanti giovani non trovano lavoro o lo ottengono attraverso raccomandazioni o prostituendosi moralmente, le infrastrutture vanno a pezzi per l’incuria, il saccheggio e la distruzione dell’ambiente continuano, dei servizi pubblici un tempo eccellenti come la sanità e la scuola vengono sistematicamente denigrati e definanziati per favorirne la privatizzazione, la paura e la cattiveria si diffondono socialmente in conseguenza dello sdoganamento del più bieco arrivismo.
La canzone meritoriamente vincitrice del Festival di Sanremo è accompagnata da un videoclip che mostra drammatiche scene di guerra e attentati in un mondo in cui la vita, nonostante ciò, deve andare avanti «perché tutto va oltre le vostre inutili guerre».
Proviamo a sostituire al videoclip un docufilm degli ultimi fatti.
In Europa la Nato sta schierando crescenti forze (comprese quelle italiane) sul fronte orientale contro la Russia, presentata quale minacciosa potenza aggressiva.
Nel quadro di un riarmo nucleare del costo di 1.200 miliardi di dollari, gli Stati uniti si preparano a schierare dal 2020 in Italia, Germania, Belgio e Olanda, e probabilmente anche in Polonia e altri paesi dell’Est, le nuove bombe nucleari B61-12, di cui saranno armati i caccia F-35.
Alle esercitazioni di guerra nucleare partecipa l’Aeronautica italiana, che lo scorso settembre ha inviato un suo team presso il Comando strategico degli Stati uniti.
Gli Usa accusano inoltre la Russia di schierare sul proprio territorio missili a raggio intermedio con base a terra, in violazione del Trattato Inf del 1987, e si preparano a schierare in Europa missili analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta.
Nei giorni che ci hanno accompagnato da Genova a Macerata l’Italia sembra essersi accorta dei suoi viscerali rigurgiti neofascisti, o quantomeno sembra aver avuto la prova concreta che la continua e martellante propaganda razzista (che ha trovato asilo bipartisan sui media nostrani) può effettivamente produrre degenerazioni materiali nella realtà quotidiana. Domani pomeriggio al Nuovo Cinema Palazzo di San Lorenzo, in compagnia di relatori che a diverso titolo lavorano nel mondo del giornalismo e dell’informazione, proveremo a fare una riflessione a voce alta su cosa significa nei fatti sdoganare mediaticamente il neofascismo, ma soprattutto quale funzione politica sottintende questa operazione. Abbiamo avuto modo di ricordare già che a nostro avviso al sistema mediatico e politico attuale non interessa il neofascismo in quanto tale, come esperimento politico. Non è questa la congiuntura storica in cui il governo delle relazioni sociali in Italia passa attraverso lo strumento del fascismo. In un recente approfondimento avevamo precisato come, nonostante le diseguaglianze vadano mano mano ad aumentare, siamo in un periodo di sostanziale pace sociale e la legittimazione del neofascismo, dunque, è più funzionale alla delegittimazione di un certo tipo di antifascismo, quello che non riconosce le fondamenta liberali/liberiste della rappresentanza politica, tanto nazionale quanto europea.
Si tratta di un’iniziativa militare e politica appartenente alla categoria del quod erat demonstrandum. Imputarla a Recep Tayyip Erdoğan in quanto tale sarebbe senza senso, perché chiunque si fosse trovato alla presidenza della Turchia avrebbe fatto lo stesso (non si dimentichi quanto celermente, in termini militari, agì a Cipro il primo ministro turco, il laico Bülent Ecevit, dopo il colpo di stato fascista contro Makarios negli anni ‘70), e con la medesima disinvoltura. Solo un pazzo avrebbe potuto pensare che si sarebbero limitate al campo diplomatico le conseguenze della decisione statunitense di rafforzare le milizie curde nella Siria settentrionale e addirittura di affidare loro il controllo del confine turco-siriano, tanto più essendo collegate col Pkk di Turchia. La mossa degli Usa è stata per la Turchia l’equivalente della virtuale apertura di un secondo fronte coi Curdi. Di qui l’avvio di un’operazione militare cinicamente - o ironicamente - denominata «Ramo d’ulivo».
L’irrisolvibile problema turco
Ritorna in primo piano il problema curdo, nato dalla spartizione dell’Impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale, secondo i voleri di Gran Bretagna e Francia, e dalla vittoria in Anatolia dei nazionalisti turchi di Mustafa Kemal Atatürk. Di conseguenza, i Curdi si trovarono - da sudditi ottomani quali erano (esclusi quelli della Persia) - cittadini poco o per niente amati di Iraq, Siria e ovviamente Turchia.

Il mio
amico Roberto Buffagni ha una ipotesi circa i fatti di
Macerata, nelle Marche, in cui si è consumato un doppio
orrendo fatto di cronaca: alcuni
criminali di origine nigeriana, dediti a quanto sembra a
spaccio di stupefacenti, avrebbero ucciso una povera ragazza
anche essa dedita all’uso,
dunque una cliente, e poi, forse per occultarne il cadavere,
l’avrebbero fatta a pezzi e abbandonata in campagna.
Successivamente un criminale
italiano, a scopo di vendetta razziale, ha sparato su passanti
di colore e si è quindi consegnato, avvolto in un tricolore.
Le indagini non sono concluse, e la dinamica non è completamente confermata, ma in alcune versioni emerge l’ipotesi, sposata da Buffagni nel suo pezzo, che l’omicidio sia stato in qualche modo una forma pervertita e corrotta di secolarizzazione (ovvero di utilizzo a fini economici di riti tradizionali) delle forme religiose tradizionali dell’area di provenienza degli attori. Certo, come sostiene Giorgio Cingolani, professore a contratto dell’università di Macerata ed antropologo, è del tutto prematuro connettere questi pochi fatti a ritualità pervertite o, come dice, a “personalizzazioni del rito ad opera di soggetti specifici”, ed è certamente improprio immaginare che questi fenomeni, dove si danno, siano di massa o “tradizionali”.
Al momento le indagini, quando l’udienza di convalida non si è neppure tenuta, non confermano, né escludono queste ipotesi, ma, come scrive la Repubblica:
La Rete dei Comunisti ha organizzato su questo tema un dibattito pubblico a Roma mercoledi 21 febbraio. Una analisi sulle tendenze in corso nel processo di asimmetria forzata del nostro paese e nelle aree metropolitane
La condizione di degrado che
pervade gli
scenari della parte periferica e maggioritaria del tessuto
metropolitano della città capitale non può essere solo materia
per
statistiche e graduatorie dei centri studi sullo stato delle
città , né può essere ridotta a situazione contingente legata
al
ciclo economico e difficoltà/incapacità gestionali.
Diverse e profonde sono le ragioni dello stato di prostrazione che vive sotto più profili la città, da ricercarsi nella trasformazione degli assetti economico produttivi che ne hanno definito la fisionomia per un’intera fase storica. Uno spostamento del baricentro della struttura portante, intesa come sistema di relazioni sociali, economiche e culturali, da una dimensione pressoché totalmente definita dalla prossimità politica ed istituzionale con la politica nazionale ad una identità “ globale” nello scenario in movimento della costituzione della U.E. Un processo di transizione, dunque, che attraversa l’intero tessuto metropolitano, che riattualizza l’incidenza delle trasformazioni urbane nell’analisi delle varie fasi e di intere epoche, tratteggiando la fisionomia della metropoli funzionale alla rimodulazione del processo di appropriazione privatistica/ accumulazione capitalista
Tentare la sintesi del sostrato di relazioni che ha connotato un intero periodo storico, a sua volta attraversato da radicali trasformazioni, rischia di rivelarsi riduttivo. Tuttavia, il connubio tra gli interessi affaristici della borghesia cittadina e la sfera pubblica, con la funzione di volano dell’intervento economico pubblico nel meccanismo dell’accumulazione (ciclo del mattone), ha indubbiamente svolto un ruolo preminente.
Giovedì 15 febbraio sono usciti i dati definitivi del commercio estero italiano. I livelli sono da record storico, con 448 miliardi di euro di export, +7,4% in valore e +3.1% in volume. Ricordiamo che alla fine del 2016, a seguito dell’elezioni di Trump, il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda presagiva un crollo del mercato mondiale, tesi clamorosamente smentita dai fatti, visto che il commercio mondiale ha avuto il più alto picco degli ultimi quattro anni. Il riposizionamento degli attori economici mondiali si può evincere dal fatto che nel 2017 l’export italiano è cresciuto soprattutto in Cina, +22%, in Russia, + 19,3%, e in Usa +9,7%. A distanza di un ventennio, l’Italia scopre la Cina come mercato di sbocco, segno di miopia della classe dirigente italiana, in particolare imprenditoriale, e il dato è significativo perché per la prima volta il deficit con la Cina si riduce, passando da 16,2 miliardi del 2016 a 14,9 miliardi del 2017.
Altro dato, la Russia è ritornata, nonostante le sanzioni, a cui l’imprenditoria italiana non ha voluto porre un’azione di contrasto e di superamento, segno di pavidità e ottusità italica. Ma è anche clamoroso il dato statunitense: tutti i politici europei e i media prefiguravano per il 2017 un crollo delle esportazioni verso gli Usa, a seguito dei proclami protezionisti idi Trump.
E così, dopo tante piccole bugie e altrettante spudorate menzogne, la narrativa anti-Assad subisce una ferita mortale: gli Stati Uniti hanno ammesso che non hanno nessuna prova che il presidente siriano abbia usato il sarin.
Inizia così un articolo che ho pubblicato per Occhi della guerra (cliccare qui) che dà conto delle sorprendenti affermazioni del ministro della Difesa americano James Mattis, il quale, in una conferenza stampa tenuta il 2 febbraio, ha ammesso che il raid americano di aprile in Siria, conseguente alla strage di Khan Sheikhoun (presso Idlib) causata da un gas tossico, non aveva alcun fondamento.
Allora gli Stati Uniti avevano accusato Assad di aver usato il sarin contro i ribelli, mentre Damasco e Mosca, respingendo tali accuse, spiegavano che l’aviazione siriana aveva colpito un sito dei “ribelli” nel quale era stipato il gas. O che gli stessi ribelli avessero inscenato l’attacco per spingere gli americani a intervenire in loro difesa.
Ma torniamo alla conferenza stampa di Mattis. Alla precisa domanda di un cronista, che gli ha chiesto conferma di quanto il ministro gli aveva confidato in privato, se cioè gli Stati Uniti stessero ancora cercando le prove riguardanti le responsabilità di Assad sull’accaduto, Mattis ha risposto: «Non abbiamo la prova […] stiamo cercando le prove».
Il comunismo è un supermercato senza casse? Evidentemente no, non foss'altro per il fatto che la capitalista Amazon arriva in anticipo. È notizia di questi giorni che «dopo cinque anni di sperimentazione e un anno di ritardo sulla data di apertura prevista, si inaugura oggi il primo punto vendita Amazon Go, al piano terra del quartier generale del gigante dell’e-commerce a Seattle» (La Stampa).
Senza dubbio la domanda posta in esordio è provocatoria, forse rispecchia un comune sentimento nei confronti di una società nuova, vista con gli occhi della precedente, dove la prassi sociale legata al denaro è un dogma. Come tutte le domande che cercano risposte semplici, anche qui, è probabile che la mistificazione non sia nella risposta quanto nella domanda stessa. La questione, più che sulle casse, verte sul supermercato, sullo scambio di merci tramite il quale gli uomini entrano in contatto sociale. Pur ipotizzando soltanto un’equa distribuzione dei prodotti del lavoro, svincolata dal rapporto monetario e magari automatica, resterebbe inalterata l’alienazione nei rapporti sociali mediati nel rapporto tra cose; gli uomini continuerebbero a misurarsi soltanto con ciò che ricevono dal loro lavoro senza per questo entrare in rapporto direttamente sociale nel processo produttivo generale.
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La sfida lanciata da Potere al Popolo va al di là della imminente scadenza elettorale
Un mio recente articolo sulla lista Potere al Popolo ha ispirato una replica del compagno Lorenzo Mortara, sostenitore del cartello elettorale Per una Sinistra Rivoluzionaria.
In apertura del suo scritto, il Mortara definisce infelici i richiami fatti al Fronte Popolare e alle Repubbliche Popolari, in quanto quelle esperienze storiche sono sfociate in sconfitte per la classe lavoratrice.
Il richiamo ai Fronti Popolari e alle Repubbliche Democratiche Popolari aveva il solo scopo di mostrare la non estraneità dei termini popolo o popolare al lessico delle organizzazioni politiche di ispirazione marxista. Il richiamo è al “fatto” (l’uso dell’aggettivo popolare), non agli eventi storici citati, i quali in ogni caso, non possono essere valutati sulla scorta dell’utilizzo di quegli aggettivi.
1. Ci siamo imbattuti in
un'interessante questione storico-politica e, naturalmente,
economica, sollevata in questo scambio
di tweet:
2. Anzitutto per poter porre complessivamente la questione in questi termini (cioè estesi all'ipotesi formulata nella risposta), occorrerebbe che fossero attualmente riconoscibili una serie di presupposti di fatto, politico-economici, di non secondaria importanza, considerata l'attuale situazione italiana (di accentuata e irrinunciabile de-sovranizzazione, persino caldeggiata nella sua ulteriore accentuazione), e cioè:
Dopo
essere
stato a lungo un portato fondamentale della teorie
economiche post-keynesiane,[1]
anche la dottrina mainstream ha di recente
riconosciuto che le banche commerciali non sono
semplici intermediari di moneta
già esistente e accumulata (sotto forma di risparmi), ma creano
moneta attraverso la loro tradizionale attività di
prestito (McLeay et al., 2014), e, più in generale,
ogni qualvolta emettano passività in forma di depositi a
vista.
Ne abbiamo accennato nel nostro recente intervento su Economia e Politica, con il quale abbiamo proposto l’“Approccio Contabile” alla moneta e di seguito al quale vogliamo qui svilupparne alcune implicazioni attinenti più specificamente alla moneta bancaria.
Se una banca non ha necessità di accrescere il suo indebitamento per potere prestare o vendere depositi, essa deve comunque disporre di sufficienti riserve di moneta legale, contante e depositi presso la banca centrale, rispettivamente per garantire le richieste di prelevamento di contante da parte dei depositanti e per regolare le obbligazioni verso le altre banche che derivano dagli ordini di pagamento scaturenti dalla mobilizzazione dei depositi emessi.
A intervalli più o meno regolari, e soprattutto in concomitanza delle elezioni, torna la crociata contro il denaro contante. Una campagna che in genere associa ogni utilizzatore di contante in evasore, quindi in peccatore e artefice primo del declino del paese, del malaffare, della corruzione strisciante. Insomma, chi usa il contante è un mafioso o in procinto di diventarlo. Da trent’anni a questa parte gli schieramenti sono definiti in maniera stabile: da una parte Berlusconi (e quindi Totò Riina, la Ndrangheta, Dell’Utri, le Brigate Rosse e Antonio Razzi), espressione diretta della putrefazione sociale, della cancrena culturale del paese; dall’altra il centrosinistra democratico (emanazione metastorica di Voltaire, Kant, Umberto Eco e Tony Blair), in lotta per abolire l’uso del contante e in favore della completa tracciabilità (bancaria) di ogni pagamento. Da sempre, e in particolare in questi giorni in cui, dopo tanto lamentarsi, le hanno finalmente rimediato un lavoro, la portavoce dell’illuminismo bancario è Milena Gabanelli. Che infatti è tornata sull’argomento secernendo i peggiori cliché sull’uso del contante e sulla necessità di abolirlo.
L’abolizione del contante è un risultato inevitabile, a cui si giungerà di qui a qualche anno (presentato come male dei nostri tempi, oggi il totale delle transazioni mondiali in contante e assegni è del 15%; il resto avviene tramite banca).
Riceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione
Premesso che si verifica fin dagli anni ’70, come alla fine degli anni ’20, il fenomeno della sovrapproduzione, va sottolineata la crisi del regime U.S.A. in via, ormai, di irreversibile declino.
Lo splendore del regime U.S.A. (Reagan) è comparso, ed è poi svanito, dopo avere aggravato le contraddizioni che erano alla base della precedente crisi spia (Arrighi). Per esempio, come utilizzare la forte liquidità U.S.A. dopo il ’45.
Per essere precisi, questa crisi U.S.A. si verificò tra il 1968 ed il 1973 (Vietnam etc.). Nel 1973 il governo U.S.A. si era ormai ritirato su tutti i fronti. Come anni prima era accaduto all’impero inglese. Per esempio, per il resto degli anni ’70, le strategie (non le tattiche) U.S.A. furono caratterizzate da un sostanziale disinteresse per le funzioni di governo del mondo. Ciò destabilizzò quel che rimaneva dell’ordine mondiale del secondo dopoguerra (Bretton Woods) e un rapido declino del prestigio degli U.S.A. con la rivoluzione in Iran e la crisi degli ostaggi dell’80.
Io ero e resto convinto che nei primissimi anni Novanta Willy Huber, che allora dirigeva l’ospedale di Save the Children a Mogadiscio, in Somalia, mi abbia salvato la vita. In più, ho avuto decine di contatti, e in qualche caso rapporti profondi, con esponenti di Ong in varie parti del mondo. Figuriamoci quindi se posso avere una posizione preconcetta nei confronti del cosiddetto “volontariato”.
Però una crisi è una crisi. E quella attuale è assai profonda, e non riguarda solo i colossi travolti dallo scandalo come Oxfam o quelli che si stanno autodenunciando perché avevano già preso provvedimenti e non vogliono finire nel tritacarne come Save the Children o Medici senza Frontiere. Tanto profonda che la Charity Commission, l’ente che per conto del governo inglese sorveglia le Ong, denuncia di ricevere ogni anno oltre mille segnalazioni di abusi sessuali, che riguardano organizzazioni grandi, piccole e minuscole. Ed è chiaro che il cittadino di buona volontà, il cittadino-donatore ma anche il cittadino che paga le tasse e vede il proprio governo affidare decine di milioni alle Ong, fa in fretta a farsi una domanda: se questi, ad Haiti o altrove, usavano l’organizzazione come sede per le orge, chissà che fine facevano i miei soldi.
Sette anni di destabilizzazione della Siria hanno condotto ad un risultato certo. Il regime di Assad non solo non è stato abbattuto ma adesso ha anche a disposizione i mezzi per contrastare Israele in quello che era il suo punto di forza, cioè il controllo dello spazio aereo. I missili contraerei di ultima generazione S-400 che la Russia ha fornito alla Siria hanno confermato l’efficacia che gli osservatori gli attribuivano.
Se lo scopo della destabilizzazione della Siria era di eliminare un potenziale avversario di Israele, è stato ottenuto il risultato opposto. Il governo israeliano ha giustificato la sua invasione dello spazio aereo siriano con la necessità di inseguire un drone iraniano che sarebbe sconfinato sul proprio territorio. In realtà in questi anni il sostegno israeliano ai miliziani islamici di Al-Nusra è stato documentato anche da osservatori ONU.
Anche l’aver tirato in ballo l’Iran non ha portato fortuna al governo israeliano. I rapporti diplomatici tra Russia e Israele negli ultimi anni erano sempre stati abbastanza buoni, ma il tentativo israeliano di accusare l’Iran ha costretto la Russia a prendere posizione a favore dell’alleato iraniano. La Russia del resto non ha molto da scegliere, visto che il tentativo euro-americano di isolarla e di eroderne i confini, la costringe a tenersi ben stretti gli alleati che ha.

“Liberi e
Uguali non sta riuscendo in quello che si era esplicitamente
proposto, cioè
chiamare a raccolta quel ‘popolo di sinistra’ che sempre più
numeroso ha abbandonato il Pd”. Da un gruppo di
intellettuali un
appello affinché LeU dia un forte segnale di discontinuità
con il passato, soprattutto rispetto all'accettazione delle
idee del
neoliberismo e all'adesione al Trattato di Maastricht e agli
accordi che ne sono seguiti.
* * * *
Negli ultimi quarant’anni la scienza e la tecnologia hanno fatto progressi inimmaginabili e la ricchezza del mondo è aumentata, tanto nei paesi che avevano un minor livello di sviluppo che in quelli di più antica industrializzazione. In questi ultimi, però, la maggiore ricchezza generata è andata quasi esclusivamente nelle mani di un piccolo numero di persone, invertendo la tendenza a una più equa distribuzione che si era verificata a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Non si è trattato di una fatalità o di un fenomeno impossibile da controllare: è stato il frutto dell’ideologia economico-politica che ha conquistato l’egemonia dagli anni ’80 del secolo scorso.
Da questa ideologia si sono lasciati conquistare anche i partiti della sinistra storica, tanto da essere in molti casi protagonisti, come forze di governo, delle politiche che da essa venivano dettate.
Il paternalismo classista di Cazzullo, Battista e Polito(senza contare Crepet, Galimberti e Serra)
Nel giro
di nemmeno un mese sono stati pubblicati tre libri di tre
editorialisti del Corriere della sera sulla loro esperienza di
padri che si dichiarano
incapaci di capire la generazione dei figli ma che comunque
s’industriano per dare soluzioni a quella che loro stessi
definiscono
l’emergenza educativa. Antonio Polito (1956) per Marsilio ha
scritto Riprendiamoci i nostri figli. La solitudine dei
padri e la generazione
senza eredità; Pierluigi Battista (1955) per Mondadori
ha scritto A proposito di Marta (Marta è sua figlia
25enne); Aldo
Cazzullo (1966) sempre per Mondadori a quattro mani con i
figli adolescenti Rosanna e Francesco Maletto Cazzullo ha
scritto Metti via quel
cellulare. Un papà. Due figli. Una rivoluzione. A questi
si può accostare l’uscita nei cinema degli Sdraiati,
il film
di Francesco Piccolo e Francesca Archibugi che è un
adattamento dal romanzo di Michele Serra, diventato il modello
di questo che è
quasi-genere.
I libri di Cazzullo, Polito e Battista hanno in comune molte idee. La prima che potessero scrivere comodamente con il “noi”, ossia che il loro osservatorio personale – quello di genitori maschi, benestanti, intellettuali, tra i cinquanta e i sessanta, con figli che hanno fatto o stanno facendo un liceo del centro di Roma o Milano – sia un osservatorio privilegiato per discutere del tema educativo, e che quindi le loro impressioni e persino i loro aneddoti siano rappresentativi della realtà sociale italiana. La seconda è che sia opportuno scrivere un libro in qualche modo intimo sui propri figli, chiamandoli per nome e cognome, citando loro episodi familiari o addirittura chiamandoli a scrivere a quattro mani come fa Cazzullo.
In piena campagna elettorale, i principali partiti hanno tacitamente accettato gli ulteriori impegni assunti dal governo nell’incontro dei 29 ministri Nato della Difesa (per l’Italia Roberta Pinotti), il 14-15 febbraio a Bruxelles
C’è un partito che, anche se non compare, partecipa di fatto alle elezioni italiane: il Nato Party, formato da una maggioranza trasversale che sostiene esplicitamente o con tacito assenso l’appartenenza dell’Italia alla Grande Alleanza sotto comando Usa.
Ciò spiega perché, in piena campagna elettorale, i principali partiti hanno tacitamente accettato gli ulteriori impegni assunti dal governo nell’incontro dei 29 ministri Nato della Difesa (per l’Italia Roberta Pinotti), il 14-15 febbraio a Bruxelles. I ministri hanno prima partecipato al Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, presieduto dagli Stati uniti, le cui decisioni sono sempre top secret. Quindi, riunitisi come Consiglio Nord Atlantico, i ministri hanno annunciato, dopo appena due ore, importanti decisioni (già prese in altra sede) per «modernizzare la struttura di comando della Nato, spina dorsale della Alleanza».
Viene stabilito un nuovo Comando congiunto per l’Atlantico, situato probabilmente negli Stati uniti, allo scopo di «proteggere le linee marittime di comunicazione tra Nord America ed Europa».
Pare una vera apocalisse di zombie. Batteri che pensavamo di aver dominato sono di nuovo in marcia, sconfiggendo quasi tutti i tentativi di annientarli. Avendo infranto i muri esterni hanno raggiunto le nostre ultime linee di difesa. La resistenza agli antibiotici è la più grande minaccia alla salute umana
Infezioni un tempo facili da domare oggi minacciano le nostre vite. Medici avvertono che procedure di routine, quali tagli cesarei, sostituzioni del femore e chemioterapia potrebbero un giorno diventare impossibili a causa del rischio di esporre i pazienti a infezioni letali. Già nella sola Unione Europea 25.000 persone sono uccise ogni anno da batteri resistenti agli antibiotici .
Tuttavia le nostre ultime difese – i rari farmaci cui i batteri non sono ancora diventati immuni – sono sperperati con allegro trasporto. Anche se la maggior parte dei medici cerca di usarli con precisione e parsimonia, alcuni allevamenti di bestiame ci sguazzano. Li aggiungono al cibo e all’acqua forniti a interi branchi di bovini, maiali o polli; non per curare malattie, ma per prevenirle.
O neppure ciò. Negli anni ’50 gli allevatori scoprirono che piccole quantità di antibiotici aggiunti agli alimenti facevano crescere più velocemente gli animali.
A chi transita in questi giorni nelle principali stazioni ferroviarie, non sarà sfuggita la trovata pubblicitaria del Centro Studi Bruno Leoni, think tank iper-liberista: il debitometro, che calcola in tempo reale l’aumento del debito pubblico italiano. Come un’enorme Grande Fratello, tra la marca di un profumo e la proposta di un viaggio esotico, il debitometro compare per ricordare a tutti la trappola dentro la quale va rinchiuso ogni desiderio di una vita più dignitosa.
La trovata è interessante perché esprime appieno le contraddizioni del capitalismo, che, dopo neppure tre decenni dalla “fine della storia”, non può più proporsi come un orizzonte generalizzato di benessere e, su questo, costruire un altrettanto generalizzato consenso; al contrario, può giocare la propria sopravvivenza solo sull’espropriazione feroce dei diritti delle persone, dei beni comuni e della democrazia.
È così che, sui grandi schermi delle stazioni, il messaggio che viene presentato passa, nell’arco di pochi secondi, dall’immagine etico-morale dell’”uomo colpevole del debito”, perché non lavoriamo abbastanza, andiamo in pensione troppo presto, sperperiamo e viviamo costantemente al di sopra delle nostre possibilità; a quella dell’”uomo innocente e spensierato del consumo” che merita di possedere ciascuna delle merci paradisiache che sfilano sullo schermo.
Questo articolo non affronta nessuna questione d’attualità stretta, ma questioni di ciclo storico che si misurano col metro della lunga durata
Consapevoli o meno, noi pensiamo
entro i
limiti di un determinato sistema di pensiero[1]. I sistemi di
pensiero hanno diversi obblighi, quattro principali: 1)
debbono tener fissi una serie di presupposti ed al limite
muovere tutto il resto che li
compone; 2) debbono mantenere una coerenza interna anche
approssimata, di modo da non produrre troppe contraddizioni o
troppo gravi o troppo a lungo;
3) sebbene ognuno di noi abbia il suo sistema di pensiero,
questo è in genere una variante o un personale assemblaggio di
sistemi impersonali
condivisi da più individui. Credenze, religioni, ideologie,
culture sono appunto sistemi impersonali condivisi; 4) i
sistemi di pensiero
debbono in qualche modo riferirsi al “fuori di noi”, realtà o
mondo che dir si voglia. Riferirsi significa che il sistema di
pensiero aiuta a categorizzare, giudicare, collegare,
archiviare fatti, nella sua funzione passiva, significa
pensare, progettare ed ordinare
l’azione nel mondo, nella sua funzione attiva. Al decisivo
cambiamento dei tempi, della realtà e del mondo umano,
consegue un radicale
cambiamento nei sistemi di pensiero. Il termine “radicale” qui
significa che cambiano i presupposti ed a cascata l’intero
sistema.
Quelli che abbiamo chiamato “presupposti” possiamo anche dirli “principi”. Qual è il principio che ha ordinato il sistema di pensiero moderno, sin dalla sua prima formazione cinque secoli fa[2]? Non sembra esserci un termine-sintesi efficace da poter opporre in risposta alla domanda. Il più accettato nel mondo dello studio è il termine “disincanto” proposto da M. Weber[3].
Con
la tecnologia, contro la retorica
Vorrei chiarirlo subito, non sono contro la tecnologia. Sono innamorato della tecnologia, da sempre. Sono contro la retorica, contro lo spettacolino di son et lumière che le hanno allestito intorno i banalizzatori della «distruzione creatrice», contro i pubblicitari che hanno tirato a lucido gli slogan e i giornalisti che si sono precipitati a testimoniare nella causa di beatificazione, contro i lobbisti che ne hanno venduto una rispettabilità istituzionale e i politici che l’hanno comprata senza fare una piega. In buona sostanza è la lunga denuncia di una pericolosa impostura linguistica, quella che sta provando a farci credere che «sharing economy» si traduca davvero con «economia della condivisione», con tutto il bene che ne deriverebbe. Un nuovo capitalismo, quello delle piattaforme, tanto generoso e altruista quanto il vecchio, che abbiamo conosciuto fino a oggi, era spietato ed egoista. La sharing economy invece, sotto i brillantini della narrazione prevalente, presenta solo vantaggi. Economicamente efficiente. Ambientalmente rispettosa. Socialmente giusta. Chi la critica dunque non può che essere una brutta persona. Peccato che, a dispetto dei termini, piú che condividere, la gig economy – cominciamo a chiamare le cose per quel che sono: economia dei lavoretti – concentri il grosso dei guadagni nelle mani di pochi, lasciando alle moltitudini di chi li svolge giusto le briciole. Share the scraps economy, l’ha ribattezzata Robert Reich.
«Attraverso la piccola porta», un saggio di Massimiliano Tomba pubblicato per Mimesis
Si intitola Attraverso la piccola porta (Mimesis, pp. 114, euro 14) il volume che Massimiliano Tomba dedica a Walter Benjamin, presenza cruciale nella filosofia del ’900; il pensiero del filosofo berlinese è l’unica vera alternativa a Heidegger. Partendo da questa chiara posizione, Tomba rilegge i temi decisivi di Benjamin, primo fra tutti l’opposizione fra giustizia e diritto, a partire dal saggio Per la critica della violenza. Nonostante la neutralità che esibisce nelle democrazie rappresentative, il diritto non cancella, ma codifica la violenza fondatrice dello Stato e i rapporti di potere che ne conseguono.
L’uguaglianza statuita dal diritto è solo formale, è una riduzione passiva delle insorgenze egualitarie; riconosciuta come principio, essa non è realizzata. È il caso del lavoro salariato: oggetto di un contratto i cui contraenti sono uguali in astratto e in realtà divisi da un rapporto di sfruttamento.
CONNESSA ALLA CRITICA del diritto è quella alla democrazia parlamentare, in cui il rappresentante agisce in nome di un Popolo-Uno, che è invece diviso in classi e interessi in conflitto ed è un fantasma prodotto dalla rappresentanza stessa, con cui essa cerca di legittimarsi.
Dei quattordici ragazzi e tre insegnanti ammazzati in Florida non gliene importa assolutamente niente a nessuno, nessuno ne parla e i pochi giornalisti che tornano a fare inchieste e polemiche sui fucili a ripetizione in vendita senza controlli nei supermercati suscitano solo fastidio. E questo benché quei ragazzi fossero quasi tutti bianchi. Non illudetevi dunque che l’indifferenza per le stragi in Iraq o nel Mediterraneo sia questione di razzismo; no, è questione di assuefazione, i media hanno lavorato bene, era inevitabile che si arrivasse alla saturazione, all’apatia. A quei quattordici ragazzi dovrà bastare il fiocchetto nero sulla pagina di Google, immagino fino a domani, ormai se le vittime non sono almeno un centinaio nelle breaking news ci restano un paio d’ore, a maggior ragione adesso che ci sono le Olimpiadi invernali, che già avevano fatto dimenticare alla gente il panico da terza guerra mondiale che la aveva angosciata fino a qualche settimana fa; a Coca Cola, Samsung, Visa, McDonald’s, North Face, mica piaceva che la Corea piuttosto che ai loro prodotti facesse pensare ai missili di Kim Jong-un e di Trump.
Se, per l’ennesima volta, torniamo sul baratro che separa la percezione mediatica dalla realtà materiale riguardo al neofascismo, non è per l’ultima trovata elettorale di Casapound: organizzare una marcia per la sicurezza delle donne che picchia alcune donne presenti in piazza Vittorio. Vorremmo invece ragionare sui numeri e sulla composizione della manifestazione di Casapound, perché aiuta molto nel decifrare il problema dello sdoganamento mediatico del neofascismo. Siamo in campagna elettorale, elezioni a cui, almeno a leggere farneticanti proclami futuristi, Casapound punta molto dopo il presunto exploit di Ostia (in realtà a Ostia le elezioni, per Cpi, si sono risolte in un mezzo fallimento – solo un consigliere eletto nel deserto politico e della partecipazione al voto – e a livello nazionale viene accreditata dello 0,6% dei voti). Bene, nel vortice della campagna elettorale, sulla scia della questione sicurezza agitata da destra a sinistra, e in seguito al presunto stupro di una senza tetto ad opera di un migrante, Casapound convoca una manifestazione pubblica.
La pubblicizza in ogni luogo mediatico, sui social network, nonché attacchinando manifesti per piazza Vittorio. Alla manifestazione partecipano trenta persone. Non solo. Le trenta persone sono le solite trenta facce che Casapound mobilita da quindici anni a questa parte, la famiglia a cui Cpi ha trovato nel tempo casa e lavoro.
Nelle ultime settimane si è inasprita la guerra per procura che Russia e Stati Uniti combattono in Siria dal 2011: raid americani contro l’esercito siriano si erano già registrati in passato, ma il 7 febbraio sono finiti nel mirino anche “mercenaria russi”, impegnati nell’attraversamento del fiume Eufrate. Nel frattempo si moltiplicano le accuse rivolte a Damasco di usare armi chimiche, prodromo di nuovi possibili attacchi aerei, e l’abbattimento del jet israeliano, il 10 febbraio, testimonia il crescente coinvolgimento di Tel Aviv nel conflitto. Il fallimento strategico della destabilizzazione di Siria ed Iraq ha rafforzato l’influenza iraniana e russa sulla regione, alienando allo stesso tempo la Turchia dalla NATO: ne deriva un crescente coinvolgimento diretto di USA e Israele, coinvolgimento disperato e potenzialmente esplosivo.
Bombardare i russi sull’Eufrate: l’epilogo della disastrosa strategia USA
Risale allo scorso giugno il nostro ultimo articolo sul conflitto siriano, dall’emblematico titolo “Gli USA stanno perdendo la guerra in Siria: ed ora?”: al suo interno, commentando l’abbattimento del Su-22 siriano da parte dell’aviazione americana ed il dispiegamento di missili balistici tattici nella base americana di Al-Tanf, evidenziavamo come la guerra per procura combattuta da Russia ed USA si stesse pericolosamente indirizzando verso un scontro diretto tra le due potenze.
Come avviene la
determinazione del valore in
una società nella quale vige il modo di produzione
capitalistico? In che modo si genera il valore di una merce
e quale tipo di conseguenze
economiche, sociali, ecologiche questo processo di
produzione porta con sé? In particolare, come si ritiene
possibile salvare
l’ecosistema dal disastro ecologico senza tenere conto del
problema della determinazione della struttura del valore? Si
tratta di questioni che,
nel drammatico crogiuolo della crisi economica, attraversano
trasversalmente le dinamiche della ristrutturazione
economica e quelle della crisi
ambientale. Eppure, la quasi totalità delle analisi degli
economisti di parte neoliberista che si confrontano col
disastro ambientale eludono
il problema relativo all’impossibilità di una razionalità
economica che si faccia carico delle esternalità
ambientali e, anzi, continuano a ritenere possibile non solo
salvare il pianeta dalla catastrofe ecologica, cosa di per
sé auspicabile, ma, per
di più, trarre nuove occasioni per un’ulteriore
accumulazione di profitto, coniugandolo magari, che ingenui,
con il bene
sociale.
Un approccio di questo tipo, per esempio, è rintracciabile in un recente contributo di Edmund S. Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, e direttore del Center on Capitalism and Society della Columbia University, pubblicato su «Il Sole 24 Ore» di domenica 14 gennaio 2018 e intitolato Salvare l’ambiente e salvare l’economia.
Guido Candela – Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, Elèuthera 2017, pp. 224, € 16,00
Nei
primi giorni di febbraio, Wall Street (quella che potremmo
definire ancora come la Borsa di riferimento a livello
mondiale) ha perso in
sole due sedute 1.700 punti. Nella prima seduta la Borsa è
arrivata a perdere il 6 per cento e 1.500 punti in pochi
minuti, in quello che,
secondo gli esperti di Market Watch, potrebbe essere il
peggior calo giornaliero di sempre per la Borsa americana.
In un periodo di apparente tranquillità e crescita del mercato azionario, ma sostanzialmente turbolento in termini di investimenti e speculazioni, ciò potrebbe costituire un effetto non del tutto imprevisto e non così catastrofico.
Quello che colpisce, però, in questo caso è l’unanimità con cui tutti i commentatori economici, gli analisti finanziari ed esperti di vario genere, hanno messo al primo posto tra le cause dell’improvvisa caduta degli indici di borsa e dei valori azionari l’inflazione salariale risalita ai massimi da gennaio 2014, seguita dal timore di una nuova stretta della Fed sui tassi di interesse a marzo. Inflazione salariale ovvero aumento, spesso ancora soltanto previsto, dei salari.
Uno strano paradosso in base al quale se l’economia “va bene” il mercato azionario scende. Secondo Josh Barro: “Siccome l’economia sta migliorando e le imprese si stanno espandendo, la maggiore capacità produttiva porterà a un taglio dei prezzi per mantenere i propri clienti. E come conseguenza si dovranno pagare ai lavoratori salari più alti per gestire questa maggiore produzione.
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Autori vari*: Controvento. Contributi per la rinascita della Sinistra. Il patriottismo costituzionale, editore Imprimatur, pp. 192, prezzo € 15,00
Presso la casa editrice Imprimatur è uscito Controvento, un volume che raccoglie, con una introduzione di Stefano Fassina, sette saggi per un rinnovamento programmatico della sinistra a sinistra del PD. I saggi, presentati a un convegno a settembre 2017, sono di Michele Prospero, Massimo D’Angelillo & Leonardo Paggi, Geminello Preterossi, Grazia Francescato, Sergio Cesaratto, Massimo D’Antoni, Antonella Stirati.
Fassina apre la sua introduzione affermando la previa necessità, per una proposta politica all’altezza della fase attuale, di “un’analisi seria delle discontinuità a scala globale; il riconoscimento delle correnti fondative e strutturali dell’Unione europea e dell’Eurozona; la lettura condivisa delle ragioni di fondo della deriva italiana; uno sguardo lucido e coraggioso al trentennio alle nostre spalle”. E prosegue sollevando una questione centrale: come mai elettoralmente la sinistra storica stia andando male dovunque e la destra, in Italia come in USA, ottenga voti operai. Fassina dà la sua risposta: le fasce meno ricche della popolazione, la base tradizionale della sinistra, “sono state abbandonate da chi avrebbe dovuto difenderle”. Risposta ovvia, direi, che non aiuta se non la si completa con un’analisi del perché.
Gli ultimi sondaggi non sono favorevoli ai partiti di sinistra. Valgono quel che valgono, ma spesso azzeccano l’ordine di grandezza e soprattutto le tendenze. Quella di Potere al popolo sembra favorevole, ma tutte le indagini lo vedono lontano dalla soglia del 3%, quella necessaria per poter entrare in Parlamento. La tendenza di Liberi e uguali è invece negativa, e se un mese fa qualche istituto lo dava sopra al 7%, adesso più d’uno lo stima sotto al 6. La scommessa del partito di Pietro Grasso e Pier Luigi Bersani era di ridare una casa agli elettori della sinistra riformista che – considerando il Pd ormai geneticamente mutato – in parte si erano rivolti ad altri, ma in parte ancora maggiore non andavano più a votare, per mancanza di un soggetto che li rappresentasse. Ebbene, i sondaggi dicono che LeU questa scommessa la sta perdendo.
Eppure il programma che propone dovrebbe essere abbastanza soddisfacente per chi si pone in un’ottica di sinistra moderata. Possibile che questo andamento negativo si debba attribuire solo alla scarsa attrattività mediatica del leader Pietro Grasso? Difficile da credere. Chi ricorda le performance televisive di Romano Prodi non può non concluderne che – al confronto – Grasso appare addirittura brillante. Eppure Prodi riuscì a battere per ben due volte il Grande Imbonitore Berlusconi, che in tv faceva faville.
Un leader calato dall’alto, i territori penalizzati dalle candidature. Sono i limiti di LeU. Con l’avvicinarsi del 4 marzo bisogna concentrarsi sui contenuti della battaglia. La scuola che abbiamo conosciuto è sotto attacco. Anziché spingere sulla formazione culturale, il governo la riduce a un apprendistato utile alle imprese
Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie.
Non siamo contenti di come il nostro campo politico è arrivato all’appuntamento elettorale del prossimo 4 di marzo.
Un anno perduto appresso alle oscillazioni quotidiane di Giuliano Pisapia, quando pure appariva evidente l’inconsistenza del tentativo e l’inadeguatezza del suo proponente.
Poi, al momento della configurazione di un nuovo organismo politico, con la nascita di Liberi e Uguali, il prevalere di logiche spartitorie e pattizie che hanno emarginato i protagonisti del Brancaccio e dunque una vasta area di movimenti e di giovani.
E l’incoronazione dall’alto, come il deus ex machina delle tragedie antiche, di una persona esterna alla storia politica delle formazioni che si fondevano.
Niamey, febbraio 018. Si contano a centinaia le morti chiamate‘bianche’ solo perché non sono rivendicate. Fanno vergogna a chi le pedina e conta. Eppure si tratta di crimini di pace, come aveva affermato Franco Basaglia nell’omonimo libro che denunciava la pazzia da esclusione. I crimini di pace sono il frutto del sistema violento e perverso che li produce e li esporta. Nel Sahel ne sappiamo qualcosa grazie alle nostre frontiere coloniali. Il problema è che non sembrano neppure crimini ma opere di bene umanitario. La sola differenza coi criminidi guerra è perchè questi ultimi occupano lo spazio mediatico che li fa esistere agli occhi. I crimini di pace mettono insieme misure di contenimento, progetti di sviluppo e reti metalliche spinate quando occorre.
Alla radice di questi crimini si trova l’invisibilità che sola può garantire la riuscita dell’operazione. La prima di queste si trova nel grembo materno che dell’assoluta povertà è il simbolo più eloquente. L’attentato originario si riproduce poi in molte altre forme. Chi non ha modo di difendersi, nel sistema neoliberale che solo valuta le merci, sarà un oggetto tra gli altri, a volte vendibile come gli uteri. E’in tempo di pace che questo occorre e si insinua poi, come un virus, negli altri organi della democrazia selettiva.

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Di tutti i bagagli l’uomo è il più
difficile da trasportare.
Adam Smith
Nel suo lungo articolo dedicato ai fatti di Macerata1 e intitolato “Letture sul dramma di Macerata - Lo scontro delle secolarizzazioni”, Alessandro Visalli si riferisce in chiave critica ai commenti di Eros Barone e di Mario Galati, che, essendo accomunati da un’ottica marxista-leninista fondata sulla priorità ontologico-sociale (non dell’economico, come egli afferma scorrettamente, ma) dei rapporti di produzione, risulterebbero, a suo giudizio, “schematici” e “tradizionali”.
1. Alcune considerazioni di metodo
Sennonché, prima di entrare nel merito di alcune importanti questioni trattate da Visalli, ritengo opportuno premettere le seguenti considerazioni generali e di metodo. Orbene, è un classico ‘topos’ della cultura borghese, del quale anche lui è pienamente tributario, distinguere tra un marxismo ‘critico’ ed ‘aperto’ e un marxismo ‘dogmatico’ e ‘chiuso’. Un buon numero di marxisti, che io definirei ‘a mezzo servizio’, hanno assunto e fatto propria questa distinzione senza basarla sui propri princìpi, cioè ridefinendola, bensì mutuandone tutto il contenuto ideologico di origine: ciò è avvenuto non solo in Occidente, ma anche negli stessi paesi socialisti, quantunque lì la ricezione del ‘topos’ sia avvenuta ‘a posteriori’, cioè per opporre il nuovo ‘Diamat’ al vecchio ‘Diamat’.
1. «Una delle differenze
fondamentali tra la rivoluzione borghese e la rivoluzione
socialista consiste nel fatto che per la
rivoluzione borghese, che nasce dal feudalesimo, in seno al
vecchio regime si creano progressivamente delle nuove
organizzazioni economiche, le quali
trasformano gradualmente tutti i lati della società feudale.
La rivoluzione borghese aveva avanti a sé un compito solo:
spezzare,
gettare via, distruggere tutte le catene della vecchia
società. Assolvendo questo compito, ogni rivoluzione
borghese fa tutto quel che le
è richiesto: essa stimola lo sviluppo del capitalismo. La
rivoluzione si trova in una situazione del tutto diversa.
Quanto più è
arretrato il paese nel quale, in virtù degli zig-zag della
storia, ha dovuto incominciare la rivoluzione socialista,
tanto più per essa
è difficile passare dai vecchi rapporti capitalistici ai
rapporti socialisti. Ai compiti della distruzione si
aggiungono qui nuovi compiti, di
difficoltà inaudita, i compiti di organizzazione»1. Questo passo
di Lenin, tratto da un rapporto tenuto
il 7 marzo del 1918 al VII Congresso del PC(b), rappresenta, a
mio avviso, un buon punto di partenza per alcune riflessioni
su un tema, quello della
“transizione”, tanto “inattuale” quanto, in realtà,
istruttivo.
Seppur racchiusa in poche righe (ma, in realtà, si tratta di un tema che, o sotto la specie dell’alternativa “collettivizzazione/NEP” o sotto la specie dell’alternativa “socialismo in un solo paese/rivoluzione permanente” accompagnerà tutto il dibattito all’interno del partito russo fino alla svolta del ’28 e alla definitiva presa del potere da parte di Stalin), l’analisi di Lenin, in cui è possibile avvertire l’eco della drammaticità e dell’urgenza dei compiti che il gruppo dirigente bolscevico si trovò a fronteggiare all’indomani della Rivoluzione, presenta, infatti, i tratti di una specifica idea di “transizione” il confronto con la quale porta alla luce una pluralità di significati del termine, apparentati per alcuni aspetti, ma distinti sotto altri profili.
Nel libro e nel film La scelta di Sophie la protagonista si trova di fronte a un dissidio straziante. Mentre è rinchiusa in un campo di concentramento, un ufficiale nazista le chiede quale dei due figli vuole sacrificare per la camera a gas: nel caso non scelga entrambi verranno uccisi. Lei sceglie il figlio più piccolo, e si porterà ovviamente dentro un dolore e un senso di colpo lancinante con cui finirà per suicidarsi. La scelta impossibile di Sophie viene citata decine di volte da Slavoj Žižek quando deve discutere di alternative politiche. Per esempio con il referendum in Grecia, quando occorreva scegliere tra l’incognita disastrosa di un uscita dall’euro e l’intervento della Troika che avrebbe confiscato il governo, ossia tra l’eventualità di un massacro sociale e l’illusione che quel massacro sociale non ci sarebbe stato (come invece è accaduto, l’ultimo numero di Internazionale lo documenta in modo atroce). Tsipras aveva davanti un bivio simile a Sophie. E sembrava avere a disposizione soltanto le logiche utilitariste di un John Stuart Mill o di un John Rawls: quale sarebbe stato il meno peggio? Come per Sophie: quale sarebbe stata la scelta meno peggio? Lei sacrifica il figlio minore perché lo ritiene meno consapevole; proprio come nell’utilitarismo, il calcolo è: il minore dolore possibile.
Quando gli comunico questa mia intenzione di voto a Potere al Popolo, il direttore di una prestigiosa e antica rivista di politica e società dice con leggera ironia: un voto raro, e le cose rare sono preziose. Un altro amico, che fu nel tempo anche segretario di un partito di sinistra in una grande città del Nord, afferma che il poblema in queste elezioni è di raggiungere una massa critica che apra lo spazio per un partito di sinistra largo e in grado di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, quindi voterà Liberi e Uguali, seppure non gli piacciano troppo nè Grasso nè D’Alema. Tra gli amici c’è anche chi voterà per la coalizione a guida PD, in particolare Insieme, sulla base del fatto che l’ipotesi dell’Ulivo non solo è ancora viva, ma va rilanciata essendo Prodi l’unico che in campo aperto ha battuto la destra. Non poteva mancare il militante di vecchia data, molto impegnato nel sindacato e sul fronte sociale, per anni iscritto a Rifondazione, che voterà il Movimento Cinque Stelle, perchè “è l’unico modo per fare saltare questo banco dove le carte sono tutte truccate”, e poco importa se quando chiede di entrare a pieno titolo nel movimento, l’iscrizione gli viene rifiutata.
Credo che l’impostura e la menzogna abbiano un limite di credibilità oltre il quale possono vivere solo grazie alla coglioneria o la malafede di chi dà loro credito o finge di farlo per interesse o per quieto vivere. Non si spiega infatti come sia possibile che alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, appena terminata, sia uscita fuori una tesi di fondo che è un grottesco insieme di disonestà, pretestuosità e idiozia, che non sta in piedi da nessuna parte e che sembra fatto apposta per giustificare l’oscuro presente o al fine di precostruire un alibi per un tragico futuro. Secondo i ben pagati cretini che formano la rete di mutuo soccorso dei ricchi, “l’ Occidente si sente assediato, sfidato, destabilizzato. E i colpevoli prendono il nome: Russia e Cina, questi due poteri “revisionisti” che sfidano l’ordine mondiale liberale e seminano il dissenso negli Stati Uniti e in Europa.” E che quindi ” la vecchia lotta tra democrazie e regimi autoritari è tornata” .
Non c’è alcun dubbio che questa rappresentazione bislacca e di carattere chiaramente infantile abbia il preciso scopo di prendere il senso di insicurezza e l’instabilità provocate dalla marcescenza del sistema neoliberista per traspotarle all’esterno, in un altrove dove può essere fatto deflagrare con relativa sicurezza per le elite oligarchiche. E così ci troviamo di fronte all’immagine dei barbari alle porte che oltretutto lavora negli oscuri e arcaici recessi della psiche.
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“Il concetto di natura in Marx” di Alfred Schmidt rappresenta uno dei classici della seconda generazione marxista della Scuola di Francoforte. Si tratta infatti di un libro che ha segnato profondamente lo sviluppo del dibattito degli anni '60 e '70 e che ha ottenuto un'ampia ricezione, in Italia anche grazie all'opera di Lucio Colletti. Ora ritorna in libreria per i tipi di Punto Rosso e grazie alla cura di Riccardo Bellofiore, della cui introduzione al testo di Schmidt pubblichiamo qui, per gentile concessione dell'editore e dell'autore, un ampio estratto
Alfred Schmidt è stato uno degli ultimi eredi
della tradizione della Scuola di Francoforte di Adorno e
Horkheimer, negli anni in cui si
può dire che ancora si producesse ‘alta teoria’ nel solco
dell’Istituto per la ricerca sociale, e che lì fosse ancora
vivo ed organico un rapporto interno con la teoria di Marx,
fuori da ogni sterile ortodossia e distante dagli stilemi del
marxismo-leninismo. Il
lettore italiano – in specie chi, come me, si è formato tra la
fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento
– ha
avuto la fortuna che quasi tutto di Schmidt fosse allora
tradotto nella nostra lingua, per così dire in tempo reale.
Schmidt, almeno il primo
Schmidt, può essere dunque letto nella nostra lingua,
rivolgendosi però alle biblioteche, perché la gran parte degli
scritti che
citerò sono fuori stampa. Per questo è benvenuta l’iniziativa
delle Edizioni Punto Rosso di ripubblicare il suo libro forse
più noto, Il concetto di natura in Marx, integrato
da nuovi materiali.
Sul concetto di natura in Marx
Al cuore dell’impostazione del volume sta essenzialmente una duplice prospettiva, che dà corpo e sangue al materialismo di Schmidt: per un verso, una lettura del rapporto tra essere umano e natura come relazione tra soggetto e oggetto nel lavoro; per l’altro verso, il medesimo rapporto come definizione dell’originalità di Marx sul terreno della teoria della conoscenza.
1. Il
problema: dove va la politica estera dell’amministrazione
Trump?
In un importante discorso sulla politica estera dell’aprile 2016, Donald Trump affermò: «siamo totalmente prevedibili. Diciamo tutto. Stiamo inviando truppe. Glielo diciamo. Stiamo inviando qualcos’altro. Teniamo una conferenza stampa. Dobbiamo essere imprevedibili. E dobbiamo essere imprevedibili a partire da ora»1 .
E in effetti incertezza e varietà di valutazioni circa il corso della politica estera dell’amministrazione Trump continuano ad essere notevoli. Quel che accomuna critici e sostenitori della politica estera dell’amministrazione è il timore o la speranza che, mossi dal nazionalismo, gli Stati Uniti possano ritirarsi in quel che si dice isolazionismo.
Diffusa anche ad arte, la confusione è tale che ritengo necessario mettere a fuoco i parametri elementari della politica estera degli Stati Uniti - ciò che un Presidente non farà mai - e alcuni concetti fondamentali, utili anche a comprendere le particolari contraddizioni dell’amministrazione in carica.
Ricordo che fra gli specialisti statunitensi di politica estera si è formata subito un’area di critici irriducibili che ritengono il miliardario del tutto inadeguato, per preparazione e temperamento, a svolgere le funzioni di capo dell’esecutivo e di comandante in capo; c’è chi lo ha addirittura definito un «candidato manciuriano», cioè agente degli interessi russi. Fra i critici del candidato Trump si distinse per durezza la maggior parte dei più importanti intellettuali e funzionari neoconservatori del Partito repubblicano2.
Se il comunismo è finito, perché l’anticomunismo prospera? A Kiev come a Roma, a Budapest come a Varsavia, a Washington come a Berlino, in Brasile come in Cile, governanti, magistrati, politici, giornalisti, professori emanano leggi, accendono polemiche, aprono processi, creano norme amministrative, o si spingono a riscrivere la storia in un senso diligentemente revisionistico, e rovescistico.
Lo scopo è uno: mandare alla sbarra, in senso proprio o figurato (culturalmente), il comunismo, i suoi teorici, i suoi esponenti storici, i suoi dirigenti e militanti. Non solo cancellare il passato, in cui il comunismo (in qualche sua forma) ha prosperato, ma punire chi ammette di avervi aderito. “Sorvegliare e punire”, ecco la ricetta: sorvegliare e punire quei reprobi. Molti dei quali, in vero, tra coloro che rivestirono ruoli dirigenti, hanno gareggiato nel negare il proprio passato, presentandosi come esempi viventi di nicodemismo: comunisti in pubblico, per necessità (!?), acomunisti o anticomunisti nel segreto del cuore.
Ancora incerto il destino del cantone curdo siriano di Afrin, dove i turchi stanno dando battaglia ai curdi dello Ypg e del Pkk, che considera organizzazioni terroriste.
Ieri Damasco aveva annunciato l’arrivo di forze siriane per portare «sostegno ai curdi contro l’aggressione turca» – così l’Agenzia di stampa governativa Sana – e fermare la campagna militare di Ankara.
Ma ad Afrin per ora sono arrivati solo civili, anche se Sana li definisce “forze popolari”, nel tentativo di dare un seguito a quanto promesso. Uno sviluppo che sembrava prossimo ad avverarsi, ma che ieri è saltato.
Duro è stato il fuoco di sbarramento turco contro l’iniziativa di Damasco: sia militare, con il bombardamento delle vie destinate al transito delle truppe siriane verso Afrin; ma anche verbale, con prese di posizione durissime.
Anche le notizie su un accordo tra le milizie curde e Damasco sono contrastanti: se è certo che trattative stanno intercorrendo, non c’è ancora alcun accordo ufficiale, stante le smentite dello Ypg, al cui interno sembra divampato un dibattito tra opposte fazioni.
Si è formata nei centri sociali, è precaria, napoletana e dal 20 novembre non si è mai fermata. Abbiamo intervistato Viola Carofalo, capo partito di Potere al Popolo!
Democrazia significa «Potere al Popolo!», è questo lo slogan che Viola Carofalo, portavoce del neonato movimento, dal 20 novembre sta portando in tutte le piazze d’Italia. La incontriamo al corteo organizzato a Roma in favore del popolo curdo. «Sono le donne curde che ci hanno insegnato la rivoluzione e la doppia rappresentanza, non potrei essere altrove oggi».
Napoletana, 37enne, precaria, Viola Carofalo è una delle attiviste (e attivisti) del centro sociale napoletano Ex Opg Je So Pazz che pochi mesi fa, quasi per provocazione, ha pubblicato sul web un video in cui chiedeva: «Ma alle prossime elezioni non possiamo proprio votare nessuno? Non ci sono donne, non ci sono precari, non ci sono stranieri.
Noi invece queste caratteristiche le abbiamo tutte, votate noi».
Così sono arrivate centinaia e centinaia di adesioni su tutto il territorio nazionale, tra cui endorsement di personaggi di rilievo a partire da Sabina Guzzanti passando per il regista Ken Loach per finire al francese Jean-Luc Mélencon del movimento France Insoumise.
Il settore dell’Economia è tra
quelli in cui più chiaramente si avvertono le contraddizioni
e i limiti dei sistemi di valutazione della ricerca
accademica in Italia. Una
scienza economica ancora fragile, che per evolvere
necessiterebbe di apertura, pluralismo e confronto tra i
diversi approcci, è oggi
condizionata nel suo sviluppo da criteri di valutazione e di
selezione delle leve accademiche in larga misura arbitrari e
schiacciati su un unico
paradigma, benché questo sia sottoposto a crescenti
obiezioni epistemologiche, teoriche ed empiriche. Il parere
in materia di Luigi Pasinetti
uno dei massimi esponenti mondiali del pensiero economico
critico, intervistato da Emiliano Brancaccio e Nadia
Garbellini.
Nel nostro paese le decisioni sulla qualità della ricerca, sulle abilitazioni scientifiche e sulle procedure concorsuali risultano dominate dalla zelante applicazione di contestati criteri di classificazione delle riviste, talvolta persino più restrittivi di quelli stilati dall’ANVUR. Il settore dell’Economia è uno di quelli in cui più forte si avverte la tendenza a valutare le pubblicazioni in base al ranking delle riviste piuttosto che al contenuto effettivo delle ricerche. In questo ambito, per giunta, si presenta un problema ulteriore: nelle classifiche vigenti sono fortemente discriminate quelle riviste che accettano approcci di ricerca alternativi al cosiddetto “mainstream”, la visione oggi prevalente in economia. L’ovvia conseguenza è che gli economisti, specie più giovani, sono indotti a reprimere i loro interessi verso i paradigmi scientifici alternativi pur di sopravvivere in accademia.
Il povero db davanti all’urna: posso raccontarvi i miei “dolori” e la scelta finale?
Ho faticato a scrivere questo post
ma siccome
un minimo di autoironia ci vuole – un antidoto alla
presunzione del “so tutto io” – potete anche immaginarlo in
tre
parti (con titoli rubati a Johann Wolfgang Goethe): «I dolori
del giovane Vother», «Le difficili affinità elettive» e
«Faust, ovvero se Goethe ci ha messo 60 anni a scrivere di un
patto con il diavolo… posso io prendermi un mesetto per
decidere come
contribuire all’italico guaio minore?».
Una premessa o anche due
A ogni “tornata” sono sempre in dubbio se votare. Ogni volta mi torna la secca frase di Malcom X: «Il potere è nell’urna? Una buona ragione per starne lontani». Capisco bene il ragionare di tante persone anarchiche (e non solo) che rifiutano il voto per principio; e il “trend” come dicono gli anglofoni dà loro ragione, visto che ormai circa metà degli “aventi diritto” non va alle urne. Però le contraddizioni – sale della vita – mi rammentano che si è a lungo lottato per il suffragio universale e che anche con le elezioni è stato possibile contrastare l’oppressione.
Alla fine ho sempre preferito votare. Rispettando chi si astiene – soprattutto se non si limita al mugugno ma agisce per una società migliore – però ho deciso (senza tropp illusioni) che comunque avere un gruppo, anche piccolo, di persone degne nei Palazzi potesse essere utile. Così sono ormai 40 anni che alla fine voto “il meno peggio” a sinistra.
Il libro "Lavoretti" (Einaudi) di Riccardo Staglianò svela come dietro “l'economia della condivisione” vi sia un mondo di persone sottopagate, cottimizzate, precarie e saltuarie per definizione. L’autore viaggia dalla Silicon Valley al Vesuvio per mostrare i meccanismi con cui le grandi piattaforme digitali e le corporation della rete sfruttano il lavoro, evadono il fisco e accentrano i capitali. È così che la mancata governance della rivoluzione digitale ci rende “tutti più poveri”.
Il linguaggio non è mai né neutro né innocente. E men che meno lo è la sharing economy, patinata espressione che, nel suo significato letterale, significa “economia della condivisione”. Solenne e marchiana impostura linguistica dietro la quale si cela la cruda realtà della gig economy o, meglio, dei “Lavoretti”. È questo il titolo dell’inchiesta sul mondo del lavoro 4.0 svolta da Riccardo Staglianò, dal sottotitolo ancor più eloquente: “Così la sharing economy ci rende tutti più poveri”.
La struttura dei nuovi lavori della sharing economy, infatti, è “moderna” come il feudalesimo: “chi possiede una piattaforma digitale estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione”[1].
Le élite economiche e politiche del mondo si considerano una “nuova aristocrazia globale”, che come quella feudale di sangue vuole godere del privilegio di essere esentata dal pagamento delle tasse. Una vera e propria rivolta dei privilegiati, in cui miliardari e multinazionali rifiutano di pagare le tasse, appoggiandosi ad una rete globale di professionisti e paradisi fiscali e praticando un vero e proprio terrorismo fiscale verso gli Stati nazionali. Una rivolta che non avrebbe successo senza l’appoggio complice dei governi e senza regole fatte su misura dai principali partiti nazionali per eludere le tasse e facilitare i condoni fiscali, in un’esplicita dimostrazione che gli stati nazionali sono ormai catturati dall’oligarchia globale
Leona Helmsley, moglie del miliardario Harry Helmsley (condannato per evasione fiscale) ha dichiarato con orgoglio che “le tasse sono per le persone normali”. E la verità è che la ragione non le manca. Da lungo tempo vediamo come anno dopo anno vengono alla luce nuove fughe di notizie, che dimostrano che le élite economiche e politiche del mondo si considerano una “nuova aristocrazia globale”, che gode del privilegio di essere esentata dal pagamento delle tasse.
Nel frattempo, i lavoratori e i piccoli imprenditori contribuiscono con le loro tasse e sopperiscono anche alla parte che altri non hanno pagato. Aumenta la disuguaglianza nel mondo e l’austerità si insedia nelle politiche pubbliche con i tagli alla nostra educazione, alla nostra salute, in definitiva ai nostri diritti.
In Germania è stato raggiunto l’accordo sul lavoro: una settimana da 28 ore di lavoro per chi deve assistere parenti e bambini e un aumento in busta paga del 4,3%. Canta vittoria il sindacato tedesco dei metalmeccanici Ig Metall per la vertenza che si è conclusa a Stoccarda. Effetto Trump? Risponde su Lo Speciale Ilaria Bifarini, economista e autrice del libro “Neoliberismo e manipolazione di massa- Storia di una bocconiana redenta”, in procinto di dare alle stampe la sua seconda opera. Per l’ex bocconiana redenta, come ama definirsi, si tratta più di un effetto Euro, che vale solo per i tedeschi però.
* * * *
I giornali parlano di svolta della Germania: solo 28 ore settimanali e aumenti salariali. Si può parlare di effetto Trump, Bifarini?
“Più che di effetto Trump parlerei di effetto Euro. La Germania infatti è evidentemente e innegabilmente la vera beneficiaria dell’unione monetaria europea. Grazie a una sapiente politica di cambio effettuata al momento dell’entrata nell’euro e a politiche lavorative e industriali ad hoc, la bilancia commerciale della Germania, che nel 2001 era negativa, ha riscontrato un surplus enorme. E ora sta raccogliendo i frutti.
È ancora troppo presto per valutare l’impatto della lettera che, attraverso la sorella, il leader nord-coreano Kim Joung-un ha fatto pervenire al suo omologo del Sud, Moon Jae-in. L’incontro al vertice, ammesso che si arrivi a celebrare, sarebbe comunque il terzo (anche se il primo da oltre dieci anni), e dei precedenti poche tracce sono rimaste, se non negli archivi degli esperti di diplomazia.
Lo scambio di cortesie avvenuto sotto l’ombrello di questa tregua olimpica può però essere spia di un cambiamento nello scenario geopolitico ancor più epocale che non il nuovo inizio delle trattative tra le due Coree, se si pensa che si è prodotto alle spalle della potenza fin qui egemonica su scala globale. Anzi, per certi versi, contro il parere USA, a giudicare dalla reazione, sorpresa e poco comprensiva, del Vice-presidente Mike Pence. Ci potremmo cioè addirittura trovare di fronte ad un punto di accelerazione nel processo di declino dell’egemonia statunitense.
Il concetto di egemonia, distinto da quello di puro dominio, può essere applicato tanto alle relazioni tra gruppi sociali, quanto a quelle tra Stati.

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di Quarantotto
1. Talvolta ciò che risulta dai sondaggi si rivela...esatto. Ironicamente strano, no?
Perché non dovrebbe essere così: intendo dire che i sondaggi dovrebbero, al contrario, essere prevalentemente, e non episodicamente (o "casualmente"), attendibili e presentare tollerabili e non significativi margini di errore (indicando delle previsioni che comunque registrano tendenze riconoscibili, nella loro essenza fondamentale, nel loro storico accadimento successivo).
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di coniarerivolta
La scadenza elettorale del 4 marzo incombe inesorabile. Nessuno degli scenari plausibili per il post-elezioni appare particolarmente piacevole; nessuna delle combinazioni di partiti e liste che potrebbero formare un Governo è qualificabile come meno che disastrosa per lavoro e diritti. Con ogni probabilità, da qui ad un mese ci ritroveremo con una riproposizione stantia di una qualche variante delle maggioranze di governo che tormentano il paese...
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di Alex Höbel*
170 anni fa Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista, affermavano con chiarezza che i comunisti “non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme” e la loro specificità è quella di “rappresentare sempre l’interesse del movimento complessivo”[1].
Quale rapporto esiste fra queste considerazioni e la realtà di oggi? A me pare che questo insegnamento di Marx ed Engels sia più attuale che mai.
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di Michele Castaldo
Ho definito la giornata del 24 febbraio a Roma un putridume generale di incensatori della democrazia borghese e delle sue istituzioni al servizio del dio capitale di un modo di produzione in crisi; lo ribadisco, come ribadisco che in essa ha fatto eccezione la presenza dei lavoratori della Logistica con una iniziativa coraggiosa. Merito al merito, dunque, e invito alla riflessione, in modo particolare per chi – comunista – cerca di capire...
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di Militant
Tra una settimana, qualsiasi sarà il risultato elettorale, tornerà in carica l’attuale governo. Non per le anomalie del sistema politico italiano però. Nell’ambito dell’Unione europea, attualmente, sono 17 i governi di “grande coalizione”, che godono cioè dell’appoggio più o meno formalizzato, più o meno mascherato, di “centrosinistra” e “centrodestra” (rigorosamente virgolettati: non esiste alcun centrosinistra o centrodestra, quanto
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di Franco Bifo Berardi
Mi presento: sono un imbecille che cinque anni fa ha votato per l’M5S.
Perché l’ho fatto? Perché credevo, speravo che potessero e volessero impegnarsi davvero per l’autonomia della società dal cappio del fiscal compact e della dittatura finanziaria. C’è voluto poco per capire che avevo sbagliato. Ci pensò Mario Draghi a svegliarmi, quando disse, pochi giorni dopo le elezioni del 2013, che non c’era di che preoccuparsi, perché...
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di Leonardo Mazzei
Tre scenari, uno peggiore dell'altro. Ma per fortuna tutti instabili...
La mia previsione per il 4 marzo resta quella di due settimane fa. Anzi, queste ultime battute della campagna elettorale mi fanno sembrare ancor più probabile una maggioranza assoluta - in seggi ovviamente, che in voti non se ne parla proprio - della coalizione di destra. Vittoria, che se non è ancora del tutto certa, è solo per le contraddizioni di quella coalizione e per la pittoresca condizione del suo leader zombie.
[Questo testo è un ampliamento di quello che trovate negli editoriali qui, in cui si confrontavano due posizioni divergenti interne a Carmilla. Inutile ricordare che nella redazione della nostra testata convivono, su questi e su altri temi, tesi differenti, e che ognuno è libero di esporre la propria.]
Il raggiungimento del
numero di firme necessario per presentare alle elezioni Potere
al Popolo!, conseguito in tempi rapidissimi, la successiva
veloce espansione sul
territorio nazionale, hanno del prodigioso. Ma è conseguenza
del prodigio che sta all’origine dell’avventura.
Espulsi dal Teatro Brancaccio, in cui si sarebbe dovuta rifondare per l’ennesima volta la “sinistra” (con i D’Alema, i Bersani, i Civati, gli Speranza e altri walking dead), i giovani e meno giovani del centro sociale Je so’ pazzo, ex OPG, tra i più attivi sul territorio napoletano, decidono di continuare da soli.
Riescono a riunire ottocento persone di tutte le età, ed è l’inizio di una valanga. Si tengono, in breve tempo, affollatissime assemblee in ogni regione d’Italia, incluse quelle in cui l’antagonismo politico-sociale sembrava spento per sempre. Aderiscono al progetto nomi storici della sinistra “vera” e non liberale, di integrità non discutibile: Heidi Giuliani, madre di un martire divenuto simbolo di lotta, Nicoletta Dosio, l’instancabile ribelle e fuggiasca, Giorgio Cremaschi, una vita per i metalmeccanici e per il riscatto operaio. E tanti, tanti altri.
Soprattutto, si adunano sotto la nuova sigla – Potere al Popolo! – i frammenti di una classe subalterna modellata, nel presente, dai rantoli di un’economia antiumana, che solo in nuove guerre e oppressioni trova slancio vitale. Precari, disoccupati, pseudo-apprendisti licenziati e riassunti (se va bene) ogni quattro mesi, gente che sbarca il lunario come può. Moltissimi giovani ma anche molti anziani, dal pensionamento spostato di continuo, quanto basta per sopprimere occasioni di lavoro per chi non le ha.
Votare
nel paese
venduto a papi, francesi, spagnoli, tedeschi, americani…
Che questo fosse uno Stato in mano a briganti, ladri, corrotti, sociocidi, vendipatria, bari e tecno-bio-fascisti lo si sapeva. Lo si sapeva, misurando a spanne, più o meno da quando Togliatti, ministro della Giustizia, in perfetta sintonia con la pugnalata alle spalle di Yalta, decretò l’amnistia per tutto l’apparato amministrativo fascista. Ma lo si sospettava fin da quando, nel 1943, l’invasore Usa si accordò con la mafia per la risalita della penisola dalla Sicilia, garantendo in cambio una perenne coabitazione tra criminalità organizzata e classe dirigente al governo del paese sotto tutela USA, tramite Lucky Luciano, Salvatore Giuliano, “Gladio”, Cia, Pentagono, Goldman Sachs (per dire Rothschild e tutto il cucuzzaro di Wall Street) e poi UE.
Da De Gasperi a Berlinguer, passando per puntelli minori, liberale, repubblicano, socialdemocratico e i radicali in funzione di mosca cocchiera, fino all’attuale cosca renzusconiana, il maficapitalismo italiota ha attraversato solo due crisi. Una minore, provocata dai sussulti autonomisti del capo-ladrone Craxi, del tutto velleitaria per i troppi scheletri nell’armadio del soggetto, e una maggiore, quando dal 1968 al 1977 una generazione traversale e interclassista rivoluzionaria riuscì a imporre le uniche riforme di civiltà e progresso dal dopoguerra ad oggi. A questo tentativo fu posto fine mediante la militarizzazione del conflitto (terrorismo, strategia della tensione, organizzazioni armate) gestita da elementi atlantisti interni ed esterni precedentemente citati.
Recensione al nuovo libro di Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra (Imprimatur)
È difficile oggi considerare
la sinistra europea come qualcosa di diverso da un cumulo di
macerie. Questo è vero in tutta Europa (emblematico il caso
della Germania, in cui
a un crollo senza precedenti della SPD - che secondo gli
ultimi sondaggi riceverebbe oggi appena il 16% dei voti - fa
riscontro una Linke incapace di
beneficiare di questa situazione, restando intorno al 10%,
mentre l’AfD sarebbe diventata addirittura il secondo
partito). Ma è
soprattutto nel nostro paese che la distruzione della sinistra
ha raggiunto livelli semplicemente inimmaginabili soltanto
pochi anni fa – per
non parlare di quando l’Italia vedeva la presenza del più
grande partito comunista d’Occidente.
In molti si sono interrogati sulla genesi di questa situazione, che ovviamente ha più di una causa. Non però quella cara a una vulgata ormai in voga da decenni: quella, cioè, secondo cui i problemi della sinistra italiana nascerebbero da una presunta “incapacità di riformarsi”, e cioè – in concreto - dal rifiuto di far proprie parole d’ordine moderate e di adottare politiche di semplice gestione dell’esistente, abbandonando ogni velleità di trasformazione sociale.
Questa teoria appare platealmente smentita dai fatti: mai la sinistra italiana, nelle sue componenti numericamente più significative, è stata più “compatibile” e arrendevole all’ordine costituito - e mai è stata più vicina a un tracollo elettorale di portata storica.
1. Talvolta ciò che risulta dai sondaggi si rivela...esatto. Ironicamente strano, no?
Perché non dovrebbe essere così: intendo dire che i sondaggi dovrebbero, al contrario, essere prevalentemente, e non episodicamente (o "casualmente"), attendibili e presentare tollerabili e non significativi margini di errore (indicando delle previsioni che comunque registrano tendenze riconoscibili, nella loro essenza fondamentale, nel loro storico accadimento successivo).
Una riflessione però può essere aggiunta: dopo le clamorose sconfitte nel referendum sulla Brexit, nelle elezioni presidenziali USA e nel referendum costituzionale italiano, - (sconfitta doppia: primo perché hanno sbagliato clamorosamente; secondo, perché è difficile sfuggire all'impressione che parteggiassero per gli esiti che, sovrastimando, cercavano obiettivamente di favorire) -, i sondaggisti, potrebbero aver corretto il tiro e cercato di utilizzare metodologie e campioni più attendibili.
Sarebbe logico ritenere che si siano ricalibrati in questo senso: se non l'avessero fatto avrebbero non solo perduto la loro capacità di mercato (e di fissare adeguati compensi), ma anche avrebbero reso un cattivo servigio agli interessi socio-economici "serviti", cioè propri dei grandi soggetti politico-mediatico-finanziari che pagano i loro compensi.
La scadenza elettorale del 4 marzo incombe inesorabile. Nessuno degli scenari plausibili per il post-elezioni appare particolarmente piacevole; nessuna delle combinazioni di partiti e liste che potrebbero formare un Governo è qualificabile come meno che disastrosa per lavoro e diritti. Con ogni probabilità, da qui ad un mese ci ritroveremo con una riproposizione stantia di una qualche variante delle maggioranze di governo che tormentano il paese dal 2011, con un programma elettorale scritto a Bruxelles e Francoforte e tristi figuranti a recitare la parte di ministri di un paese sovrano. In questo scenario fosco, un osservatore superficiale potrebbe essere tentato di considerare come elementi di rottura, di cambiamento, di alternativa tre forze politiche che, alla prova dei fatti, altro non sono che tre false varianti del blocco di potere dominante. Per cercare di chiarire questo, a dir la verità inspiegabile, equivoco, un piccolo promemoria.
Abbiamo sempre ritenuto il Movimento 5 Stelle un elemento di stabilizzazione dell’attuale sistema economico e politico, una forza politica che, al di là delle dichiarazioni tonitruanti e ribelliste, ha creato il suo consenso solleticando gli istinti più bassi dell’elettorato, con un misto di invidia sociale, rancori piccolo-borghesi, moralismi ed una pericolosa venatura autoritaria.
Ho definito la giornata del 24 febbraio a Roma un putridume generale di incensatori della democrazia borghese e delle sue istituzioni al servizio del dio capitale di un modo di produzione in crisi; lo ribadisco, come ribadisco che in essa ha fatto eccezione la presenza dei lavoratori della Logistica con una iniziativa coraggiosa. Merito al merito, dunque, e invito alla riflessione, in modo particolare per chi – comunista – cerca di capire il senso di marcia della fase che stiamo attraversando. E la cartina di tornasole ce la offre esattamente la giornata del 24 febbraio a Roma, cioè a 8 giorni dal voto politico per il governo di una nazione occidentale quale sesta, settima, ottava potenza economica del mondo.
E’ vero ed è giusto che da comunisti privilegiamo la lotta al voto, ma un conto sono i nostri desideri, altra cosa è la realtà con la quale confrontarsi per capire in che modo possiamo spendere una nostra parola verso quei settori sociali che consideriamo nostri interlocutori, perché si ricompongano in un polo organizzato contro il modo di produzione capitalistico che ci opprime. A meno di non voler mettere la testa sotto la sabbia per non vedere, abbiamo l’obbligo di guardare la realtà per quella che è: nuda e cruda.
170 anni fa Marx ed Engels, nel Manifesto del Partito comunista, affermavano con chiarezza che i comunisti “non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme” e la loro specificità è quella di “rappresentare sempre l’interesse del movimento complessivo”[1].
Quale rapporto esiste fra queste considerazioni e la realtà di oggi? A me pare che questo insegnamento di Marx ed Engels sia più attuale che mai. Nel contesto in cui viviamo, i lavoratori salariati – stabili e precari, italiani e immigrati, insomma il moderno proletariato – hanno tra i loro maggiori problemi quello di essere frammentati, divisi, dispersi. Tra le priorità dei comunisti non può dunque non esservi l’obiettivo della ricomposizione di classe – sul terreno sociale e su quello politico; la ricostruzione della classe è insomma altrettanto importante della ricostruzione del partito, e se i comunisti fanno bene il loro mestiere questi due processi possono viaggiare assieme, dialetticamente.
Tuttavia anche questo, data la profondità del conflitto di classe in corso, non sarebbe sufficiente: accanto alla ricomposizione di classe e alla ricostruzione del partito, è necessario un vasto schieramento di forze – un moderno Fronte popolare – che individui chiaramente i suoi nemici nelle élites della finanza e del capitalismo transnazionale e rilanci il modello di democrazia sociale e partecipata che è al centro della nostra Costituzione.
Tra una settimana, qualsiasi sarà il risultato elettorale, tornerà in carica l’attuale governo. Non per le anomalie del sistema politico italiano però. Nell’ambito dell’Unione europea, attualmente, sono 17 i governi di “grande coalizione”, che godono cioè dell’appoggio più o meno formalizzato, più o meno mascherato, di “centrosinistra” e “centrodestra” (rigorosamente virgolettati: non esiste alcun centrosinistra o centrodestra, quanto un monocolore euro-liberista dai tratti sempre più marcatamente orwelliani). Alcuni sono espliciti, come in Germania. Altri hanno escogitato formule originali, come il partito-coalizione En Marche di Emmanuel Macron in Francia. Da noi prevale il bizantinismo, che ha portato prima “centrodestra” e “centrosinistra” ad accordarsi formalmente (governo Letta, patto del Nazareno), poi a litigare mediaticamente (lo sfaldamento del Pdl), successivamente a scindersi elettoralmente (il ritorno di Forza Italia e la nascita del “Nuovo centrodestra” di Alfano, nonché Mdp), pur di non modificare la sostanza del compromesso costruito nel 2013. Riposizionamenti elettorali che mascherano l’intento comune: dal 5 marzo si lavorerà alla formazione di un nuovo – ennesimo – governo trasversale. Poco credibili, in questo senso, i propositi del ritorno al voto.
Mi presento: sono un imbecille che cinque anni fa ha votato per l’M5S.
Perché l’ho fatto? Perché credevo, speravo che potessero e volessero impegnarsi davvero per l’autonomia della società dal cappio del fiscal compact e della dittatura finanziaria. C’è voluto poco per capire che avevo sbagliato. Ci pensò Mario Draghi a svegliarmi, quando disse, pochi giorni dopo le elezioni del 2013, che non c’era di che preoccuparsi, perché la governance europea procede col pilota automatico. Infatti l’aspirante premier Di Maio (mi scappa da ridere) si reca nelle cattedrali della dittatura finanziaria per rassicurare i veri detentori del potere. E lo stesso brillantissimo Di Maio è stato il primo a denunciare i taxi del mare, cioè le organizzazioni non governative che si permettono di salvare migranti dai flutti. In questo Di Maio e Minniti non vogliono apparire meno determinati di Salvini. Determinati nell’affogare coloro cui il colonialismo ha rapinato le risorse, coloro che stanno fuggendo dalle guerre che i civilizzatori europei hanno provocato.
Questa volta non voterò certo per costoro, che dopo aver rubato il mio voto (e quello di molti come me) si sono alleati con Nigel Farage, hanno portato al Campidoglio la signora Raggi dello studio Previti e Sammarco, e hanno esultato per la vittoria di Donald Trump.
Per chi votare allora?
Tre scenari, uno peggiore dell'altro. Ma per fortuna tutti instabili...
La mia previsione per il 4 marzo resta quella di due settimane fa. Anzi, queste ultime battute della campagna elettorale mi fanno sembrare ancor più probabile una maggioranza assoluta - in seggi ovviamente, che in voti non se ne parla proprio - della coalizione di destra. Vittoria, che se non è ancora del tutto certa, è solo per le contraddizioni di quella coalizione e per la pittoresca condizione del suo leader zombie.
Se alla destra dovessero mancare i numeri, si passerebbe subito all'opzione numero due, quel governo Renzi-Berlusconi per il quale è stato concepito e poi partorito il Rosatellum nell'autunno scorso. E' l'opzione più cara a Berlino e Bruxelles, quella per cui spingono i potentati nazionali, e che lo stesso Buffone di Arcore preferirebbe alla faticosa coalizione con l'ambizioso Salvini.
Se anche questa coalizione non avesse i seggi necessari, ecco che spunterebbe l'opzione numero tre, un accordo M5S-Pd-LeU, un patto che potrebbe saldarsi solo con la rapida defenestrazione dell'attuale segretario piddino.
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Questo appello viene pubblicato corredato da alcune glosse critiche in merito a punti importanti. Le glosse sono evidenziate in colore rosso e carattere diverso all'interno del testo
L’appassionato
confronto sui valori e i dettati della Costituzione in
occasione del referendum del 4 dicembre 2016 - al quale
abbiamo contribuito sostenendo il No -
ha visto partecipare un imponente numero di elettrici e di
elettori, pur con scelte difformi, a riprova che le grandi
opzioni della politica sono
percepite come proprie dai cittadini quando sono messi in
grado di scegliere.
Per questo ci rivolgiamo a tutte le candidate e a tutti i candidati di buona volontà con questo accorato e rispettoso appello.
È necessario concentrare almeno quanto resta della campagna elettorale su alcuni obiettivi di fondo che per loro natura vanno oltre il periodo del prossimo mandato parlamentare e oltre i confini dell'Italia, in quanto decisivi dell’intero futuro. Su tali obiettivi non mancano accenni e proposte nel programma di alcuni partiti, ma essi appaiono del tutto oscurati e distorti nel dibattito pubblico rappresentato dagli attuali mezzi di informazione che perseguono altri interessi e logiche contingenti, onde è necessario farli venire alla luce e metterli al centro delle prossime decisioni politiche.
1. La prima questione è quella del lavoro retribuito, nella specifica forma della sua assenza e precarietà.
La mancanza di lavoro sta raggiungendo tali dimensioni di massa da rendere illusori i rimedi finora proposti. La riduzione al minimo di quella che una volta si chiamava “forza lavoro” a fronte dell’ingigantirsi degli altri mezzi di produzione è tale da alterare tutti gli equilibri dei rapporti economici politici e sociali.
Dalla lotta alle diseguaglianze
alla cancellazione del Jobs Act e della legge Fornero,
dall’abrogazione del 41bis ai diritti civili, parla la
candidata di Potere al Popolo, la
lista nata dal centro sociale napoletano Je so’ pazzo. LeU?
“Contigui al Pd”. Il M5S? “Un pezzo di establishment”. E i
suoi tre punti di riferimento sono Mandela, Brecht e la
partigiana Nori Brambilla. Infine si scaglia contro il voto
utile: “Il voto si dà
a chi ti rappresenta meglio”.
“Ci è chiaro chi sono i nostri nemici: sono gli speculatori, i grandi evasori fiscali, i devastatori dell’ambiente, le cricche e chi ci sfrutta con lavori precari o gratuiti”. Viola Carofalo è la portavoce di Potere al Popolo. Si mette a ridere se la chiamano candidata premier o segretaria. Preferisce esser definita per quel che è: ricercatrice universitaria e attivista. Non ha mai avuto una tessera di partito, ha 37 anni ed è militante del centro sociale napoletano Je so’ pazzo. Dove sorgeva un Opg, dal 3 marzo 2015 c’è un collettivo di giovani che agisce sul territorio con pratiche di mutualismo e fornisce servizi per la cittadinanza. Sulle cronache nazionali è diventata nota quando lo scorso 18 giugno, ai tempi del Brancaccio, ha contestato Anna Falcone rea, secondo lei, di essere troppo vicina al ceto politico della sinistra: “Basta con i giochini elettorali, la sinistra deve imparare dalle lotte dei movimenti. E i dirigenti attuali, che sono parte del problema, devono farsi da parte”, sosteneva in quell’occasione. Alla fine Anna Falcone si è candidata come indipendente con Liberi e Uguali, lei ha lanciato insieme a Rifondazione e Comunisti Italiani una sigla nazionale: Potere al Popolo.
Le lotte contro la Tav e il Tap, la campagna sui tre No a Unione Europea, euro e Nato, la lotta per la casa, l’antifascismo militante sono oggetto di “attenzione” da parte degli apparati repressivi dello Stato. Anche quest’anno la relazione degli apparati di intelligence presentata al Parlamento dedica una capitolo alla “Minaccia eversiva e l’attivismo estremista”. Si tratta di quasi nove pagine del rapporto, di cui ben quattro dedicate alla “minaccia degli anarchici insurrezionalisti”, una minaccia di cui solo gli apparati repressivi sembrano avere una percezione così elevata. Il resto della minaccia eversiva sembra provenire dalle lotte sull’emergenza abitativa, dai movimenti contro l’Unione Europea e da quelli territoriali contro la Tav, il Tap o le basi Nato in Sardegna e Sicilia. Meno preoccupazioni vengono sul versante delle lotte sindacali e dei lavoratori, ad eccezione della logistica. Ancora meno preoccupazione, a differenza del biennio 2013-2014, vengono sul piano della ricomposizione “politico” del fronte delle lotte.
“Nel 2017 il composito fronte antagonista ha continuato a contraddistinguersi per una certa fluidità e per l’assenza di un percorso politico e strategico comune. L’impegno delle formazioni di settore si è focalizzato sulla contestazione delle politiche europee e sulle molteplici emergenze sociali, specie le questioni migratoria, occupazionale, ambientalista e abitativa”
L’inchiesta giudiziaria della Procura di Milano sull’ENI per corruzione internazionale è culminata un mese fa con il rinvio a giudizio per i vertici della multinazionale italiana. Le scoperte dell’acqua calda sono sempre sospette, perciò qualcuno si chiede che senso abbia scoprire improvvisamente che la penetrazione delle multinazionali sia caratterizzata da giri di tangenti. Da sempre tutte le multinazionali operano come agenzie private di politica estera e da sempre comprano la “fedeltà” dei loro partner locali. Inoltre soltanto in base ad una mitizzazione della magistratura tipica del “politicorretto” si può ritenere che certe inchieste si basino su indagini autonome e non su “imbeccate” ad hoc.
Come a prevenire e contrastare queste ovvie perplessità, il settimanale “l’Espresso” ha lanciato una serie di notizie che colorano un quadro a tinte forti. La vicenda ENI in Nigeria, o almeno i suoi risvolti, avrebbero infatti a che vedere persino con un tentato omicidio ai danni di un esponente dell’agenzia anticorruzione nigeriana.
“Lotta alla corruzione” è una di quelle espressioni che “suonano bene”, come anche “diritti umani”; espressioni che catturano l’opinione pubblica con il loro messaggio educativo ed edificante. L’opinione di “sinistra” è particolarmente vulnerabile alla trappola del “suonabenismo” e, in effetti l’educazionismo è il razzismo in versione di “sinistra”, poiché, guarda caso, ci sono sempre popoli che hanno sempre molto più bisogno di essere educati di altri.
Fino ai fatti di Macerata la campagna elettorale era stata generica, evanescente. Dopo ha preso un’altra piega: una brutta piega. La destra sembra aver conquistato il centrocampo della campagna. Salvini, che ha dedicato il 40% del suo programma alla sicurezza (dati Cattaneo), va a nozze. Berlusconi, in gara con la Lega, ha sparato le sue. Il M5S/Casaleggio tergiversa: non è su questo che vogliono condurre la campagna. Ma chi è in difficoltà: “ça va sans dire” è la sinistra in tutte le sue varianti.
In primo luogo il PD, presunta presunta, che viene fustigato da Repubblica (Mauro) per la sua posizione debole sulla vicenda.
Che dice il nostro Ezio Mauro? In larga parte l’articolo attacca il fascioleghismo, il trasformare l’immigrato in causa di tutti i problemi, l’ignoranza del fascismo. E sottolinea che una sinistra di governo ha l’obbligo di trasmettere la sensazione di tutelare dei cittadini. È questo un lapsus significativo: “Dare la sensazione della sicurezza”. In effetti è l’unica cosa possibile per un partito liberista e unionista come il PD!? PD/Repubblica non hanno soluzioni perchè sono le cause dell’insicurezza delle classi popolari. E i richiami all’antifascismo ed alla Costituzione sono solo vergognose foglie di fico.
Da pochi giorni è in libreria questo veloce pamphlet sugli orrori del mercato del lavoro italiano. Un testo agevole, giornalistico, polemico, senza dati né riferimenti, solo testimonianze dirette dei nuovi schiavi della moderazione salariale, della precarietà contrattuale, del produttivismo e della competizione liberistica. Senza occorrenze né sintesi statistiche è difficile dare a un testo del genere valore scientifico. L’autore, d’altronde, se ne tiene a debita distanza. Nonostante ciò, giunti alla fine del libro la sensazione è quella della sconfitta generazionale: salutata la fine del fordismo come liberazione dalle catene (di montaggio), il futuro si è trasformato in un ritorno all’ancien regime. Ci sono però alcuni dati su cui ragionare, e in questo senso il libro invita (implicitamente) alla riflessione. In primo luogo, le caratteristiche del mercato del lavoro italiano sono comuni al resto dell’Unione europea. Il padronato ha colto, nella parola crisi, l’etimologia cinese: una (grande) opportunità. L’opportunità di trasformare alla radice il mercato del lavoro. Uno stravolgimento che ha riguardato tutti i paesi, dai più problematici, come l’Italia, ai più ricchi, in primo luogo la Germania. Non a caso si accumulano lavori sulle deficienze del mercato del lavoro tedesco, assunto dal resto della classe imprenditoriale e politica europea come modello di riferimento.

Nonostante l’offerta
mediatico-elettorale coprisse sostanzialmente tutto l’arco
della politica, dal neofascismo all’estrema sinistra passando
per
l’euro-liberismo, il protezionismo e tutte le gradazioni del
populismo, quelle di ieri sono state le elezioni politiche con
la più alta
astensione di sempre. Un dato, come sappiamo, ambivalente e
sfaccettato, ma che conferma una tendenza storica: senza
mobilitazione politico-sociale
non c’è alcuna significativa partecipazione elettorale. Da
questo punto di vista, le elezioni si confermano un termometro
ancora
accettabile per leggere la realtà politica di un paese. Una
realtà divisa in tre parti: il vasto campo dell’astensione,
ormai
strutturale e probabilmente irrecuperabile; il polo
euro-liberista del consenso; il populismo, qualsiasi
forma questo assuma, inteso come
polo del dissenso. Diamo conto qui di alcune rapide
fotografie emerse dalle elezioni di ieri, mentre affronteremo
più nel dettaglio i
diversi significati del voto nei giorni a seguire. Un voto
denso come mai prima d’ora di valore politico.
La vittoria del Movimento 5 Stelle
Il partito grillino si conferma il primo partito italiano. Decifrare la sostanza di questa forza elettorale è pressappoco impossibile per chi insiste a svelarne solo le contraddizioni, come se queste non fossero plateali anche agli occhi del suo elettorato.
I risultati elettorali non sono
ancora
completi, ma lo scenario è chiarissimo e rende possibile un
primo abbozzo di bilancio: un paese spaccato in tanti pezzi,
che corrispondono
quasi esattamente alle diverse condizioni sociali maturate nei
decenni e nel corso degli ultimi dieci anni di crisi. Leghista
al Nord, dove qualcosa
da difendere c’è (imprese che fanno profitti e altre che
rischiano di chiudere, occupazione precaria e sottopagata),
“grillino” al Sud, dove si è già perso quasi tutto e la paura
di non poter risalire è concreta, manifesta (i tagli
alla spesa pubblica hanno segato, indirettamente, anche le
gambe alle clientele). Incerto al centro, risucchiato per
frammenti su entrambi lati.
L’Italia del “rancore” stavolta ha spazzato quel poco che restava della vecchia “classe politica” della seconda repubblica. Ha seppellito i Bersani e i D’Alema insieme all’alter ego di un quarto di secolo, Silvio Berlusconi. Non ci sono stati giochi di prestigio e promesse clientelari che abbiano potuto fermare questo tsunami provocato da sommovimenti tellurici così profondi da non presentare traccia sulla superficie del conflitto sociale. Anche i brogli non possono più avere la dimensione necessaria a spostare l’ago della bilancia. Il malessere che non si traduce in progetto di cambiamento si accontenta della prima risposta che trova, per quanto scadente possa essere.
Anti-inciucio, anti-sistema, contro i partiti tradizionali: il voto del 4 marzo stravolge il sistema politico e certifica il "grande pareggio" che costringerà a complicate trattative per avere un governo. Tra chi non si sa. Di questo voto "anti", però, beneficiano i grillini fanno il pieno soprattutto nelle zone di maggiore sofferenza come al Sud, dove sfiora il 50 per cento. Ma anche la Lega di Salvini, diventato nuovo capo del centrodestra. Poi ci sono gli sconfitti: Renzi (che pensa alle dimissioni), Berlusconi (che non tira più su da solo le sorti del suo partito) e il progetto deprimente di Liberi e Uguali. Che certifica la quasi scomparsa della sinistra
Non è solo un
pareggio che blocca tutto e nega un governo “la
sera delle elezioni” come tante volte era stato promesso.
Non è solo la riproposizione di quello che è successo in Spagna
due anni fa, con tre poli
inconciliabili tra loro. Non è solo un voto –
l’ennesimo, il più irresistibile – contro i partiti
tradizionali. E’, piuttosto, uno stravolgimento
epocale: il sistema politico tradizionale
vede
modificati i suoi connotati. Il voto del 4 marzo è
un crinale della storia – di sicuro quella recente -, mette
tutto sottosopra, ribalta una volta per tutte il tavolo. Non
ci sono maggioranze in Parlamento, ma – in attesa delle cifre
esatte alla fine
dello spoglio – ci sono vincitori e vinti.
Quando si
cercano le
radici di un concetto che compare molto tempo dopo dal tempo
in cui si cercano le radici, occorre improntare la ricerca a
criteri non deterministici.
Complessità è un concetto di cui -tra l’altro- non esiste una
universale codifica accettata, un concetto che prende corpo
soprattutto nella seconda metà del XX secolo mentre le radici,
per ogni elemento di conoscenza della tradizione occidentale,
non possono che
retrocedere a gli antichi Greci. Sono quindi circa
duemilaquattrocento anni quelli che intercorrono tra il
concetto di complessità ed
Aristotele. Eppure, qui si sosterrà che almeno due importanti
coordinate del pensiero complesso, si ritrovano nell’opera
dello Stagirita,
in nessuno degli antichi prima di lui ed in nessuno altro dopo
di lui, almeno fino al medioevo e poi al moderno.
Queste due coordinate sono: il concetto di sistema, la forma sistematica della conoscenza. Cominciamo dalla seconda. Aristotele, appartiene a quella esigua schiera di filosofi, detti appunto sistematici. Oltre a lui, Tommaso d’Aquino, Kant e sopratutto Hegel. Il filosofo sistematico tratta qualunque oggetto del pensiero. Le tre grandi famiglie della conoscenza umana sono i discorsi sull’uomo, sul mondo, sulle relazioni tra uomo-uomini e mondo. Il filosofo sistematico li affronta tutti con la medesima curiosità ed impegno, “enciclopedico”, termine coniato nel XVIII secolo, è il termine che illustra questa vocazione comprensiva del conato conoscitivo.
Novembre
2008: in una mailing list della comunità hacker compare il
manifesto Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System,
a firma
di Sato-shi Nakamoto. Il nome è uno pseudonimo, e a tutt'oggi
non si è mai saputo chi vi fosse dietro, e nemmeno se un
individuo o un
collettivo. Il documento contiene i principi e il codice per
poter sviluppare un software open source (1) che crea: una
criptovaluta, chiamata appunto
bitcoin (2), una rete peer-to-peer (P2P) (3) sulla
quale questa moneta digitale circola, e il relativo protocollo
di comunicazione (4). Nel
gennaio 2009 viene rilasciata, sempre all'interno della
comunità hacker, la prima versione del software - sarà poi
aggiornato più
volte - che inizia a essere utilizzato.
L'aspetto tecnico del Bitcoin è strettamente legato a quello politico: per come è stato pensato e implementato, infatti, non poteva che andarsi a inserire nelle dinamiche capitalistiche (perfino di sfruttamento di lavoro delocalizzato, come vedremo) fino a diventare un asset speculativo. Contiene tuttavia un'idea - la block-chain - che potrebbe creare qualcosa di politicamente molto diverso.
Che cos'è e come circola
Innanzitutto il bitcoin è una stringa digitale alfanumerica. I processi che lo riguardano sono due: la creazione e la circolazione.
L'editore Nero porta in Italia il testo fondamentale della nuova sinistra accelerazionista
Nel 2013 due giovani ricercatori inglesi di
sinistra, Nick Srnicek e Alex Williams, pubblicano l’ennesimo
manifesto per una
“new Left”. Lo chiamano Manifesto per una politica
accelerazionista, e produce i consueti dibattiti nei
ristretti ambienti
dell’accademia critica e di quella militanza intellettuale
fortemente minoritaria che non disdegna di usare le nuove
tecnologie. Il resto del
mondo lo ignora. Accade lo stesso con il libro che i due
autori pubblicano due anni dopo, estendendo le tesi
succintamente esposte nel manifesto:
Inventing the Future. Lo dimostra il fatto che in
Italia il volume è arrivato solo ora, tre anni dopo, e
pubblicato da una nuova
intraprendente micro-casa editrice, Nero, collegata al
progetto editoriale del magazine Not diretto da
Valerio Mattioli.
Eppure, Inventare il futuro meriterebbe ben più notorietà di quella che sembra godere solo se si frequenta la stessa bolla in cui le tesi di Srnicek e Williams sono nate e si sono diffuse: perché è un testo che fornisce finalmente un orizzonte nuovo a una società priva di futuro e condannata da un triste e declinante presentismo, e lo offre a tutti, anche se si rivolge per impostazione solo ai militanti di sinistra (che gli autori si premurano, da buoni accademici, di definire come l’insieme dei “seguenti movimenti, posizioni e organizzazioni: socialismo democratico, comunismo, anarchismo, libertarismo di sinistra, anti-imperialismo, antifascismo, antirazzismo, anticapitalismo, femminismo, autonomia, sindacalismo, movimento queer e una gran parte del movimento ecologista, nei suoi vari gruppi alleati o ibridati con le categorie precedenti”).
Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche. Recensione al “nuovo” libro di Romano Màdera
Torna in libreria, per la collana Philo – Pratiche Filosofiche di Mimesis, il primo libro del filosofo e psicoanalista Romano Màdera “Identità e feticismo” (1977), scritto tra il 1975 e il 1976 dopo l’abbandono dell’attività politica svolta dall’autore nell’estrema sinistra e, in particolare, nel Gruppo Gramsci da lui fondato insieme all’amico Giovanni Arrighi. Il volume, intitolato oggi emblematicamente “Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche”, esce corredato da una nuova prefazione e da un saggio del 2011 dedicato alla forma di valore (merce, denaro, capitale) come codice genetico del sistema capitalistico. Sistema che, secondo l’accurata disanima di Màdera, non può essere affatto ricondotto alle sole sfere economica e politica della vita associata, poiché l’accumulazione quantitativa – il capitale che si moltiplica, vero Dio del tempo odierno – è il motore della nostra civiltà anche nei suoi aspetti di relazione tra i generi, psicologici e simbolici, insomma “culturali”. Per Màdera, e per chi scrive, le scoperte di Marx intorno al segreto del capitale hanno offerto all’uomo contemporaneo «una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi, una terapia inconsistente». Il movimento dialettico implicito nelle pretese “scientifiche” della critica marxiana (dialettica che rimane in un certo senso hegeliana) si è rivelato ineffettuale e privo di carica trasformativa.
A smantellare il lavoro e i diritti dei lavoratori sono state le riforme attuate dai governi di stampo prettamente liberista, in obbedienza ai Trattati Ue
"Stiamo lasciandoci alle spalle cose preoccupanti, come la fragilità del sistema bancario e l'inerzia degli investimenti. Siamo usciti dal tunnel e stiamo percorrendo una strada... stavo per dire un sentiero stretto, ma vedo il sentiero allargarsi". Per questo "non è irrealistico immaginare negli anni prossimi un salto di qualità dell'economia. Gli anni prossimi saranno migliori". Lo afferma il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan nel corso della quinta edizione della Festa di Left Wing. (fonte Ansa).
Non è così, ministro Padoan, non siamo fuori dal tunnel. In Italia c’è una crisi economica che investe la maggioranza della popolazione. Il motivo fondante è che non c’è lavoro, quello vero, quello che consente una vita decorosa, così come recita l’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. E poiché “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro” (art. 1) e il lavoro non c’è, è questo il problema centrale del paese.
La disinformazione sul Reddito di cittadinanza da parte della pseudo sinistra ha un obiettivo? Roberto Ciccarelli sul Manifesto, in calce ad un articolo in cui illustra la proposta del Movimento Cinque Stelle, segnala la disponibilità di LeU ad un intesa su questo terreno, citando Roberto Speranza: “Se c’è da costruire una misura universale di contrasto alla povertà che il M5S chiama reddito di cittadinanza (a me non piace molto il modo in cui lo hanno costruito) io sono pronto a votare su temi specifici”.
Sergio Cararo ha segnalato su Contropiano le possibili implicazioni sociali della proposta dei Cinque Stelle in occasione della presentazione all’USB di Roma del libro Reddito di cittadinanza. Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? Ha titolato “Di Hartz si muore. Lavoro coatto come soluzione alla povertà?”[1].
Questa problematica sociale e politica è fuori dall’orizzonte del Manifesto, dove Roberto Ciccarelli in “La ricetta dei Cinque Stelle: Reddito di cittadinanza e lavoro gratuito”, pubblica un articolo infarcito di citazioni di Di Maio, cominciando da questa sua sintetica esposizione. “Il reddito di cittadinanza non darà soldi a chi vuol stare seduto sul divano. Dovrà per il breve periodo in cui avrà il contributo, formarsi e dare otto ore di lavoro gratuito allo Stato. Dal secondo anno il reddito di cittadinanza inizia a scalare perché la persona viene inserita nel mondo del lavoro””.
Roberto Ciccarelli, Forza lavoro: il lato oscuro della rivoluzione digitale, DeriveApprodi, 2018
Il lavoro ha perso la sua forza: la persona che è al lavoro, è consegnata a dispositivi onniscienti e soffocanti. E’ vero che il lavoratore (salariato, autonomo, freelance…) vive oggi una condizione di disagio ed è anzitutto una vittima: vittima della crisi, della tecnologia, della precarietà, della povertà. E’ in atto una epocale “rivoluzione passiva” che ha condotto le forze vive del lavoro nell’invisibilità: non c’è più una classe dei lavoratori, l’individualizzazione esasperante ha frantumato i legami, reali e possibili, fra i soggetti, consegnandoli appunto in una enorme zona grigia. «Il disciplinamento, la trasfigurazione e la rimozione della forza lavoro – la sua invisibilizzazione – sono l’esito di un’egemonia culturale così potente da aver spinto gli stessi lavoratori a credere di essere invisibili» (p. 10).
Oggi vediamo soltanto il lavoro ridotto a merce; d’altra parte, tutti e ciascuno siamo chiamati a essere, almeno idealmente, imprenditori di noi stessi, ognuno allo stesso tempo in competizione e in collaborazione con gli altri. Ognuno deve essere (e sogna di esserlo!) il proprio datore di lavoro. All’apparenza, il regno della libertà è arrivato: la subordinazione, la disciplina di fabbrica sembrano residuati dei secoli passati, vincoli che danneggiano e imbrigliano la “libera” espressione dei talenti e della creatività individuali.
“Per il Partie de Gauche (PG) e, indubbiamente, per altri partiti della Sinistra europea, è diventato impossibile venire associati allo stesso movimento di Syriza […] .” È questo il verdetto che il Partie de Gauche di Jean Luc Mélènchon ha emesso, attraverso un comunicato, sul proprio sito web.
Il PG ha di fatto chiesto l’espulsione del Partito greco dalla federazione comunitaria dei partiti della sinistra. Perché?
Nel comunicato si legge che il PG esprime il proprio “dispiacere” in relazione alla promozione, da parte di Tsipras, della logica dell’austerità al punto da restringere il diritto di sciopero, “sottomettendosi agli ordini della Commissione europea” (CE). La risposta di Syriza si è fatta tweet: la richiesta di Mélènchon sarebbe “anti-democratica, provocatoria e divisiva.”
La querelle tra PG e Syriza è il sintomo di un interrogativo più ampio che assilla silenziosamente le anime della sinistra del Vecchio Continente: Unione europea sì, o Unione europea no?

Le politiche che promuovono flessibilità e precarietà hanno ridotto la crescita della produttività; Marx costituisce ancora un riferimento utile per interpretare questi dati
Da
quando – attorno alla metà degli anni ’90 –
la produttività del lavoro in Italia ha cominciato a
stagnare, le ore di lavoro hanno preso ad aumentare. Le
politiche del lavoro che, grazie all’aumentata flessibilità,
hanno ridotto le
garanzie dei lavoratori, non solo non hanno fatto crescere
la produttività, ma hanno contribuito a frenarla.
Se si confronta il tasso di crescita del reddito pro-capite di un paese con i dati relativi a un periodo precedente e con quelli di altri paesi, si possono scoprire diversi elementi interessanti.
In primo luogo, ci si rende conto che in tutti e tre i paesi europei scelti per questo confronto, anche se a livelli diversi (la tendenza è molto più accentuata nel caso dell'Italia), la dinamica è la medesima: diminuisce il tasso di crescita del reddito pro-capite, cala il ritmo della produttività, aumentano (o rallenta il ritmo della loro diminuzione) le ore lavorate pro-capite. Tutto questo prima dell’ultima crisi.
Nei cinque capitoli – due
interamente inediti e tre ottenuti dalla rifusione di una
serie di articoli precedentemente apparsi in rivista – e
nell’appendice che
compongono il suo ultimo libro, Friedrich Engels e il
punto d’approdo della filosofia classica tedesca,
Giovanni Sgro’ ha
raccolto, in forma sistematica e compiuta, i risultati della
sua decennale ricerca intorno al pensiero teorico-politico
dell’«ultimo
Engels». Si tratta di una pubblicazione importante per
svariate ragioni.
Dal punto di vista del metodo, essa testimonia l’importanza sempre crescente che il nesso tra filologia e filosofia è venuto acquisendo nella più recente storiografia filosofica, in Italia e all’estero: essa mostra, cioè, come il profilo di un autore anche “classico” possa porsi sotto una luce affatto nuova, come l’esegesi del suo pensiero possa esplicarsi lungo tracciati sensibilmente innovativi, anche rispetto ad una cospicua letteratura, come le precedenti interpretazioni possano acquisire fondamenta più salde qualora si disponga di un’edizione critica integrale, filologicamente accurata, delle sue opere e si consegua un rapporto più intimo e ravvicinato con la “materialità diveniente” del testo filosofico.
In innumerevoli dibattiti di questi
anni, di fronte alle analisi sulle trasformazioni del lavoro
indotte dalle tecnologie digitali che si stavano producendo,
sono stato invitato ad
analizzare, a livello globale, lo sviluppo del mondo del
lavoro. Si obiettava che, alla riduzione degli occupati operai
nel mondo occidentale,
corrispondesse un aumento dell’occupazione operaia nel mondo,
attraverso i processi di delocalizzazione che molte imprese,
grandi e piccole,
stavano determinando.
Il processo, come provavo a spiegare, era solo “temporaneo” e non strutturale. Non solo, ben presto, meno di due/tre decenni, le innovazioni più avanzate avrebbero raggiunto anche i territori più lontani e l’impatto, dovuto alla riduzione dei costi delle tecnologie, vantaggioso anche in condizioni di iper-sfruttamento. L’esperienza della più grande fabbrica del mondo, la cinese FOXCON, con la massiccia sostituzione di lavoratori vivi con robot introdotta già dal 2012 e proseguita negli anni successivi non era che una avvisaglia di fenomeni ben più robusti e strutturali. Le stesse ondate di ritorno dei processi di delocalizzazione, spinte a volte da scelte politiche come dimostrano l’esperienza della presidenza Trump, accelerano i processi di distruzione del lavoro vivo, riducendo il lavoro nelle aree disagiate del mondo, ma favoriscono l’installazione di impianti produttivi sempre più automatizzati che producono effetti marginali nel ricco occidente che si vorrebbe avvantaggiare.
Ci sarà modo di
tornare sul significato politico, istituzionale e sociale di
queste importantissime elezioni, ma una cosa balza agli occhi.
Le classi che hanno
maggiormente sofferto a causa della globalizzazione e
dell’Unione europea, ossia, per dirla in soldoni, gli strati
inferiori della borghesia e
del proletariato, si sono apertamente ribellate all’ordine
vigente, si sono intrecciate nel voto ed hanno scelto partiti
che raccolgono la
protesta mescolando nostalgie liberiste e promesse di
protezione. L’inevitabile alleanza tra la piccola borghesia ed
il proletariato più
debole avviene, al momento, sotto l’egemonia della prima.
Soluzione obbligata, visto lo spettacolo vergognoso offerto in
tutti questi anni dalla
sinistra, ormai intossicata da una pestifera miscela di
europeismo, retoriche politically correct e
movimentismo. Accentuando la sua crisi, il
PD segue il destino delle cosiddette socialdemocrazie europee,
vittime del loro ipermercatismo. Per parte sua, la variante
espressa da Liberi ed
Eguali, si dimostra inevitabilmente inefficace, essendo
soltanto antirenziana e non sufficientemente antiliberista. E
Potere al popolo? Il risultato
della sinistra radicale è cosa meno ovvia, perché è in
quell’ambiente che avrebbe potuto e dovuto maturare
un’alternativa al globalismo europeista e sono quelle le forze
che avrebbero dovuto capitalizzare in qualche modo la
benvenuta
débacle del PD. Invece è avvenuto il contrario, e la
sinistra radicale ha raggiunto il peggior risultato della
sua storia.
Perché?
Questo articolo del compagno Marco Pondrelli è il primo di una serie di contributi che Marx21.it dedicherà alle elezioni ed agli altri temi centrali del dibattito politico, con l’obiettivo di fornire una chiave di lettura ed un contributo non congiunturale al dibattito a sinistra
Quali erano
gli
schieramenti in campo in queste elezioni? La risposta l’ha
fornita l'organo di Confindustria: Sergio Fabbrini in due
editoriali (14 e 21
gennaio) apparsi su 'il Sole 24 ore' ha spiegato che in Italia
si confrontavano europeisti e sovranisti. Due schieramenti
trasversali ai singoli
schieramenti ed ai singoli partiti, ma dalle caratteristiche
ben definite. Da una parte stava l'integrazione europea e,
come spesso ci ricorda
Panebianco dalle colonne del 'Corriere della Sera', la NATO,
dall'altro lato la sovranità nazionale.
Il Sole 24 ore non ha dubbi su dove schierarsi, arrivando ai confini dell'eversione quando afferma che “se le istituzioni politiche ed elettorali non sono in grado di garantire la preservazione di quel rapporto [con l'Europa] […] allora è necessario che quel rapporto venga protetto dalle nostre classi dirigenti“, tutto può essere discusso tranne la nostra appartenenza all''U.E. (ed all'euro) ed alla NATO. I grandi mezzi di informazione del paese per tutta la campagna elettorale hanno costruito un orientamento che considerava irricevibile una sovrana decisione del popolo italiano se essa avesse messo in discussione queste appartenenze. Il ragionamento di fondo è sempre stato il fatto che riappropriarsi della sovranità nazionale è inammissibile e che l'appartenenza all'U.E. ed alla Nato non sono nella disponibilità degli elettori.
La Ghouta, il sobborgo della capitale siriana Damasco di cui tanto si parla in questi giorni, da sette anni è controllato dai miliziani di Jaysh al-Islam, Failak al-Rahman e Jabhat al-Nusra, ovvero da gruppi di terroristi. Su questo non vi possono essere incertezze né margini per i soliti giochini lessicali a base di «ribelli», «insorti» e altri eufemismi. Dal territorio della Ghouta, che è assai esteso, questi terroristi sparano ogni giorno verso i quartieri di Damasco decine, a volte centinaia di missili e colpi di mortaio che colpiscono civili innocenti. Nei giorni che hanno preceduto la tregua, raccontavano religiosi che vivono e lavorano a Damasco, il lancio dei missili era sincronizzato con l’orario di uscita degli studenti dalle scuole, affinché il terrore fosse più ampio e profondo.
Nondimeno, il dramma che da settimane si compie a Ghouta, oggetto di attacchi pesantissimi dell’esercito di Bashar al-Assad che, appoggiato dai russi, vuole riconquistare anche questa porzione di territorio, sta scuotendo la coscienza del mondo. Giustamente.
Dopo decenni di retorica a base di «bombe intelligenti», «incursioni mirate», «operazioni chirurgiche» e altre baggianate di propaganda, è più che ora che i cittadini dell’Occidente si rendano conto che la guerra contemporanea è esattamente questo: sparare su luoghi dove altissima è la probabilità di ammazzare civili. Nella guerra contemporanea le cosiddette vittime collaterali ormai sono i soldati. Per lo più muoiono vecchi, donne e bambini.
Negli ultimi mesi alcune prospettive geoeconomiche mondiali stanno cambiando, e un “cambio della guardia” in Sud America risulterebbe una mossa rivoluzionaria negli assetti politici e commerciali globali. Dallo scorso anno i contatti tra la Cina e i paesi dell’America Latina si sono intensificati, e potrebbero divenire senza dubbio dei rapporti di lungo periodo.
Già nel maggio scorso, l’accoglienza riservata a Mauricio Macrì a Pechino era stata lusinghiera, con le parole di Xi Jinping che descriveva il Sud America come l’estensione naturale della Via della Seta del 21esimo secolo. La cooperazione sino-argentina nell’ambito dell’iniziativa “One Belt, One Road” va ormai avanti da quattro anni, e i suoi frutti sono già evidenti. Inoltre, la presenza di Pechino in quello che è stato per decenni il “cortile di casa” degli Stati Uniti dalla Dottrina Monroe in avanti, potrebbe scalzare definitivamente Washington quale interlocutore privilegiato con le potenze economiche emergenti dell’America Latina.
Uno dei più importanti segnali di questa inversione di tendenza è rappresentata dalla fioritura di importanti relazioni economiche tra Panama e la Repubblica Popolare Cinese.
È logico che in questi giorni, ma anche nelle prossime settimane, ci si interroghi su quanto accaduto sui mercati finanziari lo scorso lunedì 5 febbraio, il giorno in cui le Borse, a partire da Wall Street, hanno conosciuto un tonfo di diversi punti percentuali. Nei giorni successivi, dopo la grande paura, i mercati si sono stabilizzati, ma la domanda è se quello cui abbiamo assistito sia una scossa di aggiustamento, violenta ma comunque circoscritta, oppure se realmente siamo giunti ad un punto di svolta, cioè l’inizio di una nuova era di instabilità o volatilità.
Rispetto alla crisi del 2008, la differenza più rilevante sta nel fatto che allora si era arrivati all’esplosione della bolla finanziaria sull’onda dell’indebitamento privato di consumatori e istituti finanziari, mentre questa volta il fulcro dell’indebitamento sono le grandi imprese. Si pensi che negli ultimi 10 anni il rapporto tra debito globale e PIL è aumentato del 40%: in parte questo aumento fenomenale è dovuto alla crescita dell’indebitamento pubblico nei paesi occidentali, in parte all’aumento del debito in Cina, ma il grosso è da attribuire alle grandi imprese su scala mondiale. Le imprese hanno oggi un debito cumulato pari al 96% del Pil mondiale, mentre era del 15% solo sei anni fa.
La notizia è di quelle che lasciano nello sconcerto. Ancora una volta non si può non deprecare l’irresponsabilità del presidente USA, il cialtrone Donald Trump. Ormai è ufficiale: grazie ad un tweet di CialTrump abbiamo saputo che gli Stati Uniti sospenderanno i finanziamenti al terrorismo organizzato dal Pakistan. Rischierebbero di finire senza soldi i Talebani, la rete Haqqani, l’organizzazione Lashkar-e Taiba e tante altre reti terroristiche finanziate dall’ISI, l’Inter-Service Intelligence pakistana, con i soldi americani. CialTrump ha dichiarato che negli ultimi quindici anni gli Stati Uniti hanno elargito più di trentatré miliardi di dollari al Pakistan che finivano in buona parte all’ISI, che poi li passava ai terroristi, anche attraverso il Coalition Support Fund.
Ora, è vero che gli USA mantengono in piedi gran parte del terrorismo internazionale attraverso un welfare terroristico impegnativo, ma ci pare che i pakistani avessero svolto bene il loro ruolo complementare di destabilizzazione negli ultimi decenni, con solo un miliardo e trecento milioni di dollari all’anno a disposizione. Una miope considerazione contabile non dovrebbe privare questi preziosi collaboratori degli Stati Uniti di un sostegno così importante. Obama, negli anni del suo mandato, non si era mai sognato di arrivare a tanto.
Non si spiegherebbe tanta ingratitudine da parte di un presidente USA nei confronti di un Paese come il Pakistan, decisivo nel vincere la Guerra Fredda ed anche nel destabilizzare Libia e Siria, se non si entra nella psicologia delle destre, nella loro capacità di assumere il proprio vittimismo come categoria assoluta, di suggestionarsi con la propria stessa ipocrisia sino a vibrare di autentico rancore. Probabilmente CialTrump si sente davvero defraudato dal Pakistan dato che i risultati della destabilizzazione non sono stati quelli auspicati.
Non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità. Siamo un paese occupato
Era il 1908 quando Gilbert K. Chesterton osservava acutamente: “Stiamo procedendo nella direzione che porterà a creare una razza di persone troppo modesta intellettualmente per credere nella tavola pitagorica.” Più di un secolo dopo, possiamo dire che era un ottimista. É questa la ragione per cui non ho dubbi che questo mio pezzo non circolerà quanto dovrebbe.
Tuttavia, considerando la faccenda con il distacco dello studioso di propaganda, non si può fare a meno di notare come anche all’interno del cosiddetto “anti-sistema” il frame, la cornice interpretativa, all’interno della quale le elezioni italiane sono presentate, manchi del dato fondamentale: le elezioni avvengono in un Paese occupato militarmente da più di settanta anni.
Secondo il sito della Treccani – noto covo di rivoltosi e di cospiratori- le basi americane ufficiali in Italia sono 59 e, secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve.
La cosa non deve destare meraviglia, il servilismo da noi è ereditario come le palle degli stemmi nobiliari, e ha largamente ispirato la nostra letteratura, dalla famosa invettiva dantesca “Ahi serva Italia, di dolore ostello… non donna di province, ma bordello!”, ad “Arlecchino servitore di due padroni” di Carlo Goldoni.
Non bisogna, poi, mai dimenticare che il nostro Paese uscì sconfitto dalla seconda guerra mondiale e come tale fu considerato nel trattato di pace del 1947.
I risultati delle elezioni italiane sono l’ulteriore dimostrazione del collasso, a livello europeo, del sistema politico tradizionale, basato sull’alternanza bipolare di centro-destra (PPE) e centro-sinistra (PSE). Forza Italia, interna al gruppo dei Popolari europei (PPE), è il quarto partito, il Pd, rappresentante del Partito socialista europeo (PSE), è secondo a pari merito con la Lega e scende al minimo storico. Il risultato del Pd non è per nulla eccezionale rispetto a quanto fatto registrare dai partiti socialisti in Germania, Spagna e Francia (anzi, qui le cose sono andate peggio).
Il punto è che la presunta e tanto sbandierata ripresa non è tale da recuperare quanto perso in 10 anni di crisi e di austerity europea e soprattutto è una crescita senza lavoro, o meglio senza lavoro adeguato a sopravvivere, fatta di aumento delle disuguaglianze. Infatti, il tema implicito di queste elezioni è stato il lavoro, o meglio la mancanza di lavoro. Le elezioni sono state vinte da chi ha messo in campo una risposta - giudicata credibile dagli elettori - a questo problema e alla questione collegata, cioè come determinare una effettiva ripresa economica. In particolare tre proposte sono state portate all’attenzione degli elettori da Lega e M5S: la critica ai vincoli dei trattati Europei, la riduzione dei flussi di immigrazione, e soprattutto il reddito di cittadinanza, collegato quest’ultimo a un programma neokeynesiano.
E' andata come ampiamente previsto e cioè nell'unico modo possibile.
Lo scenario è quasi il peggiore immaginabile, perché il quadro è slittato enormemente più a destra di quanto già non fosse. Solo se ci fosse una chiara maggioranza Di Maio-Salvini o Salvini-Di Maio sarebbe peggio.
A questo punto, un PD che non fosse in stato confusionale ma fosse ancora in grado di fare politica, scaricherebbe immediatamente Renzi e offrirebbe sponda a un governo Di Maio per ridurre il danno: prevenire un asse con Salvini e cominciare a logorare i 5Stelle, costringendoli a scegliere le alleanze e seminando in questo modo contraddizioni nel loro elettorato.
Quanto a PAP, speravo di più (tra l'1,5 e il 2%) ma il mio vero dubbio era se LEU sarebbe riuscita a superare lo sbarramento o meno: purtroppo ce l'hanno fatta, seppur per poco, e continueranno perciò a rappresentare la "sinistra" ufficiale, con tutto il danno che ne consegue.
Ho appena letto la riflessione «a botta calda» sulle elezioni politiche del 4 marzo di Carlo Formenti, simpatizzante (pentito?) di Potere al Popolo, e subito mi è balenata in testa il classico “aforisma” andreottiano: «Il potere logora chi non ce l’ha». Oppure, nello specifico, le elezioni logorano chi non riesce a intercettare sufficienti voti. La quantità di voti considerata sufficiente dal soggetto politico che concorre alle elezioni dipende da molti fattori che qui sarebbe troppo lungo e ozioso elencare. Certamente l’investimento in termini di entusiasmo e di speranze (più o meno illusorie) ha una parte molto importante in tutto ciò, soprattutto per quei soggetti considerati degli outsider dall’establishment politico, e che per la prima volta tentano di entrare nei Palazzi della democrazia capitalistica, magari per inventare un nuovo “parlamentarismo rivoluzionario”.
Scrive Formenti: «In attesa di approfondire le riflessioni che quanto è appena successo mi suggerisce, non posso tuttavia esimermi da una prima reazione a botta calda. Troppa è l’irritazione che mi suscitano le reazioni di tutti quei compagni che, di fronte alla duplice schiacciante vittoria di Cinque Stelle e Lega, sanno solo insultare gli elettori italiani accusandoli di essere populisti, qualunquisti, fascisti, razzisti, sessuofobi, xenofobi e quant’altro.
Gli ultimi dati sul lavoro non sono
incoraggianti. Se pur cala il tasso di disoccupazione dello
0,1%, arrivando all'11,1%, con il picco nella fascia di età
tra i 15-24 anni (calo
del 1,3% e disoccupazione al 32,7%), le nuove assunzioni sono
quasi tutte a tempo determinato. Rispetto a novembre 2016 ci
sono stati infatti +450.000
occupati a tempo determinato a fronte di 48.000 a tempo
indeterminato. Solo tra ottobre e novembre 2017 ci sono stati
68.000 nuovi occupati, di cui
54.000 precari. L'ex premier Renzi esulta: "Il Jobs Act ha
fatto aumentare le assunzioni, non i licenziamenti, il tempo è
galantuomo lo diciamo
sempre" Molto fumo negli occhi. A sinistra le opposizioni
incalzano e replicano. Per Pippo Civati, di Liberi e uguali,
"i precari sfondano ogni
record: quasi 3 milioni (2.908.921). Mai così alti dall'inizio
della serie storica. Ogni dieci nuovi lavoratori dipendenti,
otto sono precari.
Il vero record è la precarietà". Dati che scaldano la campagna
elettorale e il tema del lavoro torna al centro dello scontro,
tra bugie,
propaganda e proposte.
Tra queste ultime, merita attenta analisi quelle del Movimento 5 stelle: perché secondo i sondaggi attuali è il primo partito, e nonostante gli inciuci vari tra partiti e liste apparentate, dovuti al meccanismo della legge elettorale, potrebbe arrivare a governare, ricevendo l'incarico da Mat-tarella per andare davanti al Parlamento e vedere chi ci sta; perché rifiutando di collocarsi sia a destra che a sinistra, è meno facilmente identificabile nella sua posizione rispetto al conflitto Capitale/lavoro; perché, infine, ne ha fatto uno dei suoi temi principali da mesi.
Il gioco [dell’imitazione] può forse
essere criticato sulla base del fatto che le possibilità
sono troppo
nettamente a sfavore della macchina. Se l’uomo dovesse
cercare di fingere di essere una macchina, farebbe
certamente una pessima figura. Sarebbe
tradito immediatamente dalla sua lentezza e imprecisione
nell’aritmetica. Non possono forse le macchine comportarsi
in qualche maniera che
dovrebbe essere descritta come pensiero, ma che è molto
differente da quanto fa un uomo?
(A. M. Turing, 1950)
In Blade Runner[1] Rick Deckard sottopone i suoi interrogati al test di Voight-Kampff, così da poter discriminare tra umani e replicanti: i secondi pressoché identici ai primi e tuttavia incapaci di provare emozioni analoghe a quelle dell’uomo.
Il test di Voight-Kampff, per analogia di scopo,[2] è simile al test di Turing, introdotto dallo stesso Alan Turing nel suo pioneristico saggio sull’intelligenza macchinica[3] del 1950 che, in maniera provocatoria, si apre con la domanda: le macchine sono in grado di pensare?[4] Turing suggerisce di riformulare questo dilemma sotto forma di un test comportamentale, detto ‘gioco dell’imitazione’, a cui partecipano tre soggetti, due umani e un computer. Il gioco, in breve: un esaminatore umano sottopone una serie di domande scritte a un altro essere umano e a un computer, entrambi separati fisicamente dal primo di modo che questi non possa sapere da chi provengano le risposte. Un computer supera il test di Turing – e gli viene dunque riconosciuta la capacità di simulare un comportamento intelligente – se l’interrogatore si dimostra incapace di stabilire con certezza chi sia di volta in volta a rispondere alle sue domande.
In attesa Che Programma 101 renda noto il suo Comunicato di bilancio e giudizio sui risultati elettorali ci pare doveroso rilanciare quanto scrive il compagno a amico Carlo Formenti
«Populista:
aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo
quando questo comincia a
sfuggirle»
Nei prossimi giorni pubblicherò la mia analisi del risultato elettorale sul blog, come al solito.
In attesa di approfondire le riflessioni che quanto è appena successo mi suggerisce, non posso tuttavia esimermi da una prima reazione a botta calda.
Troppa è l'irritazione che mi suscitano le reazioni di tutti quei compagni che, di fronte alla duplice schiacciante vittoria di Cinque Stelle e Lega, sanno solo insultare gli elettori italiani accusandoli di essere populisti, qualunquisti, fascisti, razzisti, sessuofobi, xenofobi e quant'altro.
Per tutti costoro vale la seguente battuta di J-M. Naulot, riportata in esergo da Luca Ricolfi nel suo libro "Sinistra e popolo" : «Populista: aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle».
Così come vale la definizione di "negazionisti" che il giornalista americano Spannaus ha appioppato alle sinistre che negavano appunto le radici popolari della vittoria di Trump negli Stati Uniti e della Brexit in Inghilterra.
L’Istat pubblica le stime del valore del patrimonio detenuto da famiglie, imprese e Stato per l’anno 2016 e la loro evoluzione nell’ultimo decennio
Non si tratta più di vedere se questo o quel
teorema è vero o no,
ma se è utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale,
se è accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori
disinteressati sono subentrati
pugilatori a pagamento, all'indagine scientifica
spregiudicata sono subentrate la cattiva coscienza e la
malvagia intenzione
dell'apologetica
(Karl Marx, poscritto alla seconda
edizione del
libro I de Il Capitale)
Queste parole, che ben descrivono lo stato della “scienza economica borghese” da circa 150 anni, sembrano calzare alla perfezione anche per l’Istat ed il suo report intitolato “la ricchezza non finanziaria dell’Italia” uscito lo scorso 1 febbraio. Ventisei pagine che intendono fornire la misura del valore di abitazioni, immobili non residenziali, impianti, macchinari, armamenti, risorse biologiche coltivate, prodotti di proprietà intellettuale, scorte e terreni agricoli detenuti dalle imprese, dalle pubbliche amministrazioni e dalle famiglie nel 2016 e la loro variazione negli ultimi 10/15 anni.
Un’informazione quanto mai necessaria per comprendere, seppur a grandi linee, chi e dove accumula ricchezza nel nostro paese. Per scelta dell’istituto di statistica, tuttavia, dal computo mancano alcune componenti a dir poco fondamentali: le opere di ingegneria civile, gli oggetti di valore ed i monumenti, oltre ai beni durevoli delle famiglie (es, automobili, elettrodomestici, computer), i mezzi di sussistenza e le risorse naturali non prodotte dal lavoro umano.
Nel mesto panorama culturale della sinistra radicale l’ultimo libro di Domenico Moro (La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018 ) potrebbe, per usare una frase che piaceva a Stendhal, fare l’effetto “di un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto”. Potrebbe farlo (ma temiamo che non lo farà, dato che c’è gente che non avverte nemmeno i colpi di cannone) perché, oltre a porre nuovamente e con nettezza la questione dell’euro, ha il coraggio di nominare ciò che per la sinistra, e per l’intera cultura italiana, è il vero innominabile, il rimosso, il riassunto di tutto ciò che non è politically correct: la questione nazionale.
L’operazione di Moro è molto semplice, e proprio per questo va al centro del problema. Consiste nel ricondurre la questione della nazione (e della sovranità, e dello stato) ai suoi reali termini storico-filosofici, superando il riflesso condizionato che porta la sinistra a quella immotivata catena di equivalenze che fa associare sempre e comunque la nazione al nazionalismo e questo al fascismo. Eppure, come ricorda Moro, l’origine dell’idea di nazione è essenzialmente democratico-radicale (Rousseau, giacobinismo…), e la nazione è pensata ai suoi inizi come spazio di realizzazione della volontà popolare, come forma concreta della sostituzione del principio dinastico col principio democratico.
Quanto si sia trasformata la Cina dopo la Grande Crisi del 2008 lo si evince da un dato: nel 2017 il surplus delle partite correnti, vale a dire import export, attività finanziarie e servizi ecc., è calato all’1,3% del pil. Nel 2008 era pari al mostruoso livello del 10% del pil. Ciò significa che in dieci anni non solo la Cina si è focalizzata verso il mercato interno, attraverso una forte rivalutazione salariale, ma ha contribuito enormemente alla fuoriuscita dalla crisi mondiale divenendo “compratore di ultima istanza” mediante un raddoppio delle importazioni. Per fare un termine di paragone, l’eurozona nel 2017 presenta un surplus delle partite correnti pari al 3.4%, l’Italia al 2.9, gli Usa presentano un deficit pari al 2.4%.
La fortissima discesa del rapporto delle partite correnti cinesi rispetto al pil si riflette in un altro dato: nel 2017 la Cina ha contribuito per il 30% alla crescita mondiale, l’India per il 15%, gli Usa per il 10%, l’eurozona, l’”isola felice” secondo Draghi, per appena il 5.5%, sei volte meno della Cina. Nel 2017 le importazioni cinesi sono aumentate del 24%, trascinando i dati del commercio mondiale. Non diversamente si presenta il 2018: a gennaio l’import cinese è aumentato del 36.9%, quando a gennaio del 2017 era già aumentato del 16.7%. In due anni, dunque, se il trend continua, le importazioni dal resto del mondo aumenteranno del 50%.
Più passa il tempo, più si accumulano le rivelazioni e più cresce la sensazione che la recente ondata di russofobia, innescata dal Russiagate americano, risponda a un progetto da servizi segreti. Da anni, ormai, sentiamo ripetere la descrizione di un Occidente debole di fronte ai maneggi del Cremlino e impotente rispetto alle infiltrazioni degli hacker scatenati da Vladimir Putin. Tutto ciò che di strano, inatteso o spiacevole è successo nella nostra parte di mondo viene attribuito all’influenza russa: la Brexit, l’elezione di Donald Trump, l’ascesa dei movimenti e dei partiti cosiddetti “populisti”, le voci maligne su Emmanuel Macron durante la campagna elettorale che lo vide peraltro trionfare, la tentata secessione della Catalogna. Non poteva mancare l’Italia. E infatti Putin avrebbe influenzato l’esito del referendum costituzionale del 2016 e starebbe cercando in ogni modo di far vincere le elezioni a Lega Nord e M5S.
Chiunque non sia vissuto sulla Luna sa quanto fossero impopolari (a torto o a ragione) le riforme proposte dal governo Renzi, così come sa da quanto tempo il “populismo” vada capitalizzando (bene o male che sia) il consenso perso dai partiti tradizionali per ragioni del tutto comprensibili: crisi economica, immigrazione, disoccupazione giovanile e così via. Pare quindi che Putin, nel nostro caso, abbia speso male i suoi soldi.
Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro
Marx, per argomentare tale tesi, ricostruisce la genesi del capitale, l’accumulazione originaria del capitale. Tra le condizioni che hanno permesso lo sviluppo del capitalismo Marx enumera una serie di cause tra cui il commercio triangolare. Quest’ultimo denuncia la vera natura del capitalismo, ne smaschera la sostanza in modo inequivocabile. Il commercio triangolare tra Inghilterra, Africa (Guinea), e continente americano nel sedicesimo e diciasettesimo secolo, ha consentito una enorme eccedenza in denaro e la produzione del cotone a costo zero. Entrambe le variabili sono tra le precondizioni più importanti per l’affermarsi della prima Rivoluzione industriale. Se per mare il cattivo infinito del denaro – rompendo ogni legge della misura, della razionalità e dell’etica – imperversava e si concretizzava nelle navi negriere, in terra il capitale ungulato mostrava il suo volto con le recinzioni.
Sia nel caso delle navi negriere che nelle recinzioni in Inghilterra, si assisteva alla deportazione coatta e violenta di popoli e culture da un contesto in un altro al fine della produzione.
Il Forum della Meritocrazia, in un recente contributo pubblicato su questo spazio, ha sostenuto che in Italia la meritocrazia è carente e che un suo aumento avrebbe effetti benefici, stimolando la sana competizione di persone e istituzioni. Non intendo commentare sulla quantità di meritocrazia in Italia: le valutazioni internazionali ci pongono ai vertici delle classifiche mondiali nella sanità e nella ricerca; inoltre è inevitabile che nella percezione comune la meritocrazia sia sempre insufficiente. Voglio invece analizzare un più compiutamente quattro tra le molte problematiche della meritocrazia, che nelle presentazioni bonarie e retoriche del Forum non appaiono; e voglio cominciare con la premessa che parlare contro la meritocrazia è difficile proprio per le ragioni che il Forum espone così bene: non si fa forse meritocrazia nelle scuole con i voti assegnati ai bimbi? Non si fa forse meritocrazia nelle gare sportive? Perché quindi non nella valutazione dei professionisti o delle strutture?
1) Se per meritocrazia si intende scegliere il miglior medico tra dieci o la migliore università tra dieci è evidente che questo presuppone la disponibilità di un eccesso di risorse tra le quali scegliere la migliore e scartare le peggiori. Ma le risorse dovranno essere state prodotte tutte, e a caro prezzo. Potersi permettere il lusso di scegliere significa sostenere il costo degli scarti, sia umano che materiale.
Molti commentatori politici si stupiscono per la tenuta del consenso popolare a favore del M5S così come certificato dai sondaggi. Si tratta di capire a fondo il fenomeno
Molti commentatori politici si stupiscono per la tenuta del consenso popolare a favore del M5S così come certificato dai sondaggi. In modo ormai stabile, da mesi, le proiezioni indicano una banda di oscillazione tra il 26 e il 29% da parte delle maggiori agenzie, incuranti, sembra, delle vicissitudini pentastellate. Sembra riproporsi il paradigma di Donald Trump che, con una fulminante battuta durante la campagna per le presidenziali, smontò la narrazione arrembante dei media contro di lui: “sono talmente amato che potrei scendere a sparare sulla quinta strada e mi voterebbero lo stesso”.
Dopo il silenzio elettorale dei sondaggisti vedremo se tali previsioni saranno confermate dai voti veri dentro le urne. Nel frattempo, tali commentatori ripropongono la solita litania di motivazioni per questi fatti stupefacenti. Nonostante il MoVimento abbia dato ampie dimostrazioni, dicono, della sua incapacità, incoerenza, inettitudine, inadeguatezza, addirittura disonestà, se i cittadini continuano a premiarli non è per loro merito ma perché i sentimenti di odio e di anti-politica sono talmente diffusi che è molto difficile sradicarli. È la protesta la vera benzina che spinge ancora il motore 5stelle, null'altro.
Come di
consueto, un primo velocissimo esame di un risultato che,
questa volta, è chiarissimo nelle sue linee generali:
stravince il M5s, vince la
Lega, escono stra battuti Pd, Forza Italia e Leu e, come si
sa, in claris non fit interpretatio.
E’ evidente una cosa: questa è la fine della seconda repubblica (iniziata il 4 dicembre 2016, come dicemmo a suo tempo) che punisce con durezza i suoi due pilastri principali: Pd e Forza Italia. E questo ha consentito la vittoria della strategia di Di Maio che puntava ad uno sfondamento al centro, saccheggiando fasce elettorali del Pd. Ammetto di essermi sbagliato non prevedendo un risultato così netto e radicale tanto sul fianco del M5s quanto su quello della Lega, anche se percepivo una qualche “sorpresa” in arrivo dato l’elevatissimo numero di elettori incerti ancora pochi giorni prima del voto.
Questo cambiamento era nell’aria da un anno, ora c’è la convalida ufficiale. I partiti di governo hanno cercato di bloccare la domanda di una nuova offerta politica con una legge elettorale basata sull’innesto dei collegi uninominali, senza voto disgiunto, con clausola di sbarramento e aumento ostruzionistico delle firme. Hanno messo il tappo sulla bottiglia che ribolliva e la bottiglia gli è esplosa in faccia.
La II Repubblica è
morta.
Soffocata dalle macerie del castello di false promesse su
cui era stata edificata. Il regime nuovo sorto ad
inizio anni Novanta, sugli
scandali di tangentopoli e sul crollo del muro di Berlino,
sulla caduta o trasformazione dei partiti storici e
sull’onda dell’entusiasmo
dell’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht,
prometteva agli italiani che la “globalizzazione reale”
avrebbe
rappresentato un fattore di progresso per l’intera società.
Doveva trattatasi di un progetto per una classe media e per
i settori
creativi della finanza e della cultura, destinati a divenire
perno della vita nazionale, in quanto strutturalmente capaci
di trarre profitto dalle
opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto. In
parallelo, l’apparato produttivo, finalmente svecchiato
dalle
incrostazioni protezionistiche e statalistiche, avrebbe
riacquistato il perduto smalto. Risultati: una
marea montante di precariato e di (ex)
classi medie impoverite, o che comunque vedono a
rischio il proprio status; una montagna di
privatizzazioni che hanno spinto
l’apparato produttivo verso una deriva terzomondista e la
periferia dell’Europa, in maniera del tutto
subordinata ai desideri
delle classi dominanti tedesche.
Il regime oligarchico che ha prodotto tutto questo ha preso da ultimo le sembianze del renzismo, ed è stato il renzismo soprattutto ad essere travolto dalle macerie di un sistema che si reggeva in realtà su di una oligarchia questa sì bipartisan, forte della propria debolezza e della benevolenza, finché dura, di Mamma Merkel e di nonna Europa.
La
crociata
dell’establishment contro un generico pericolo populista ha
avuto un grande successo sulle riviste accademiche, sui
quotidiani di massa, nei
partiti seri e perfino in molti circoli di sinistra estrema:
peccato che nella realtà elettorale abbia fatto flop
Forse sarebbe stato meglio avere un po’ di sano seppur magro populismo di sinistra, tipo Mélenchon o Podemos, ancor meglio una socialdemocrazia radicale infettata di populismo come Corbyn o die Linke. Invece abbiamo un galoppante populismo di destra alla Salvini e un voto ibrido di protesta a un M5s in piena virata democristiana. Questa è la zuppa che passa il convento. Forse dovremmo rivedere gli argomenti antagonisti, che ne dite?
Il M5s ha trionfato sopra ogni aspettativa, il Pd è crollato, per riuscito suicidio. Il centro-destra come coalizione è in testa, lontano però dalla maggioranza dei seggi (secondo i dati disponibili al momento) e soprattutto con un sorpasso di Salvini su Berlusconi che rende impossibile un allargamento dell’egemonia: oltre tutto la compravendita dei “responsabili” (che pure ci sarebbero) è resa difficile dal fatto che Berlusconi non vuole dissipare i soldi di Mediaset per portare al governo il suo rivale.
Di fatto è una situazione ingovernabile di stallo e non sembra una legislatura di lungo respiro.
Giungono
in queste ore i risultati definitivi della tornata
elettorale di ieri. I principali partiti che hanno governato
per conto dell’Europa negli anni
della crisi, PD e Forza Italia, escono da queste elezioni
con le ossa rotte, raccogliendo i frutti amari delle
politiche lacrime e sangue inflitte al
Paese. Il blocco dominante europeista è stato finalmente
respinto dagli elettori, e ci sarebbe da fare festa se non
fosse che il sistema ha
messo immediatamente in moto i suoi anticorpi a qualsiasi
progresso sociale, anticorpi che si sono rivelati pienamente
efficaci: Movimento 5 Stelle e
Lega, quelle forze che avevamo definito come false
alternative al sistema, raccolgono
il voto di un elettore su due ponendosi così a presidio di
un apparato di potere in crisi di consensi. Fossero reali
alternative, il 50% dei
voti che portano in dote sarebbe sufficiente a far saltare
il banco dell’austerità, ma nulla di tutto questo si vede
all’orizzonte.
Mentre le élite europee possono dormire sonni tranquilli, a
doversi preoccupare per il peso assunto da questo rabbioso
populismo di destra sono
– come al solito – i più deboli: i lavoratori, immigrati o
autoctoni che siano, restano il bersaglio ideale delle forze
liberiste
che hanno guadagnato il proscenio.
Siamo ad
un voto storico: M5S e Lega vincono le elezioni mandando in
soffitta le larghe intese e demolendo il Pd di Renzi, che
dopo la debacle si è
dimesso. Un po’ tutta la sinistra risulta non pervenuta. Si
chiude l’era della Seconda Repubblica e ora spetterà al
presidente
Mattarella far uscire il Paese dall’impasse. E prende piede
l’ipotesi di un governo M5S – Pd derenzizzato.
Il Rosatellum ha vinto. L’Italia è un Paese ingovernabile. In fondo, la legge elettorale – ideata da Renzi, Berlusconi e Verdini – era stata partorita per questo. Pensata ad hoc per impedire la vittoria del M5S e giustificare l’ennesimo inciucio.
Ma si era sottovalutata la rabbia popolare. Queste elezioni aprono una fase nuova, niente sarà come prima. Qualcosa è sfuggito o andato storto, secondo i calcoli del Pd e di Forza Italia. Un accordicchio di Sistema non ha (più) i numeri sufficienti per governare il Paese. Il Gentiloni bis torna in soffitta. Il M5S è, infatti, andato oltre le aspettative attestandosi al 32 per cento facendo quasi il pieno nei collegi uninominali del Sud. È un successo inequivocabile. Un voto storico: finisce la Seconda Repubblica. Per Di Maio inizia “la Terza Repubblica dei cittadini”. I partiti tradizionali vengono spazzati via.
Le
elezioni italiane hanno avuto eco
internazionale. In attesa del governo che verrà, ci
esercitiamo in qualche piccola
analisi, del tutto estemporanea, da dilettanti.
Vincono i Cinquestelle, che come prevedibile sono primo partito. La campagna mediatica subita, con scandali a ripetizione, non ha avuto alcun esito. Evidentemente raccoglie la protesta anti-sistema, quindi i suoi elettori non sono influenzabili dai media di sistema.
Uno smacco per tali media che evidentemente non sanno più parlare al Paese, come evidente da tempo.
Da vedere come e se il M5S supererà le tante contraddizioni che lo attraversano: un partito di protesta e di governo, magmatico su temi non secondari, con dialettiche interne normali nella vita politica che però al loro interno risultano più dilanianti. Contraddizioni che finora sono state gestite senza affrontarle fino in fondo per evitare rotture; ma che dovranno essere sciolte se vogliono governare.
Vince Salvini, che in queste elezioni raccoglie il pieno dei voti legati al malumore verso le politiche sull’immigrazione. Sotto questo profilo la sua campagna elettorale era già fatta da tempo. Di suo ci ha messo una comunicatività diretta che evidentemente ha certa efficacia.

Al di là di come la si pensi sul Movimento 5
Stelle, occorre riconoscere che l’indicazione di Andrea
Roventini, docente presso l’Istituto di Economia
della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa guidato fino a poco
tempo fa da
Giovanni Dosi, è una scelta di alto profilo.
I suoi principali interessi di ricerca comprendono l’analisi
di sistemi
complessi, l’economia computazionale basata su agenti
eterogenei, la crescita, i cicli economici e lo studio degli
effetti delle politiche
monetarie, fiscali, tecnologiche e climatiche. I suoi lavori
sono stati pubblicati su Journal of Applied Econometrics,
Journal of
Economic Dynamics and Control, Journal of Economic
Behavior and Organization, Macroeconomic Dynamics,
Ecological Economics,
Journal of Evolutionary Economics, Environmental
Modeling e Software, Computational Economics.
Inoltre partecipa a vari
progetti di ricerca europei come ISIGrowth,
Dolfins e Impressions.
Vale la pena quindi soffermarsi sui suoi lavori. Abbiamo perciò selezionato alcuni articoli e working paper che offrono una carrellata crediamo rappresentativa delle idee del candidato ministro.
Da quando è scoppiata la crisi, ma in particolare negli ultimi 2-3 anni, la critica ai modelli standard è diventata sempre più serrata, tant’è che persino diversi economisti mainstream hanno sollevato pacati dubbi (Blanchard), invitato a guardare altrove (Summers), se non addirittura, in qualche caso, mosso aspre critiche (Romer, Krugman e soprattutto Stiglitz).
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«Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione […] entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. […] Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile».
Sfogliando le seicentocinquanta pagine del Demone della politica – la corposa antologia, curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat, che raccoglie alcuni dei lavori più importanti stesi da Mario Tronti dal 1958 al 2015 (Il Mulino, pp. 656, euro 46.00) – è quasi inevitabile tornare alle parole che Max Weber pronunciò nella sua celebre conferenza del gennaio 1919. Perché non c’è dubbio che il «demone della politica» sia costantemente presente in ogni pagina di Mario Tronti, dai suoi primi scritti apparentemente teorici fino ai lavori più recenti, pur dominati dalla disillusione e persino da una forma di «disperazione teorica». Non c’è infatti nessuna pagina di Tronti in cui la motivazione e gli obiettivi non siano – più o meno scopertamente – politici. Anche se la politica cui pensa Tronti è una «grande politica» che non ha nulla a che fare con il querulo battibecco che – nella quotidianità delle nostre democrazie d’inizio millennio – siamo soliti chiamare (fin troppo generosamente) «politica».
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La meraviglia panica, ci
disperde, dinanzi al trionfo del neoliberismo. Si deve passare
dallo stupore alla razionalizzazione. Dinanzi alla carcassa
che ci offre il
neoliberismo, con lo splendore di un corpo in decomposizione
logorato dalle sue contraddizioni senza risposte, dalle quali
non pare aprirsi alcun
campo di ricerca, alcuna prassi. E’ necessario partire dal
punto zero del pensiero per ricominciare. L’incipit di un
nuovo percorso deve
avere la chiarezza della trappola in cui il mondo è caduto, “La
notte del mondo”, a voler usare il linguaggio di
Heidegger,
e non si coglie la fine della notte. Al silenzio del pensiero
e della speranza è necessario opporre la domanda. Quest’ultima
necessita
che si guardi in profondità, che ci si sottragga alla
stimolazione perenne, per vivere l’irrilevanza di questi
decenni. La categoria con
la quale è possibile leggere la contemporaneità è
l’irrilevanza, la mercificazione fa molto più che ridurre
tutto
alla totalità della valorizzazione, trasforma la vita, le
nostre vite, da organico ad inorganico, agisce da acido,
annichilisce, con il
pensiero, la passione di vivere. Se seguissimo i dettami della
nostra Costituzione, il carattere feticistico delle merci
sarebbe illegale, non
costituzionale, poiché la Costituzione fa della dignità e
della volontà soggettiva l’architrave della difesa della
dignità delle persone, così come recita l’articolo terzo:
Il diritto di voto è garantito
dall’articolo
48 della Costituzione della Repubblica
italiana, che afferma:
«Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».
Come si può leggere, nella Costituzione il voto è considerato un “dovere civico”. Si dibatte da tempo sul senso di queste parole, anche perché è un “dovere” che non prevede sanzioni in caso di violazione. Il voto sembra essere l’unica espressione simbolica delle prassi democratiche. In realtà, nell’ordinamento italiano esistono 4 strumenti di democrazia diretta:
• Petizione (50 della Costituzione)
• Legge di iniziativa popolare a voto parlamentare (71 della Costituzione)
• Referendum abrogativo (75 della Costituzione, il quale è anche il motivo per cui in Italia non ci sarà mai un referendum come quello che ha portato al Brexit)
• Referendum confermativo (138 dell Costituzione)
Da RussEurope in esilio, Jacques Sapir commenta il risultato delle elezioni italiane, che hanno segnato una sconfitta storica per i partiti socialdemocratici, appiattiti senza riserve sul montante neoliberismo e letteralmente cancellati dal verdetto degli elettori. Questa sconfitta potrebbe diffondersi per contagio negli altri paesi europei, come in Germania, dove l’SPD, accettando la Grande Coalizione, ha segnato la propria condanna a una morte lunga e dolorosa. Qualunque sarà l’esito sul governo di queste elezioni, i partiti che ne escono vincenti dovrebbero tenere presente quello che evidenzia Sapir: queste elezioni italiane hanno il valore di un referendum sulla questione europea
Una sconfitta storica
Le elezioni che si sono svolte in Italia domenica 4 marzo hanno provocato un vero terremoto politico. Il partito di centrosinistra (il PD) e il suo leader sono stati cancellati. I partiti euro-scettici o cosiddetti “populisti” sono arrivati primi. È probabile che nei prossimi mesi questo terremoto si diffonderà, per un effetto di contagio, verso altri paesi dell’Unione europea. E’ utile dunque trarne delle lezioni. Va ricordato, tuttavia, che il sistema elettorale italiano è complesso.
Ghino di Tacco: così Eugenio Scalfari soprannominò Bettino Craxi, paragonandolo al bandito che dalla Rocca di Radicofani taglieggiava i pellegrini che passavano sulla vicina via Francigena. Il motivo non era amichevole – tra Scalfari e Craxi, si sa, non correva buon sangue – ed era dovuto al fatto che Craxi, determinante con il suo partito per formare una maggioranza, avanzava pretese a giudizio di Scalfari eccessive. Craxi studiò la storia del personaggio e, scoperto che aveva fama di bandito-gentiluomo, da allora in poi firmò con quello pseudonimo i suoi corsivi sull’Avanti!.
Oggi la storia sembra ripetersi con Renzi. Il Pd è diventato troppo piccolo per pretendere di formare il nuovo governo, ma è abbastanza grande da esercitare un potere di interdizione su varie delle possibili soluzioni. E se dovesse essere escluso dai giochi, potrà fruire al prossimo giro del “dividendo da opposizione”.
Vale però anche in questo caso la famosa frase di Marx: “La storia si ripete, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. E se non ci fu tragedia negli eventi di quegli anni passati, c’è certamente la farsa oggi, con un Renzi che, passato da una sconfitta elettorale all’altra, finge un’altra volta di dimettersi, ma non ora, dopo che i passaggi più delicati della nuova legislatura saranno stati fatti sotto la sua gestione del partito.
Prima di affrontare Realismo Capitalista di Mark Fisher è utile ricordare la data di uscita dell’edizione originale: 27 novembre 2009. Lo è per la sua prossimità alla grande crisi del 2008 quando esplosero, “non già con uno schianto ma con un lamento”, le contraddizioni dell’Internazionale Capitalista covate in seno alla svolta liberista degli anni ‘80, cullate dal laissez faire post-ideologico dei ‘90 e nutrite a steroidi dall’isteria finanziaria dei primi 2000. Lo è perché, col senno del 2018, non si può cogliere appieno il ruolo che ebbe questo testo, breve e incisivo, immediatamente molto letto e discusso, nel reintrodurre nel bagaglio intellettuale della sinistra inglese autori marginalizzati dal clima culturale post-blairismo: dall’ovvio Marx al meno ovvio Kafka, fino ai vari Deleuze, Foucault e Jameson.
Dopo una iniziale militanza nell’ormai famigerata e influentissima CCRU di Nick Land e Sadie Plant, dalla metà dei ’90 Mark Fisher si era affermato come critico musicale e teorico di cultura pop. Scriveva su magazine e quotidiani come The Wire e Guardian ma, soprattutto, su un suo blog personale, K-Punk: un punto di riferimento per chiunque volesse approfondire le direzioni in cui stava andando la musica e la cultura inglese. Imbattendosi in quel blog si coglieva subito che “giornalista musicale” era una etichetta che a Fisher calzava stretta, tale era la sua sensibilità nel decifrare la semiotica della cultura pop britannica per intarsiare discorsi altri intorno alle mutazioni della società inglese e, più in generale, occidentale.
«Il presente volume si propone di ricostruire alcuni nodi teorici fondamentali dell’opera filosofica dell’ultimo Engels (1873-1895), in particolare la sua interpretazione della dialettica hegeliana e la sua valutazione del ruolo svolto da Feuerbach nel processo di dissoluzione del sistema speculativo hegeliano e nel conseguente processo di formazione della concezione materialistica della storia. La conclusione cui giunge la presente ricerca è che il tardo Engels non abbia fatto sostanzialmente altro che riproporre, dopo più di quarant’anni, le stesse tesi elaborate durante la propria formazione filosofica (1841-1846), avvenuta negli ambienti della Sinistra hegeliana, e che di conseguenza non sia tanto Feuerbach a rappresentare il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, quanto piuttosto Engels stesso» (dalla quarta di copertina).
Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1886; 1888), introduzione, traduzione e note di Giovanni Sgro’, La città del sole, Napoli 2009.
Giovanni Sgro’, Friedrich Engels e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Ortothes, Salerno 2017.
Dopo Trump,
dopo la Brexit, dopo il referendum sulla Costituzione italiana
del dicembre 2016, erano arrivate la vittoria di Macron nelle
elezioni presidenziali
francesi e il recente, travagliato rilancio della Grande
Coalizione CDU-SPD in Germania, alimentando nell’establishment
liberal democratico
l’illusione che la marea populista fosse sul punto di
rifluire. Invece no. Il risultato delle elezioni politiche
italiane di pochi giorni fa
testimonia che l’onda prosegue il suo cammino e rischia di
travolgere la diga eretta da partiti tradizionali, media e
istituzioni nazionali ed
europee.
M5S e Lega triplicano le rispettive rappresentanze parlamentari e i loro voti sommati superano il 50%, certificando che metà dei cittadini italiani sono euroscettici e non credono più alle narrazioni sulla fine della crisi e sui presunti benefici della globalizzazione. Partirò da alcuni commenti giornalistici sullo tsunami populista per affrontare quattro interrogativi: 1) quali sono le radici sociali del populismo, 2) quali sono le differenze fra le sue due anime principali; 3) perché le sinistre (tanto le socialdemocratiche quanto le radicali) stanno affondando nell’insignificanza politica; 4) perché, malgrado tutto, l’establishment è ancora in grado resistere e quali scenari si apriranno se e quando la diga crollerà davvero.
Gli
appassionati di teologia politica frequentano molto quel passo
di Walter Benjamin dove si racconta del turco meccanico. Il
turco
meccanico, racconta Benjamin, è un automa che raggiunse una
grande popolarità mostrando di sapere giocare a scacchi: ma le
sue
capacità, in realtà, erano dovute a un uomo di bassa statura e
di grande abilità scacchistica, nascosto dentro il finto
automa.
Per Benjamin, l’«invisibile» è l’anima teologica che
abiterebbe il materialismo. Roberto Ciccarelli è andato a caccia anche lui
del motore invisibile del nostro tempo, o meglio, del
motore invisibilizzato, di
quell’energia che, pure costantemente sotto i nostri occhi, è
continuamente occultata dai dispositivi di governo. Solo che
Ciccarelli non
guarda in un presunto Altro o Altrove, e neppure nelle sfere
comunque più o meno trascendenti che custodirebbero qualche
presunta
«scintilla» della decisione politica, com’è nella tradizione
delle teologie politiche che solitamente si richiamano al
turco
benjaminiano. Per lui, l’energia nascosta non è affatto
nascosta, e tantomeno è nei cieli: il motore è tutto presente
sul
piano di immanenza, ed è nascosto non perché teologicamente
profondo, tantomeno perché la verità ami nascondersi, ma
perché i meccanismi di sfruttamento e l’inadeguatezza delle
nostre categorie di indagine congiurano per rendere
impossibile
nominarlo.
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L'articolo di Alessandro Visalli sui fatti di Macerata (qui) ha suscitato un vivo dibattito nei commenti e un'articolata replica di Eros Barone (qui). Anche Mario Galati, chiamato in causa nella discussione, ci offre il suo contributo
“In altre parole, se entro il modo di
produzione capitalista, fino a che si resta entro la sua
logica, appare alla
fine comunque razionale, e quindi invincibile, il
calcolo economico e la competizione, con essa diventano
anche inevitabili i rapporti
sociali che esso determina (o meglio, che lo
fondano); con la sua logica viene anche una specifica
forma di gerarchia sociale. Comprendendo il
capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica
)
diventa possibile accedere ad un piano di critica più
profondo. Il calcolo economico,
indiscutibile sul piano della
valorizzazione del valore (e quindi della sua
accumulazione, nel contesto dei rapporti sociali dati),
diventa irrazionale se si tiene al centro il
principio di una altra socialità: se la ricerca
dell’autonomia porta a porre al centro la natura e la
società tutta. Il calcolo
economico, come scrive nel 1973 Amin, diventa allora
riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista
sociale”.
Se Visalli si fosse attenuto a questa sua citazione non sarebbe incorso nella contraddizione di sostenere il carattere storico-sociale delle categorie di razionale e irrazionale e, nel contempo, di sostenere, sostanzialmente accettandola da Buffagni, la persistenza di forme irrazionali archetipiche connaturate all’essere umano, quali possono essere quelle rappresentate nel mito greco. Un conto è contestare una determinata razionalità storicamente determinata, specificandone il carattere ideologico e la funzione apologetica e strumentale, eventualmente, altro conto è l’irrazionalismo, ossia la rinuncia a spiegare razionalmente, scientificamente (proprio così, con tutte le approssimazioni, la parzialità, le distorsioni e i difetti possibili) i fenomeni umano-sociali, relegandoli sbrigativamente nella dimensione della trascendenza, metafisica o “naturale” che sia, e dell’eternità.
Sono andato a vedere “La forma dell’acqua”, di Guillermo del Toro, il remake di “Il mostro della laguna nera” del 1954. L’anno arriva dopo la morte dei protagonisti della seconda guerra mondiale, Truman nel 1952 e Stalin nel 1953, e dopo la repressione della rivolta di Berlino Est. Il 1953 e 1954 sono anni di altissima tensione prima della relativa distensione del 1955 e della crisi di Suez (1956) in cui USA e URSS operano di conserva per rimettere al loro posto francesi ed inglesi (del resto la dinamica della guerra fredda è una diarchia che non accetta di essere sfidata). Il 1956 è anche l’anno della destalinizzazione ad opera di Krusciov, e della rivoluzione ungherese.
Tutto questo ha una relazione con il film originario, nel quale un mostro anfibio in una laguna brasiliana attacca un gruppo di scienziati e rapisce una donna, venendo alla fine ucciso, e che risente del clima propagandistico dell’epoca: bisogna scovare e distruggere i mostri primitivi che si annidano sotto l’acqua e minacciano il nostro solare stile di vita e piacere. Come ne ha con King Kong, dove tra la bella e la bestia si crea una complicità, e la natura assume un ruolo più complesso.
Da qui in avanti spoiler. E, ovviamente, non critica cinematografica (casomai qui e qui), dato che fa ampio uso di elementi esterni.
Recensione al libro di Manlio Dinucci, Guerra nucleare, il giorno prima, ed. Zambon, 2017
Seguire con cura gli appuntamenti settimanali di Manlio Dinucci sul quotidiano «il manifesto» assicura un privilegio: anticipazioni, notizie e conferme volutamente negate dai media che sopravvivono a un presente permanente e sono sordi all’inquietante battito dell’orologio immaginato dal «Bulletin of the Atomic Scientists», il Doomsday Clock che, da dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, segue simbolicamente il rischio di una guerra nucleare e ora è stato spostato a soli due minuti alla mezzanotte.
«Guerra nucleare, il giorno prima» (Zambon editore) condensa la sequenza di una escalation in varie fasi dopo Hiroshima, giustificata con motivazioni aggiornate al mutevole “Nuovo Pericoloso Nemico” che la civiltà occidentale sente il dovere di distruggere per conservare i propri privilegi, garantire il perpetuarsi delle ingiustizie sociali, armandosi per un arco di guerre a diversa intensità, sempre sulla soglia di quella irreversibilmente letale. Lo sforzo ben riuscito dell’autore è convincerci che siamo al punto in cui anche questa soglia spaventosa potrebbe essere vantaggiosamente (!) infranta per una parte più tecnologicamente premunita.
Dialogo prossimo venturo:
“Permette che mi presenti?”
“Ma
certo, con piacere!”
“Ehm,
ecco … io sarei
lei…”
Parlare di queste cose in tempi di elezioni può sembrare fuorviante. Ma la politica, e che politica!, è estranea a cosa ne sarà biologicamente dell’essere umano?
CLONATE IN CINA DUE
SCIMMIE
A QUALCUNO IMPORTA?
Scarabocchi di Aldo
Zanchetta
I fatti
La “clonazione” di due scimmie avvenuta in Cina nelle scorse settimane ha destato rumore in alcuni ambienti scientifici mentre sembra essere stata accolta con disinteresse dall’opinione pubblica mondiale. Eppure dovrebbe riguardarla da vicino …
Ma procediamo.
La parola "clonazione" è ormai entrata nelle orecchie della gente e quindi "familiarizzata" ma forse senza essere accompagnata da una presa di coscienza delle sue concrete implicazioni. In biologia «la clonazione è la tecnica di produzione di copie geneticamente identiche di organismi viventi tramite manipolazione genetica».
Secondo gli economisti fanatici della teoria del libero scambio, l’abbattimento di ogni ostacolo al compimento della piena apertura commerciale rappresenterebbe la panacea di tutti i mali. Pur consapevoli degli effetti sulla redistribuzione del reddito, dovuti al fatto che necessariamente alcuni gruppi subiranno delle perdite di reddito di lungo periodo che non potranno essere sanate, essi lo considerano un prezzo inevitabile da pagare per aumentare il reddito reale complessivo di un’economia.
L’apertura al libero scambio comporta sempre un afflusso di reddito verso i settori che presentano vantaggi comparati, parallelamente alla contrazione degli altri. Ma qual è l’impatto della redistribuzione sul beneficio netto, o reale, del libero scambio?
Dipende dal livello di apertura commerciale di partenza del Paese coinvolto.
L’economista Dani Rodrik ha realizzato una simulazione econometrica, prendendo in analisi il caso degli USA. Ebbene, in un’economia come quella statunitense – in cui la media delle tariffe doganali è inferiore al 5% – un’ulteriore apertura del libero scambio, tendente alla sua completa realizzazione, porterebbe a una variazione della redistribuzione pari al 50% per ogni dollaro di guadagno netto realizzato.
C’è del neocolonialismo nell’agenda di Confindustria, che chiede investimenti pubblici per oltre 200 miliardi mantenendo precarietà, diritti limitati e tagli al debito pubblico
Quando gli industriali si riuniscono in assise è per dettare l’agenda ad un ceto politico che appare sempre più ricoprire il ruolo di utile idiota dei centri di potere economici. L’Assise Generali 2018 che si è tenuta lo scorso 16 febbraio, a Verona, non ha fatto, ovviamente, eccezione.
In conformità alle intenzioni degli industriali, in quell’assise non ci sono stati politici, perché “Essendo a pochi giorni dal voto sarebbe diventato un luogo di campagna elettorale”, aveva anticipato il presidente di Confindustria, Boccia. D'altronde, la loro presenza non era necessaria: il messaggio degli industriali arriva, comunque, sempre forte e chiaro. Ed in realtà non è che si sia detto granché di nuovo. Tutto è stato già detto e Confindustria da tempo ha dato indicazioni alla politica. Anche le interviste sui maggiori quotidiani nazionali nei giorni precedenti l’Assise 2018 avevano confermato le proposte che gli industriali italiani vanno ripetendo da tempo e che in qualche modo sono già accolte nei programmi politici.

Giordano Sivini, La fine del capitalismo. Dieci scenari, Asterios, Trieste 2016, 128 pp.
La fine del
capitalismo.
Dieci scenari di Giordano Sivini è un volume di piccole
dimensioni ma di grande utilità. Il libro è, nella sua gran
parte,
una rassegna del discorso sociologico-economico sul
capitalismo, soprattutto recente, al vaglio della questione
dell’approssimarsi di una sua
‘fine’, se non di un suo già sperimentato collasso. In
capitoli che accoppiano sinteticità a chiarezza espositiva
l’autore riesce a dar conto dei caratteri principali della
riflessione di alcuni dei pensatori al centro del dibattito
odierno sul nodo di una
‘fase terminale’ del capitalismo. Si inizia nel capitolo primo
(La fine della storia del capitalismo) con Giovanni
Arrighi e
Immanuel Wallerstein, della scuola del ‘sistema-mondo’. Si
prosegue nel capitolo secondo (L’agonia del capitalismo)
con
l’elaborazione più recente di Wolfgang Streeck, messa in
parallelo con la geografia materialistica di David Harvey in
un confronto
attorno alla questione del ‘soggetto’. Il passaggio ulteriore,
nel capitolo terzo (Il suicidio del capitale), prende
di petto
sintonie e divergenze nell’arcipelago del marxismo per molti
versi eterodosso tra, da un lato, la scuola della ‘critica del
valore’,
guardando in particolare alla riflessione di Robert Kurz, e,
dall’altro lato, alla riflessione di Moishe Postone, l’uno e
l’altro
propositori di un’uscita dal lavoro. Nel capitolo quarto (Verso
la nuova società) viene più decisamente avanti la
questione
del profilo di un possibile futuro ‘oltre’ il capitalismo, con
la considerazione del lungo e differenziato percorso di André
Gorz,
del discorso sul ‘postcapitalismo’ di Paul Mason, e delle
pubblicazioni di Jeremy Rifkin.
All’indomani del voto, alcuni
primi elementi suggeriscono che uno dei motivi del fragoroso
esito elettorale del 4 marzo sta nella scarsa capacità dei
partiti tradizionali di
rispondere in modo efficace alle inquietudini degli italiani.
Inquietudini generate dalle profonde trasformazioni
socio-economiche che stanno
investendo il nostro paese. Abbiamo suggerito questa
interpretazione in una
prima analisi su dati a livello provinciale, in cui
mostravamo che – a parità di varie condizioni socio-economiche
– le
province con livelli più alti di disoccupazione presentavano
maggiore crescita del M5S, mentre le province con maggior
aumento della presenza
di immigrati presentavano un voto più alto alla Lega.
Questo risultato è interessante e significativo, perché è in linea con una teoria ormai consolidata, proposta per la prima volta dal gruppo di ricerca di Hanspeter Kriesi nel 2006 (Kriesi et al. 2006), per cui nei paesi dell’Europa Occidentale i cambiamenti nei comportamenti di voto e il successo di nuovi partiti sarebbero legati agli effetti di processi di trasformazione come la globalizzazione (sia in senso economico che in senso culturale) che – nel loro produrre vincenti e perdenti (ad esempio i lavoratori i cui posti di lavoro vengono delocalizzati, vedi il recente caso Embraco) – generano conflitti che possono essere cavalcati e politicizzati con successo dai partiti.
Il mito delle risorse scarse, il
mantra dei soldi che non ci sono, è la più potente retorica in
mano alla classe dominante perché spoglia le questioni
economiche
della loro essenza politica trasformando, come per magia,
precise scelte di campo in apparenti vincoli di necessità.
Dietro alla chiusura di un
ospedale non vi sarebbe la scelta di favorire la sanità
privata ma il debito della Regione, che impone sacrifici.
Dietro alla mancata
manutenzione delle scuole non vi sarebbe lo smantellamento
sistematico dello stato sociale ma la disciplina di bilancio.
La possibilità stessa
di immaginare un’alternativa politica a povertà,
disoccupazione e sfruttamento viene negata sulla base di
un’apparentemente lucida
aritmetica della scarsità, una presunta razionalità economica
che non lascia scampo, proiettando l’ombra lunga del debito
pubblico
su ogni rivendicazione e su ogni aspirazione ad un futuro
migliore. Quel debito incombente significa che abbiamo già
speso troppo, abbiamo
vissuto al di sopra dei nostri mezzi ed ora non ci resta che
pagare, rinunciando progressivamente a lavoro, sanità,
istruzione, trasporti,
stili di vita, cultura e tutto quello che il Novecento ci
aveva, per l’appunto, solo prestato. Un tempo si scontravano
visioni del mondo
differenti in un conflitto a tratti appassionato, oggi ci
viene raccontata una storia diversa e pacificante: saremmo
pure d’accordo nel
garantire quei diritti a tutti ma, purtroppo, sono finiti i
quattrini – che ci possiamo fare?
Sono stato interpellato più volte per avere lumi sulla super-arma russa che gli Stati Uniti stanno denunciando come un pericolo senza precedenti, che giustificherebbe quindi la modernizzazione e l’ampliamento dell’arsenale nucleare statunitense, come l’amministrazione Trump ha deciso nella recente Nuclear Posture Review (modernizzazione già lanciata dal Nobel per la Pace Obama). Devo dire che la mia reazione fino a oggi è stata molto scettica: se i russi, che hanno un spesa militare un decimo di quella statunitense, hanno realizzato armi superiori a quelle degli Usa, è la prova lampante che Trump non è l’uomo più intelligente della Terra come si vanta, e gli scienziati russi sono molto più bravi di quelli americani. D’altra parte, da molti anni mi tengo aggiornato sull’evoluzione delle armi nucleari e sulle tensioni internazionali, e so bene quante informazioni allarmanti i servizi americani hanno fornito che si sono successivamente rivelate infondate (ma che hanno sicuramente procurato laute commesse al complesso militare industriale): nei decenni passati informavano su grandi progetti di riarmo nucleare della Cina, che poi sono risultati falsi; nei primi anni Novanta informavano che la Corea del Nord avesse già fabbricato testate atomiche, mentre il primo test è avvenuto nel 2006, e con responsabilità determinanti degli Usa[1].
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A Arlit la gente beve l’acqua radioattiva. Il titolo dell’articolo su ‘ Le Monde’non fa che confermare quanto denunciato a suo tempo dalla società civile locale. La ditta francese Areva da oltre quarant’anni estrae l’uranio in questa zona al confine con l’Algeria. La realizzatrice nigerina Amina Weira, intervistata dal giornale francese, è nata e ha vissuto per anni sul posto. Ricorda che da bambina, ancora senza capire, notava l’esistenza di molti problemi di salute. Difficoltà respiratorie, tumori, neonati deformi… da bimbi si diceva come dappertutto che ‘quello era il destino’, che era Dio a dare un figlio così. Ma erano soprattutto i pensionati ad accusare malesseri, paralisi o malattie strane. Amina ha scelto di fare un documentario, la cui diffusione è vietata nel Niger, nel quale mostra la polvere radioattiva di Arlit, l’acqua avvelenata che si beve, le case costruite con materiale di riporto delle miniere, il cibo contaminato e gli animali che muoiono. ‘La rabbia del vento’ è il titolo del film, presentato a Dakar nel Senegal e vietato in patria.
Dal 27 gennaio di quest’anno il nome Areva si è mutato in Orano. Questo nome, che deriva dal latino uranus, fa anche eco a Ouranos, il dio greco del cielo che diventa Uranus nella mitologia romana.
Sacrifici umani per la causa jihadista: è quanto si sta consumando nel Ghouta orientale, dove da giorni si svolge un’operazione militare russo-siriana per strappare il quartiere dalle mani dei miliziani che la occupano da anni.
La narrativa corrente dipinge tale operazione come un’opera di macelleria russo-siriana: intensi bombardamenti avrebbero fatto strage di civili.
Circa 700 i morti ad oggi, anche se nessuno scrive che la fonte delle notizie è di parte: sono i miliziani a darle; e hanno tutto l’interesse a calcare la mano sulle brutalità compiute dai nemici.
Va ricordato, anche se certo vittime civili ci sono, come purtroppo in tutte le guerre.
Una narrativa sulla quale abbiamo scritto fin troppo (Piccolenote). Non ci torneremo.
Ieri un convoglio di aiuti umanitari ha raggiunto il quartiere. Interessante il racconto di Pawel Krzysiek, portavoce del comitato della Croce rossa internazionale in Siria, che lo ha accompagnato.
Nel suo report pubblicato sul 'Corriere della Sera', Krzysiek parla della disperazione della gente assediata. E della richiesta pressante affinché cessino i bombardamenti.
In ordine di sparizione, dalla Grecia alla Francia, dall’Austria alla Germania all’Italia, le sinistre socialdemocratiche europee si consumano in un inarrestabile declino. Il 18% conservato dal Pd italiano potrebbe addirittura ritenersi un successo quando la più potente socialdemocrazia del Vecchio continente, quella tedesca, veniva data dai sondaggi al 15% e sotto la destra nazionalista e xenofoba della Afd. Ma questo tramonto delle socialdemocrazie è un processo storico di grande portata che riflette i mutamenti profondissimi intervenuti nelle forme di vita e nei modi di produzione, quel completo ridisegnarsi della geografia sociale che ha lasciato milioni di persone senza sponde, protezioni o garanzie. E, in un certo senso, senza storia. Tutto il residuo socialismo europeo, che fatica ormai a darsi una qualche fisionomia, ha condiviso la conversione al neoliberalismo, l’ossequio nei confronti del capitale finanziario, la rincorsa della destra sulla strada di una sicurezza repressiva e discriminatoria, la dottrina postdemocratica della «governabilità». Tutto questo sotto la bandiera dell’«ammodernamento» e della «responsabilità». Nessun allarme, nessuna semplice osservazione di fatti evidenti, è valsa ad arrestare questo processo e il suo inevitabile esito.
Considerazioni fuori dalle righe su perché la sinistra ha perso e i populisti vinto (ma non chiamiamoli così)
Mentre i rimasugli del PdR si leccano le ferite, i radicalscìc preparano le valige (solo a chiacchiere, purtroppo) per andarsene da un paese razzista, omofobo e via piagnisteggiando e gli altri a una stagione di lotte & botte a perdere, cerchiamo di capire cos’è successo a sinistra e altrove, e soprattutto cosa accadrà con il voto di domenica. Nell’immediato, niente. I tempi della farsa son questi, e prima di Pasqua non si vedrà luce per un governo qualesia. Potete aspettare le vacanze al mare in tutta tranquillità, prima di vedere uno straccio di governo balneare. Che durerà poco, anzi pochissimo. È su questo che conta l’abatino, il rottamatore rottamato, con le sue dimissioni annunciate e rinviate sine die, per dirigere ancora i giochi nel PdR a sua immagine e somiglianza, dove persino il pacato Zanda osa un borbottìo, fino a un tristo governo di salvezza nazionale, Leucemisti inclusi. Con a capo, magari, la tristissima Bonino miracolata dai trastulli di lista, seppur rimasta sotto la quota minima di galleggiamento, da eterna perdente qual è. Astruserie da sinistrati della politica, al pari di quelle contate al Corrierone da Steve Bannon, già consigliori di Trump e in Italia in veste d’osservatore politico, che vede il duce d’Arcore mettersi a capo dei populisti d’Italia per condurli alla moderazione e alla definitiva vittoria.
Cerchiamo
di fare un po’ di chiarezza su un risultato elettorale
sicuramente complesso che la vulgata mediatica in linea di
massima
(con alcune eccezioni) tende a derubricare come il trionfo
delle forze “antisistema” e populiste contro quelle
europeiste.
C’è sicuramente del vero anche in questo ma si tratta,
ovviamente, di una semplificazione politicamente finalizzata.
Cominciamo subito col dire che forze politiche realmente “antisistema”, cioè portatrici di programmi, idee, valori e anche orizzonti realmente alternativi all’ordine economico, sociale e ideologico dominante – al di là, anche in questo caso, della narrazione mediatica – non esistono. Né il M5S né tanto meno la Lega, infatti, si pongono il problema – neanche come orizzonte ideale – di una possibile trasformazione strutturale della società. Si tratta di due forze “populiste” (scegliamo di prendere per buona questa definizione, al fine di semplificare le cose…) che hanno dimostrato di avere la capacità di ascoltare la gente, di capire il proprio popolo (altra definizione che diamo al momento per buona ma che necessiterebbe di ben altro approfondimento), di entrare in relazione con la sua “pancia”, il suo sentire, le sue paure, i suoi bisogni.
Recensione a Terrorismo e modernità di Donatella Di Cesare pubblicata nel n.4 di Qui e ora
Rispetto
all’ormai sterminata bibliografia sull’argomento, il libro di
Donatella Di Cesare merita di essere letto, studiato e
discusso,
soprattutto da chi nutre velleità rivoluzionarie. La tesi di
fondo è la seguente: il terrorismo non è un “mostro”, un
flagello che si abbatte dall’esterno sulla nostra società, ma
parte integrante della storia del moderno Stato democratico.
Il merito di
questo libro è mettere allo scoperto il tabù che lo Stato
moderno cela dentro di sé.
«Terrorismo» è un termine di cui lo Stato ha il monopolio, così come ha il monopolio della violenza. Scrive Di Cesare, «Solo lo Stato esercita il potere di qualificare, definire, nominare. Solo lo Stato può dire ad altri “terrorista” E, per converso, nessuno può applicare allo Stato questo nome, a meno di non dichiararne apertamente l’illegittimità e comprometterne la sovranità».
Nell’ottica statuale, il terrorismo verrebbe solo dal basso. Insomma, per lo Stato non ci sono dubbi: il terrorismo è quello di ribelli, anarchici, autonomi, brigatisti, e poi oggi quello di islamisti e jihadisti. D’altra parte, è pur vero che oggi nessun rivoluzionario si definirebbe mai “terrorista”. Non è un caso, quindi, che siano soprattutto gli Stati a usare il termine nella retorica del discorso pubblico, revisionando di continuo la definizione a seconda dei gruppi che intendono squalificare.
L’acribia con cui la razionalità politica statuale si dedica a rappresentare il terrorismo come forma assoluta del Male contemporaneo è, in realtà, indice del tentativo, mai del tutto riuscito, di occultare quel quantum di terrore che resta inscritto nel cuore dello Stato moderno.
“Tutti i complotti sono uniti tra loro;
come le onde che
sembrano fuggirsi eppure si mescolano”
– Louis Antoine de
Saint-Just
“… là dove non esiste il
disordine, gli imperialisti lo creano…”
– C.L.R.
James, I giacobini neri
Nel 1971, al culmine della spaventosa e omicida guerra statunitense al Vietnam, un gruppo di cineasti radicali argentini e italiani, conosciuti come Colectivo de Cine del Tercer Mundo, realizzarono un film dal titolo provocatorio: Palestine, Another Vietnam. Un titolo che dice molto in poche parole, una breve dichiarazione gravida di possibili significati. La principale suggestione del titolo – ovvero, che tanto il Vietnam quanto la Palestina fossero obiettivi di un’aggressione imperiale, così come di una resistenza ad essa – non sarebbe stata in alcun modo fuori luogo, o insolita, negli ambienti della sinistra globale del 1971. In effetti, i rivoluzionari palestinesi dell’epoca prestavano non poca attenzione al Vietnam, studiando sia le brutali tattiche militari utilizzate dall’imperialismo USA al fine di schiacciare un movimento rivoluzionario di popolo, sia la storica resistenza del popolo vietnamita. Quale lezione si poteva trarre da tutto ciò?
A questo proposito, nel 1973, allorquando la rivoluzione anti-coloniale vietnamita proclamava la vittoria sulla superiorità militare degli Stati Uniti, un gruppo di rivoluzionari palestinesi e intellettuali arabi convocava una tavola rotonda moderata da Haytham Ayyoubi, capo della Divisione studi militari dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).
La gabbia
dell’euro
Nel suo ultimo lavoro (La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra. Imprimatur, 2018) Domenico Moro, economista marxista e militante comunista, si impegna in un’importante opera di pulizia concettuale per sgombrare il terreno da alcuni fraintendimenti e resistenze ideologiche che impediscono la risoluta adesione ad un’opzione che egli ritiene vitale per la prospettiva di vita delle classi subalterne (italiane ed europee) e per le sorti della sinistra (comunista e non): la rottura con l’Unione europea e l’uscita dall’euro. Non abbiamo a che fare in senso stretto con un libro di analisi economica, ma con un insieme di lucide argomentazioni che legano i dati dell’analisi economica alle attuali urgenze della battaglia ideologica.
Il libro prende le mosse da una lapidaria e rivelatrice dichiarazione di Guido Carli, già governatore della Banca d’Italia: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento”. Come dire che, per far passare determinati orientamenti (antipopolari), occorreva che questi fossero imposti da un’autorità esterna, in grado di porre vincoli indiscutibili bypassando gli organismi decisionali interni e democratici.
I risultati elettorali consegnano uno scenario niente affatto di semplice soluzione per i templari della governabilità. Perdono e rischiano di uscire di scena i due partiti storici (Pd e Forza Italia), si impongono due forze politiche “spurie” come M5S e Lega, si esaurisce definitivamente la sinistra in tutte le sue articolazioni.
Le nuove asimmetrie emerse dal voto mandano, per ora, in soffitta il bipolarismo, e restituiscono una mappa politica con cui appare difficile costruire equilibri duraturi. Tra Renzi che si mette di traverso, il M5S che deve identificare il possibile interlocutore per la formazione di un governo, la Lega che incassa la cambiale sulla leadership della destra, l’ingegneria istituzionale con cui il Quirinale dovrà provare a far quadrare il cerchio appare assai complicata.
Ma sulla realtà incombono ipoteche già in scadenza come la manovra finanziaria aggiuntiva che l’Italia dovrà fare a primavera sulla base dei diktat dell’Unione Europea, poi c’è il Fiscal Compact da approvare entro l’anno, e poi ci sono i “mercati finanziari” che fino ad ora non sembrano molto preoccupati della instabilità politica in Italia, come non lo sono stati di quella post-elettorale in Belgio, Spagna, Germania. E ciò nonostante siano stati sconfitti due partiti “di sistema” come Pd e Forza Italia e abbiano vinto due partiti percepiti – fino ad ora – come “antisistema e populisti” come M5S e Lega.
La valanga populista
Poteva andare molto peggio di così. Potevamo svegliarci con un Pd al 25%, Forza Italia al 20 e passa, +Europa in Parlamento e Liberi e Uguali sopra il 5. Il fronte euro-liberista, detto altrimenti, avrebbe potuto dare le carte anche stavolta, blandire l’Europa e rassicurare i mercati. E invece il blocco politico della stabilità è uscito sonoramente sconfitto. La governabilità liberista tenterà di procedere col pilota automatico, ma sarà inevitabile fare i conti con la valanga populista. Altrimenti, al prossimo giro di giostra il M5S rischia di arrivare al 50%. Questa, in buona sostanza, la ragione della chiusura renziana ad ogni ipotesi di collaborazione governativa col “populismo”. Nonostante ciò, da due giorni imperversa uno strano lamento a sinistra, quella stessa sinistra scomparsa dai radar elettorali perché eclissata da una realtà confusa con la sua proiezione twitteristica. E’ certo che non c’è nulla di “recuperabile” dal Parlamento uscito fuori dal voto di domenica. Nonostante ciò, l’ingovernabilità manifesta si presenta come terreno più favorevole della serrata euro-liberista. Eppure gli strepiti di questi giorni mascherano il tavolo già apparecchiato del comodo ritorno all’antiberlusconismo, anzi: al “renzusconismo”. La zona di comfort della sinistra, quella di complemento, supina alle strategie politiche del suddetto euro-liberismo.
Last Week Tonight with John Oliver è una trasmissione statunitense di satira politica. Il conduttore è un comico britannico quarantenne, una versione sulfurea del nostro ben più rassicurante e qualunquista Maurizio Crozza. La puntata dello scorso 26 febbraio è stata interamente dedicata alle elezioni politiche italiane. Il video gira in rete da una settimana e vale la pena guardarlo. Non tanto perché faccia ridere. Anche se un po’, a dire il vero, lo fa. Quanto perché condensa molto bene quel miscuglio di aggressività e inconsistenza con cui l’Italia viene spesso osservata dagli emissari del nuovo patriziato imperiale. Di fatto, senza rendercene bene conto, siamo diventati in questi ultimi vent’anni il capro espiatorio della decadenza politica delle istituzioni dell’Occidente. Ci abbiamo messo del nostro, non c’è dubbio. Eppure, i deprecabili onorevoli che da domani torneranno a tormentarci dagli scranni di Montecitorio non sono più pittoreschi dei vari Trump o Boris Johnson o Marine Le Pen. Sono solo meno pericolosi. Il potere reale da cui dipende la nostra vita – lo sappiamo tutti – sta altrove e parla altre lingue. Come ci dice sarcasticamente John Oliver, chi domina il mondo ci considera ormai poco più che un’insulsa e caotica semi-colonia. Di questo prima o poi bisognerà parlare seriamente, se si vorrà ricominciare a fare politica davvero.
Cosa accomuna la proposta politica di Podemos, quella di Corbyn in UK e in Francia di Mélenchon? E ancora Trump, Grillo, Macron e in tutt’altro emisfero Morales? Poco e nulla se non l’accusa di aver flirtato con il populismo. Con lo sguardo diretto a queste realtà, Augusto Illuminati nel suo ultimo libro Profeti e populisti. Istruzioni per l’uso e la disattivazione (Manifestolibri, 2017) scrive solo a prima vista un pamphlet del tutto politico, che invece scava nel pensiero storico-filosofico cercando il punto di incontro tra politica e storia. Il tempo si dipana, al limite si ripete, seguendo lo schema delle sole strutture sottoposte alla contingenza. Non si tratta, si badi bene, dell’adesione quasi religiosa all’ontologia del materialismo aleatorio, ma di una metodologia integralmente althusseriana, dove dirimente non è tanto il modo con il quale si guarda alla storia, oppure come la si usa, ma la reazione minima tra un evento (al limite storico-teorico) e il suo effetto politico (quello che fu nella storia e che suscita ora nel presente).
Quali sono allora le caratteristiche strutturali del populismo? Per un verso, è l’espressione manifesta della crisi della democrazia rappresentativa.

I risultati delle elezioni
politiche del 4
marzo 2018 segnano certamente una rottura con gli scenari sin
qui succedutisi negli oltre 70 anni dalla fine della seconda
guerra mondiale. Chi volge
lo sguardo altrove, senza intrattenersi sul suo significato,
sbaglia, non coglie nelle elezioni di questo periodo in
Occidente l’espressione del
cambio di fase del movimento della storia senza uguali nei
decenni precedenti. Comunque la si pensi, bisogna tener conto
del fatto che le elezioni
sono un termometro della febbre sociale che si esprime con un
simbolo su una scheda.
Di primo acchito un Di Maio ci fa la figura dell’ingenuo sbarbatello rispetto a personaggi del calibro di un Andreotti, un Aldo Moro, un Fanfani, un Berlinguer, un Pajetta, un De Martino, un Craxi o anche – perché no? - un Berlusconi, un Tremonti, un Bossi, un Martino e così via. Proprio come un Peppe Grillo e un Casaleggio appaiono come guru capitati per caso in politica.
L’errore più grave che si possa commettere – e purtroppo si commette – è quello di esaminare un movimento come i 5 Stelle partendo da un punto di vista ideologico novecentesco, cioè se siano di destra o di sinistra i gruppi dirigenti piuttosto che gli strati sociali che li esprimono. Peggio ancora se si sostiene che Grillo, Casaleggio, Di Maio, Di Battista, Fico e altri avrebbero costruito il movimento piuttosto che essere espressione di necessità emergenti dalla società italiana prodotte da una crisi senza precedenti nella sua storia.
Il
sottotitolo del libro di Losurdo promette un’indagine su “come
il marxismo occidentale nacque, come morì, come
può rinascere”. Sfogliandone le pagine è tuttavia arduo
trovarvi traccia di un qualche annunzio di una “rinascita” del
marxismo occidentale. Losurdo preferisce assumere il ruolo del
medico che, di fronte ad un paziente sofferente, dice ai
parenti preoccupati che
è venuto il momento di staccare la spina. Il tono combattivo
del saggio non stupirà i lettori dei lavori di Losurdo finora
disponibili
in inglese. Questi vanno da Heidegger and the Ideology of
War (2001) [l’originale italiano è La comunità, la
morte,
l’Occidente. Heidegger e l’ideologia della guerra,
Torino 1991 n.d.t.], passando per Hegel and the Freedom
of the Moderns
(2004) [Hegel e la libertà dei moderni, Roma 1992 e
Napoli 2011 n.d.t.], fino a Liberalism: A Counter-History
(2011)
[Controstoria del liberalismo, Roma-Bari 2005 n.d.t.], War
and Revolution: Rethinking the Twentieth Century (2014)
[che mette insieme tre
differenti testi di Losurdo, n.d.t.] e Non-Violence: A
History Beyond the Myth (2017) [La non-violenza.
Una storia fuori dal mito,
Roma-Bari 2010 n.d.t.], con Nietzsche: The Aristocratic
Rebel [Nietzsche, il ribelle aristocratico.
Biografia intellettuale e bilancio
critico, Torino 2002 n.d.t.] che dovrebbe uscire
all’inizio del 2018. Questi titoli costituiscono soltanto una
piccola parte della
prodigiosa produzione di Losurdo nella sua lingua madre, che
comprende qualcosa come trentacinque libri oltre che numerosi
volumi in collaborazione e
ne fa uno dei più prolifici pensatori italiani della sua
generazione. Titolare di una cattedra di Storia della
Filosofia a Urbino, ben pochi
possono tenergli testa nel mettere insieme energia ed
erudizione.
Avevo appena comprato due libri.
Emanavano
ancora un buon profumo di carta stampata. Si trattava di: Noi
Soggetti Umani di Alain Touraine (Il Saggiatore, 2017)
e Retrotopia di Zygmunt
Bauman (Laterza, 2017). Nell'accingermi alla non facile
impresa di prendere appunti in vista di una eventuale
recensione, una domanda mi ha subito
bloccato: è ammissibile che un lettore comune, che nulla sa di
sociologia, si permetta di 'recensire' saggi sociologici? Dopo
averci rimuginato
su per un po', sono giunto alla seguente conclusione: se il
saggio in questione è scritto da accademici per altri
accademici, il lettore comune
farebbe bene a tenere le proprie riflessioni per sé. Se invece
il saggio in questione è di carattere divulgativo, vale a dire
diretto al
lettore comune, allora sì, è lecito che egli commenti ciò che
era indirizzato espressamente a lui. Soddisfatto per aver
escogitato questa giustificazione, eccomi qua con la penna in
mano. Un'unica avvertenza: la mia competenza in fatto di
scienze umane è prossima
a zero. Le opinioni che qui riporto sono quindi il frutto più
della mia ignoranza che non della mia competenza e del fatto
che l'occhio con cui
osservo le cose è quello di chi guarda più ai fatti reali che
alle costruzioni verbali e a quelle teoretiche.
Due parole essenziali sugli autori. Alain Touraine (1925) è un sociologo francese. No-vantadue anni compiuti, si occupa di sociologia dei movimenti sociali e politici, in modo particolare in relazione a quella che egli ha chiamato la "società post-industriale" (che è quella che altri chiamano società post-moderna). Zygmunt Bauman (1925-2017), è stato un sociologo dai vasti interessi: ha studiato la società moderna e post moderna (cui ha attribuito l'aggettivo "liquida") alle prese con il consumismo e la globalizzazione, occupandosi in modo particolare delle ragioni morali dell'agire sociale.
Analisi del dopo voto e proposte per ripartire nella consapevolezza che le uniche battaglie perse sono quelle non combattute
Quadro generale
La crisi del capitalismo, economica ed egemonica, è intuita dalla classe lavoratrice e dai disoccupati che, attraverso il voto, scelgono di affidarsi a quelle forze che gli appaiono anti-sistema. Queste elezioni ci consentono di sollevare il velo e scoprire cosa si nascondeva sotto e cosa covava dietro il “No” al referendum costituzionale. Esse confermano la radice sociale di quel “No” ma allo stesso tempo confermano che, in assenza di conflitto sociale organizzato, non è possibile il passaggio dalla “intuizione del problema” alla sua reale e scientifica impostazione.
Al contrario, assistiamo ad una enorme avanzata della ultra destra in Italia, allo sdoganamento definitivo dei temi e delle retoriche del fascismo personificate in un leader politico che – forte di una percentuale a doppia cifra – rischia addirittura di diventare premier. Tradotto: i comunisti in Italia sono ai minimi storici, la loro tradizionale base sociale rivolge il proprio sguardo altrove e parte dei pochi militanti non burocrati che restano è stata accecata dalla centralità di un tema-trappola, quello degli “opposti estremismi” che ci vorrebbe paragonabili a FN e Casa Pound, che con ogni evidenza è stato dolosamente creato con una logica strumentale che ci porta dritti verso la messa definitiva al bando della nostra tradizione politica: aver “battuto” ai voti Casa Pound di qualche decimale non cancella il fatto che quel 17% di Salvini rappresenta il medesimo consenso sulle medesime tematiche.
Il popolo non è bue. Mi si scusi la banalità, ma ogni commento sensato sul voto del 4 marzo è da lì che deve partire. E' questa una premessa necessaria di fronte all'arroganza delle èlite come alla pochezza della sinistra che fu. Ad esempio quella che continua a bere...
Il popolo non è bue. Mi si scusi la banalità, ma ogni commento sensato sul voto del 4 marzo è da lì che deve partire. E' questa una premessa necessaria di fronte all'arroganza delle èlite come alla pochezza della sinistra che fu. Ad esempio quella che continua a bere... Chi scrive, oltre alle valutazioni di Programma 101, condivide le riflessioni di Carlo Formenti, ed ancor più quelle di Ugo Boghetta e Mimmo Porcaro. Riflessioni che vanno tutte nella direzione di una nuova sinistra nazionale e popolare. Unica risposta credibile alla scomparsa sic et simpliciter di ogni sinistra. Non solo: unica via per togliere la bandiera della sovranità dalle mani della Lega, portandola così saldamente nel campo democratico e costituzionale. Ma partiamo dal terremoto elettorale, la cui magnitudine è stata superiore a quella del 2013. Cinque anni fa, nonostante l'exploit grillino, i partiti sistemici - all'ingrosso, quelli prescelti e abilitati a governare dall'oligarchia tramite i media a libro paga - riuscirono, seppure a fatica, a riprendere il controllo della situazione.
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Non abbiamo per vocazione quella di ospitare tutti i migranti espulsi dall’Algeria. Così il ministro degli interni nigerino Mohamed Bazoum in seguito all’arrivo di centinaia di migranti ospitati nel centro OIM di Agadez. Originari del Mali, della Guinea e di altri paesi del Sahel, arrestati nella capitale e in altre città dell’Algeria, sono poi deportati nel deserto e abbandonati al sole di vento. Lui differenzia tra originari del Niger e gli altri che sono catalogati tra le non-persone, come scriveva anni fa l’amico Alessandro Dal Lago. Così, tra le categorie sociali, si può tracciare un confine: persone da una parte e non-persone dall’altra, che fingono di vivere nello stesso mondo. Una finzione che si traduce nella sconfessione del principio di sovranità umana. Le persone possono spostarsi e le non-persone invece destinate alla cancellazione, senza tracce se possibile, come un delitto perfetto.
Dall’America di Trump all’Israele della terra poco promessa per eritrei, somali, sudanesi e assimilati criminali, si passa alla civilissima Francia di Macron, portavoce autorizzato della divina separazione tra rifugiati, degni di rimanere nel paese dei diritti e gli altri. I migranti economici, così designati, indegni di essere trattati da persone. Per questi ultimi la Francia, afferma il presidente, non ha per vocazione a diventare terra di soggiorno.
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Che Mario Balotelli, calciatore italiano di colore, abbia stigmatizzato, in un suo commento apparso in Rete, Toni Chike Iwobi, primo eletto di colore al senato della repubblica, definendo la militanza e l’elezione di quest’ultimo nelle file della Lega “una vergogna”, non è solo un’espressione del tutto legittima del diritto di critica, ma è anche una presa di posizione politicamente coraggiosa e culturalmente significativa: come tale, alquanto rara in un mondo del calcio, quale è quello italiano, prevalentemente qualunquista e spesso reazionario. Che poi dietro ad un siffatto giudizio vi sia, come lo stesso Balotelli ha voluto ricordare, una lunga storia di insulti e contumelie indirizzati dalla teppa degli stadi contro un ragazzo di colore che fin dai suoi primi esordi dimostrava di essere un asso del calcio e suscitava perciò il meschino risentimento di coloro che, di fronte alle sue manifestazioni di bravura, non erano capaci di reagire se non attingendo al più squallido dei repertori, rientra in un avvincente ‘romanzo di formazione’ che forse un giorno troverà anche in Italia un interprete, letterario musicale o cinematografico, capace di narrarlo e di rappresentarlo, commuovendoci e insieme istruendoci attraverso la ricostruzione dei ramificati e talora tragici percorsi (si pensi ai fatti accaduti a Fermo, a Macerata e a Firenze) di una società intrisa di pulsioni razzistiche, oggettivamente multiculturale ma soggettivamente etnocentrica, in cui non mancano individui decisi ad uccidere (o a tentare di uccidere) altre persone in base al colore della pelle.
Dietro i meccanismi dei rapporti di produzione c’è un preciso modello culturale. L’economista Andrea Ventura nel Flagello del neoliberismo fornisce una chiave di lettura che permette di superare l’interpretazione marxiana con una nuova visione antropologica
Dopo La trappola, il bel volume del 2012, pubblicato dall’Asino d’oro, Andrea Ventura ci propone, con Il flagello del neoliberismo, per la stessa casa editrice, gli sviluppi della propria ricerca sulle origini e la natura del capitalismo, le sue radici storiche e culturali nel profondo della cultura occidentale, le grandi mutazioni che lo attraversano e, infine, sul senso di un’opposizione e di una battaglia per il superamento dell’antropologia che del capitalismo è a fondamento. Un’opposizione questa, che vuole segnare un radicale cambiamento di prospettiva rispetto al marxismo, nello spostare il punto di partenza della lotta per l’emancipazione e la realizzazione di una piena identità umana dal terreno dei rapporti materiali di produzione a quello della visione antropologica, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo al pensiero degli esseri umani sugli esseri umani. Potrà risultare a tutt’oggi, un po’ traumatico per chi fosse ancora, anche solo sentimentalmente, legato alle migliori idee del comunismo: ma ha il sapore di una liberazione.
Il libro muove dalla critica alle basi fondative della “scienza” economica, la costruzione ideologico-culturale che meglio esprime lo spirito del capitalismo. L’ipotesi di razionalità posta alla base del comportamento umano sin dalla “rivoluzione” marginalista degli anni ’70 del diciannovesimo secolo – che era poi una contro-rivoluzione rispetto al pensiero di Marx e alle prime forme organizzate della lotta di classe – è in totale assonanza con tutto il percorso lungo del pensiero occidentale, dalla filosofia greca all’illuminismo. Ma ne rappresenta al contempo “l’eclissi”, perché la razionalità intesa in senso strettamente strumentale, come esclusivamente orientata al conseguimento del guadagno e dell’utile, finisce per inaridirsi, svuotarsi di ogni contenuto di pensiero: la scienza economica – lo si legge già nel risvolto di copertina – è del tutto “priva di pensiero sulla società e sulla natura umana”. Ma – nel vuoto di pensiero - diventa, al contempo, totalizzante.
Innanzitutto,
i numeri giusti per la giusta finalità
Cosa ci interessa sapere dei risultati delle elezioni politiche? Ovviamente, la distribuzione dei seggi delle Camere fra i diversi partiti, fatto determinante - si presume - della composizione del governo. Il «si presume» consegue dalla possibilità che infine, constatata l’impossibilità o inopportunità di un governo politico, si formi una maggioranza favorevole a un governo «tecnico» o, meglio, tecnocratico, o qualche genere di pasticcio trasformistico. Eventualità da non scartare, visti i risultati di queste elezioni politiche.
Quindi, per il fine istituzionale della composizione delle Camere, della maggioranza e del governo, i numeri da considerare sono quelli forniti dal Ministero dell’Interno e dai mass media, di pronta disponibilità per chiunque. Le percentuali dei partiti sono calcolate sui voti validi.
Se, invece, si considerano le elezioni come una sorta di gigantesco sondaggio sulle opinioni politiche dei cittadini, allora quel che non si deve fare è ragionare a partire dalle percentuali calcolate sui voti validi. Occorre avere la pazienza di ricalcolare le percentuali in rapporto all’elettorato totale, di tutti i cittadini che hanno diritto di voto, astenuti compresi, qui indicati come adv: solo in questo modo ci si potrà fare un’idea corretta della «presa» dei diversi partiti sull’elettorato. Se si compie questa operazione, i risultati possono essere sorprendenti e importanti le implicazioni politiche.
Tutti sanno che i governi devono tassare, prima di poter spendere. Quello che presuppone la Teoria Monetaria Moderna è che forse non è così
Alto, barbuto, con gentili occhi
nocciola, il
veterano di Occupy Wall Street, Jesse
Myerson passa le sue giornate a bussare alle porte
delle case dei quartieri degradati
del sud dell'Indiana per ricordare agli elettori l'enorme
ricchezza del loro paese. Il suo messaggio, come organizzatore
del gruppo di base,
Hoosier Action [N.d.T.:
Hoosier = Abitante dell'Indiana], è che gli
Stati Uniti sono una
nazione spettacolarmente ricca e che un po' di questa
ricchezza potrebbe, e dovrebbe, essere distribuita fra i
poveri del sud Indiana.
«Qui, le persone hanno sofferto terribilmente a livello economico, e questo ha portato alla morte spirituale delle comunità,» mi ha detto Myerson a proposito dei posti che frequenta. La dipendenza da oppiacei è molto diffusa, così come lo è il suicidio. «Per le persone non esiste alcun canale ben organizzato in grado di dare un senso alla loro sofferenza, tranne quelli che si legano ad iniziative xenofobe di destra.»
Dice che l'organizzazione maggiormente in competizione con il suo gruppo, per il cuore e la mente degli abitanti poveri dell'Indiana, è un gruppo di suprematisti bianchi chiamato "Traditionalist Workers’ Party". «Si stanno organizzando in una maniera simile alla nostra - questi oligarchi sono tirannici e ci sfruttano, mentre noi abbiamo bisogno di pace e di prosperità - tranne per il fatto che si organizzano a partire da un modello di scarsità,» ci spiega. «Loro dicono che non c'è abbastanza, per andare avanti, perciò i bianchi devono restare uniti e occuparsi di tutto quanto.»
Queste elezioni portano giocoforza, specialmente per una realtà come la nostra, a fare una riflessione seria del rapporto fra voto e mass media. Lo vorremmo fare in modo costruttivo, non con il vittimismo di Di Stefano (Casa Pound) in diretta da Mentana che ha detto, come quegli allenatori detti “piangina” nel post partita, che il proprio flop elettorale è solo colpa della Tv che non gli ha dato spazio.
Certo, più uno appare in fasce televisive principali o nei Tg, più aumenta la propria sfera di potenziali elettori, non ci vuole un genio per capirlo. Tuttavia Di Stefano non calcola che i temi cari a lui ed al suo partito sono inflazionati in ogni Tg e talk show, ma forse lui non calcola nemmeno che ormai quel campo è affollato e i voti su quei temi li prendono altri.
A. Proviamo quindi a farci una domanda che va oltre questo o quel partito specifico. Esempio: guardiamo quanto tempo in Tv viene dedicato a fatti di cronaca, sicurezza, immigrazione e aneddoti o questioni irrilevanti ad essi collegati. Poi pensiamo a quante volte uno come, ad esempio, Salvini viene chiamato, interpellato o ospitato a parlare di questi temi. Infine pensate a quanto tempo è dedicato a delocalizzazioni, licenziamenti illegittimi, tagli a stipendi, sanità e sociale, banche o tasse non pagate da multinazionali o nuovi giganti del web.
Poco dopo l’annuncio dell’esito dell’impietosa disfatta nella corsa al collegio uninominale di Acerra, nel quale il leader pentastellato Luigi Di Maio lo ha sopravanzato di oltre 40 punti, Vittorio Sgarbi si è scagliato contro gli elettori che lo avevano clamorosamente bocciato riferendosi alla regione della periferia napoletana come a “un territorio di disperati che danno i voti a un personaggetto, a uno che non sa neanche guidare”, attratti da promesse assistenzialistiche.
Nell’autogiustificazione penosa e ipocrita di Sgarbi, uno dei peggiori protagonisti dell’Italia contemporanea, si possono cogliere le motivazioni che hanno portato il Movimento Cinque Stelle a dilagare nell’Italia meridionale: la linea del Garigliano, confine tra Lazio e Campania, segna i limiti del nuovo bipolarismo che demarca la politica italiana e la soglia oltre la quale i Cinque Stelle la fanno assolutamente da padroni. Il 61-0 conquistato da Berlusconi in Sicilia nel 2001 sbiadisce di fronte alla valanga del 4 marzo: nei collegi uninominali Di Maio e i suoi hanno fatto cappotto in Sicilia (28 su 28 tra Camera e Senato), Sardegna (9 su 9), Puglia (24 su 24), Molise (3 su 3) e Basilicata (3 su 3) e dominato in Campania (32 su 33) e Calabria (11 su 12), infliggendo al centro-destra un 110-2 che di fatto ha scombussolato i piani della coalizione per la conquista della maggioranza assoluta.
Mentre molti si strappano i capelli per un risultato delle elezioni italiane inatteso, accusando gli elettori italiani – tanto per cambiare – di ignoranza, razzismo o estremismo, la causa è molto più semplice: dalla sua introduzione l’euro ha portato prima risultati economici deludenti, e poi disastrosi, impedendo la ripresa economica
Potrebbe arrivare un momento, non troppo distante nel futuro, in cui la Brexit verrà non dico dimenticata, ma messa in secondo piano nel contesto della disintegrazione europea. In primo piano, se le cose continuano così, ci sarà l’Italexit. Gli italiani, non i britannici, faranno scoppiare la bolla dell’euro, e di conseguenza tutto l’esperimento europeo.
Ormai, la formula la conosciamo. Se qualcuno è contrario a una integrazione e unione europea più stretta, allora deve essere un fascista xenofobo, un razzista della peggior specie. Questa tattica, anziché plasmare gli elettori, sembra che si sia rivolta contro chi utilizza le catene e spera con fervore di continuare questo esperimento per molto tempo.
I risultati del voto non sono ancora completamente disponibili, ma è chiaro che ieri gli Italiani hanno votato ampiamente per i partiti anti-establishment e anti-euro. Anche se il parlamento italiano potrebbe essere nel caos nel prossimo futuro, la febbre euroscettica e anti-establishment si è imposta molto più del previsto (per l’ennesima volta).
Di fronte alla crescita impetuosa dell’economia cinese, gli Stati Uniti non possono che reagire per sopravvivere. Il progetto di riforma fiscale di Donald Trump, mirato a dare impulso alla produzione interna, è stato bocciato dal Congresso, che ha preferito proteggere i profitti delle multinazionali. Per questa ragione alla Casa Bianca non rimane altra scelta che sabotare gli investimenti di Beijing nelle nuove vie di comunicazione e nell’esportazione globale dei prodotti cinesi
L’ultima riforma fiscale americana, promulgata il 22 dicembre 2017, si colloca nel solco delle precedenti: una redistribuzione della ricchezza a favore dei redditi più elevati. I contribuenti più ricchi, l’1% del totale, quelli che dichiarano un reddito superiore a 500.000 dollari, beneficeranno di una riduzione delle imposte di 60 miliardi di dollari l’anno, quanto il 54% degli statunitensi, quelli che guadagnano tra 20.000 e 100.000 dollari.
Coloro che hanno un reddito tra 100.000 e 500.000 dollari beneficeranno di una riduzione di 136 miliardi. Questi contribuenti rappresentano il 22,5% della popolazione soggetta a tassazione, la stessa percentuale di quelli che guadagnano meno di 20.000 dollari e che si spartiranno solo 2,2 miliardi, ossia lo 0,15% delle entrate fiscali [1].
Per la tassazione dei profitti internazionali delle multinazionali, la riforma fiscale americana si allinea alle procedure europee. Ora si applicheranno soltanto ai profitti percepiti in USA, non più a quelli mondiali.
Quando lo scontro nel pensiero politico si riduce a opinioni tra generazioni diverse
Sulla rivista Le Scienze di febbraio 2018 (n. 594, p. 16) compare un articolo di Piergiorgio Odifreddi, quotato intellettuale, noto professore di logica matematica dell’Università di Torino, dal titolo “Un principio rivoluzionario. Thomas Jefferson calcolò dopo quanto tempo dovrebbe decadere una costituzione”.
Qui l’autore, con l’occasione di richiamare i fondamentali concetti statistici di “media”, “mediana” e “moda”- che dovrebbero essere ben chiari anche a coloro i quali si occupano di scienze sociali - ci espone un esercizio di applicazione di tali concetti ad una specifica enunciazione del 1789 del futuro terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, la quale recita, a proposito della Costituzione americana, allora appena entrata in vigore: “La terra viene data in usufrutto ai viventi, e i morti non hanno poteri o diritti su di essa”, e continua: “le costituzioni e le leggi dei predecessori si estinguono naturalmente insieme a coloro che le hanno emanate”.

Il dibattito mediatico
sorto in seguito al risultato del voto del 4 marzo si avvita
in questi giorni attorno a due interrogativi fondamentali: le
ragioni del crollo della
sinistra, nelle sue varie declinazioni partitiche, e quelle
del trionfo dei due partiti “populisti” Lega e M5S.
Entrambi i quesiti faticano ad ottenere risposte convincenti da parte degli esponenti dei partiti sconfitti, e le spiegazioni fornite dai vari giornalisti, opinionisti e politologi che sono cresciuti nutrendosi degli slogan funzionali al sistema di governo sino a ieri in forze, risultano altrettanto inconcludenti.
Per effettuare una corretta analisi della crisi della sinistra italiana, è necessario partire da un esame obiettivo dello stato di salute della sinistra in Europa, visto che facciamo parte dell’Unione europea, ma anche dall’esame della situazione politica d’oltreoceano, dato che viviamo in un mondo “globalizzato”.
Contrariamente a quanto affermato da vari commentatori, la débâcle della sinistra in Europa non è affatto omogenea.
Al di là dei casi di Germania, Austria e Paesi dell’est, in cui le forze politiche di destra o centrodestra sono cresciute a spese delle sinistre locali, vi sono altri Paesi in cui invece la sinistra, nella sua veste più “estrema” (cioè tradizionale), ha ultimamente guadagnato molte posizioni rispetto alle elezioni precedenti.
In un ordine mondiale multipolare, con nazioni dotate di armi nucleari, la probabilità di un’apocalisse nucleare diminuisce. Il titolo dell’articolo e la premessa iniziale potranno sembrare controintuitive come affermazioni, ma dopo una lucida analisi si evince uno scenario inedito e per certi versi sorprendente
Una doverosa premessa
iniziale.
Quando parliamo di armi nucleari è bene mettere in
chiaro alcuni importanti punti prima di addentrarsi in
ragionamenti complicati.
L’arma atomica è qui per restare e chiunque creda in un
processo di progressiva denuclearizzazione del globo si
sbaglia di grosso.
Provate a chiedere a qualunque politico Indiano, Pakistano,
Cinese, Russo, Nordcoreano o Americano cosa ne pensi
dell’abbandono delle proprie
armi nucleari. Vi risponderanno che non accadrà mai.
Pretendere che una nazione rinunci spontaneamente alla sua più
potente arma di
deterrenza è semplicemente irrealistico. Ciononostante, vorrei
enfatizzare quanto il paradosso della sicurezza derivante
dalle armi nucleari
sia attuale e centrale in questo articolo. Chiunque dotato di
raziocinio potesse servirsi di una bacchetta magica, farebbe
scomparire un’arma
capace di eliminare la razza umana; il problema è che nel
mondo reale questa ipotesi semplicemente non sussiste.
Vi è comunque una contro argomentazione molto valida, secondo cui l’assenza di armi nucleari avrebbe fortemente alterato l’equilibrio durante la guerra fredda, portando ad uno scontro devastante, seppur in termini convenzionali, tra le due superpotenze dell’epoca. In questo articolo proverò ad argomentare come l’arma nucleare possa, specie in futuro, essere garante di pace, piuttosto che di distruzione. Sempre tenendo a mente il grande rischio che l’umanità si è accollata con l’invenzione di un’arma così distruttiva. Una spada di Damocle sul destino dell’umanità, per queste ragioni soprattutto un bilanciamento tra potenze è necessario affinché si possa evitare per sempre una catastrofe nucleare.
Byung-Chul Han, nato a Seul nel 1959, già docente di Filosofia e Teoria dei Media presso la Staatliche Hochschule für Gastaltung di Karlsruhe, insegna ora Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino. È autore di saggi sulla globalizzazione e l’ipercultura
Byung-Chul Han ripete
all’infinito come un mantra il suo pensiero per ipnotizzare e
convincere con la violenza della ripetizione il lettore.
Questo autore ha fatto a
pezzi i migliori filosofi contemporanei e alcuni intoccabili
del XX secolo come Hannah Arendt e Michel Foucault, entrando
nel merito con molta arguzia
di alcuni loro saggi e questo ci ha incantati e fatto superare
alcune abitudini intellettuali. Ci ha liberati di molti
concetti che andavano
effettivamente superati e che nessuno osava criticare. Fin qui
il mantra è stato davvero sparigliante. Tuttavia tra i silenzi
di tale mantra,
piccoli e significativi non detti, si intravedono scenari
senza sbocco e una cultura dell’ineluttabile e della fatalità,
molto
probabilmente una eco heideggeriana, che finisce per
coincidere con una cultura della auto-colpevolizzazione.
Dalla negatività alla positività
Diciamo subito che la sua dialettica della negatività non è affatto un modo di incedere teorico nuovo, ma un patrimonio della critica radicale del dopoguerra, i primi ad aver utilizzato un certo modo logico di avanzare nelle argomentazioni di Hegel e del giovane Marx per criticare il capitalismo, per il quale le lotte del proletariato vanno considerate come un movimento del negativo. Fondamentale in Han è il passaggio da una società in cui è la negatività a motivare gli individui e una in cui è la positività.
Il seguente documento, redatto da Ugo Boghetta, Carlo Formenti e Mimmo Porcaro, è stato già diffuso e pubblicato anche su Facebook. Scegliamo di pubblicarlo anche noi perchè ci sembra un contributo interessante (e in larga parte condivisibile) al dibattito post elettorale in corso
Pubblico
qui di seguito la lettera firmata da me, Mimmo Porcaro e Ugo
Boghetta che è
stata letta al Coordinamento Nazionale di Eurostop del 10
marzo. Qui
inoltre il link al documento
approvato dallo stesso Coordinamento [c.f.].
Cari compagni
Gli estensori di questo documento si sono dichiarati contrari o si sono astenuti quando l’assemblea nazionale di Eurostop è stata chiamata ad approvare la partecipazione alla lista Potere al Popolo. Fra l’altro abbiamo sostenuto:
1. che essendo lo spazio della protesta contro l’establishment saldamente presidiato dal M5S (e l’esito elettorale ha dimostrato che tale egemonia è più ampia del previsto), il risultato elettorale di una piccola forza in fase di costruzione era condannato apriori all’insignificanza. La realtà è stata peggiore del previsto: siamo di fronte al peggior risultato della storia delle sinistre radicali italiane, con la metà dei già miseri voti (2,25%) raccolti da Rivoluzione civile.
A tutti quelli che fanno analisi molto complicate e politicistiche, che ritengono che un certo partito abbia perso barcate di voti per una parolina sbagliata in tv, per un obiettivo errato nel programma, per quel candidato indigesto ecc., va ricordata una semplice verità: che il grosso dell’elettorato si orienta e ragiona in maniera molto più semplice. Se la «sinistra» è divenuta indigesta e invotabile agli occhi degli elettori questo si ripercuoterà a raggi concentrici, da Renzi a Grasso e ancora più a sinistra.
Le distinzioni che gli appassionati di politica fanno, spaccando il capello in quattro, non hanno alcun valore e non sono intellegibili per l’elettore comune. Si tratta di capire perché vi sia stato un rigetto così ampio e probabilmente definitivo di ciò che è stato considerato «sinistra» negli ultimi decenni. Un fenomeno non sorprendente, e che viene da abbastanza lontano, da un’inversione di ruoli e di rappresentanza di ceti e di stili di vita, raffigurato plasticamente da tutte le analisi del voto degli ultimi anni, che hanno contrapposto benestanti soddisfatti dei centri cittadini a popolo delle periferie che esprimeva un bisogno al tempo stesso di ribellione e di protezione.
Non è che mancassero offerte di sinistre possibili, anche molto variegate, se pure di scarsa qualità: a questo punto è mancata la domanda di sinistra, diciamo.
Da qualche anno a questa parte, è emerso un nuovo sotto-genere letterario praticato estensivamente sui mezzi di comunicazione di massa e volto ad interpretare, prevedere, o chiarire le “reazioni dei mercati” ad eventi con rilevanza politica. Gli appuntamenti elettorali e referendari sono generalmente il terreno privilegiato per questi esercizi di stile. Le chiavi di lettura proposte sono sostanzialmente sempre le stesse: ogni esito elettorale diverso da una affermazione univoca del blocco di potere dominante europeista (in caso di consultazioni nel nostro continente) avrà probabilmente ripercussioni negative, genererà instabilità, incertezza, disoccupazione di massa ed altre piaghe assortite; analizzare la reazione dei mercati finanziari è la maniera più semplice per capire con anticipo cosa succederà all’economia reale e quali saranno le conseguenze che elettori irresponsabili si troveranno di fronte come espiazione dei propri peccati. Dietro questo modo di ragionare traspare chiaramente una idea di fondo: i mercati finanziari sono lo strumento più efficiente per processare l’enorme massa di informazioni generate a getto continuo; l’interazione virtuosa di milioni di piccoli e saggi investitori, i quali devono decidere come allocare i risparmi di una vita, è in grado di produrre un’interpretazione della realtà – e dei suoi fenomeni politici – affidabile, efficace e facile da decifrare.
Nel 2013 le due principali forze neofasciste, Casapound e Forza Nuova, presero insieme 137.687 voti, lo 0,4% elettorale. A questo dato va però aggiunto il risultato de La Destra di Storace, dentro la coalizione di centrodestra ma alternativa a Fratelli D’Italia della Meloni: altri 219.769 voti, lo 0,6%. Sommati, i tre partiti neofascisti raggiunsero 357.456 voti, corrispondenti all’1%. Domenica scorsa le forze neofasciste hanno preso, insieme, 437.000 voti, l’1,3%. Effettivamente c’è stato un aumento dei voti verso il neofascismo, ma estremamente contenuto. E’ aumentata notevolmente Casapound, che passa da 47.692 voti a 310.793; aumenta il proprio bottino anche Forza Nuova, da 89.811 a 126.207. Ma ad essere aumentata oltre ogni ragionevole misura, in questi cinque anni, è stata soprattutto l’esposizione mediatica del neofascismo. Nel 2013 Casapound e Forza Nuova rientravano tra gli scherzi della politica. Questo quinquennio li ha di fatto legittimati quali interlocutori credibili, possibili, perfettamente integrati nel “gioco democratico”. La sovraesposizione non sta, attenzione, nella semplice presenza televisiva. Qualsiasi giornalista degno di questo nome ha non solo il diritto, quanto il dovere di raccontare i fenomeni politici che avvengono nella società. Il problema è che alla sovraesposizione mediatica non corrispondeva alcuna rappresentazione reale del neofascismo nella società.
Questo è un Paese che stupisce sempre, così difficile da interpretare che uno si chiede dove sia il trucco come di fronte a un gioco di prestigio: le ultime elezioni ci hanno messo di fronte a un quadro che è forse quello meno auspicato dalle oligarchie europee le quali pensavano a un Pd ancora centrale anche senza Renzi e un Berlusconi in grado di contenere la Lega: invece si sono trovati di fronte al completo sfascio delle forze di riferimento in misura non ancora eguagliata in nessun Paese dell’Unione. Eppure c’è qualcosa che stona in questa esplosione di voglia di cambiamento: il fatto che il Movimento 5 Stelle, incarnazione di un possibile rinnovamento, abbia sfondato davvero solo nel momento in cui Di Maio ha annacquato il messaggio in senso governista, accettando in gran parte i presupposti e i posposti di Bruxelles, tra cui ovviamente la riduzione della spesa pubblica che in soldoni vuol dire meno welfare o più tasse, ma assai spesso entrambe le cose. E naturalmente tollerando una enorme limitazione di sovranità.
In tutte le altre situazioni conosciute da Podemos in Spagna, a Fn in Francia, per non parlare dei laburisti inglesi pre Corbyn o dei socialdemocratrici tedeschi ogni “normalizzazione” del messaggio ha significato anche calo di consenso per l’ovvio motivo che il cambiamento atteso non traspariva più in maniera limpida da queste forze.
Si
può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di
domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis
la sua magna
parte era da molto tempo più liberale che socialista, e
parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e
garantita della
società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è
risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e
in alcune anche
compromessa con la formazione di provenienza per essere
credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la
piccolissima, ai conti
ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e
sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche
questa alla
fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto
non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15%
degli elettori.
Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.
Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi.
La sinistra pedagogica oggi lavora alle buone pratiche per cambiare la scuola, per quanto si può. Ma questo rimanda ad un nuovo patto tra gli adulti per l’educazione dei ragazzi e ad una contestazione dell’egemonia dell’individualismo neoliberale
1.
Le buone pratiche. La scuola oggi non ha bisogno di
un’altra riforma globale, per cui la sinistra docente (in
collaborazione con enti
locali, con associazioni e movimenti educativi, con i
dirigenti scolastici e –a Dio piacendo- col ministero) deve
puntare a sperimentare e
diffondere buone pratiche d’insegnamento. Ed è quello che già
fa da decenni, in particolare a partire dagli anni settanta,
ma che
oggi deve fare con maggiore intensità, data la situazione
disperata in cui versa la scuola (vedi l’articolo di Domenico
Chiesa sul
documento del CIDI di Torino Cambiamo la scuola)
Del resto la sparuta sinistra politica non può aspirare a responsabilità di governo, almeno in ambito nazionale, e, nelle condizioni attuali, se lo facesse sarebbe probabilmente sconfessata da moltissimi dei suoi elettori.
2. Che senso ha oggi dire che la scuola dell’obbligo non può bocciare? In attesa di tempi migliori, e per cercare di accelerarne l’avvento, dovremmo provare ad affrontare di nuovo alcune vecchie questioni, che si ripresentano in forma nuova.
La prima è: è proprio vero che la scuola dell’obbligo non può bocciare? Don Milani parlava delle bocciature di bambini e ragazzi di un’Italia contadina, in cui andare a scuola era comunque più piacevole che lavorare nei campi o in officina. Certo era meglio per loro arrivare alla terza media senza bocciature e acquisire comunque un’idea d’insieme dei programmi, piuttosto che ripetere tre volte la grammatica di prima media e la storia romana.
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1.
La Rivoluzione del 1917 sta all’ideologia rivoluzionaria del XX secolo all’incirca come la resurrezione di Lazzaro sta alla fede nella divinità del Cristo, è proprio una disdetta che nel seguito Lucifero si sia preso una bella rivincita.
La vecchia guardia bolscevica è stata eliminata; si è creato un regime politico autocratico retto in coabitazione da ex-menscevichi ed ex-burocrati dell’apparato zarista che ha disposto del controllo dei mezzi di produzione, distribuzione, comunicazione, di tutto quanto; l’economia e la società dell’ex-impero zarista si sono trovate ad essere quasi completamente isolate dal resto del mondo; i lavoratori hanno assunto un atteggiamento completamente passivo e apatico nella più atomizzata società che sia mai esistita nell’epoca moderna. Assieme alla patetica recita della guerra fredda, tutto questo è formidabilmente servito a dimostrare che il capitalismo e la società occidentale sono il migliore dei mondi possibili, anzi l’unico possibile, deviando dal quale si violano le leggi della natura generando mostri che non sono neppure in grado di riprodursi regolarmente. La prima (presunta) grande rivoluzione socialista si rivelava essersi convertita nel miglior sostegno politico e ideologico alla permanenza del capitalismo.
Il Pd è in un vicolo cieco e come la fa la sbaglia: se appoggia un governo M5s, perde almeno un quarto dei suoi elettori che non glielo perdonano, se appoggia il centro destra (un inciucio a trazione leghista) perde la metà dei suoi elettori, se resta sull’Aventino, e si va ad elezioni anticipate, perde i due terzi dei suoi elettori. Come dire che ha tre scelte: spararsi nella tempia sinistra, spararsi un quella destra oppure spararsi sotto il mento. Fate voi.
Il quadro della situazione è desolante: il Pd si trova più che dimezzato rispetto ai suoi risultati migliori, non ha candidati credibili di ricambio a Renzi, è condannato alla retrocessione fra i partiti di serie B, destinati a fare da “cespuglio”, è destinato a perdere larghe fette del suo potere locale, non ha più un blocco sociale di riferimento e quel che gli rimane è un elettorato in larga parte fatto da ultrasessantenni, qualsiasi cosa dicano non sono più credibili, e forse è avviato a nuove scissioni. Insomma, diciamola tutta: è un partito finito e senza prospettive di ripresa. Questa non è una Caporetto: è una Watterloo.
Al solito i dirigenti del Pd non vedono più lontano del loro naso e pensano ad una campagna elettorale infelice o, al massimo, ad una legge elettorale sbagliata e che ora si deve lavorare alla ripresa.
«Sfotti le persone che chiedono il reddito di cittadinanza e hai bisogno ancora di qualcuno che ti faccia l’analisi del voto?», si chiede con status fulminante un mio amico su Fb, Giorgio Cappozzo, autore tivù, giornalista di Linus e altro.
Sì, forse a molti non è ancora chiarissimo cos'è successo: e il risiko aritmetico di queste ore sulle possibili maggioranze non aiuta a rendere più lucide le menti.
Quindi, solo per ripetere per esteso quello che era già nella sintesi di Cappozzo:
Nel suo triennio centrale di governo, la maggioranza ora uscente ha fatto una scommessa: puntare sulla competizione, su quella che chiamava "liberazione delle possibilità e dei talenti".
Lo ha detto a più riprese lo stesso Renzi, specie dopo il varo del Jobs Act: cari imprenditori, noi vi abbiamo dato tutto il possibile (incentivi a spese dello Stato, licenziabilità dei dipendenti senza passare dal giudice, voucher, liberi contratti a termine fino a 36 mesi etc etc ) adesso tocca a voi cogliere l'opportunità.
Al di là di ogni discussione ideologica su questa ricetta (cioè se in linea generale sia "giusta" o "sbagliata"), c'è un dato di realtà piuttosto evidente e storico: quando l'economia va male, la gente non vota per la competizione sociale. Vota invece per maggiore sicurezza sociale.
Il risultato delle elezioni del 4 marzo, frutto di un tasso di partecipazione più alto del previsto ed in controtendenza con la consistente crescita dell’astensionismo degli ultimi decenni, ci consegna un quadro più che realistico della società italiana.
Un quadro, caratterizzato dalla punizione dei partiti di governo ed in particolare di quelli socialdemocratici e socialisti, e da un forte spostamento a destra del quadro politico, che allinea la situazione italiana a quella già affermatasi nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti.
Il crollo del Pd e dei suoi alleati – dai turbo-liberisti di ‘+Europa’ ai transfughi ex berlusconiani – e il poco esaltante risultato di Forza Italia creano una condizione di instabilità con cui l’esigenza di governance continentale dovrà fare i conti, e dimostrano quanto sia profonda la crisi egemonica delle classi dominanti nel paese e in Europa. E’ tutto da vedere quanto il tentativo di cooptazione dei Cinque Stelle da parte dei poteri forti potrà andare in porto (la Lega, nonostante la radicalizzazione a destra e i linguaggi ‘antisistema’ è da molto una rodata e responsabile forza di governo, sia sul piano locale che statale).
L’esito del voto è stato un vero e proprio terremoto politico. La feroce offensiva materiale e ideologica dell’UE contro gli strati popolari, i ceti medi e la piccola borghesia, com’era prevedibile, ha generato una forte reazione a livello elettorale – in un quadro di sostanziale e generale passività sociale – nei confronti di chi in questi anni ha imposto e gestito i sacrifici a senso unico.
Una volta Enrico Berlinguer partecipò a un’assemblea della mia sezione. Era la fine primavera del 1979. Una settimana prima le elezioni erano andate male, e il segretario del partito voleva rendersi conto di persona di cosa non avesse funzionato. Ma non venne per parlare, se avesse voluto l’avrebbe fatto davanti a molte migliaia di persone in piazza. No, restò lì in sezione per tre ore ad ascoltare pazientemente gli interventi dei militanti, e alla fine ringraziò tutti, anche quelli che erano stati più critici nei confronti della linea politica del momento (il “compromesso storico”).
Erano tempi drammatici: Cosa nostra e le BR avevano alzato il tiro sulle istituzioni che, come avremmo saputo dopo, erano insidiate dall’interno dalle trame di Gelli; capo del governo era un Andreotti sodale dei mafiosi e Craxi stava trasformando il vecchio e glorioso Psi in un comitato d’affari sporchi.
Eppure l’Italia non deragliò: c’era il PCI (È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche. Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico…).
Chi comanda realmente in questa società e si serve della democrazia per esercitare il suo potere economico ha fatto capire senza troppi giri di parole che i partiti che si contendono il governo del paese sono intercambiabili. Che siano Pd, M5S, Lega o altri, non fa alcuna differenza. Il presidente di Confindustria ha dichiarato di non essere preoccupato trattandosi di “partiti democratici”, quindi sia gestibili sia allineati nel processo di gestione dei loro interessi. L’amministratore delegato Fiat Marchionne si è spinto fino al punto di dire che «non ha paura di un cavolo di niente». Più chiaro di così.
L’ultimo rifugio degli oppressi
La crisi del sistema che frantuma i meccanismi della rappresentanza istituzionale produce crisi di governabilità. Negli ultimi 5 anni nei paesi europei (Spagna, Belgio, Olanda, Irlanda e Germania) le elezioni hanno portato ad una maggioranza governativa solo dopo lunghe fasi di trattativa conclusesi sempre con delle larghe coalizioni. In Italia se la situazione di stallo verrà superata senza dover ricorrere ad un voto anticipato, toccherà molto probabilmente al Movimento 5 stelle prendere per mano il governo.

La recente apertura, da parte di
Amazon, di un
nuovo punto vendita nel seminterrato del suo quartier generale
a Seattle, ha provocato più di una discussione sull'argomento
di come
il lavoro umano verrà ben presto
spazzato via dall'espansione dei robot e dell'Intelligenza
Artificiale.
Nel nuovo negozio, il quale è chiaramente un "pilot", i clienti entrano, controllano i loro smartphone, scelgono ciò che vogliono dagli scaffali ed escono di nuovo. Non ci sono né casse né cassieri. Al loro posto, invece, i clienti per prima cosa scaricano un'app sui loro smartphone e in questo modo le macchine che si trovano nel negozio capiscono di quale cliente si tratta e che cosa il cliente sta prelevando dagli scaffali. Nel giro di un minuto o due, prima che l'acquirente lasci il negozio, sul suo telefono appare un pop up, come ricevuta di tutti gli articoli che ha comprato. Questo genere di sviluppo della vendita "automatica" rispecchia quella che è un'altra automazione: negli uffici, nelle automobili senza conducente, nell'assistenza sociale e nel processo decisionale.
Tutto ciò significa che ben presto gli esseri umani verranno del tutto sostituiti da macchine intelligenti in grado di imparare e da algoritmi? In quanto ho scritto precedentemente, ho delineato una previsione di quelli che potrebbero essere i posti di lavoro che verranno perduti grazie ai robot, nel prossimo decennio o più. Sembra essere enorme: e non solo per quanto attiene al lavoro manuale nelle fabbriche, ma anche per quel che riguardano i cosiddetti lavori da colletti bianchi come il giornalismo, le banche e perfino gli economisti!
Confesso:
ho
votato “Potere al Popolo”. Di malavoglia, lo ammetto; non già
“turandomi il naso” perché condividevo (e
condivido) ideali e sogni di quel popolo di sinistra che si è
raggrumato sotto questa etichetta. Non potevo non votarlo,
oltre tutto, avendo
firmato un appello di intellettuali, sottopostomi dall’amico
Citto Maselli, al quale appunto risposi: “Come faccio a dirti
di
no?”.
E poi, se non avessi votato per PaP, per quale lista avrei potuto votare? Se “Liberi e Uguali” fosse nato un anno prima (almeno!), se non avesse riciclato personaggi ingombranti, politici sconfitti, tromboni in cerca di una collocazione, se non avesse rivelato una continuità e contiguità con l’epoca renziana, sarebbe stata quella la scelta giusta, se non altro per recare danno al PD di Matteo Renzi: alla luce dei risultati, del resto, Renzi il danno se lo è arrecato da solo, anche se l’ultimo capitolo della sua vergognosa sceneggiata di dimissioni a rilascio ritardato, è il grottesco “Mi dimetto ma non mollo”. Una promessa che suona coma una minaccia. Certo, la tentazione di rinuncia al voto – o meglio di scheda annullata con una scritta del genere: “No alla nuova legge truffa!” – è stata enorme, in me come in tanti altri: votare significa comunque accettare le regole del gioco, e con il “Rosatellum”, come con la precedente legge elettorale, si trattava di un gioco truccato.
ONG e orge: quando cadono le maschere, il volto del capitalismo fa paura
C’è un tema che di recente
è sulla cresta dell’onda dei media dominanti, che mette in
chiaro l’opposizione tra Riforma e Rivoluzione (che già
sviluppava Rosa Luxemburg e che continua ad essere il nodo
gordiano dei processi storici, particolarmente urgente oggi).
Si è venuto a sapere che dirigenti e lavoratori di Oxfam Haiti facevano orrende orge approfittandosi della miseria di donne e bambine, abusando di loro in quello sfruttamento aberrante che è la prostituzione; di fronte a questi fatti ci sono persone che si chiedono: “come è possibile che qualcuno che ‘lotta contro la povertà’ (sic!) possa essere un puttaniere e approfittare della miseria per abusare delle donne?” … I media dominanti sono pieni di tavole rotonde di pseudo esperti in “diritti umani e cooperazione internazionale”, in cui apparentemente i partecipanti si rompono la testa per capire questa questione: rappresentazioni destinate all’alienazione di massa.
Il fatto è che, per comprendere queste questioni in apparenza incompatibili (solo in apparenza), bisogna capire il ruolo del riformismo nella perpetuazione del sistema capitalista. La questione ha radice nel fatto che le ONG come Oxfam non lottano realmente contro la povertà: perché l’impoverimento è causato dal saccheggio e dallo sfruttamento perpetrati contro la maggioranza e contro il pianeta da un pugno di capitalisti; e le ONG non mettono in discussione né combattono il sistema. Mettono pezze, fanno rapporti che possono risultarci utili come documentazione (ma sempre tenendo conto della loro ideologia), si riuniscono in hotel e spendono in catering bilanci milionari e – come no … - perpetrano orge in paesi impoveriti da una storia di saccheggio coloniale e di saccheggio capitalista attuale, come Haiti o il Ciad.
E’ in libreria, ormai da qualche giorno, l’ultima fatica di Domenico Moro, “La gabbia dell’euro, perché uscirne èinternazionalista e di sinistra”, un pamphlet di cui consigliamo caldamente la lettura. Il volume arriva infatti sugli scaffali con straordinario tempismo, a ridosso dell’esito elettorale che ha certificato la scomparsa dai radar della rappresentanza della cosiddetta sinistra radicale, la sconfitta dei partiti euroliberisti e la vittoria di quei populismi percepiti, a torto o a ragione, come euroscettici. Nonché la crescita, seppur lieve, dell’area dell’astensione. Il lettore più attento ci troverà sicuramente alcune risposte alle domande che in questi giorni attraversano il corpo largo della “compagneria” e più in generale potrà rintracciarvi alcune delle cause del disastro in cui siamo collettivamente coinvolti. A cominciare da quello che rappresenta il fulcro del lavoro di Moro e che par tanta (troppa) sinistra rappresenta ancora un vero e proprio tabù politico: la rottura dell’Unione Europea e l’uscita dall’Unione Economica Monetaria.
Con uno stile divulgativo che apprezziamo particolarmente, e senza per questo far sconti al rigore scientifico, Moro affronta la questione soprattutto dal punto di vista politico, provando ad analizzare le ragioni della riluttanza che ha certa sinistra nel prendere anche solo in considerazione l’idea di mettere in discussione l’idea di integrazione europea così per come si è andata concretizzando nel corso dei decenni.
I miliziani sparano sui civili in fuga da Ghouta Est. Ne abbiamo scritto in altre note, ora la conferma arriva da un articolo di Giordano Stabile (La Stampa).
I miliziani jihadisti, annota il cronista, «si sono spinti, hanno testimoniato funzionari dell’Onu, a sparare con i cecchini sulle famiglie in fuga, in modo che nessuno possa uscire dal quartiere».
Righe “dal sen fuggite”
Due righe sfuggite all’usata narrativa sulle operazioni russo-siriane volte a riprendere il quartiere di Damasco sequestrato anni fa.
Un fuggevole cenno, nulla più. Ma che smaschera tutta l’artificiosità di una narrativa volta a dipingere tale campagna militare come un’operazione di macelleria.
Avevamo già scritto di tale terribile circostanza. E anche pubblicato il video della fuga miracolosa di Fatima e Hamza, fuggiti al fuoco dei cecchini jihadisti.
Un filmato più che noto, ma che è stato nascosto al mondo: i bambini straziati dai miliziani anti-Assad non fanno notizia.
Ora la conferma arriva da fonte più che autorevole: le Nazioni Unite.
Se quasi tutti gli economisti si concentrano esclusivamente sulla moneta, come se tutto da ciò derivasse, esiste un altro elemento che distorce le scelte che vengono effettuate dalla politica e dalle parti sociali.
È una deformazione che deriva da un assunto che l’umanità intera si porta dietro da quando, con l’invenzione del martello, la storia umana approdò alla costruzione di strumenti necessari al fare. La tecnologia moltiplicava costantemente il poter fare di una mano estendendo le possibilità fino a limiti impensabili. Inutile fare esempi, sarebbe poco esaustivo di una vastità di storia e di opzioni che la tecnologia ha accumulato in millenni.
Il punto più alto, probabilmente, fu il raggiungimento di quella complessità rappresentata dalla fabbrica tayloristica. Lì, infatti, l’intreccio tra il fare delle braccia e l’intelligenza organizzatrice che sopraintendeva al processo, consentì l’esplosione della capacità del fare umano. Certo il prezzo da pagare per raggiungere tale potenza produttrice fu enorme. Le gesta ripetute milioni di volte, con ritmi incessanti e non determinati dalla persona ma dal ciclo, obbligarono gli individui a piegarsi come mai in passato. L’umanità necessaria a compiere tale sforzo e ad essere compatibile con tale alienazione, come ci ammoniva il Gramsci dei Quaderni, veniva ad essere generata dallo stesso processo produttivo.
Il neoliberalismo – lo sappiamo - ha prodotto ricchezza finanziaria per pochi e impoverimento reale e macerie sociali e individuali per i più. Ma questi più non si ribellano, al massimo reagiscono di pancia, cercano un populista, un autocrate o un guru tecnologico o una app a cui delegare se stessi e le proprie scelte. Questi più – sciolti ormai come classe operaia e come ceto medio - accettano di restare nella caverna platonica e pur muovendosi molto elettoralmente (come dimostrato dalle elezioni del 4 marzo) sostanzialmente si adeguano (al neoliberalismo, alla rete, all’ultimo populista sul mercato). Uscire dalla caverna non è – purtroppo - nei loro pensieri.
In nome di una falsa libertà individuale promessa dal neoliberismo e dalla rete abbiamo dimenticato che l’uguaglianza è invece la base della libertà vera, nonché la premessa della fraternità. A ricordarci, invece che l’esplosione attuale delle disuguaglianze è qualcosa che non ha confronti con la storia recente e che è stata una scelta politica delle classi dirigenti; che questo è in palese contrasto con ciò che è scritto nella Costituzione, dove l’uguaglianza, la fraternità e la libertà sono elementi strutturali e strutturanti e vincolanti (e solennemente riconfermati dal demos per referendum); che la disuguaglianza mette in pericolo il futuro della democrazia, della pace e dello stesso sviluppo economico - è un saggio magistrale scritto da un filosofo del diritto di prim’ordine come Luigi Ferrajoli.
Il discorso del presidente russo Vladimir Putin sullo stato della nazione, dedicato alle questioni interne e internazionali, ha suscitato in Italia scarso interesse politico-mediatico e qualche commento ironico.
Eppure dovrebbe essere ascoltato con estrema attenzione. Evitando giri diplomatici di parole, Putin mette le carte in tavola. Egli denuncia il fatto che negli ultimi 15 anni gli Stati uniti hanno alimentato la corsa agli armamenti nucleari, cercando di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia.
Ciò viene confermato dalla stessa Federazione degli scienziati americani: per mezzo di rivoluzionarie tecnologie, gli Stati uniti hanno triplicato la capacità distruttiva dei loro missili balistici da attacco nucleare.
Allo stesso tempo – sottolinea Putin – gli Stati uniti, uscendo dal Trattato Abm, hanno schierato un sistema globale di «difesa missilistica» per neutralizzare la capacità russa di rispondere a un first strike nucleare. Sulla scia dell’espansione della Nato ad Est, hanno installato siti missilistici in Romania e in Polonia, mentre altri sistemi di lancio (di missili non solo intercettori ma anche da attacco nucleare) sono su 18 navi da guerra dislocate in aree vicine al territorio russo.
Devo ringraziare lo sforzo di Eros
Barone e di
Mario Galati che si sono divisi il lavoro nel rispondere con
grande attenzione e qualità argomentativa al mio testo su
Macerata (qui
nel mio blog e qui
in Sinistrainrete). Nella risposta di Eros Barone “Fisica
e metafisica dei fatti di Macerata”, a sua espressa
indicazione, vengono trattati i temi: della mia accusa, a suo
dire, di schematismo e
tradizionalismo nei suoi confronti, avanzata nella mia replica
(che quindi rovescia); della dinamica di emigrazioni ed
immigrazioni; della proposta di
politica economica alternativa e dell’interpretazione
dell’ultimo Marx. Mentre nella risposta di Mario Galati “Ancora
su ‘letture del dramma di
Macerata’”, che leggeremo dopo, sarebbero trattati gli
altri temi che i due individuano nel mio testo, ovvero: la
violenza e le sue
cause e quindi la questione dello “scontro delle
secolarizzazioni”; l’interpretazione concettuale dei processi
di astrazione del
lavoro e della mobilità interregionale; la riaffermazione
dell’importanza dell’irrazionale dei riti e del simbolico, con
il
riferimento alla ‘religione del capitalismo’ e la ‘questione
della tecnica’. Si tratta di una sequenza di post che su
Sinistrainrete partiva dalla pubblicazione di “Sui
fatti di Macerata”, un dialogo con Roberto Buffagni, e
che nelle sue articolazioni ha avuto più o meno 3.000 letture.
I due amici si sforzano nelle loro repliche di correggere i miei molti errori in termini di ortodossia marxista, e di questo li posso solo ringraziare.
La Siria di Ghouta e la Ghouta di Amnesty, Palmira e Babilonia, i nazifascisti in agguato, il gender e i migranti: quando i “sinistri” condividono distruzioni e distrazioni di massa
Quelli “del popolo”
Quelli che risultano più nauseabondi sono sempre gli ipocriti. A partire dal “manifesto” e da tutta la combriccola pseudosinistra dell’imperialismo di complemento, che volteggia nel vuoto dell’interesse e del consenso di un elettorato italiano che, per quanto disinformato o male informato sulle cose del mondo, ha dimostrato di badare più alla sostanza che alle formulette di palingenesi sociale incise sulle lapidi della sinistra che fu. E la sostanza ci dice che mettere tutti sullo stesso piano, 5Stelle e ologrammi nazifascisti, Putin e Trump, opposti imperialismi, migranti in fuga da bombe Nato e migranti attivati dalle Ong di Soros, jihadisti a Ghouta Est e truppe governative, a dispetto dell’immane e unanimistica potenza di fuoco mediatica, poi produce al massimo l’1 virgola qualcosina per cento. Brave persone, certo (esclusi i paraculi fessi dei GuE), ma fuori dal mondo, da chi è il nemico e da come si muove l’1% finanzcapitalista e tecno-bio-fascista nell’era del mondialismo e dell’high-tech. E, permettetemi una risatina, neanche bravi, ma di un narcisismo solipsista che rivela tratti patologici per quanto è dissociato dal reale, quelli della Lista del Popolo (Chiesa, Ingroia, bislacchi e farlocconi vari), trionfalmente giunti allo 0,02%. Ma si puo!
Giovanna Leone, Maurizio Franzini, Giuseppe Amari e Adolfo Pepe rileggono, da angolature diverse, il ruolo di Roosevelt nella trasformazione del capitalismo del secondo dopoguerra. Nel confronto sottinteso con l’oggi risalta il suo spirito riformista e umanista
È nota l’argomentazione di Lakoff
che i “progressisti” democratici, accettando le modalità di
pensiero dei conservatori per paura di dire ciò in cui credono
realmente, incontrino difficoltà nel costruire una narrazione
persuasiva per i propri elettori e per quelli incerti.
Rinunciando a prospettare
una visione del mondo realmente alternativa depotenziano il
loro linguaggio e l’immaginario ad esso correlato, indebolendo
la carica emotiva
rispetto allo status quo conservatore.
Non
è il caso di Franklin Delano Roosevelt, quando alla
Convenzione democratica del 2 luglio 1932 afferma che i
“nostri leader repubblicani
ci parlano di leggi economiche – sacre, inviolabili,
immutabili – che causano situazioni di panico che nessuno può
prevenire. Ma
mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne
muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le
leggi economiche non sono fatte
dalla natura. Sono state fatte da esseri umani”. Si tratta di
un rovesciamento radicale delle priorità politiche
repubblicane che
percorre il suo Looking Forward – la raccolta degli articoli e
dei discorsi sviluppati nel corso della sua campagna
elettorale per le
presidenziali del 1933 – la cui traduzione è apparsa in questi
giorni per i tipi della Castelvecchi editore. Il libro, Guardare
al
futuro. La politica contro l’inerzia della crisi,
a cura di Giuseppe Amari e Maria Paola Del Rossi ha
un’introduzione di J.
K. Galbraith e comprende anche il Discorso di
insediamento (4 marzo 1933) e la Prima
chiacchierata al caminetto sul bank holiday (12
marzo 1933) dello stesso Roosevelt, le due lettere inviategli
da Keynes (del 1934 e del 1938) sul suo New Deal e un articolo
su “Il popolo
d’Italia” del 1933 nel quale Mussolini rivendica al fascismo
l’originalità dell’interventismo rooseveltiano.
Come era prevedibile, Mattarella sta facendo pressing sui partiti per evitare le elezioni, ma, come è facile prevedere, con scarsissime probabilità di successo. Unico ad “aprire” è stato Berlusconi, che continua a credersi il regista del centro destra e che pensa ad un appoggio esterno del Pd, mascherato da astensione, offrendo generosamente la testa di Salvini sostituito da Zaia.
Piano che, di fatto, sarebbe la ripresa del “piano B”, cioè la “grande” coalizione Fi-Pd con la variante Zaia: Salvini ci farebbe una figura barbina, la Lega si sgonfierebbe magari a vantaggio di Fi, la linea la detterebbe Fi con l’appoggio interno dei centristi ed esterno del Pd. Perfetto. Solo che c’è un problema: Salvini non ci sta ad offrire la sua testa e Zaia ha già detto di no. Per cui, parliamo d’altro.
Si parla di “governo del Presidente” o “di scopo”. Chiacchiere: come la volti e come la giri anche il governo del Presidente o quel che vi pare dovrebbe avere la fiducia dal Parlamento e questo presuppone un accordo o, meglio, una formula di maggioranza, che è quel che manca.
In un articolo uscito sul suo blog prima delle elezioni del 4 marzo, l’economista Mario Nuti offre la spiegazione del perché gli elettori socialisti e socialdemocratici italiani dovessero votare a destra nelle elezioni del 2018: per permettere una netta vittoria della compagine di centro-destra, il cui programma contiene molti elementi di sinistra, e disarticolare definitivamente i partiti liberal-liberisti di sinistra. In questo modo si potrà formare lo spazio per la rinascita di una sinistra, nelle parole di Nuti, vera, socialista e pro-lavoro, contrapposta alla sinistra liberal-liberista del PD e addentellati più o meno radicali. Per quanto riteniamo, diversamente da Nuti, che la rinascita di una sinistra del genere richiederà molto tempo, tutti gli elettori socialisti e socialdemocratici possono almeno dire: mission accomplished!
Indro Montanelli (1909-2001), il prestigioso giornalista e scrittore italiano, ha manifestato in molte occasioni il suo grande disdegno per Silvio Berlusconi, la sua indole e le sue politiche. Eppure nel 2001 Montanelli dichiarò in un’intervista:
“Voglio che vinca, faccio voti e promesse alla Madonna perché vinca, cosicché gli Italiani vedano chi è quest’uomo. Berlusconi è una malattia da curare con la vaccinazione, con una buona iniezione di Berlusconi al governo [a Palazzo Chigi]; Berlusconi Presidente dell’Italia [al Quirinale], Berlusconi dovunque desideri andare, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L’immunità ottenuta con la vaccinazione” (La Repubblica, 26 marzo 2001).
«L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.
L’una attirata dal flauto magico della flat tax, l’altra da quello del reddito di cittadinanza.
In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Femminismi. Un'anticipazione dal volume «Donne, razza e classe», edito da Alegre, che sarà in libreria dall'8 marzo
Tra le donne lavoratrici e le donne provenienti da facoltose famiglie di classe media erano sicuramente le operaie quelle che avevano più diritto a fare confronti con lo schiavismo. Sebbene nominalmente libere, le loro condizioni di lavoro e le loro paghe richiamavano automaticamente, per le condizioni di sfruttamento, il paragone con la schiavitù. Tuttavia, furono le donne abbienti a invocare nella maniera più letterale l’analogia schiavista nel tentativo di esprimere la natura oppressiva del matrimonio.
Durante la prima metà del diciannovesimo secolo l’idea che la secolare e consolidata istituzione del matrimonio potesse essere oppressiva era in qualche modo insolita. Le prime femministe potevano descrivere il matrimonio come una forma di «schiavitù» dello stesso tipo di quella patita dal popolo Nero innanzitutto per il valore scioccante del confronto, temendo che la serietà della loro protesta potesse altrimenti cadere nel vuoto. In tal modo però ignoravano che, identificando le due istituzioni, si affermava che la schiavitù in fondo non fosse peggio del matrimonio. Ad ogni modo l’implicazione più importante di questo confronto fu che le donne bianche di classe media sentivano una certa affinità con le donne e gli uomini Neri, per i quali la schiavitù voleva dire frustate e catene.
Questo accordo della vergogna, sottoscritto senza neanche un'assemblea nei luoghi di lavoro, è come la controriforma costituzionale di Renzi. E deve fare la stessa fine
L'accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di CgilCislUil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di austerità fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un' intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L'ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom - il peggiore della storia della categoria con zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari- ha dato il via libera definitivo a quest'intesa.
L'accordo programma la riduzione dei salari impedendo di chiedere aumenti nei contratti nazionali e legando rigidamente quelli aziendali ai massimi profitti dell'impresa. Nello stesso tempo flessibilità e precarietà sono assunti come elementi costitutivi del rapporto di lavoro. E l'orario di lavoro e l'intensità della prestazione possono solo aumentare. Questa è la nuova costituzione delle relazioni sindacali e l'organizzazione che non l'accetta vedrà messo in discussione il suo stesso diritto ad esistere. Un accordo liberticida contro tutti i diritti dei lavoratori.

Nel dibattito politico recente si è
parlato in lungo e in largo della famigerata Riforma
previdenziale Monti-Fornero. Questo provvedimento, che ha
avuto forti impatti restrittivi sui
diritti pensionistici, è tuttavia soltanto il punto di arrivo
di un processo di continue riforme in campo previdenziale
avviato da ormai
venticinque anni.
Avviato dal 1992 con la prima grande controriforma Amato, proseguito con la legge Dini nel 1995 e poi con successive riforme “minori”: Prodi (1997), Maroni (2004), Damiano (2007), Sacconi (2011) e infine la Fornero (2011-12), il groviglio di mutamenti legislativi ha seguito un iter coerente le cui direttrici fondamentali sono state almeno cinque:
Il
complesso
marchingegno elaborato dal Partito Democratico e da Forza
Italia non ha prodotto il risultato che gli autori speravano.
Come accade nei cartoni al
celebre Wile E. Coyote la legge elettorale non è servita a
nulla e, anzi, ha danneggiato sia Matteo Renzi sia Silvio
Berlusconi. Si è
rivelata l’ennesima tecnologia difettosa e d’uso impossibile,
fornita dal vecchio ceto politico tramite una sorta di Acme
Inc. Ancora una
volta il velocissimo Beep Beep (Lega e/o Movimento 5 Stelle)
ribalta le previsioni e sfugge alla trappola, mentre cadono
vittime del loro stesso piano
coloro che lo avevano ideato.
Senza dubbio non giunge inattesa una composizione delle due camere che non consente, al momento, di individuare una maggioranza certa. Il Centro Destra era, d’altro canto, l’unica coalizione che, in astratto, poteva raggiungere il risultato, pur trattandosi di eventualità non molto probabile, anche se non esclusa in partenza. E ha fallito l’obiettivo, crollando nei collegi del meridione.
Per quanto tuttavia l’esito interlocutorio e la conseguente situazione di stallo fossero non solo previsti, ma forse anche in qualche modo promossi, la composizione dei futuri gruppi parlamentari ha invece colto di sorpresa, trovando impreparato l’intero apparato di governo. La ripartizione dei voti e l’assegnazione dei seggi determinano una situazione che rende incerto il nuovo assetto di gestione del potere legislativo e di composizione del potere esecutivo.
Intervento nel dibattito sul rifiuto del lavoro aperto da Anna Curcio qui e qui
Il 26 gennaio 2018 Econopoly, blog
de Il Sole 24 Ore che
«vuole parlare di economia in maniera seria e documentata»,
pubblicava un contributo di tale Enrico Verga che proponeva,
dopo aver
constatato che la condizione dei lavoratori salariati e di
molti lavoratori autonomi fosse miserevole sotto il punto di
vista sia dei diritti che
della retribuzione, di ritornare alla schiavitù come base
delle economia avanzate. Ovviamente promettendo poche frustate
e tanto affetto da
parte dei padroni, ricordando per certi versi Le dodici
sedie, film diretto nel 1970 da Mel Brooks, dove il
buon padrone, nonché
nobile decaduto, Ippolit Vorobyaninov veniva ricordato così
dal vecchio servo: «Era molto buono, ci picchiava solo la
domenica!».
Per altri versi, ma meno comicamente, può ricordare una delle
più famose intuizioni di Karl Marx, quando diceva che «la
storia si
ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la
seconda come farsa».
Nello stesso periodo veniva data notizia dei nuovi braccialetti elettronici che Amazon avrebbe presto cominciato a far indossare ad ogni suo singolo lavoratore per controllarne e dirigerne il lavoro secondo i tempi e i ritmi decisi dall’azienda. In realtà, in questo caso, si trattava semplicemente di un aggiornamento tecnologico di un’impostazione del lavoro e della produzione che era già ampiamente diffusa nelle aziende più importanti del mondo. Nel caso specifico, le metodologie produttive di Amazon erano nel 2013 state indagate da Jean – Baptiste Malet nel suo libro – inchiesta En Amazonie: infiltré dans le “meilleur des mondes”.
Adesso in Usa governano quasi tutti uomini di establishment con le stellette, e relativa industria. La politica estera è destinata ad essere sempre più aggressiva
Anche alla Casa Bianca, l’estinzione del tyrannosaurus Rex Tillerson fa da spartiacque tra due ere. Non che il segretario di Stato, liquidato da Donald Trump con un tweet orgoglioso, abbia mai contato gran che. Negli ultimi tempi, poi, era stato tagliato fuori o quasi da tutti i dossier più importanti, fosse il contrasto con la Corea del Nord o la questione di Gerusalemme, dove a comparire era sempre il vicepresidente Mike Pence. Tillerson, in poche parole, ha influito sulla politica Usa molto più quando è stato presidente e amministratore delegato del gigante petrolifero ExxonMobil che non quando ho cominciato a gironzolare per capitali.
Alla fin fine, il tyrannosaurus Rex ha lasciato un segno soprattutto facendosi licenziare. Perché con la sua uscita di scena si completa la conquista della Casa Bianca da parte del potente complesso industrial-militare che, con la sola produzione di armi, vale più del 10% del Prodotto interno lordo degli Usa e che Donald Trump, nella sua prima legge finanziaria, ha gratificato con un bel 10% in più di investimenti.
I flussi elettorali dimostrano come il Pd sia diventato il partito dei benestanti e dei benpensanti mentre il M5S rappresenti il voto del riscatto sociale: emblematici i casi di Taranto, Barra e Parioli o il consenso ottenuto tra operai e disoccupati. Dove una volta sorgeva la sinistra, ora regnano i grillini che – con tutte le loro contraddizioni – sono riusciti a colmare un immenso vuoto politico.
La “sinistra”, il partito della Ztl (“zona traffico limitato”, il centro delle città, solitamente aree benestanti, ormai uniche roccaforti rimaste) non se ne fa una ragione; di come sia possibile che gli altri – i cafoni, gli ignoranti, i furbi e i mascalzoni, i nullafacenti, il popolino – abbiano votato la Lega al nord e i Cinque Stelle al sud. Ma come? Non viviamo nel miglior mondo possibile? E la modernità “smart” non è il miglior antidoto contro la paura?
Forse no. Era sufficiente farsi una passeggiata fuori dalla Ztl, in quell’area che un bel pezzo della sinistra ha ormai abbandonato da tempo non avendo più un’idea di progresso ed emancipazione collettiva da proporgli, per rendersi conto del malessere generale dei cittadini contro il cosiddetto “sistema”. Lo scorso 4 marzo ha confermato il trend europeo: un voto polarizzato secondo il binario establishment/anti-establishment, con la “gente” che ha sostenuto le forze cosiddette populiste, percepite come di rottura o contro l’attuale assetto di potere. Forze di alternative presunte, non reali. Ma considerate tali.
Una gentile mano ha girato questa clip, estratta da un intervento che, sabato 10 marzo, ho fatto alla presentazione a Milano, Casa Rossa, del mio film “O la Troika o la vita – epicentro Sud, non si uccidono così anche i paesi”. Aggiungo alcune riflessioni a quelle che cercavano di illustrare il parallelo che corre tra la sistematica distruzione dei patrimoni di civiltà dei popoli aggrediti dall’Uccidente e le cosiddette migrazioni. Che è improprio definire migrazioni, perché di spostamenti coatti di genti si tratta.
Le forze del vero male assoluto, oggi del mondialismo neoliberista e totalitario, da sempre sterminatrici, saccheggiatrici, belliciste, colonialiste, sperimentarono il massimo del loro potenziale di morte prima con le crociate (Goffredo da Buglione in “Terra Santa” ad Acri passò a fil di spada tutti gli abitanti musulmani; Saladinonon ha torto un capello neanche a uno dei successivi cristiani; era già “scontro di civiltà”) e, poi, olocausto di tutti gli olocausti, con l’eliminazione delle popolazioni native delle Americhe.e dell’Africa (20 milioni di morti ammazzati in Congo per grazia di Leopoldo del Belgio, tra 50 e 100 nel genocidio degli amerindi). Lo fecero nel nome e con la benedizione della Chiesa che, da tale taglio di messi si aspettava un concomitante allargamento del proprio dominio su beni e anime.
Sabato scorso è apparso sul Corriere un fondamentale articolo per cogliere la direzione del futuro prossimo. Ancora vittime della retorica della crisi, rischiamo di arrivare in ritardo alla comprensione di questa ripresa economica che è sempre più strutturale. Secondo i dati della produzione industriale di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna, nonché secondo i commenti di molti dei protagonisti industriali del nord Italia, «il Veneto sta crescendo a ritmi cinesi»: +6,3% la produzione industriale in Veneto; +5% in Lombardia; anche l’Emilia-Romagna si attesta su queste cifre dichiara Pietro Ferrari, presidente degli industriali emiliani: «anche i nostri numeri sono ottimi. Non ci fosse la crisi del mattone viaggeremo tranquillamente alla velocità di quel 2% del Pil, obiettivo di sempre». Addirittura, aggiunge Giuseppe Milan – Unindustria Treviso – «le aziende non riescono a trovare la manodopera che cercano». Siamo, da un anno abbondante, dentro un ciclo di ripresa economica che, soprattutto mediaticamente, ha rapidamente obliterato le riflessioni sulla crisi. Ripresa economica non significa però crescita in senso generale: ancora oggi i dati della domanda interna rimangono bassi, vicino allo zero. La ripresa sembra essere il combinato di due fattori: da una parte l’effetto traino del contesto economico europeo e delle esportazioni internazionali; dall’altra le “riforme” del mercato del lavoro che hanno consentito una flessibilità occupazionale a esclusivo vantaggio delle imprese.
Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017, pp. 141, € 13,00
Il fascismo può tornare? La domanda non appare retorica dopo la tentata strage di Macerata e la diffusa accondiscendenza, se non aperta approvazione, con cui è stata accolta. Senza considerare le 152 aggressioni fasciste in Italia dal 2014 a oggi, registrate da Infoantifa.1 È senz’altro interessante, a questo proposito, prendere in considerazione le tesi espresse dallo storico Enzo Traverso nel suo libro intervista I nuovi volti del fascismo. Precisiamo subito che la posizione dell’autore è interlocutoria rispetto alla domanda posta all’inizio. Traverso sostiene che il fenomeno politico oggi prevalente non è tanto un rigurgito di neofascismo, che pure c’è, quanto una realtà più sfuggente, ambigua, suscettibile di esiti diversi, che è meglio definire postfascismo. Il punto di osservazione privilegiato è la Francia, dove lo storico insegna, con il Fonte Nazionale di Marine Le Pen come oggetto di analisi principale. Ma non mancano numerosi riferimenti al caso italiano, in particolare a due partiti come Fratelli d’Italia e la Lega.
Secondo l’autore, le formazioni postfasciste vengono per lo più da una tradizione fascista in senso proprio, ma da questa si sono emancipate. Altri partiti, come la Lega, hanno origini storico-culturali diverse, ma il loro posizionamento politico attuale è analogo.
Tutti gli economisti e i politici riconoscono
che il più grave e urgente problema che soffoca l’economia
italiana è
l’eccesso di debito
pubblico.
Tutti sono concordi: se il debito pubblico continua a crescere
con questa dinamica diventerà insostenibile. La crescita reale
del PIL italiano
è attualmente di 1,5%, l’aumento dell’inflazione è pari a
0,8%, quindi la crescita nominale è del 2,3%, mentre gli
interessi che paghiamo ai mercati
finanziari sono pari a oltre il 3% del PIL. L’Italia
produce ogni anno più debito che reddito. Come risolvere il
problema ed evitare
una crisi verticale dell’economia italiana?
Questo articolo si propone di esporre e di suggerire alcune possibili soluzioni mirate a diminuire il debito pubblico italiano e, più precisamente, a ridurre il rapporto debito/PIL.
Vale la pena citare innanzitutto alcuni dati che sono noti ma che è opportuno esplicitare in tutta la loro crudezza. Il debito pubblico italiano è pari a circa 2.218 miliardi di euro, cioè al 132,6 % del PIL che vale 1.672 mdi (dati Istat 2016). In valore assoluto il nostro debito segue solo quello degli Stati Uniti d’America, pari a 18.237 miliardi di dollari, Giappone, 10.557 miliardi e Cina, 5000 miliardi circa. Ma è il valore relativo rispetto al PIL che preoccupa: qui siamo dietro solo a Giappone, 200% sul PIL e Grecia, circa 175% . Soprattutto, il nostro debito pubblico cresce a spirale: lo stato italiano aumenta il suo debito per pagare gli interessi sul debito.
I risultati e le prospettive di Potere al popolo a livello nazionale, in una situazione di lento e velenoso declino del paese come la nostra, impongono qualche riflessione, di prospettiva, a freddo
Si tratta soprattutto di riflessioni legate alla
possibilità di far crescere una forza di sinistra conflittuale
in un paese che
ha davanti a sé nuove ondate di ristrutturazione tecnologica,
mutazioni sociali che si giocano tra invecchiamento
demografico e uscita dal
lavoro di intere aree del paese, nuovi spasmi nella
contrazione dei beni pubblici nell’incapacità di
disconnettersi dalla dipendenza
della finanza globale. Per far emergere questo tipo di
riflessione, lontana da esigenze di compulsiva ricerca del
consenso o da botta e risposta su
Facebook, torna utile lo schema delle analisi SWOT.
In poche parole, di una analisi che, più o meno schematicamente metta sul tavolo i punti di forza, quelli di debolezza, le opportunità e le minacce che stanno attorno al fenomeno osservato. E’ evidente che l’accelerazione del processo di costruzione di Pap dall’autunno scorso rendeva, fino a poco tempo fa, inutili questo genere di considerazioni. I processi di accelerazione in politica mettono, naturalmente, tra parentesi un tipo di analisi che non ha bisogno di velocità ma di silenziosa, lenta estensione.
Al contrario oggi questa analisi serve. Di fronte a processi che si daranno nella mutazione, di nuovo drammatica, di un paese grazie a fenomeni che sono già tra noi ma sono ancora lontani dai radar delle sinistre radicali, e di movimento, esistenti.
La rabbia contro l’Europa e
l’euro che certo deborda oltre la ragionevole avversione al
liberismo speculativo della casta eurocratica, nasce dalla
consapevolezza dei
cittadini della violenza e dell’imbroglio perpetrato contro i
lavoratori delle nazioni europee da parte dell’élite politico
–
finanziaria che da un quarto di secolo ha provato, spesso
riuscendoci, a imporsi attraverso una forzatura del consenso
popolare. Col tempo il dogma
ideologico liberista e speculativo è diventato la teoria
politica di una dittatura oligarchica e tecnocratica, tuttavia
l’assottigliarsi
del consenso per i partiti popolari e socialdemocratici del
vecchio continente testimonia, con tutta evidenza, che tale
sistema è giunto al
capolinea.
Spannaus con parole chiare e vibranti ci prospetta l’alternativa in “La rivolta degli elettori. Il ritorno dello stato e il futuro dell’Europa”. Si deve infatti rimettere al centro un progetto condiviso di Europa che parta dalla cooperazione tra gli stati e non dalla Commissione Europea e della Banca Centrale di Francoforte, un progetto capace di sostenere il lavoro produttivo e manifatturiero e non le speculazioni bancarie e le delocalizzazioni, un progetto volto a dispiegare decisive politiche sociali e non a tagliare i fondi per le pensioni, la scuola, la sanità.
Dopo il grande successo elettorale del Movimento 5 Stelle si parlerà molto di sprechi di denaro pubblico. O meglio, se ne parlerà ancora di più, perché di sprechi si è sempre parlato: ne parlano i miei lettori, i parenti, gli amici. Se ne parla, più o meno, nelle segreterie di ogni partito e ai tavoli di ogni bar.
Quando un concetto mette radici ubiquitarie nel discorso pubblico, diventa un concettoide. Rescinde cioè il nesso con gli antefatti che ne giustificano l'uso e si fa semanticamente autoportante. Nel rimandare tacitamente a un sistema condiviso di umori, convincimenti e narrazioni, riposa nella sua apodissi e innesca un processo di sintesi dove, nel dire una cosa, sì è detto tutto. Accanto agli ormai storici destra e sinistra, annoveriamo tra i concettoidi più recenti corruzione, debito, Europa, mercati, mercato (libero), credibilità, scienza, più una fortunata serie di ismi: fascismo, razzismo, populismo, nazionalismo ecc. Se per marcare il primo gruppo di sostantivi ci siamo sovente avvalsi, con altri autori, di grafie univerbali a significarne la ripetitività vuota e rituale (Leuropa, Lascienza ecc.), il secondo si marca da sé nell'uso vulgato ammettendo la forma, altrimenti inaudita, dell'astratto plurale: fascismi, populismi, razzismi ecc.
E' fresco di stampa: L'ultimo uomo di E. Pennetta, GOG Edizioni 2017 —casa editrice degli amici de L'Intellettuale Dissidente.
Soggetto del libro è la critica del Transumanesimo.
Wikipedia da una definizione forse minimalista del transumanesimo:
«Il transumanesimo (o transumanismo, a volte abbreviato con >H o H+o H-plus) è un movimento culturale che sostiene l'uso delle scoperte scientifiche e tecnologiche per aumentare le capacità fisiche e cognitive e migliorare quegli aspetti della condizione umana che sono considerati indesiderabili, come la malattia e l'invecchiamento, in vista anche di una possibile trasformazione post umana».
I teorici del transumanismo —il più importante Julian Huxley — esibiscono un umanesimo radicale e progressista, in verità si tratta del folle sogno nichilista di ascendenza nicciana di creare, grazie alle tecnoscienze, un'élite di super-uomini destinata ad esercitare dominio e oppressione. Questa setta —di cui non a caso fan parte Zuckenberg, Jeff Bezos e i giganti della Silicon Valley— camuffa la sua ideologia tossica dietro le vesti del miracolismo terapeutico. Il demonio, si sa, si camuffa spesso come il Cristo.
Sui pericoli insiti nello strapotere della tecnica e del mito della scienza Eos era già intervenuto mesi addietro. Gli ridiamo la parola.
Sono in corso simultaneamente, nella prima metà di marzo, due grandi esercitazioni di guerra – l’una nel Mediterraneo di fronte alle coste della Sicilia, l’altra in Israele – ambedue dirette e supportate dai comandi e dalle basi Usa/Nato in Italia.
Alla Dynamic Manta 2018 – esercitazione di guerra sottomarina, appoggiata dalle basi di Sigonella e Augusta e dal porto di Catania – partecipano forze navali di Stati uniti, Canada, Italia, Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Grecia e Turchia, con 5000 uomini, navi di superficie, sottomarini, aerei ed elicotteri.
L’esercitazione è diretta dal Comando Nato di Lago Patria (Jfc Naples), agli ordini dell’ammiraglio statunitense James Foggo. Nominato dal Pentagono come i suoi predecessori, egli comanda allo stesso tempo le Forze navali Usa in Europa e le Forze navali Usa per l’Africa, il cui quartier generale è a Napoli Capodichino.
A cosa serva la Dynamic Manta 2018 lo spiega lo stesso ammiraglio Foggo: è iniziata la «Quarta battaglia dell’Atlantico», dopo quelle delle due guerre mondiali e della guerra fredda. Essa viene condotta contro «sottomarini russi sempre più sofisticati che minacciano le linee di comunicazione marittima fra Stati uniti ed Europa nel Nord Atlantico».
Una delle più celebri poesie di Francesco Petrarca comincia con questi versi: “Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti”. Quelli della mia età li hanno imparati a memoria, e poi sono rimasti stampati nella nostra mente. Non saprei dire delle generazioni più giovani, dubito però che ne abbiano una famigliarità quasi automatica.
Bisogna riavvolgere la pellicola del tempo di circa ottocento anni per collocarli nella storia della nostra letteratura e nella cultura che vi si rispecchia, eppure è come se questi versi continuassero a parlarci con il loro elogio della solitudine (non certo il primo e molti altri ne sarebbero seguiti). Ancora adesso filosofi immersi nella realtà, ben consapevoli delle difficoltà di muoversi su un terreno complesso e incerto, ci esortano a dotarci di qualcosa di simile a un “deserto tascabile” per tentare di orientare le nostre vite (vedi Peter Sloterdijk). Dunque l’elogio di Petrarca resta così attuale?
No e sì. No, perché intanto la solitudine è diventata una malattia endemica che affligge quasi tutti e alla quale evitiamo di pensare troppo. Ma anche sì, perché non riusciamo a vivere oppressi come siamo dalla mancanza di pensiero e di riflessione in una società dove c’è sempre meno tempo e spazio per indugi e pause.
La cronaca di questi giorni ha portato all’attenzione di tutti il presunto arrembaggio, in più parti del sud Italia, di folle di “sfaticati” pronti a compilare i moduli per ottenere il reddito di cittadinanza dopo il successo elettorale del Movimento 5 Stelle, che proprio su quella proposta aveva puntato per raccogliere i voti dei disoccupati e dei precari. L’immagine biblica di queste folle di diseredati in cerca di salvezza è solo l’ultimo capitolo di un dibattito surreale che circonda la proposta dei 5 Stelle. Come proveremo a spiegare, i 5 Stelle mentono, provando a spacciare per #redditodicittadinanza qualcosa di sostanzialmente diverso e ben più pericoloso, mentre le altre forze del teatrino politico – anziché criticare il merito della proposta – puntano il dito contro il fatto che la misura richiederebbe un aumento della spesa pubblica, usando dunque contro i 5 Stelle la stessa arma che l’Europa usa ogni giorno contro qualsiasi proposta di stimolo pubblico dell’economia.
Innanzitutto il Movimento 5 Stelle non ha mai proposto l’istituzione del reddito di cittadinanza: la misura suggerita dal partito di Di Maio consiste in un reddito minimo garantito, e tra le due cose sussistono differenze rilevanti. Infatti il reddito di cittadinanza, mai proposto dai 5 Stelle, è un trasferimento incondizionato da parte dello Stato ai cittadini: ogni cittadino, in quanto tale (da qui il nome ‘reddito di cittadinanza’) e a prescindere dalla propria posizione lavorativa ed economica, avrebbe diritto a tale forma di reddito.

Gianpasquale Santomassimo, recentemente, ha
scritto
nel tempio della sinistra-sinistra mainstream, Il
Manifesto, che dopo questa sconfitta epocale “senza
ripensare tutto sarà
impossibile ripartire”. Come scrive
Fabrizio Marchi su
l’Interferenza, ha proprio ragione.
Ma ripensare tutto, che significa?
Bisognerebbe intanto capire meglio che cosa designiamo con ‘sinistra’, perché in essa convergono tradizioni e culture non sempre compatibili, ed in particolare bisognerebbe riguardare alla storica opposizione tra ‘liberalismo’ e ‘socialismo’ ed alle loro reciproche ragioni; da questo angolo ripensare alla differenza tra ‘cosmopolitismo’ e alle ragioni, non tutte innocue, per le quali alcuni socialismi e pressocché tutte le sinistre oggi lo sposano (anche se a volte sotto l’etichetta di ‘internazionalismo’, che a guardare l’etimo ha la potenzialità di avere diverso significato). Su questo sentiero si incontra da una faccia diversa lo stesso europeismo, progetto storicamente essenzialmente liberale, e spesso della versione di destra di questo. E si incontra anche l’universalismo: specificamente quella versione intrecciata all’utilitarismo che sta alla radice, non vista, della presunzione di beneficio globale da attribuire alla libertà di movimento, dunque alle immigrazioni/emigrazioni senza limiti.
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L’irrompere sulla scena
di Donald Trump ha prodotto grande sconcerto e uno scompiglio
istituzionale di dimensioni impensabili negli Stati Uniti e
nel mondo, mettendo in
discussione la validità e la solidità del modello di governance
occidentale e del concetto stesso di democrazia.[1] Per molti, la politica
riconducibile allo slogan “America First” e l’arrogante
determinazione con cui viene portata avanti starebbero minando
la
reputazione e la posizione dominante dell’America nel mondo,
favorendo la Cina, pronta a cogliere ogni opportunità per
promuovere le
proprie relazioni economiche e migliorare la propria immagine
internazionale, proponendosi come potenza consapevole delle
proprie
responsabilità, rispettosa delle regole internazionali e
fautrice di un nuovo ordine in grado di rispondere alle
esigenze di un mondo sempre
più interconnesso e globalizzato.[2]
Ci si chiede se stiamo assistendo al declino degli Stati Uniti e, più in generale, dell’Occidente in favore di una Cina destinata a diventare entro il 2050 il “grande paese socialista moderno, prosperoso, forte, democratico, culturalmente avanzato, armonioso e bello”[3] di cui ha parlato con orgoglio Xi Jinping in apertura del 19° Congresso del Partito comunista cinese (Pcc) nell’ottobre 2017 come alcuni sostengono, o se sta avvenendo, piuttosto, un semplice riposizionamento funzionale al mantenimento dello status quo.
Nei Quaderni
del carcere, allorché si trova a illustrare il concetto
di unità tra teoria e pratica, e tra storia e filosofia,
Antonio Gramsci
insisterà più volte sull'affermazione di Engels secondo
cui, non già una corrente culturale, ma il proletariato
tedesco in
carne e ossa sarebbe l'autentico «erede della filosofia
classica tedesca»1.
Quelle spinte universalistiche che lo sviluppo, ancorché
critico, dell'Aufklärung avevano
sprigionato, sotto l'influsso di un evento di portata mondiale
come quello della Rivoluzione Francese, trovavano ora una
nuova incarnazione nelle
lotte di classe ai tempi di Engels e in un'altra Rivoluzione
dagli effetti planetari, come presto fu quella dell'Ottobre,
ai tempi di Gramsci.
Diametralmente opposto, a tal proposito, risulta il giudizio di Giovanni Gentile. Per questi, tutte le lotte ingaggiate dai ceti subalterni per acquisire diritti sociali e i tentativi di sollevazione da parte delle masse popolari, costituiscono una forza anetica e materialistica suscettibile di disgregare lo spirito statale. Egli condanna quest'ascesa a partire dal superamento delle restrizioni censitarie nel suffragio, affermando che con l'estensione del diritto di voto «il potere centrale dello Stato» si è visto «indebolito, piegato al vario atteggiarsi della volontà popolare attraverso il suffragio popolare»2.
Quanto siano state importanti le elezioni italiane appena svolte ce lo fa presente Lars Feld, consigliere della Merkel, che in un’intervista apparsa il 16 marzo scorso su La Repubblica, ha definito “una catastrofe” le elezioni e vede come uno scenario “terrificante” un eventuale governo Lega-Movimento5stelle.
La risposta dell’asse franco tedesco non si è fatta attendere: la Vigilanza della Bce il 15 marzo ha adottato l’Addendum sulle banche europee relativamente ai crediti deteriorati o non performing loans. Si parte da aprile di quest’anno per i nuovi crediti che dovranno essere svalutati entro due anni qualora fossero senza garanzia e se insoluti o 7 anni se hanno una garanzia.
La parte più importante però è che la Vigilanza deciderà caso per caso sugli Npl precedenti, vale a dire sullo stock che le banche hanno accumulato in questi anni. Ecco come l’ex segretario generale di Bankitalia Angelo De Mattia pone la questione: “Soprattutto l’Addendum, con l’intento di esaltare il caso per caso, dimentica che perché questo approccio possa validamente sussistere è necessario che vi sia la copertura di una norma generale che conferisca le attribuzioni, ma fissi anche i limiti. Di una copertura della specie vi è necessità se non si vuole affidare alla Vigilanza la massima discrezionalità che confina con l’arbitrio” (Milano Finanza 17.3.2018).
Qual è, esattamente, la differenza tra una cannonata dell’esercito del turco Recep Tayyip Erdoğan e una dell’esercito siriano agli ordini di Bashar al-Assad? E in che cosa si distingue la fucilata di un soldato russo da quella di un miliziano dell’Esercito libero siriano? Io non lo so. Ma a giudicare dalle reazioni della politica e dei media, invece, di differenze ce ne sono tante. Perché le cannonate e le fucilate siriane che colpiscono Ghouta sono oggetto di sdegno internazionale, mentre quelle che si abbattono su Afrin, la città curda del Nord della Siria ormai circondata dall’esercito turco con i suoi 323 mila abitanti (dati Onu), non sono degne né di intervento né di interesse. Niente foto di bambini in pigiama da Afrin, niente cordoglio per le vittime civili. E sì che non mancano: 220 nella sola prima settimana di marzo, secondo le notizie diffuse dalle autorità curde della città.
A ben vedere, in realtà, qualche differenza ci sarebbe.
A Ghouta sono asserragliati gruppi di terroristi che da anni opprimono la popolazione locale certo non meno di quanto possa aver fatto Assad in passato e che hanno sparato migliaia di missili e colpi di mortaio verso i quartieri civili di Damasco, provocando molte vittime innocenti.
Il problema è che il famigerato "qui e ora" ha bisogno di apertura in avanti e rielaborazione di ciò che è stato
Non possiamo ignorare quanti danni hanno fatto le grandi utopie, una volta tradotte in cambiamenti forzati, violenti, messi in movimento contro le persone e i loro "ritmi" psicobiologici. Dunque, nel pieno di una radicale e comprensibile crisi della sinistra italiana (e non solo), dobbiamo avere il coraggio di considerare il passato passato e di aprirci al futuro. In mezzo, con il suo corpicino scheletrico e le bellezze giunoniche che sa altrimenti offrirci, c'è il presente. Il problema è che il famigerato "qui e ora" ha bisogno di apertura in avanti e rielaborazione di ciò che è stato.
Ecco, dunque, il punto cruciale della questione: le attuali forze che criticano il sistema, criticano davvero il sistema o criticano solo la "casta", i "politici", le persone che fungono marxianamente da maschere di carattere del dio merce/valore? Qual è, per fare due nomi estremamente attuali nel panorama politico nazionale, il progetto di società che muove la Lega e il Movimento 5 Stelle?
La prima non merita un commento esteso, il secondo richiederebbe invece numerosi interrogativi in assenza di una risposta limpida alla domanda.
1) La globalizzazione e la crisi della democrazia rappresentativa.
Le elezioni politiche italiane hanno confermato, e certo non si può dire che ve ne fosse bisogno, l’impotenza fatale nella quale versa il sistema della rappresentanza, sistema chiamato, per abuso lessicale, “democrazia rappresentativa”. Il fenomeno che si svolge sotto i nostri occhi ha un aspetto, nel breve medio periodo, propriamente epocale – investe contemporaneamente pressoché tutto l’Occidente e non solo; ed in questo senso, è la più grande crisi che la rappresentanza abbia conosciuto nella storia della modernità.
Come tutti sanno, non è certo la prima volta che la rappresentanza si inceppa e precipita nella crisi. Quel che v’è di inedito è la vastità spaziale – riguarda oltre un miliardo di esseri umani – e la concentrazione temporale – tutti i paesi sono coinvolti ad un tempo.
Questo avviene perché, caduto il sistema del socialismo di stato, ovvero l’Unione Sovietica, la globalizzazione ha proceduto in fretta, troppo in fretta; e l’unificazione del mercato mondiale, come profeticamente aveva notato Rosa Luxemburg già all’inizio del secolo appena trascorso, consegna il sistema capitalistico ai suoi limiti intriseci ed insuperabili: non vi può essere sviluppo economico stabile – proprio per questa crescita della ricchezza senza fine, che, viceversa, costituisce il fascino esclusivo del modo di produzione capitalistico – senza l’esistenza di mercati al di fuori di quello capitalistico, estranei, vergini, da invadere.
La morte di Domenico Iervolino in un certo senso sancisce la fine di un’epoca, a cinquant’anni dal Sessantotto. Egli era uno dei rappresentanti più significativi di quel processo di contaminazione tra la tradizione rivoluzionaria e tutta un’altra serie di universi di pensiero e di pratiche che caratterizzò il decennio di lotte, di speranze e di delusioni che al Sessantotto era seguito.
Fu fondatore con Livio Labor, Giovanni Russo Spena ed altri del Movimento Politico dei Lavoratori, un partito nato all’interno delle Acli e che voleva rappresentare il dissenso cattolico nei confronti della DC. Dopo le elezioni del 1972 a cui questo partito aveva partecipato con scarso successo, la maggior parte dei suoi aderenti confluì nel Partito Socialista mentre Domenico Iervolino, Giovanni Russo Spena e il resto della minoranza fondarono Alternativa socialista (che si poneva il compito di far convergere la tradizione politica del movimento operaio con il dissenso cattolico). Questa a sua volta confluì nel Nuovo Psiup di Vittorio Foa per fondare sempre nel 1972 il Pdup (Partito di Unità Proletaria). Quest’ultimo poi nel 1974 si unì con il gruppo del Manifesto per costituire il Pdup per il Comunismo.
Sommando i voti ti tutte le liste di sinistra, dal Pd (immaginando che tutti i suoi elettori siano di sinistra, il che…) al Pci di Rizzo, alla lista del Popolo di Ingroia, alla Sinistra Rivoluzionaria di Ferrando e passando per Leu e Pap, non si arriva al 25%, sino a tempi non remoti, la stessa area era sul 40% (e non sto parlando delle europee del 2014 e dell’effimero successo di Renzi).
E’ chiaro come il sole che il boom dei 5 stelle (a cominciare dal 2013) è dovuto alla massiccia trasmigrazione degli elettori dalle formazioni di sinistra alle sue liste. Dobbiamo dedurre che il M5s è la nuova sinistra? Figuriamoci! Il M5s di Di Maio (cosa ben diversa dal M5s di Roberto Casaleggio) si dichiara, al solito, “né di destra né di sinistra” ma ha una linea schiettamente di destra. Di fatto stiamo assistendo alla replica del Pd: un partito a base di sinistra che fa una politica neoliberista (cioè di destra). Peraltro, delle prospettive del M5s, al di là dell’attuale momento di grazia, scriveremo in altra occasione.
Allo stato attuale, la sinistra è dispersa e priva di una espressione credibile: il Pd, oltre che essere un partito ad indirizzo di destra, è in aperto stato confusionale ed è destinato a sparire, Leu è stata una scheggia di quel mondo che non ha saputo differenziarsene e non ha prospettive migliori, Pap è stato un tentativo generosissimo, basato sullo slancio di alcuni gruppi di giovani, ma ha raccolto un risultato non entusiasmante (ed anche di questo diremo) ed il resto (Rizzo, Ferrando ecc) sono inutilissime mosche cocchiere, prive di qualsiasi soffio vitale. Ci vuole altro.
Pubblichiamo l'inchiesta di Leonardo Mazzei presentata alla II. Assemblea del Movimento Popolare di Liberazione-Programma 101 svoltasi il 10 e l'11 marzo
Premessa: le dinamiche
di fondo di una
globalizzazione in crisi ed il nodo europeo
La globalizzazione è in crisi, ma non per questo i suoi tremendi effetti sociali stanno venendo meno. Riduzione dei salari, disoccupazione, precarietà, delocalizzazioni. Tutti questi mali non sono certo soltanto italiani. Ciò vale pure per le conseguenze di tali cambiamenti strutturali, dalle minori tutele sindacali all'innesco di una continua "guerra tra poveri", alimentata anche dai flussi di forza-lavoro straniera.
Quel che peggiora ulteriormente la situazione del nostro Paese è l'austerità imposta dall'Unione Europea e dalle regole del "Dio Euro" cui tutto dev'essere sacrificato. Nell'esaminare, sia pure in maniera molto sintetica, i cambiamenti intervenuti in questi 10 anni di crisi, è perciò necessario considerare innanzitutto il peso delle scelte politiche derivanti dall'appartenenza - oltretutto in posizione subalterna - alla gabbia eurista.
1. Austerità e povertà in Italia
L'aumento della povertà in Italia è semplicemente drammatico. Le fredde statistiche non possono dirci tutto, ma certamente aiutano a capire il fenomeno. Quelle di Istat ed Eurostat raggruppano i diversi tipi e gradi di povertà in tre categorie: a) le persone a rischio di povertà ed esclusione sociale, b) le persone in situazione di grave deprivazione materiale, c) i poveri assoluti.
Nella Singolarità attesa con ansia alla Silicon Valley, emerge il soggetto automatico
"Quello a cui stai giocando, può
arrivare al 2° livello?"
(Nick Land)
L'umanità, è pronta a servire devotamente i robot, che ben presto saranno fra noi? Questa domanda, che spesso appare nei prodotti-spazzatura dell'industria culturale, potrebbe ben presto diventare abbastanza reale, secondo quella che è l'opinione di molti critici della ricerca sull'Intelligenza Artificiale (AI). Nel caso che i robot volessero ancora governare l'umanità - e non decidessero di volersi liberare rapidamente di questi irritanti "sacchi di carne", facendo uno spietato remake del film Terminator.
Le voci che ci mettono in guardia circa la ricerca, in gran parte non regolamentata, sull'Intelligenza Artificiale, che viene svolta nei laboratori delle grandi imprese internazionali nel campo dell'alta tecnologia, ultimamente sono sempre più ascoltate - e provengono da una vasta gamma di figure di spicco della comunità scientifica e tecnologica. [*1]
Per Stephen Hawking, fisico noto a livello mondiale, la scoperta qualitativa cruciale avvenuta relativamente alla ricerca sull'Intelligenza Artificiale - a cui ci si riferisce spesso, nell'ambito dell'Intelligenza Artificiale, con il termine di "Singolarità" - potrebbe coincidere con la "fine dell'umanità". [*2] Essa «si distinguerebbe da sé sola, si modificherebbe ad una velocità sempre più crescente. Gli esseri umani, limitati dall'evoluzione biologica, non potrebbero competere con essa e verrebbero eliminati».
«Può darsi che, per il
condannato a morte, l'ultimo spazio di tempo che gli
rimane passi così,
inarrestabile e inutilizzato» (T. W. Adorno).
«Chi ha visto delle maschere a una festa da ballo danzare amichevolmente insieme, e tenersi per mano senza conoscersi, per lasciarsi subito dopo, senza più rivedersi né rimpiangersi, può farsi un'idea di quel che è il mondo» (L. de Clapiers).
La porta sempre chiusa separa da una stanza in penombra. L’unica luce che svela qualcosa è quella blu del PC, in collegamento con il mondo virtuale. A terra il vassoio con gli avanzi di un pasto consumato distrattamente, in attesa che una madre con gli occhi rassegnati si appresti a portarlo via.
È la camera tipo di un hikikomori. Hikikomori è il termine giapponese che definisce un numero crescente di giovani, spesso giovanissimi, che chiudono le porte al mondo reale, si rintanano in un isolamento quasi totale, rotto in genere solo attraverso dispositivi elettronici. Ogni tipo di legame non viene «solamente liquefatto, ma rigettato, annientato e dissolto» (1). L’uso ludico del computer consente di occupare le ore evitando che «il senso del vuoto sia troppo incombente» (2), che il tempo si prolunghi senza nulla che possa interrompere quella monotona, infinita notte artificiale. Come era stato colto da Adorno, è proprio la durata che infatti «genera un orrore intollerabile» (3) nelle notti insonni.
Tra i diritti fondamentali sanciti in Costituzione c’è quello alla mobilità: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale». E’ una delle tipiche formulazioni di compromesso presenti nella nostra Costituzione. Dal punto di vista liberale, il diritto consente la semplice libertà formale di potersi spostare per il paese senza limitazioni giudiziarie. Dal punto di vista sociale, ogni diritto di questo tipo dovrebbe essere collegato all’articolo 3, secondo il quale «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che…» eccetera. La Repubblica non dovrebbe solo «consentire», ma promuovere attivamente la reale godibilità dei diritti proclamati.
Negli anni della Prima Repubblica, forti del compromesso costituzionale, tutta la serie di diritti espressi nella prima parte della Costituzione, in buona sostanza fino all’articolo 54, avevano una ricaduta materiale nell’organizzazione sociale dello Stato. Riguardo alla mobilità, lo Stato non si limitava a non perseguire chi decideva di viaggiare, ma ne consentiva gli spostamenti attraverso l’accesso calmierato ai mezzi di trasporto di massa, in particolare riguardo alla mobilità urbana (metro, bus, tram) ed extraurbana (ferrovie, traghetti, autostrade). La torsione liberista ha smantellato quel compromesso sociale su cui si fondavano i diritti costituzionali.
Dopo il voto del 4 marzo mi ero fatto una promessa: non perderò tempo a leggere articoli che contengano riferimenti a possibili scenari di coalizioni come elementi risolutori della collocazione e dell’identità politica.
Per me, infatti, la crisi è sistemica e prima se ne prende atto, meglio è.
La risposta ad una crisi sistemica, sempre per me, non significa denunciarne i dolori con parole più forti, immagini che colpiscono o slogan più azzeccati. Significa analizzare le nuove strutture produttive, i nuovi processi di accumulazione, individuare, dentro tale scenario, i soggetti e le forme che “liberando loro stessi possono condurre alla liberazione di tutti”. Il resto, gli adeguamenti “sistemici”, gli equilibri, più o meno dinamici ma interni alle strutture esistenti, avanzano da soli, senza più bisogno della dimensione del “politico”. Dimensione che, infatti, si adegua trasformandosi ad essere pura “amministrazione” e “gestione” dell’esistente. Magari con qualche idea di miglioramento o aggiustamento, con un po’ meno di ruberie e, forse, una spruzzatina di diritti qua e là, basta che non intacchino il “sistema”. Come fa ogni buon amministratore di fronte ad un palazzo che nelle sue strutture rimane immutabile.
Quello di Leu è un risultato pessimo, inutile nasconderlo, sia rispetto alle aspettative, sia nell’economia generale del risultato, sia in prospettiva (ad esempio, con quel risultato non ce la fanno ad avere un seggio al Parlamento Europeo ed in caso di elezioni anticipate rischiano di andare sotto il 3%.
Le aspettative: al momento dell’uscita dal Pd, i sondaggi davano il 3 ,5 ad articolo 1 (i fuorusciti del Pd) ed il 2,5 a sinistra italiana, poi per i mesi successivi, i sondaggi azzardavano il 6-7% alla nuova formazione che veniva fuori dalla loro alleanza, infine, durante la campagna elettorale la maggioranza dei sondaggi segnalavano in genere un 5%, mai meno del 4,5%.
Le dinamiche generali: c’è stato un massiccio spostamenti di circa 2 milioni di voti dal Pd che in massima parte è andato al M5s e Leu non ha intercettato un solo voto. La sua quotazione è quella che aveva Sel da sola, nonostante Potere al Popolo non abbia raccolto tutti i voti che aveva Rivoluzione Civile. I fuoriusciti del Pd hanno portato pochissimi voti, forse neppure uno 0,5%.
Le nuove guerre si combattono con la finanza
Amministrando un patrimonio quantificabile complessivamente in oltre 4.000 miliardi, offrendo software per la gestione di altri 11.000 miliardi di dollari e occupandosi di obbligazioni, azioni commodity e immobili, Blackrock è divenuta la più grande società di investimento del mondo, esercitando un controllo diretto, grazie all’abilità dell’influente direttore Laurence Fink, sull’intero spettro della speculazione finanziaria – che si divide tra gli enti che vendono (banche) i prodotti finanziari e quelli che li comprano (clienti privati, fondi pensione, fondazioni, hedge fund, divisioni finanziarie delle imprese multinazionali, ecc.). Dal momento che tale compagnia si è posta nelle condizioni di svolgere tanto i compiti di consulenza per quanto riguarda le valutazioni e le scelte dei migliori investimenti, quanto quelli riguardanti l’intermediazione e la gestione di interi pacchetti di titoli, compresi quelli maggiormente a rischio (e pertanto anche maggiormente remunerativi), Blackrock ha potuto accumulare un potere finanziario immenso. La notevole capacità di operare sugli stock market ha infatti permesso a tale società di acquisire pacchetti azionari (o di controllo) di Adidas, Allianz, Badische Anilin und Soda Fabrik (Basf), Deutsche Bank, Merck e HeidelbergCement, General Electric, Nestlé, Toyota, Novartis, Apple, Google, Microsoft, Jp Morgan Chase, Wells Fargo, ExxonMobil, Chevron, Shell, ecc.
L’euro è un metodo di governo. Per questo la sovranità monetaria diventa una questione di sicurezza nazionale.
Provate a pensare se nel dopo Draghi, chiunque diventi presidente della BCE (il nome caldo è quello di Jens Weidmann, presidente della Deutsche Bundesbank), decidesse di non acquistare più i titoli di Stato italiani; cosa succederebbe?
Lo spread schizzerebbe alle stelle divenendo insostenibile e riportando la crisi ai livelli peggiori. Ma che democrazia è quella in cui un organismo non eletto da nessuno, detiene un così ampio potere sullo Stato?
Ad aumentare le preoccupazioni arriva la richiesta di Wopke Hoekstra, ministro delle finanze dei Paesi Bassi, che al Financial Times ha dichiarato che qualora si presentassero crisi del debito (si veda il caso della Grecia, con un riferimento futuro all’Italia), è necessario che anche gli investitori accettino una svalutazione del debito (Bond) di cui sono in possesso.
“È essenziale qualora le cose vadano male. In pratica, chiediamo che gli individui e le aziende in possesso delle obbligazioni governative paghino parte del conto”, ha dichiarato Hoeskstra ritenendo “onesta” la sua proposta.

La crisi
finanziaria dell’azienda che garantisce il trasporto pubblico
urbano ed extraurbano nel torinese, GTT, quasi 5mila
dipendenti, è una
delle maggiori patate bollenti che Chiara Appendino ha trovato
sulla sua scrivania di sindaca eletta ormai quasi due anni fa.
Problema aggravato da
un’inchiesta della magistratura che l’anno scorso ha colpito i
vertici societari, accusati di un falso in bilancio da circa
20 milioni di
euro. Ma da gennaio, con l’approvazione del piano industriale
2018-2021, per la sindaca Appendino è iniziata la ‘Rivoluzione
GTT’. “Ecco come rilanciamo il trasporto pubblico” è il
sottotitolo dell’articolo pubblicato dalla sindaca sul suo
blog, con tanto di video esplicativo di un minuto, hasthtag
(#Torinoriparte) e citazione finale a effetto: “Le persone che
dicono ‘non si
può fare’ sono parte del problema. Anzi sono esse stesse il
problema” (Mikael Colville-Andersen).
Centinaia di nuovi mezzi, una riorganizzazione delle linee al servizio del cittadino, un miglioramento della qualità dell’aria grazie ai nuovi tram e ai bus ecologici sono i punti su cui l’amministrazione 5 Stelle centra la presentazione del piano. PuntoCritico ha analizzato il piano per capire se sia effettivamente tutto rose e fiori.
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Il
movimento del 77 è stato un fenomeno pressoché esclusivamente
italiano, e ha un tempo
breve, di circa un anno o poco più, inizia cioè coi primi
movimenti del “proletariato giovanile” nel 76, scoppia con la
cacciata di Lama dall’università
di Roma nel febbraio 77 e l’insurrezione di Bologna nel marzo
77
seguita dalla grande manifestazione di Roma e praticamente
finisce con il convegno contro la repressione sempre a Bologna
nel settembre 77. Tutto
ciò ha spinto alcuni a teorizzare una “anomalia italiana”,
vale a dire l’anomalia di un paese in cui la formazione del
capitale è stata sempre storicamente più debole che negli
altri paesi capitalisticamente sviluppati e che viene colto
dalla crisi in una
fase complessa di crescita e di modernizzazione, attraversata
tuttavia da ampie persistenze di fasce di arretratezza oltre
che da antiche tradizioni
di rivolta popolare.
Tutto ciò è certamente, almeno in parte, vero. Tuttavia non si può dimenticare che, intanto, il movimento aveva alle spalle e si poneva in stretta continuità con le lotte operaie contro il lavoro, contro il cottimo, prima, contro i tempi della catena di montaggio , poi, che avevano comunque portato a un clima di maggiore “libertà” in fabbrica. Non c’è dubbio che l’ “operaio massa” in quel periodo abbia speso le sue migliori energie nella lotta contro il dispotismo di fabbrica, ottenendo anche dei notevoli successi, come è noto.
Il successo del Movimento 5 Stelle alle ultime
elezioni ha riportato all'attenzione dei giornali la
proposta sul reddito di cittadinanza. Riportiamo
una serie di articoli pubblicati da "il manifesto" nel 2006
sul basic income e sulle forme simili di sostegno al
reddito, gentilmente segnalata da
Riccardo Bellofiore. Il dibattito parte da un articolo di
Giovanna Vertova del 4 giugno 2006. Seguono interventi di
Fumagalli-Lucarelli; Masi;
Bricchi; Sacchetto-Tomba; Morini; Chainworkers;
Bellofiore-Halevi; Tajani; Gambino-Raimondi; Valentini;
Ciabatti; Freschi.
* * * *
Giovanna Vertova (*)
È uscito recentemente il libro Reddito garantito e nuovi diritti sociali, frutto di una ricerca dell’Assessorato al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili della Regione Lazio. L’idea è di offrire delle linee guida alle amministrazioni regionali che intendono proporre forme di basic income. Il volume è importante per due motivi. Formula una proposta politica precisa di reddito garantito, all’interno di una visione più complessa che mira alla revisione ed all’aggiornamento di un sistema di welfare per adeguarlo al nuovo capitalismo flessibile. Fornisce, inoltre, una dettagliata analisi di simili iniziative a livello europeo.
Del sequestro di Aldo Moro conosciamo nel dettaglio la sceneggiatura, ma mai come in questo anniversario non ne riconosciamo più la verità. E’ scomparsa, obliterata da spirito di vendetta o forse, più semplicemente, da ignoranza politica, la storia. Venuto meno il contesto, non rimane che la fiction: targhe e auto, svolte e toponomastica, ricordi di nipotini precocemente orfani e complottismi d’ogni ordine. All’incanto catto-comunista è subentrato il disincanto cossighiano, per tornare all’incomprensione post-moderna, ma la prima vittima rimane la comprensione degli eventi. C’è un filo rosso che collega la memorialistica di questi giorni: la forzata de-contestualizzazione di un episodio trasformato in evento e slegato da qualsivoglia processo. Aldo Moro non è l’apice – glorioso o tragico, a seconda delle opinioni – di un decennio di scontro di classe. E’ una fiction Rai innestata nella politica italiana. E’ una forma traslata di romanzo criminale applicata ai rapporti della politica. C’è la banda di assassini e la vittima innocente. Eventi privati dunque: cosa c’entrano “gli italiani” (brava gente…)? L’importante è disinnescare la relazione tra il ’68 e il ’78 e, all’interno del lungo decennio di scontro sociale, separare la minoranza estremista dalla stragrande maggioranza del “paese reale”. La storia letta attraverso le lenti della psicologia di gruppo. Il controcanto è rappresentato dagli ultimi cossighiani impenitenti: Giuliano Ferrara, ad esempio.
La russofobia passa velocemente dalla dimensione politica alla società civile. Con un rapido passaggio di testimone la stretta, ormai non solo più diplomatica, dell’occidente contro il mondo russo tout court si fa sempre più aggressiva.
Quando la russofobia sconfina nella società civile
Ma cos’è la russofobia? Da vocabolario, la fobia è un sostantivo atto a indicare una paura angosciosa per lo più immotivata e quindi a carattere patologico. Così rientrano in questa definizione alcune accuse che finora non hanno prodotto alcun esito concreto, come il Russiagate e l’uccisione con gas nervino di Skripal.
Nonostante l’assenza di prove, questo sentimento è riuscito però a raggiungere la società civile. Prendiamo per esempio l’organizzazione non governativa Avaaz. Si tratta di un’organizzazione americana fondata nel 2007 a New York. Da allora l’ong è cresciuta a dismisura divenendo celebre per alcune delle sue campagne di sensibilizzazione.
Dal cambiamento climatico, ai diritti umani, sono molti i temi affrontati da Avaaz. Una crescita esponenziale che ha portato lo stesso quotidiano britannico The Guardian a dichiarare: “Avaaz ha solo 5 anni, ma è cresciuta rapidamente fino a diventare la più grande e più potente rete attivista online del globo”.
Anticipo la conclusione. SI VA AVANTI CON POTERE AL POPOLO, questo è il progetto a cui lavoriamo e che organizziamo, un movimento politico e sociale composto di partiti, organizzazioni sociali, persone che si riconoscono reciprocamente e che camminano assieme. Costruiremo le forme democratiche per garantire la massima partecipazione, partendo dalla straordinaria esperienza della campagna elettorale. Si parte e si torna assieme come il movimento NoTav in Valle. Nessuna organizzazione si scioglie, noi non siamo quelli che: lasciate a casa le bandiere. Ma si lavora per la crescita e l’affermazione di PaP come scelta di fondo politica, aperta ed inclusiva da approfondire e migliorare. Come abbiamo detto che la lista non era un taxi, ma un inizio e questa assemblea lo dimostra, alla faccia del malaugurio di un certo mondo di sinistra rancorosa che prevedeva la nostra fine un minuto dopo il voto. Così oggi dobbiamo dire che Potere al Popolo non è l’anticamera di altre stanze.. Si sta qui e si costruisce e si allarga QUESTA casa.
Le elezioni hanno distrutto il quadro politico centrodestrasinistra che ha governato negli ultimi 25anni amministrando tutte le politiche liberiste e di austerità targate Unione Europea. Da questo punto di vista non c’è niente da piangere è una sacrosanta punizione del potere, che fa scricchiolare la costruzione europea che noi vogliamo e dobbiamo rompere.
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Niamey, marzo 2018. Possiedono il codice a barre come per le mercanzie. Anche i migranti sono schedati, anzi ‘sbarrati’, per facilitare le transazioni umanitarie. Migranti, appunto, DOC, di Origine Controllata tramite una scheda di plastica con le barre. Ciò per meglio servire, identificare, controllare, schedare e, a tempo opportuno, eliminare i candidati alla migrazione dal suolo (sacralizzato) dell’Europa degli umani diritti solo dichiarati. Sotto il codice a barre c’è il nome, Victor e il cognome, la data di registrazione, il numero famigliare progressivo, l’altezza con parametro 1 e infine il luogo di schedatura: Niamey. Nella capitale del Niger si trovano alcuni ‘centri di transito’ orientati verso il passato, il paese di origine, abbandonato mesi o anni or sono in piena guerra. Centri di schedatura internazionale col codice a barre, per adesso non numerato.
L’OIM, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni ha appena presentato, con malcelata modestia, il rapporto dei liberi rientri al paese di origine dei migranti del Sahel. Il meccanismo umanitario funziona. Si crea l’emergenza, si smantella la Libia, si fortificano le frontiere, si criminalizzano i migranti e si subappaltano i controlli e si fanno, infine, le leggi contro i traffici umani. Poi, con efficacia, si interviene per ‘salvare’i malcapitati di questa odissea inaudita chiamata mobilità umana.
Se gli operai di Taranto o del Sulcis votano in massa i 5Stelle mentre al Nord la Lega sfondava anche nei punti forti del sindacato, non è solo la promessa di un reddito
È proprio vero che Dio (o Giove nella versione pagana) acceca chi vuole perdere. Il responso del 4 marzo è stato spietato con la sinistra.
Non era inatteso, anche se non in queste proporzioni. Un’aggravante per chi non ha saputo leggere i processi in atto da diverso tempo.
La prova controfattuale non c’è ma potrebbe venire in soccorso il buon senso: se alla sinistra del Pd si fosse costruita una sola lista, unitaria seppur con differenze, si sarebbe almeno evitato di disperdere qualche centinaia di migliaia di voti.
Forse si sarebbe dato un segnale di inversione di tendenza avverso alla frammentazione, tale da motivare o rimotivare al voto più d’uno. Forse. Era certo difficile costruire una lista simile, ma non impossibile. Non stava scritto in alcun destino, per quanto cinico e baro, che ci si dovesse presentare a un elettore già colmo di motivati sospetti e rancori, oltre che deboli anche divisi e tra di noi rissosi.
Non ha prevalso l’impossibilità, ma la non volontà, più o meno palese, i veti incrociati, come si suole dire, dei presunti gruppi dirigenti.

Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
In questa relazione vorrei iniziare
a
indagare, in maniera problematica e necessariamente
provvisoria, un tema radicale, che sta forse alle spalle della
riflessione sugli eventi
dell’Ottobre 1917, vale a dire il significato stesso del
concetto di “rivoluzione”. È possibile ricostruirne una teoria
tanto
in termini generali quanto in termini più specifici
relativamente al passaggio dal modo di produzione
capitalistico a una società
futura?
Quanto segue costituisce solo una riflessione di carattere preliminare; le domande sono più delle risposte. Per trovare le risposte, bisogna però partire dalla domande giuste; spero che questo contributo possa essere di qualche aiuto in questo senso.
1. Che cosa significa “rivoluzione”?
In termini marxiani, si tratta di una trasformazione che implica una ridefinizione dei rapporti di produzione e distribuzione sulla base di un nuovo modo di produzione e delle relative forme di rappresentazione e consapevolezza di tale processo da parte degli attori coscienti. Questo cambiamento può essere il risultato di un processo politico consapevolmente gestito dagli attori sociali, che oltre ad essere agiti dalle tendenze obiettive, le “agiscono”, se mi si consente la sgrammaticatura. Alcune possibili domande, quindi, sono:
Qualche
giorno fa, invitato come ospite al programma tv Otto e mezzo
condotto da Lilli Gruber, il Ministro dello Sviluppo economico
Carlo Calenda ha fatto una
serie di affermazioni che hanno attirato la mia attenzione e
mi hanno indotto a riflettere ulteriormente su uno dei mali
del nostro tempo: la
concezione essenzialmente strumentale della comunicazione.
Marco Damilano, ospite assieme a lui per il dibattito, da preparato giornalista qual è esordisce acutamente chiedendo: «Ministro, lei che giudizio dà della sconfitta elettorale prima ancora di dire cosa facciamo domani? Perché il PD ha perso 5 milioni di voti rispetto alle Elezioni Europee del 2014 e addirittura 6 milioni rispetto al periodo di Veltroni? […] Lei, intanto, come si è spiegato questa confitta?». Il Ministro, dopo una veloce disamina sulla crisi della Sinistra europea, che non avrebbe saputo proteggere le classi più deboli dall’inevitabilità della globalizzazione, si sofferma sullo specifico caso italiano e dice: «Noi abbiamo dato la sensazione di essere un Governo che era molto vicino all’eccellenza: io stesso dicevo, quando era viceministro, “l’Italia ce la fa, l’export va bene” e lo abbiamo fatto anche con una certa dose di protervia e di arroganza, del tipo “noi abbiamo risolto i problemi del paese e guardiamo avanti”». Sebbene Calenda rivendichi poi le scelte politiche del Governo, dice anche: «Quello che però penso vada cambiato profondamente è prima di tutto il modo di parlare al Paese […] la Sinistra non deve essere più il partito delle certezze granitiche nella bellezza del futuro […] tutta questa è una retorica che è finita.
Carmen Pisanello, col suo libro In
nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche
securitarie (Ombrecorte
2017), indaga la nascita, gli scopi e le articolazioni della
retorica securitaria, evidenziando il ruolo che i social
media hanno e hanno avuto nella
creazione dell’immaginario della paura. Pubblichiamo qui
un’intervista fatta da Ettore Casellato (attivista del
centro sociale Django di
Treviso) a margine della presentazione del suo saggio
avvenuta il 25 febbraio al Django. Il suo libro e questa
intervista possono essere un buon
strumento di analisi di quei dispositivi estetici che, come
dimostrano i Decreti Minniti o le ordinanze di approvazione
del Daspo Urbano, sono
divenuti l’agenda politica di tutto il corpo politico
italiano. Carmen Pisanello fotografa secondo me un elemento
importante.
Nell'imporsi della retorica securitaria agisce un principio
d’individualizzazione molto pericoloso, quello per cui la
governamentalità cerca di separare e isolare gli individui e
i luoghi. Così, lo straniero è diverso dall'italiano, il
senza fissa
dimora dal borghese e conseguentemente sono diversi i luoghi
(ex)pubblici a cui possono avere accesso. Questo principio,
oltre a facilitare la
“normalizzazione” delle persone, minaccia fortemente la
socialità, l’aggregazione e le comunità, che sono la base di
qualsiasi percorso di lotta e rivendicazione. È un’idea
chiaramente fascista di intendere la città e i luoghi
pubblici, più
o meno esplicitamente nascosta dietro le campagne sul
degrado e il decoro.
* * * *
Nel primo capitolo del tuo libro individui nella retorica della difesa e della sicurezza la soluzione che la classe politica fornisce alla complessità della contemporaneità. Ci puoi spiegare come nasce questa retorica e quale ruolo hanno avuto i social media nella sua costruzione?
Un'anticipazione dalla relazione al seminario «L’attualità del Capitale. Nel bicentenario della nascita di Karl Marx», che si terrà presso la Fondazione Basso, a Roma, il 23 e 24 marzo
Tra i molti temi che Marx affronta nel Capitale,
uno di quelli che hanno segnato di più il pensiero critico del
Novecento è
il feticismo delle merci. Che le merci, i beni di consumo,
siano divenute con lo sviluppo del capitalismo moderno un vero
e proprio oggetto di culto
(come lo erano i feticci per i popoli primitivi) è una
constatazione che, per chi ha letto i formidabili testi
critici di Adorno o di Debord,
ha assunto ormai la consistenza di un’ovvietà.
Ma quando parlava di feticismo e di reificazione (concetti,
come vedremo,
strettamente connessi) Marx forse anticipava, ma non poteva
ancora vedere, gli effetti che lo sfavillante mondo delle
merci avrebbe generato nella
coscienza degli abitanti della postmodernità. Quello che gli
interessava mettere a fuoco era una questione diversa e in un
certo senso
più profonda: e cioè il fatto che, nella moderna società
mercantile-capitalistica, i rapporti tra uomini si trasformano
in
rapporti tra cose e, soprattutto, le dinamiche
socio-economiche che sono il risultato del nostro incessante
operare nel mondo ci si impongono come se
fossero delle leggi estranee e ineluttabili, alle quali non
possiamo che obbedire. Come se fossero «cose» (dalla parola
latina res=cosa
deriva il termine reificazione) e non rapporti tra gli uomini,
storicamente divenienti e modificabili.
Potere al Popolo (che ho votato e, nonostante abbia mancato il quoziente, sono contento di aver votato) è stato un esperimento interessante: non va sottovalutato come un gruppo di ragazzi, con il solo appoggio di altri piccoli gruppi solidali e qualche fettina di Rifondazione, sia riuscito a raccogliere le firme in tutte le circoscrizioni elettorali.
Considerando poi che Rifondazione ormai non esiste più, dato che Ferrero è riuscito nell’impresa su cui si sta cimentando Renzi: distruggere il proprio partito sino a raderlo al suolo (a proposito: non ho capito se Ferrero è il Renzi di Rifondazione o è Renzi il Ferrero del Pd, dite voi) il risultato di 370.000 voti non è affatto disprezzabile, tenuto anche conto del fatto che De Magistris non ha mosso un dito per sostenere Pap.
Ciò detto e reso il dovuto onore delle armi ai suoi promotori, va detto che il risultato è oggettivamente bruttino e non solo perché la lista prende la metà dei voti che aveva Rivoluzione Civile (che era un obbrobrio di lista), ma perché non intercetta nulla della fiumana elettorale che dal Pd si è riversata sul M5s e con una concorrenza di bassissimo profilo come quella di Leu.
Per un intellettuale europeo di sinistra è difficile parlare obiettivamente delle rivoluzioni latinoamericane, laddove tale avverbio non va inteso nel senso di esprimere giudizi liberi da pregiudizi (impresa impossibile), ma come sforzo di evitare, sia di scivolare nell’agiografia, che di scadere in una critica pedante e macchiata dall’applicazione di filtri “eurocentrici”. Chi scrive ha sperimentato questa difficoltà quando, dopo un viaggio in Ecuador, ha provato ad analizzare la Revolucion Ciudadana di Rafael Correa: avendo cercato di descriverne meriti e limiti (cfr. “Magia Bianca magia nera”, Ed. Jaca Book), sono stato accusato di ingenerosità dai fan di Correa e di indulgenza nei confronti del suo governo dalle sinistre radicali.
Sarò quindi comprensivo nei confronti del nuovo lavoro (“Dopo Chavez”, ed. Jaca Book; un primo libro sulla rivoluzione bolivariana, “Talpe a Caracas”, uscì qualche anno fa dallo stesso editore) con cui Geraldina Colotti analizza la crisi che ha trascinato la repubblica bolivariana e il governo Maduro sull’orlo del baratro e il difficile processo con cui si sta tentando di risolverla. Perché comprensivo? Perché, benché ritenga che in questo caso la bilancia penda sensibilmente dalla parte dell’agiografia, penso che i pregi del libro prevalgano sui difetti.
Sette anni fa, il 19 marzo 2011, iniziava la guerra contro la Libia, diretta dagli Stati uniti prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, venivano effettuate circa 10.000 missioni di attacco aereo con decine di migliaia di bombe e missili.
A questa guerra partecipava l’Italia con cacciabombardieri e basi aeree, stracciando il Trattato di amicizia e cooperazione tra i due paesi.
Già prima dell’attacco aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali, in particolare qatariane. Veniva così demolito quello Stato che, sulla sponda sud del Mediterraneo, registrava «alti livelli di crescita economica e alti indicatori di sviluppo umano» (come documentava nel 2010 la stessa Banca Mondiale). Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani.
Allo stesso tempo la Libia rendeva possibile con i suoi fondi sovrani la nascita di organismi economici indipendenti dell’Unione africana: il Fondo monetario africano, la Banca centrale africana, la Banca africana di investimento.
Nonostante gli indubbi successi militari del governo siriano la guerra in Siria non sembra finire, lo schiacciamento della resistenza curda ad Afrin potrebbe essere la prima fase di una diretta aggressione delle potenze imperialiste
Il governo siriano dopo la riconquista di Aleppo, la Stalingrado del conflitto siriano, ha potuto indirizzare la propria azione militare verso oriente riprendendo progressivamente il territorio occupato dall’ISIS fino alla quasi completa liberazione del territorio orientale. Ciò è stato reso possibile dal supporto militare e politico degli alleati regionali e della Russia.
Con la liberazione di Deir el-Zor, e le contemporanee operazioni delle milizie curde, del governo e delle milizie popolari irachene, l’ISIS è quasi completamente scomparso dalla Siria. Se il Califfato era quasi giunto alle porte di Baghdad, occupando ampissime porzioni di territorio iracheno e siriano, oggi è stato completamente debellato in Iraq, tanto che le milizie popolari locali hanno riconsegnato le armi pesanti al governo di Al-Abadi. In Siria rimangono invece due sacche ad oriente e una piccola porzione di territorio a sud-ovest a ridosso del Golan occupato da Israele.
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In questa risposta alla
controreplica
di Alessandro Visalli concernente la mia critica al suo
articolo sui fatti di Macerata1 ,
procederò isolando le frasi in
cui egli concentra la sua anticritica e cercherò di
contribuire sia ad una migliore conoscenza del modo in cui si
pone il problema
dell’immigrazione in un contesto imperialistico sia ad una
conseguente pratica internazionalista del movimento di classe
sia, ‘last but
not least’, alla formazione teorica delle nuove generazioni di
militanti comunisti. Va da sé che ringrazio Visalli per aver
dedicato
grande attenzione alle critiche che io e Mario Galati abbiamo
avanzato nei confronti della sua analisi, del suo apparato
categoriale e delle sue
conclusioni, che però differiscono in notevole misura dalla
teoria marxista e dal materialismo storico.
Visalli, riferendosi alla questione dell’ortodossia, scrive quanto segue:
Ovviamente confermo di buon grado la sua [di Eros Barone] ortodossia e confesso, il capo cosparso di cenere, la mia cultura borghese. Ciò detto, amico mio e compagno (scusa), credo anche io che il socialismo sia la soluzione.
La questione dell’ortodossia, come ha chiarito correttamente György Lukács, riguarda il metodo e i princìpi, ragione per cui è legittimo che Marx abbia cambiato idea su questa o quella questione (ad esempio, sulla Comune di Parigi, sulla democrazia borghese o sulla possibilità di una conquista pacifica del potere politico), mentre è incontrovertibile che non ha mai cambiato idea su questioni di principio concernenti i fondamenti della teoria e della metodologia del materialismo storico e del socialismo scientifico.
Le prospettive per potere al popolo all’indomani delle elezioni
I risultati elettorali e le
scelte
dei “nostri”
Le elezioni del 4 Marzo hanno portato la sinistra di classe e i comunisti a una dimensione marginale mai vista nella storia della Repubblica. Dalla nostra destra, questo risultato viene usato strumentalmente per tornare a proporre l’unità generica della sinistra, genericamente antiliberista o, peggio, socialdemocratica europeista. Da sinistra, il risultato ottenuto viene attaccato per la presunta inadeguatezza, in particolare della lista Potere al Popolo (PaP da ora), a leggere adeguatamente la fase storica che la classe lavoratrice sta vivendo.
Registriamo la tenuta dell’affluenza, il ridimensionamento dei partiti europeisti e il forte consenso alle forze “populiste” come un segno di ribellione nel nostro Paese tra le classi popolari, non ancora del tutto passive e omologate, ma al contempo soggiogate alla dialettica in seno alle classi borghesi.
A livello generale, il risultato ha reso molto chiaro uno spostamento a destra dell'elettorato, ora su posizioni tendenzialmente anti-establishment e anti-europee, ma anche con venature fortemente antidemocratiche, razziste e xenofobe. Questo è un cambiamento culturale e delle coscienze che non è avvenuto il giorno delle elezioni, ma che si è sviluppato nel tempo.
Questo articolo esce anche sul sito di Obsolete Capitalism, che ringraziamo
Partiamo dal tuo primo libro
pubblicato nel
2009, The Spam Book da te curato in collaborazione con Jussi
Parikka. Si tratta di una antologia che riunisce diversi
autori che si cimentano, come
recita il sottotitolo, con ‘la faccia oscura della
tecnologia’. Perché sentivi l’impellenza di indagare, al tuo
debutto come
autore e curatore, il lato malvagio della cultura digitale?
Lo spam vissuto come intruso, eccesso, minaccia, anomalia –
ma anche come
opportunità. Lì incontri il virus, cioè il paradigma della
‘devianza elettronica’ che dal 2009 in poi, accompagna
spesso il tuo itinerario di ricerca…
Ricordo che io e Jussi immaginavamo, scherzando, The Spam Book come un’antitesi di Road Ahead di Bill Gates, ma la nostra prospettiva del lato oscuro non era tanto quella di un lato negativo e «malvagio». Ci siamo focalizzati su oggetti digitali che altrimenti erano oscurati dai discorsi sulla sicurezza e sul panico epidemiologico che li rendevano «malvagi». Dunque la nostra introduzione, in realtà, mirava a sfidare questa discorsività degli oggetti malvagi; questi sono oggetti anomali ed eventi che sembrano turbare le norme dei network corporate. Stavamo cercando anche di allontanarci dalla sintassi linguistica del virus biologico, che ha definito al tempo gran parte del dibattito sul contagio digitale, intrappolando l’anomalia digitale nella metafora biologica dell’epidemiologia e del neo-darwinismo.
Un recente articolo pubblicato dal Financial Times presenta alcuni aspetti per molti versi illuminanti. Un lettore distratto e casuale, aprendo quella che viene considerata una sorta di bibbia dei mercati finanziari potrebbe avere la ragionevole aspettativa di trovarvi l’usuale solfa pro-austerity. Invece, sorprendentemente (ma, come vedremo, non troppo), l’articolo propone una serie di messaggi che verosimilmente in Italia sarebbero tacciati di provenienza da ambienti estremisti e facinorosi.
Ciò che Matthew Klein (autore del pezzo) ci dà come descrizione iniziale della situazione europea è un monito dai toni quasi allarmistici: i Governi dell’Eurozona si stanno indebitando troppo poco. Per chi fosse poco avvezzo ad analisi del ruolo del debito pubblico e della spesa governativa non conformi al consenso generale dei media italiani, precisiamo che il ‘troppo poco’ non nasce da un refuso. Quali sono le considerazioni che spiccano nel pezzo su menzionato a proposito di questa tematica? Segnaliamone alcune:
Comunicato n.3 – 2018 di Programma 101
Stop all'austerità: per un governo M5S-Lega
Le forze della conservazione sistemica sono state battute nelle urne. Ora vanno cacciate dal governo. Il loro tentativo di confiscare la rivolta elettorale degli italiani va respinto. E' necessario impedire il nuovo furto di democrazia a cui lavora la cupola eurista. Ma come?
(1) Le oligarchie sono al lavoro per imbrogliare di nuovo le carte. Colpite al cuore dal tracollo di Pd e Forza Italia, esse cercano di parare il colpo contando su tre fattori: a) l'opportunismo dei gruppi dirigenti di M5S e Lega, b) la loro impreparazione allo scontro con l'UE, c) i diversi interessi politici di queste due forze.
(2) Le prime mosse della fase post-elettorale mostrano con chiarezza questi problemi, ma anche la difficoltà del blocco dominante a delineare una propria linea. Di Maio e Salvini stentano ad uscire dalle rispettive narrazioni della campagna elettorale, ma sia la presunta "autosufficienza" del primo, che il supposto ruolo di leader della coalizione di destra del secondo paiono maschere destinate a cadere.
Domenico Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, 2018, pp. 105, € 11,00.
L’Europa da sogno di pace postbellico si è trasformata in un incubo disciplinare che infesta le vite delle classi subalterne. La fuoriuscita dall’Unione economica e monetaria suscita tuttavia ancora molte obiezioni: alcuni temono il mero ritorno reazionario e xenofobo allo stato nazionale, altri la rinuncia a porre lo scontro con il capitale finanziario sull’adeguato piano globale conseguito negli ultimi decenni. Secondo questi punti di vista, di fronte al deficit di democrazia e agli squilibri dell’Unione europea (assenza di sistemi di welfare comunitari, politica economica e fiscale non omogenea) bisognerebbe spingere innanzi il processo di convergenza fino alla creazione di uno stato federale. Al momento invece assistiamo a una dinamica centrifuga che accentua i divari tra i singoli paesi. D’altra parte è lecito ipotizzare che, dati gli attuali rapporti di forza politici e sociali, qualora si procedesse verso una maggiore integrazione statuale, sarebbero formalizzati assetti regressivi rispetto alle costituzioni nazionali del dopoguerra, con esiti sfavorevoli alle classi subalterne.
Il ricordo e l’emozione. E Spartaco. Chissà se Spartaco ricordava le terre di Tracia, chissà se si emozionava quando nella finzione hollywoodiana tutti i superstiti si innalzavano dalle loro ferite per gridare “Io sono Spartaco”. Bisogna leggerla l’intervista sul Corriere a Walter Veltroni, uno dei quattro politici cui, in quarant’anni di carriera, mi sono concesso il lusso di dare del tu, per capire perché hanno vinto le legioni di Crasso e Pompeo. Bisogna leggere l’agilità da entrechat huit con cui l’uomo che ha celebrato il trionfo della globalizzazione in salsa italiana, il convegno del Lingotto, che ha plasmato un partito della terza via, continuamente rimpianto nell’intervista, all’immediata vigilia della esplosione planetaria del modello, ci dice che bisogna rifare l’Andata al popolo, cioè esattamente l’atto costitutivo del primo movimento populista della storia, quello russo.
E’ sconcertante leggere la sua critica degli esiti. La precarietà, la solitudine, la povertà, l’insicurezza, la schiavitù dei nuovi lavori. E rifiutarsi, ostinatamente, ciecamente, di fare due più due. Eri forse un passante, Walter? No, ovviamente, tanto che lo rivendichi quel Partito democratico come unica soluzione. Naturalmente quello.
Su «Il Ponte» Rino Genovese scrive: «Da noi in Europa ci sono adesso i sovranisti di destra (senza virgolette) e quelli “di sinistra” (le virgolette sono d’obbligo) che intendono rifarsi alle vecchie esperienze novecentesche. Senza comprendere che, ammesso che un nuovo modello di Stato sociale e di politiche keynesiane sia possibile ipotizzare, esso andrebbe sul conto di un’Europa completamente riformata in senso sovranazionale (con un’imposizione fiscale progressiva identica o molto simile sull’intero continente, con regole unificate del mercato del lavoro che impediscano delocalizzazione delle imprese e dumping sociale, ecc.), così da fare apparire i vari Stati nazionali europei come quei relitti del passato che sono, non meno di quanto lo fosse il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla nell’Italia risorgimentale».
Alla luce di questa prospettiva, che opportunamente rigetta i “sovranismi di destra”, sembra di capire che anche i “sovranismi di sinistra” abbiano poche ragioni da rivendicare, anche se, al tempo stesso, l’A. non vuole appoggiare la versione “liberal-lberista” che dell’europeismo hanno dato le sinistre al governo.
Nel ragionamento di Genovese opportunamente si ricorre all’esempio storico. E allora il compito che oggi si avrebbe di fronte è quello di capire, prima di tutto, che cosa sta accadendo in Europa e dell’Europa unita.

D. Allora Piero, hai
appena
pubblicato un libro intitolato “Note politiche. Musica e
crisi in Wagner e Puccini”. So che ami la musica, ma il
tema sembrerebbe
abbastanza singolare, visto che quando scrivi, scrivi di
politica e di matematica. Cosa è successo?
R. Ho una passione per la musica. Da giovane l’ho studiata e da sempre amo Wagner. O meglio, amo la musica di Wagner perché Wagner non lo amo proprio per niente. Ad ogni modo, la lettura che do nei miei studi è politica.
D. Wagner è molto discusso da un punto di vista politico. Basti pensare al suo antisemitismo. Quale interesse politico trovi allora nella sua opera? Fu veramente un precursore del nazismo?
R. Sì e no. Nel libro sostengo che il nazionalismo di Wagner (1813-1883) non poteva essere quello che fu poi dei nazisti. I problemi, anche internazionali, del mondo tedesco all’epoca del compositore erano ben diversi da quelli della Germania unificata e sconfitta nella Prima Guerra Mondiale in un mondo che veniva drammaticamente trasformato dalla crisi dell’Impero Britannico che invece ai tempi di Wagner era ancora ben saldo. Tuttavia, il futuro nazismo condivise con Wagner un aspetto mitologico-politico: immaginarsi che i problemi erano causati da uno specifico e ristretto gruppo sociale. Wagner non pensava ancora ai complotti “demo-pluto-giudaici” ma era convinto che il mondo tedesco stava andando incontro al degrado per colpa degli effetti corruttori degli Ebrei, quasi come se fosse uno spiacevole fenomeno naturale. Una spiegazione mitologica, che in Wagner sopperiva all’incapacità o mancanza di volontà di analizzare in modo serio e scientifico i fenomeni. A tutti gli effetti il suo antisemitismo era un “socialismo degli imbecilli”, secondo la precisa definizione di August Bebel e Lenin.
L’attualità del
Capitale –
Nel bicentenario della nascita di Marx è il
titolo del seminario che si terrà alla Fondazione Basso di
Roma nei giorni di
venerdì 23 e sabato 24 marzo. Alle due giornate, organizzate
in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia
dell’Università La
Sapienza, parteciperanno, tra gli altri, Étienne Balibar,
Giacomo Marramao, Claus Offe, Alisa Del Re, Roberto Finelli,
Giso Amendola. Qui
anticipiamo una parte della relazione presentata da Chiara
Giorgi. Scarica il Programma
completo.
* * * *
Tre sono i punti essenziali che vanno sottolineati nella lettura condotta da Basso di Marx: 1) il retaggio idealistico della formazione giovanile di Basso; 2) la ripresa di Rosa Luxemburg nello sviluppare i concetti che ruotano attorno al nesso riforme/rivoluzione, lotta quotidiana/scopo finale; 3) l’interpretazione del Capitale alla luce del concetto di alienazione, sviluppato nei termini di disumanizzazione, da cui l’approdo al socialismo/comunismo come progetti di riumanizzazione. In particolare ciò avrà una serie di implicazioni rispetto al coniugarsi di materialismo storico e materialismo dialettico; rispetto al suo collocarsi tra un marxismo della contraddizione e un marxismo vicino ad una certa versione francofortese (quella legata al Lukács di Storia e coscienza di classe).
L’interpretazione dell’opera di Marx attraversa il corso di tutta la vicenda intellettuale e politica di Basso, arricchendosi negli ultimi anni della sua biografia e giungendo a un’opera di importante sistematizzazione, pubblicata postuma, dal titolo Socialismo e rivoluzione (1980).
Dal numero speciale di "Primo Maggio"
Il “Guardian”, giornale molto
attento alle storture del mondo finanziario, scrive: “Il
Bitcoin è la prima e la più grande ‘criptovaluta’, un bene
digitale negoziabile decentralizzato. Se si tratti di un
cattivo investimento è la domanda da 97 miliardi di dollari
(letteralmente,
poiché questo è il valore corrente di tutti i Bitcoin in
circolazione). Il Bitcoin può essere utilizzato solo come
mezzo di
scambio e in pratica è stato sinora molto più importante per
l’economia sommersa di quanto non sia stato per la maggior
parte
degli usi legittimi. La mancanza di una qualsiasi autorità
centrale rende il Bitcoin notevolmente resiliente alla
censura, alla corruzione
ovvero alla regolamentazione. Ciò significa che ha attirato
una serie di sostenitori, dai monetaristi libertari che
amano l’idea di una
valuta senza inflazione e senza una banca centrale, agli
spacciatori di droga a cui piace il fatto che sia difficile
(ma non impossibile) fare
risalire una transazione in Bitcoin a una persona fisica”.
Tu che ne pensi?
Questa del “Guardian” mi sembra una buona sintesi di cosa sia il Bitcoin come, più in generale, di cosa siano le criptomonete oggi in circolazione. Ce ne sono ormai 1500, per un valore totale di mercato pari a qualcosa come 540 miliardi di dollari. Malgrado le denunce di “frode” o di “lavaggio di denaro sporco”, specie per i Bitcoin, si tratta ormai di un fenomeno impossibile da ignorare.
Dicono i soliti che i giochi son fatti. Che quelli che contano hanno già le mosse vincenti. Che tutto potrà succedere fuorché un governo M5S-Lega. Che se anche questo accadesse sarebbe sol perché lorsignori sono certi di poterlo ammansire. Sarà, ma mi permetto di dissentire da tutte queste certezze.
Prima di vedere brevemente il perché, mi siano consentite due parole sullo strano silenzio attorno alla decisiva questione del governo. Tace il tradizionale arcipelago sovranista, come se il tema non interessasse, proprio adesso che le forze euriste sono per la prima volta in minoranza in parlamento. Tace la sinistra più o meno sinistrata, eppure il bivio è quello tra la prosecuzione o, viceversa, la messa in discussione della politica dei sacrifici.
Silenzi gravi di mondi che muoiono e nulla sanno fare per risollevarsi. Solo Programma 101 ha ritenuto di misurarsi sul tema, ritenendolo decisivo per le sorti del Paese.
Ma torniamo a bomba. Perché la partita del governo è tutt'altro che chiusa? I commentatori con diritto di parola - quelli che vanno in tv e sproloquiano sui giornali - si sbizzarriscono da settimane su ipotesi che non stanno in piedi. Governo del "presidente", governo di "tutti", governo di "scopo" (per rifare, ancora volta, la legge elettorale!). Addirittura - i neuroni scarseggiano ma l'immaginazione no - ci si è pure inventati l'ipotesi di una proroga, sic et simpliciter, del governo Gentiloni. Ma per favore...
Per proseguire con Potere al Popolo si parte dalle assemblee territoriali e dalle Case del Popolo. La parola d’ordine: democratizzazione
Roma, 18 marzo. Teatro Italia. Sono passati quattro mesi da quel 18 novembre che ha visto nascere Palp. Stesso posto, stessa ora. Quattro mesi, una meteora per la costruzione di una nuova formazione politica. Eppure, nonostante l’esito elettorale sfavorevole, il progetto non è sfumato, anzi vengono rilanciate le iniziative per dare un forte segnale di continuità a chi vi ha aderito. E all’assemblea si sono notati gli effetti, oltre 1.500 compagni hanno voluto bypassare il 4 marzo e, mostrando fiducia nel progetto, hanno riempito il teatro. Molti dei partecipanti, ben 700, a posti a sedere esauriti, sono rimasti in piedi in fondo al salone, nelle gallerie o all’esterno ad ascoltare gli interventi trasmessi in audio dagli altoparlanti.
In sala, prima che inizi l’assemblea, incontro Citto Maselli, storico regista italiano. Lo saluto affettuosamente, uno scambio su Palp prima del silenzio in sala ed ecco la sua dichiarazione sul progetto e sui motivi che lo hanno portato ad aderire all’appello:
1 -
La politica non crea alcuna alternativa. Il suo fine non è quello di permetterci di sviluppare le nostre possibilità e le nostre capacità; attraverso la politica noi non facciamo altro che realizzare quegli interessi che ci derivano dal ruolo che ciascuno interpreta nell'ordine esistente. La politica è un programma borghese. Attiene sempre ad un comportamento e ad una condotta che si riferiscono sempre allo Stato ed al Mercato. La politica è la conduttrice della società, ed il suo mezzo appropriato è il denaro. Le regole cui obbedisce somigliano a quelle del mercato. Nella politica e nel mercato, il mezzo più appropriato è il denaro. Nell'una e nell'altro, quella che si trova al centro è la pubblicità; nell'uno e nell'altro caso, si tratta della valorizzazione e della sua realizzazione.
Il soggetto borghese moderno ha finito per assorbire completamente le costrizioni imposte dal valore e dal denaro; senza di essi, non gli riesce nemmeno di immaginarsi. In realtà, egli domina sé stesso, il Padrone e lo Schiavo si incontrano all'interno del medesimo corpo. La democrazia, non è altro che l'auto-dominio del ruolo sociale che ci è stato imposto. Dal momento che siamo allo stesso tempo sia contro il potere che contro il concetto di Popolo, perché mai dovremmo essere a favore del potere al Popolo?
Vogliamo levarci qualche chiodo dalle suole? E leviamocelo…
Nel dibattito che ha accompagnato la presentazione, nella sede dell’ordine degli avvocati di Genova, il docufilm di Repubblica sull’uccisione di Giulio Regeni (“Nove giorni al Cairo”, di Carlo Bonini e Giuliano Foschini), Enrico Zucca si è posto e ha rivolto al pubblico la domanda:
“l’11 settembre 2001 e il G8 hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper far per vicende meno drammatiche. I nostri torturatori, o meglio chi ha coperto i torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?“.
Il dottor Zucca è uno degli uomini che meglio conosce le “gloriose vicende” dei vertici della polizia italiana coinvolti nella mattanza di Genova 2001, visto che è stato sostituto procuratore della Corte di Appello, dunque tra i giudici del processo Diaz che ha portato alla condanna di diversi funzionari di polizia. Sentenza confermata dalla Corte europea di Strasburgo, che ha fra l’altro condannato lo Stato italiano a risarcire le vittime di torture nella scuola Diaz.
Sarkozy come Tony Blair (e Cameron, e Obama, e Trump), ovvero l’Occidente che si distingue per ipocrisia, e non esita a diventare imbroglione e sanguinario sotto il manto del buonismo
Il “caso Sarkozy”, ovvero la curiosa vicenda del Presidente di Francia che si fece finanziare la campagna elettorale (2007) dal colonnello e autocrate libico Muhammar Gheddafi e qualche anno dopo (2011) gli dichiarò guerra e lo fece ammazzare, può essere affrontato in due modi. Come una storiaccia della politica politicata, un esempio da manuale di arrivismo e pelo sullo stomaco, per concludere che dopo tutto il buon Nicolas ha sempre avuto un’aria da stronzo. Oppure sempre come un esempio da manuale, ma non di un occasionale scandalo francese bensì dello scandalo permanente costituito dalla politica che l’Occidente conduce, dove può e appena può, fuori dai suoi tutto sommato ristretti confini.
Secondo i magistrati, che indagano su una serie di documenti usciti dalla Libia e sulle testimonianze di diversi portaborse e mediatori, sia libici sia francesi, Sarkozy avrebbe ricevuto da Gheddafi, forse estorcendoli in cambio di promesse di appoggio politico, quasi 50 milioni di euro che l’aiutarono a conquistare l’Eliseo.
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
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Premessa
Presentiamo all’attenzione dei lettori di Materialismo storico un’intervista a Ernesto Screpanti a proposito del suo libro L’imperialismo globale e la grande crisi (1). L’autore ci offre una ricostruzione assai chiara, documentata ed esaustiva dell’ormai classico concetto marxista di imperialismo, rilevandone al contempo l’evoluzione sia nell’ambito della storia mondiale contemporanea che in quello della teoria economico-politica.
Screpanti sostiene che oggi sia finalmente visibile a occhio nudo, anche sul piano meramente empirico, la predominanza di una forma di capitale essenzialmente multinazionale e liberoscambista, rispetto al capitale monopolistico, nazionale e mercantilista caratteristico del Novecento.
Un predominio questo che tuttavia non va considerato meramente come esito del processo storico di globalizzazione del capitalismo, ma anzi, come condizione trascendentale, se non addirittura proprio come condizione di esistenza del capitalismo stesso, in quanto processo tendenzialmente illimitato di accumulazione ovvero di riproduzione allargata, secondo la celebre definizione marxiana per cui il capitale produce essenzialmente capitale e lo fa nella misura in cui produce plusvalore.
Il riferimento teorico principale è Marx, citato a più riprese, laddove sostiene che il capitale tenderebbe inesorabilmente al cosmopolitismo della produzione, tramite l’estensione del mercato mondiale per mano borghese.
Nessun dualismo di potere può durare troppo a lungo. Qualcosa dovrà succedere. Uno show-down. Dio ci protegga da questo show-down
Molte voci indipendenti confutano
il dramma
scritto e rappresentato negli UK sull'avvelenamento della ex
spia Sergey Skripal e di sua figlia Yulia.
La prima voce è quella dell'agenzia dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPAC o OPCW in Inglese) che nel settembre dello scorso anno ha dichiarato di aver rigorosamente verificato la completa distruzione dell'intero programma russo di armi chimiche, compresa la produzione di agenti nervini, con un particolare richiamo alla base di Kizner, oggi tirata in ballo dal governo May.
Questa dichiarazione fu allora sottoscritta anche dagli Inglesi che adesso però la contestano, per ovvi motivi, guadagnandosi i rimproveri del direttore generale dell'OPAC.
Al contrario si sa che gli UK hanno riprodotto il gas nervino di epoca sovietica, presso il Porton Down’s Defence Science and Technology Laboratory.
Lo ha ricordato l'ex diplomatico Craig Murray, una vita nel Foreign Office, e noto per le sue posizioni anti-russe (ad esempio sulla Crimea) che però, evidentemente, non vuole far precipitare sotto la soglia di una minima decenza.
Murray ha portato questi elementi di ragionamento:
1) La Russia non ha più la possibilità di produrre questi agenti; inoltre la struttura dell'agente nervino usato è dubbia. Dovrebbe essere il “Novichok” (nome sconosciuto in Russia) ma l'unico suo punto di produzione, l'Uzbekistan, è stato smantellato proprio da una ditta americana.
Il reddito di cittadinanza può offrire strumenti per l’emancipazione di classe, per la sua ricomposizione e per una coscienza conflittuale?
Quale che sia l’opinione che si ha sul reddito di
cittadinanza, quello descritto nella
proposta del Movimento 5 stelle
risulta abbastanza lontano da ciò che comunemente si
immagina parlando di questa misura.
Al di là di questo aspetto, certo non ininfluente rispetto al dibattito sul reddito di cittadinanza, ma comunque non prioritario, può essere utile ed interessante sviluppare un ragionamento sulla relazione che può venirsi a determinare tra l’erogazione di un tale sussidio e le condizioni di occupabilità che di fatto sottendono tutte le forme di reddito di cittadinanza finora applicate ed alcune di quelle concretamente ipotizzate. Altre ipotesi, invece, vorrebbero un reddito completamente sganciato dal lavoro, sostenendo la tesi dell’uomo liberato dal lavoro.
Qui, però, interessa mettere in relazione l’ipotesi di un reddito di cittadinanza con il concetto di occupabilità. Tale concetto non è secondario, in quanto rappresenta un salto di paradigma rispetto alle politiche sul lavoro che perseguivano la piena occupazione. La centralità delle politiche per il lavoro non è più riservata all’occupazione della forza-lavoro, ma alla messa a disposizione di forza-lavoro erogabile in base alle necessità d’impresa.
È un passaggio qualitativo importante, perché indebolisce ulteriormente i lavoratori rispetto al proprio antagonista di classe: il capitalista. E di fronte a tale salto, occorre capire se misure come il reddito di cittadinanza possano offrire strumenti, se non per l’emancipazione di classe, almeno per dare impulso ad “una ricomposizione sociale e di coscienza conflittuale”, come ad esempio sostiene Fumagalli tra le sue 10 tesi sul reddito di cittadinanza.
L'arresto di Sarkozy, che tra l'altro ci mostra il carattere feudale della immunità da noi riservata agli ex presidenti della Repubblica, ha riscoperto il verminaio della guerra di Libia del 2011. Secondo gli inquirenti, nel 2007 Sarkozy avrebbe ricevuto ben 50 milioni di euro per la sua campagna elettorale. Eletto presidente anche grazie a quei soldi, egli avrebbe poi scatenato la guerra di Libia per torbidi motivi, tra i quali non si può fare a meno di considerare anche quello di mettere a tacere un creditore scomodo. E Gheddafi fu puntualmente giustiziato.
Il 19 marzo del 2011 i jet francesi iniziavano i bombardamenti in Libia, senza alcun mandato formale dell'ONU, che si era limitata a condannare il governo libico. Ben presto Sarkozy riuscì a coinvolgere nella sua sporca guerra tutta la NATO e a tal fine fu decisivo il presidente italiano Giorgio Napolitano.
Giorgio Napolitano è stato il peggior presidente della Repubblica e anche l'unico ad essere rieletto. Il che significa che egli ben rappresenta un'intera classe politica di destra e sinistra, responsabile dei disastri del paese. Napolitano sulla vicenda libica scatenò quell'interventismo prepotente che poi usò a dismisura nelle crisi economiche e politiche successive. Il presidente della Repubblica cominciò subito a pretendere che l'Italia scendesse in guerra.
Non torniamo sull’ormai notissima vicenda di Barbara Balzerani, indagata (!) dalla procura di Firenze per aver parlato in pubblico in un centro sociale, il Cpa-Firenze Sud, luogo di compagni tra i più cari che ci è capitato di conoscere in questi anni. Tutto l’episodio descrive egregiamente i tempi correnti, in cui si usa Voltaire per legittimare il neofascismo televisivo ma si ricorre a Torquemada quando l’interlocutore proviene dal sottosuolo degli anni Settanta. Meritano però una breve riflessione le contorsioni logiche della signora D’Antona, in questi giorni intervistata più di Salvini e Di Maio, a proposito del «mestiere della vittima». Dice giustamente la signora che, negli anni Settanta, «abbiamo avuto 800 morti, c’è stata una guerra». Quello che l’intellettualità pezzente di questo paese ha cercato di negare per anni, de-legittimando e scomunicando chiunque affrontasse di petto il nodo contraddittorio degli anni Settanta, prorompe dal senno di questa vedova giustamente, dal suo punto di vista, arrabbiata con tutto ciò che puzza di lotta di classe, e proprio per questo ancor più sincera nei suoi ragionamenti. C’è stata una guerra (civile): absit iniuria verbis! Nel paese in cui persino la Resistenza ha atteso quarant’anni per essere riconosciuta per quello che era, una guerra civile appunto, come convalidare la presenza di legittimi fronti contrapposti solo quarant’anni fa?
Il fermo dell’ex presidente francese Sarkozy per i soldi di Gheddafi alla sua campagna elettorale. Cenni di verità su una catastrofica trama.
– La guerra di Libia, l’eliminazione del Colonnello la successione delle ‘primavere arabe’ frutto finale di un progetto studiato a tavolino dai servizi segreti di Parigi.
– Soltanto dopo si accodano gli inglesi e, di malavoglia, anche Barack Obama.
– La stupida avidità, mostrata dall’Occidente in politica estera, negli ultimi trent’anni.
Toh! Qualcuno ha cominciato a scoperchiare la botola del verminaio libico. Il fermo dell’ex presidente francese Sarkozy per i soldi che avrebbe ricevuto sottobanco da Gheddafi come “contributo” per la campagna elettorale è in linea con quanto sosteniamo da anni: e cioè che la guerra di Libia, l’eliminazione del Colonnello e tutta la processione delle “primavere arabe” sono il frutto finale di un progetto studiato a tavolino dai servizi segreti di Parigi. Che poi a cotanta porcata si siano accodati gli inglesi e, di malavoglia, anche Barack Obama, rientra nella dabbenaggine, frammista all’avidità, mostrata dall’Occidente, in politica estera, negli ultimi trent’anni. Quando ognuno invocava solidarietà “democratica” e poi correva per conto suo a contrattare, con i presunti “nemici” e senza un briciolo di pudore, pane e companatico.
I russi, presi dall'ansia di mostrare all'occidente quanto siano amichevoli, hanno permesso a Washington di stare con un piede in Siria, un fatto che Washington sta utilizzando per riaccendere la guerra
In una guerra
nucleare, il 'danno collaterale'
sarebbe la vita dell'umanità
intera(Fidel Castro)
I russi, presi dall'ansia di mostrare all'occidente quanto siano amichevoli, hanno permesso a Washington di stare con un piede in Siria, un fatto che Washington sta utilizzando per riaccendere la guerra. Per via dell'errore dei russi nel lasciare incompleto il lavoro, in un'enclave siriana sono rimasti i mercenari stranieri di Washington, rappresentati dai media-prostitute americani ('presstitute') come 'combattenti per la libertà'. Al fine di riprendere la guerra, Washington deve trovare un modo per venire in soccorso dei propri mercenari.
Il regime di Trump ha trovato la scusa, o così crede, nel revival della falsa accusa orchestrata da Obama sull'uso delle armi chimiche da parte siriana. Una bugia fabbricata. Una bugia messa a tacere dall'intervento russo, che si assicurò del fatto che non ci fossero armi chimiche in Siria. Infatti, se la memoria serve a qualcosa, la Russia consegnò le armi chimiche agli Stati Uniti affinchè venissero distrutte.
La docente della Columbia University spiega: “Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?”
I partiti si sono indeboliti. La sinistra è in crisi profonda. Il populismo avanza. Mentre le elezioni italiane hanno celebrato la vittoria del Movimento cinque stelle e della Lega Nord, Nadia Urbinati, professoressa di Teoria politica alla Columbia University di New York, ha pubblicato l’ebook La sfida populista, curato insieme a Paul Blokker e Manuel Anselmi e presentato in occasione di “Democrazia Minima”, il primo forum sul futuro della politica e della cittadinanza attiva organizzato da Fondazione Feltrinelli. «Dietro l’esito delle elezioni c’è certamente il declino della sinistra», spiega Urbinati. «Dove la sinistra tradizionale ha retrocesso, lì si sono manifestati due grossi movimenti di sostituzione. Ma perché un ragazzo che vive vicino a Potenza, che non sa come sbarcare il lunario, dovrebbe votare il Pd?».
* * * *
Professoressa, cosa è successo alla sinistra italiana?
Dal Pd ai cosiddetti secessionisti, oggi la sinistra non è più un punto di riferimento per larghi strati della popolazione.
Dal numero speciale di "Primo Maggio"
La Cina, nel senso ovviamente della Repubblica
Popolare, non è mai stata un magnete intellettuale per la
nuova sinistra
italiana e internazionale. Ha attratto invece l’attenzione di
un variegato gruppo di seguaci che ne esaltavano la fedeltà
manichea e si
identificavano nella propaganda di Pechino. La liturgia era
immutabile, il rosso indelebile, il lessico della Terza
Internazionale. L’attenzione
apologetica apparteneva ai marxisti-leninisti, per i quali la
conservazione del trattino assicurava la linearità di
pensiero. Chi derogava
dalla linea, indipendentemente dal suo contenuto, era
oggettivamente un amico della reazione e del capitalismo.
L’analisi serviva a scovare i
nemici, a denunciare i traditori. Per queste versioni, la Cina
di Mao era la continuazione dello stalinismo – e dunque della
retta via –
mentre quella di Deng emulava il revisionismo di Kruscev. Le
dinamiche della storia sembravano irrilevanti; l’identità
manteneva sempre
il primato sull’analisi. La verità valeva fino al prossimo
Congresso del Pcc, dove chi prevaleva dettava la linea e chi
era sconfitto
finiva nei campi di rieducazione. Il dibattito che ne derivava
non era fertile. Mao era la continuazione o la crisi del
bolscevismo? Deng ha salvato
il Partito o la Cina? Il Pcc può definirsi ancora comunista?
Le domande sono mal poste, probabilmente inutili; negli anni
’60 si sarebbe
risposto The answer is blowing in the wind.
Una lente disincantata, minoritaria, ideologica ma non ossificata, ha invece analizzato con spirito critico l’esperienza cinese. Certamente la sua epopea ne è stata glorificata, dalla Lunga Marcia alla guerra civile contro i nazionalisti di Jiang Jie Shi, dal terzomondismo di Bandung alla lotta imperialista.
Massimiliano Tomba, Attraverso la piccola porta, (Mimesis, Milano-Udine, 2017)
“Il
giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo
caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti), mi
suggerivano l’immagine della
biforcazione nel tempo, non nello spazio […] in tutte le
opere narrative, ogni volta che si è di fronte a diverse
alternative, ci si
decide per una e si eliminano le altre; in quella del
quasi inestricabile Ts’ui PenX, ci si decide –
simultaneamente – per tutte. Si
creano così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro
volta proliferano e si biforcano”[1].
La memoria del curioso giardino descritto da Borges in un noto testo del 1941, mi ha accompagnata, come un adagio, nel corso della lettura dei quattro saggi su Benjamin che compongono Attraverso la piccola porta di Massimiliano Tomba.
È, infatti, a partire dal tempo e attorno al tempo, nelle sue pieghe anacronistiche, nei suoi iati e nelle sue aritmie, che si snoda la domanda filosofica dell’autore[2].
È la modernità capitalista ad aver profondamente modificato la natura della temporalità, ad averla assolutizzata nei termini di una linearità cieca e tirannica, lungo la quale tutti i fatti sembrano equivalersi, e non saranno né lo storicismo, né le contromosse automatiche di un mal inteso materialismo storico a ricucire le vestigia dell’individuo, giacente in frantumi, spogliato della possibilità di fare esperienza, annientato nella sua capacità di sintesi.
Ed è dunque, conseguentemente, dall’antropologia che occorre ripartire, provando a ipotizzare che anche la profonda crisi dell’esperienza e la distruzione del “vecchio soggetto”, se visti dal punto di vista del collettivo, possano rivelarsi occasioni di liberazione di una nuova coscienza politica, a patto che si cominci a pensare nei termini di una temporalità altra, come suggerisce Benjamin, a condizione che si ammetta un elemento di trascendenza capace di funzionare da contropeso alla struttura religiosa che il capitalismo va assumendo.
La fine del lavoro è assunta come presupposto (indimostrato) della necessità del reddito di cittadinanza. Ma il lavoro non è finito ed il reddito di cittadinanza non risolverà i suoi problemi
In
un articolo dello scorso 15 febbraio pubblicato sul suo blog
[1], Beppe Grillo si lancia nell’ipotesi
della fine del lavoro per
affermare, in conclusione, la necessità di istituire un reddito
di cittadinanza. Il comico genovese e fondatore del Movimento
5 Stelle prende
spunto da
Rifkin, economista americano che affermava,
appunto, la fine del lavoro (che diede il titolo al
suo celebre libro), con
l’ipotesi che lo sviluppo della capacità produttiva avrebbe
lasciato nella disoccupazione masse crescenti di lavoratori. “Se
non c’è lavoro, non c’è consumo, non c’è produzione, non c’è
la nostra società”,
scrive Grillo e perciò “Dobbiamo superare questa visione,
il lavoro di massa è finito, volge al termine”. Di qui
il
motivo per cui “dobbiamo immaginare un altro mondo, in
cui esiste un reddito slegato dal lavoro”. La soluzione
sarebbe, allora,
il
reddito di
cittadinanza. In un post successivo del 14
marzo [2], il fondatore del Movimento 5 stelle torna sul tema.
Questa volta la base di
partenza è La società senza lavoro di Dominique
Méda. Le conclusioni, però, sono le stesse: la
soluzione è il reddito di cittadinanza. Emerge, in Grillo, una
visione centrata su questa parte del mondo, quella a
capitalismo più
maturo e che non tiene conto della divisione
internazionale del lavoro, che invece
bisognerebbe tenere presente parlando
di fine del lavoro e (connessa a questo) di reddito di
cittadinanza.
È evidente la possibilità di fare a meno di una certa quantità di forza lavoro con l’avanzare della tecnologia e della conseguente produttività. Non bisogna, però, dimenticare che questo processo di sviluppo non è affatto neutrale, come spesso viene presentato e come lo stesso Grillo lo rappresenta, ma attiene all’uso capitalistico che viene fatto della tecnologia.
Per due anni ci hanno spiegato che la Brexit, così come la vittoria elettorale di Trump o il No al referendum italiano, erano il frutto di una sapiente operazione di propaganda mediatica manovrata dal Cremlino. Più in generale, qualsiasi fenomeno politico non allineato con l’european consensus era sicuramente il frutto di manipolazioni psicologiche di massa, chiaramente organizzate da Putin, volte a destabilizzare l’ordine globale attraverso messaggi pubblicitari su Facebook. Oggi scopriamo invece che la valanga populista sarebbe stata attivata attraverso la cessione di big data da parte di Facebook a società terze, in particolare tale Cambridge Analytica, che a sua volta avrebbe usato tali profilazioni di massa di utenti Facebook per sviluppare campagne politico-pubblicitarie settoriali. Il pericolo, insomma, non veniva da est, ma dall’estremo Occidente. Anche messa così, però, trattasi di supercazzola con scappellamento a destra. Parente stretta dell’ideologia fake news – la favola cioè che qualsiasi comportamento politico difforme ai dettami ordoliberali sia frutto dell’ignoranza degli elettori – anche questa nuova e sopraffina evoluzione rimanda alla stessa matrice ideologica: ciò che non è liberista è irrazionale. Il clamore suscitato dalla notizia è solo apparentemente legato alla “realtà” dei fatti: ogni nostra azione, online o meno, avviene attraverso il nostro esplicito consenso al trattamento dei nostri dati personali.
Dopo il voto. In Europa, nelle sue varie forme, ha percentuali a due cifre, e in alcuni paesi è al governo. In casa nostra è stata dilaniata. Come tentare di ripartire
La povertà come volano per l’economia dell’export: un modello sociale che «valorizza» le disuguaglianze nei processi di elevazione della competitività, rovesciando il paradigma che stava alla base del vecchio «modello sociale europeo».
La crisi economica che ha scosso il capitalismo mondiale tra il 2007 e il 2009 ha dato una nuova base «oggettiva» alle politiche di smantellamento del welfare state e dei diritti dei lavoratori, che, nel nostro Paese, erano iniziate già vent’anni prima. L’Italia è entrata nella crisi con un’economia in declino e ne è uscita con una società ancora più diseguale, riorganizzata in funzione del modello neo-mercantile che la Germania ha imposto, con successo, a tutta l’Europa.
È stata una rivoluzione, che non ha visto come protagonisti gli operai, i «ceti subalterni», per dirla con Gramsci, ma il capitale, per mezzo dei governi che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Una storia che chiama direttamente in causa la «sinistra di governo», in larga parte erede del Pci, la più determinata, la più cinica, la più arrogante, nel portare avanti la rivoluzione neoliberista.
In questi giorni, soprattutto sul sito https://sinistrainrete.info/ (che segnalo perché molto ricco ed interessante) ho letto molte analisi sul voto del 4 marzo. La gran parte anche molto interessanti e condivisibili, perché ciascuna ha affrontato e approfondito determinati aspetti che non sono stati affrontati in altre e così via. Tutte o quasi molto articolate e che puntano, giustamente, ad individuare le ragioni – sociali, economiche, politiche – che hanno determinato quell’esito. E non c’è dubbio che un risultato come quello scaturito dalle urne poche settimane fa abbia diverse cause che devono essere analizzate con la necessaria lucidità e capacità di cogliere, appunto, la complessità di un fenomeno. E anche noi non ci siamo sottratti: http://www.linterferenza.info/editoriali/elezioni-2018_tutto-cio-che-e-reale-e-razionale/
Leggendo e rileggendo, come spesso mi succede (non solo al sottoscritto, ovviamente…) mi è venuto alla mente un aspetto che non avevo ancora focalizzato. Sia chiaro, è solo un altro piccolo tassello del mosaico che non ha la pretesa di essere esaustivo o risolutivo, ovviamente, e che tuttavia gioca la sua parte. Ed è un aspetto che riguarda la sfera psicologica-mediatica, diciamo così, oltre che politica in senso stretto.
Un momento di conversazione con un
individuo qualsiasi
basta
per conoscere a fondo le sue letture, le sue
occupazioni e l'ambiente in
cui vive.
Gustave
Le bon,
L'uomo e la società, v. II
1. La storia di Facebook, Cambridge Analytica, dati sensibili, e voto manipolato si può riassumere così:
a) si decide di fare la "rivoluzione liberale" e, quindi, di usare le "forze materiali sterminate" a disposizione dell'oligarchia capitalistica, a base anglosassone, per rendere la comunicazione pubblicitaria ed il suo linguaggio pop - che aveva evoluto il sistema di mercato verso il consumismo di massa-, un metodo permanente di condizionamento cultural-accademico-mediatico.
Tale metodo era stato ritenuto il più congeniale al fine di rendere accettabile la restaurazione dell'assetto economico-sociale, e quindi istituzionale, del capitalismo anteriore alla crisi del '29.
Si trattava in sostanza di una grandiosa operazione di riconversione cosmetica della psicologia di massa, mirata a rendere accettabile l'impoverimento e la perdita di rilevanza nei processi politico-istituzionali, che sarebbe stata altrimenti percepita come perdita della democrazia (pluriclasse);
Il duo Di Maio – Salvini ha condotto la partita sulle presidenze delle Camere, battendo Berlusconi mentre il Pd restava fuori campo. Prova di una futura alleanza di governo? Poco probabile: chi accettasse di fare il “socio minore”, come posizione nella leadership o rinunciando e punti caratterizzanti del programma, al prossimo voto la pagherebbe cara. Quanto al Pd, forse Renzi aspetterà che le oggettive e serie difficoltà che attendono il governo, qualunque sia, gli permettano di presentarsi al prossimo giro dicendo “con me andava meglio”
Con una manovra perfetta i “dilettanti” Di Maio e Salvini (e poco importa se la regia sia stata del suo vice Giorgetti: un buon capo è quello che sa chi ascoltare) hanno stravinto la battaglia delle presidenze di Camera e Senato, lasciandosi alle spalle un Berlusconi isolato e smarrito e un Pd mai entrato in campo. Se il buon giorno si vede dal mattino, forse tutti quelli che con sufficienza tacciano di inesperienza i vincitori delle elezioni faranno bene a prenderli più sul serio.
Le due formazioni vincenti – 5S e coalizione di destra, che insieme hanno la maggioranza – hanno convenuto di dividersi le presidenze delle due Camere. All’interno della destra Salvini ha abilmente ceduto il passo a un esponente di Forza Italia, avendone come contropartita la candidatura del suo Massimiliano Fedriga alla presidenza del Friuli.
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
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Dopo sei mesi di
rivoluzione socialista coloro
che
ragionano solo sulla base dei libri non
capiscono nulla.
LENIN, 5 luglio 19182
1. 1917-1918. Il capitalismo di Stato come «passo avanti»
Le prime occorrenze significative del concetto di capitalismo di Stato negli scritti di Lenin del periodo postrivoluzionario risalgono alla primavera del 1918, e si situano nel contesto della dura contrapposizione ai «comunisti di sinistra», l’opposizione interna al Partito comunista allora guidata da Nikolaj Bucharin. Lo scontro, inizialmente infuriato sulla firma del trattato di pace con la Germania, non era meno duro sul terreno economico. Esso riguardava ora la gestione delle imprese e il rafforzamento della disciplina del lavoro al loro interno: alla necessità di questo rafforzamento, su cui Lenin insisteva, i «comunisti di sinistra» contrapponevano la gestione collettiva delle imprese, che finiva in pratica per tradursi nella paralisi e nell’ingovernabilità delle imprese nazionalizzate. Ma il tema centrale era un altro ancora: il ritmo e la direzione della trasformazione economica. In quei mesi Oppokov proponeva di «dichiarare la proprietà privata inammissibile sia nella città che nelle campagne», mentre un altro «comunista di sinistra», Osinskij, parlava di «liquidazione totale della proprietà privata» e di «immediata transizione al socialismo»3.
Per Lenin le priorità sono diverse: «la ricostituzione delle forze produttive distrutte dalla guerra e dal malgoverno della borghesia; il risanamento delle ferite inferte dalla guerra, dalla sconfitta, dalla speculazione e dai tentativi della borghesia di restaurare il potere abbattuto degli sfruttatori; la ripresa economica del paese; la sicura tutela dell’ordine più elementare»4.
Guido Viale, il 68, Interno 4 Edizioni 2018, pp. 328, € 22,00
Dal poco che si vede sui banchi delle
librerie, tutto sembra esser pronto per celebrare nel 2018
un ’68 farlocco i cui i protagonisti non
sembrano più essere gli operai e i giovani, studenti o meno,
che lo agitarono ma soltanto gli intellettuali, gli autori,
i rappresentanti della
Legge e della Kultura, gli uomini e le donne buoni per tutte
le stagioni, tutti rappresentanti attuali dell’establishment
politico, culturale e
mediatico, con le cui noiose e perniciose testimonianze
alcune riviste hanno già imbottito le pagine dedicate
all’attuale cinquantenario
di un movimento che in realtà iniziò ben prima e da ben
altri lidi. Così come ha già ben sottolineato Valerio
Evangelisti
nei giorni scorsi proprio su Carmilla.
Per questo motivo l’attuale quarta edizione del testo di Guido Viale “Il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione”, uscito per la prima volta nel 1978 per le edizioni Mazzotta, potrebbe rivelarsi utile e necessaria, considerato anche il fatto che alla stessa sono state aggiunte una nuova introduzione dell’autore, 64 pagine a colori che riproducono volantini, manifesti, opuscoli e libri dell’epoca oltre al fondamentale manifesto della rivolta studentesca “Contro l’università”, scritto da Viale e pubblicato nel febbraio di quello steso anno sulle pagine del n° 33 dei Quaderni Piacentini. Mentre per gli amanti della grafica e della memoria compare anche la ristampa (estraibile) del manifesto diffuso dal Soccorso Rosso, negli anni successivi, a difesa di Pietro Valpreda e di denuncia delle trame terroristiche di Stato, disegnato da Guido Crepax.
Ringraziando l’autore, ripubblichiamo qui la relazione presentata da Romano Luperini al convegno Fortini ’17, che si è tenuto all’Università di Padova l’11 e il 12 dicembre 2017 in occasione del centenario della nascita, precedentemente uscita sul blog «La letteratura e noi»
In questa introduzione non mi
occuperò di Fortini critico ma della critica secondo
Fortini. Su Fortini critico sono previsti in questa sezione
già cinque interventi,
e inoltre su questo argomento non saprei dire molto di
diverso da quanto da me scritto negli anni Novanta.1 Confesso
tuttavia che non mi sarebbe dispiaciuto fare autocritica su
una doppia lacuna di quel lavoro: l’aver taciuto allora
sull’importanza
fondamentale di un saggio fortiniano di sessanta anni fa
ancor oggi attualissimo, Metrica e libertà, e sul
ruolo che Fortini critico ha
avuto nel delineare il canone del Novecento poetico
italiano. Sulla prima questione mi limiterò a un’unica
considerazione: affermare,
come fa Fortini, che «L’istituzione metrica è
l’inautenticità che sola può fondare l’autentico; è
la forma della presenza collettiva»,2 mettendo così a frutto la lezione
di Adorno (la forma è contenuto sedimentato) e di De Martino
(la
nenia funebre come ritualizzazione e socializzazione del
sentimento), significa acquisire allo spazio della socialità
e della storicità
anche il territorio della metrica che per molti versi
sembrava privilegio di un approccio tecnico-formalistico.
Sulla seconda questione mi limito a
ricordare qui una annotazione del 1954 compresa in Un
giorno o l’altro in cui Fortini dichiara, in polemica
con la proposta di canone
avanzata dall’antologia di Anceschi e Antonelli, che sarebbe
giunto il momento di «far occupare da Saba il luogo di
Campana, da Montale
quello di Ungaretti, da Luzi quello di Quasimodo»,3
anticipando di un ventennio la operazione con cui il suo I
poeti del Novecento e Poeti italiani del Novecento
di Mengaldo
stabilizzeranno per un considerevole periodo di tempo (e
forse sino a oggi) il canone poetico del secolo.
In Italia le persone oltre i 65 anni sono il 22% della popolazione, la percentuale più alta a livello europeo, seguita dalla Grecia (il 21,3%) e dalla Germania (il 21,1%). Poi ci sono il Portogallo (20,3%) e la Bulgaria (20,1%). E’ ovvio che, nonostante l’innalzamento dell’età pensionabile e le micidiali controriforme previdenziali quali la Fornero, la spesa pensionistica italiana resti più elevata di altri paesi. Con una spesa calcolata al 16% del Pil è la seconda più alta dopo quella della Grecia. Ad affermarlo, con un tono che non promette nulla di buono, è un ‘working paper’ del Fmi curato da Michael Andrle, Shafik Hebous, Alvar Kangur e Mehdi Raissi e dal titolo ‘Italy: toward a growth-friendly fiscal reform’.
Nel documento del Fmi si segnala come ci siano molte aree nel sistema pensionistico in cui l’Italia può agire per ridurre la spesa e quindi risparmiare. Il Fmi ovviamente sorvola sulla curva ormai discedente e non più ascendente dell’aspettativa di vita in Italia. Ormai infatti si va in pensione più tardi, ci si cura di meno per motivi economici, aumenta il disagio sociale e quindi si muore di più e prima degli anni passati.
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I risultati delle ultime elezioni politiche sanciscono il trionfo delle destre e l’abrasione delle sinistre. Il trionfo delle destre vede ben quattro formazioni dividersi la titolarità della rappresentanza delle differenti frazioni di quella che un tempo era chiamata la “maggioranza silenziosa”: una destra tecnocratica ed elitaria (il PD con la corrente esterna del raggruppamento di “Liberi e Uguali”), una destra populista e pubblicitaria (FI), una destra populista e reazionaria (Lega e FdI) e una destra qualunquista e reazionaria (M5S). Nei termini storici della “lunga durata” di stampo braudeliano , abbiamo quindi al Nord gli eredi delle “Pasque veronesi” (1797) e al Sud gli eredi dei sanfedisti (1799-1814). Spingendo ancora più a fondo l’analogia storico-geografica, è possibile risalire al periodo dell’Alto Medioevo, più precisamente al VI secolo e, ancor più precisamente, al 568, quando, esauritasi la “renovatio Imperii” giustinianea a causa della guerra gotico-bizantina (535-553), ebbe fine l’unità politica della penisola italiana con l’invasione dei Longobardi e le aspre lotte (ma anche i taciti accordi) che seguirono fra questi e i Bizantini, laddove l’equivalente attuale dei primi è rappresentato dalla Lega e l’equivalente attuale dei secondi dal M5S. Una singolare coincidenza (la Pasqua del 568 cadde l’1 aprile, esattamente come la Pasqua del 2018)1 contraddistingue i limiti estremi di un periodo intermedio di 1450 anni, quasi che, ad una simile distanza cronologica, il ciclo della disunione, esaurita la breve parentesi dello Stato nazionale unitario (1861-2018), riprenda, implacabile, a svolgersi.
Sulla pagina facebook del professor Francesco Esparmer trovo la seguente riflessione:
“Politicamente le serate sono state neutralizzate. Anche i miei contatti più impegnati e lucidi le trascorrono a fare polemiche, spesso condivisibili ma del tutto inutili, contro la spazzatura che hanno visto in televisione, nei talk show in particolare, con conduttori squallidi e altrettanto squallidi ospiti. Così si fa il gioco del potere liberista, che intenzionalmente offre squallore in modo che lo squallore diventi l’unico oggetto del pensiero. Oppure non vi siete accorti che le loro cazzate stanno occupando le nostre menti e condizionando i nostri discorsi, tenendoci sulla difensiva e appiattendo i ragionamenti al livello infimo a cui li vogliono tenere?
La forza del marxismo fu proprio il suo proporsi come visione del mondo attiva, modellizzante, che costringeva anche chi gli si opponeva ad accettarne il linguaggio. Perché a contare davvero non è chi vince la battaglia ma chi decide il modo in cui vada combattuta”.
A dire il vero l’ultima frase andrebbe corretta: in realtà conta chi vince, eccome; però è vero che chi vince ci riesce proprio perché è capace di imporre le condizioni di combattimento che gli sono più favorevoli.
La telefonata di Donald Trump a Vladimir Putin dopo la vittoria alle elezioni russe ha suscitato reazioni in America. I media martellano scandalizzati la Casa Bianca, come anche i neocon (vedi Wikley Standard, rivista dell’area), e parte dell’apparato militar industriale.
L’ex Capo della Cia John Brennan ha addirittura affermato che la sua arrendevolezza a Putin deriverebbe da oscuri e non meglio specificati ricatti russi.
Il presidente degli Stati Uniti si è difeso con un tweet: “Ho chiamato il presidente russo Putin per congratularmi con lui per la sua vittoria elettorale (in passato, anche Obama lo aveva chiamato). I Media Fake News sono impazziti perché volevano che lo criticassi aspramente. Si sbagliano! Andare d’accordo con la Russia (e altri) è una buona cosa, non una brutta cosa….”.
L’accordo con i russi, ha spiegato nel tweet successivo, può “aiutare a risolvere problemi con la Corea del Nord, la Siria, l’Ucraina, l’Isis, l’Iran e persino la prossima corsa alle armi. Bush ha cercato di andare d’accordo con loro, ma non aveva ‘acume’. Obama e Clinton ci hanno provato, ma non avevano l’energia o la chimica”.
Peraltro i due presidenti hanno parlato anche di un loro incontro, che Trump ha specificato avverrà “in un futuro non troppo lontano”.
L’affermazione in Italia di due movimenti, Lega e 5 Stelle, percepiti all’estero come filorussi, con l’eventualità di un loro possibile accordo di governo, è probabilmente alla base dell’ennesima provocazione antirussa allestita dal governo britannico.
Tutta la narrazione britannica, secondo cui una ex spia russa rifugiatasi nel Regno Unito sarebbe stata eliminata da Putin con un agente nervino, assume contorni fiabeschi, addirittura da nonsense. Già anni fa vi fu una vicenda analoga, il caso Litvinenko, un dissidente russo che anche lui sarebbe stato eliminato da Putin, quella volta con del polonio radioattivo.
Alcuni hanno sarcasticamente commentato l’atteggiamento britannico trattandolo come una recriminazione sul fatto che i servizi segreti russi sarebbero ricorsi a metodi di assassinio iper-tecnologici e macchinosi, invece di adottare il pulitissimo metodo di eliminazione che da un secolo costituisce il marchio di fabbrica dei servizi segreti inglesi, cioè il finto incidente stradale. Si tratta dello stesso metodo “pulito” con il quale sono stati eliminati sia il colonnello Lawrence nel 1935 che Diana Spencer nel 1997.
Al di là degli ovvi (quanto doverosi) sarcasmi, c’è da considerare che, anche nell’irrealistica ipotesi di omicidi al polonio o al nervino, il comportamento del governo britannico appare non congruente.
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
1. La questione tedesca nel
movimento
comunista
Nel movimento operaio internazionale, la questione tedesca e le sue possibili ricadute sulle prospettive generali della rivoluzione socialista in Europa hanno costituito un argomento tradizionalmente assai dibattuto. Come faceva notare Pierre Broué, riportando nelle pagine iniziali della sua celebre opera sulla – mancata – rivoluzione tedesca le ottimistiche previsioni letterarie di Preobrazhenskij e gli auspici politici di Zinovev1, è un dibattito che si è fatto però tanto più necessario e intenso con l’Ottobre e soprattutto negli anni successivi alla conclusione della Prima guerra mondiale, in ragione delle profonde trasformazioni politiche che si erano verificate in Germania dopo la sconfitta e la caduta del Kaiser e nel contesto di un conflitto civile dalle conseguenze imprevedibili. Un conflitto a intensità variabile ma pressoché ininterrotto, le cui incontrollabili esplosioni – ora a destra, ora a sinistra – sembravano certamente porre le basi per la rottura definitiva di quell’ordine borghese del quale la socialdemocrazia, nelle analisi dei bolscevichi, si era fatta garante a Weimar. Ma che rischiavano al tempo stesso di condurre ad un esito decisamente diverso da quello che ancora dopo il Terzo congresso il Comintern riteneva comunque prossimo, come sarebbe in effetti accaduto in Italia con la presa del potere da parte del fascismo nel 19222.
Teoria
della
classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura è
stato uno dei saggi più discussi del 2017. La teoria del
libro, in breve,
è la seguente: un’intera generazione, nata borghese e allevata
nella convinzione di poter migliorare – o nella peggiore delle
ipotesi mantenere – la propria posizione nella piramide
sociale, oggi deve fare i conti col fatto che quella vita che
gli era stata promessa
«non esiste». Per troppo tempo quella generazione,
come le precedenti, ha vissuto al di sopra delle proprie
possibilità,
accumulando così un debito pubblico impressionante.
Ma adesso i nodi sono venuti al pettine: i creditori bussano alla porta, costringendoci a fare i conti con l’insostenibilità di un modello di crescita “drogato” (in quanto, appunto, debito-centrico) e col fatto che le «contraddizioni strutturali del sistema capitalista» – tra cui Ventura annovera la finanziarizzazione dell’economia, la robotizzazione, la domanda stagnante, il debito pregresso e persino la caduta tendenziale del saggio di profitto – rendono vana qualunque speranza di uscire dalla crisi attuale con le ricette “keynesiane” del passato. Ai “proletari cognitivi” di oggi (cui si rivolge in primis il libro di Ventura), dunque, non resta che rassegnarsi al proprio declassamento: disoccupazione, semi-occupazione, precariato, lavoro povero, ecc. sono l’inevitabile prezzo da pagare per aver ostentato troppo a lungo «una ricchezza che non abbiamo». Il senso del libro è tutto racchiuso nella sua chiosa kafkiana: «c’è molta speranza, ma nessuna per noi».
Dal 5 marzo, e cioè dal giorno dopo
le
elezioni, gli occhi sono puntati sull’Italia del sud. Tutti
provano a capire cosa abbia diviso il paese a metà: da una
parte il nord che
ha decretato il successo della Lega, dall’altra il sud che ha
votato in maggioranza per il Movimento 5 stelle.
In particolare, quel sud tutto dipinto di giallo è utile per ridimensionare la novità del voto, e ricondurla a più vecchie certezze.
Il reddito di cittadinanza (nel programma dell’M5s fin dal 2013, oggetto di un già discusso disegno di legge e, nei fatti, come ha osservato Chiara Saraceno, nulla più di una generosa, imperfetta, banale assicurazione universale contro la disoccupazione) spiegherebbe la geografia del voto “lazzarone” del sud; parallelamente, il nord produttivo avrebbe votato egoisticamente per la flat tax. Su una simile lettura, per citare il caso più autorevole, basa la sua proposta di reintroduzione di gabbie salariali il presidente dell’Inps Tito Boeri.
Ma questa interpretazione, solo apparentemente economicistica, rimuove in realtà la profonda trasformazione imposta all’Italia dagli ultimi, lunghi decenni di stagnazione e poi crisi. Quando il voto è spiegato esaminando le preferenze economiche, le osservazioni paiono tuttavia risentire degli stereotipi riguardanti i vizi del sud “terrone” e le virtù del nord produttivo.
Un esito del genere della battaglia dei Presidenti di Camera e Senato non era lontanamente prevedibile ed il Cavaliere ha fatto di tutto per aggravare la sua posizione. Ma cominciamo dall’inizio. Berlusconi aveva proposto Romani come Presidente del Senato ed i 5stelle avevano risposto picche per via di una condanna francamente risibile.
Improvvisamente il Cavaliere “apriva ai 5 stelle” sia per le Camere che per il governo (più per tagliare la strada a Salvini che altro) e confermando il nome di Romani ed i 5 stelle gli rispondevano prendendolo a pesci in faccia e dicendogli di non volerlo neppure incontrare perché non parlamentare (modo delicato per dire “sei un pregiudicato”). A quel punto Berlusconi pensava di avere la partita in mano in tre mosse: confermare Romani facendolo passare con l’appoggio del Pd, ringraziare il Pd offrendogli la presidenza della Camera e, così, preparare un governo Salvini con l’astensione Pd.
Dopo di che lui sarebbe tornato in gioco come palla al piede di Salvini, con l’appoggio esterno del Pd. Mossa non priva di intelligenza dietro la quale si intravedeva una soffiata di Gianni Letta.
Però, la manovra si infrangeva, perché Salvini e Di Maio sono politicamente rozzi, ma non sono scemi, per cui avevano già un accordo alle spalle ed hanno reagito alla melina del Cavaliere con brutalità.
Il libro di Marta Fana è del 2017, ed è un duro ed informato atto di ricognizione ed accusa delle condizioni nelle quali trenta e più anni di controriforme hanno condotto il mondo del lavoro precipitando il mondo in occidente in una spirale distruttiva ed autoalimentata di impoverimento prima di tutto umano. Alcuni fenomeni emergono contemporaneamente per la buona ragione che sono tutti parte di un nuovo modo di produzione e riproduzione che si afferma a partire dall’esito della crisi terminale del modo di produzione che per semplicità chiameremo ‘keynesiano’: un immane spostamento delle risorse dalla distribuzione via lavoro a quella via rendite e profitti; la crescita della ineguaglianza e della concentrazione patrimoniale in pochissime mani; la mutazione dei meccanismi di creazione di valore sempre più dalla produzione materiale ai servizi, in particolare finanziari; la frammentazione ed il coordinamento delle catene produttive lungo linee di dispersione della prima e di concentrazione dei secondi, segmentati per valore aggiunto; l’indebolimento, in corrispondenza alle trasformazioni sopra indicate, della forza e della posizione del lavoro e dei lavoratori non strategici.
«Lo spettacolo non è un insieme di
immagini, ma un
rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini»
«Lo
spettacolo
è il capitale ad un tal grado di accumulazione da divenire
immagine»
«La questione non è di constatare che gli uomini
vivono più o meno poveramente; bensì sempre in maniera che
sfugge
loro»
Il 14 novembre 1967 a Parigi l’editore Buchet-Chastel pubblica uno dei libri più importanti della seconda metà del XX secolo: La Société du Spectacle, il libro più conosciuto, rubato, citato, dello scrittore e cineasta parigino Guy Debord. Un libro che a detta di molti ha preconizzato, come una Cassandra, l’assetto di una realtà che ci circonda e condiziona da almeno trent’anni. Un libro ancora edito e molto letto nel mondo, ma compreso a fondo da pochi se non probabilmente da coloro che erano considerati i nemici della prospettiva rivoluzionaria che rilanciava.
La società dello spettacolo dal titolo fa pensare ad un libro incentrato sull’analisi dell’incidenza dei mass-media nella dinamica della società, e sul ruolo dell’industria dello spettacolo nell’organizzazione e gestione di questa. Ma il testo di Debord, articolato in 221 tesi, strutturate in nove parti è molto di più: si tratta di una vera e propria teoria critica della società esistente, la società della merce e delle sue regole.
In questi giorni Facebook Inc. è stata travolta dallo scandalo sull'abuso nell’utilizzo dei dati di milioni di utenti che coinvolge la società di consulenza Cambridge Analytica.
A Washington la Federal Trade Commission ha aperto un'indagine sul caso, mentre una commissione del parlamento britannico e il presidente del Parlamento europeo hanno invitato Mark Zuckerberg a presentarsi a Bruxelles per dare spiegazioni. Il titolo in borsa è crollato trascinando dietro di se anche Twitter Inc. Dopo giorni di silenzio, Zuckerberg ha detto la sua con un lungo post dove ha ammesso gli errori commessi dalla società facendo mea culpa per la fiducia tradita e promettendo che sarà fatto tutto il necessario per riconquistarla. Per adesso, le tre mosse principali saranno la revisione completa delle app considerate sospette, una ulteriore restrizione dell’accesso ai dati degli utenti per gli sviluppatori esterni e l’introduzione di un pannello di controllo dei parametri di privacy dati più visibile di quello attuale.
Cambridge Analytica è da tempo sotto i riflettori di autorevoli testate giornalistiche per le sue commistioni anche in altre celebre campagne elettorali, come la Brexit e la campagna di Marine Le Pen alle presidenziali francesi.
Erisittone, dopo aver sfidato una proibizione della dea Demetra, ed aver distrutto un albero sacro popolato di ninfe, per costruirsi un fastoso palazzo, viene posseduto dalla fame, una fame impossibile da placare, puramente quantitativa ed incurante del contenuto delle cose. Agli occhi di Anselm Jappe, questo mito ci parla della folle traiettoria che viene oggi percorsa dal treno dell'umanità, ed anticipa la dinamica di autodistruzione che è contenuta nella logica stessa del valore, della merce e del denaro. A partire da questa risonanza mitica, veniamo portati a tornare alla radice dei nostri mali, a quasi cinquecento anni fa. È a partire da quel momento, da quella matrice, che il capitalismo emergente secerne (e allo stesso tempo si basa su) una forma umana della quale noi scopriamo veramente solo oggi, alla fine della corsa, il nucleo irrazionale: il soggetto narcisistico, per cui il reale e gli altri sono unicamente il prolungamento delle fantasie di onnipotenza, oppure il luogo di una resistenza intollerabile che genera paura, rabbia e odio sordo.
Ma questo libro, La Società autofaga, non è forse esso stesso un progetto teorico caratterizzato da eccessi? Non è forse un tentativo vertiginoso ed altamente astratto, in fin dei conti destinato ad una piccola consorteria di "happy few" sublimi e disperati?
Prima
di entrare direttamente nel merito del fiscal compact e
cercare di capire cosa sia e cosa comporta, occorre a mio
avviso allargare un attimo lo
sguardo. Occorre capire e ricordarci, perché Eurostop l’ha già
affrontato in più occasioni, cosa sia la costruzione europea
e su cosa si fonda. Questo ci permette di comprendere la
portata del Fiscal Compact stesso, trarne le opportune
considerazioni e conclusioni
politiche, dimostrando che le rivendicazione dei 3 NO (NO UE,
Euro, Nato) che la piattaforma porta avanti come elemento
fondante, non sono “per
moda” o estremismo fine a se stesso e non rappresentano un
argomento mono tematico legato alla sola questione della
moneta, ma sono una
piattaforma politica rigorosa se veramente vogliamo creare una
proposta alternativa e contestualizzata alla fase.
Come si contestualizza il Fiscal Compact nella costruzione della UE
Possiamo sintetizzare che la costruzione dell’Unione Europea si fonda su tre pilastri cardine, che sono:
Ordoliberalismo con “spruzzi” di neoliberalismo americano: il mercato e i suoi agenti da soli sono fallibili, portano ad instabilità non controllabile, ecco quindi la necessità di un sistema che interviene e controlla a favore del mercato e la concorrenza. Quello che deve essere tutelato è quindi il principio di concorrenza di mercato e la stabilità dei prezzi (inflazione). Occorre, quindi ed è questo che ci ritroviamo di fronte, uno Stato che non lascia fare come vuole al mercato (la mano libera di Adam Smith), ma che interviene a garantire e favorire costantemente questi principi. Siamo di fronte ad uno Stato che è interventista in senso neoliberale (economia sociale di mercato).
Come si sta muovendo la nuova «Grosse Koalition» del massacro sociale (e perché): le narrazioni tossiche (con “Beppe che telefona in diretta”) e la sindrome di Re Mida
«Ci sono
momenti in cui è necessario gettare il cuore oltre
l’ostacolo. Come diceva XYZ, e pensando anche quelle parole
lontane, ma oggi
così vicine, noi diciamo sì. Lo facciamo non a cuor leggero,
consapevoli degli errori che sono stati commessi nel
passato. Ma è
proprio per dimostrare che si può fare bene ciò che è stato
fatto male in passato che noi diciamo sì. Perché
vogliamo dimostrare che la sostenibilità ambientale ed
economica è qualcosa che si può fare. A coloro che dicono
“no”, legittimamente, noi rispondiamo: stiamo lavorando
anche per voi, per far ritornare la fiducia anche in coloro
che l’avevano
persa. Daremo tutta la nostra passione e il nostro coraggio
per costruire insieme un evento bello, forte, sostenibile,
ecologico. Noi trasformeremo
gli errori del passato in lavoro, crescita, sviluppo. Quindi
Torino [ma forse ci sarà anche Milano, N.d.R.]
dice
“Sì” alla candidatura per le Olimpiadi di Torino 2026.»
Probabile la deriva «noi ci mettiamo la faccia». Applausi, pagine sul giornale di famiglia, il «coraggio del pragmatismo», «il senso di responsabilità e la visione di futuro», oppure «Torino rilancia la sfida», «ripartenza». Campagna mediatica già ampiamente in corso.
Con ogni probabilità tutto questo, tra pochi giorni, verrà pronunciato dal centro del cratere olimpico di Torino. Città che elegge ogni cinque anni un commissario fallimentare, figura indispensabile per ripianare il maxidebito lasciato dalle Olimpiadi, quelle del 2006.
Dall’uno vale uno, all’uno vale l’altro.
La Stampa di lunedì 30 ottobre 2017, a proposito della difficile situazione finanziaria del Gruppo Trasporti Torinesi e di conseguenza del Comune di Torino:
La nuova "Marcia per la Scienza" mostra come nel capitalismo tardivo stia crescendo anche la regressione sociale
«il sapere che è potere non conosce
limiti né
nell'asservimento delle creature né nella sua
docile acquiescenza ai signori del mondo.»
("Dialettica dell'Illuminismo")
Alla fine di aprile, c'è stata un'ondata di proteste da parte della comunità scientifica mondiale, rivolta principalmente contro le politiche anti-scienza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Gli scienziati hanno dovuto confrontarsi con un'ostilità sempre più crescente nei confronti della scienza. Come nel caso, soprattutto, di quello che è stato l'attacco portato avanti dai nuovi movimenti populisti di destra. Tuttavia, in queste proteste è presente un ben noto errore di fondo che attiene all'assenza di qualsiasi auto-riflessione critica da parte della scienza. Le critiche relative alla ricerca e all'insegnamento, hanno riguardato solamente le condizioni lavorative nella comunità scientifica - dal momento che è stata completamente ignorata la contraddittoria funzione sociale della scienza nel capitalismo.
La nuova "Marcia per la Scienza" rientra, quindi, in una concezione acritica della scienza, che era popolare nel XIX secolo. Anche quelli che sono i classici della letteratura critica della scienza, sembra non aver lasciato alcuna traccia nella comunità scientifica. E, in effetti, il mondo può essere così meravigliosamente semplice... se hai sufficientemente fede nella scienza!
Da un lato, abbiamo gli scienziati illuminati che vogliono impegnarsi oggettivamente nella ricerca e nell'insegnamento, in quella che è la forma della comunità scientifica mondiale. Mentre l'altro lato verrà ad essere dominato dalle forze irrazionali dell'oscurità, dalla stupidità, dalla superstizione e dagli interessi privati.
L’arrivo di John Bolton non può lasciar dormire sonni tranquilli a chi crede in un prossimo futuro di pace in Medio Oriente. Come scritto su Piccole Note, “Debkafile disegna un buon profilo di Bolton: fiero sostenitore delle guerre neocon, si è detto favorevole ad “attacchi militari preventivi contro l’Iran e la Corea del Nord” e ha dichiarato che “Washington avrebbe dovuto agire per rimuovere Bashar Assad molto tempo fa e sostiene che la presenza espansionista militare dell’Iran e di Hezbollah in Siria deve essere fermata’”.
Una descrizione eloquente. John Bolton è uno di quei falchi che considera l’estremizzazione dello scontro con gli avversari degli Stati Uniti un’opzione più che accettabile. Che questi conflitti avvengano, non è detto. Un conto è dirlo, un conto è concretizzare. Ma il suo profilo non lascia presagire un futuro estremamente roseo.
E non c’è solo lo scontro nei piani di Bolton. C’è anche una visione rivoluzionaria del Medio Oriente che può aiutarci a capire come potrebbe declinarsi la politica estera Usa nel prossimo periodo. E sono proprio Iraq e Siria, i due Paesi martoriati dalle guerre e dal terrorismo, le vittime prescelte di tutto questo.
La crisi viene spesso descritta come se fosse un violento tornado che si abbatte su tutta la popolazione, sui ricchi come sui poveri, sui lavoratori come sulle aziende, travolgendo l’intera economia: un disastro collettivo che colpisce tutta la società, dalla testa ai piedi. Come vedremo si tratta, tuttavia, di una narrazione funzionale esclusivamente agli interessi della classe dominante, perché veicola una visione armonica della nostra società: stiamo perdendo tutti, tutti insieme dobbiamo rialzarci e non vi sono ragioni per immaginare un conflitto all’interno della società – tra le sue parti.
Peccato (per la classe dominante) che ogni tanto questa narrazione tossica debba fare i conti con la realtà dell’evidenza empirica, una realtà che ci fornisce un quadro sostanzialmente diverso: la crisi assume infatti i contorni di una precisa trasformazione della società, un violento cambiamento di rotta imposto al modello di sviluppo per favorire una parte della società a scapito di un’altra, un cambiamento che si manifesta attraverso una ricomposizione della domanda – favorendo quella estera a scapito di quella domestica – alla quale viene demandato il ruolo di trainare l’economia. I recenti dati sul commercio internazionale pubblicati da Eurostat aprono l’ennesimo squarcio sulla narrazione dominante, mostrando i tratti di una vera e propria lotta tra le classi sociali.
Il 22 marzo Trump ha adottato nei confronti di 150 prodotti cinesi la risoluzione commerciali 301, una misura di protezionismo ai fini della sicurezza nazionale e protezionista per un valore di circa 60 miliardi.
Wall Street non l’ha presa affatto bene, cadendo del 2,9%. E il motivo c’è, nessun operatore finanziario vuole la guerra commerciale contro la Cina, a motivo del quale il consigliere economico di Trump, ex Goldman Sachs, Cohn, si è dimesso pochi giorni prima la notifica dei dazi. Esso risiede nel fatto che la piazza finanziaria neworkese contava, e conta tuttora, assieme alla City londinese, di gestire l’immenso risparmio cinese. Attualmente il tasso di risparmio cinese è pari al 48% del pil (13 mila miliardi di dollari), negli anni passati il rapporto era ancora più alto.
Si calcola che nel solo ultimo decennio il livello complessivo di risparmio è pari a 60 mila miliardi di dollari, una manna per Wall Street e per la City, che forse se lo vedono sfuggire per sempre, l’uno per i dazi e l’aggressività americana nei confronti della Cina, l’altra, a seguito dell’affaire della spia russo uccisa a Londra, come foriera di scontri con la Russia e che coinvolgerebbe l’intero occidente.
Le anime belle liberali piangono lacrime di coccodrillo per lo scandalo che sta travolgendo Facebook e il suo padrone Mark Zuckerberg a causa del furto di dati operato dalla Cambridge Analytica.
Scoprono, pensate un po', che con le nuove tecnologie sarebbe in gioco "il bene assoluto della libertà individuale". Uno di questi rispettabili liberali scopre che come cittadini
«Siamo nudi dinanzi al mondo, in un angolo del quale c'è qualcuno che in realtà sa tutto di noi. E il paradosso è che forniamo noi stessi, più o meno volontariamente, le informazioni essenziali, anche personalissime, che opportunamente assemblate ci stanno trasformando da utenti o fruitori di un servizio in merce: dati raffinati da mettere in vendita». [Alessandro Campi, il messagero del 22 marzo]
Saremo pedanti ma vorremmo ricordare al nostro compunto liberale che scopre l'acqua calda, e che gli uomini sono merce da un bel pezzo, almeno da quando esiste il capitalismo. Lo sono anzitutto i lavoratori salariati che sul mercato sono appunto la merce più preziosa in quanto producendo valore nel processo di produzione aggiungono valore al capitale. La mercificazione degli uomini come cose, fenomeno che Marx chiamava reificazione. E con la mercificazione la libertà può solo essere formale e non sostanziale, privilegio dei dominanti.
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Niamey, Marzo 2018. Johnson è uscito ieri di prigione dopo tre mesi di detenzione. Accusato di aver nascosto una macchina per fabbricare biglietti di banca clandestini. Nato ‘circa’ nel 1963 in Liberia, che ha lasciato nel 2007 per raggiungere il Gabon che in quel momento galleggiava sul petrolio. Passa poi nel Camerun, transita in qualche modo il Burkina Faso e infine affonda nella polvere del Niger. Avrebbe voluto andare in Libia e forse da lì sbarcare nell’ Europa dei falsari. Johson è stato ingiustamente condannato per averli ospitati a casa sua. L’hanno arrestato con altri due per favoreggiamento nella fabbricazione di moneta falsa. Sono invece a piede libero i Grandi Falsari del futuro del Sahel. I rapinatori e i falsari hanno in comune la spogliazione di quanto di più sacro ci sia nella storia umana. Il sogno di un mondo differente che passa dai piedi alle mani che raccontano di sollevazioni e frontiere smantellate a colpi di utopie.
Falsano la realtà e la storia che va dall’altra parte a ciò che i poteri propugnano. Circondano l’Occidente con un gran muro di falsità e fanno dei diritti una collezione per amatori di ruderi. Johnson è più onesto di loro e dei complici che li assecondano in ogni circostanza. Stamane torna in carcere per ritirare il suo passaporto e nel secchio porta un po’ di carbone, sapone, olio e un pacco di zucchero per i compagni rimasti in cella.

Rappresentanza politica, sovranità economica e conflitto sociale verso un Mediterraneo dei “non-sottomessi” alla UE
Sembra che Guido Carli, uno degli “architetti”
italiani del trattato di Maastricht insieme a Tommaso Padoa
Schioppa, tornando a Roma da
quella fino ad allora ignota località dell’Europa
settentrionale, nei primi di febbraio del 1992 avesse
affermato riferendosi al
Trattato: “nessuno in Italia è consapevole degli effetti
che avrà nel nostro Paese”.
A più di 25 anni da quella data la consapevolezza di tali conseguenze è nota ai più, almeno tra le classi popolari, che anche nell’appuntamento elettorale del 4 marzo hanno confermato di recarsi alle urne con l’unico fine di votare per vendetta, pensando di mandare a casa quelle formazioni legittimamente percepite come corresponsabili della propria disgraziata condizione, nonché fedeli interpreti della politica dell’Unione Europea considerata responsabile ultima di tale situazione.
Ma se il senso comune nel nostro blocco sociale di riferimento ha delle legittime certezze – al di là delle forze politiche che ha scelto per incanalare il proprio voto anti-sistemico e che sono divenute transitorie depositarie delle proprie aspettative di cambiamento, come “ultima spiaggia” nel panorama politico istituzionale – altrettanto non si può dire del ceto politico residuale della sinistra. Non pago della batosta che indirettamente “il popolo” ha voluto dare alla sinistra tutta – di cui è una vittima “collaterale” – è ancora prudente nel parlare dell’Unione Europea come centro gravitazionale delle scelte politiche continentali che determinano, volenti o nolenti, i passaggi della nostra agenda politica a venire.
L’autobiografia
di Fulvio
Grimaldi, Un sessantotto lungo una vita pubblicato
dalla Casa Editrice Zambon, rappresenta un documento – tanto
breve quanto efficace
– imprescindibile per chi voglia, partendo dal periodo storico
1968 – ’77, analizzare lo stretto rapporto fra le lotte di
liberazione nazionale nei paesi coloniali e le mobilitazioni
anti-neoliberiste delle metropoli. Grimaldi, come sempre
anti-conformista, parte da
lontano:
‘’Mi corre l’obbligo di un inciso. Ogni volta che mi si arriva addosso con la storia dei tedeschi tutti complici del nazismo, tutti come nei film degli urlanti ufficiali della Wehrmacht o delle SS, tutti Erich Von Stroheim, subisco un’altra spintarella all’anticonformismo, perlomeno all’anti-luogo comune. E mi ricordo di come noialtri stranieri, cittadini del paese ‘’traditore’’, venissimo ciononostante mantenuti in vita, non solo dalle ortiche raccolte ai bordi della strada e cotte come spinaci, ma anche dal fornaio che ci dava quella pagnotta extra; dalla fabbrichetta di mobili che ci arredava le due stanze gratis; dal contadino che in cambio di un paio di guanti di pelle di mamma ci elargiva uova, verdure, salumi; dalle due sorelle vivaiste che mi davano i semi e mi insegnarono a piantar pomodori su un pezzetto del loro terreno’’.
La fascistizzazione del nemico è stata un’arma adottata per la prima volta, guarda caso, dall’imperialismo USA proprio contro la Germania; il popolo di Kant, Hegel, Marx e tanti altri doveva diventare nell’immaginario collettivo il ‘’volenteroso carnefice di Hitler’’ rafforzando il costrutto ideologico, falso e bugiardo, degli ‘’statunitensi liberatori’’. Contro questa retorica, smentita dagli eventi futuri e dalle guerre dell’imperialismo americano-sionista, si scaglia Grimaldi, un giornalista che non ha mai perso, citando Lukàcs, la passione durevole dell’anti-capitalismo. Gliene rendiamo merito, dato lo spirito dei tempi che promuove la conversione all’imperialismo e all’ideologia capitalista.
Dal numero speciale di "Primo Maggio"
Partiamo dal titolo. La tesi,
che facciamo nostra, è stata formulata da un lavoratore della
Tnt di Bologna in un dibattito a Padova. Bologna e Padova,
l’Emilia e il
nord-est, due snodi importanti del sistema della logistica in
Italia, due snodi importanti del ciclo di lotte dentro e
contro quel sistema che ha
avuto il suo picco nel periodo tra il 2011 e il 2014. A essere
presenti a quel dibattito, insieme a militanti, studenti e
lavoratori precari, erano Si
Cobas e Adl Cobas, i due sindacati di base che maggiormente
sono stati protagonisti di quel ciclo di lotte. Arriviamo ora
velocemente alla
“fine”, o meglio a quello che a quel ciclo di lotte è seguito.
Le imprese della logistica, inizialmente spiazzate dalle lotte
e
dopo aver subito ingenti danni economici e di immagine, sono
riuscite almeno in parte a utilizzarle per un passaggio in
avanti in termini di
innovazione organizzativa, produttiva e in limitata misura
anche tecnologica, in uno scenario – quello italiano – segnato
da una storica
arretratezza del settore rispetto al contesto internazionale.
Le lotte hanno trasformato in un terreno di battaglia questa
arretratezza (fatta
soprattutto di scarsa automazione del processo e
ipersfruttamento di una forza lavoro razzializzata e
retribuita come dequalificata); i padroni hanno
risposto non solo mandando la polizia ai picchetti, come hanno
abbondantemente fatto e periodicamente continuano a fare, ma
innanzitutto tentando di
mettere in produzione il conflitto per i loro fini, costruendo
al contempo nuovi livelli nel governo della forza lavoro.
Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’unità d’Italia.
Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno ed i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero.
Naturalmente era aiutato in questo dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito, nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie.
Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita; un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.
Il cosiddetto ‘modello tedesco’ di crescita ci viene puntualmente presentato come l’avanguardia europea dello sviluppo economico, specialmente se contrapposto ad un’area mediterranea beatamente inefficiente. Le vere ragioni della competitività tedesca vanno tuttavia ricercate nella capacità di produrre a costi più bassi le stesse merci realizzate in altri Paesi (come l’Italia). Questo schema di crescita trainato dalle esportazioni poggia essenzialmente sul contenimento del costo del lavoro e non, come ci viene spesso raccontato, sulla spiccata propensione dei tedeschi ad investire ed innovare processi e prodotti. Tutt’altro che secondario è il ruolo giocato dall’introduzione della moneta unica e dalla conseguente perdita di un naturale strumento di gestione dell’economia: in breve, se fino al 1999 Paesi come l’Italia potevano usufruire della leva del cambio per difendere la competitività delle proprie merci (oltre che l’occupazione ed i salari), con l’euro si è accettato di usare la stessa moneta dei tedeschi, e di conseguenza la competizione internazionale è finita per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori. Questi ultimi sono stati infatti chiamati a sopportare continue riforme del mercato del lavoro (superamento dell’articolo 18 e Jobs Act in ultimo) volte alla moderazione salariale e, dati alla mano, senza effetti positivi sui livelli occupazionali.
Recensione al libro di Pierluigi Fagan
Il libro di Pierluigi Fagan potrebbe avere come sottotitolo una frase che compare nell'ultima pagina: “i Pochi hanno fallito, ora tocca ai Molti”. Questa affermazione è significativa ma al contempo rischia di essere troppo semplicistica ed incapace di riportare la complessità del libro.
Al centro dell'opera c'è il mondo ed i difficili tempi che stiamo vivendo, perché l'89 non fu, come qualche avventato politologo aveva vaticinato, la fine della storia. Gli Stati Uniti sono rimasti per un breve periodo storico padroni incontrastati del globo ma oggi è evidente la forza e l'importanza di altre nazioni che chiedono un nuovo ordinamento multipolare.
La finanziarizzazione dell'economia è stata la cifra che ha caratterizzato la governance globale degli Stati Uniti. La leadership statunitense è però oggi messa in discussione, ma se gli USA non sono più l'unica potenza egemone chi si contrappone a loro? Quali sono le altre forze che ci permettono di parlare di un mondo multipolare? È indubitabile che la sfida principale oggi arrivi da Russia e Cina, ovverosia dall'Eurasia.
L'Autore compie un breve ma efficace excursus sullo sviluppo storico del concetto di Eurasia, da Mackinder a Spykman per arrivare a Brzezinski passando per Karl Schmitt. La paura che storicamente ha guidato la politica estera di Washington è stata che si saldasse un asse fra la Cina, la Russia e la Germania (ovverosia l'Europa).
A quasi un mese delle elezioni non si ha ancora ben chiaro se l’attuale legislatura andrà a costituire l’ennesimo tassello della transizione italiana o il primo atto della Terza Repubblica. Quando ci si riferisce ad una nascente Terza Repubblica ci si riferisce alla costituzione materiale del Paese e agli influssi su di essa del sistema politico, che potranno trovare o meno una cristallizzazione in una riscrittura della Carta del ’48. Nel cui quadro, è bene ricordarlo, hanno trovato viabilità progetti antitetici come il primo centro-sinistra della nazionalizzazione dell’ENEL e il berlusconismo, il riformismo parlamentare degli anni Settanta e il governo Monti. Per dire che la Costituzione del ’48 ha dimostrato una elasticità sostanziale che ha travalicato di gran lunga le proprie rigidità formali.
Nei palazzi del potere si vive un clima elettrizzante e incerto da primo giorno di scuola. Il carattere di novità che si respira nella politica italiana, la vittoria travolgente del M5S, l’entusiasmo che ha generato tra i suoi, hanno gettato una luce di speranza molto costruita a posteriori rispetto alle ragioni che hanno portato parte dell’elettorato a riservargli un così eclatante appoggio: stanchezza, disillusione a prescindere verso le forze politiche tradizionali, scommesse da ultima spiaggia (“le ho provate tutte, proviamo anche loro” ecc.).
Se Di Maio riuscisse ad andare al governo nella casella cruciale di ministro dell’Economia andrebbe un economista quarantenne della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Andrea Roventini, che con Giovanni Dosi ha approfondito la ricerca nel campo dell’innovazione e dello sviluppo economico. Dai suoi studi e dalle prime uscite pubbliche emerge un personaggio convincente
A detta di tutti le elezioni del 4 marzo 2018 hanno segnato uno spartiacque profondo fra il prima e il dopo. Un po’ come avvenne con le elezioni del 1994, che portarono al governo Berlusconi e inaugurarono l’inizio della seconda repubblica. Adesso si parla di terza repubblica o, addirittura, di fine del vecchio secolo e inizio del nuovo. Dei due vincitori delle elezioni – la Lega e il Movimento 5 Stelle – il M5S si candida come il più indicato ad interpretare il “nuovo” perché, a differenza della Lega, ha mietuto ampi successi su tutto il territorio nazionale e si presenta con una vocazione “inclusiva” al cambiamento. Il consenso alla Lega si fonda sul bisogno di sicurezza, sulla paura dell’immigrato, sulla difesa di quello che c’è (il posto di lavoro) o la riconquista di quello che c’era (l’età più favorevole per andare in pensione). Non che queste non siano esigenze comprensibili e in molti casi anche giuste. Ma non fanno pensare a un mondo nuovo, a un orizzonte più ampio, alla società del secondo millennio.
Non vi illudete, non ci sarà
nulla da redistribuire.
Pausa di riflessione pasquale, in attesa delle consultazioni di Sergio Mattarella per formare il nuovo governo. Pivot di qualsiasi combinazione possibile sono ovviamente la Lega e i Cinque Stelle, i “vincitori” della disfida elettorale. Impensabile un governo senza loro due, molto difficile trovare la quadra per un governo con dentro entrambi.
Il nodo vero non sono le intenzioni e i “magheggi” di Salvini e Di Maio, ma quel che saranno costretti a fare, in totale contrapposizione con le promesse elettorali che li hanno portati in cima alla piramide. In estrema sintesi, Salvini ha giurato che “straccerà la Fornero” (la legge, ovviamente) e interverrà sul sistema fiscale applicando un flat tax, ovvero una tassa sostanzialmente uguale per tutte le fonti di reddito (salari, profitti, rendite finanziarie, ecc). Di Maio ha a sua volta garantito che abbatterà i “costi della politica” e introdurrà il reddito di cittadinanza.
Tralasciamo qui l’analisi puntuale alcune di di queste misure, che abbiamo già espresso in molte occasioni (una tassa uguale per tutti è un premio favoloso soltanto per i più ricchi, il reddito di cittadinanza grillino è in realtà un obbligo ad accettare qualsiasi lavoro, eliminare quasi del tutto i “costi della politica” significa consegnare i parlamentari completamente nudi alle “offerte” delle lobby, ecc) e concentriamoci invece sulla realizzabilità di queste misure all’interno del quadro istituzionale ed economico esistente.
Sto pian piano leggendo, nei
ritagli di tempo
concessimi dal lavoro, un’opera di Domenico Losurdo dedicata
alla lotta di classe[1].
Senza perdersi in convenevoli l’illustre cattedratico polemizza sin dalle primissime pagine con i pensatori (quasi tutti transfughi del marxismo convertiti all’idea liberale) che, per compiacere chi li foraggiava, già negli ultimi decenni del Novecento diedero per definitivamente morta la lotta di classe. L’autore ha buon gioco nel dimostrare il contrario, partendo da una frase del Manifesto del ’48 che del libro (e del ragionamento losurdiano) costituisce quasi l’architrave: “La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe”.
Ciò che viene negato non è il fatto, evidentissimo, che la suddetta lotta alterna fasi acute ad altre di relativa stasi, né che il livello di consapevolezza diffuso fra i “combattenti” oscilla a seconda delle epoche storiche (l’ascesa è in genere lenta e contrastata, i crolli vertiginosi): si intende piuttosto contrastare la sicumera di quanti, per ragioni ideologico-propagandistiche, pretendono che assieme alla Storia il capitalismo trionfante abbia schiantato anche la lotta e le motivazioni oggettive e soggettive che ne stanno alla base. Quello dello scontro – aperto o latente - fra le classi è un fenomeno destinato a riprodursi fino a quando queste ultime esisteranno: onestamente la tesi di Losurdo mi sembra inconfutabile.
Tecnopolitica
e protezionismo
Questa settimana The Economist [1] ha dedicato la propria copertina alla battaglia tra Stati Uniti e Cina per la supremazia digitale. Pur adottando il punto di vista del governo americano, l’articolo è molto utile per collocare il delicato confronto in corso nel quadro più vasto delle politiche protezionistiche promosse da Donald Trump. I temi di conflitto sono diversi: mercati on-line; hardware; supercomputer; computazione quantistica; navigazione satellitare; Intelligenza Artificiale; armamenti avanzati; sicurezza nelle telecomunicazioni; potere di imporre gli standard internazionali.
Alcuni tra questi problemi, cruciali per la comprensione delle relazioni internazionali contemporanee, andrebbero approfonditi meglio. Ad esempio, gli articoli dell’Economist collocano la supremazia quantistica al primo posto tra i problemi più urgenti, senza tuttavia spiegare di cosa si tratti. Occupandomi professionalmente di computazione quantistica e di Information Retrieval [2], vorrei cogliere l’occasione per spiegare di cosa si tratta, dato che la funzione della comunicazione quantistica è meno intuitiva a comprendersi rispetto ai sistemi di riconoscimento dei volti o agli impieghi dei droni militari.
Protezionismo
I liberali condannano ideologicamente il protezionismo di Trump. E’invece più interessante da un punto di vista politico ricostruire i motivi della guerra economica cui stiamo assistendo. Ve ne sono diversi: tra i questi, alcuni sono strettamente legati alla tecnopolitica e alla lotta per l’egemonia tra cyberpotenze.
Ieri davamo conto dell'avviso che, tramite Il Sole 24 Ore, le oligarchie europee lanciavano all'Italia, ovvero ai vincitori delle elezioni, leggi Di Maio e Salvini.
Oggi è la volta di Repubblica che rincara la dose e, senza giri di parole, annuncia che la Ue chiederà una "Fornero Bis" per ridurre, come da regole europee, il debito pubblico.
Si tratta di un'anticipazione di quel scriverà la Commissione europea nel rapporto di primavera "Ageing Report 2018".Vedremo, quando sarà reso pubblico, cosa conterrà in dettaglio questo "Ageing Report 2018", ma c'è da scommettere che le anticipazioni di Repubblica sono veritiere.
In buona sostanza la Commissione europea fa capire che non sarà concessa al prossimo governo alcuna deroga alle regole sul rientro del debito pubblico (la "flessibilità"), deroga di cui hanno goduto i governi amici Renzi e Gentiloni. Non c'è insomma, per la Commissione, alcun margine per aumentare la spesa pubblica: «Italiani, scordatevi tutte le promesse dei "populisiti"! Scordatevi che sia possibile farla finita con l'austerità! Siete solo agli inizi del "risanamento"».
Concetti che per la verità la Commissione aveva scolpito nel ponderoso Country Report Italy 2018, evidentemente pronto da settimane ma reso pubblico, non a caso, il 7 marzo, tre giorni dopo le elezioni.
L’Unione Europea garante di pace? Chi continua a sostenere questa menzogna dopo i bombardamenti sui Balcani, la sponsorizzazione dell’aggressione alle regioni russofone dell’Ucraina da parte del regime parafascista di Kiev, le guerre libiche innescate dall’intervento anglofrancese, le ormai innumerevoli partecipazioni alle “guerre umanitarie” che l’Occidente non cessa di alimentare in tutto il mondo, non può che essere in malafede o, nella migliore delle ipotesi, un cretino. Evidentemente anche i più zelanti portabandiera del verbo atlantico se sono resi conto, al punto che non provano nemmeno più a condire il proprio cinismo con appelli a valori e principi universali, ma ricorrono senza tanti giri di parole al linguaggio della più spudorata realpolitik.
Vedasi, in proposito, l’articolo di fondo nel quale Franco Venturini, sul “Corriere della Sera” del 27 marzo scorso, affronta il tema della nuova ondata di sanzioni contro la Russia, a seguito del presunto tentativo di liquidare una ex spia passata al nemico da parte del governo di Mosca. Commentando la decisione di 16 dei 27 Paesi membri della UE di espellere un certo numero di diplomatici russi, “in solidarietà” con l’analogo provvedimento assunto qualche giorno fa dall’Inghilterra, Venturini scrive: “Dubitiamo che i 16 siano tutti convinti dalle prove offerte da Teresa May sulla colpevolezza russa, ma una ferma solidarietà con Londra era comunque necessaria”.
Lo scenario REALE che ci aspetta è una possibile guerra finanziaria contro l'Italia. La campagna elettorale è finita e ora si torna nel mondo reale, che non è fatto di slogan. Ogni governo che vuole rompere deve aver ben chiari rischi ed opportunità ed avere un piano chiaro in mano
Mentre i principali media si preoccupano soprattutto di quel gioco di corte che sono le nomine in parlamento si fa avanti un problema, come dire, di scenario. Quello meno valutato in questi giorni tra giornali che ospitano interviste che servono per le trattative di governo e tv che, stile Bruno Vespa, il governo sognano di farlo addirittura in diretta. Bisogna andare però in Europa per capire un po’ di criticità serie riguardanti la possibile nascita di un governo M5S-Lega (al netto della lista dei ministri). Criticità tali da delineare un nuovo scenario di pericolo per questo paese, dopo quelli che si sono aperti con la crisi di borsa del 2008 e con quella europea del debito sovrano del 2011.
Le previsioni, sbagliate di Bloomberg. Andiamo un attimo indietro: qualche settimana prima delle elezioni, Bloomberg, l’agenzia globale di informazioni e servizi finanziari, in un rapporto valutava al 10% le possibilità che il Movimento 5 Stelle finisse al governo. Allo stesso tempo Bloomberg dava per scontato che la Lega di Salvini rimanesse, volente o nolente, nell’orbita di Forza Italia.
Si profila all’orizzonte un governo Lega-M5S. Difficile, ma non impossibile, e soprattutto non inimmaginabile. Guardando alla composizione sociale del bacino elettorale dei due partiti, si scoprirebbero molte più corrispondenze di quanto a prima vista potrebbe intendersi. Ambedue gli elettorati – quello leghista più omogeneo, quello pentastellato maggiormente frastagliato – condividono lo stesso bisogno di protezione dall’eccessiva mobilità dei grandi capitali. Protezione che altrove, pensiamo all’America di Trump, è stata tradotta con politiche di dazi doganali, per ora più minacciati che reali, e che però hanno come obiettivo quella stessa “difesa” di relazioni produttive scompaginate dall’esplosione del commercio estero. Sembra delinearsi uno scontro tra operatori – siano essi imprenditori o lavoratori – orientati al mercato interno e la parte dell’economia direttamente collegata alla competizione internazionale. Uno scontro che però, stretto in questi termini, si configura come conchiuso tra un polo liberista e uno reazionario. La critica alla Ue – che poi è parte di una più generale critica alla globalizzazione liberista – ha preso forma e forza da destra.
Rivoluzionato il quadro dei partiti e bocciato la politica dell’eurozona: dopo la democratica rivolta elettorale del 4 marzo è tempo di rovesciare la strategia fallimentare adottata dai passati governi. Un compito tutt’altro che facile, ma anche un'occasione da non perdere
E’ spesso complicato interpretare i risultati elettorali quando il sistema non è bipolare e il governo è direttamente consacrato dalle urne. Ma, pur non fornendo una chiara indicazione di governo, il risultato delle elezioni del 4 marzo ha un inequivocabile significato, riassumibile in due punti.
Il primo è il ripudio dei due partiti maggiori: il PD, nelle sue successive varianti, e Forza Italia - i due schieramenti che hanno dominato la scena politica dell’ultimo quarto di secolo. Il secondo è la vittoria netta delle Cinque stelle con un risultato che supera la somma dei voti guadagnati insieme dal PD e da Forza Italia.
Non meno significativo è che il risultato delle Cinque stelle, circa il 33 per cento dei voti espressi, corrisponda al risultato ottenuto in Germania, con il sostegno dei due partiti gemelli (CDU e CSU), da Angela Merkel eletta per la quarta volta alla cancelleria. Se il risultato elettorale del 4 marzo non rivoluziona la geografia politica italiana, bisogna chiedersi che altro dovrebbe succedere.

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Quella che segue è la traccia per la discussione dell’assemblea autoconvocata “Per una sinistra nazionale e popolare”che, su iniziativa degli autori, si terrà a Bologna il 15 aprile 2018, presso l’Hotel Allegroitalia, viale Masini 3 / 4, alle ore 10
1
Le elezioni del 4 marzo ci hanno consegnato un quadro politico davvero nuovo. Il disagio, il rancore, la rabbia prodotta dalle politiche liberiste hanno rotto i vecchi equilibri e premiato M5s e Lega, ovvero quei populismi dati frettolosamente già per già spacciati. Tuttavia, la scomposizione e ricomposizione delle forze è solo agli inizi. Qualunque soluzione venga data al rebus della formazione del governo, essa non potrà che acuire i problemi. Un’ improbabile riedizione del patto del Nazareno approfondirebbe il solco tra l’elettorato ed il vecchio sistema politico. Un governo Lega-M5S farebbe esplodere le contraddizioni con Bruxelles, oppure le sposterebbe all’interno del governo e di ciascuno dei due partner. Un qualche governicchio di transizione, premessa di turbolenze future, sarebbe comunque schiacciato tra le urgenze dell’Unione europea e le impazienze popolari. Non c’è soluzione alla “questione italiana” perché nessuna delle forze in campo ha la volontà o la capacità di metter mano all’ormai ineludibile programma di ripubblicizzazione dell’economia e di piena occupazione, e di scontrarsi su questi punti definitivamente con Bruxelles, fino alla rottura. Non il PD né Forza Italia, ovviamente. Ma nemmeno il M5S a guida Di Maio, che ha già rassicurato gli investitori internazionali; e neppure la Lega, che vuol sostituire il liberismo bavarese con quello lombardo. Non si può uscire fruttuosamente dall’Unione europea (posto che lo si voglia) se si riduce il ruolo della politica alla lotta agli sprechi, se si vuole la spesa pubblica per appropriarsene privatamente, se si continua a volere la flat tax, le privatizzazioni, lo stato minimo.
Una premessa. Mi
pare che i problemi
su cui deve riflettere chi aspira alla rifondazione della
sinistra (perché di questo si tratta, dopo le ultime elezioni)
siano quattro, e
cioè
1) le ragioni storiche della crisi della sinistra tradizionale;
2) le ragioni della sconfitta della sinistra “qui ed ora”;
3) le ragioni del perché molti vedono nei 5s, e anche nella Lega, i soggetti che possono meglio interpretare le proposte tipiche della sinistra (a partire dal welfare);
4) che fare.
C’è chiaramente di che fare tremare le vene ai polsi; ma molti di noi “vecchi di sinistra” (cosa diversa dalla “vecchia sinistra”) hanno pensato a questi problemi, e quindi ha senso riferire su ciò che si è pensato. Prima però una premessa: ciò che dirò -e, credo, ciò che diranno gli altri colleghi e amici di Nuvole – sarà necessariamente generico e provvisorio. Generico perché ciascuno dei punti citati dovrebbe essere (e in effetti è) oggetto di studi molto approfonditi da parte degli scienziati sociali competenti; provvisorio perché non va dimenticato che stiamo vivendo in un’epoca in cui lo sviluppo delle forze produttive, per usare la terminologia marxiana, ovvero della tecnologia, per usare quella corrente, procede a ritmi frenetici; e lo stesso vale per i cambiamenti ambientali e per i metodi (e le probabilità) di nuove guerre. Per fare un esempio, tutte le analisi previsionali fatte fino a quarant’anni fa sono inevitabilmente errate, dato che non consideravano l’esistenza di internet.
Cominciamo.
Con questo articolo, Michele Nobile inizia ad approfondire l’analisi della politica estera dell’amministrazione Trump - iniziata con «La politica estera degli Stati Uniti e le contraddizioni di Trump: questioni di metodo» - partendo dalla National Security Strategy recentemente pubblicata. [la Redazione]
1. Introduzione
Sul finire dello scorso anno l’amministrazione Trump ha pubblicato la sua National Security Strategy, il rapporto sulla strategia di sicurezza nazionale che il presidente degli Stati Uniti è tenuto a presentare annualmente al Congresso (d’ora in poi indicato con la sigla NSS seguita dalla data). È legittimo chiedersi quale interesse possa avere un documento come una NSS: di sicuro non vi si trovano piani d’azione militari, neanche nei termini generali. Una NSS è frutto di compromessi in seno all’amministrazione ed è spesso superata da sviluppi non previsti; d’altra parte, la disponibilità dei mezzi previsti per conseguire gli obiettivi indicati può ben superare, e di non pochi anni, la durata dell’amministrazione che l’ha prodotta.
I dubbi aumentano di fronte a un presidente come Trump - contestato dagli specialisti di politica estera e militare del suo stesso partito - e alla serie di dimissioni di personale di alto livello, sia per contrasti col Presidente che imposte dai risultati di indagini. Dei trenta Segretari di Stato del XX secolo, Rex Tillerson è fra i sei che sono rimasti in carica per meno tempo e per il periodo successivo alla fine della Guerra Fredda solo Lawrence Eagleburger durò meno; l’amministrazione Trump è al terzo Consigliere per la sicurezza nazionale in poco più di un anno, mentre nell’arco di otto anni Clinton e Bush Jr. ne ebbero solo due e Obama tre.
Ultimi colpi di coda della Rai asservita al PD: il monologo sulla Siria di Roberto Saviano.
“Dei circa 400mila abitanti da cui è abitata Ghouta, circa la metà sono bambini” (…) “La tattica è sempre la stessa prima accerchia tutta la zona, la isola la affama e poi la bombarda.”
E perché mai Assad si sarebbe ostinato ad assediare e bombardare indiscriminatamente una così inerme area?
Sarebbe bastato domandarlo alle decine di migliaia di inermi civili di Ghouta che oggi festeggiano la loro liberazione. Inermi civili usati come scudi umani dai “ribelli” (così cari all’Occidente) intenti da anni a massacrare con missili e colpi di mortaio la popolazione di Damasco. Inermi civili oggi, finalmente liberi grazie ai corridoi umanitari ottenuti dallo stato siriano in cambio del salvacondotto concesso ai “ribelli” che, con pullman organizzati dalla Croce Rossa Internazionale, hanno potuto allontanarsi incolumi. Una evacuazione, come quella di Aleppo est, finalizzata a scongiurare un bagno di sangue e condotta alla luce del sole. Non come è stato fatto a Mosul (ridotta ad un mare di macerie dai bombardamenti statunitensi) dove colonne di “ribelli” sono state fatte allontanare dagli USA - in gran segreto e carichi di armi, anche pesanti - in cambio del loro impegno a continuare la mattanza in Siria.
Lo scorso 23 marzo sono entrati in vigore negli Stati Uniti i nuovi dazi, che prevedono tassazioni sulle importazioni di acciaio e alluminio rispettivamente del 25 e del 10 per cento. Il decreto era stato firmato da Donald Trump l’8 marzo. Una decisione che sconvolge davvero gli assetti economici globali? Andrea Fumagalli ha commentato per noi la decisione del presidente statunitense. (leggi anche: America first. Trump e il liberprotezionismo di Antonio Pio Lancellotti)
Stiamo attraversando una fase segnata da una tensione commerciale tra varie aree del globo. Tensione iniziata non soltanto con l’avvento di Trump alla Casa Bianca, ma che ha avuto i prodromi già alcuni anni fa, quando sono partite le sanzioni commerciali europee nei confronti della Russia di Putin, in seguito all’affare Ucraina e all’annessione della Crimea.
Questo è stato il primo momento in cui si è sviluppata una tensione all’interno di quella che, fino all’epoca, poteva essere considerata una convergenza verso forme di globalizzazione più o meno senza ostacoli.
L’elezione di Trump alla presidenza statunitense ha aumentato in maniera rilevante queste tendenze, attraverso un’ideologizzazione del ritorno a politiche protezioniste, all’interno del quadro neo-sovranista e neo-nazionalista. Un quadro nel quale troviamo, peraltro, anche la stessa Russia e la Gran Bretagna, in seguito al processo di Brexit, che vede una certa difficoltà ad attuarsi nei rapporti con l’Unione Europea, soprattutto in ambito commerciale.
Al tempo della museificazione del socialismo, era la quantità di stellette e onorificenze appuntate sul petto a distinguere i dirigenti dal popolo. La feticizzazione del riconoscimento aveva una sua logica: veniamo dalla merda – era il ragionamento implicito – abbiamo lottato e sofferto, siamo stati torturati e uccisi, ci avete fucilato, imbavagliato, bombardato, seviziato, incarcerato, affamato, ma abbiamo vinto lo stesso, e ora ci appuntiamo tutte quelle medaglie al valore che la storia ci ha sempre negato. Quelle medaglie che segnavano il confine di classe, la linea non oltrepassabile neanche dal self made man liberale, sono oggi le nostre medaglie. Giusto o sbagliato che fosse, era comprensibile. Quei tempi però sono finiti. Oggi viviamo un’altra epoca, una traiettoria che, nella sua ovvia singolarità, rimanda ad altre fasi, altri movimenti storici. Siamo, come agli esordi della modernità, nell’epoca della massima dipendenza delle classi subalterne al canone politico-culturale borghese. Oggi siamo costretti a far vivere le rivendicazioni di classe dentro un campo totalmente occupato da linguaggi, stilemi, costruzioni ideologiche appartenenti alla cultura padronale.
Un caso spionistico inconsistente, intorno al quale i paesi europei fanno quadrato, e non si capisce perché. Non è il solo indizio intorno al quale si sta costruendo una mitologia della nuova guerra fredda, che se non stiamo attenti finirà per avverarsi. E non è una bella notizia
In un suo libro meraviglioso (Sapiens – Da animali a dei – breve storia dell’umanità), Yuval Noah Harari, docente di Storia alla Hebrew University di Gerusalemme, analizza la funzione dei miti nell’organizzazione delle società complesse. E scrive: “Crediamo in un particolare ordine non perché sia oggettivamente vero ma perché crederci ci permette di cooperare efficacemente”. Oggi basta guardarsi intorno, con la tensione tra Russia, Usa ed Europa che sale di settimana in settimana, per trovare evidente conferma dell’intuizione di Harari.
Quella che spinge la russofobia imperante è ormai una vera mitologia. Prendiamo le ultime rivelazioni. Per esempio il “caso Skripal”. Si parla di un vecchio arnese dello spionaggio, un doppiogiochista fuori dai giochi da vent’anni che si arrabattava con un po’ di consulenze. Già è curioso che di colpo Vladimir Putin (perché gli inglesi hanno detto che l’ordine veniva dal Cremlino) si ricordi di Skripal. Ancor più curioso che gli venga di colpo voglia di ucciderlo. Straordinariamente curioso, poi, è che si pensi di ammazzarlo con gas nervino.
"Al prossimo giro tocca a noi"? Su politica estera e questioni sociali è in realtà imminente il collasso di ciò che rimane a sinistra. PAP se c'è batta un colpo
Se
richiamano i diplomatici russi, Giggino e Salvino si prendono
Marx XXI, L'Antidiplomatico e forse anche il PCI-Pdci, dopo
essersi presi tutto il giro
di Giulietto Chiesa e i feticisti del No-Euro.
L'altra metà dei compagni invece sta con Gentiloni che li ha espulsi e con gli euromani.
Lo smottamento nel nostro campo è destinato a diventare presto una frana. I realpolitici di casa nostra saranno irresistibilmente attratti dal filo-putinismo di facciata e dal giro di vite retorico sui migranti, decoro urbano, legalità, ecc. ecc., mentre quelli un poco più normali fuggiranno per non restare soli con i frufru e i mistici del Rojava.
Lo stesso discorso si può fare rispetto al conservatorismo neoliberale compassionevole che sarà la cifra del prossimo governo nelle politiche sociali.
Quando poi le forze in campo getteranno la maschera e la bolla si sgonfierà, questi non li ripigli più. Altro che "al prossimo giro tocca a noi"! Siamo nel pieno di un'offensiva egemonica alla quale sarà molto difficile resistere. Il tempo passa e fino a questo momento PAP non ha proposto uno straccio di niente.
Un ebook collettaneo, edito dalla Fondazione Feltrinelli, analizza il fenomeno del populismo evitando visioni manichee e catastrofiste, nel tentativo di comprenderlo nella sua complessità. Che cosa lo rende diverso dalla democrazia, visto che entrambi sono fondati sul principio di maggioranza? Pubblichiamo un estratto dal capitolo di Nadia Urbinati, secondo la quale solo a partire dalla comprensione del populismo come maggioritarismo si può affrontare criticamente il rapporto fra esso e la nostra Costituzione - Per acquistare l'ebook
L’unificazione
in alternativa al pluralismo è la dinamica strutturale del
populismo nel governo rappresentativo come la demagogia lo
era rispetto al governo diretto. Bisogna tener presente che
l’impatto dell’appello al popolo è diverso in questi due casi.
Infatti,
nel governo rappresentativo, la sfera dell’opinione ha più
grande rilevanza perché il potere legislativo non è qui a
disposizione diretta del popolo; è dunque prevedibile che
l’impresa populista si sviluppi nella dimensione ideologica e
che possa in
teoria restare un fenomeno di opinione, senza conquistare il
governo. Diverso è il caso della demagogia antica che aveva un
impatto diretto,
non solo sull’opinione ma anche sulla legge perché operava in
un’assemblea di cittadini dotata del potere sovrano immediato.
Tenendo conto di questa differenza tra le due forme di governo
democratico, mi servo dell’analisi della demagogia antica per
illustrare la
relazione conflittuale che essa aveva con la democrazia e
proporre un parallelo con l’azione del populismo nel regime
rappresentativo: in
entrambi i casi centrale è l’uso e l’abuso del principio della
maggioranza.
Le scienze sociali che usano come
unità
metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la
Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione
delle teorie, si
accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando
quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La
“Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle
interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che:
a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più
complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua
volta, un riduzione della narrazione storica.
Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata, il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”. Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.
La diffusione di attività produttive1 e lavori organizzati e mediati tramite dispositivi digitali ‘intelligenti’ viene da più parti identificata come una ‘rivoluzione’. Da un punto di vista strettamente tecnologico, tuttavia, la digitalizzazione e l’uso dell’Intelligenza Artificiale nella produzione, nel consumo e nelle relazioni lavorative non può definirsi una rivoluzione quanto piuttosto un approfondimento di due tendenze in corso da quasi un trentennio: i) l’imporsi dell’ICT quale paradigma tecnologico dominante ii) l’abbattimento delle barriere spazio temporali in un crescente numero di domini socio-economici. Tecnicamente, dunque, non siamo di fronte ad una rivoluzione tecnologica. Siamo però di fronte al diffondersi di un modello di business caratterizzato da radicale innovatività. Un’innovatività che coincide con la capacità che le imprese digitali hanno – si prendano, a mo’ di esempio, le più note piattaforme digitali quali Google, Amazon o Uber – di creare, plasmare e monitorare mercati (reti) rendendo i limiti spazio-temporali che han sin qui delimitato (e implicitamente disciplinato) le relazioni socio-economiche sempre meno rilevanti.
Su cosa si fonda questo nuovo modello di business? Sulla capacità che le imprese digitali hanno di estrarre, archiviare, controllare e manipolare le informazioni (digitalizzate) concernenti i nodi (utenti, consumatori, lavoratori, fornitori, istituzioni) che popolano le reti – reti che potremmo definire ‘mercati allargati’ o ecosistemi – che le stesse imprese dominano.
L’amico Aldo Giannuli invita tutta la sinistra o ciò che di essa rimane ad incontrarsi in una sorta di Stati Generali http://www.aldogiannuli.it/rifondare-la-sinistra/ per capire il da farsi dopo l’evidente legnata elettorale.
Al di là della generosità e dello spirito di buona volontà che emerge dalle sue parole, mi pare però che la sua sollecitazione sia attraversata da una impostazione decisamente politicista, e per questo (ma non solo) non condivisibile su diversi punti fondamentali che mi accingo a spiegare.
Innanzitutto, io credo che prima di capire il da farsi alle prossime elezioni, siano esse le europee del 2019 o le eventuali politiche anticipate (date dall’impossibilità di formare un governo con un minimo di omogeneità politica e programmatica), sia molto più importante capire cosa si vuol essere e cosa si vuol fare da grandi, come si suol dire. Giannuli suggerisce invece di mettersi a tavolino per capire come mettere insieme una possibile ulteriore nuova formazione politica (come se non ne fossero già stati fatti fin troppi, nella storia della sinistra, di simili tentativi sistematicamente naufragati…) che possa comprendere in un unico contenitore ciò che rimane della sinistra
La Costituzione italiana si occupa specificatamente della cittadinanza solo all’art. 22, stabilendo il principio per cui non si può esserne privati per motivi politici.
Nel 1948 la Costituzione repubblicana si preoccupava di riconoscere espressamente la libertà di emigrazione e di sancire la tutela del lavoro italiano all’estero, disinteressandosi invece dei problemi legati all’immigrazione (allora inesistenti), salvo il richiamo al diritto d’asilo, ovvero fondando lo “statuto costituzionale” degli stranieri essenzialmente sul diritto internazionale (art.10).
Dal testo della Costituzione italiana mancano, quindi, specifiche norme sull’immigrazione. Fra le eccezioni possiamo annoverare il celebre articolo 3 che afferma il principio di uguaglianza dinanzi alla legge «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ciò significa che lo status dell’individuo dinanzi alla legge non dipende dalla sua origine nazionale. La Corte costituzionale ha peraltro rimarcato più volte che il principio di uguaglianza e il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo (previsti nell’art. 2) valgono anche per lo straniero.
«Putin userà il Mondiale di calcio come Hitler usò l’Olimpiade del 1936, cioè per dissimulare il brutale, corrotto regime di cui è responsabile»: questa dichiarazione ufficiale del ministro degli esteri britannico Boris Johnson dimostra a quale livello sia giunta la campagna propagandistica contro la Russia.
In una vignetta sul giornale britannico The Guardian, ricalcata da un manifesto nazista degli anni Quaranta, la Russia viene rappresentata come un gigantesco ragno, con la testa di Putin, che ghermisce il mondo. È la Russia accusata di aver avvelenato in Inghilterra un suo ex ufficiale, arrestato per spionaggio 12 anni fa e rilasciato 8 anni fa (quindi non più in possesso di informazioni sensibili), usando per avvelenare lui e sua figlia l’agente nervino Novichok di produzione sovietica (così da lasciare volutamente l’impronta di Mosca sul luogo del delitto).
La Russia accusata di penetrare con eccezionale abilità nelle reti informatiche, manipolando perfino le elezioni presidenziali negli Stati uniti («un atto di guerra» lo ha definito John Bolton, nuovo consigliere per la sicurezza nazionale).
L’esito dell’ultima partita elettorale nel Mezzogiorno è inequivocabile. Il Movimento 5 Stelle ha straripato, forse contro le sue stesse attese. Ha raggiunto di slancio, e spesso superato, la soglia del 40%, tranne che in Lazio, dove è decisamente al di sotto. Due le spiegazioni possibili e cumulabili. La prima è che i 5 Stelle abbiano pagato le gaffe di Raggi; la seconda è che siano stati bloccati dalla buona reputazione di Zingaretti, che si è per giunta presentato alle regionali col sostegno di tutto il centrosinistra.
A spese di chi è avvenuto lo straripamento? È da ricordare anzitutto che già nel 2013, a quattro anni dalla fondazione, il M5S prese il 25% sia a livello nazionale, sia nel Mezzogiorno, attraendo voti da ogni parte, con una preferenza, significativa, per il centrosinistra. Tra il 2013 e il 2018 il Movimento ha poi accelerato la sua crescita nel Mezzogiorno, specie sul conto del centrosinistra: Pd e Liberi e Uguali messi assieme hanno perso tra 6 e 10 punti.
Il centrosinistra ha insomma perso male ed è stato soprattutto abbandonato dai ceti deboli. I risultati dei quartieri borghesi di Napoli e Palermo non sono entusiasmanti, ma, come nel resto del Paese, descrivono tanto il Pd quanto Leu come partiti di ceti benestanti urbani.

È
difficile trovare nel dibattito politico-economico nostrano e
internazionale un tema più discusso di quello relativo al
contenimento del debito
pubblico. Sappiamo bene, infatti, come la diminuzione del
rapporto tra debito pubblico e PIL sia tra le stelle polari di
ogni politica suggerita da
Bruxelles in merito alla governance economica dell’Eurozona.
Storicamente questa preoccupazione è sfociata nella firma di
trattati
internazionali quali Trattato
di Maastricht,
Fiscal Compact, Six Pack, tutti incentrati sul
contenimento di questo rapporto, che come da prescrizioni non
può superare la soglia del
60%.
Diverse questioni potrebbero essere sollevate parlando di questa tematica. Tuttavia, in questo contributo ciò che ci preme è provare a rispondere ad una semplice domanda: è vero che le misure di austerità – propugnate dalle istituzioni internazionali come rimedio perfetto per questo “problema” – portano ad una riduzione del rapporto debito pubblico/PIL?
Per stabilire quale sia la risposta corretta, abbiamo bisogno di due valori, ossia sapere di che entità siano il rapporto PIL/debito (non debito/PIL, questa volta) e del moltiplicatore fiscale dell’ economia di nostro interesse. Per quanto concerne il primo indicatore, notiamo come a un alto rapporto debito/PIL corrisponde un basso valore del corrispettivo PIL/debito; ciò è intuitivo, visto che la seconda misura è semplicemente l’inverso della prima. L’Italia, ad esempio, ha un rapporto debito/PIL di circa il 130%, il che significa un rapporto PIL/debito del 77% (1/1.3 = 0.77).
1.
Quando la democrazia parlamentare non sa recuperare al suo
interno i movimenti, la democrazia stessa entra in crisi
Il risultato elettorale delle politiche del marzo 2018 è solo l’ultimo strascico del disastro che ha seguito la mancata risposta della sinistra istituzionale e delle élite dirigenti del paese ai movimenti, pragmatici e niente affatto millenaristici, dei millennials, per il rinnovamento dell’università, per l’acqua bene comune, contro il precariato, contro il nucleare, contro la devastazione ambientale, ecc. Lo stesso statuto del Pd, mettendo nelle mani la carica di segretario ai cittadini non iscritti al partito (e potenzialmente condizionabili dai media mainstream), metteva fuori gioco ciò che restava della base dei militanti, e insieme i contatti coi territori e coi movimenti che questa poteva fornire.
Si è ripetuto almeno per certi versi lo schema degli anni ’70, quando una parte della classe dirigente, sinistra in testa, aveva capito che la risposta al millenarismo rivoluzionario di allora doveva essere una serrata stagione di riforme sociali, ma la resistenza conservatrice dell’establishment alle riforme, la criminalizzazione dell’idealismo rivoluzionario e oscure trame interne e internazionali condussero alla stagione del terrorismo e della fuga nel privato. Questa volta però una diretta e pesantissima responsabilità tocca anche alla sinistra istituzionale, e cioè essenzialmente al Pd: non ha saputo/voluto mettersi in relazione coi movimenti e ha fatto da scendiletto del governo Monti, paracadutato dalla Ue. I risultati sono stati, più ancora che la fuga nel privato, l’emigrazione all’estero, o dal sud al nord, dei nostri laureati, l’indebolimento cronico dei movimenti o la loro normalizzazione dentro il M5S, e, infine, il successo elettorale di quel partito e l’astensione di molti giovani.
Quando
si entra nel campo dell’onnipotente sacralità inviolabile
della legge, della sua natura e del fondamento del diritto,
sembra quasi che i
principi più elementari della legislazione, del
costituzionalismo e delle istituzioni giuridiche in genere,
sbandierati come eterni, sacri e
immutabili, siano appannaggio universale, se non esclusivo,
della tradizione liberale (termine immemore della sua
ascendenza autoritaria e
ghigliottinarda), nonché della democrazia moderna, a sua volta
erede compiaciuta della tradizione liberale come di quella
della polis greca
più antica da Pisistrato a Pericle ateniese (a dispetto della
schiavitù, componente integrante delle sue istituzioni). Modi
e forme,
questi, atti a magnificare la civiltà occidentale in quanto
retta dalle leggi che, nella loro apparente universalità,
sarebbero uguali
per tutti, più delicate e paciose della restanti forme
dispotiche, violente, brutali nella sottomissione dell’altrui
volontà, o in
preda alla legge della giungla, alla barbarie, ossia a quella
condizione in cui ciò che si conquista o si ottiene lo si
ottiene appunto con la
forza bruta esercitata sulla comunità o semplicemente a
detrimento di altri. Ma gli orpelli della civiltà, con i suoi
codici civili e le
sue leggi, non possono più oggi celare il lato diabolico di
questa ostentata sacralità, il fatto che quelli che persino i
lavoratori
più sindacalizzati invocano come diritti costanti o come
rispetto della dignità sono solo il risultato di lotte dure,
senza esclusione
di colpi, di uso della forza. Viceversa la forza della legge
(ius, da iubeo= comando) non è che il risultato di un potere
conseguito con
coercizione, ricatto o con una violenza fisica originaria,
spesso cinica, prepotente e cieca.
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Il 12 marzo 1922 la rivista di filosofia “Pod
znamenem marxizma” pubblica un articolo di Lenin, divenuto poi
celebre, su Il
significato del materialismo militante. È un testo
volto a delineare una strategia di battaglia e di resistenza
culturale alla
pervasività dell’ideologia borghese e che contemplava, tra
l’altro, anche la pianificazione di un lavoro collettivo di
studio delle
applicazioni della dialettica hegeliana interpretata dal punto
di vista materialistico. È interessante rileggere per esteso
le raccomandazioni
del rivoluzionario bolscevico perché, a nostro avviso,
rappresentano l’introduzione più stimolante ad uno scritto che
tematizza
specificatamente la nozione di dialettica nei testi di Lenin:
«In mancanza di una base filosofica solida non vi sono scienze naturali né materialismo che possano resistere all’invadenza delle idee borghesi e alla rinascita della concezione borghese del mondo. Per sostenere questa lotta e condurla a buon fine lo studioso di scienze naturali deve essere un materialista moderno, un sostenitore cosciente del materialismo rappresentato da Marx, vale a dire che deve essere un materialista dialettico. Per raggiungere questo obiettivo i collaboratori della rivista “Pod znamenem marxizma” debbono organizzare uno studio sistematico della dialettica di Hegel dal punto di vista materialista, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale e nei suoi scritti storici e politici con un successo tale che oggi, ogni giorno, il risveglio di nuove classi alla vita e alla lotta in Oriente (Giappone, India, Cina), – vale a dire il risveglio di centinaia di milioni di esseri umani che formano la maggioranza della popolazione del globo e che per la loro inattività e il loro sonno storico hanno condizionato finora il ristagno e la decomposizione in molti Stati avanzati dell’Europa, – il risveglio alla vita di nuovi popoli e nuove classi conferma sempre più il marxismo.
1. Quando parlammo più di recente della "ipotesi Calamandrei" - cioè che quando si disapplicano, per via di trattato internazionale non filtrato dall'art.11 Cost., i principi e i diritti fondamentali della Costituzione, quest'ultima "non è semplicemente modificata ma distrutta" onde "si ritornerebbe allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche sarebbero di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario"-, finimmo per parlare, inevitabilmente, dell'incombente soluzione Citigroup.
Vale a dire, del prevalere del mito, extratestuale rispetto ai principi fondamentali della Costituzione del 1948, della c.d. "governabilità", assunta a principio-guida a prescindere da qualsiasi limite legale-sostanziale posto dalla Costituzione all'azione di un (salvifico?) governo.
Una formula, questa della governabilità (qui, in "Appendice di Teoria dello Stato"), che accanto ad altre (in specie il debito pubblico...come in una famiglia, qui e qui), in modo apparentemente ragionevole e persino para-legalitario (v. sotto p.5.1.), assume la prevalenza conclamata dell'ordine internazionale dei mercati sulla sovranità democratica costituzionale e pone le condizioni concrete per il definitivo superamento di ogni labile facciata della asserita continuità dello Stato di diritto costituzionale ante e post irruzione del "vincolo esterno".
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A proposito di omaggi (non richiesti) ad uno dei vincitori delle elezioni del 4 marzo scorso, nel periodo pasquale il “Correre della Sera” ha pubblicato un caustico corsivo di Aldo Grasso sulla “sinistra creativa”, avente come bersaglio l’elogio di Matteo Salvini tessuto da un mediocre attore che, per qualche tempo, è stato un ‘testimonial’ di tale sinistra in quel mondo infido e proteiforme che è il mondo dello spettacolo.
Nella sua replica il panegirista ha provocatoriamente rincarato la dose, arrivando a qualificare il ‘leader’ della Lega come “il miglior politico degli ultimi trent’anni”. Tuttavia, preoccupato di non dare l’impressione di essere andato in soccorso del vincitore, non solo ha fatto presente di aver votato per LeU, ma è ricorso ad un sofisma con cui ha cercato di fugare quell’impressione affermando che dire che la Juventus è stata la squadra più forte degli ultimi 7 anni non significa essere uno juventino. Ma basta riflettere un poco per capire che il caso in questione è differente, perché affermare che Salvini è “il miglior politico degli ultimi trent’anni” non è fare una constatazione di fatto (come quella riguardante la Juventus), ma esprimere un preciso giudizio di valore.
La serietà non è più di questo mondo, ammesso che lo sia mai stata. A conclusione dell’ultimo Consiglio Europeo, che ha deciso una raffica di sanzioni diplomatiche contro la Russia per il presunto tentato omicidio al gas nervino, il Presidente del Consiglio Gentiloni ha dichiarato che le decisioni del vertice sono condivise ma che non bisogna chiudere la porta al “dialogo”. In linguaggio diplomatico “dialogo” significa “affari”, business. Come a dire: se la NATO vuol continuare a criminalizzare Putin, si accomodi e noi ci accodiamo, ma lasciateci fare qualche affaruccio sulle forniture di gas.
Questa schizofrenia non è soltanto italiana. Il giornalista Bernard Guetta, voce informale ma “autorevole” della politica estera francese, spinge la sindrome dissociativa sino al delirio in fase acuta. Guetta propone infatti una politica della “mano tesa” alla Russia, rimanendo però negli schemi della narrazione euro-americana, cioè contestando alla Russia le ingerenze in Ucraina (ma lì il colpo di Stato nazista chi lo ha organizzato se non la NATO?), l’occupazione della Crimea (ma una Russia senza basi in Crimea quanto durerebbe?) e l’appoggio al “criminale” Assad (e i galantuomini jihadisti in Siria chi li arma?).
Il 24 marzo 1999, la NATO, senza mandato dell'ONU e con la partecipazione dell'Italia, governata allora da un esecutivo presieduto da Massimo D'Alema, scatenava una criminale guerra contro la Jugoslavia, provocando morte e distruzione.
L'anno dopo, (nell'ottobre 2000) un colpo di Stato orchestrato da forze filo-imperialiste (che godevano anche dell'appoggio internazionale di settori della cosiddetta "sinistra radicale", con il Manifesto che arrivava addirittura a titolare "La Rivoluzione d'Ottobre") rovesciava il presidente Milosevic, per poi arrestarlo e consegnarlo al Tribunale dell'Aia che lo avrebbe fatto morire in carcere con accuse infamanti che, recentemente, lo stessa corte ha riconosciuto completamente infondate.
Nel frattempo, sarebbe iniziata la penetrazione della NATO ad Est, che l'avrebbe portata ai confini della Russia, oggi minacciata seriamente da una guerra di aggressione che, purtroppo, non sembra turbare più di tanto l'opinione pubblica italiana e neppure pezzi di quella "sinistra radicale" che, anche oggi, sembrerebbe accodarsi alle manovre propagandistiche della NATO (questa volta per quanto riguarda il Medio Oriente) e alle sue campagne all'insegna della russofobia.
«We used to make shit in
this country, build shit. Now we just put our hand in the
next guy’s pocket». È con questa frustrazione che Frank
Sobotka,
personaggio della seconda stagione di The Wire,
traccia una sorta di parabola del capitalismo americano.
Iniziare una recensione con questa
citazione ha chiaramente un intento provocatorio, eppure le
parole di Frank Sobotka non debbono essere così facilmente
archiviate come pensieri
superficiali o qualunquisti. Questo non solo perché The
Wire è una serie TV che ha saputo cogliere elementi
importantissimi
della società americana (e non solo)[1], ma anche perché a 10
anni da una crisi che le economie avanzate non sono ancora
riuscite a superare, appare
chiaro come lo sviluppo che il capitalismo ha avuto negli
ultimi decenni mostri debolezze strutturali.
In un certo senso, le stesse tematiche le ha affrontate Bernie Sanders nei primi anni Duemila quando faceva presente all’allora governatore della Fed, nonché paladino della deregulation e delle liberalizzazioni, Alan Greenspan che negli USA i casi di bancarotta erano aumentati del 23%, che gli investimenti privati stavano toccando i livelli più bassi degli ultimi 50 anni e che i guadagni degli amministratori delegati erano 500 volte maggiori di quelli dei lavoratori[2]. Molti di questi temi vengono affrontati dagli autori del volume Ripensare il capitalismo, a cura di Mariana Mazzucato e Michael Jacobs: l’idea alla base del loro lavoro è che gli insuccessi del capitalismo siano collegati a quelli della teoria economica e che, pertanto, sia necessario rivedere il pensiero economico dominante in modo che si possa tradurre in una nuova politica economica.
«Populisti, vil razza dannata!».
Pianti, lamenti e lai, anatemi borghesi ottocenteschi a
esorcismo delle “classi pericolose” alimentano il
narcotraffico dei media di
regime. Il sistema democratico è in pericolo. L’onda lunga
dell’insorgenza diffusa e popolare contro ogni mediazione
liberista e
socialdemocratica tra potere politico e «popolo» (il popolo
«sovrano» della Costituzione inattuata del 1948) che il 4
dicembre
2016 ha abbattuto con un sonoro no la “riforma”
anticostituzionale della banda Renzi, grazie a un imprevisto
protagonismo degli
elettori ignoti (maledette elezioni!), il 4 marzo ha stravolto
(anche questa volta con esiti imprevisti) un quadro politico
già a rischio di
«ingovernabilità». Il disegno furbastro del Pd di resuscitare
il patto del Nazareno grazie a una legge elettorale anti M5S
si
è rovesciato nella disfatta del Pd, nella forte affermazione
del M5S (primo partito nazionale), nello squilibrio dei
rapporti di forza
all’interno della coalizione di destra (sconfitta di Forza
Italia e affermazione della Lega come primo partito della
coalizione). Numerosi
articoli di questo numero del «Ponte» analizzano i risultati
elettorali, con punti di vista diversi e diverse valutazioni,
come si addice
a una rivista di aperto dibattito politico.
Mi preme sottolineare le tendenze che i dati elettorali rivelano:
1) l’astensionismo è stato un fenomeno contenuto, in controtendenza rispetto alle precedenti elezioni politiche e amministrative;
2) il voto al M5S, maggioritario nei collegi del sud e in alcune aree del centro e del nord, ma diffuso in tutto il paese, è stato prevalentemente un voto giovanile (classi di età: 18-35) e popolare;
Non proprio da che mondo è mondo, però da che Il capitale è Il capitale, si è sempre discusso se in Marx ci sia o no una teoria del crollo inevitabile del capitalismo. Personalmente sono sempre stato per il no fin dai tempi della mia lettura integrale del Librone, più di quarant’anni fa; ma qui bisogna precisare, innanzitutto, a che cosa mi sento di rispondere “No”. Infatti se riflettiamo su una domanda come “In Marx c’è una teoria del crollo inevitabile del capitalismo?” vediamo subito che va divisa in due, abbastanza diverse:
A) Marx credeva nel crollo inevitabile del capitalismo?
B) Si può desumere dal testo del Capitale che il capitalismo inevitabilmente crollerà?
Sebbene io non legga nemmeno il pensiero dei vivi, figuriamoci quello dei morti, non vedo come non si possa rispondere affermativamente ad A. Tutto quello che sappiamo di Marx va univocamente in direzione del “Sì”. Ma per B le cose sono completamente diverse, e in questa noticina sosterrò che il testo invocato da buona parte degli interpreti per sostenere che Marx dimostra questa faccenda del crollo inevitabile non la dimostra affatto.
Piccola chiosa prima di andare avanti: questo è un problema di cui si discute, come ho già accennato, da quando (1895) grazie alle fatiche di Engels leggiamo tutti e tre i volumi del Capitale, ma fa un effetto un po’ strano riprenderlo oggi che in Europa (non in Asia, e io non so di autori che abbiano cercato seriamente di spiegarsi questa differenza) sono stati i regimi “socialisti” a crollare1. Sono convinto tuttavia – e qui cercherò di mostrare – che la questione conservi un notevole interesse.
Ve lo ricordate il panico generato da quei misteriosi strumenti finanziari chiamati in via confidenziale “derivati tossici”? Travolse, in modo particolare tra il 2005 e il 2008, le casse degli enti locali, con conseguenti tagli draconiani ai servizi per il cittadino. Oggi sappiamo che la Commissione Europea ha emesso una sentenza, vincolante sul sistema giudiziario di ogni paese, che autorizza risarcimenti integrali. È stata emessa nel dicembre 2013 ma, misteriosamente (cioè grazie al grande potere di interdizione del sistema bancario), è stata pubblicata solo tre anni più tardi. Quel che stupisce ancor più è che gli enti locali non si siano certo affrettati ad agire di conseguenza, tutelando la propria funzione pubblica e sociale, i cittadini e la ricchezza collettiva prodotta. Sarà perché siamo di fronte all’ennesima sottrazione di ricchezza alle comunità locali, operata dalle banche con la complicità, ingenua o consapevole, di molti amministratori?
Una sentenza della Commissione Europea permette a singoli cittadini, imprese ed enti pubblici di chiudere tutti i contratti, stipulati tra il 2005 e il 2008, di mutuo, prestiti e derivati, che avevano, nel contratto, un tasso variabile legato all’Euribor, riconoscendo agli stessi il diritto al risarcimento. La sentenza è il “caso AT 39914” del 3 dicembre 2013, pubblicata dalla Commissione Europea solo a fine 2016 (!), ma ormai interamente operativa e attivabile da qualsiasi soggetto coinvolto.
Dal voto sono ormai passate due settimane e si stanno moltiplicando gli interventi dell'Unione europea, e in subordine della Confindustria nostrana, per influire sulle politiche economiche e di bilancio che il futuro governo dovrà assumere.
La novità, peraltro relativa (si ricorderà la famosa lettera della Bce del 2011 che ha direttamente condizionato e ispirato le politiche dei governi successivi), è rappresentata dal monito lanciato dal commissario della Ue agli Affari economici, Pierre Moscovici, nel corso dell'audizione al Parlamento europeo, direttamente all'Italia rea di avere un livello elevato di debito pubblico. Naturalmente Moscovici afferma che "La Commissione Ue non vuole entrare nel processo democratico italiano o chiedere riforme che siano impopolari" secondo un classico esempio di excusatio non petita accusatio manifesta.
Come è noto sono in corso da tempo trattative tra il governo italiano e le autorità di Bruxelles per garantire al nostro paese una certa tolleranza o flessibilità che dir si voglia sui nostri conti pubblici. Finora senza successo, visto che Bruxelles pretenderebbe dal nostro paese un'ulteriore correzione per il raggiungimento dell'obbiettivo di medio termine nel quadro dei principi del pareggio di bilancio, che dovrebbe aggirarsi attorno allo 0,5%-0,6% del Pil, il che equivarrebbe a una cifra in termini reali tra gli 8,5 e i 12 miliardi di euro.
Anche l’opinione pubblica più disattenta, indifferente o ignorante, e le Istituzioni sovranazionali, tardivamente, hanno preso atto che esistono “tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estrazione di un’informazione o di una conoscenza a partire da grandi quantità di dati” e che Cambridge Analytica – nella fattispecie, per il tramite di Facebook -, attraverso metodi automatici o semi-automatici attivi sulla rete telematica policentrica, ha utilizzato scientificamente, industrialmente e operativamente questa informazioni.
Il management dei big-data, svelato a tutti, serve a costruire, per finalità economico-commerciali e politico-sociali, dei profili digitali di singole persone o di aggregati collettivi alterandone truffaldinamente l’identità (atomizzandola in segmenti d’interesse mercantile e per il controllo sociale) e manipolando la trama dei rapporti sociali ricondotti a “modalità domanda – offerta”.
La recente vicenda dei “profili rubati” esalta la funzione disciplinare del data mining incrementando, con l’implementazione economico-politica dell’I.C.T. sempre più invasive e raffinate, la degenerazione autocratica della “democrazia liberale” ove gli individui da “soggetti di una comunicazione” sono trasformati in prigionieri ovvero “oggetti d’informazione” (rif. a Jeremy Bentham, Panopticon or the inspection-house, London, T. Payne, 1791).
Perché la Siria si è dotata delle armi chimiche
Dal 2013 nella guerra di Siria si ripete un tema che allarma le cancellerie occidentali e rimbalza nel mainstream dell’informazione occidentale in modo ossessivo. Il tema è quello dell’uso da parte delle forze siriane governative di gas nervini contro i civili. La prima volta questo sarebbe accaduto è il 21 agosto 2013 in alcune aree del Goutha orientale in mano ai ribelli jihadisti; evento smentito due anni dopo dall’ONU.
La storia è nota: gli Stati Uniti di Obama volevano punire il governo siriano, ma poi non attuarono la loro decisione per l’opposizione della Russia che si fece garante del disarmo chimico della Siria avvenuto successivamente sotto il controllo americano. Altre volte l’accusa di impiegare le armi chimiche contro i civili ha aleggiato sul governo siriano.
La dotazione delle armi chimiche
Ma perché la Siria si era dotata di armi chimiche e da quando lo ha fatto? Per rispondere a questa domanda bisogna risalire agli anni ’70 del XX secolo, in un tempo nel quale i paesi arabi limitrofi di Israele combattevano con esso guerre guerreggiate con incerta fortuna.
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Niamey, aprile 2018. Adesso nel Sahel gli ostaggi sono loro. Usati con perizia e poi immessi sul mercato, i migranti hanno sostituito ostaggi ben più importanti e famosi di loro. La fabbrica degli ostaggi non è nuova. Nel Sahel aveva funzionato bene per anni. Tecnici di multinazionali, turisti, antropologi, contrabbandieri e passanti. Ad ognuno il suo ostaggio e per tutti il prezzo del riscatto. Si sono finanziati anche così gruppi armati e assimilate filiere terroriste utili al sistema. Ostaggi pregiati, commerciabili e di matrice occidentale, di gran lunga più redditizi di quella locale. Non è vero che c’è l’uguaglianza: c’è ostaggio e ostaggio. Quelli occidentali, come per i lavoratori specializzati, i tecnici, gli esperti e i calciatori, sono molto più appetibili. Ora nel Sahel si fabbricano migranti irregolari che poi sono l’ultimo ritrovato della tecnica. Ostaggio si chiama chiunque venga detenuto come pegno o garanzia. Si dice di una persona sequestrata da criminali allo scopo di ricevere denaro o altro in cambio della sua liberazione. Nel Sahel gli ostaggi sono i migranti.
Non è mai troppo tardi. Era più semplice di quanto si pensasse. La presa degli ostaggi passa inosservata e anzi si cammuffa da corridoi umanitari, operazioni di evacuazione e centri di addestramento profughi.
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“Noi non siamo
anti-sistema.
È il sistema che
è venuto
giù da solo. Noi gli abbiamo dato
soltanto una
piccola spinta.” (Beppe Grillo)
In molti hanno definito il 4 marzo un passaggio d’epoca. È un’esagerazione. Le epoche storiche non cominciano né finiscono a mezzo schede elettorali. Ma un fatto è certo: le recenti elezioni segnano la meritatissima fine della seconda repubblica. Meno ovvie sono le cause di questo terremoto politico-elettorale, e soprattutto le sue conseguenze.
Le cause interne
La causa principale dei risultati del voto, e del non voto, del 4 marzo sta nel vasto e acuto malessere sociale che si è espresso omogeneamente da nord a sud contro Pd e FI, le forze politiche prime responsabili dei duri sacrifici imposti negli ultimi 25 anni sia ai proletari che a parte dei ceti medi.
Partiamo dal non voto, che è stato in genere oscurato. Va invece rimarcato che l’astensione è, nel complesso, cresciuta di altre centinaia di migliaia di unità, raggiungendo il 27% (poco meno di 14 milioni). La Lega e il M5S hanno riportato ai seggi, con la loro propaganda, milioni di astenuti. La Lega deve quasi il 30% del suo voto a questo richiamo, il M5S il 19,5% – a conferma del carattere mobile di parte almeno delle astensioni. Tuttavia il totale degli astenuti è ulteriormente aumentato, soprattutto per il passaggio al non voto degli elettori del Pd, anzitutto operai.
Che il mostro sia ferito è
indubbio, che abbia la forza per menare colpi di coda, o
allestire una soluzione finale è da vedere. La resa dei conti,
in ogni caso, ha per
obiettivo Putin e la sua Russia, nonché i popoli europei a
metà strada tra est e ovest. Quella Russia che, sottratta al
magliaro Eltsin
e agli avvoltoi interni ed esterni che lo sbronzone aveva
invitato alla tavola apparecchiata con le membra mozzate dei
popoli sovietici, rimessasi in
piedi e in cammino, ha dato l’altolà al processo della
mondializzazione imperialista, ha asserito e concretizzato il
suo diritto ad avere
una parola in merito a se stessa e al pianeta, si è mossa in
sostegno di tale diritto e a difesa di chi dalla
mondializzazione imperialista
doveva essere spianato.
Siamo alle provocazioni che dovrebbero avvicinare quel confronto risolutivo da cui soltanto degli invasati mentecatti, manovrati al potere dalla storica cupola finanzcapitalista, possono aspettarsi una sistemazione dell’ordine mondiale che mantenga in vita l’umanità. Ci stiamo avvicinando a quel confronto, inevitabilmente nucleare, o vi siamo già dentro? That is the question. Vediamo.
Il Quarto Reich
La palma degli affossatori di ogni diritto, decenza, morale, umanità, spetta a Israele, ai superatori dei nazisti che dirigono il paese e proclamano il “più morale del mondo” un esercito che va alla partita di caccia contro donne uomini e bambini inermi e, dispiace dirlo, caccia condivisa dall’incirca 80% della sua popolazione che con tale banda di licantropi si schiera nell’occasione di ogni bagno di sangue, da 70 anni a questa parte.
Chi rinuncia a
monopolizzare la verità
rinuncia a comandare.
Fernando Savater
1. Il potere della post-verità
Nel novembre del 2016, Oxford Dictionaries ha eletto parola dell’anno Post-verità. Il lemma esprime una «relazione con o una connotazione di eventi in cui i fatti oggettivi sono meno decisivi per formare una opinione pubblica, rispetto al ricorso ad emozioni e credenze personali» (Relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief)1. Si era appena usciti dalla sorpresa generale dell’esito referendario sulla Brexit nel Regno Unito, nonché dalla sorpresa ancora più imprevista, e a dispetto di tutti i sondaggi, della vittoria di Donald Trump alla carica di presidente degli Stati Uniti d’America. Due fatti di natura prettamente politica che fanno immediatamente evocare una Post-Truth Politics, ossia una nuova era politica segnata dalla post-verità. Ad onor del vero, questo lemma circolava almeno da una decina d’anni in letteratura, a partire per esempio da un (solitario) libro di Ralph Keys uscito negli Usa nel 2004, The Post-Truth Era, oppure da una parola simile usata l’anno successivo dallo scrittore americano Stephen Colbert, Truthiness, nel I episodio del suo programma di satira politica The Colbert Report, che significava sempre per Oxford Dictionaries «la caratteristica di apparire o di considerarsi essere ritenuta vera, anche se non necessariamente vera» (the quality of seeming or being felt to be true, even if not necessarily true)2. Nell’arco di una dozzina d’anni, il termine post-verità esorbita da una dimensione occasionale o marginale alla pubblica discussione, per piombare prepotentemente nel cuore dell’opinione pubblica, del dibattito politico contemporaneo.
In questa lunga nota, Sapir ripercorre le tappe fondamentali della creazione istituzionale europea più ambiziosa di questi ultimi anni, l’unione monetaria europea, soffermandosi sui numerosi dubbi espressi sin dalle origini da diversi importanti economisti statunitensi, ma anche sulle critiche più recenti diffusesi in Europa e sulle incoerenze stesse della teoria di Mundell, considerato il “padre intellettuale” dell’euro. Da questa lunga disamina appare evidente come la teoria economica sia stata strumentalizzata a scopi politici e come molti economisti si siano prestati a distorcere le loro teorie per dimostrare a tutti i costi la necessità e la superiorità dell’euro, coprendo i politici con la credibilità della loro reputazione
L’euro
è la creatura istituzionale più ambiziosa dell’Europa degli
anni recenti (1) (2). E la stessa storia della creazione (e
della
disintegrazione) di molte aree monetarie comuni è stata
probabilmente ignorata per giustificare il progetto (3) [2].
Non è sicuro che
tutte le implicazioni della creazione di una moneta comune
siano state comprese chiaramente quando è stata presa la
decisione di lanciare
l’Unione monetaria europea (EMU) e l’euro. Le considerazioni
politiche hanno preso il sopravvento sulle considerazioni
economiche.
L’idea dell’unione monetaria è così diventata ostaggio di una
fuga in avanti dei cosiddetti “europeisti” [3]. In
questo processo la teoria economica è stata strumentalizzata
al fine di raggiungere un obiettivo politico.
L’idea di una moneta comune in sé non è priva di meriti. Il presidente Vladimir Putin è noto per aver provato a promuovere questa idea anche per i paesi appartenenti all’ “Eurasian Union” [4]. Ma un progetto del genere necessariamente presuppone una valutazione approfondita della situazione economica di tutti i suoi potenziali membri.
I fatti a
cui abbiamo assistito ultimamente suonano – almeno nei titoli
delle grandi testate - con toni apocalittici, raggiungendo un
livello di distopia
da far sembrare 1984 un libro per bambini. Non serve riportare
né i fatti né tanto meno le successive analisi – un
link all'articolo di Fabio Chiusi è
sufficiente per aggiornarvi su tutto. Lo scopo di questo altro
pezzo invece è capire se davvero Facebook e Cambridge
Analytica abbiano
rappresentato l’alleanza malvagia che dal 2014 ci spia e ci
manipola. In altre parole, il problema di tutto ciò è il
social
network di Zuckeberg? Se non ne abbiamo mai fatto parte,
possiamo essere al sicuro?
La risposta, per almeno due motivi, è ovviamente no. In primis, perché, con la complicità di chiunque gestisca un sito internet, Facebook ci segue e ci studia anche se non ne facciamo parte. Ogni volta che infatti vedete un bottone blu con “Like”, potete stare certi che siete, in diversa misura ovviamente di volta in volta, tracciati dal colosso americano. Quel pulsante infatti carica del codice all’interno della pagina che gli permette di studiare i vostri dati navigazione e il vostro profilo. Da giugno 2014 infatti, Facebook raccoglie informazioni tramite quel piccolo pulsante, che ci facciate click sopra, che siate loggati o meno, poco conta.
Il secondo motivo per il quale escludendo Facebook dal gioco non potete vivere a pieno la vostra privacy è che quasi tutti i siti web più grandi su cui navigate replicano, su scala diversa ma non troppo, la facilità con cui il social network, fino al 2015, faceva fluire i dati verso soggetti terzi. E, ironia della sorte, uno dei business che più trae giovamento da questa fluidità e spensieratezza di condivisione è il settore editoriale.
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Molte cose sa
la volpe,
Ma una sola e grande il riccio.
Archiloco1
In queste note mi propongo di individuare la radice teorica di molteplici divergenze politico-ideologiche, il cui punto cruciale è costituito da altrettante concezioni dell’insieme base-sovrastrutture-prassi. Cercherò pertanto di definire congiuntamente i tratti distintivi della base, delle sovrastrutture e della prassi, nonché il loro rapporto secondo un “verso”.
Marx ed Engels hanno distinto, nell’àmbito di ogni società concreta, la base, incardinata sul binomio forze produttive-rapporti di produzione, dalle sovrastrutture (Stato, diritto, politica, filosofia, arte, religione ecc.) e dalla prassi, a sua volta articolata in un ventaglio di pratiche sociali,2 correlative ai diversi livelli della base e delle sovrastrutture (pratica giuridica, politica, economica, religiosa ecc.); inoltre, Marx ed Engels hanno definito tra questi tre livelli della società connessioni specifiche, ossia un “verso”, tali da consentire di cogliere sul piano teorico le dinamiche di essa società.
Sostanzialmente, tali connessioni consistono nel ruolo di determinazione in ultima istanza giocato dalla base nei confronti degli altri due livelli (sovrastrutture e prassi), nella funzione di ritorno (o feed-back), svolta dalla prassi e dalle sovrastrutture sulla base, e nell’azione di rivoluzionamento sia sulla base sia sulle sovrastrutture, che è capace di esercitare una pratica, differente da tutte le altre: la pratica politica di classe.
Un ebook collettaneo, edito dalla Fondazione Feltrinelli, analizza il fenomeno del populismo evitando visioni manichee e catastrofiste, nel tentativo di comprenderlo nella sua complessità. Che cosa lo rende diverso dalla democrazia, visto che entrambi sono fondati sul principio di maggioranza? Pubblichiamo un estratto dal capitolo di Nadia Urbinati, secondo la quale solo a partire dalla comprensione del populismo come maggioritarismo si può affrontare criticamente il rapporto fra esso e la nostra Costituzione - Per acquistare l'ebook
L’unificazione
in alternativa al pluralismo è la dinamica strutturale del
populismo nel governo rappresentativo come la demagogia lo
era rispetto al governo diretto. Bisogna tener presente che
l’impatto dell’appello al popolo è diverso in questi due casi.
Infatti,
nel governo rappresentativo, la sfera dell’opinione ha più
grande rilevanza perché il potere legislativo non è qui a
disposizione diretta del popolo; è dunque prevedibile che
l’impresa populista si sviluppi nella dimensione ideologica e
che possa in
teoria restare un fenomeno di opinione, senza conquistare il
governo. Diverso è il caso della demagogia antica che aveva un
impatto diretto,
non solo sull’opinione ma anche sulla legge perché operava in
un’assemblea di cittadini dotata del potere sovrano immediato.
Tenendo conto di questa differenza tra le due forme di governo
democratico, mi servo dell’analisi della demagogia antica per
illustrare la
relazione conflittuale che essa aveva con la democrazia e
proporre un parallelo con l’azione del populismo nel regime
rappresentativo: in
entrambi i casi centrale è l’uso e l’abuso del principio della
maggioranza.
Le scienze sociali che usano come
unità
metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la
Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione
delle teorie, si
accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando
quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La
“Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle
interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che:
a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più
complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua
volta, un riduzione della narrazione storica.
Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata, il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”. Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.
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Gli interrogativi circa il
carattere
dell’Unione europea, intesa come progetto di classe, non hanno
ricevuto la dovuta attenzione nei dibatti marxisti, e ciò
malgrado alcuni
importanti interventi, proprio da parte parte marxista,
miranti a una teorizzazione dell'”integrazione europea” [1].
In contrasto rispetto
alla tendenza a concepire teoricamente tale processo quale
evoluzione di una federazione o confederazione, ci
concentreremo sulle strategie di classe
in esso inscritte. Un simile approccio dimostrerà come non ci
si trovi di fronte ad una forma statale sovranazionale, bensì
ad
un’avanzata forma assunta dalla coordinazione e integrazione
gerarchiche (e necessariamente contraddittorie) del progetto
delle classi e stati
capitalisti europei, in cui la riduzione della sovranità
statale consente una strategia di intensificato sfruttamento
capitalistico. Un
approccio dal quale scaturiscono conseguenze di natura non
solo analitica, ma anche politica, additando la continua
rilevanza, per le classi
subalterne, di una strategia finalizzata alla rottura del
processo di integrazione europea.
Tenteremo dunque di analizzare il carattere di classe dell’Unione europea nella sua evoluzione storica, e le modalità della sua incorporazione all’interno del sistema imperialista. Su queste basi, cercheremo di valutare le dinamiche di integrazione e l’attuale crisi del “progetto europeo”.
I primi passi dell’integrazione europea
Le ricostruzioni storiche ufficiali dell’integrazione europea tendono a presentarla come un processo emergente dal desiderio di cooperazione pacifica dei popoli europei. Tuttavia, l’integrazione ha costituito un processo ben più complesso.
Che
l’epoca attuale sia caratterizzata dal trionfo della logica
del profitto è oramai un dato di fatto, le cui conseguenze
sono state
indagate dai punti di vista più disparati. Un recente volume –
"Lo impone il mercato. Come i nostri governanti hanno
stravolto i
principi costituzionali" di Daniele Perotti
(Imprimatur) – ha ripercorso quelle che interessano
il piano dei principi fondamentali
enunciati dalla Costituzione italiana nei suoi primi articoli[1].
Il risultato è un atto di accusa
duro e articolato contro l’Europa unita, ritenuta il
catalizzatore di quanto possiamo oramai definire in termini di
dittatura del mercato. Al
lettore si offre così un contributo riconducibile a un genere
letterario che sta finalmente prendendo piede: quello relativo
all’incompatibilità conclamata, sebbene troppo a lungo
occultata, tra Costituzione italiana e Trattati europei.
Costituzione vs Trattati europei
Da un simile punto di vista sono centrali le pagine in cui si sottolinea il ruolo che per la Carta fondamentale assume il lavoro: il perno del patto di cittadinanza per cui il diritto ai beni e servizi erogati dallo Stato sociale costituisce il corrispettivo del dovere di concorrere al progresso materiale e spirituale della società (art. 4). Il tutto collegato a un vero e proprio obbligo dei pubblici poteri di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro sia effettivo, e soprattutto sia produttivo di emancipazione e dignità per sé e per la propria famiglia.
Ho incontrato per la prima volta il
libro di Moishe Postone sull'antisemitismo
all'inizio degli anni 2000, ma è stato solo intorno al
2008-2009, quando gli Stati
Uniti erano preda della crisi finanziaria, che il suo pensiero
su Marx, sul capitalismo, e sul valore mi hanno davvero
cominciato a colpire. Ricordo
di aver fatto delle fanzine in cui pubblicavo pezzi dal suo
libro "Critica
e Trasformazione Storica", e
le distribuivo a New York City agli studenti, agli attivisti,
e agli amici, nella speranza di riuscire a dare l'avvio ad un
dibattito sulla crisi che
fosse più critico . Il punto era quello di riuscire ad andare
oltre le superficiali analisi del "capitalismo clientelare"
e vedere la
totalità del capitale come una dinamica del valore
auto-mediante soggetta alla crisi che non può essere
semplicemente contrapposta al
valore. Inoltre, la teoria critica di Postone sfidava quelli
di noi che si erano politicizzati nel movimento "anti-globalizzazione"
e nel
movimento contro la guerra della fine degli anni '90 e dei
primi anni 2000.
Per prendere seriamente la critica del capitale che proponeva Postone, si richiedeva un nuovo orientamento nei confronti della politica e della lotta di classe che avrebbe superato i limiti dell'identità del consumatore, delle agende nazionaliste, dei sogni keynesiani, e le opposizioni semplicistiche fra wall street e main street, fra il capitale finanziario ed il capitale industriale. Per alcuni di noi, Postone non era andato abbastanza lontano nell'inseguire le proprie intuizioni teoriche. Nessuno dei "nuovi movimenti sociali" ci avrebbe salvato - come qualche volta lui aveva detto - ma lo avrebbe fatto solo una rottura radicale nella riproduzione della relazione di valore, avevamo affermato. Una tale rottura non sarebbe provenuta da dei partiti politici o dalle agende dei movimenti, ma solo dalle stesse lotte nel momento in cui sarebbero andate a cozzare contro i propri limiti e l'appartenenza di classe.
Ho votato Potere al popolo e non me ne pento. Ma mi guardo bene dal considerare un successo o un buon avvio il risultato elettorale uscito dalle urne
“La sinistra se n’è andata da sé”, ha scritto sul manifesto Marco Revelli. Ma per andarsene da sé ha dovuto prima andarsene da sé stessa. Sta qui la ragione profonda del suo esodo. Bisogna allora chiedersi “come” e “quando” è accaduto per capire meglio gli esiti a cui siamo giunti e i modi di una possibile ripartenza. La sinistra andata via da se stessa non è stata una sinistra generica, indeterminata, bensì quella sinistra che si chiamava Pci, cioè pressoché l’intera sinistra italiana.
Il che significa che dal panorama sociale e politico italiano sono scomparse quasi del tutto il modo stesso e la possibilità di pensare l’antitesi, cioè quell’insieme di pratiche organizzative politiche e di resistenza, che non deve essere confuso con ciò che comunemente si intende con «antagonismo». L’antitesi è, per parafrasare una nota definizione di Karl Polanyi, «la tendenza (…) a superare il mercato autoregolato subordinandolo consapevolmente ad una società democratica».
Come volevasi dimostrare la bufala Skripal, messa in piedi in maniera grottesca e demenziale si sta sgretolando nelle mani della May come un pezzo di legno marcio: proprio ieri Gary Aitkenhead, responsabile del Centro armi biologiche di Porton Dow incaricato delle analisi scientifiche sul gas usato nel presunto attentato di Putin , ha gettato la spugna e contemporaneamente ha messo la croce sul premier inglese:
“non siamo in grado di provare che l’agente nervino usato su Skripal viene dalla Russia. Non abbiamo identificato la fonte precisa, ma abbiamo fornito al governo informazioni scientifiche che altre fonti hanno poi utilizzato per mettere insieme una serie di conclusioni.”
E ci credo visto tra l’altro che le formule del famigerato Novichoc erano state pubblicate dal suo sviluppatore Vil Mirzayanov, disertato negli Stati uniti negli anni ’90, proprio su riviste chimiche inglesi. Ma questa decantazione di una menzogna contiene anche un preciso atto di accusa che costituisce il punto di svolta decisivo della vicenda: Aitkenhead fa chiaramente capire come la nuova ondata di russofobia sia derivata sostanzialmente da interpretazioni surrettizie formulate in ambito governativo o magari plurigovernativo.
Questa recensione al volume di Mattia Ferraresi, Il secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale (Marsilio, pp. 175, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 20 febbraio 2018
Nel corso del primo anno trascorso alla Casa Bianca, i mutamenti della squadra di governo, le gaffe, i veri e presunti scandali hanno accompagnato quasi quotidianamente il cammino di Donald Trump. Non è d’altronde ancora chiaro quale impronta il miliardario newyorkese darà alla sua presidenza. E qualcuno dubita anche che riuscirà a portare a termine il suo mandato. Ciò nonostante Trump ha già lasciato una traccia profonda nella cultura americana. Non certo perché The Art of the Deal e gli altri suoi libri in cui spiega come avere successo nella vita siano entrati nel pantheon della letteratura d’Oltreoceano. Ma perché la sua vittoria alle presidenziali del 2016 ha causato per molti intellettuali un vero e proprio shock. Qualcuno ha iniziato a contestare il nuovo inquilino della Casa Bianca con un vigore sconosciuto nella politica americana, indicando nel «populismo» una minaccia per la democrazia e per i valori del pluralismo. Altri hanno invece cercato di trovare la spiegazione di quel successo dentro le trasformazioni della società. E – un po’ come faceva Erich Fromm in Fuga dalla libertà per spiegare l’ascesa dei fascismi – ne hanno rinvenuto le cause più profonde nel fallimento della promessa liberale al cuore dell’american dream.
Dopo i paradisi fiscali protetti dalla corona britannica è il momento di quelli all’ombra della bandiera a stelle e strisce. Che senso ha parlare di lotta alla criminalità quando gli stessi USA forniscono protezione al denaro illecito?
A partire dagli anni ’80, la crescita ipertrofica del settore finanziario si è sviluppata entro una cornice generale caratterizzata dal più totale vuoto normativo, in cui la deregolamentazione dei singoli mercati nazionali non è stata sostituita con nuove normative internazionali atti a disciplinare i movimenti di capitale. Il che non poteva che consolidare la piuttosto diffusa pratica, da parte delle aziende, di aggirare le imposte vigenti nei Paesi d’origine sussidiando le proprie attività presso le società off-shore. L’ex presidente tanzaniano Julius K. Nyerere ha evidenziato a questo proposito che:
«le transazioni finanziarie internazionali vengono effettuate in un regime che rasenta la totale anarchia. Molti organismi e commissioni tentano di coordinare politiche di regolamentazione a livello nazionale e di negoziare standard internazionali, ma non hanno poi alcun potere di garantirne l’effettiva applicazione. Le Isole Cayman e le Bermuda non offrono soltanto belle spiagge, ma anche porti al riparo da ogni regolamentazione e accordo internazionale sui movimenti dei capitale».
Pubblichiamo la postfazione a Figure del lavoro contemporaneo. Un’inchiesta sui nuovi regimi della produzione, a cura di Carlotta Benvegnù e Francesco M. Iannuzzi, appena uscito per la casa editrice ombre corte
Questo volume nasce grazie alla passione di giovani ricercatori e ricercatrici per la ricerca empirica e il dibattito pubblico. I saggi sono il risultato della loro discesa nei laboratori della produzione dei quali essi hanno sviluppato un’ampia conoscenza grazie sia alla capacità di padroneggiare adeguate tecniche di ricerca qualitativa, sia alla loro disponibilità a confrontarsi con quanti sostengono quotidianamente questi processi di valorizzazione. Si tratta di processi lavorativi molto diversi che si avvalgono di una forza lavoro eterogenea a cui è solitamente richiesto di modulare contemporaneamente sforzo muscolare e cognitivo. I lunghi periodi di ricerca e di riflessione permettono agli autori di analizzare non solo i processi di precarizzazione e di resistenza che hanno preso forma nella lunga crisi economica italiana, ma anche di esplorare i percorsi delle insorgenti soggettività che cercano di emanciparsi dalle forme più brutali di sfruttamento. Il volume non ha la pretesa di analizzare sistematicamente i vari processi produttivi italiani, quanto di far emergere come l’attuale fase di sviluppo capitalistico contiene forme del lavoro disparate. Lungi dall’essere sedotti dallo scintillio delle nuove tecnologie, i curatori hanno raccolto contributi che danno conto delle diverse e spesso contrastanti figure del lavoro contemporaneo.
Il contributo del compagno Luca Cangemi
alla discussione aperta in
Marx21.it sul risultato delle elezioni
del 4 marzo
Problemi
di
stile e di metodo.
C’è una sola cosa peggiore dei risultati elettorali delle forze comuniste ed anticapitalistiche di quest’ultimo decennio: il dibattito sui risultati stessi. Credo che ci sia una questione preliminare di stile e di metodo. È necessario uno stile caratterizzato dall’umiltà e dalla problematicità. La sconfitta politica, sociale, organizzativa si accompagna in tutta evidenza e naturalmente ad una inadeguatezza teorica. Una inadeguatezza teorica che non attiene tanto alle categorie che ci consegna la tradizione comunista (che anzi restano, su molti versanti, di straordinaria utilità) quanto all’uso che di esse viene fatto.
Questa inadeguatezza va superata ma avendo piena coscienza del fatto che sarà compito né breve né facile. In questa condizione giudizi troppo assertivi o peggio liquidatori non fanno fare alcun passo avanti. Dobbiamo lavorare per approssimazioni, valorizzando il nucleo di verità interna che vi è in ogni punto di vista, anche il più lontano. E dircelo.
Sul piano del metodo dobbiamo recuperare le essenziali coordinate spazio-temporali. C’è un problema con il passato, anche quello più recente. La presentificazione della realtà e il culto dell’evento sono tenaci quanto disastrose eredità della globalizzazione capitalistica e del pensiero postmoderno, caratteristiche non solo del senso comune ma anche di tanti interventi nel dibattito della sinistra comunista.
Consegne a domicilio, corrieri in bicicletta, diritti e rischio d’impresa: le ombre della gig economy
Sono le 18,
inizia il turno (sembra che non si debba chiamarlo così,
scopriremo più tardi perché). Torino, Piazza Castello e poi
San Salvario
e poi Vanchiglia e poi Porta Palazzo e poi San Donato e ancora
San Salvario e poi Piazza Vittorio Veneto fino all’ultimo
chilometro, fino
all’ultimo minuto. Pedala, pedala, corri veloce, su e giù per
la città, devi fare più consegne possibili, bisogna scalare
il ranking, prendere i feedback migliori. E
allora pedala, pedala ancora. Anche con la pioggia, anche con
lo smog che diventa nebbia.
Paga oraria o cottimo, non importa, è irrilevante, devi
comunque essere tra i migliori. Pedala, pedala più forte.
È impossibile non farci caso. Sono tanti, in sella alle loro biciclette o ai loro motorini. I colori variano ma sono sempre gli stessi: rosa, giallo, verde-azzurro. Truppe diverse a contendersi il mercato delle consegne a domicilio. Loro sono i rider, i corrieri all’epoca degli algoritmi.
Sono ormai parte del tessuto urbano delle medie e grandi città. C’è chi parla di imprenditorializzazione della condizione urbana. Diventare imprenditori di se stessi, gestire il proprio tempo compatibilmente con altre occupazioni, afferrare pezzi di libertà. C’è qualcosa di sottilmente seducente in questa narrazione. “Teoricamente ci sono alcuni aspetti positivi come la flessibilità in situazioni in cui una persona ha bisogno di organizzare le sue giornate. E sicuramente ci sono rider che sono contenti di lavorare in questo modo e di percepire una fonte di reddito.
“Se non
state attenti i media vi faranno odiare le persone oppresse e
amare i loro oppressori.” Lo diceva Malcom X e non era poesia
ma
estrema sintesi di ciò che può il potere mediatico. Lo
verifichiamo continuamente anche ora che l’avvento dei social
e della
stampa on line riesce a ridimensionare il potere di creare e
sopprimere verità da parte dei media main stream. Solo a
ridimensionare
però! Ultimo caso esemplare è quanto successo tre giorni fa in
Medio Oriente, esattamente nella Striscia di Gaza.
Un passo indietro è d’obbligo ed è la dichiarazione di Israele che minacciava di fare strage di palestinesi nel caso in cui la manifestazione del 30 marzo, benché pacifica, avesse sfiorato il confine dell’assedio. Non si è levata neanche una parola dalle Istituzioni internazionali per condannare una simile dichiarazione dando così a Israele il consenso tacito a rendere operativa l’azione criminale minacciata, lasciando sul campo 17 cadaveri e oltre 1500 feriti in un’operazione durata solo poche ore.
I pochissimi internazionali presenti nei vari punti di concentramento della “grande marcia del ritorno”, questo il nome dato dagli organizzatori alla manifestazione indetta per rivendicare il rispetto delle Risoluzioni Onu da parte di Israele, hanno visto e testimoniato, anche con documentazioni video e fotografiche, l’andamento della grande manifestazione e gli omicidi immotivati commessi dai 100 tiratori scelti posizionati da Israele lungo il border.
La guerra dei dazi, aperta dagli Stati Uniti, è il segnale che quel modello sociale e produttivo non tiene più. La stampa neoliberista italica se la prende con Trump, bersaglio fin troppo facile per enfatizzare la dabbenaggine di un leader più che dimezzato dal momento dell’elezione (la sua squadra di governo viene rivista di continuo, e molti degli uomini allontanati erano tra i suoi fedelissimi, a cominciare da Steve Bannon).
Se fosse davvero solo questo, Trump sarebbe stato destituito o eliminato da un pezzo. Ma andiamo con ordine.
La Cina ha ufficialmente reagito all’imposizione di dazi sulle proprie esportazioni di acciaio e alluminio verso gli Usa, imponendo analoghe misure su 128 prodotti statunitensi importati in Cina. Totale del valore: appena 3 miliardi, esattamente corrispondenti alle perdite cinesi su quelle due metalli. Una cifra minima (l’interscambio tra i due paesi supera i 600 miliardi), ma è solo la prima risposta.
Trump ha infatti già annunciato identiche misure su (+25%) su 1.300 prodotti cinesi dell’hi-tech, delle telecomunicazioni e dall’aerospazio, penalizzando così esportazioni per 50 (forse 60) miliardi di dollari. Si tratta del 10% dell’export cinese negli Usa (lo 0,4% del Pil).
Non ci si è resi conto che l’abbattimento della precarietà del lavoro è il presupposto imprescindibile di una politica coerente per l’occupazione
Una ricostruzione della sinistra in Italia non può prescindere da una critica impietosa che riguardi i contenuti della proposta politica prima che il modo in cui essa è stata presentata. Una critica che non può trascurare di aprire finalmente gli occhi sulla «mucca che è nel corridoio»: la precarietà del lavoro. Intendo sostenere che questo problema, ampiamente denunciato, non è mai stato in realtà affrontato sul serio, per lo meno da parte della sinistra finora rappresentata in Parlamento.
Ci si è baloccati con idee bizzarre quali gli incentivi ai rapporti di lavoro stabili (come se la ricattabilità dei lavoratori non fosse l’incentivo più auspicato dalle imprese), gli articoli 17 e mezzo e amenità simili. Soprattutto non ci si è resi conto che l’abbattimento della precarietà del lavoro è in realtà il presupposto imprescindibile di una politica coerente per l’occupazione, e non qualcosa a cui si possa pensare in un secondo momento, quando l’auspicata ripresa economica sia stata avviata.
Il silenzio con cui la cosiddetta comunità internazionale assiste al massacro in corso sul confine di Gaza corrisponde perfettamente al silenzio dei morti ammazzati, centrati dai proiettili di infallibili tiratori di precisione dell’esercito israeliano appostati sulle colline al confine; o polverizzati addirittura da cannonate. Il silenzio di un governo “in carica per gli affari correnti”, quello retto da Gentiloni, ma che non ha perso tempo per emulare Gran Bretagna e Stati Uniti nell’espellere due diplomatici della rappresentanza russa a Roma, senza alcuna motivazione, con un gesto di mediocre opportunismo e di squallido servilismo. I fatti di Gaza, l’acquiescente disinteresse della politica, o il balbettio della comunicazione, mostrano un Paese, il nostro, senza spina dorsale, e con esso quasi l’intera Unione Europea, prona agli Usa di Donald Trump e ai suoi emissari britannici.
Gaza non è zona di guerra; lo ha sottolineato, sobriamente, B’Tselem, il Centro di informazione israeliano sui diritti umani per i Territori Occupati. Eppure i soldati dell’esercito che vanta di essere “il più morale del mondo” hanno ricevuto ordine di fare fuoco su chiunque si avvicini a meno di 300 metri dalla linea di confine, ma in realtà pare stiano interpretando in modo assai estensivo la consegna, sparando per esempio a chi vada in direzione contraria, a chi marci in parallelo, disarmato, o con un copertone di camion sotto braccio, o raccolga prezzemolo negli orti, o stia inginocchiato in preghiera.
Guardando oltre i dazi imposti da Trump a Pechino, sono molti gli intrecci di interessi tra i due Paesi, anche nei settori dell’economia digitale. Soprattutto finanziario, con l’arrivo di fondi d’investimento pubblici e privati a finanziare lo sviluppo delle più grandi compagnie del settore
Premessa
Appare da tempo evidente come un certo numero di grandi gruppi statunitensi e cinesi, da una parte in particolare Apple, Amazon, Facebook, Google, dall’altra Tencent, Alibaba, Baidu, seguiti da una nutrita schiera di altre imprese solo di poco meno importanti, stiano diventando i protagonisti quasi assoluti dell’attuale quadro economico e finanziario a livello imprenditoriale mondiale, mentre l’Europa, intanto, non può che guardare impotente allo sviluppo degli avvenimenti, mentre le sue imprese non cercano neanche più di combattere contro una collocazione che le vede relegate molto indietro.
Per fare riferimento soltanto a pochi numeri, basta ricordare che le prime cinque imprese Usa avevano un valore di mercato, a metà 2017, di 3 trilioni di dollari e le loro liquidità ammontavano a circa 330 miliardi.
In queste note vogliamo mettere in rilievo alcuni aspetti dell’espansione dei giganti del web di cui si parla forse in minor misura: ci riferiamo alle questioni finanziarie.
Non ci occupiamo tanto del fatto che almeno diverse tra le imprese citate, con lo sviluppo di quello che viene chiamato fintech, stanno invadendo anche il settore bancario e finanziario, cercando di dislocarlo e di sostituirsi sostanzialmente ad esso, sia pure inserendosi nelle attività più redditive e tralasciando il resto. Vogliamo invece toccare le questioni relative dall’impiego dei flussi di cassa delle imprese da una parte, del finanziamento del loro sviluppo dall’altra.
L’impiego dei flussi di cassa e un nuovo modello conglomerale
Le grandi imprese dell’economia digitale possiedono una grande forza finanziaria, data in particolare in molti casi dai flussi di cassa interni generati ogni anno dalla gestione, che presenta spesso ampi margini, anche se non sempre è così. Si veda a questo ultimo proposito il caso di Uber che ancora nel 2017, secondo una fonte, ha fatturato circa 10 miliardi di dollari ma ne ha persi 4,5, mentre secondo un’altra avrebbe ottenuto una cifra d’affari di 7,5 miliardi perdendone 3,3 (non esistono dati ufficiali).
Un altro fattore finanziario da prendere in considerazione riguarda la disponibilità degli investitori a puntare anche grosse somme su tali imprese (su questo si veda meglio più avanti).
Terzo elemento da ricordare, collegato al precedente, è l’aumento vertiginoso dei valori di tali imprese in Borsa, ciò che può permettere, tra l’altro, di attingere ad abbondanti risorse vendendo qualche azione e/o aumentando il capitale sociale; e si ritorna al punto precedente.
Alla fine, dei flussi di cassa quasi illimitati permettono di investire non solo nel business originario, ma anche, quasi a volontà, in varie attività, anche molto distanti da quelle iniziali. Si stanno così creando dei nuovi gruppi conglomerali, un modello di impresa che si supponeva sepolto da molti decenni.
Ricordiamo a questo proposito, tra i molti, solo due casi tra i più noti, l’uno statunitense, l’altro cinese.
La Amazon ha iniziato la sua attività vendendo libri on-line; ma presto si sono aggiunti al catalogo i dischi, i videogiochi, i prodotti elettronici per la casa, l’abbigliamento, ecc.. Ha poi sviluppato diverse nuove attività, dalla consegna a domicilio di generi di drogheria a quella dei pacchi, introducendo nel 2015 la consegna anche con i droni. Essa è poi entrata nel settore del cloud computing, di cui oggi è leader mondiale; è diventato produttore di video, film, spettacoli vari e si è anche rivelato un attore importante nel campo dell’intelligenza artificiale, mentre ha poi penetrato il settore della grande distribuzione tradizionale e successivamente quello delle catene farmaceutiche.
Dal canto suo Tencent opera oggi contemporaneamente nelle reti sociali, nella messaggeria, nei portali web, nei giochi on-line, di cui è oggi il leader mondiale, nella pubblicità e nella musica on-line, negli acquisti e nei pagamenti elettronici, nei media, nei fondi monetari, nel cloud computing, mentre sta investendo nell’auto elettrica e nella realtà virtuale. E’ entrato infine nel settore del bike-sharing e nella grande distribuzione classica.
Il confronto con i conglomerati classici
Questo processo di grande diversificazione, apparentemente senza una logica che non sia puramente finanziaria, sembra per il momento dare i suoi frutti anche economici.
Quello della creazione di grandi conglomerati fu una moda che prese fortemente piede nel mondo anglosassone negli anni sessanta del Novecento. Ma di fronte all’evidenza che il modello incontrava forti ostacoli “politici”, provocati dal vecchio establishment che si sentiva minacciato, mentre i risultati economici e finanziari non risultavano esaltanti, gli anni settanta ed ottanta passarono nel cercare di liquidare tali raggruppamenti di imprese.
Quelle che si vanno ora creando negli Stati Uniti ed in Cina funzioneranno meglio (Dorkin 2017) ? E’ difficile dare una risposta precisa. Comunque le condizioni sono molto cambiate. Oggi le grandi conglomerate non devono venire faticosamente a contrasto con l’establishment finanziario preesistente, dal momento che sono sempre più loro stessi l’establishment. D’altro canto, il mondo rigurgita di risorse finanziarie disposte quasi a qualsiasi avventura.
La proprietà del capitale
Degli sviluppi di un certo interesse si registrano anche a livello di proprietà del capitale di questi grandi gruppi (Schumpeter, 2017).
In generale, sia sul versante cinese che su quello occidentale essi sono nati per volontà di uno o più fondatori, che all’inizio ne controllavano in tutto o in gran parte il capitale.
Ma con il tempo la situazione ha teso a cambiare e oggi si registrano due linee di sviluppo differenti: da una parte i gruppi di comando stanno cercando di estrarre cassa dalle loro società vendendo una parte delle azioni, mentre d’altra le imprese hanno spesso bisogno di risorse aggiuntive per perseguire i loro piani di sviluppo. Così in diverse società la percentuale di proprietà da parte del socio o dei soci principali tende a declinare sino a che si può anche arrivare ad una perdita di controllo.
D’altro canto, invece, in altre imprese i gruppi di comando cercano di mantenere la presa attraverso vari meccanismi, quali l’uso di due classi distinte di azioni con diritti di voto differenti. Così i proprietari di Google hanno ormai l’11% delle azioni, ma controllano il 51% dei diritti di voto. Più o meno la stessa situazione si registra in Facebook. Alibaba ha, d’altro canto, stretto un accordo con altri azionisti che li obbliga a votare come lui; poi per statuto una maggioranza dei membri del consiglio sono nominati sostanzialmente dal capo; infine, il proprietario possiede la maggioranza del capitale in molte sussidiarie strategiche.
Softbank, Tencent, Alibaba e gli altri
A fronte di questa parziale ritirata di molti tra i vecchi fondatori e di necessità finanziarie che di frequente risultano molto ingenti, si verifica da qualche anno l’ingresso massiccio nel capitale delle imprese del settore dei grandi fondi pubblici e privati di vari paesi (Morozov, 2018), in particolare, ma non solo, asiatici e del Medio Oriente da una parte, delle cinesi Tencent e Alibaba dall’altra, soprattutto in quest’ultimo caso in Asia (Sender, 2018).
Quello che appare al momento il più impegnato in questa strategia è indubbiamente il fondo giapponese SoftBank. Esso ha, tra l’altro, creato il primo Vision Fund (ne dovrebbero seguire degli altri), che attualmente possiede una dote di circa 100 miliardi di dollari e al cui capitale partecipano diversi fondi, dell’Arabia Saudita, di Abu Dhabi, ecc. e poi la Apple, Qualcomm, ecc.
Così la SoftBank domina la filiera della sharing economy partecipando al capitale di Uber e contemporaneamente della cinese Didi Chuxing, i due principali attori del settore, ma poi anche alla Grab di Singapore e alla Ola indiana; inoltre possiede partecipazioni rilevanti in società molto eterogenee come Alibaba, Nvidia, WeWork, e così via.
SoftBank, attraverso il lancio futuro di altri fondi, programma di investire nel settore, nei prossimi dieci anni, 880 miliardi di dollari.
Operano nello stesso campo anche altri importanti fondi, quale quello sovrano norvegese, il CIC cinese, il Temasek di Singapore. Ma bisogna soprattutto sottolineare che Tencent e Alibaba si pongono, insieme a SoftBank, come i veri padroni degli investimenti in nuove tecnologie sostanzialmente in tutto il continente asiatico. I tre gruppi, in effetti, messi insieme, possono investire in qualsiasi istante anche diverse decine di miliardi di dollari, decidendo quindi chi deve andare avanti e chi deve essere fermato (Sender, 2018).
C’è vera lotta tra gruppi cinesi e statunitensi?
Apparentemente dovrebbe essere in atto una lotta accanita per il dominio del mondo tecnologico tra i gruppi cinesi e quelli statunitensi. Certo gli Usa sono partiti prima, ma ora la Cina sta cercando di darsi da fare anch’essa sui vari mercati mondiali.
L’apparente attuale durezza di Trump verso il paese asiatico sul fronte economico dovrebbe aggiungere ancora del fuoco a tale lotta.
Bisogna dire che in Cina tra Tencent e Alibaba c’è in effetti un’aspra concorrenza su molti fronti, così come negli Stati Uniti sembra facile rintracciare i segni della concorrenza tra i vari protagonisti del paese.
Per altro verso, va peraltro anche registrato un fitto incrocio di partecipazioni azionarie tra le imprese cinesi del settore e quelle statunitensi. Un simbolo di questo intreccio è rappresentato dalla cinese Didi Chuxing, oggi la più grande impresa della sharing economy. Al suo capitale partecipano, oltre alla giapponese SoftBank, le statunitensi Uber e Apple, nonché le cinesi Alibaba e Tencent. Ma il caso della Didi non è certo isolato e gli intrecci di partecipazioni tra Stati Uniti e Cina sono ormai numerosi e alcuni consigli di amministrazione sono diventati dei club dei potenti dei due paesi.
Questo farebbe pensare che, almeno per un certo periodo, si possa assistere ad un sostanziale accordo complessivo tra le imprese tecnologiche cinesi ed Usa per la spartizione dei mercati. Dopo si vedrà.
Avrete notato, credo, i segnali con cui le istituzioni europee e la Troika stanno reagendo al dopo-elezioni italiano. Forse vale la pena di soffermarsi sul tema, perché per il futuro di questo Paese la questione è un po' più rilevante dell'autobus di Fico o della spartizione dei questori parlamentari.
Pierre Moscovici (commissario Ue all'economia) ha detto che a Bruxelles sono «estremamente calmi, prudenti e rispettosi del ritmo democratico italiano» ma «è importante che l'Italia resti quel grande Paese che è in Europa e impegnato nell'Eurozona, rispettando pienamente le regole».
Jean-Claude Junker da una settimana tace, dopo essersi tuttavia lasciato sfuggire una frase sibillina e minacciosa: «L’Italia è l’Italia. È una vecchia democrazia e altri decisori troveranno una soluzione per quella che non è ancora una crisi».
La Bce ha messo in guardia da qualsiasi ipotesi di mitigare la legge Fornero: anzi, chiede un'ulteriore stretta sulla reversibilità e per gli autonomi.
Lagarde (Fmi) ha proposto un fondo anti crisi, che in teoria dovrebbe aiutare i paesi Ue più fragili, quelli in cui la ripresa balbetta come il nostro.
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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Oltre un
centinaio di missili è piovuto sulla Siria come risposta a
quanto successo a Douma qualche settimana fa. Washington,
Parigi e Londra, nella
notte tra il 13 e 14 aprile, hanno condotto una serie di
bombardamenti contro quelle che vengono ritenute strutture per
la produzione e lo stoccaggio
di armi chimiche. Sia Trump che Macron e May hanno messo
l’accento sulla straordinarietà dell’attacco, evidenziando che
si tratta
di una risposta all’attacco chimico del regime del 7 aprile.
Attacco che l’Occidente attribuisce ad Assad ma sul quale
rimangono ancora
molti interrogativi. Intanto però la rappresaglia è iniziata.
Queste sono le cose che sappiamo sul raid.
1 – I tre Paesi coinvolti: l’offensiva di Usa, Francia e Regno Unito
Alle 21:00 del 13 aprile Donald Trump ha tenuto un discorso alla nazione in cui ha confermato l’intenzione di colpire la Siria. «Ho ordinato all’esercito degli Stati Uniti di lanciare attacchi di precisione contro obiettivi associati al potenziale di armi chimiche del dittatore siriano Bashar al Assad». Negli stessi attimi in cui parlava il presidente una pioggia di fuoco ha colpito la Siria. Gli attacchi, ha detto ancora il presidente, continueranno fino a quando il regime siriano non cesserà di utilizzare armi chimiche: «Siamo pronti a sostenere questa risposta fino a quando il regime siriano non cesserà l’uso di agenti chimici proibiti».
I missili vispi, nuovi e astuti di Trump sono partiti contro obbiettivi selezionati della Siria e per ora l’attacco sembra essere più intimidatorio e simbolico che devastante. E neppure tanto efficace, se un terzo degli ordigni è stato intercettato. Ma potrebbe essere solo l’inizio
Esultiamo,
insieme a destra e sinistra sono pure sparite le aggressioni
imperialistiche, sostituite da “avvertimenti” simbolici con
generazioni di
missili intelligenti (certo più di chi li ha armati e
tuittati), sempre al nobile fine di salvare la pace e impedire
l’orrido uso di armi
chimiche. Sul fatto che ci fossero, le opinioni poi divergono:
i pragmatici inglesi si limitano a ritenerlo “probabile”,
sulla scia del
precedente e non proprio trasparente caso Skripal, i
cartesiani francesi affermano di averne prove certe, di
carattere ontologico più che
empirico, gli americani applicano su scala internazionale il
metodo che usano con neri e ispanici: prima spari e poi
accerti se era pericoloso. Il
nostro governo prende per buone le prove dell’attacco chimico,
ma si dissocia dalle risposte armate e cerca di sottrarre le
basi italiane da
ogni coinvolgimento attivo, limitandolo ai voli di
ricognizione da Sigonella. Di Maio giura sul Trattato
Atlantico, Salvini sulle dichiarazioni di
Putin, gli aventiniani del fu Pd, complessivamente
filo-atlantici, si dividono in varie posizioni studiando i
contraccolpi che il bombardamento
potrebbe avere sull’assemblea del 21 aprile. Ci lamentavamo
dello scarso peso che la dimensione internazionale aveva avuto
nella campagna
elettorale e nelle vicende immediatamente successive, Ahinoi,
quando se ne occupano i nostri partiti è ancora
peggio.
Sul piano internazionale non ci sono più destra e sinistra, cioè rimane solo la destra, coloniale e bombardiera, bugiarda e razzista. Per uscire dai loro problemi interni alcuni leader occidentali, di cui almeno uno visibilmente alterato, in combutta con Turchia, Israele e sauditi, attaccano Russia, Cina e asse sciita (che NON sono la sinistra, ma seri concorrenti imperialistici regionali o globali degli Usa), per fortuna incontrando resistenze ben maggiori che nelle precedenti avventure irakena e libica.
L’orrore
e l’angoscia che suscitano i missili e le bombe, il ribrezzo
che sale quando quegli strumenti di morte vengono definiti
intelligenti, non deve far passare in secondo piano l’aspetto
più grave dei bombardamenti in Siria di Trump, May e Macron.
Essi sono una
sfacciata, totale e violenta rottura della legalità
internazionale.
Naturalmente sono solo l’ultimo atto di una storia iniziata 27 anni fa con la prima guerra contro l’Iraq. Da allora un gruppo di paesi guidati dagli Stati Uniti e impegnati reciprocamente dai vincoli della NATO si sono autonominati polizia militare mondiale.
Con lo spirito dei giustizieri e dei linciaggi del Far West, hanno deciso di ignorare il principio guida della legalità internazionale: uno Stato non può fare guerra ad un altro Stato sovrano se non per difendersi da esso. Il principio sulla base del quale era stata fondata l’ONU dopo la sconfitta del nazifascismo.
Stati Uniti e compagnia hanno così scatenato una lunga trafila di guerre, rivendicate nel nome della democrazia e dei diritti umani, in Europa, Africa, Medio Oriente, Asia. Con queste guerre hanno aggredito e devastato Stati sovrani accusati di essere guidati da dittatori.
Guarda caso però tanti altri dittatori venivano nello stesso tempo sostenuti ed armati. Lo Stato in assoluto oggi più colpevole nella violazione del diritto dei popoli e e di quello internazionale, Israele, veniva protetto e fornito di una impunità assoluta per ogni suo crimine.
Il nuovo Governo nascerà, forse, a causa dell’urgenza bellica. Ma la nostra eventuale partecipazione alla guerra siriana è sintomo che non sappiamo stare nelle alleanze. Vedi i precedenti disastrosi di Iraq e Libia, e non solo
Adesso forse sì che avremo un Governo, visto
che ci dobbiamo attrezzare alla guerra di Usa-Francia-Regno
Unito alla Russia
per interposta Siria. Un Governo del
Presidente, magari, con tutti dentro, perché l'ora è
solenne, il Paese non
può restare senza guida, il funzionamento delle
Camere e bla bla bla. Il che, naturalmente, equivale ad
ammettere che l'Italia
la governano altri e che l'agenda di Washington ci
mette in riga anche quando siamo divisi su tutto. Ma pazienza.
Così va spesso il
mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo,
com'era scritto nelle pagine dei Promessi sposi che
lo stesso Manzoni
aveva definito “la notte degli imbrogli e dei
sotterfugi”.
Una notte come questa, in cui quei tre grandi Paesi impugnano la bandiera della civiltà, ormai logora e sfrangiata, per insegnare a suon di missili la modestia al Cremlino, che a sua volta accarezza l'idea di accettare il confronto per mostrare al mondo che la Russia è tornata, c'è. Da noi, invece, l'imbroglio sta nel ragionamento che la derelitta sinistra moderata italiana, in fase reattiva contro Matteo Salvini, avanza in queste ore, desiderosa forse di chiuderla con l'agonia e compiere il harakiri finale. Il leader della Lega Nord aveva detto: «Chiedo al presidente Gentiloni una presa di posizione netta dell’Italia contro ogni ulteriore e disastroso intervento militare in Siria».
Il raid in Siria è
avvenuto prima che gli ispettori
dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche
iniziassero l’inchiesta su quanto
accaduto a Douma. Il 12 aprile, infatti, un comunicato
ufficiale dell’Agenzia dava la data di sabato 14 come inizio
della missione .
Siria: il pretesto dei gas
Ciò a fronte del fatto che il ministro della Difesa americano James Mattis aveva dichiarato che gli Stati Uniti non avevano prove dell’uso del gas a Douma, motivo dei raid punitivi di Francia, Gran Bretagna e Usa contro Damasco.
Così la missione dell’Agenzia internazionale è stata la prima vittima delle bombe. E la tempistica del bombardamento fa nascere il legittimo sospetto che si sia voluto evitare l’accertamento dei fatti.
La caduta di Ghouta e la vittoria di Assad (e dell’Iran)
La possibile, più che probabile, smentita delle accuse contro Assad non sarebbe stata solo una debacle dei governi occidentali che hanno affermato di avere prove dell’accaduto.
Avrebbe vanificato tutta l’operazione politico-militare occidentale avviata dopo la riconquista di Ghouta da parte del governo siriano.
La riconquista del quartiere di Damasco, infatti, sancisce la vittoria di Assad nella guerra siriana, ma anche dell’Iran nella lunga guerra iniziata con l’intervento militare statunitense in Iraq.
Proprio
stamane sul
Corriere un “anonimo” ufficiale militare italiano
smentiva definitivamente la fake news sulle armi chimiche:
«Dire che
siamo preoccupati non rende bene l’idea. In verità siamo
sconcertati da quello che sta succedendo in Siria. […] Prima
di
proseguire vorrei sottolineare una cosa: l’attacco dovrebbe
essere una rappresaglia per l’uso di armi chimiche da parte
della Siria. Ma
francamente non si sono mai viste armi chimiche che colpiscono
solo donne e bambini e che poi vengono lavate via con
l’acqua». Fatta
questa premessa, sempre l’ufficiale ricorda la situazione
paradossale che sta vivendo la Siria, paese “sovrano” – nel
senso di
formalmente indipendente da altri Stati – invaso da anni da un
paese Nato: «Nel caos siriano la Turchia ci sguazza. Non vede
l’ora
che la tensione salga in modo che possa continuare a fare i
suoi comodi senza che nessuno fiati. In pratica la
Turchia è un paese invasore
della Siria del nord e adesso anche del nord dell’Iraq, e
nessuno dice nulla».
Di fronte all’invasione conclamata, si decide oggi di bombardare il paese invaso e non l’invasore. Questa la legalità internazionale che tutti i paesi europei stanno avallando, chi direttamente – come Francia e Gran Bretagna – chi indirettamente, come Germania e Italia. Che, ripetendo il consueto schema, evitano la diretta implicazione nei bombardamenti salvo poi presentarsi con lo stuolo di medici, intelligence e imprese petrolifere a raccogliere i frutti dell’ennesimo paese invaso. Grazie al cielo (per la Siria), c’è la Russia.
[Rompo momentaneamente il format del blog che in questa pagina principale ospita -in genere- solo articoli e studi mediamente approfonditi. Pubblico invece un post delle 8.00 di stamane sulla mia pagina fb, scaturito dalla notizia del giorno. Trattandosi di fatto geopolitico che è non l’unica ma una delle principali questioni intorno a cui articolo le mie riflessioni, corre l’obbligo data la rilevanza degli eventi.]
L’ORA PIU’ BUIA
(h. 03.00). “Allora capo, facciamo che prendiamo tre palazzine
vuote di periferia e ci picchiamo sopra un centinaio di
missili che fanno BUM!
BUM! BUM! dicendo che sono centri di ricerca su i gas
venefici. Facciamo tipo alle 3 ora locale così è buio, la
gente sta a casa e non
corriamo rischi, i fotografi immortalano le scie dei missili
perché una immagine vale più di mille parole. Lei va in
televisione e fa il
pezzo da padre severo ma giusto, io chiamo russi ed iraniani e
gli do le coordinate dei lanci pregandoli di star calmi che se
manteniamo tutti le
palle ferme, nessuno si fa male e ne usciamo tutti alla
grande, ok?”
Così, alla fine, deve esser andata e meno male. Avrebbero potuto farlo già due giorni dopo il presunto attacco quando è arrivato il cacciatorpediniere D. Cook ed avrebbero dimostrato la stessa cosa ed in più anche di esser svegli e sempre sul pezzo. Lo hanno invece fatto quando la faccenda s’era intricata assai e si rischiava di non saper più come uscirne senza perdere la faccia. Vedremo nei prossimi giorni ma l’impressione, anche leggendo i pezzi dei giornali mattutini, è che qualcuno voleva il colpo grosso, qualcuno voleva trascinare gli USA al first strike per iniziare una escalation da manovrare in un senso ben più ampio, rischioso e drammatico. Invece del first strike hanno avuto l’one shot, Armageddon è rinviato, anche questa volta la terza guerra mondiale non è iniziata, delusione.
E così è accaduto l'evitabile.
Non che ci fossero molti dubbi. Non
mi
soffermo sulla cronaca: siete più informati di me, e a me
informarmi interessa poco, per il semplice motivo che ogni
giorno di più ho
riprova di quanto desolante sia il panorama dell'informazione.
Il casus belli resta dubbio, come lo fu in decine di
occasioni precedenti, e
quello che permetterebbe ex ante di capire quanto poi
tutti capiscono ex post è una virtù apparentemente
rara: un minimo
di orecchio musicale.
Fa anche sorridere questo modo di fare la guerra: ci si mette d'accordo prima su quale obiettivo colpire e su quali missili tirare giù, si spendono un po' di soldi così, for the sake of show, o per quello sport tipicamente maschile che consiste nel misurarselo. Naturalmente per riparare le strade i soldi non si possono spendere: però per tirare qualche fischiabbotto sì. Si chiama keynesismo bellico, e in fondo è sempre esistito. Fare la guerra per finta con le armi vere è stato a lungo considerato una pratica nobile, e aveva anche allora un certo indotto economico, anche se, ogni tanto, le cose andavano storte, creando problemi veri. In questo caso, per esempio, se a qualcuno saltassero i nervi (ma non salteranno), potremmo morire. Ora, questa, mi rendo conto, è una prospettiva poco piacevole per il weekend, ma mi preoccupa poco, non tanto perché è anche poco probabile, ma soprattutto perché quello che mi sbigottisce, più che la prospettiva eventuale di una fine prematura, è la constatazione desolante di quanto siano imbecilli i nostri cosiddetti simili!
Di fronte ai bombardamenti sulla
Siria, crescono le proteste contro la guerra. Questa mattina a
Roma gli statunitensi per la pace e la giustizia hanno
convocato un sit in
davanti l’ambasciata Usa in via Veneto. La Questura ha imposto
però un assudo divieto a superare le 50 persone nella
manifestazione. Potere al Popolo ha convocato per venerdi 20
aprile una giornata nazionale di mobilitazione contro la
guerra in tutte le
città (a Roma anticipata al 19 per andare a manifestare sotto
Montecitorio). Non è escluso che vista la precipitazione gli
appuntamenti
possano essere modificati. Oggi a Milano è già stato convocato
un presidio in piazza San Babila dal Comitato contro la
guerra.
Il sindacato Usb ha invitato i propri iscritti a partecipare alle mobilitazioni: “Trump, Macron e May hanno bombardato Damasco, mettendo a rischio la pace nel mondo. L’intera area è divenuta il teatro di una guerra infinita. La Palestina continua a soffrire l’occupazione israeliana, mentre l’Arabia Saudita continua massacrare la popolazione yemenita. L’USB invita i suoi militanti ad aderire e promuovere le manifestazioni contro questa ennesima folle aggressione.
Hanno evitato per scaramanzia il venerdì 13 –
che nella tradizione anglosassone è il vertice della jella –
ma appena passata la mezzanotte Usa, Francia e Gran Bretagna
sono partiti all’attacco della Siria.
Come Contropiano aveva anticipato già ieri, i segnali di un incremento anomalo delle attività radar del Muos di Niscemi rivelava che l’attacco era ormai questione di ore.
Il via era stato dato dallo stesso Trump in diretta tv, alle 21 di ieri sera (le 3 in Italia), limitando però fortemente la portata dell’attacco rispetto alle sue stesse dichiarazioni della vigilia: “Il nostro obiettivo è distruggere le capacità di lanciare armi chimiche del regime siriano… andremo avanti il tempo necessario per distruggere le loro capacità”.
Una conferma indiretta di questa “autocensura” è arrivata da Damasco: “sono stati lanciati circa 30 missili, un terzo dei quali sono stati abbattuti”. Secondo fonti ufficiali russe, invece, si è trattato di 103 missili da crociera e aria-terra su obiettivi militari e civili in Siria. Il ministero della Difesa russo, però, aggiunge che 71 di questi missili missili è stato “intercettato e abbattuto” dai sistemi di difesa siriani.
I russi sono stati avvertiti in anticipo e gli attacchi hanno evitato con molta cura anche solo di sfiorare truppe o installazioni con personale russo.
Nonostante
un’economia che va a pieni giri, con la crescita del PIL al
3%, la disoccupazione al 3,6% ai minimi da 40 anni ed un
surplus
commerciale record che sfiora i 300 miliardi di €, i maggiori
economisti tedeschi sono assai preoccupati per le sue sorti.
La minaccia più
immediata? Che il dibattito sulle riforme dell’Unione
monetaria prenda una piega concreta verso la condivisione dei
rischi, grazie soprattutto
alle (timide) pressioni francesi e data l’inspiegabile assenza
dell’Italia. Infatti, una riforma dell’Eurozona anche solo
debolmente
risk-shared che aumentasse (di poco) i trasferimenti di
risorse verso i Paesi periferici vorrebbe dire rinunciare al
comodo status quo attuale, nel
quale l’industria tedesca può sfruttare la robusta ripresa del
mercato europeo interno per le proprie esportazioni a prezzi
ultra-competitivi.
La proposta ufficiale del gruppo di influenti economisti tedeschi, tra cui Hans-Werner Sinn e Karl Konrad del Planck-Institut e niente meno che il Presidente del Consiglio dei Saggi Economici (Sachverständigenrat), Christoph Schmidt è radicale ma non sorprendente: la legislazione comunitaria dovrebbe prevedere espressamente una procedura di uscita dall’Eurozona, sulla falsariga dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona recentemente invocato dal Regno Unito.
«C’è
un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra», ha
scritto Walter Benjamin: «A noi, come ad
ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una
debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto»1.
In
altre parole: il tempo non è necessariamente entropico; non è
solo il cumulo di rovine contemplato dall’Angelus novus.
È possibile che la generazione precedente possa orientare la
nuova generazione verso il futuro, non già, però, ove si
consideri
quest’ultimo come suscettibile di essere generato
spontaneamente e meccanicamente dal passato, secondo le
tradizionali mitologie del progresso,
ma come luogo in cui possono essere proiettate le aspirazioni
irredente degli sconfitti. E’ così che, secondo Benjamin, dal
passato si
riaccende «la favilla della speranza»: nel buio può ritornare,
sia pure debole e discontinua, la coscienza della luce.
L’opera dello storico può risultare utile a questo scopo, ove
riesca a far esplodere alla superficie della coscienza momenti
dimenticati
del nostro passato, a recuperare frammenti di parole
all’interno di vite ormai ridotte al silenzio.
La nuova biografia di Gramsci scritta da Angelo D’Orsi sembra muoversi esattamente in questa direzione. Gramsci non è qui presentato come il creatore di un patrimonio di idee che altri hanno poi provveduto a custodire ed incrementare. Ci appare piuttosto come uno sconfitto la cui esistenza chiede ancora riscatto. I Quaderni, scrive D’Orsi, costituiscono «una lunga e sofferta meditazione sulla sconfitta»2.
1. Questo saggio di Gianfranco La
Grassa si divide in due
scritti che possono essere letti uno indipendentemente
dall’altro. Tuttavia, gli elaborati in questione non sono
slegati tra loro, anzi,
costituiscono un solo corpo che sta insieme logicamente, in
quanto la parte teorica iniziale è la chiave analitica per
comprendere quella
storica successiva.
La teoria, nella speculazione lagrassiana, costituisce il faro che illumina gli eventi, penetrando nella profondità degli stessi, oltre le apparenze e le ricostruzioni comunemente accettate. Dunque, benché egli non sia uno storico di professione, riesce ugualmente a fornire un’interpretazione originale degli avvenimenti sociali del secolo scorso (e di quelli più recenti), con un taglio di visuale particolare, ignoto ai professionisti della storiografia, ormai meri banalizzatori del passato, ad uso dei gruppi dominanti del tempo presente.
L’opera lagrassiana percorre la strada di un doppio revisionismo, teorico e storico, contrario alle vulgate in auge (i “revisionismi” ufficiali presentati come sola versione autorizzata degli accadimenti), che gli costa, ovviamente, isolamento intellettuale ed esclusione dai canali editoriali più potenti. In primo luogo, è bene precisare, come il Nostro afferma nel libro, che «la teoria è il massimo livello della pratica giacché serve in definitiva a guidare l’agire degli esseri umani», nelle loro iniziative intellettuali e sociali. Ma la teoria serve anche a setacciare nella Storia quelle concatenazioni evenemenziali, quei rapporti conflittuali tra soggetti “assoggettati” alle dinamiche oggettive, innervanti la società, che svelano meglio l’indirizzo di un’epoca e i suoi risvolti, visibili e meno visibili.
La guerra alla Siria determinerebbe i destini della sinistra in Europa: e c'è il rischio che il morto afferri chi cerca di nascere e spinga tutti a destra. Non cadiamo nella trappola.
L'eventuale attacco statunitense (e israeliano) contro la Siria sarebbe un pericolo enorme per il genere umano: bisogna gridarlo ai quattro venti, mobilitarsi e fare di tutto per impedirlo. Se accadrà, bisognerà stare con assoluta chiarezza dalla parte degli aggrediti e di chi li difende, ossia della Russia e dell'Iran.
Proprio come la Prima guerra mondiale ha determinato a suo tempo un terremoto nel movimento socialista europeo, obbligando a prendere posizione e partito e portando alla nascita del bolscevismo, anche questa guerra potrebbe però essere anche, in potenza, l'evento fondativo di una nuova sinistra in Europa e di una nuova storia della sinistra nel XXI secolo. Il contesto oggi è infatti assai diverso da quello della guerra contro l'Iraq, o l'Afghanistan, o la Libia, perché la manipolazione dell'opinione pubblica tramite indignazione morale umanitaria è oggi qualcosa sotto gli occhi di tutti, un'arma spuntata.
Lo scenario che si sta delineando in queste ore nel conflitto siriano ricorda da vicino la “pistola fumante” delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein con cui gli Usa giustificarono agli occhi del mondo l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Ci sono infatti molte ragioni per esprimere scetticismo di fronte alla denuncia dell’ennesimo attacco chimico contro i civili siriani attribuito al regime di Damasco nell’area di Douma, ultima roccaforte delle milizie jihadiste filo saudite di Jaysh al-Islam nei sobborghi di Damasco.
Innanzitutto perchè già in passato attacchi simili sono stati attribuiti ai governativi senza che emergessero prove concrete mentre notizie e immagini diffuse oggi dai “media center” di Douma come ieri da quelli di Idlib, Aleppo e altre località in mano ai ribelli sono evidentemente propagandistiche e palesemente costruite.
Lo schema si è già ripetuto più volte fin dalla guerra in Libia del 2011 e poi in Siria: fonti “umanitarie” strettamente legate alle milizie jihadiste e ai loro alleati arabi diffondono notizie non verificabili per l’assenza di osservatori neutrali.
Notizie e immagini di attacchi chimici vengono subito diffuse dalle tv arabe appartenenti alle monarchie del Golfo, cioè agli sponsor dei ribelli, per poi rimbalzare quasi sempre in modo acritico in Occidente.
Dove vuole arrivare Trump, che ora frena, con la sua strategia da “scontro all’ultimo sangue” con la Russia di Putin? –Il Pentagono ancora cerca le prove dell’attacco chimico… – Un gioco pericoloso, che ricorda la seconda Guerra del Golfo, scatenata sulla base di indizi fabbricati a tavolino. – Siamo al grottesco: Mosca chiede addirittura le coordinate dei missili
Chi sta vincendo la mano di carte tra Putin e Trump (che ora, però, frena) sulla Siria? Putin, è ovvio. Non perché sia simpatico. Anzi, Ma perché è più intelligente e meno infoiato di becero narcisismo dell’ex Palazzinaro, che occupa la Casa Bianca. A voler essere cattivi (ma equanimi), si potrebbe dire che il russo gioca a poker e che l’americano pensa di fare una partita a zecchinetto. Cioè mettendo zero psicologia (e cervello) per influenzare il corso degli avvenimenti. Il Cremlino e le sue teste pensanti hanno una precisa strategia: cogliere la (mala) occasione per spaccare il fronte occidentale. E ci stanno riuscendo.
Se Trump, la brutta copia della Thatcher (la premier britannica May) e il francese Macron, ognuno per i propri interessi, non certo cristallini, vogliono mettere Putin con la testa nel sacco, molti altri Paesi, invece, ragionano con la loro testa. Prima fra tutti la Germania, con Frau Merkel, che ieri ha annunciato, urbi et orbi, che sì, forse a Douma sono state usate armi chimiche, ma che Berlino si guarderà bene dal partecipare a qualsiasi attacco. La solidarietà occidentale, insomma, va bene. Ma solo a chiacchiere. Quando si passa ai fatti, come si dice a Napoli, “qua nisciunu è fesso”. Le prove dell’utilizzo di gas da parte di Damasco non ci sono.
L’Occidente in blocco condanna Assad per l’attacco coi gas (che però è da verificare). Mentre in Usa tutti, da Trump a Bezos, passando per Wall Street e Hollywood, accolgono con gioia Mohammed bin-Salman, l’uomo forte ed erede al trono dell’Arabia Saudita, noto finanziatore del terrorismo
Rieccole. In Siria son tornate le armi chimiche. Sarebbero state usate contro Douma, il sobborgo di Damasco dove si sono asserragliati gli irriducibili di Jaysh al-Islam (l’Armata dell’Islam). Sarebbero cento i morti per una bomba al cloro sganciata dall’aviazione militare siriana, con il rischio che il conto delle vittime cresca ancora. Sarebbero, è giusto dire. Perché la notizia è stata data dagli Elmetti Bianchi, che lavorano solo nelle zone tenute dagli insorti, e dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, mantenuto dal governo inglese, due agenzie molto citate ma comunque schierate contro Bashar al-Assad. E poi, naturalmente, dagli uomini di Jaysh al-Islam, gruppo ribelle che gli Usa hanno sempre rifiutato di inserire nella lista nera delle organizzazioni terroristiche ma che nondimeno sono responsabili di una lunga serie di attentati contro obiettivi civili in Damasco, di violenze nella stessa Douma contro i civili che chiedevano la resa per evitare altri bombardamenti, dell’uso di civili come scudi umani e di tante altre piacevolezze simili.
“Non sono una politica né un’analista, parlo solo di quel che ho visto dal mio punto di osservazione, che è il poi il convento di Damasco in cui vivo”. Suor Iola è a Roma, di passaggio. Francescana, vive in uno dei luoghi più cari della cristianità: il Memoriale della conversione di san Paolo. Una struttura che oggi ospita malati, orfani e poveri.
La incontriamo. E ci racconta: “Quando i giornali e le televisioni occidentali parlano delle operazioni militari del governo contro Ghouta descrivono il governo siriano come brutali assassini che infieriscono contro persone che lottano per la libertà. Per chi abita a Damasco non sono eroi, ma terroristi”.
Sono diversi dall’Isis obiettiamo. Alza le spalle: “Sono tutti uguali… Isis, al Nusra e tutti gli altri gruppi armati… i combattenti passano da un gruppo all’altro. Cambiano nome, distintivi, bandiere, ma sono sempre gli stessi”.
Gli chiediamo della notizia del giorno, che agita il mondo: l’eccidio perpetrato a Douma – rione di Ghouta – con i gas, che ha convinto l’Occidente a intervenire. “Nessuno a Damasco crede alle accuse contro il governo siriano. Non aveva nessun motivo per usare i gas. Aveva vinto la guerra, che motivo aveva di fare un’azione che avrebbe sicuramente scatenato un intervento dell’Occidente?”.
Il punto è allora questo: ci sarà un'escalation militare da parte di Trump (escludendo che Damasco — o un altro grosso obiettivo — possa essere bombardata autonomamente dagli UK)?
In un articolo di esattamente 20 giorni fa consigliavo per i giorni successivi di tenere a mente alcuni punti. Il primo era, cito: "I consiglieri militari degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna stanno istruendo i tagliagole a Ghouta per la preparazione di attacchi chimici false flag, esattamente come quelli del 2013". Come tutti sanno non ho la sfera di cristallo, ma più di mezzo mondo sapeva che nella Ghouta si stavano preparando attacchi chimici false flag. Avrebbero dovuto essere contemporanei all'"attacco chimico sugli UK" (caso Skripal), ma il diavolo ci ha messo lo zampino, anzi due: l'Esercito Arabo Siriano ha sequestrato ai "ribelli" diversi laboratori per la preparazione di armi chimiche e in aggiunta gli scienziati militari inglesi non hanno voluto certificare le accuse alla Russia di Teresa May e di quella tragica e orripilante macchietta che è Boris Johnson.
Ma la provocazione è andata avanti lo stesso, perché ormai l'Occidente e le sue élite, tanto più criminali quanto più spaventate, hanno perso ogni pur minima traccia di pudore.
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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Più che un manifesto teorico, "Realismo capitalista" è un pamphlet. Uno straordinario, puntuale saggio di trasversalità, di capacità comunicativa, di partecipazione emotiva e di lettura degli immaginari dominanti
È difficile rendere il senso di
smarrimento che la
mattina del 14 gennaio 2017 seguì alla notizia del suicidio di
Mark Fisher, avvenuto il giorno prima all’età di quarantotto
anni.
Non si trattava soltanto del sincero ma un po’ rituale
cordoglio per la perdita di un intellettuale prematuramente
scomparso, né dello
sgomento nei confronti di un gesto troppo grande e troppo
definitivo per poter essere elaborato persino da chi Fisher lo
conosceva bene; piuttosto la
sensazione fu quella di un improvviso vuoto assieme politico,
culturale e soprattutto esistenziale, che di colpo parve
accomunare tanti di coloro che
si erano imbattuti nei suoi scritti, nelle sue analisi,
finanche nelle sue provocazioni. Fuor di retorica, Mark Fisher
è stato davvero una
presenza importante per (credo di poter dire) chiunque ne
abbia incrociato il percorso, anche solo in via periferica e
occasionale: negli ultimi anni
era diventato qualcosa di simile a una specie di guida morale,
o se non altro di riferimento fraterno a cui guardare con un
misto di affetto,
complicità e implicito timore reverenziale. Anche perché,
nonostante fosse un intellettuale indipendente perennemente ai
margini della
cultura ufficiale, Fisher aveva parlato a tanti: lo
smarrimento non si abbatté soltanto sui circuiti della
filosofia politica e di quel pianeta
ambiguo che nel mondo anglofono va sotto il nome di cultural
theory, ma investì anche una quantità attonita di
musicisti, di
artisti, di scrittori, di lettori di cose di cinema e di
appassionati di quell’altra faccenda enigmatica che siamo
soliti chiamare
«cultura pop».
Quel pazzo di
Assad…
I siriani sono un popolo di inebetiti che si fanno governare da un mentecatto sadomasochista che utilizza un esercito di deficienti. Così, nella provincia di Ghouta, da cui terrroristi jihadisti al soldo di Usa, Israele, Turchia e Arabia Saudita facevano il tiro al piccione sui civili di Damasco, liberata al 90% a costo di interrabili sacrifici e costi, con decine di migliaia fuggiti dai jihadisti che rientravano alle loro case, cosa fanno Assad, esercito e siriani plaudenti? Cosa fanno dopo che Usa, UK e Francia, notoriamente in fregola di massacri, avevano promesso castighi spaventosi in caso di attacco chimico di Assad? Cosa fanno dopo che l’avevano sfangata nel 2013 dalla stessa identica accusa di aver ucciso qualche centinaio di bimbetti siriani con i gas nervini, sfangata grazie alla smentita dei satelliti russi, grazie alla scoperta di alcuni genitori che quei cadaverini appartenevano a loro figli rapiti da Al Nusra settimane prima nella zona di Latakia e grazie alla consegna e totale distruzione sotto controllo ONU (cioè Usa) dell’INTERO arsenale di armi chimiche siriano? Cosa fanno?
Manco fosse l’idra trumpiana composta da un Bolton (Sicurezza Nazionale Usa), o un Pompeo (Dipartimento di Stato), o una Gina Hagel (CIA), invasati di eccidi, guerre e torture, Assad ordina un’apocalisse chimica su donne e bambini a Douma, ultimo fortilizio in cui sono asserragliati i mercenari israelo-saudi-Nato che si fanno forti dello scudo umano imposto alla popolazione. Un esercito di fratelli, sorelle, padri e figli di quelle donne e di quei bambini, esegue con la coscienza umana e civile di un cyborg alimentato a bile nera di cobra. E il popolo? Plaude, in attesa che ad Assad gli giri di prendersela chimicamente con un altro dei loro quartieri o villaggi.
Negli anni 1881 - 1882, Marx intraprese degli ampi studi storici che coprivano gran parte di quella che era allora nota col nome di "storia mondiale". I quattro grossi quaderni in cui erano riportati estratti dalle opere (principalmente) di due storici di punta di quel tempo, Schlosser e Botta, sono rimasti quasi del tutto inediti. Qui si cerca di contestualizzare quelli che sono gli ultimi studi di Marx relativamente al corso della storia mondiale, rispetto agli studi storici precedenti, ma incompiuti, riguardo la critica dell'economia politica
«Tutta la storia dev'essere studiata
nuovamente!»
(Lettera di Engels a Conrad Schmidt, 5
Agosto 1890)
Sia la portata che lo scopo di queste sue note sono sorprendentemente ampie, e vanno ben al di là della storia europea, coprendo in realtà molte altre parti del mondo. L'interpretazione che ne viene qui data si basa sull'attenzione espressa dallo stesso Marx: l'autore del "Capitale" era affascinato dal lungo processo di costruzione degli Stati moderni e del sistema statale europeo, uno dei prerequisiti fondamentali dell'ascesa del capitalismo moderno in Europa.
Marx viene considerato il (co-)fondatore della cosiddetta "concezione materialista della storia"; ma egli non ha mai usato il termine «materialismo storico». È impossibile delineare una simile "teoria della storia" - o, per essere più precisi, una teoria del "processo storico mondiale" - senza uno studio dettagliato della storia, senza una conoscenza precisa dell'immensa, caotica massa dei "fatti", dei documenti, di ogni genere di materiali perduti e poi riscoperti, delle tradizioni, dei testi (e quindi che sono già delle interpretazioni) della storia scritta.
Sapevamo da tempo che, estinti i grand commis del nostro capitalismo di stato, spazzato via dalla rivoluzione liberista, l’economia italiana è ora in mano a un’imprenditoria privata di basso profilo, incline a svolgere il ruolo di borghesia compradora per conto della grande finanza e dei monopoli globali, terrorizzata da ogni cambiamento politico “destabilizzante” e incapace di produrre visioni all’altezza di un tempo di radicale e tumultuoso cambiamento come quello che stiamo vivendo. Il meeting di Cernobbio di primavera, dedicato alla finanza, conferma e rafforza tale giudizio.
Richiesti di un parere sul governo più auspicabile, un’ampia maggioranza relativa si è espressa per una coalizione fra centrodestra (con Berlusconi a frenare gli spiriti animali di Salvini) e Pd di rigorosa osservanza renziana (cioè liberista, antisindacale e antipopolare). Il tutto condito da peana (due terzi di giudizi favorevoli) sull’operato del governo Gentiloni, appena “licenziato” dalla stragrande maggioranza dei cittadini elettori, celebrato come un fulgido esempio di “stabilità”. Altre possibili soluzioni - da un governo Di Maio-Pd a una coalizione M5S-Salvini - vengono visti come il fumo negli occhi, a conferma che gli enormi sforzi che Di Maio ha compiuto negli ultimi mesi per liquidare ogni velleità “antisistema” e darsi un’immagine moderata, europeista ancorché critica, attenta a non ledere gli interessi delle élite industriali e finanziarie, non vengono giudicati sufficienti.
Sulla crisi della sinistra si discute molto partendo dal gioco tra partiti, voto elettorale, possibilità o meno di far nascere un governo. Sulla natura della crisi politica poco o nulla si affaccia come area di dibattito. Tutto il confronto è concentrato, mi sembra, sulla efficacia comunicativa del leader, sulla natura della sua leadership, sulla forma, estensione e solidità del cosiddetto “cerchio magico”.
Sarebbe necessario, invece, tornare a discutere delle forme dei poteri, della loro allocazione nei rapporti sociali e sulla collocazione dei partiti sul suo campo. Allora, forse, ci accorgeremo di alcune “solitudini”, politiche e sociali, che negli anni hanno prodotto il quadro politico che attraversiamo. E la descrizione non riguarda solo il nostro paese, ma tutti i paesi ove la rappresentanza politica del mondo del lavoro si era configurata, almeno in partenza, come volontà esplicita di trasformazione degli equilibri dei poteri fino alla volontà di ribaltare quelli esistenti. A cosa doveva servire il “Partito”? E cosa rappresentava nell’immaginario del mondo del “Lavoro”? Il Partito era la “casa”, “l’organizzazione”, la comunità, necessaria alla costruzione di una “alterità sistemica” rispetto ai poteri esistenti. Alterità rispetto ai “poteri” che avevano costruito una loro “forma”, un loro assetto e un consenso, culturale e sociale, in grado di “garantire” gli interessi di chi era in grado di estrarre “ricchezza sulle spalle dal lavoro altrui”, offrendo una retribuzione che consentiva al lavoratore di vivere, ma non di liberarsi dalla schiavitù “lavoro salariato”.
La volontà M5S di rimanere nell'alleanza occidentale, nel Patto atlantico, nella Ue e nell'euro, sono forse un tradimento e un esempio di incoerenza? In realtà, niente di nuovo sotto il sole
Destano scandalo, in certi ambienti che hanno qualche rappresentanza sui social, molto meno nella società, le posizioni politiche che sta assumendo Luigi Di Maio. La cosiddetta “apertura” al Pd per la formazione di un nuovo governo e l’aver ribadito, nel messaggio all'uscita dalle consultazioni con il presidente Mattarella, la volontà di rimanere nell'alleanza occidentale, nel Patto atlantico, nella Ue e nell'euro, sono state salutate come un tradimento, l'ennesima giravolta, un esempio di magnifica incoerenza.
In realtà, niente di nuovo sotto il sole.
Durante la campagna elettorale Di Maio ha ripetuto, come un mantra, che in caso di mancata maggioranza avrebbe rivolto un appello a tutte le forze politiche (a tutti i gruppi parlamentari) per formare un governo a guida 5 stelle partendo dal suo programma ma raccordandolo con le altrui priorità. Dunque, Di Maio sta perfettamente rispettando il mandato elettorale nel momento in cui si rivolge alla Lega ed al Pd per instaurare un confronto da cui possa scaturire un accordo di governo sulla base di un contratto programmatico “alla tedesca”.
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Per la verità, la domanda che dà il titolo a queste considerazioni andrebbe posta al “Corriere della Sera”che pubblica un’intervista all’ex segretario del PdCI, piccola formazione politica ridenominatasi qualche tempo fa, con ammirevole modestia, PCI.
Ma chi è Diliberto? Qualche succinta notizia può bastare a farsi un’idea di questo personaggio micromegasico della sinistra italiana.All’epoca in cui rivestì la carica di Guardasigilli nei due governi D’Alema (1998-2000), il sociologo Salvatore Palidda, studioso delle forze dell’ordine, così ebbe a definire in un’intervista l’operato di Diliberto: “I più strenui difensori delle forze dell’ordine negli ultimi anni sono stati Violante, D’Alema, Minniti. Da anni la sinistra fa a gara per chi deve essere il referente politico. I Gom, squadre speciali violentissime che all’interno delle carceri ristabiliscono l’ordine con vere e proprie spedizioni punitive, sono i protagonisti della “visita” a Bolzaneto. Nell’atto costitutivo avevano a capo un generale dei carabinieri, ex iscritto alla P2. E lo sa chi li ha creati? Lo dica lei... Eh sì, Sua eccellenza Diliberto. Da Guardasigilli fu lui a firmare il decreto di nascita dei Gom. Ma non ha mai spiegato all’elettorato di sinistra il perché”. Che altro dire? Complimenti a Diliberto per questo suo importante contributo alla causa della lotta per la democrazia e il socialismo!
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La prassi filosofica di Costanzo Preve è stata antinichilista poiché Preve ha testimoniato con la sua vita lo statuto epistemico della Filosofia: la verità, come totalità, interna a processi dialogici e dialettici. La Filosofia contemporanea è innocua in quanto vive ai margini dei saperi, anzi la Filosofia è associata ai movimenti di liberazione dalla verità. In media lo storico della filosofia legge positivamente il dissiparsi della verità dialettica, della totalità, che consente di leggere il contesto sociale e storico. Il trionfo della prospettiva sulla totalità è considerato disalienante, è il materializzarsi dei ditirambi di Dioniso in un mondo liberato dalla gravità perniciosa della verità. Il capitalismo assoluto al suo apice è il regno delle merci, la totalità veritativa è sostituita con la merce e la conseguente poietica. Non essendoci verità, non vi sono limiti pertanto rovesciando l’imperativo kantiano “Usa l’altro come mezzo e mai come fine”, anche se stessi.
Il nichilismo è la pratica alla formazione dell’entificazione del mondo. L’emancipazione dalla totalità è dunque il nichilismo liturgicamente consacrato. Con il trionfo della prospettiva, la storia liberata dai “ceppi dialettici” è solo cenere. Il tramonto della filosofia della storia, è il tramonto della dialettica. Se non vi è alcuna verità, ma tutte le prospettive sono equipollenti, la storia torna all’anno zero senza possibilità che vi sia la progettualità, una verità a cui tendere.
Il pensiero di J. M. Keynes, Susan Strange e Dani Rodrik su interesse nazionale e democrazia
Il presidente degli Stati Uniti
d'America Donald Trump sta chiudendo le frontiere del suo
paese applicando pesanti dazi alla Cina e a tutto il mondo, e
si sta scontrando apertamente
con il presidente cinese Xi Jinping che invece è diventato il
maggiore alfiere del libero commercio internazionale (anche se
Xi Jinping si
guarda bene dal liberalizzare completamente la moneta e la
finanza nel suo paese).
Lo scontro tra protezionismo e globalismo non si limita certo al conflitto tra Trump e Xi Jinping. Uno scontro analogo, anche se ovviamente non identico, si svolge da tempo in Europa, tra i cosiddetti “sovranisti” che non vogliono subordinarsi all'euro e alla “tecnocrazia” di Bruxelles, e, dall'altra parte, gli europeisti ad oltranza: questi ultimi sono schierati a favore della maggiore integrazione europea, e quindi a favore della libera circolazione dei capitali (che, insieme alla libera circolazione delle merci e delle persone, è il sacro principio fondante di questa Unione Europea). Gli europeisti ad oltranza condannano a priori ogni forma di resistenza nazionale con l'accusa di populismo e di sciovinismo retrogrado e reazionario.
Ormai però le forze della destra nazionalista (purtroppo) dilagano: in alcuni stati già governano, come nell'est Europa e in Austria, in altri stati i nazionalisti di destra sono diventati la principale forza di opposizione, come in Germania l'AFD (Alternative für Deutschland) e in Francia il Front National. Il nazionalismo ha attualmente quasi sempre una caratterizzazione di destra estrema e para-fascista. La Gran Bretagna è uscita nonostante che laburisti fossero contrari alla Brexit. L'onda della destra nazionalista avanza ormai in tutta Europa, Italia compresa.
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Nel Capitale il lavoro
produttivo viene così descritto:
"La produzione capitalistica non é soltanto produzione di merce, é essenzialmente produzione di plusvalore. E' produttivo solo quell'operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all'autovalorizzazione del capitale. Se ci é permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola é lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l'imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo danaro in una fabbrica di istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e produzione del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale di origine storica che imprime all'operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale". (Il Capitale, libro I, sezione 5°, capitolo 14°,pag.222; Editori riuniti, 7° ediz.).
Un' altra descrizione la si può trovare, ad es., in Mandel, Trattato di economia marxista, 1962, pag.302:
" In generale si può dire che ogni lavoro che crei, modifichi o conservi valori d'uso o che sia tecnicamente indispensabile alla loro realizzazione, é un lavoro produttivo, cioè aumenta i loro valore di scambio. In questa categoria rientrerà ... [quindi anche] il lavoro d'immagazzinamento, di manutenzione e di trasporto, senza cui i valori d'uso non possono essere consumati".
Una descrizione invece del lavoro improduttivo la si può trovare, nel Capitale, descritta in modo indiretto, ad es. per quanto riguarda la circolazione del capitale:
Cambridge Analytica è solo la punta dell’iceberg di un sistema ben più complesso. È un problema politico. Non è solo Google. O Cambridge Analytica, o Facebook. È Amazon. È Uber. È Angry Birds. È il surveillance capitalism, fondato sull’estrazione dei dati personali
“Information
is power. But like all power,
there are those
who want to keep it for themselves”.
Aaron Swartz
Kuala Lumpur, San Paolo, Reykjavík, Pechino, Washington,
Abuja, Riad.
Le antiche ley line psicogeografiche, i sentieri
viventi della terra che collegavano Stonehenge, le piramidi
egizie, le ziqqurat precolombiane dell’America Latina, l’Isola
di Pasqua e la
Grande Muraglia cinese, sono sostituite da immensi cavi di
fibra ottica.
Una quantità incalcolabile di dati viaggia sulla rete che
attraversa il globo terrestre alla velocità di centinaia di
megabyte per
secondo.
Il pianeta si surriscalda. Tonnellate di acqua sono utilizzate
in ogni istante per raffreddare gli immensi server che
immagazzinano
dati a ciclo continuo.
Tutto si crea. Nulla si distrugge.
Ogni dato personale è conservato e catalogato in maniera certosina.
La storia di ogni singolo individuo nel tardo capitalismo è racchiusa in una manciata di gigabyte, gelosamente custoditi da compagnie private con ramificazioni negli apparati governativi, negli eserciti e nei contractor privati. Ben oltre Cambridge Analytica.
Tornato prepotentemente sulle prime pagine dopo l’intervista rilasciata dal presunto whistleblower Christopher Wylie su The Guardian del 18 marzo, il suo nome è il velo di Maya che cela il paesaggio del reale a tinte ancor più fosche.
È la pillola blu di Matrix.
Come ho più volte sostenuto il governo formale del Paese può tranquillamente aspettare perché in mancanza di una decisa discontinuità, appare come un fattore del tutto secondario visto che esiste già un esecutivo di fatto: i poteri europei e i centri dell’economia finanziaria finanziaria che ne sono i burattinai. Anzi a questo proposito abbiano già un documento di programmazione economico – finanziaria stilato dal Fmi e fatto uscire due settimane fa sotto forma di studio, ovvero l’incarnazione più neutra di diktat, che” suggerisce” nuovi e più intensi massacri sociali in diretta collisione con le promesse dei vincitori delle elezioni, ma anche delle ipocrisie dei perdenti.
Si tratta con tutta evidenza del prodotto di amanuensi rincretiniti che continuano a scrivere formule e a consigliare di aumentare le dosi del veleno che ha causato il declino, senza nemmeno accorgersi delle contraddizioni e dei non sensi a cui vanno incontro nel tentare di conciliare l’ideologia con la realtà fattuale: da una parte si dice infatti che l’Italia ha una percentuale di dipendenti pubblici inferiore alla media, che lo Stato spende poco per la scuola e che il livello di investimenti pubblici è insufficiente.
Con la proposta sul reddito di avviamento al lavoro, la Lega fa un passo in avanti sul percorso di avvicinamento ad un governo condiviso col Movimento 5 Stelle. Comprendiamo la natura primariamente politica e tattica di questa mossa ma riteniamo un’analisi comunque utile al fine di comprendere cosa sia possibile aspettarci da tale compagine governativa. La proposta in sé, purtroppo, non fa che confermare i nostri dubbi sulla reale capacità di queste forze politiche di rappresentare i veri interessi delle classi subalterne.
Allo stato attuale, la proposta consiste in un reddito di 750 euro mensili per i disoccupati sotto la soglia di povertà, erogato per tre anni in cambio dell’iscrizione ai centri per l’impiego e l’obbligo di accettare la prima offerta di lavoro ricevuta da questi ultimi. Fino a qui le differenze con la proposta stellina sembrano limitate. L’aspetto originale della proposta è che tale reddito è erogato sotto forma di “prestito”, avanzato da Poste e dal sistema bancario con garanzia Cdp.
L’uso delle virgolette è d’obbligo visto che per il primo anno il 50% del reddito erogato è a carico del capitale, percentuale che scende al 30% per il secondo anno ed a zero per il terzo, che il tasso di interesse è zero, e che il piano di restituzione scatta solo nel momento in cui il beneficiario ottiene effettivamente un lavoro, attraverso moderate trattenute sul reddito; a detta del proponente, Armando Siri, si tratterebbe di una rata massima mensile di circa 75 euro.
La giovinezza di Marx ed Engels, raccontata in un film solo all’apparenza biografico, ma che si concentra sulla congiuntura per mostrare il punto singolare dell’emergenza di una storia, individuale e collettiva
Bruxelles, 1848, ovvero il momento in cui Karl Marx e Friedrich Engels scrivono il manifesto del Partito Comunista. È così che finisce Il giovane Karl Marx di Raoul Peck: un biopic atipico, sentimentale, fatto da un regista haitiano tra i più intelligentemente politici degli ultimi anni e che riprende giusto una manciata di anni nella vita di Marx durante gli anni Quaranta dell’Ottocento fino appunto alla redazione del più famoso manifesto programmatico della storia moderna.
Fare un film su una figura così ingombrante come Marx è un progetto che metterebbe paura a chiunque (Ėjzenštejn, per dire, non c’era riuscito) eppure Raoul Peck riesce a passare dalla porta stretta che vi è tra la fedeltà alla ricostruzione storica (il racconto è molto più meticoloso, anche nei dettagli secondari, di quanto ci si potrebbe attendere da una produzione del genere) e un racconto di estrema semplicità e efficacia su un giovane intellettuale e militante che attraversa uno dei momenti cruciali della storia europea.
Non è di per sé sbagliato affermare che il voto a 5 Stelle e Lega abbia avuto un carattere anti-establishment. Il problema è che un establishment è tale perché dispone anche di una potenza ideologica e quindi condiziona persino le opposizioni. Oggi l’establishment è la finanza e infatti la finanziarizzazione ha assunto il ruolo di senso comune.
Come proposta “alternativa” all’idea del cosiddetto “reddito di cittadinanza” lanciata dai 5 Stelle, la Lega ha parlato di un “prestito d’onore” ai disoccupati, da restituire “comodamente” in venti anni. Si tratta di un’ulteriore spinta all’indebitamento delle masse ed alla finanziarizzazione dei rapporti sociali, cioè la sostituzione dei salari con i prestiti. All’inizio il debito sarebbe nei confronti dello Stato, ma nulla impedisce che un domani un governo in difficoltà finanziarie venda i propri crediti ad agenzie finanziarie private.
“Reddito di cittadinanza” in realtà è uno slogan ingannevole, poiché, per come è stata formulata la proposta dai 5 Stelle, si tratterebbe di un sussidio di disoccupazione un po’ allargato. La proposta economica più “sostanziosa” dei 5 Stelle rimane perciò il microcredito alle piccole imprese. Microcrediti a microimprese che, in quanto strutturalmente sottofinanziate, potrebbero farsi solo concorrenza al ribasso, con ovvi effetti negativi non solo sulla quantità e qualità dell’occupazione ma anche sul tessuto industriale preesistente.
In questo breve articolo intendo proporre delle considerazioni sullo storicismo e sull’arte in Walter Benjamin, a partire da alcune cose che ho sentito qua e là e che, l’ispirazione è potenzialmente ovunque, hanno suscitato in me, appunto, quanto segue.
1) Sullo storicismo in Benjamin (a partire dalle Tesi sul concetto di storia).
In Benjamin vi sarebbe una contraddizione tra la critica allo storicismo ed il fatto che egli si accosti al materialismo storico, che a sua volta è una forma di storicismo, che peraltro è quella dominante al tempo. Egli quindi non solo si avvicina a ciò che critica, ma nel farlo si mette dalla parte dei dominanti e non degli oppressi, cosa che invece sarebbe lo scopo della sua critica allo storicismo.
2) Sull’arte in Benjamin (a partire da L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica).
La divisione benjaminiana tra le caratteristiche dell’opera d’arte e le caratteristiche dell’opera riprodotta sarebbe semplicistica. Infatti, oggi vi è la possibilità di realizzare opere che presentano entrambe le caratteristiche, essendo tecnologicamente prodotte e però considerabili come opere d’arte.
I due punti qui sopra, a me suggeriscono le seguenti osservazioni.
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Nasceva duecento anni fa l’autore
del
«Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo
interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne
rivendica
l’attualità. «Non può fare a meno di lui una sinistra
globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli
abitanti della Terra».
Immanuel Wallerstein, Senior Research Scholar alla Yale University (New Haven, USA) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti con il quale riflettere sul perché il pensiero di Marx sia ritornato, ancora una volta, di attualità.
* * * *
MM: Professor Wallerstein, 30 anni dopo la fine del cosiddetto “socialismo reale”, in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno a tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IW: Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni qual volta si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo anche in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono in proposito altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi – non certo solo io – trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo nuovamente alla sua rinnovata popolarità.
Giorgio Cesarano, I GIORNI DEL DISSENSO. LA NOTTE DELLE BARRICATE. Diari del Sessantotto, a cura di Neil Novello e con uno scritto di Gianfranco Marelli, Castelvecchi, 2018, pp.218, € 17,50
Giorgio
Cesarano (1928-1975) rimane una delle figure centrali, ma
anche una delle più rimosse, dell’attività politico-culturale
italiana
del secondo dopoguerra. Poeta, autore teatrale e televisivo,
traduttore e, soprattutto a partire proprio dal 1968, critico
del capitalismo e militante
dell’ala più radicale espressa dal movimento di contestazione
dell’ordine di vita esistente venutosi a costituire in Italia
proprio
tra il’68 e il ’77.
Contemporaneo e amico di Giovanni Raboni e Franco Fortini, oltre che di altri importanti esponenti del rinnovamento poetico e culturale italiano dei primi anni sessanta, si sarebbe poi allontanato progressivamente da quello stesso ambiente intellettuale per vivere pienamente l’esperienza e il sentimento, come lo avrebbe definito egli stesso, della Rivoluzione.
L’opera appena ripubblicata da Castelvecchi, con la cura attenta e preziosa di Neil Novello, aveva costituito nel 1968 una delle prime testimonianze dirette di un movimento che, in quella primavera e a Milano, stava muovendo i primi passi. Pubblicata da Mondadori nel luglio di quello stesso anno aveva di fatto costituito l’ampliamento di un testo, “Vengo anch’io” direttamente ispirato all’omonima canzone di Enzo Jannacci, pubblicato da Anna Banti sulla rivista “Paragone”.
All’epoca, però, il testo apparve “censurato” dalla casa editrice e mondato della seconda parte che, già all’epoca, l’autore avrebbe voluto pubblicata insieme alla prima (e pubblicata poi nell’autunno di quell’anno su “Nuovi argomenti” con il titolo “La notte del Corriere”), finalmente ripresa in questa nuova edizione che, inoltre, ripristina anche il testo originale del primo diario.
Il ritorno al bilateralismo come approccio diplomatico è fonte di gravi errori di prospettiva che potrebbero mettere in serio pericolo un equilibrio globale già abbastanza instabile
La
politica estera americana è giunta ad una svolta? Sta per
chiarirsi la direzione verso cui muove l’Amministrazione Trump
dopo il suo
primo anno di insediamento? Questi interrogativi tengono banco
nel dibattito politico di questi giorni, e non soltanto negli
USA.
Una serie di avvenimenti di particolare rilevanza si sono susseguiti ad un ritmo piuttosto intenso nelle ultime settimane ed hanno dato la sensazione di un’accelerazione degli eventi con segnali sempre più evidenti di una svolta impressa dall’attuale amministrazione, soprattutto nella strategia di politica estera, con intrecci e ripercussioni anche in questioni di politica interna.
Ripercorriamo quindi brevemente la successione dei più importanti recenti avvenimenti e proviamo poi ad individuare delle possibili chiavi di lettura.
In ordine cronologico, il primo di questa serie di eventi è stato l’annuncio, da parte del Presidente Trump, a fine febbraio scorso, tramite il suo strumento di comunicazione preferita, cioè il “cinguettio” mediatico di un tweet, di voler incontrare il leader Nordcoreano Kim Jong Un, per aprire un negoziato diretto, con l’obiettivo dichiarato di ridimensionare i programmi nucleari della Corea del Nord. Un’apertura avvenuta in coincidenza con le Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del Sud, dove si è verificato un evento simbolico di portata storica: un team misto di atleti nord e sudcoreani ha gareggiato sotto un’unica bandiera simboleggiante l’unità del popolo coreano. Un evento da molti considerato un grande successo diplomatico dell’attuale presidente della Corea del Sud, Moon Jae In. [1]
Come molti giovani europei anche io sono partito per uno scambio Erasmus: dopo quasi tre mesi mi concedo qualche riflessione che vuole essere il più generale possibile, in cui i soggetti che compaiono sono – citando Marx – delle semplici “maschere di rapporti sociali”, per cui non se ne abbia a male nessuno, visto che lo stesso scrivente è ben dentro quei processi che cerca di descrivere.
Cosa rappresenta l’Erasmus? Innanzitutto l’Erasmus è una bolla, una bolla divertentissima: pensate di essere gettati in mezzo a centinaia o migliaia o decine di migliaia di persone provenienti da tutta Europa in un luogo che non è un luogo, con nessuna responsabilità nei confronti delle persone che vi circondano, potendo scopare, bere, drogarvi e fare tutte quelle cose che piacciono a tutti in un contesto progettato anche in termini di infrastrutture, attraverso tutta una serie di luoghi dedicati ad agevolare questo tipo di vita. A chi potrebbe non piacere tutto ciò? E questo sia detto senza moralismo di sorta, senza la minima condanna.
Passare del tempo in delle bolle non è di per sé qualcosa di negativo, il parco attrazioni in cui il bambino viene portato la domenica è per lui una bolla, ma sa che il giorno successivo lo aspetta di nuovo la scuola.
Ricordate quale fu il leitmotiv delle élite globaliste dopo il referendum che sancì la Brexit? In preda ad un livoroso sconforto sostennero che per il leave votarono i cittadini più poveri e ignoranti, mettendo in minoranza quelli più colti e illuminati. Stessa musica venne suonata quando venne eletto D. Trump negli Stati Uniti.
Furono diversi gli intellettuali di grido "liberali" che, con la bava alla bocca per la vittoria dei "populisti", non esitarono a proporre di revocare il suffragio universale, per consentire il diritto di voto solo a quelli che se lo meritavano. Un esempio su tutti:
«Mai come oggi tantissime persone assai poco informate prendono decisioni che hanno ripercussioni su tutti quanti. Basta studiare la pochezza dell’attuale campagna presidenziale americana per capire come il problema più urgente nella politica degli Stati Uniti non sia l’influenza delle grandi aziende, dei sindacati, dei media e nemmeno quella dei soldi. Il problema principale siete voi, gli elettori americani. Eliminando i milioni di elettori irresponsabili che non si prendono il disturbo di imparare i meccanismi più basilari della Costituzione, o le proposte e la storia del loro candidato preferito, forse potremmo riuscire ad attenuare le conseguenze della sconsideratezza del loro voto».
Un pornografico odio di classe che nei fatti si traduceva nella riproposizione del voto per censo, proprio come avveniva nelle "democrazie" liberali di un tempo.
L’epica stracciona di 108 metri, una riflessione sul genere che è anche una recensione sull’ultima opera working class di Alberto Prunetti.
Se uno studiato ti
chiama signore, mettiti col
culo a muro
Renato Prunetti
Scriveva Benjamin, a proposito della crisi del romanzo dell’inizio del XX secolo e di Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, che il romanziere e il narratore epico assumono «due atteggiamenti diversi al cospetto del mare». Se lo scrittore epico si ferma sulla spiaggia, e si mette ad ascoltare la voce del mare, raccogliendo oziosamente le conchiglie e i relitti che la risacca trascina a riva, il romanziere è invece colui che naviga verso il mare aperto, laddove la massa d’acqua incrocia l’azzurro del cielo. In tal senso, secondo Benjamin «il luogo di gestazione del romanzo è l’individuo nella sua solitudine, incapace ormai di attribuire valore esemplare alle sue supreme aspirazioni, senza nessuno che lo consigli e neppure in grado di consigliare chicchesia»1. La stessa insormontabile e impotente solitudine che si respira nei romanzi italiani di questo inizio di secolo. Romanzi che vincono premi letterari, fanno tendenza e ispirano affollati festival della domenica in cui sciamano sovraeccitati lettori-individui, per poi sprofondare nel rumore di fondo della prossima pubblicità.
Uno spettro si aggira nei cinema… Finalmente esce in Italia Il Giovane Marx di Raoul Peck, che esordì alla Berlinale 2016 assieme a I’m not your negro, il documentario su James Baldwin che dette notorietà internazionale all’ex ministro della cultura del governo Aristide. Ed è una bella lezione di marxismo.
Il cineasta haitiano, in coppia fissa alla scrittura con Pascale Bonitzer, critico dei Cahiers du cinéma pregiati, conferma, dopo Lumumba ( e dopo l’ancor più interessante documentario su Lumumba, girato precedentemente e molto autobiografico perché il padre di Peck era un diplomatico che visse l’assassinio del leader progressista dagli uffici di Joseph Kasa Vubu, primo presidente della Repubblica Democratica del Congo indipendente ) la sostanza politica alta dei suoi copioni biografici, mai agiografici né retorici.
Un esempio di questa mancanza di sentimentalismo?
È vero che Engels e Marx brindano, a un tratto, ai “cervelli che davvero pensano e agli spiriti liberi” ma si ricorda anche che della parola “libertà” fanno un uso esagerato soprattutto i borghesi: “sono liberi i padroni di usare la forza lavoro, sempre, ma i lavoratori sono sempre obbligati a venderla”.
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Niamey, Aprile 2018. Quello di Lamine per esempio. Passato dall’Accademia di calcio in Costa d’Avorio e poi in quella del Ghana si è poi scoperto a giocare a guardia e ladri coi gendarmi algerini. Lui, da centrocampista, si è trasformato in manovale nei cantieri della capitale. Lamine si nasconde alle forze dell’ordine che fanno collezione di migranti da deportare spostandosi al piano superiore del palazzo. Sarebbe in fuori gioco ma né l’arbitro né la moviola funzionano. Stanco di scappare e di vivere di paura come un topo torna nella sua natale Guinea. Si smarca dopo un paio d’anni di controlli biometrici nella difesa delle biopolitiche dell’occidente. Lamine porta la maglietta numero 8 da quando era bambino. Il sogno si trova tutto nella borsa che porta con sé da Algeri. Si trova in mezzo ad abiti smessi da altri migranti partiti in Marocco, in Tunisia o Libia. Ad ognuno il suo sogno numerato. Quello di Lamine porta fortuna e alla domanda di cosa farà da grande risponde che farà il calciatore. Ha un buon destro e a diciannove anni spera di giocare in Europa, un giorno.
Chi detiene il potere lo sa. Non c’è nulla di più pericoloso dei sogni inesplosi. Da quello di M.L.King, tradito fino ad oggi nella sua patria, a quello dei palestinesi a cui si spara, senza nessuna indignazione, con pallottole reali per morti reali.
Di seguito il nostro intervento al primo incontro del ciclo su Tecnologia, Lavoro e Classe, scaricabile in formato PDF qui. Ci vediamo giovedì 19 aprile, ore 16, alla Facoltà di Economia di Roma Tre per il secondo appuntamento, in cui discuteremo delle nuove frontiere dello sfruttamento nell’era digitale
1.
L’introduzione delle macchine e la disoccupazione
Il progresso tecnologico è un fenomeno per sua natura complesso e controverso. Nonostante la vulgata mainstream tenda a presentarlo come un fenomeno meramente tecnico, neutrale e quasi salvifico, ha ovvie implicazioni politiche e sociali. Già alcuni tra i fondatori dell’economia politica si interrogavano sul ruolo che meccanizzazione dei processi produttivi, introduzione delle macchine e possibile sostituzione del lavoro umano avrebbero avuto nel disciplinare ed orientare il conflitto di classe a favore delle classi dominanti. Si può tracciare infatti una linea ideale che parte da David Ricardo – il quale notava come l’introduzione delle macchine potesse al contempo “rendere esuberante la popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori” – ed arriva a Marx, per il quale le macchine possono risultare funzionali al disegno dei capitalisti di comprimere “il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo valore”. In questa maniera, ci dice Marx, la sovrappopolazione relativa “forma un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera assoluta come se fosse stato allevato a sue spese”.
2. I movimenti dell’esercito industriale di riserva
L’utilizzo delle macchine, all’interno di un sistema capitalista, è d’altro canto uno dei terreni di lotta sui quali il conflitto distributivo prende forma. L’introduzione delle macchine nel processo produttivo rende momentaneamente superflua una parte della popolazione, ingrossando le fila dell’esercito industriale di riserva. Come conseguenza, aumenta la concorrenza all’interno della forza lavoro, con ripercussioni negative sui salari e sulle condizioni lavorative.
Nelle scorse
settimane il presidente americano
Trump ha annunciato l’imposizione dei dazi doganali su
acciaio e alluminio, manovra decisamente in controtendenza
rispetto alle politiche
economiche e industriali portate avanti dalle potenze
occidentali negli ultimi decenni. D’altra parte però, le
mosse trumpiane rilette
alla luce di alcune tendenze in atto in Europa – come la
Brexit per un verso e alcuni richiami sovranisti per un
altro: dalle destre emergenti
all’indipendenza catalana – lasciano trasparire la
crescente precarietà che segna l’equilibrio globale che si
è dato
negli ultimi decenni e ci spinge a guardare al ruolo che
hanno altri attori in questo contesto. Lo scenario è
tutt’altro che chiaro, le
coordinate tutt’altro che tracciate e i processi restano
aperti e fluidi.
* * * *
Ne abbiamo parlato con Raffaele Sciortino, che abbiamo innanzitutto invitato a riflettere sulla natura della decisione di Trump: un tatticismo utilizzato per catturare il consenso di una certa composizione di classe degli Usa e per avvantaggiarsi rispetto ai principali competitor, come Cina ed Europa, o l’anticipazione di un mutamento dell’ordine neoliberale che mette in discussione la globalizzazione?
Non credo si tratti di un mero tatticismo a uso interno, anche se la componente interna c’è – ancor meno queste misure protezionistiche vanno lette come riprova di un presunto “isolazionismo” di Trump; ma neanche si tratta, come molti pensano, di un’aggressivizzazione verso l’esterno senza capo né coda dovuta al personaggio. Siamo di fronte a un passaggio, che potrebbe anche rivelarsi un punto di non ritorno, da inquadrare innanzitutto alla luce dell’impellenza per gli Stati Uniti di tracciare delle linee rosse contro alleati, rivali e avversari. Il punto è: come (ri)combinare l’esigenza di ricostruzione del fronte sociale interno, dell’unità della nazione, con la riaffermazione della primacy americana nel mondo.
Il filosofo tedesco aveva
ragione:
pensare solo a sé equivale ad un non pensarci affatto[1]. Potrebbe essere questo il
pensiero dell’uomo seduto, ben vestito, ormai rassegnato e
solo, a braccia conserte ed in maschera a gas. La sua insana
passione per il gioco
d’azzardo gli ha tirato un brutto scherzo. Non sappiamo cosa
pensasse del mondo ma è certamente assuefatto dalla
narrazione che
prospettava il 2050 come un anno su cui scommettere. È
ostinato, fisso dinanzi ad un televisore in rottami,
continua ad osservare quella
schizofrenica mano di poker dove tutti i giocatori al tavolo
sono costretti a rilanciare, rimandare al futuro, per
restare in partita anche quando le
proprie carte valgono niente. Avrebbe fatto meglio a pensare
alla sorti di altri esseri umani, avrebbe potuto capire che
dietro quel continuo rilancio
si nascondeva un bluff per tirare a campare con altri tre
decenni di barbarie capitalista ma possiamo fargliene una
colpa?
“Si stima che nel 2050”, questo è l’incipit più di moda degli ultimi anni. Recente è la pubblicazione - televisiva - dei dati OMS[2] sulla Antibioticoresistenza ma se ne discute da tempo. Così su Repubblica nel novembre 2017:
«Un preoccupante futuro post-antibiotico. Si stima che nel 2050 una persona ogni 3 secondi possa morire a causa di un'infezione multiresistente agli antibiotici [..] "futuro 'post-antibiotico' nel quale potremmo non essere più in grado di effettuare interventi chirurgici importanti”, ha spiegato Vytenis Andriukaitis[3].
È possibile costruire una scienza dello spazio? Una scienza che raggruppi più discipline come un’antropologia dello spazio, una psicologia e una psicoanalisi dello spazio, una storia dello spazio-tempo e una sociologia dello spazio e del tempo, un’economia politica dello spazio? Secondo Henri Lefebvre non solo è possibile. È necessario. Ancor di più dopo aver criticato le illusioni kantiane di uno spazio puro, dato a priori, ed esser approdato alla convinzione che l’impresa non sia più il luogo decisivo in cui si formano il plusvalore, i rapporti sociali di produzione e, più in generale, il modo di produzione come totalità. La riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici, questa è la tesi, si realizza negli spazi della quotidianità, del tempo libero, della cultura, nelle estensioni delle vecchie città, nella proliferazione di nuove città, ovvero attraverso l’intero spazio.
La recente pubblicazione di Spazio e politica. Il diritto alla città II (ombre corte, 2018), una raccolta di scritti di Lefebvre tra il ’70 e il ’72, ha il merito di includerne un paio – Lo spazio e Le istituzioni della società post-tecnologica – che costituiscono dei veri e propri work-in-progress del fare teoria sullo spazio e, precisamente, sullo spazio urbano. In essi si esplicita gran parte dei metodi di analisi, dei presupposti teorici, dei riferimenti politici di Lefebvre. In altri termini, viene mostrato il background della sua teoria sullo spazio.
Se la Repubblica popolare cinese non avesse resistito all'offensiva restauratrice che ha abbattuto le democrazie popolari in Est Europa al termine della Guerra Fredda, e se anzi non avesse rilanciato il suo progetto per il XXI secolo, la prospettiva socialista sarebbe oggi mero oggetto di studio per gli storici contemporaneisti e, per qualcuno, ricordo nostalgico della giovinezza e del mito. Oppure, ancora peggio, oggetto di investimento psicopatologico per frequentatori di minuscole sette in cerca di conforto.
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E' solo grazie a Deng e ai suoi successori, i quali a partire da Tienanmen hanno fatto della Cina un'alternativa strategica globale, se il socialismo è invece ancora una realtà effettuale, un progetto politico attuale e da portare a compimento e un orizzonte di civiltà.
La sfida di una modernità e di una ricchezza sociale integrale, nella quale questione nazionale, questione sociale e sguardo globale-universalistico si fondono e per la quale il capitalismo e le sue irrazionalità saranno solo preistoria.
Logiche e meccanismi di controllo alla luce dell'affaire Facebook /Cambridge Analytica
Ogni disciplina ha il suo tormentone: la filosofia si chiede dall’alba dei tempi se esista davvero un libero arbitrio; la fisica s’interroga sulla nascita dell’universo; la giurisprudenza, spesso, si domanda quale debba essere la funzione del carcere.
Questo dilemma fu uno dei crucci di Jeremy Bentham: filosofo e giurista inglese, campione di originalità (potete osservare tutt’ora il suo cranio imbalsamato presso lo University College di Londra, per suo volere testamentario) vissuto tra diciottesimo e diciannovesimo secolo ed esponente di spicco dell’utilitarismo giuridico: indirizzo che vede la pena come un male (minore) capace di evitare un altro male (peggiore).
Bentham ritenne infatti che fosse necessario punire solo ciò che era utile punire e con il minor sforzo possibile. Per questa ragione, ideò un sistema di sorveglianza penale malignamente perfetto. Il suo nome dice già tutto: Panopticon – che in greco antico significa “Ciò che vede ogni cosa”… L’idea che sta alla base di questa utopia penale è che un solo sorvegliante, all’interno di un carcere, possa controllare tutti i detenuti senza che quest’ultimi possano sapere se in un dato momento siano osservati oppure no. Questo principio, come detto, risponde alle esigenze di quell’utilitarismo giuridico, propiziato proprio da Bentham.
Per secoli, da Socrate a Kant, nel modo di analizzare le nostre condotte morali, abbiamo confidato in una sorta di “razionalismo” etico. Anche di fronte ai suoi giudici e agli allievi che lo assistono prima di bere la cicuta, Socrate raccomanda di non rinunciare mai alla conoscenza del bene e all’autoesame che comporta, convinto che dalla conoscenza del bene non potrà non conseguire l’impegno a perseguirlo. Così Kant, che inaugura la riflessione morale moderna, è persuaso che il ragionamento, non intralciato da interessi, inclinazioni o condizionamenti esterni, è sufficiente a obbligarci ad assumere una condotta morale. A entrambi sfugge la fitta trama psicologica che separa e lega allo stesso tempo il momento in cui ragioniamo su quali siano i nostri doveri e il momento della loro traduzione in criteri effettivi di condotta. In altri termini, trascurano che la nostra agency morale, ovvero la capacità di autoinfluenzare le nostre azioni morali, non si compone solo di un aspetto cognitivo, ma anche del repertorio di meccanismi con cui autonomamente motiviamo, regoliamo, monitoriamo, l’attuazione dei nostri pensieri morali. E il più importante di questi meccanismi è rappresentato dalle autosanzioni affettive, che inibiscono condotte nocive o inumane, consentendo di evitare i sensi di colpa, la vergogna e i rimorsi che minerebbero il nostro benessere, qualora cedessimo a quelle condotte, o, addirittura, trattenendoci dal cedere ad esse anche se abbiamo la sicurezza di non essere scoperti.
Per la prima volta al cinema il Giovane Marx del grande regista haitiano Raoul Peck, in sala dal 5 aprile
Nonostante la vita di Marx ed Engels sia piena di avvenimenti di rilievo e si tratti di due degli intellettuali che hanno avuto la maggiore influenza sulla storia e il mondo contemporaneo, si è dovuto attendere il bicentenario della nascita del Moro di Treviri per poter vedere nelle sale un film dedicato alla sua vita e opera da parte di un grande regista. In effetti, ad eccezione di un dimenticato film girato in Urss più di quarant’anni fa, il film di Peck può essere considerato il primo vero e proprio film su Karl Marx. Quindi la sua uscita nelle sale in Italia dal 5 aprile è un’occasione certamente da non perdere. A questo proposito ringraziamo Malvina Diletti e Valentina Marone di Inter Nos ufficio stampa web che hanno dato la possibilità al nostro giornale di visionarlo in anteprima per i nostri, certamente interessati, lettori.
Il giovane Karl Marx è, in primo luogo, un’ottima occasione per avvicinare le giovani generazioni alla vita e all’opera di due giganti della Rivoluzione come Marx ed Engels. Anche perché il film è incentrato sugli anni giovanili, dal 1843 al 1848, presentandoci la vita e le opere di due giovani tra i 23 e i 30 anni.
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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L’integrazione
neoliberale dell’Europa
Stabilire il momento in cui il processo di integrazione europea si è volto al peggio non è compito facile. È una difficoltà dovuta al fatto che gli aspetti più nefasti (da una prospettiva progressista) di questo processo sono il risultato di decisioni apparentemente non nefaste prese nei decenni precedenti. Per semplicità, comunque, possiamo fissare il momento di svolta dell’Europa verso il neoliberismo intorno alla metà degli anni ‘70, quando il regime cosiddetto “keynesiano”, adottato in occidente dopo la seconda guerra mondiale, entrò in una crisi conclamata.
Non solo, in quegli anni, la pressione salariale, i costi crescenti e l’aumento della competizione internazionale avevano causato una riduzione dei profitti, provocando l’ira dei capitalisti; a un livello più profondo, il regime di pieno impiego minacciava di costituire le fondamenta per un superamento del capitalismo stesso: una classe lavoratrice sempre più militante aveva iniziato a fare fronte con i movimenti della controcultura dei tardi anni ‘60, chiedendo una democratizzazione radicale dell’economia e della società.
Come l’economista polacco Michał Kalecki aveva anticipato trent’anni prima, il pieno impiego non era divenuto solamente una minaccia economica per la classe dominante, ma anche e soprattutto una minaccia politica. Durante gli anni ‘70 e ‘80 questo fu motivo di grande preoccupazione per le élites occidentali, come è confermato da svariati documenti pubblicati all’epoca.
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
«L’idra della rivoluzione è già
stata annientata nei suoi fautori e in buona parte dei suoi
prodotti; ma bisogna ancora soffocarne la semenza, nel
timore che possa riprodursi sotto
altre forme. I troni legittimi sono stati ristabiliti: ora
mi dispongo a ricollocare sul trono anche la scienza
legittima, quella che si pone al
servizio del supremo Signore, la verità della quale è
attestata da tutto l’universo»1.
In questo modo uno dei massimi teorici della Restaurazione, Karl Ludwig Von Haller, apriva nel 1816 la sua opera più celebre, con un intento dichiarato: sconfiggere anche sul piano teorico le dottrine rivoluzionarie già battute sul piano politico dalla riaffermazione dei principi dinastici in Europa. Sebbene travolte, egli intravvedeva infatti il rischio di una loro possibile riemersione e il diffondersi di una nuova fiammata di sussulti insurrezionali.
Domenico Losurdo ha più volte sottolineato come Hegel sia stato il primo grande intellettuale a rapportarsi in termini razionali alla Rivoluzione francese, spiegandone le cause attraverso il disvelamento delle contraddizioni reali generate dalla società di Antico Regime entrata in una fase di decadenza che decretava la fine della sua necessità storica2. Tutto al contrario, la Restaurazione cercava di spiegare la rivoluzione attraverso cause esterne al corpo sociale (catastrofe naturale, improvvisa epidemia collettiva, teoria della cospirazione…) e metteva sul banco degli imputati anzitutto la speculazione filosofica e il razionalismo illuminista. L’idea di palingenesi connessa al concetto stesso di rivoluzione, ad esempio, ispirata alla convinzione di poter ricostruire su basi nuove, definite per deduzione logico-razionale, le regole fondamentali della società, non aveva per Edmund Burke precedenti storici concreti nella storia europea: le sue uniche radici erano nell’idea astratta e artificiale del primato della ragione, cui tutto deve uniformarsi e nella cui prospettiva tutto ciò che viene dal passato va radicalmente messo in discussione, se non proprio distrutto.
1. Vorrei
proporre alcune brevi riflessioni sull’articolo di Beppe
Grillo “Società senza lavoro”, pubblicato sul suo
blog il 14 marzo 2018.
Le mie non vogliono essere riflessioni politiche e sono svolte per cercare di spostare il tenore della discussione che l’informazione sta cercando di imprimere a questa tematica. Basti dire che il “Corriere della sera” del 16 marzo con un articolo di P. Battista taccia Grillo di utopismo e di marxismo, onde meglio sottolineare il carattere “estremo, anzi estremista”, in ultima analisi totalitario (“si sa che nella storia molto spesso le utopie paradisiache hanno generato molti inferni totalitari terreni”) del pensiero del fondatore del Movimento Cinque Stelle e per sottolineare la netta torsione a sinistra che Grillo vorrebbe imprimere al movimento (niente aperture alla Lega, dunque)[1]. Per quanto la linea editoriale del “Corriere della sera” sia mutata con il cambio di proprietà, è però opportuno ricordare che il quotidiano milanese ha avuto un ruolo fondamentale nel definire il cosiddetto “liberismo di sinistra”, cioè l’ideologia portante del Partito Democratico. E questo ruolo lo ha giocato ben prima che questo partito venisse preso in mano da M. Renzi. Il neo-liberismo del maggior partito della cosiddetta sinistra italiana si definisce, infatti, già negli anni Novanta ed ha avuto nell’ex-classe dirigente del PCI un protagonista di primo piano[2].
Credo dunque sia opportuno commentare la riflessione di Grillo per quello che vuole essere: una riflessione meta-politica, anche se alla politica in ultima analisi vuole essere rivolta.
Nulla come la guerra seleziona chiaramente progresso e reazione. Quando vengono fatti decollare i bombardieri, ogni chiacchiera roboante sulle “magnifiche sorti e progressive” viene tacitata. Perché la faglia tra chi recita una parte e chi fa sul serio passa dai fatti, non più dalle parole consegnate agli ampollosi documenti. Chiunque, insomma, può buttar giù un “programma progressista”, pieno di buone intenzioni su lavoro-pensioni-reddito-scuola-diritti; la prova del budino non sta nella lista della spesa e nella parola più azzeccata, ma in quel che fai quando il gioco si fa tetro. E mai come in questo periodo, le questioni internazionali (Nato e scelte dell’Unione Europea) determinano le vicende economiche e politiche dentro i diversi paesi. Chi sei si vede da come ti schieri su quest’ordine di problemi.
In questo senso, dovremmo addirittura ringraziare Benoit Hamon, divenuto leader dei socialisti francesi – 8% alle presidenziali, poco più del 2% alle recenti elezioni per sostituire due deputati – dopo la tragicomica stagione di François Hollande, per aver rotto il velo dell’ambiguità su questo punto essenziale. Sul sito di Generation-S è apparsa infatti questa dichiarazione decisamente bellicosa sulla Siria, in cui l’unica critica rivolta a Emmanuel Macron è di… aver fatto troppo poco per coinvolgere tutta l’Unione Europea!
1. Avevamo da subito avvertito le elites mondialiste che Trump costituiva un accettabile compromesso: tutto sommato, era evidente fin dalla sua ascesa che per le elites Trump fosse, piuttosto che una minaccia, una sorta di "uomo della Provvidenza"-
Certo, la presidenza Trump appariva senza dubbio un tassello essenziale da normalizzare, rispetto allo scopo di mantenere sostanzialmente intatte le strategie oligarchico-mondialiste; ma in potenza permetteva, e sta in parte permettendo, una linea di conservazione a fronte di una verticale perdita di consenso dei partiti "unici", ma bipolarmente divisi nelle apparenze, cui è stata finora affidata la funzione di vendere la "sfida della globalizzazione" come un benefico TINA orwelliano, intriso di tecnicismo pop.
E abbiamo avuto ragione: oggi, riaffermati atlantismo di guerra non difensiva e l'unilateralità delle regole e dei famigerati valori etici che legittimano gli interventi militari (dissimulando l'imperialismo mercatista), i vertici delle elites, e soprattutto i loro mazzieri dei big-media, hanno (per ora?) accantonato la cronaca continua e inesorabile delle mostruose pecche di Trump.
Jean-Luc Mélenchon (France Insoumise), Pablo Iglesias (Podemos) e Catarina Martins (Bloco de Esquerda) hanno firmato giovedi una dichiarazione di intenti a Lisbona, da cui chiedono di mettersi ovunque all’opera per costruire un nuovo “ordine” per l’Europa. Potere al Popolo ha aderito a questo documento (vedi più sotto):
Dichiarazione di Lisbona per una rivoluzione democratica in Europa
L’Europa non è mai stata ricca come ora. Eppure non è mai stata così diseguale. A dieci anni dallo scoppio di una crisi finanziaria che i nostri popoli non avrebbero mai dovuto pagare, oggi constatiamo che i governanti europei hanno condannato i nostri popoli a perdere un decennio.
L’applicazione dogmatica, irrazionale e inefficace delle politiche di austerità non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi strutturali che causarono quella crisi. Al contrario, ha generato un’enorme inutile sofferenza per i nostri popoli. Con la scusa della crisi e dei loro piani di aggiustamento, è stata intrapresa un’opera di smantellamento dei sistemi di diritti e protezione sociale conquistati in decenni di lotte. Hanno condannato generazioni di giovani all’emigrazione, alla disoccupazione, alla precarietà, alla povertà. Hanno colpito con particolare cruenza i più vulnerabili, quelli che più hanno bisogno della politica e dello stato. Hanno preteso di abituarci al fatto che ogni elezione diventi un plebiscito tra lo status quo neoliberista e la minaccia dell’estrema destra.
Paul Craig Roberts commenta a caldo sul suo blog l’attacco missilistico contro la Siria: poco più di un aggressione dimostrativa, accuratamente calibrata per scongiurare una reazione da parte dei Russi. Ma non per questo c’è da pensare che abbia prevalso il buon senso. Piuttosto, la paura di subire come ritorsione un colpo pesante contro la flottiglia statunitense. “Sarebbe un errore concludere che la diplomazia ha avuto la meglio e che è tornato il buon senso a Washington. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Il problema non è risolto. La guerra rimane sul nostro orizzonte”. E il motivo, per Paul Craig Roberts, non è certo la presunta volontà di difendere le vittime dei dittatori. Tutt’altro: è che gli Usa non tollerano che nessun Paese abbia una politica estera o economica indipendente.
Basandosi sull’attacco missilistico molto limitato da parte degli Stati Uniti, gran parte del quale è stato intercettato e distrutto dalle difese aeree siriane, sembra che i militari americani abbiano avuto la meglio sul folle John Bolton e abbiano saggiamente evitato un attacco che avrebbe prodotto una risposta russa. Sembra che non sia stato preso di mira nessun sito significativo siriano, e nessun russo è stato messo in pericolo.
L’ambasciatore americano in Russia ha detto che l’attacco statunitense è stato coordinato con la Russia per evitare un confronto tra grandi potenze. Russia Insider conclude che sia stato un esercizio per salvare la faccia a Trump.
Mi è arrivato via internet questo scritto del mio amico. Il Tonto appare chiaramente alterato. Possiamo aiutarlo a uscire dal suo tormento?
“Carissimo amico
ti invio queste brevi righe dettate da un profondo senso di scoramento e di amarezza nei confronti di quel che sta succedendo in queste ore.
Come ci è ben noto l’Italia, sconfitta nella seconda guerra mondiale, non ha nei fatti mai avuto una sua autonoma politica estera. L’Italia è stata nei fatti un paese a sovranità limitata.
Ciò nonostante, lungo i decenni dell’egemonia democristiana non sono mancati i distinguo; infatti la classe dirigente di quegli anni ha cercato di muoversi su una faglia particolarmente calda, come quella che divideva l’Occidente Usamericano dall’Oriente Sovietico, con prudente moderazione. Come dimenticare il fatto che l’Italia non ha partecipato con propri uomini alla guerra nel Vietnam, riducendo l’appoggio all’imperialismo USA a una, molto democristiana, «comprensione». Similmente non sono mancati momenti di divaricazione di opinioni come nel caso del Cile o se si vuole in modo molto più significativo col tentativo di stabilire rapporti particolari alcuni stati nord africani, usciti dalla tutele coloniale, per creare spazi di approvvigionamento energetico autonomi dal dominio delle sette sorelle. Come dimenticare il lavoro dell’ENI e il caso Mattei.
Ogni volta
che una persona di sinistra afferma che l’Unione europea così
com’è non va bene, ma la soluzione non è uscirne, la si
deve cambiare dall’interno – rendendola più democratica, una
coesione di popoli e di ideali, sociale e politica e non solo
economica e monetaria, l’Europa del welfare e degli
investimenti produttivi e non del Fiscal Compact e
dell’austerity – una domanda
assale chi scrive. In una brutale sintesi: ci è o ci fa? Il
riferimento, si intende, è a esponenti politici, studiosi,
intellettuali, giornalisti, persone insomma per le quali
approfondire la realtà, leggere documenti, interrogarsi è
dovere del mestiere
che hanno scelto; cittadini impegnati in altre occupazioni non
hanno tempo, fonti e canali per farlo, e dunque non possono
che fare propri e replicare
il pensiero e l’analisi che vengono loro offerti
dall’informazione e dalla politica di sinistra – a scanso di
equivoci, non si
iscrive qui il Partito democratico all’area di sinistra, e
nemmeno i fuoriusciti di Liberi e Uguali; e neanche il gruppo
L’Espresso,
quotidiano Repubblica in testa.
Non si sa cosa preferire. Se la persona ci è, due sono le possibilità.
La propaganda, martellante e pervasiva da oltre vent’anni, ha fatto a tal punto presa che l’ideologia europeista – un sacco vuoto riempito di grandi valori al fine di disarmare la critica con una narrazione potente e universale: pace, progresso, libertà... – è stata assorbita acriticamente anche da chi avrebbe dovuto possedere la chiave di lettura politica e gli strumenti culturali per andare oltre l’etica ufficiale; dunque, prima possibilità, la natura dell’Unione europea non è stata d’emblée approfondita – nel percorso storico, politico, economico, contenuto dei Trattati e poteri delle istituzioni create – e ciò significa che la persona non ha assolto al dovere imposto dal proprio ruolo professionale. Seconda possibilità: la natura della Ue è stata approfondita, ma il pregiudizio favorevole ha offuscato la capacità di analisi.
Riprendiamo un attualissimo articolo pubblicato dal Washington Blog nel 2015, che si occupa delle “guerre umanitarie” intraprese dai governi occidentali. Ogni volta che gli USA vogliono cambiare gli equilibri geopolitici di una regione ne destabilizzano i governi, prendendo a pretesto presunte emergenze umanitarie (che poi si rivelano completamente false o enormemente ingigantite, ex-post) e intervengono militarmente, causando molte più vittime di quelle che a parole volevano evitare. Quindi lasciano le regioni dove intervengono tra le rovine e il caos. L’ennesimo esempio è l’attuale situazione in Siria. E per l’ennesima volta i media nostrani tentano di convincere l’opinione pubblica della “necessità” di un’altra “guerra umanitaria”
La prima
“guerra umanitaria” dell’era post-guerra fredda è avvenuta in
Kosovo, Bosnia e Serbia, regioni della ex Jugoslavia (Croazia
e
Slovenia erano anch’esse regioni della ex Jugoslavia che hanno
pure giocato un ruolo nella guerra).
Secondo Wikipedia:
I “bombardamenti umanitari” sono un’espressione che si riferisce al bombardamento della NATO sulla Repubblica Federale della Jugoslavia (24 marzo – 10 giugno 1999) durante la guerra del Kosovo… L’espressione strettamente connessa “guerra umanitaria” è apparsa contemporaneamente.
Infatti, la guerra in Jugoslavia è stato il modello per tutte le seguenti “guerre umanitarie”… in Libia, Siria, Nigeria (pensate a Boko Haram) e altrove.
Il leader attivista contro la guerra David Swanson l’ha descritta così:
Quello che il vostro governo vi ha raccontato riguardo il bombardamento del Kosovo è falso. Ed è una cosa importante.[…]
L’inizio della guerra di aggressione della NATO, la sua prima guerra post-Guerra Fredda per imporre il suo potere… ci fu presentata come un atto di filantropia .
Il noto reporter di
guerra britannico Robert
Fisk, nel suo reportage da Douma, nei luoghi dove ci sarebbe
stato l’attacco chimico, ha intervistato residenti e medici
di Douma, ed emerge un
quadro della situazione che smentisce tutta la narrativa
menzognera del maistream e dei governi occidentali.
Dal reportage del celebre e storico reporter di guerra Rober Fisk si evince che a Douma non c’è stato nessuno attacco con armi chimiche. Potrebbe essere contestata la versione di Fisk. Vero, ma dal momento che i governi di USA, Francia e Gran Bretagna hanno attaccato la Siria in quanto hanno ricevuto informazioni dai social network dell’uso di gas da parte dell’esercito siriano, perché non si dovrebbe credere ad un reporter di fama internazionale che da più di 40 anni realizza reportage dai campi di battaglia? L’articolo di Fisk acquisisce un autorevolezza maggiore dal momento che non si può affatto definire un simpatizzante di Assad. Dall’articolo, qui in originale, emerge. Segue traduzione integrale pubblicata da Lantidiplomatico.it
* * * *
Questa è la storia di una città chiamata Douma, un luogo devastato e puzzolente di blocchi di appartamenti distrutti – e di una clinica sotterranea le cui immagini di sofferenza hanno permesso a tre delle nazioni più potenti del mondo occidentale di bombardare la Siria la scorsa settimana. C’è anche un dottore amichevole in un cappotto verde che, quando lo rintraccio nella stessa clinica, mi dice allegramente che la ripresa del “a gas” che ha fatto orrore al mondo – nonostante tutti i dubbiosi – è perfettamente genuina.
Un paio di settimane fa mi capitò di osservare, nel corso di un paio di occasioni Tv, che l’ipotesi di un governo del Presidente (o simili) non aveva probabilità alcuna di successo, a meno che non si producesse un evento imprevedibile e drammatico che rendesse impraticabili elezioni anticipare a breve termine. E feci l’esempio dell’esplodere di una grave crisi bancaria, di un attentato jhiadista in Italia o di un terremoto, eventi per i quali sarebbe apparso folle andare a votare e tenere il paese senza governo ancora per molti mesi durante una simile emergenza. Ora l’evento imprevedibile e drammatico si è verificato: la crisi siriana con il brusco peggioramento della situazione internazionale. I missili volano e noi non abbiamo un governo nella pienezza dei suoi poteri.
L’azione degli occidentali è stata circoscritta e molto calibrata, la reazione della Russia è misurata e, almeno per ora, tutta sul piano diplomatico, senza reazioni militari, per cui è possibile che la crisi, pur se gradualmente, stia già rientrando, ma, ai nostri fini questo non ha particolare importanza, perché si è spezzato un incanto, rotto un clima.
In primo luogo nessuno può dire veramente se la crisi stia rientrando o possa esserci a breve una nuova fiammata, e in mesi di tempo la situazione può precipitare di nuovo.
Storia delle idee. Nuova edizione per i testi di Alfred Schmidt e Hans-Georg Backaus, due classici francofortesi che indagano l’opera di Marx in relazione con l’idealismo tedesco. «La realtà sfugge sempre alla presa del concetto, che non si lascia identificare»
Gli anni Sessanta del Novecento non sono stati solo la grande stagione dei movimenti, ma anche un periodo di straordinario rinnovamento e ripensamento del marxismo. A mio modo di vedere, il maggior rilievo lo hanno avuto tre correnti di pensiero che proprio in quella fase si sono sviluppate, non senza rapporto con i movimenti che attraversavano la società.
Le tre nuove letture del marxismo che hanno segnato il periodo sono state quella operaista di Panzieri, Tronti e Negri, quella althusseriana e quella francofortese. Tre esperienze nate nel cuore del vecchio continente (Italia, Francia, Germania) e molto diverse, anzi persino antagoniste, tra loro.
Il filone operaista e quello althusseriano sono stati certamente più innovativi; il vantaggio della lettura francofortese di Marx, però, stava nel fatto che essa era, almeno a mio parere, decisamente più aderente a quello che Marx era veramente stato.
La congiuntura politica ed economica attuale, con i suoi problemi e le sue opportunità, tende ad attirare la nostra attenzione, relegando sullo sfondo l’indagine dell’andamento strutturale del sistema sociale in cui siamo collocati. Tuttavia, per elaborare un’efficace strategia politica di Sinistra, accanto a una valida analisi del presente, occorre provare a prevedere quello che accadrà. In precedenti articoli, mi sono soffermato sulle prognosi di due tra i migliori scienziati sociali[1]. Completo la discussione presentando brevemente l’analisi di Wolfgang Streeck[2].
Secondo il sociologo tedesco, possiamo individuare tre tendenze a lungo termine nei paesi a economia matura: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre, a sua volta, la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita; il settore finanziario si espande, per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, mentre, a sua volta, un settore finanziario gonfiato, restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali, approfondisce la disuguaglianza; gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, mentre, a sua volta, le crisi finanziarie, moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili, accentuano la disuguaglianza e rallentano la crescita, e così via.
Come tutti sappiamo la Costituzione italiana ripudia la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e nonostante questo un ceto politico, senza distinzione fra destra e sinistra, ha trascinato il Paese in almeno 7 guerre di aggressione negli ultimi 20 anni, tutte ingiustificate e preparate con pretesti, alcune lontanissime dagli interessi italiani e almeno due (Jugoslavia e Libia) del tutto contrarie agli stessi. I responsabili di questo stato di cose, compresi quelli che dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica, avrebbero dovuto lavorare per una uscita morbida da un’alleanza come la Nato che non aveva più senso, si sono invece strenuamente dati da fare per precipitare l’Italia in una condizione coloniale senza uscita. Sprechiamo soldi vitali per la tutela dei cittadini e per l’economia del Paese in avventure ambigue e del tutto inutili, al seguito non solo dei padroni americani, ma persino dei valvassini francesi, inviamo uomini e mezzi laddove non servono affatto, giusto per ribadire lo stato di servitù.
Agli americani non gliene può fregare di meno se mandiamo una delle nostre pochissime e malconce cisterne volanti, peraltro comprate a caro prezzo da loro, nei cieli mediorientali per rifornire i caccia che fanno la guerra alla Siria a suon di bugie sui gas e in appoggio ai tagliagole ingaggiati da Washington, che poi nei momenti liberi fanno qualche ammazzatina in Europa.
Una lettura del modo in cui si vorrebbe usare l'intervento di alcune potenze nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo
Nulla è come appare nel grande groviglio siriano, l’ombelico di un intrico ancora più grande che si propaga sul mondo. La narrazione dei mass media dominanti è la risultante di infinite manipolazioni. Per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà. Quella narrazione da noi si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana.
Seguo da molti anni in dettaglio la crisi siriana e la vedo come parte di una crisi più vasta, in cui certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai.
1) Il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci.
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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Di recente
Michele
Prospero, filosofo fortemente
impegnato nella critica di leaderismo e populismo, in
particolare negli anni che vanno dall’insorgere di Berlusconi
a Renzi, passando per il
M5S, ha scritto un interessante articolo su Il Manifesto
(qui
il testo) nel quale segnala la crisi del
liberismo anglosassone ed anche, contemporaneamente sia del
“liberismo a contaminazione populista”, di marca
berlusconiana, sia del
“neo-illuminismo europeo”, di marca prodiana. Distingue quindi
in queste crisi l’emergere di un vuoto nel quale sono premiate
quelle
che chiama “chiusure, protezioni e illusioni comunitarie”.
L’articolo si muove chiaramente nell’orbita di LeU, che ne è il soggetto, il “progetto” cui fa riferimento nei primi righi è questo:
Che il voto non abbia premiato la sinistra è così evidente che non vale insistervi oltre. Invece di accanirsi in una metafisica della sconfitta o di trincerarsi in un silenzio che dura ormai da un mese, i dirigenti dovrebbero chiarire cosa fare del modesto bottino elettorale comunque ricevuto. Non ci vuole una disperata opera di contrizione per spiegare perché dal 6% raggiunto alcuni mesi prima alle regionali in Sicilia si è verificata alle politiche una perdita di almeno due punti che ha indebolito di molto il progetto.
Nel seguito immediato l’autore nomina le cause che hanno sottratto “quei decimali di consenso” che avrebbero ridotto la sconfitta elettorale. Questi sono:
L'Unione europea del pareggio di bilancio,
dell'austerità nei conti dello Stato che erodono il settore
pubblico e il welfare, l'Europa delle
norme che avvantaggiano il grande capitale, dell'euro che
strangola i Paesi economicamente più deboli a vantaggio di
quelli più forti
è anche l'avamposto dei diritti per le minoranze sessuali, e
secondo gli esperti batte per impegno anche l'Onu. Come è
possibile?
Dobbiamo tornare indietro all'onda lunga del Sessantotto, in cui il risveglio politico dei soggetti oppressi, la loro autorganizzazione e presa di parola, toccava anche gay e lesbiche (minoritarie sia nel movimento gay che nel femminismo) (1). Invece di vergognarci per i nostri amori, abbiamo cominciato a praticare la visibilità all'insegna dell'aspirazione rivoluzionaria di quegli anni: nel Gay Liberation Front, nel Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano (il Fuori!), più tardi persino nelle Brigate Saffo. E abbiamo prodotto cambiamenti nella società e nelle leggi: dal 1989 a oggi ben 24 Paesi europei hanno introdotto forme di riconoscimento per le coppie dello stesso sesso. Questo è avvenuto senza obblighi da parte degli organi comunitari europei, che lasciano il Diritto di famiglia agli Stati, però con il loro contributo politico. Dalla seconda metà degli anni '70 sia le istituzioni che oggi chiamiamo Unione europea che il Consiglio d'Europa (2) sono stati oggetto di pressione politica da parte dell'Interna-tional gay and lesbian association (ILGA), fondata in Gran Bretagna nel 1976, e spinta dall'associazione britannica Stonewall a lottare per l'inserimento dell'orientamento sessuale tra le categorie per cui è proibita la discriminazione nei vari forum europei.
Il dibattito sulle trasformazioni del modello produttivo si è spesso polarizzato su due posizioni: da una parte si sostiene che il lavoro ha acquisito un nuovo statuto creativo, cognitivo, spontaneamente cooperativo; dall’altra si afferma che siamo di fronte a una sorta di neotaylorismo digitale. In questa sede vorrei sostenere che Guy Debord ci aiuta a raggiungere una concettualizzazione più articolata del mondo presente andando al di là di questa astratta contrapposizione. E per fare ciò utilizzerò la sua opera principale, La società dello spettacolo, pubblicata nel 1967, ben inteso andando al di là dell’opera stessa. Vorrei sintetizzare le due posizioni in modo esemplare. Da una parte abbiamo il famoso motto di Steve Jobs: “Stay hungry, stay foolish”. Detto altrimenti: non perdete la voglia di imparare, la curiosità, l’ambizione, non smettete di fare scelte azzardate, non convenzionali, di essere ribelli. Dall’altra abbiamo gli oramai famigerati braccialetti di Amazon e cioè i lavoratori telecomandati, ridotti a robot umani.
A scanso di equivoci preciso subito che il fondamento dell’incessante ricerca di profitto da parte del capitale rimane il tempo di lavoro non pagato, il plusvalore. Ciò premesso, venendo a Debord, potremmo dire che i braccialetti di Amazon rappresentano il processo reale, mentre il discorso di Jobs è l’immagine spettacolare di quello stesso processo.
L'orrore e l'angoscia che suscitano i missili e le bombe, il ribrezzo che sale quando quegli strumenti di morte vengono definiti intelligenti, non deve far passare in secondo piano l'aspetto più grave dei bombardamenti in Siria di Trump, May e Macron. Essi sono una sfacciata, totale e violenta rottura della legalità internazionale. Naturalmente sono solo l'ultimo atto di una storia iniziata 26 anni fa con la prima guerra contro l'Iraq. Da allora un gruppo di paesi guidati dagli Stati Uniti e impegnati reciprocamente dai vincoli della NATO si sono autonominati polizia militare mondiale. Con lo spirito dei giustizieri e dei linciaggi del Far West, hanno deciso di ignorare il principio guida della legalità internazionale: uno stato non può fare guerra ad un altro stato sovrano se non per difendersi da esso. Il principio sulla base del quale era stata fondata l'ONU dopo la sconfitta del nazifascismo. Stati Uniti e compagnia hanno così scatenato una lunga trafila di guerre, rivendicate nel nome della democrazia e dei diritti umani, in Europa, Africa, Medio Oriente, Asia. Con queste guerre hanno aggredito e devastato stati sovrani accusati di essere guidati da dittatori. Guarda caso però tanti altri dittatori venivano nello stesso tempo sostenuti ed armati. Lo stato in assoluto oggi più colpevole nella violazione del diritto dei popoli e e di quello internazionale, Israele, veniva protetto e fornito di una impunità assoluta per ogni suo crimine.
La fatica di esistere dell’alternanza scuola lavoro
A volte si incazzano. Nonostante la letteratura e la sociologia, anche i nativi digitali, a volte, perdono la consueta mansuetudine. Così la cronaca di questi giorni ci consegna alcuni casi di un dissenso diffuso da parte dei diretti interessati: gli studenti.
I ragazzi del Vittorio Emanuele di Napoli hanno prestato la loro opera di alternanza presso le strutture del Fai, il fondo per l’ambiente italiano, indossando un cartellino che li indicava non come volontari, ma come studenti obbligati a prestare servizio. Come Paperon de’ Paperoni, il capoccia del Fai – insomma, qualcuno, adulto, deciso a farla pagare ai ragazzacci - si è arrabbiato con gli studenti Qui, Quo e Qua del liceo di Napoli pretendendo dalla scuola una lezione esemplare: l’abbassamento del voto di condotta.
Negli stessi giorni, a Carpi, uno studente dell’Itis “Da Vinci” non si piega al sei in condotta rifilatogli come un patriarcale schiaffone – o come una reazione fascistoide – dal consiglio di classe per aver espresso su facebook un giudizio critico sull’alternanza. La questione ha mosso polemiche e solidarietà allo studente da tutta Italia. Così, nei giorni successivi, il ragazzo ribadisce la propria idea: l’alternanza è sfruttamento del lavoro (in gran parte minorile).
E allora perché non mi sento antifascista? La prima ragione è strategica e generale: definirsi a partire dall’avversario è pericoloso
La trappola
oppositiva
Come al solito fra me e il mondo qualcosa non torna. Questa volta è il fatto di non sentirmi particolarmente antifascista e proprio mentre i resti della sinistra e del pensiero critico sembrano trovare una piattaforma comune nel definirsi tutti come tali. Riconosco che non è un buon inizio. Fascismo, nazismo e totalitarismo mi ossessionano almeno fin da quando gli anni Settanta hanno inciso brandelli di storia e di politica nel mio (in)conscio di bambina. Mi angosciava l’idea che intere nazioni avessero potuto idolatrare un Mussolini o un Hitler, tollerare l’esistenza dei campi o trovare sensata l’eliminazione di ogni differenza. Poi l’ultimo paio di decenni mi ha ben chiarito cosa può uno Stato, quanti e quali investimenti in paura, coazione, intossicamento e scissione siano necessari per insegnare agli umani l’alienazione da sé e dal mondo.
E allora perché non mi sento antifascista? La prima ragione è strategica e generale: definirsi a partire dall’avversario è pericoloso. C’è un mimetismo nascosto, una fratellanza segreta fra A e non-A che satura il campo del pensabile e nasconde tutto ciò che, essendo altro, rifiuta di farsi catturare nella logica binaria. Questa trappola concettuale ha avvelenato lo spazio politico novecentesco, generando ortodossie speculari e spingendo tutto il resto ai margini e nell’insignificanza. Meglio allora definirsi a partire da ciò che si è o si vorrebbe essere.
La seconda ragione più difficile da fissare.
Allora, mio
caro
Generale, come va?
Bene, Eminenza, molto bene, grazie. Un po’ in ansia per quel piccolo conflitto, laggiù…
Quell’ultimo che è esploso, dice? Oh misericordia divina, certo nonostante quei popoli ci siano più che abituati, è sempre triste vederli sterminarsi a vicenda… Speriamo che finisca al più presto, vero?
Presto? E perché mai… Ah, sì giusto, lei dice per i civili, per le vittime accidentali. Per quanto, definire civili quelle genti… Ma sa, vanno anche salvaguardate esigenze di stabilità, gli equilibri internazionali, la geopolitica, la filiera produttiva, le forniture delle industrie… La mia preoccupazione era proprio per questo. Lei piuttosto, cosa mi racconta? Tutto bene dal punto di vista, come si dice, spirituale?
Sì, senza dubbio. Siamo molto felici del fatto che la terra sia stata liberata dall’oscura minaccia incombente da Est. C’è giustizia all’altro mondo, ma a volte anche in questo mondo. E soprattutto siamo soddisfatti di come sia stata liberata, grazie all’intercessione del Vicario di Nostro Signore… Lei è conscio, non è vero, che la Storia ha già attribuito il merito a lui, molto più che a voi soldati.
Eh, certo certo, come no. E cosa dice lui, Sua…
Santità, caro Generale. Sua Santità è sempre molto impegnato, ma sta benone: riesce ancora a soddisfare, ad un occhio esterno, tutti i crismi dell’autonomia di corpo e spirito. Sembra perfettamente indipendente, insomma, e quindi, di fatto, lo è, non so se mi spiego.
La perfida combinazione tra taglio dei trasferimenti statali e federalismo fiscale è alla radice del declino delle città, anzi, della città intesa come organismo sociale. Lo spiegano bene alcuni dati pubblicati ieri sul Sole 24 Ore: «La Capitale ha messo in programma per quest’anno una spesa da 467,5 milioni di euro, che significano 163 euro ad abitante e una flessione del 15% rispetto al preventivo dello scorso anno. A Milano la stessa casella registra 2,41 miliardi (-3,1% rispetto alle previsioni 2017), cioè 1.786 euro ad abitante: 11 volte tanto il dato capitolino». Una sfida impari, che si ripercuote direttamente sulla qualità della vita della metropoli. Ad esempio l’annoso problema della manutenzione del manto stradale: «le conseguenze pratiche si incontrano per esempio per strada, cioè alla voce “trasporti e mobilità”, a cui Roma dedica 293 milioni in conto capitale contro gli 1,34 miliardi di Milano». Leggendo questi dati il problema non sono più le voragini che quotidianamente attentano alla vita della popolazione romana. A risaltare è il miracolo di una città non ancora sprofondata definitivamente in una qualche catacomba precristiana.
Come sopravvivere con tale penuria di fondi?
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Il terzo grande ‘fabbro’ della lingua italiana è, dopo Dante e Manzoni, D’Annunzio. Questa verità, a ottant’anni dalla morte, va riconosciuta senza esitazione, giacché difficilmente si può sopravvalutare la vasta, anche se non profonda, influenza che ha esercitato sulla letteratura e, ancor di più, sulla lingua e sul costume italiani del Novecento, Gabriele Rapagnetta (tale era la vera identità anagrafica del vate, cui un cognome così ordinario non poteva di certo essere gradito). D’altra parte, come negare che in questa ‘fortuna’ vi sia qualcosa di paradossale ? Basti considerare che, in buona sostanza, la posizione di D’Annunzio nella letteratura italiana è quella di un tardo umanista che, ispirandosi ai classici, ha forgiato una lingua non troppo lontana dal parlare comune, ma pure abbastanza lontana da risultare senz’altro artificiale, se non artificiosa, in un’epoca caratterizzata da tendenze diametralmente opposte. Né sarà da passare sotto silenzio il fatto, ampiamente documentato, che D’Annunzio ha spesso plagiato i classici, anche se occorre tenere presente che il plagio dannunziano presuppone uno scrutinio incessante e una delibazione quanto mai raffinata dei testi che l’autore prende in carico e di cui inserisce ampi stralci nelle proprie opere.
Mi sono imbattuto nella lettura di un saggio divulgativo, prestatomi da alcuni studenti del Dipartimento di Filosofia qui a Stoccolma, chiamato Effective Altruism and a radical new way to make a difference. Mi approccio con interesse al libro, converso con alcuni di questi studenti e cerco informazioni su internet in italiano e in inglese, scoprendo che l’Effective Altruism (orrendamente tradotto in italiano con “Altruismo efficace”) è un vero e proprio movimento filosofico con fini sociali. In parole semplici, gli altruisti effettivi (tra i più noti il filosofo Peter Singer), riflettono su come fare donazioni a scopo benefico affidandosi a valutazioni razionali nella valutazione dei destinatari dei fondi e nella scelta delle priorità delle aree di intervento (foreste amazzoniche, sofferenza animale, vaccinazioni in Africa, etc…). Esistono vere e proprie classifiche stilate dagli altruisti efficaci che valutano l’efficienza di organizzazioni caritatevoli operanti in uno stesso settore, sulla base di ricerche ed evidenza empirica (mettendo in relazione costi delle campagne, impatto sulla vita delle persone o sull’ambiente dei programmi, etc…). Inoltrandomi nell’argomento tuttavia, e devo confessare sin dal primo capitolo, sento puzza di cose che non mi piacciono, magistralmente impacchettate col brand “millennial” e piccolo borghese di sentirsi generosi e bravi cittadini, standosene comodamente seduti davanti al proprio pc (“Guadagnare per donare” è, non a caso, uno dei motti dell’effective altruism).
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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Nel momento in cui i trans-umanisti
ci promettono un avvenire nel quale coloro che sono inadatti
diverranno gli «scimpanzé del futuro»,
dove
l'imminenza della catastrofe nucleare abita il nostro
quotidiano, e gli oggetti tecnici sembrano colonizzare sempre
più a maggior
velocità le nostre vite. Come pensare la tecnica, allorché la
densità, la complessità e la potenza dei suo artefatti va
crescendo, e la nostra intimità viene violata da dei
dispositivi che spettacolarizzano e rendono mediatica la
nostra vita nella sua interezza?
A tale domanda, Günther Anders sembra poter
fornire delle salutari chiavi di lettura e di comprensione.
Günther Stern - che negli anni '30 scelse lo pseudonimo di Anders («l'altro», in tedesco) al fine di nascondere la sua ebraicità - dedico gli anni della sua gioventù all'elaborazione di un'antropologia filosofica detta «negativa», nella quale la libertà è la categoria fondamentale dell'uomo, «abbandonato» nel mondo. Ma ben presto, storicizzando la sua antropologia filosofica, Anders si rese conto che l'uomo non si trova più circondato «da api, da granchi e da scimpanzé, ma da stazioni radio e fabbriche». A partire dall'inizio degli anni '40, comincia a costruire un'opera che considera l'uomo, non più dal punto di vista della natura, ma da quello della tecnica. Di più, egli cerca di pensare la tecnica, anche quando l'uomo - la cui artificialità aumenta - si dota dei mezzi per il suo stesso annientamento. Auschwitz, e poi Hiroshima, rende attuale la coscienza della catastrofe e l'arma nucleare ordina l'avvento della tecno-scienza.
Qualche anno fa, nel
2014,
Giorgio Agamben ha chiuso il ciclo di "Homo sacer" con la
pubblicazione di "L'uso dei corpi"*. In questa recensione,
uscita originariamente sullo
Stanford University Blog in occasione della
traduzione in inglese del libro, Lorenzo Chiesa ne ha
approfittato per fare il punto sul
significato complessivo della operazione filosofica
agambeniana, mettendone in luce tanto la coerenza quanto le
ambiguità
L’uso dei corpi ruota attorno a ciò che, citando l’Antigone di Sofocle, Agamben chiama “superpolitico apolitico” (hypsipolis apolis). L’espressione compare soltanto due volte nel libro ma è del tutto decisiva.
Che cos’è vivere in quanto “superpolitico apolitico”? È vivere e, allo stesso tempo, pensare una politica liberata da ogni “figura della relazione” (e della rappresentazione) nella quale, tuttavia, “siamo insieme” al di là di qualsiasi relazione.
Questo essere-insieme non relazionale richiede l’“uso dei corpi” – nel senso soggettivo del genitivo. Ovvero, un altro corpo – improduttivo, non strumentale – è possibile per l’essere umano nella misura in cui emerge una “zona d’indifferenza” tra il proprio corpo e quello di un altro. L’uso diventa uso comune.
Il “superpolitico apolitico” comporta pure un ambizioso disinnesco dell’intero dispositivo della metafisica occidentale, come intesa a partire almeno da Aristotele. L’ontologia, in quanto inscindibile dalla politica, è infatti fondata sulla relazione di bando, la quale in definitiva fonda qualsiasi tipo di relazione.
Nella contesa Stati Uniti Cina e Stati Uniti Russia spesso gli analisti considerano i fattori solo dal lato occidentale. Errore. Il cambio di paradigma intercorso nell’ultimo decennio post crisi mette all’ordine del giorno altre questioni. Innanzitutto l’Occidente ha risposto alla crisi del 2007 continuando e perpetuando la pratica del capitale produttivo di interesse, carta su carta garantita dalle banche centrali che, secondo il FMI, ha portato ormai a dei livelli di indebitamento insostenibili. Carta che divora sempre più economia reale a cui si risponde con la guerra e con il seguito di indebitamento.
Nel frattempo gli USA hanno perso in questo decennio la sfida asiatica non entrando se non minimamente nella crescita del continente asiatico e non beneficiando del boom di queste economie. Il perché è dovuto al fatto che nell’ultimo quarantennio ha distrutto capacità industriale e non ha al momento possibilità di ricrearla, avendo un sistema scolastico ed universitario iperliberista che impedisce la formazione adeguata di decine, se non centinaia di milioni di lavoratori qualificati.
Nel mentre la Cina contribuisce alla crescita mondiale per il 30% e l’Asia per un altro 30%. Il 60% della crescita viene dall’Asia e la Cina si pone come capofila e calamita di questo impetuoso progresso.
Uno dei misteri più buffi di questi ultimi anni è come abbia fatto parte della sinistra europea a innamorarsi di un presidente profondamente di destra come il francese Emmanuel “Napoleon” Macron. È vero, stiamo parlando di una sinistra che ormai bacia i piedi alla Nato, emette gridolini entusiasti se gli Usa dicono bombardiamo e crede che la globalizzazione spinta dalla finanza sia l’equivalente moderno dell’internazionalismo proletario. Non di meno l’abbaglio è colossale, anche perché Macron in Francia è ormai più sopportato che amato (da tempo il suo indice di gradimento è sotto il 50%) e, da buon ex private banker presso Rothschild, vara, per decreto e senza dibattito parlamentare, riforme che hanno un’unica filosofia di fondo: indebolire i diritti (i privilegi, dice lui) di chi lavora e spianare la strada a chi ha capitali da investire.
È vero che se nessuno investe nessuno lavora. Ma se nessuno lavora o guadagna abbastanza, chi è che consuma merci e servizi? La riforma del lavoro di Macron era invece basata su alcuni punti chiave: contrattazioni sindacali anche a livello aziendale; licenziamenti possibili anche se l’azienda è in attivo; compensazioni per l’eventuale licenziamento stabilite per legge e non attraverso arbitrato; via tutta una serie di garanzie per i lavoratori impiegati in aziende con meno di 50 dipendenti; contratti a tempo determinato liberalizzati e contrattati a livello di settore. Tutti questi punti, senza eccezione, vanno a svantaggio di chi lavora.
Le pubblicazioni del Fondo Monetario Internazionale vanno sempre seguite con attenzione, perché descrivono nei dettagli quel che ci si aspetta dai vari governi nazionali. Non “ordini”, formalmente, ma preavvisi. Se poi uno Stato devierà da binario prescritto scatteranno le contromisure dello stesso Fmi e soprattutto quelle dei mitici “mercati finanziari”, pronti ad avventarsi sulle prede più facili.
La pubblicazione del Fiscal Monitor, due giorni fa, dedica come sempre un capitoletto all’Italia e getta un’ombra piuttosto densa sulle possibilità che il prossimo governo – da chiunque sia formato – possa effettivamente mettere in cantiere una qualsiasi delle promesse elettorali.
Per il Fondo, la priorità assoluta per l’Italia è come sempre il risanamento dei conti pubblici. A partire da “l’avvio di un consolidamento fiscale credibile e ambizioso per porre il debito su un solido percorso discendente”. In pratica è l’entrata a regime del Fiscal Compact, come previsto dai trattati europei, che prescrivono una riduzione del debito pubblico al 60% del Pil nell’arco di 20 anni.
Il manifesto femminista (come da sottotitolo) di Jessa Crispin si chiama Perché non sono femminista. Per comprendere il paradosso occorre anzitutto intendersi su quale sia il femminismo da cui l’autrice, fondatrice del blog letterario Bookslut e per anni attiva presso Planned Parenthood, intende prendere le distanze. Obiettivo polemico di Crispin sono quelle “femministe che dispensano pompini con zelo missionario”. Quello che propone è cioè una critica radicale (e già lo stile colorito lo dimostra) dell’ultima incarnazione, perversa e sbiadita, di un femminismo ormai vuotamente conciliante e politicamente corretto. Quello che lei chiama “femminismo universale” e a cui in Italia ci si riferisce come femminsimo mainstream, femminismo pop o femminismo della terza (o addirittura quarta) ondata.
Anche in Italia è infatti evidente come il femminismo, da ideologia radicale, si sia trasformato rapidamente in argomento prêt-à-porter capace di mettere tutti d’accordo (almeno sulla carta, specie quella stampata) e, soprattutto, di favorire ingenti profitti. Ne è esempio lampante lo sfuggente progetto editoriale Freeda, lanciato, tra gli altri, dall’ex dirigente della sezione “branded entertainment” di Publitalia.
1. Il capitale e il suo doppio
Il capitalismo sopravvive precariamente alla crisi della valorizzazione basandosi su capitale fittizio che alimenta bolle finanziarie destinate a scoppiare. Robert Kurz aveva avanzato questa tesi per spiegare che la crescita economica degli anni ’80 e ’90 era virtuale, costruita su montagne di debiti generati dall’anticipazione di un valore futuro che non sarebbe stato mai realizzato. Aveva continuato ad interpretare le vicende successive su questa base, trovando conferma nella successione ininterrotta di crisi finanziarie a livello mondiale.
Ernst Lohoff e Norbert Trenkle avevano partecipato a questa elaborazione, così come, in precedenza, alla definizione della teoria del soggetto automatico e della crisi della sua capacità di creare valore a causa della irreversibile prospettiva della scomparsa del lavoro. Il loro rapporto con Kurz si era poi rotto sul piano personale e su quello teorico. Pur non allontanandosi dalla teoria del soggetto automatico, avevano concentrato l’analisi sul capitale fittizio, convinti che la sopravvivenza del capitalismo alla crisi della valorizzazione dovesse essere attribuita alla capacità della sfera finanziaria “di produrre, in qualche modo, una forma peculiare di moltiplicazione del capitale che permette di sostituire, transitoriamente, l’accumulazione di plusvalore”. La sua drammatica crescita non poteva essere attribuita “ad una mera distribuzione e mobilitazione del plusvalore già accumulato”.1
Questa loro ricerca ha dato luogo al volume La grande svalorizzazione,2 presentato in Germania nel 2012, anno in cui Kurz ha pubblicato il suo ultimo libro Denaro senza valore,3 facendo emergere una divaricazione di posizioni, poi oggetto di un confronto tra due anime della Critica del valore che dura tuttora, in assenza di Kurz deceduto quello stesso anno.
Stefano Petrucciani, A lezione da Adorno. Filosofia Società Estetica, manifestolibri, Roma, 2017, pp. 176, € 22,00
Questo
libro di
Stefano Petrucciani(*), ordinario di filosofia politica presso
la Sapienza di Roma, si presenta come una rilettura
complessiva del lavoro di Theodor
Wiesegrund Adorno, di cui considera tutte le grandi opere,
toccando ciascuno dei nuclei fondamentali della riflessione
del maestro francofortese, ma
lo fa assumendo spesso come punto di osservazione privilegiato
– seppur non esclusivo – i materiali dei corsi e gli scritti
delle lezioni
universitarie del filosofo.
Un excursus complessivo, organizzato per tematiche, che da un lato tiene opportunamente conto dei settanta o cinquanta anni che ci separano da opere quali la Dialettica dell’Illuminismo o la Dialettica negativa e la Teoria estetica – distanza temporale, profondi cambiamenti economico-sociali e culturali nel frattempo intervenuti che contribuiscono ad evidenziare alcune inadeguatezze o rigidità della adorniana teoria critica della società – ma dall’altro permette di cogliere distintamente l’importanza intellettuale cruciale della cifra essenziale del pensiero francofortese, da cui – aggiungiamo – proprio oggi, forse più che mai in precedenza, sarebbe opportuno ripartire: la vigile attenzione critica, il meticoloso scavo analitico, l’infaticabile lavoro di analisi interpretativa, che urge risvegliare nell’epoca e nella società della nuova unidimensionalità della globalizzazione, economica, politica ed ideologica.
Petrucciani legge le lezioni sul concetto di filosofia che Adorno tiene a inizio anni Cinquanta, al momento del suo ritorno in Germania dopo l’esilio americano e dopo la conclusione della collaborazione con Horkheimer per la stesura della Dialettica dell’Illuminismo, considerandole l’inizio di un percorso più personale: la specificità che distingue Adorno da altri francofortesi consiste in un permanente e prevalente approccio filosofico alla teoria critica della società praticata dalla Scuola, per cui essa è essenzialmente un’azione teoretica, per quanto collegata alla complessità dei saperi sociali.
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Premessa.
Dalla rivoluzione socialista a quella borghese e viceversa
Per dimensioni, dinamiche e contenuti, solo la Rivoluzione francese può essere proposta per un’analisi comparativa con la Rivoluzione d’ottobre, mentre il ciclo rivoluzionario inglese e a maggior ragione la Rivoluzione americana, pur preparando anche sul piano ideologico gli eventi del 1789, fanno riferimento a blocchi sociali troppo diversi da quelli che saranno protagonisti dei rivolgimenti successivi. Naturalmente - e non solo dal punto di vista cronologico - il rapporto tra queste due grandi epoche di crisi storica va subito rovesciato: la Rivoluzione francese è stata uno sconvolgimento politico e sociale le cui ripercussioni su larga scala hanno dato avvio a un ciclo rivoluzionario che si sarebbe concluso esattamente duecento anni dopo.
Tralasciamo gli avvenimenti intermedi come la Comune di Parigi. Tralasciamo anche il fatto che alla fine del XIX secolo la borghesia nel prendere il potere abbia dovuto mettere in azione forze a lei conflittuali, aprendo la strada a istanze nuove e più avanzate; forze anche contrapposte agli interessi borghesi stessi, ma che continueranno a muoversi nel solco della loro provenienza. Se la rivoluzione del 1789 ha visto la presa del potere politico da parte di una classe che già deteneva di fatto quello economico, la rivoluzione del 1917 si è trovata di fronte per lo meno un doppio ostacolo: giungere al socialismo a partire da un’economia ancora prevalentemente agraria.
Le guerre hanno questo di positivo: costringono a una scelta di parte. Difficile continuare a sguazzare nell’ingegneria dei né né, nell’indolenza di chi si arrampica sui «sebbene» e gli «anche se» pur di non dichiarare il proprio appoggio esplicito al regime change atlantista. Certo in Europa, più che altro in Italia, continueranno le cantilene dirittoumaniste, ma in Siria i bombardamenti hanno ricondotto torti e ragioni ai propri referenti. Naser al Hariri, ad esempio. Che proprio ieri dichiarava sul Corsera i propri intenti bellicosi: «ben vengano i raid degli Stati Uniti assieme a Francia e Gran Bretagna in Siria». Nientemeno. Il tipo in questione non è uno qualsiasi. Al contrario, è il rappresentante della «opposizione siriana» alla «conferenza di pace» di Ginevra. E’ il rappresentante del National Coalition for Syrian Revolution and Opposition Forces, la coalizione dei gruppi anti-governativi di cui fa parte anche il Free Syrian Army. E’ insomma il vertice della proxy war organizzata in Siria da sette anni a questa parte.
Nell’intervista, rilasciata a Lorenzo Cremonesi, scopre tutti gli obiettivi dei gruppi atlantisti operanti in Siria.
La discussione sulla redistribuzione del reddito e sulla possibilità che lo Stato intervenga per garantire a tutti, magari in modo incondizionato e universale, una quota minima di denaro sufficiente a vivere con dignità si accende periodicamente da molti anni. Negli ultimi tempi, in Italia, si tinge di forti connotazioni legate alla governabilità, che necessariamente si espongono a semplificazioni e speculazioni di profilo miserevole. Resta però una questione di grande spessore politico e, a maggior ragione, pur esigendo provvedimenti la cui urgenza è sotto gli occhi di tutti, non andrebbe semplificata inseguendo slogan impraticabili né, men che meno, tattiche elettorali. Francesco Gesualdi ci pare intervenga con questo spirito con un ragionamento critico serio che prelude a una proposta che certo presuppone l’esistenza di una volontà politica molto determinata a contrastare le disuguaglianze e un qualche ottimismo sulle capacità di rigenerazione culturale di chi opera nei servizi. Un’ottima occasione per allargare e approfondire il discorso
Un dibattito si aggira per l’Europa: UBI o UBS? E nonostante il richiamo vagamente informatico delle due sigle, questa volta non discutiamo di tecnologia ma di politica. Parliamo del ruolo dello stato, di ciò che deve fare per difendere i cittadini dalla precarietà e l’insicurezza: distribuire o produrre? Deve limitarsi a fare da collettore e distributore della ricchezza che si produce nel mercato per assicurare a tutti una quantità minima di soldi, il famoso reddito universale di base, o deve produrre servizi per garantire a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali?
A un mese e mezzo dalle elezioni, “esplorare” non basta più! Non basta a fronte delle promesse che sono state fatte in campagna elettorale, e che sono state decisive per raccogliere il consenso degli elettori. Non basta neppure di fronte ad atti di enorme impatto sulla vita delle persone, quale sarà la predisposizione della prossima legge di bilancio, preceduta dalla approvazione del Def.
C’è oggi in Parlamento una maggioranza di elette e eletti che hanno fatto dell’abolizione della controriforma Fornero uno degli impegni principali.
Si dia coerente attuazione a questo impegno, abrogando una delle leggi peggiori della storia della Repubblica, che ha conseguenze disastrose sulla vita delle persone.
Una legge che ha portato l’età pensionabile ai livelli più alti d’Europa, che tiene incatenati al lavoro in età avanzata quando si avrebbe diritto al riposo, che si accanisce in particolar modo contro le donne ed impedisce ai giovani di accedere al mondo del lavoro bloccandone il turn-over.
Esi predisponga un Def che disinneschi le cosiddette “clausole di salvaguardia”: gli aumenti dell’Iva che scatteranno a partire dal 2019, con un aggravio medio di 320 euro a famiglia, ma che soprattutto colpiranno i cittadini in maniera indifferenziata e quindi massimamente iniqua.
«Marx e la follia del capitale», il nuovo libro di David Harvey per Feltrinelli. Limiti e incompletezza dell’opera marxiana come presupposto per una sua esplorazione attuale. La capacità innovativa che serve per ripensare la tensione tra produzione, distribuzione, consumo
Due secoli separano il presente dalla nascita di Karl Marx. E come ogni bicentenario che si rispetti, sono in preparazione convegni, seminari, pubblicazioni di saggi e monografie. Finora sono annunci di iniziative organizzate da comunità intellettuali non accademiche o di titoli o ristampe da parte di piccole e indipendenti case editrici, ma c’è da augurarsi che abbiano la capacità di porre le basi per una apertura non episodica o rituale di un laboratorio marxiano.
L’autore del Capitale non ha infatti goduto negli ultimi lustri di buona fama presso i grandi gruppi editoriali o presso le istituzioni culturali e c’è da augurarsi una qualche renaissance non effimera. D’altronde, non c’è proprio bisogno di una rilettura dell’opera marxiana privata di quella tensione alla trasformazione sociale interna che l’anima, come già proponeva Jacques Derrida negli Spettri di Marx, o come un teorico ante litteram della globalizzazione, secondo quanto va sostenendo da alcuni anni quell’agit-prop settimanale del liberismo che è l’Economist.
A poco a poco i giornali stanno rivelando il fantastico futuro che l’Intelligenza Artificiale (IA) ci riserva: macchine intelligenti sono, praticamente ovunque, pronte ad aiutarci, sostituendoci nei lavori ripetitivi sia fisici che cognitivi e donandoci tempo che potremo dedicare alle nostre attività preferite.
Purtroppo, il luminoso futuro prospettato dall’IA ha un possibile e tremendo lato oscuro: una drammatica contrazione dell’occupazione che potrebbe non essere un fenomeno di breve durata. Le persone, i governi e i “think tanks” sono spaventati. Il McKinsey Global Institute (MGI) prevede che l’IA possa rimpiazzare al livello mondiale l’equivalente di 1,1 miliardi di lavoratori assorbendo un reddito di $15,8 trillioni di dollari (James Manyika et al., Harnessing automation for a future that works, McKinsey Global Institute, 2017). Quindi, liberando gli individui dai lavori ripetitivi, queste future macchine dotate di IA potrebbero lasciare una grandissima parte di cittadini con il valore del loro lavoro insufficiente a garantire uno standard di vita socialmente accettabile (Peter Stone et al., Artificial intelligence and life in 2030. Technical report, One Hundred Year Study on Artificial Intelligence: Report of the 2015-2016 Study Panel, Stanford University, Stanford, CA, September 2016).
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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Negli
ultimi anni il
rapporto tra debito
pubblico e PIL è
aumentato, non diminuito, e questo, insieme ad una
informazione economica spesso tendenziosa o di cattiva
qualità, potrebbe indurre
molti a credere che le politiche di austerità
in Italia non siano state
fatte, o quantomeno che non siano state fatte a sufficienza
(si vedano, rispettivamente, le dichiarazioni degli ex
commissari alla spending
review Perotti
e Cottarelli).
Al contrario, in questa breve
nota proveremo a mostrare per mezzo di alcuni dati di
contabilità nazionale che i tagli alla spesa e l’aumento della
pressione fiscale ci
sono stati, e che proprio per questo il rapporto
debito/PIL è aumentato.
Il fondamento economico per cui le politiche di austerità fiscale possono in molti casi peggiorare ciò che dicono di voler migliorare, ossia il rapporto debito/PIL, risiede nel fatto che, per via del moltiplicatore fiscale,[1] la riduzione di debito pubblico – attuata ad esempio grazie ad un avanzo di bilancio – può causare una riduzione del denominatore del rapporto (il reddito) di proporzione maggiore della riduzione del numeratore (il debito pubblico). In altre parole, un consolidamento fiscale, inteso come taglio della spesa o aumento delle tasse, può far crescere il rapporto debito/PIL invece di ridurlo.[2] Per queste ragioni il principio del bilancio in pareggio, introdotto in Costituzione nel 2012 ed in linea con le linee di politica economica dettate dal Fiscal Compact, non è virtuoso ogni qual volta l’economia si trovi in una fase ciclica negativa o comunque vi siano nel Paese lavoro e capacità produttiva (gli impianti delle imprese) inutilizzati o sotto-utilizzati.[3]
Contributo della FGCI al seminario "Lavoro mentale e classe operaia", del 19 aprile 2018, presso la facoltà di Economia dell'Università degli studi Roma Tre, nell'ambito del ciclo di incontri "Tecnologia, lavoro e classe", promosso dall'organizzazione Noi Restiamo
Teoria
del
Riflesso e materialità della conoscenza
Il testo che segue è da considerarsi come un’introduzione alla lettura dell’opera di Guglielmo Carchedi Sulle orme di Marx, lavoro mentale e classe operaia, che si presenta come un quaderno estremamente denso di nozioni e dall’elevato valore teorico, in cui l’autore propone un tentativo di interpretazione dello sviluppo del capitalismo contemporaneo, ponendo la propria attenzione e quella del lettore su una realtà consolidata e che va sempre più articolandosi: Internet.
La base su cui poter edificare l’intero discorso è individuata nel fondamentale concetto di trasformazione. Ogni sistema produttivo in generale e il capitalismo in particolare prevede la trasformazione di forza lavoro, mezzi di produzione e materie prime in un prodotto finale, da destinare al mercato. Tuttavia essa non riguarda soltanto ciò che è comunemente riconosciuto come merce, cioè come frutto della manualità di uomini o macchine. Dal momento che l’attività cognitiva dell’uomo è diffusa in modo sempre più capillare nei paesi occidentali e partecipa a pieno diritto al ciclo produttivo, e poiché, secondo Carchedi, non esiste in linea di principio una distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, (“Tutto il lavoro materiale necessita il concepire, l’ideare; tutto il lavoro mentale necessita tutto il corpo senza il quale il cervello non potrebbe funzionare” [1]), la categoria della trasformazione si può e si deve estendere anche alla conoscenza.
I processi lavorativi contengono quindi sia trasformazioni oggettive, sia trasformazioni mentali e, in queste ultime, la forza lavoro trasforma sia la conoscenza soggettiva, propria cioè dell’agente mentale che opera, sia la conoscenza oggettiva, che è contenuta fuori da esso, in altri agenti mentali, in libri, computer ecc. oppure nei mezzi di produzione, in nuova conoscenza, che può essere differente o semplice riproduzione della precedente, pronta ad essere considerata come punto di partenza di un nuovo ciclo.
Il libro
di Domenico Moro, La gabbia dell’euro (Imprimatur,
Reggio Emilia, 2018) è un agile pamphlet nel quale
l’autore
sostiene che il dispositivo dell’euro e del vincolo monetario
rappresenta lo strumento attraverso il quale le classi
dirigenti europee hanno
ridefinito, a proprio favore, i rapporti di forza e gli
equilibri, per come si erano assestati lungo i Trenta
gloriosi, con le classi
subalterne e, in primis, il movimento operaio. Si è
trattato di una vera e propria controrivoluzione per
affermare, a partire dalla
metà degli anni ’70 del secolo scorso, il dominio del capitale
e, con esso, margini di profitto in grado di fronteggiare i
limiti di
redditività dovuti alla caduta tendenziale del saggio di
profitto, e per causare l’erosione del carattere pubblico e
redistributivo dello
Stato dei diritti e del welfare keynesiano. La proposta del
libro di Moro risiede nella necessità di superare
l’integrazione europea e,
in particolare, l’integrazione valutaria e l’euro: “in
effetti, non è credibile lottare per la sanità, per il
salario,
per la creazione di posti di lavoro, per i servizi del proprio
comune se si cozza contro la gabbia dell’integrazione europea,
soprattutto
valutaria. (…) In questo senso, l’obiettivo del superamento
dell’euro permette di recuperare i salariati, i disoccupati e
i giovani
alla partecipazione politica e di ricostruire una coscienza di
classe a livello europeo” (D. Moro, ibidem, p. 95).
L’intento di
queste riflessioni non è, tuttavia, quello di riassumere il
testo di Moro; già numerose sono le recensioni, tutte di
valida fattura, che
danno conto delle tesi dell’autore. Il proposito, più modesto,
consiste e si limita, piuttosto, a soffermarsi, brevemente, su
tre temi
che vengono affrontati ne La gabbia dell’euro e che
oggi assumono, agli occhi di chi scrive, particolare
importanza.
Macdonald smascherò la falsa superiorità dei libri scritti per compiacere l'ego del lettore
Dove è finita la critica letteraria? E dove la distinzione tra cultura alta, media, e bassa? Oggi, per rinfrescarsi le idee (le poche che sono rimaste) è possibile rileggersi un classico uscito nel 1960, Masscult e Midcult di Dwight Macdonald, nella nuova traduzione di Mauro Maraschi (Piano B edizioni, pagg. 142, euro 14). Un libro di cui si è molto scritto e molto parlato, e le cui categorie oggi forse non sapremo più dove collocare. Macdonald prese di mira non tanto il Masscult, quanto il Midcult, ossia i prodotti artistici rivolti al pubblico medio ma travestiti da superiore esperienza estetica.
Per intenderci era Midcult Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, e prima ancora i dipinti di Giovanni Boldini di inizio secolo, che vendevano alla borghesia ritratti convenzionali ma con qualche pennellata veloce qua e là per sembrare aggiornati all'impressionismo (che nel frattempo era già superato da altre avanguardie). È Midcult La grande bellezza di Paolo Sorrentino, di cui si attende un nuovo film su Berlusconi, irrimediabilmente Midcult già dalle premesse. Era cultura alta il Nanni Moretti di Ecce Bombo, è Midcult La stanza del figlio o Caro diario, e ormai è diventato Midcult tutto Nanni Moretti, retroattivamente.
Trattare gli episodi di violenza nei confronti degli insegnanti con toni moralistici, pietistici o, peggio, invocando la perdita di generici orizzonti valoriali, appare limitante e, in alcuni casi, addirittura fuorviante.
Studenti, insegnanti e lavoratori sono sottoposti da decenni a una vera e propria scuola di ferocia e di darwinismo sociale.
“La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva altamente diffusa che reca il messaggio secondo il quale se si vuole sopravvivere nella società è necessario ridurre i rapporti sociali a forme di guerriglia sociale. Sono troppi i giovani oggi che imparano troppo presto che il loro destino dipende da una responsabilità individuale, indipendentemente da relazioni strutturali più ampie.”
Così scriveva nel 2015 Henry Giroux, studioso americano e padre della pedagogia critica, attaccando il modello di società perseguito dal neoliberalismo autoritario.
Gli effetti dell’ipercompetitività aggressiva e sempre più violenta sono sotto gli occhi di tutti e stanno aumentando vistosamente anche nel mondo della scuola.
Le reiterate violenze sugli insegnanti da parte di genitori e studenti, registrate dalla cronaca negli ultimi anni, sono la manifestazione più evidente dell’etica della sopraffazione, propria di un modello di società fondato sulla logica dell’homo homini lupus.
Non sono proprio uno di quelli che a Michele Serra presta molta attenzione, non credo ne valga la pena, ma questa volta scrive qualcosa di significativo.
“Tocca dire una cosa sgradevole, a proposito degli episodi di intimidazione di alunni contro i professori. Sgradevole ma necessaria. Non è nei licei classici o scientifici, è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore, e lo è per una ragione antica, per uno scandalo ancora intatto: il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza. Cosa che da un lato ci inchioda alla struttura fortemente classista e conservatrice della nostra società (vanno al liceo i figli di quelli che avevano fatto il liceo), dall’altro lato ci costringe a prendere atto della menzogna demagogica insita nel concetto di “populismo”.
Il populismo è prima di tutto un’operazione consolatoria, perché evita di prendere coscienza della subalternità sociale e della debolezza culturale dei ceti popolari. Il popolo è più debole della borghesia, come i ragazzini tracotanti e imbarazzanti che fanno voce grossa con i professori per imitazione di padri e madri ignoranti, aggressivi, impreparati alla vita. Che di questa ignoranza, di questa aggressività, di questa mala educacion, di questo disprezzo per le regole si sia fatto un titolo di vanto è un danno atroce inflitto ai poveri: che oggi come ieri continuano a riempire le carceri e i riformatori”.
Dalle latitudini boreali fino alla terra del fuoco l’informazione ufficiale tenta di convincerci che se il bombardamento siriano si basa su fatti tutti da provare come ormai persino i coscritti del mainstream sono costretti ad ammettere, esso è stato comunque una vittoria sia contro Assad, ma anche contro la Russia che si è in qualche modo piegata a questo assalto. E’ tipico di un sistema preso alla gola dalle proprie contraddizioni e per questo ormai in preda all’isteria, non riuscire a distinguere chiaramente tra vittoria e sconfitta e non parlo soltanto del potere, ma assieme delle opinioni pubbliche regolarmente stordite da gragnuole di bugie, e in gran parte allevate da quello stesso potere, dunque inclini a correggere inconsciamente le deformazioni sullo specchio della vita, per percepire come dritto ciò che è storto.
E in effetti altro che vittoria: l’attacco inconsulto e comunque ingiustificato, costituisce invece una gravissima sconfitta da ogni punto di vista dell’occidente e dell’impero che lo tiene sotto i calcagni, appare come le botte che l’orbo tira ormai a casaccio per pura vendetta ogni volta che la sua prepotenza o i suoi disegni incontrano un ostacolo.
Il recente studio a cura del Fondo
Monetario
Internazionale “Italy: Toward a Growth-Friendly Fiscal Reform”
(“Italia: verso una riforma fiscale amica della crescita”)
pubblicato a marzo di quest’anno, oltre a tracciare la rotta
ortodossa delle più congrue politiche fiscali e del lavoro per
il nostro
Paese, fissa anche le priorità di nuovi interventi in tema
previdenziale. Evidentemente le riforme più recenti, che hanno
già
stravolto in senso restrittivo le pensioni dei lavoratori
italiani, non sono state sufficienti a saziare gli appetiti
dei sostenitori della presunta
insostenibilità del sistema previdenziale italiano.
Dopo venti anni di stravolgimento del sistema previdenziale, cerchiamo di capire in modo più approfondito qual è il quadro attuale delle pensioni in Italia così come plasmato dalle ultime riforme del biennio 2010-2012, la duplice Riforma Sacconi 2010-11 e la Monti-Fornero del 2011. Tali riforme meritano particolare attenzione: in primo luogo poiché sono state le ultime vaste riforme che hanno fortemente modificato in direzione restrittiva il sistema pensionistico; in secondo luogo perché i contenuti stabiliti esprimono in modo palese la furia controriformistica dettata dal dogma dell’austerità finanziaria che, seppur già pienamente vigente dagli anni ’90, ha visto una forte accelerazione negli anni della crisi economica e in particolare in concomitanza con la crisi dei debiti sovrani dei Paesi periferici dell’eurozona (2009-2011).
I provvedimenti restrittivi hanno colpito due aspetti: l’età pensionabile e l’entità della pensione media attesa.
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Dalla sua prima resa pubblica sul Sole
24 Ore di ben 6 anni addietro a oggi,
l’idea della Moneta Fiscale di strada ne ha fatta e tanta
anche. Al di là delle facili critiche, i commenti caustici e
persino le
affermazioni ingiuriose che alcuni hanno rivolto all’idea
senza nemmeno averne letto i contenuti o compreso i
sottostanti fondamenti, occorre
riconoscere invece che i dubbi, i quesiti nonché gli
incoraggiamenti manifestatici tanto da qualificati esperti
quanto da comuni cittadini
semplicemente incuriositi all’idea ci hanno aiutato a farla
crescere e a suscitare l’interesse.
Come risultato, di Moneta Fiscale oggi si parla, che ciò piaccia o no, e il Financial Times ne definisce l’attuazione come “tecnicamente possibile”. Il concetto si è affermato all’attenzione della politica, delle istituzioni e del grande pubblico, anche ad onta di grandi organi nostrani (di cosiddetta informazione aperta e democratica) che, esprimendosi sulla materia in modo, a dir poco, disinformato, non hanno inteso dar voce a chi ai loro lettori la materia l’avrebbe almeno saputa esporre correttamente…
Lo scorso anno, raccogliendo i numerosi spunti ricevuti e mettendo a frutto i ragionamenti maturati lavorando al perfezionamento dell’idea, abbiamo svolto, tra le altre, due approfondite riflessioni, ospitateci da Economia e Politica e dalla rivista MicroMega, dedicate al proposito di fare il punto sull’argomento e dare risposte precise ai precisi interrogativi postici da lettori e commentatori in via privata o pubblica.
Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio dal 2017 al 2018
Non è per caso che le
difficoltà nel formare il governo, dopo l'elezione del
parlamento tedesco, mostrino di essere in relazione con le
centrali questioni sociali ed
ecologiche, le questioni relative ai rifugiati ed al clima. È
qui che diventano chiari i limiti dell'azione del governo, il
quale pretende di
gestire i processi di distruzione sociale ed ambientale, che
vanno dal collasso degli Stati fino alla distruzione delle
basi della vita, attraverso
quelli che sono i metodi della scatola magica dell'immanenza
capitalista: ora, più mercato, ora di nuovo, un'altra volta,
più Stato; e
tutto questo in una successione sempre più rapida, oppure, se
è necessario, facendo uso di una miscela delle due cose. E, in
tutta
questa confusione, dev'essere mostrata una faccia o un
profilo.
Alla domanda preoccupata di un presentatore televisivo - che si domanda, di fronte agli ambigui risultati elettorali, se si possa fare affidamento sull'instabilità politica, ora presente in Germania, così come negli altri paesi europei - risponde uno dei soliti esperti accademici: «Oggi, l'Europa è arrivata anche in Germania». Il professore ha ragione, perché l'instabilità politica è sempre meno lontana dalla Germania. Ma il fatto che egli abbia trasfigurato in normalità quello che è lo stato di crisi comune all'Europa, dimostra che non ha capito niente.
A partire dal progetto del modello verde-rosso della riforma Hartz IV, e dalla deregolamentazione del lavoro - con la conseguente massificazione del lavoro precario -, la Germania è riuscita ad ottenere un vantaggio per quanto riguarda l'esportazione nel quadro della concorrenza fra i paesi in crisi.
In mezzo a tanto parlare – a vanvera, il più delle volte – di Sovranismo e Populismo, è senz’altro il caso di rimettere a fuoco, come fa Domenico Moro nel suo ultimo libro, i concetti di ‘Popolo’ e di ‘Nazione’, anziché lasciarli pigramente in mano alle demagogie di Destra e di Centro. Seguitiamo infatti a dire “Lavoratori di tutti i paesi unitevi”, sapendo al tempo stesso che, per esempio, se la Grecia avesse avuto la possibilità effettiva di abbandonare l’euro onde sfuggire ai ricatti della Troika, tale uscita - pur trattandosi necessariamente di una svolta prima facie “nazionale” – sarebbe stata una vittoria per le classi subalterne di tutta l’Europa.
Moro osserva subito che l’idea “moderna di nazione non ha certo un carattere e un’origine di destra o reazionaria (…) Né la Rivoluzione francese, e tanto meno il governo giacobino, possono essere identificati con un governo nazionalista o reazionario o di destra” (pp.39-40). Nell’Ottocento tuttavia “si verifica una divaricazione dell’idea di nazione in due concezioni diverse e per molti versi opposte. Una è quella naturalistica, l’altra è quella volontaristica. La concezione naturalistica pone alla base della nazionalità caratteristiche specifiche dovute a fattori fisici, climatici e naturali, che formerebbero il carattere delle nazioni.
Michel Foucault è considerato il più grande filosofo francese del suo tempo, un autore di culto che a decenni dalla morte viene ancora indicato come uno degli intellettuali più influenti della nostra epoca. Non sono mancate critiche al suo lavoro ma il pamphlet di Jean-Marc Mandosio, oltre a riesaminare l'eredità lasciata dall'autore di Le parole e le cose e Sorvegliare e punire, mette alla prova la coerenza tra la condotta e il pensiero di Foucault, mostrando come le sue teorie siano state orientate spesso da semplice convenienza. Opportunista, privo di rigore, incoerente e preoccupato per prima cosa della sua carriera universitaria, ha assecondato molte mode culturali: anticomunista, marxista, vicino ai maoisti, goscista, esponente dello strutturalismo per rinnegare sempre tutto al momento giusto.In queste pagine ironiche e dotte, Mandosio coglie doppiezze di un uomo che ha sempre criticato i sistemi di potere senza mai disdegnare i ruoli istituzionali che quel potere gli offriva. Il suo tragitto filosofico si mostra lastricato di ipocrisie, trucchi usati per presentarsi come un pensatore eccezionale - grazie a un linguaggio oscuro, vago, usato per abbagliare i lettori. (dal risvolto di copertina di: Jean-Marc Mandosio, "Longevità di un'impostura: Michel Foucault" - ED-Enrico Damiani Editore - pagg. 157, € 13,30)
Ogni epoca ha i suoi idoli, i suoi padroni del pensiero, i suoi autori intoccabili. Se poi questi autori sono filosofi che fra metodo e sistema, concetti e lessico, riescono a confezionare un’antropologia filosofica che spiega cosa sono le arti, cosa fanno le scienze, come funziona il potere e le sue istituzioni, allora chi ripeterà quello che loro hanno detto sarà ascoltato.
L’economia italiana è nei guai da molto tempo. La soluzione, però, è a portata di mano e ce la suggerisce Ferruccio De Bortoli, con un ampio risalto sulle pagine del Corriere della Sera: portare l’avanzo primario (la differenza fra entrate e uscite del settore pubblico, senza considerare la spesa per interessi) al 4% del PIL. In questo modo, sostiene De Bortoli, si potrebbe in qualche anno portare al 90% il rapporto debito/PIL, e finalmente liberare le risorse necessarie per gli investimenti di cui così tanto l’Italia abbisogna. Notiamo anche che questa proposta segue la scia delle dichiarazioni di Cottarelli, da anni ormai fermo sostenitore della necessità di conseguire forti avanzi primari.
Insomma, ancora una volta la classe dirigente trascura dolosamente l’esperienza disastrosa del Governo Monti in tema di gestione del rapporto debito/PIL e ripropone le politiche che hanno trascinato la Grecia nel baratro.
Sia chiaro, l’Italia ha sicuramente bisogno di politiche espansive degli investimenti pubblici. Peccato, però, che la ricetta di De Bortoli sia quella meno compatibile in assoluto con un qualsiasi aumento degli investimenti pubblici.
Bini Adamczak, Il comunismo raccontato a un bambino (e non solo), Sonda, 2018, pp. 126, € 15,00.
Riappropriarsi della soggettività, farla finita con il dominio delle cose sugli umani, cambiare il mondo senza rinunciare a fare i conti con l’eredità stalinista che pesa sulla promessa di liberazione comunista. Sono questi gli obiettivi dell’agile volume della saggista e attivista politica berlinese Bini Adamczak, che utilizza l’espediente retorico di un linguaggio infantile, colloquiale e ironicamente fiabesco, per far risaltare nella loro chiarezza spiazzante idee complesse e raffinate.
Nella prima parte del libro, corredato da disegni della stessa autrice, si definiscono i concetti principali, cioè il comunismo (“la società capace di cancellare tutti i mali che affliggono le persone nella società di oggi”), il capitalismo (concepito come reificazione), il plusvalore (assoluto) e la crisi (da sottoconsumo).
La seconda parte del libro affronta il problema del “che fare?” attraverso una fenomenologia di tentativi ed errori che tipicizza la storia delle teorie anticapitaliste: lo statalismo egualitario, il ritorno alla produzione artigianale, la pianificazione burocratica, il pauperismo e l’automazione generalizzata nella quale la gente “Basta che apra la bocca che le arriva subito succo d’uva nel gargarozzo, e dal cielo vede cadere piccioni di tofu arrosto."
1. La sorte dell'autonomia politica italiana è segnata: le elezioni, qualunque esito possano avere - anche (in apparenza) divergente dalla predeterminazione idraulica cui tende il controllo mediatico-culturale orientato dall'oligarchia cosmopolita -, non possono ormai più segnare un indirizzo politico diverso dal proseguire la desovranizzazione fissata dal vincolo €uropeo.
Un governo potrà formarsi solo se avrà il consueto e ormai consolidato ruolo di consiglio di amministrazione della "controllata" Italia.
Punto.
Risulta perciò molto più utile, ai fini pratici e cognitivi - cioè per decifrare lo sviluppo della traiettoria, o più esattamente il "piano inclinato", a cui siamo vincolati-, parlare d'altro.
In particolare, mettendo da parte le tortuose e tutto sommato irrilevanti vicende della formazione del governo, cerchiamo di sbirciare sui principali appuntamenti con impoverimento, materiale e culturale, deindustrializzazione e minor crescita economica unita a deflazione salariale, che ci riservano l'appartenenza all'eurozona e gli obblighi derivanti dall'adesione all'Ue (così come si esprime, in modo permanentemente acritico e inerziale, la stessa Corte costituzionale; e come peraltro ci tiene a ribadire il prof.Cassese; p.4).
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La notizia
ha
praticamente fatto il giro del mondo: Draghi (da
Washington) "ammette: la
crescita potrebbe essere giunta al suo
picco".
Risulta dunque di estremo interesse capire per quali ragioni, secondo l'illustre banchiere centrale, il "ciclo" potrebbe entrare nella sua fase discendente.
Ebbene, a stare a quanto riporta Zerohedge, oltre a un profluvio di "platitudes" (banalità), a ben vedere, Draghi queste ragioni non le indica: genericamente si richiama a degli "indicatori economici" che preannunzierebbero il raggiungimento del "picco", ma aggiunge poi, - non si sa bene in base a quali valutazioni-, che "lo slancio della crescita è atteso in prosecuzione", e che "il protezionismo (?) potrebbe aver già prodotto i suoi effetti sugli indicatori (altri? gli stessi della crescita?) del global sentiment".
Conclusione: da un lato, "un ampio grado di stimolo monetario rimane necessario", dall'altro, però, trapela (secondo Bloomberg) che i componenti del Consiglio BCE vedono come ragionevole attendere fino alla riunione di luglio per annunciare la fine del programma di acquisti".
2. Dal che si desume, per necessità logica insita nel ragionamento sintetizzato, che:
a) il fantomatico protezionismo sarebbe la causa principale, se non unica, del paventato rallentamento della crescita, mentre questa, viceversa, si basa su elementi puramente piscologici, o, più esattamente, capricciosi, cioè sul "sentiment" di non meglio individuati decisori globali;
“Europa: quali regole rivedere (e
come)
per salvare l’Unione” era il tema del seminario che si è
tenuto oggi 19 aprile alla facoltà di Economia di Roma 3,
promosso
da Astril e coordinato dal suo presidente Sebastiano Fadda.
Nel frattempo a Berlino Angela Merkel e Emmanuel Macron
annunciavano che entro
giugno avrebbero concordato una proposta per la riforma
dell’Eurozona. Le indiscrezioni
affermano che probabilmente non ci riusciranno, ma
volendo fare gli ingenui ci sarebbe da chiedersi perché mai
su una problematica di tale
rilevanza questi due paesi ritengano corretto annunciare
ufficialmente che si metteranno d’accordo tra loro,
sottintendendo in pratica che tutti
gli altri potranno al massimo tentare di proporre qualche
modifica al quadro da essi disegnato. D’altronde l’Italia
brilla per la sua
assenza, e non solo perché non c’è ancora un governo nella
pienezza dei suoi poteri. E’ bene ricordare che Germania e
Francia non hanno dato finora nessun segno di voler fare
beneficienza, in particolare nei confronti del nostro paese.
Qui di seguito il mio intervento
al seminario di oggi.
* * * *
Quando Sebastiano Fadda mi ha parlato di questo seminario ho pensato due cose. La prima, che questa fosse un’ottima iniziativa. E’ in corso un dibattito sulla riforma dell’Unione che dovrebbe essere varata entro il prossimo anno, le proposte di cui si discute avrebbero – se approvate – pesantissime ripercussioni sulla nostra situazione, ma in Italia di questo problema quasi non si parla: molto poco a livello di economisti, niente del tutto in ambito politico, dove ci si accontenta di dichiarazioni generiche per lo più di fedeltà all’Europa, come se qualsiasi altro problema fosse secondario e poco rilevante.
Il problema dell’Italia è il debito pubblico. E’ stupefacente quanto poco ci si domandi – tra statistiche, impegni e dichiarazioni onnipresenti sulla riduzione del debito – per cosa lo Stato si stia indebitando. Lo Stato italiano ogni anno incassa più di quanto spende. Il problema sono gli interessi. Ma allora perchè non tornare alla proposta […]
Il
problema dell’Italia è il debito pubblico. Non è nemmeno un
argomento su cui discutere, ma un assunto evidente. Posto che
il
debito pubblico è eccessivo e ci strangola, ragioniamo pure di
quali siano le strategie più efficaci per ridurlo il più
velocemente possibile. Ma è davvero così, o è forse necessario
fare un passo indietro?
Più che l’ammontare del debito pubblico, il faro che guida ogni scelta di politica economica è il rapporto tra debito e PIL. Cerchiamo di capire perché con un esempio semplificato. Ho un debito di 20.000 euro. E’ tanto o poco? Dipende. Se sono disoccupato e nullatenente, è enorme. Se guadagno un milione di euro l’anno, sono spiccioli o poco più. In altre parole, il valore di un debito va riportato a quanto si guadagna. L’esempio è forse fuorviante, anzi troppo spesso si sente dire che uno Stato dovrebbe comportarsi “come un buon padre di famiglia”, mentre la contabilità e gli obiettivi di una famiglia, un’impresa e una nazione sono completamente diversi. L’idea è comunque di misurare il debito in rapporto alla ricchezza prodotta per capirne la sostenibilità.
Anche qui sono però necessarie alcune precisazioni, soprattutto considerando quanto il rapporto debito/PIL definisca le politiche europee e italiane. Se dobbiamo accettare l’austerità, se il mantra degli ultimi anni è che “non ci sono i soldi”, se dobbiamo tagliare su servizi pubblici, pensioni o sanità, il problema è uno solo: dobbiamo ridurre il rapporto debito/PIL, e dobbiamo farlo a marce forzate. Il fiscal compact prevede di rientrare in 20 anni al famigerato 60%, mentre l’Italia viaggia oltre il 130%.
I 5 Stelle sono la nuova espressione del sistema di potere. Come da sempre avviene nella storia del Paese, le nuove forze politiche che si candidano a rappresentare il sistema di potere devono modificare gli assetti politici attorno a loro, creare un ambiente politico idoneo al loro radicamento e sviluppo. Quindi i 5 Stelle hanno il problema centrale di smantellare ciò che resta del bipolarismo della Seconda Repubblica, ed in particolare il suo testimone vivente, ed il suo artefice, ovvero Silvio Berlusconi.
E come avviene sempre nel nostro Paese, i cambiamenti sistemici avvengono per mano giudiziaria: nel 1992 Tangentopoli affossò la Prima Repubblica, oggi la sentenza del processo di Palermo concentra, in modo storicamente discutibile, tutta la responsabilità politica della trattativa Stato-mafia sull’asse Dell’Utri/Berlusconi. Che la pubblica accusa di tale processo sia condotta da un PM politicamente vicino ai 5 Stelle non produce nessuna reazione di allerta nell’opinione pubblica, come invece dovrebbe essere, confermando il dato di un Paese narcotizzato ed alla mercé di chi di volta in volta ne assume la guida.
La Seconda Repubblica è di fatto vissuta in un bipolarismo apparente sinistra/destra che in realtà si declinava, nella sostanza, come berlusconismo/antiberlusconismo, laddove l’ago fondamentale della politica si attestava sui ceti centrali e liquidi della società, dove si annidava la grande pancia moderata ex democristiana ed ex craxiana, che si contrapponeva alla borghesia cattocomunista cresciuta dentro il vecchio PCI e l’ala dossettiana della Dc.
L’articolo 36 della Costituzione recita: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Può sembrare un concetto scontato, ma non lo è. La nostra Costituzione afferma che la retribuzione secondo quantità e qualità del lavoro-produttività e merito avviene solo DOPO che al lavoratore sia stato garantito il salario adeguato a una vita libera e dignitosa. Questo vuol dire quel: “in ogni caso”. Dunque la retribuzione che fa vivere dignitosamente non dovrebbe mai essere messa in discussione, merito e produttività dovrebbero essere premiati con un di più. Se un lavoratore non fa il suo dovere ci potrebbero essere provvedimenti disciplinari, ma la sua paga non dovrebbe diventare un cottimo, né tanto meno un bonus. La retribuzione costituzionale non dovrebbe essere compressa nel nome del mercato e del profitto.
Abbiamo usato il condizionale perché, come tanti altri articoli della prima parte della nostra Carta, anche l’articolo 36 oggi è lettera morta. Con la precarizzazione, con lo sfruttamento schiavistico e con il lavoro gratis, a cui oggi prepara la scuola con l’infamia dell’alternanza scuola lavoro, ci sono milioni di lavoratrici e lavoratori che la “retribuzione sufficiente per un’esistenza libera e dignitosa” non la vedono neanche da lontano.
Da Marx alla spiritualità, passando per Carl Schmitt e la teologia politica. Sempre dentro il partito. Così si potrebbero sintetizzare, in un modo certo fin troppo brutale, gli estremi della lunga parabola teorico-politica di Mario Tronti. Nel mezzo: l’operaismo, l’autonomia del politico, la riscoperta degli autori della restaurazione, gli incontri nel monastero di Camaldoli con un pezzo della vecchia dirigenza Pci. Un percorso lungo, travagliato, a volte ambiguo, oscuro ma ben riassunto nella Nota che apre l’antologia Il demone della politica (Il Mulino, 2018). I curatori (Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M.H. Mascat) ripercorrono qui le varie fasi del pensiero trontiano, coerente, oltre le cesure e i mutamenti, per la scelta di un punto di vista di parte – quello del proletariato, del popolo, degli sfruttati – e per il tentativo di dare, a questa parte, una forma e una prospettiva: la politica. I numerosi scritti raccolti, alcuni contenuti nei più noti saggi trontiani, altri di più difficile reperibilità, attraversano una ricerca lunga circa sessant’anni e si presentano divisi in quattro parti che seguono un ordine cronologico e tematico.
Punto di partenza della raccolta e, simbolicamente, dell’intera vicenda intellettuale di Tronti, è un intervento del 1958 in cui il giovane teorico si schiera con la lettura scientista di Galvano della Volpe contro gli esiti della filosofia della prassi gramsciana, la quale sarebbe rimasta intrappolata nelle maglie dell’idealismo che pure credeva di rovesciare.
Sul Financial Times, Wolfgang Munchau certifica che l’agenda di riforma dell’eurozona voluta da Macron non ha alcuna possibilità di vedere la luce. Con l’uscita di scena di Martin Schultz, infatti, anche l’SPD, ridotta all’osso dalle ultime elezioni, ha abbandonato il sostegno al progetto, e anzi i suoi ministri di spicco all’interno della grande coalizione sposano quella che fu la linea di Schauble. Mentre il governo tedesco è pressato dalle istanze euroscettiche dei vincitori delle elezioni, i Liberal Democratici e Alternativa per la Germania. Così, mentre la Germania si mette ancora più di traverso all’integrazione europea (quando non sia favorevole agli interessi nazionali tedeschi), la Francia si scopre sempre più subalterna, in una unione monetaria nella quale la sua voce conta poco e in una situazione geopolitica nella quale il suo partner più affidabile, il Regno Unito, è ormai fuori dalla UE
La luna di miele franco-tedesca è finita. All’inizio dell’anno Angela Merkel, la cancelliera tedesca, e Martin Schulz, l’ex leader del Partito Social Democratico (SPD), concordavano che la Germania avrebbe iniziato un dialogo significativo con Emmanuel Macron, il presidente francese, sulla riforma dell’eurozona.
A quanto pare, il programma sull’eurozona era un progetto personale di Schultz, non dell’SPD. Quando a febbraio è stato deposto dal ruolo di presidente del partito, quest’ultimo ha perso interesse per il progetto. La grande coalizione è di nuovo al potere, ma ora senza il solo progetto interessante che ne avrebbe giustificato l’esistenza.
Qualche volta occorre partire dalle domande e il forum tenutosi sabato a Roma, promosso dalla Rete dei Comunisti, ne ha proposte alla discussione almeno cinque: Il partito comunista di massa ha ancora senso ed efficacia? Le profonde modifiche della composizione di classe che conseguenze hanno prodotto nella società e nel blocco sociale antagonista? Quale funzione e di impegno dei comunisti nella rappresentanza politica? Quale movimento sindacale opponiamo al patto sociale neocorporativo? Quali conflitti, quali movimenti e quali organizzazioni sociali/sindacali sono più efficaci nella dimensione metropolitana?
Intorno a tali questioni si è sviluppata la discussione che ha visto diversi interventi misurarcisi in modo pertinente. I lavori del forum sono stati introdotti da due comunicazioni di Giampiero Simonetto e Michele Franco della Rete dei Comunisti.
La prima ha riassunto l’elaborazione della RdC intorno ai tre fronti (strategico, politico, sociale) su cui concepire una organizzazione comunista nel XXI Secolo e in un paese a capitalismo avanzato , una ipotesi per recuperare la sintesi che la crisi del movimento comunista apertasi nel ’91 e il logoramento dell’esperienza dei partiti comunisti di massa ha via via perduto.
Tra un anno si va a votare per
l’Europa.
Su Micromega, G. Russo Spena (qui),
sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.
La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.
C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon, fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.
Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.
Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.
Visto che sui media mainstream impazza un sedicente dibattito su deficit e debito pubblico, utile più che altro a confondere le idee e perpetuare convinzioni sbagliate, ripubblichiamo questo articolo del premio Nobel per l’Economia William Vickrey, che illustra gli errori fatali del pensiero economico convenzionale in questo campo
Nel mese di ottobre 1996, il premio Nobel per
l’Economia William Vickrey pubblicò un
articolo che illustrava “I 15 errori
fatali del fondamentalismo finanziario”: per esempio
il sacro terrore del deficit e del debito pubblico, legato a
erronee analogie tra
comportamento economico del singolo e azione dello Stato.
Queste fallacie sono rimaste ben vive – o meglio, sempre più
vive – nel
dibattito pubblico, e lo hanno anzi permeato, trovando
un’applicazione concreta, dai risultati disastrosi, nelle
regole di Maastricht. Per
questo oggi abbiamo scelto di ripresentarne alcune, con la
spiegazione del perché si tratta di ragionamenti sbagliati e
– se tradotti in
pratica – forieri di inutili sofferenze. Quelle che in
un’eurozona intrappolata in questi errori, purtroppo, sono
ormai evidenti agli
occhi di tutti.
* * * *
In campo economico, una grande parte delle teorie convenzionali oggi prevalenti negli ambienti finanziari, ampiamente utilizzate come base per le politiche governative, nonché pienamente accettate dai media e dall’opinione pubblica, si basa su analisi parziali, su ipotesi smentite dalla realtà e su false analogie.
Per esempio, si sostiene che sia bene incoraggiare il risparmio, senza prestare attenzione al fatto che, per quanto riguarda la maggior parte delle persone, favorire il risparmio significa scoraggiare il consumo e ridurre la domanda, e che una spesa fatta da un consumatore o da un governo è anche un reddito per i venditori e i fornitori, così come il debito pubblico è anche una risorsa.
Per creare dobbiamo fidarci delle nostre risorse più nascoste, armonizzare coscienza e inconscio, sognare la realtà nonostante la sua brutalità
Alcuni mesi fa è uscita, per le
edizioni Raffaello Cortina, una lunga intervista di Luca
Nicoli ad Antonino Ferro, uno dei pensatori più originali e
apprezzati del nostro
tempo in campo clinico e psico-analitico. Il dialogo con
questo “psicoanalista irriverente” ha preso la forma di un libro che mi
sento di suggerire a chi coltiva ancora, nel rumore assordante
del presente, la passione per l’ascolto che cura, per il
dialogo che rende
possibili nuove narrazioni, per le vie con le quali
l’inconscio (questo sconosciuto a cui dobbiamo buona parte
della nostra creatività)
sembra palesarsi dilatando la nostra esperienza della realtà.
Il lettore curioso scoprirà piacevolmente che le ipotesi
metapsicologiche
sviluppate nel corso degli ultimi decenni stanno stravolgendo
la psicoanalisi classica aprendo una nuova fase nello studio
del funzionamento mentale.
Dopo l’avvento delle esplorazioni psicoanalitiche di Wilfred
R. Bion, Ferro dichiara candidamente che la visione del
profondo di Freud, a parte
alcuni punti fermi (l’importanza del setting e la
centralità dei sogni, della sessualità nello sviluppo della
personalità e dell’inconscio), può essere oggi considerata
antiquata e priva di utilità terapeutica. L’inconscio
stesso non va più pensato come un luogo psichico, ma come una
funzione della personalità.
Bion, soprattutto mediante la nozione di “pensiero onirico della veglia”, ha dischiuso negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso la possibilità di effettuare un vero e proprio salto quantico nella comprensione della psiche e delle relazioni umane.
La pantomima generale per formare un governo fotografa esattamente l’inesistenza di una “sfera indipendente” chiamata politica. Al contrario di quanto sostenuto per oltre 50 dalla vulgata “operaista”, il politico non è in grado di esercitare alcuna autonomia rispetto a interessi e decisioni prese in altra sfera (economia globale, mercati internazionali, istituzioni sovranazionali).
I due “vincitori” del 4 marzo avevano in effetti poche cose in comune, per quanto riguarda il “programma”, tranne una, ma decisiva per incontrare e raccogliere il malessere crescente di una quota crescente della popolazione: la critica durissima – a parole – contro l’Unione Europea, i suoi vincoli, i trattati, e persino la sua moneta unica.
Lega e Cinque Stelle, per questo, erano comunemente indicate come forze euroscettiche, inaffidabili (dal punto di vista dell’establishment), potenzialmente pericolose.
Dal 4 marzo ogni riferimento a questo background originario è scomparso dalla retorica ufficiale di Luigi Di Maio e sopravvive per vaghi accenni in qualche sortita nervosa di Matteo Salvini (“se non ci sbrighiamo ci mandano un governo via fax da Bruxelles”).
Addirittura, il “contratto in 10 punti” proposto dal M5S a entrambi “i forni” – centrodestra e Pd – parte da una resa senza condizioni agli schieramenti internazionali consolidati:
La scena del professore di Lucca bullizzato da un suo studente tra gli sghignazzi del resto della classe deve aver mandato in visibilio le truppe agli ordini della biopolitica: quale miglior esempio di destituzione del potere costituito? L’attacco al cuore del dispositivo repressivo incarnato nella figura del professore è il primo beffardo segno di ribellione verso una microfisica del potere che dal professore toscano tramanda direttamente alla governance capitalista. Non può che essere così a unire i puntini del filosoficamente corretto. Eppure in questa eccitante ricostruzione ideologica si perde di vista non solo la dignità umana momentaneamente calpestata, ma i ruoli dei soggetti coinvolti. Confondere un anonimo impiegato pubblico per il ganglio periferico di una pervasiva catena di comando del capitale significa affidare la propria comprensione della società al sabba strutturalista espunto dalla realtà ma ancora gagliardo nei corridoi universitari.
Definire la scuola, l’istituzione scolastica, il sapere, unicamente o prevalentemente come sistema coercitivo-repressivo, dunque valutato unicamente o prevalentemente attraverso una sua critica gnoseologica volta a scovarne il significato primo e ultimo nella suddetta governance capitalista, significa ridurre drasticamente e arbitrariamente la realtà, storicamente determinata, a una serie di luoghi comuni utili alla propria posa intellettuale ma inutili alla comprensione del vero.
La sentenza di Palermo non è affatto la fine della seconda repubblica (che è già morta il 4 dicembre 2016 mentre non è ancora nata la terza), e non è nemmeno la “lapide” su Berlusconi che era già in decadenza irreversibile da tempo, come le votazioni del 4 marzo hanno certificato. Ma può sbloccare la crisi di governo spianando la strada ad un governo Lega-M5s? Ragioniamo ci su.
Sicuramente l’alleanza Lega-Fi, sin dall’inizio, non era un matrimonio d’amore ma solo di interessi, permettendo la formazione di un polo competitivo. Detto questo, il Cavaliere (Ops! l’ex Cavaliere) ha fatto cose di pazzi per rendersi il più sgradevole possibile ai suoi alleati (e si pensi alla scenetta in cui contava sulle dita i punti del programma letto da Salvini). Per cui la sentenza offre un ottimo pretesto a Matteo per mandare Silvio al diavolo. Ma sarebbe una scelta assennata?
Ovviamente una rottura difficilmente sarebbe ricomponibile, soprattutto a breve periodo, e questo avrebbe una serie di conseguenze. In primo luogo, la pretesa di avere la presidenza del Consiglio, avendo dietro solo un partito del 17 % non starebbe in piedi e cederla al M5s sarebbe solo questione di ore, acconciandosi nella parte del secondo (e non sarebbe neppure il caso di parlare di un terzo candidato: il M5s era indisponibile prima, figurati ora!).
È uscito nei giorni scorsi in Italia “La casa sul mare”, l’ultimo bellissimo film di Robert Guédiguian, figura storica del cinema francese di sinistra che firma un film personale e politico che racconta senza nostalgie i bilanci esistenziali di tre fratelli ex-sessantottini durante gli ultimi giorni di vita del padre
“Hai la mente a destra e il cuore a sinistra. Come tutti al giorno d’oggi. Non è molto originale”. È quello che dice Joseph, vecchio comunista e reduce dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta a Bérangère, giovane ragazza che ha la metà dei suoi anni e che si è innamorata di lui quando era sua studente all’università, affascinata dal passato di una rivoluzione che lei può vivere solo tramite i ricordi degli altri. Ma le proiezioni immaginarie – si sa – durano al massimo il tempo di un lustro, poi subentra la realtà, che in questo film – lo splendido La casa sul mare di Robert Guédiguian uscito nei giorni scorsi nelle sale italiane dopo un passaggio al Festival di Venezia lo scorso settembre – morde duramente ogni possibile idealizzazione. “Non ho più fiato per starti dietro e per mettermi a ballare” dice sempre il vecchio Joseph, “mentre a me piace ballare” risponde la ragazza, che infatti lo lascia per un coetaneo con cui può andare al tempo del mondo in cui vive.
Gli Stati Uniti presumono che il 7 aprile, in Siria, sia avvenuto un nuovo attacco con l’utilizzo di armi chimiche da parte del governo di Assad, sulla popolazione civile delle zone della città di Douma. Ciò ha fornito il pretesto a Washington per riferire una minaccia di attacco, espressa dal presidente Trump via social network, destando anche l’imbarazzo dei vertici della difesa americana, primo fra tutti James Mattis, che in un primo momento aveva deciso di ritrattare la posizione del Pentagono in merito alle prove di questo attacco.
In seguito al bombardamento congiunto della Siria, deciso da Trump e appoggiato da Gran Bretagna e Francia, si aprono una serie di scenari, che tuttavia sembrerebbero assolutamente non praticabili. Questi dibattiti sulla Siria sono rivelatori, ma non nel modo in cui i suoi partecipanti spesso intendono. Il fatto che gli americani arrivino così spesso alla stessa politica di limitati attacchi aerei ci dice molto sul perché il problema della Siria sia così difficile. Ci dice anche molto sui blocchi della politica estera degli Stati Uniti.
Di fronte agli Stati Uniti, dunque, si presentano alcune possibilità, la cui risolutezza, tuttavia, è messa in dubbio da un quadro piuttosto complicato, molto più di un qualsiasi Afghanistan o Iraq.
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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Le parti di Ppp sono “montate” attraverso un collage che ho fatto attingendo liberamente da “Saggi sulla politica e sulla società”, ultimo volume delle Opere complete edite da Mondadori
AM: Ciao Pier Paolo, scusami per
averti
così indelicatamente riesumato. Immagino che vorresti
parlare prima di tutto del tuo brutale omcidio, ma io non
sono davvero un nergomante,
sono solo un piccolo rompiscatole che vorrebbe discutere con
te del rapporto tra la società dei consumi (che noi oggi
chiamiamo neo-liberale),
il nuovo montante fascismo degli italiani e l’intellettuale
(cosiddetto) di sinistra. Ne avverto il desiderio perché mi
sembra veramente
che in questa triangolazione, in questo nuovo “sistema”, che
vede l’85% degli italiani votare – a vario titolo –
“a destra”, o non votare proprio, ci sia qualcosa del nostro
presente che ci sfugge. Personalmente credo – con amarezza –
che il vero propulsore del nuovo dilagante
“fascismo” sia proprio un nuovo (forse
giustificato) odio nei
confronti degli intellettuali.
PPP: È sempre attraverso il sistema – la democrazia ateniese, la società capitalista o socialista – che noi conosciamo la vita o la realtà. Il sistema mi fornisce – e in questo non ha concorrenti se non altri sistemi – una partita completa di strumenti di conoscenza della realtà. Rifiutare l’uso di questi strumenti significa non voler conoscere la realtà, cioè voler morire. Per questo io penso che la disperazione è oggi l’unica reazione possibile all’ingiustizia e alla volgarità del mondo, ma solo se individuale e non codificata. La codificazione della disperazione in forme di contestazione puramente negativa è una delle grandi minacce dell’immediato futuro. Essa non può che far nascere degli estremismi, che rischiano di diventare nuove forme di fascismo, magari fascismo di sinistra. Tutto quello che possiamo fare è modificare il sistema, appunto rivoluzionandolo, in modo che il rapporto con la realtà, il suo conoscerla, sia, almeno nelle nostre speranze, più puro e autentico.
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«Parlammo del mondo e
dell’uomo,
dei tempi e delle idee, con il rumore del mare che faceva da
sottofondo al tintinnio dei nostri bicchieri. […] Levandosi
al di sopra del
confuso brusio degli anni e delle epoche, oltre i discorsi
del giorno e le immagini della serata, affiorò alla mia
mente una domanda sulla
legge ultima dell’esistenza per la quale avrei voluto una
risposta da parte di quel saggio. Durante una pausa di
silenzio, mi rivolsi al
rivoluzionario e filosofo con queste fatidiche parole,
emerse dalle profondità del linguaggio e scandite al culmine
dell’enfasi:
“Che cos’è?”.
Sembrò che la sua mente si distraesse mentre guardava il mare che tumultuava davanti a noi e la moltitudine che si agitava sulla spiaggia. “Che cos’è?”, avevo chiesto, e in tono profondo e solenne egli rispose: “La lotta!”. Per un attimo mi parve di aver udito l’eco della disperazione, ma forse era la legge della vita».
Dall’intervista del giornalista americano John Swinton a Karl Marx (agosto 1880).
1. Socialismo scientifico e critica dell’economia politica
Karl Heinrich Marx nasce a Treviri da una famiglia della borghesia liberale tedesca di origine israelitica il 5 maggio 1818. Egli ha 13 anni quando muore Hegel, 14 quando muore Goethe. La giovinezza di Marx si svolge nel periodo compreso tra la rivoluzione francese di luglio (1830) e la rivoluzione francese di febbraio (1848).
Impossibile per un non esperto
valutare se veramente quelle nuove armi di cui ha parlato
Putin1, non solo cambiano la guerra navale ma
addirittura, come scrive il Sa-ker,
annullano l’opzione militare contro la Russia. Fosse davvero
cosi, le implicazioni di questo fatto avrebbero conseguenze
molto piu grandi della
pura strategia militare. Conseguenze geopolitiche, immediate e
di lungo periodo, e quindi anche storico-filosofiche, nella
misura in cui ogni paese
ispira la sua politica, i suoi fini e mezzi su alcuni
fondamenti e scelte prima di tutto culturali.
Per stare sull’immediato, rilevo intanto che le parole di Michael Griffin, che sembra non sminuire l’importanza di quelle armi, pongono gli USA ma anche il mondo intero, di fronte all’inquietante scenario di una alternativa secca fra ciò che egli definisce una «sconfitta» o l’uso dell’opzione nucleare. Uno scenario, come sostiene Grasset, che significativamente non contempla la terza alternativa; quella di una presa d’atto realistica da parte americana che un mondo unipolare non è piu possibile, e quindi che è necessaria una ricontrattazione complessiva degli equilibri fra le grandi potenze. Equilibri militari, politici (zone d’influenza), economici, in vista di un nuovo «nomos» della terra, ovvero di un ordine multipolare fondato sul diritto internazionale e sui suoi vincoli cosi spesso disattesi.
Che il sottosegretario americano non contempli tale possibilità, che sembra paragonare tal quale ad una sconfitta del proprio paese, la dice lunga su ciò che gli USA intendono per «convivenza pacifica». Molto pericoloso, evidentemente!
I giovani italiani sono davvero un branco di pigri fannulloni? Questa espressione viene spesso utilizzata per descrivere la scarsa attitudine del nostro popolo a sporcarsi le mani con il lavoro manuale, un popolo che, piuttosto, preferirebbe dedicarsi allo studio dell’arte o delle scienze sociali e umanistiche, quasi per definizione inutili e garanzia di disoccupazione. Ci dobbiamo porre questa fastidiosa domanda perché, oramai da anni, ascoltiamo appelli dal mondo dell’industria che si lamenta di come in Italia sia così difficile trovare lavoratori che abbiano competenze tecniche e che siano disposti a lavorare in fabbrica. In questi giorni, ancor più di prima, escono continuamente articoli in cui gli imprenditori rimproverano gli italiani perché, a fronte di grandi (o presunti tali) investimenti in nuove tecnologie, hanno difficoltà ad assumere personale vista l’impreparazione dei candidati, o perché, peggio ancora, questi lavori vengono letteralmente snobbati. Di fronte ad una veloce trasformazione della domanda di lavoro da parte delle imprese, spinta dal progresso tecnico (Industria 4.0), sembrerebbe quindi che l’offerta di lavoro non sia in grado di – o peggio ancora non voglia – adeguarsi a questo processo di cambiamento, con conseguenti ricadute sull’occupazione. Le cause di tutto ciò? Principalmente la pigrizia e la scarsa buona volontà dei potenziali lavoratori.
Onore all'Anpi. Stavolta.
Va reso onore all’ANPI per aver resistito, a dispetto di passi falsi anche recenti (Regeni, mercenari curdi e altre truffe CIA, Amnesty e HRW), all’immane pressione della comunità ebraica romana perché bandisse dal corteo della Liberazione il popolo palestinese, più di tutti oggi simbolo della lotta di liberazione da domini nazisti e ultranazisti. Non solo, dietro alla protervia escludente della comunità ebraica romana, era percepibile la mobilitazione di tutto il mondo talmudista. L’ordine di servizio della lobby era di seppellire nel silenzio, nel disprezzo e nell’anatema dell’ “antisemitismo”, chiunque, in qualsiasi angolo del pianeta, osasse sollevare critiche allo Stato monoetnico, dunque razzista, xenofobo, nazionalista (e pure sovranista, accusa mossa a chi mille volte più di Israele ha titoli per rivendicare autodeterminazione). Uno Stato illegale dalla nascita, incistato in Palestina per volontà delle potenze impegnate nel nuovo ciclo colonialista. Stato e società che di venerdì in venerdì, con i loro robocop Tsahal in stato di esaltazione omicida, si diverte a fare mattanze di inermi.
Antisionisti uguale antisemiti è come antifascisti uguale antitaliani
Il teorema anti-sionismo uguale antisemitismo, uno dei pilastri della mobilitazione tesa a oscurare lo strisciante genocidio dei palestinesi, è abusivo e ricattatorio per due ragioni inconfutabili.
Il Movimento ha vinto le elezioni, ma ora deve decidere se accettare le alleanze e la sfida del Governo. Riuscirà però a mantenere il consenso di tutti gli “scontenti”, di destra, centro e sinistra, che lo hanno premiato? Ne parliamo con il prof. Damiano Palano, docente all’Università Cattolica. Che è “scettico sulla possibilità di un’alleanza con la Lega”
Tutto o niente. E’ l’ora del dunque, per il Movimento 5 Stelle. Uscito vincitore solo parzialmente dalle elezioni del 4 marzo (è il primo partito ma non ha i numeri per governare), si trova ora a gestire una delicata trattativa per trovare alleati. Un cammino che si sta rivelando accidentato e aperto a tutti gli esiti. Intanto, è importante interrogarsi sulle ragioni del successo dei 5 Stelle e sulle possibili future evoluzioni. Lo facciamo con il prof. Damiano Palano, docente di Scienza politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, autore di varie ricerche e pubblicazioni sul movimento fondato da Beppe Grillo.
* * * *
L’affermazione del M5S è stata una delle principali notizie delle recenti elezioni politiche. Se lo aspettava, almeno in questi termini? Quali a suo avviso le ragioni principali?
Tutte le rilevazioni dei mesi precedenti avevano indicato una crescita dei consensi al Movimento 5 Stelle, anche se non nelle proporzioni emerse il 4 marzo.
«L’interesse generale deve prevalere sull’interesse particolare, l’equa distribuzione delle ricchezze prodotte dal mondo del lavoro deve prevalere sul potere del denaro»
(Stéphane Hessel, Indignatevi!)
Come tutti gli anni, l’arrivo della primavera coincide con il 25 aprile, occasione di numerose feste popolari in tante zone d’Italia, in particolare al centro nord, dove si sta diffondendo la pratica delle cosiddette “pastasciutte antifasciste”, riprendendo il gesto umile di gioia e aggregazione compiuto dalla famiglia Cervi all’epoca della caduta del fascismo nel 1943. Segno di una vivacità della festa della Liberazione nazionale che tuttavia stride con la neutralizzazione della giornata in una ricorrenza senza contenuti forti – annacquata in una vaga idea di libertà che sempre più spesso coincide con quella della volpe nel pollaio, l’antitesi di quella per cui combatterono i partigiani – che dello stesso pensiero antifascista, ridotto ai suoi minimi termini e privato delle istanze di progresso sociale che ne erano state il motore principale. Lo avevamo già segnalato lo scorso anno in un articolo sulla vuota retorica che si è impossessata del 25 aprile, e di recente Samuele Mazzolini ha avuto modo di evidenziare l’inefficacia dell’antifascismo identitario dei nostri tempi.
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Niamey, aprile 2018. Magari non ne avremo il monopolio. Anche altre zone del mondo potrebbero vantare lo stesso primato. Comunque sia, nel Sahel, i mercenari si sentono come pesci nel deserto. Si definisce mercenario chiunque svolga un’attività al solo scopo di trarne un guadagno. A questo titolo le truppe, i militari reclutati con contratto per fare guerra alla pace e la quasi totalità dei gruppi armati che arredano le frontiere saheliane sono un esempio. La definizione di questa categoria coincide con le pratiche correnti che, in questo spazio, trovano un terreno propizio per compiere la propria missione pecuniaria. Si arruolano a migliaia con le tute mimetiche per proteggere interessi economici, risorse strategiche e collateralmente persone. Soldati scelti e preparati per affrontare i nemici che non mancano mai. In caso di carenza, questi ultimi, si possono facilmente inventare, creare, riprodurre e financo combattere. Da tempo le guerre, le operazioni di pace e le spedizioni punitive non sono che applicazioni generalizzate dei mercenari al processo in atto.
Gli altri mercenari sono gli intellettuali, tristemente scomparsi dall’orizzonte utopico odierno. Si sono venduti al potentato di turno e hanno in fretta integrato il sistema vincente. E il ’68, appena cinquant’anni dopo, rivive per i superstiti e per quanti rimodellano la storia a loro immagine e somiglianza.
I modelli economici ed econometrici utilizzati per programmare e valutare le politiche economiche da governi e banche centrali derivano dall’adozione di un paradigma teorico fallace e obsoleto. Ma che continua a produrre enormi danni sulla vita di noi tutti
L’economia è una
scienza sociale che consente di quantificare e valutare
empiricamente numerose variabili che attengono alla sua
analisi – variabili micro, meso
e macroeconomiche. La valutazione dei fenomeni economici e
delle loro determinanti è legata alla teoria economica
sottostante e al modo di
intendere il sistema economico in termini socialmente e
storicamente determinati.
Criticare e ripensare il paradigma economico dominante e le teorie che ne derivano, pertanto, non è solo uno sterile esercizio tra accademici e addetti ai lavori, ma è un elemento imprescindibile di discussione riguardo alle politiche economiche che condizionano materialmente il contesto economico e sociale in cui noi tutti viviamo.
Le politiche economiche messe in campo da governi e banche centrali sono sì il frutto di valutazioni rispetto all’andamento di variabili economiche chiave – quali ad esempio il PIL, la disoccupazione o il debito pubblico –, ma il segno di tali politiche è diretta conseguenza del paradigma teorico sottostante ai modelli economici (ed econometrici) utilizzati dalle istituzioni in questione.
Non fanno eccezione le politiche economiche adottate dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni in Italia – a loro volta influenzate e orientate da indicazioni e vincoli imposti a livello comunitario – e che sono oggetto delle critiche e delle analisi proposte all’interno di questo e-book.
Anticipiamo il filo rosso del libro, in arrivo presso le librerie e disponibile in digitale dai primi di maggio
Dalla
prefazione e
dall'introduzione
Questo libretto trae origine da una conferenza dal medesimo titolo tenuta il 25 gennaio 2018 presso l’Università di Friburgo in Brisgovia, la splendida cittadina nel Sud della Germania, organizzata dagli amici (tedeschi) della locale Società Dante Alighieri assieme all’Università Albert-Ludwigs di Friburgo. ...
Il filo rosso del libro
Il ragionamento che svilupperemo nel libro può essere così sintetizzato. Vi sono delle “regole del gioco”, ben note all’analisi economica, che rendono un’unione monetaria sostenibile. Tali principi prescrivono che gli squilibri esterni (delle partite correnti) fra i Paesi di un’area valutaria vadano regolati col concorso sia dei Paesi in avanzo che dei Paesi in disavanzo. Queste regole sono analoghe a quelle già imperfettamente applicate nel sistema aureo, un sistema monetario internazionale a cui l’euro è considerato affine. Con la copertura di precetti monetaristi, le regole nei fatti adottate nell’Eurozona sono invece altre, e sono in buona misura quelle desiderate dalla potenza europea dominante, in maniera tale che la moneta unica non ne contraddica il modello economico mercantilista. Il fatto che tali regole non abbiano funzionato nello stabilizzare l’area euro è condiviso; ma perché sbagliate, oltre che contorte, o perché non rispettate? Il processo di riforma delle regole, attualmente in corso, sembra basarsi sulla seconda tesi.
Anche
solo sfogliando il «documento aperto» del MIUR intitolato
Filosofia a scuola oggi, se ne avverte la totale
continuità, stilistica e contenutistica, con le proposte
precedenti: l’uso strategico della coppia
«conservazione\innovazione», per screditare tutti coloro non
in linea con la “didattica innovativa”; il riferimento alla
«Società della Conoscenza» come condizione epocale che
renderebbe inevitabile la «didattica per competenze»; la
necessità di riconfigurare radicalmente la professione
docente, considerando in qualche modo frenanti le competenze
professionali sino a ora
acquisite. Il Sillabo della filosofia non intende solo
applicare la didattica per competenze alla filosofia, ma
giustificare attraverso
quest’ultima il quadro teorico alla base dell’intero
impianto della Legge 107. Una disciplina messa al servizio
della legge, e
dell’esecutivo che l’ha prodotta. Ciò che più irrita del
testo in esame è la caricatura della figura
dell’alunno di cui si dà per scontata la mancanza di
curiosità se non sono in gioco attività pratico-ludiche, e
la
definizione del docente quale «attivatore delle potenzialità
dello studente». Cè anche il portfolio filosofico dello
studente, con tanto di presunte competenze filosofiche, da
testimoniare in uno specifico libretto. Un documento che
costituisce un lavoro
intellettuale di compiacimento verso le tesi governative e
che rappresenta quanto di più ostile possa esserci
all’essenza stessa (libera,
dialogica, pluralista, etica) della filosofia.
* * * *
Il «documento aperto» del MIUR intitolato Filosofia a scuola oggi, pubblicato sul sito dell’INDIRE inaugura un nuovo percorso verso l’attuazione effettiva della Legge 107. Consultandolo, qualcuno potrebbe pensare a un cambio di rotta.
La dichiarazione di Luigi Di Maio di fedeltà solleva una questione di fondo che va al di là dell’attuale dibattito politico
Luigi Di Maio: «Se qualcuno pensa di sganciare l’Italia dai nostri alleati storici, che sono l’Occidente e i paesi della Nato, allora troverà sempre me contrario. L’Italia, e il Movimento 5 Stelle soprattutto, non ha mai detto di volersi allontanare dai nostri alleati storici»: questa dichiarazione del candidato premier (a Otto e mezzo su La7, 16 aprile), solleva una questione di fondo che va al di là dell’attuale dibattito politico. Qual è il bilancio dei settant’anni di legame dell’Italia con i suoi «alleati storici»?
Nel 1949, con il 5° Governo De Gasperi (Democrazia cristiana – Pli – Psli – Pri), l’Italia diviene membro della Nato sotto comando Usa. Subito dopo, secondo gli accordi segreti sottoscritti da De Gasperi a Washington nel 1947, inizia lo schieramento in Italia di basi e forze statunitensi, con circa 700 armi nucleari. Per 40 anni, nella strategia Usa/Nato, l’Italia fa da prima linea nel confronto con l’Urss e il Patto di Varsavia, sacrificabile in caso di guerra (gli Usa tengono pronte sul nostro territorio anche mine atomiche da demolizione). Finita la guerra fredda con la dissoluzione del Patto di Varsavia e dell’Urss nel 1991, inizia per l’Italia non un periodo di pace ma una serie continua di guerre sulla scia del suo principale «alleato storico».
Trovo letteralmente spassoso il "dibattito" sui recenti episodi di bullismo nei confronti di alcuni docenti di scuola media superiore. Giornali e televisioni hanno convocato opinionisti, psicologi, pedagoghi, tuttologi, politici, studenti, professori, genitori e chi più ne ha più ne metta, ma da questo diluvio di chiacchiere non è emerso granché.
Da un lato si è preso atto di alcuni dati di fatto: siamo di fronte a una generazione caratterizzata da un’elevata percentuale di ragazzi narcisisti, privi di freni inibitori, incapaci di distinguere fra realtà e videogiochi, inconsapevoli degli effetti del proprio esibizionismo online (che molti vivono come l’unico strumento in grado di certificarne l’esistenza), incapaci di concentrarsi per più di un minuto su qualcosa che non sia pura immagine, privi di empatia, ma le riflessioni sulle cause del fenomeno sono patetiche.
Colpa delle nuove tecnologie (smartphone, social network ecc.)? Ma chi ha alimentato la corsa al consumo sfrenato di questi strumenti in assenza di qualsiasi addestramento al loro uso critico e consapevole? Colpa dei genitori? Ma quei genitori appartengono in larga misura a una generazione che è cresciuta a sua volta in un clima culturale caratterizzato da consumismo, individualismo, indifferenza (per non dire ostilità) nei confronti degli altri, irresponsabilità personale e collettiva, per cui non c’è da stupirsi se solidarizzano con i loro virgulti, visto che gli somigliano fin troppo.
Il nostro immaginario del prossimo futuro è popolato di incubi come i robot che sostituiscono il lavoro umano o le cyber intrusioni nella vita privata ma anche nei gangli della democrazia e poi di altrettante utopie californiane e affini
Le riflessioni, oltre che le notizie, sull’economia digitale occupano un crescente spazio sui giornali, nelle librerie, nei centri di ricerca e questo certamente a ragione, vista le grande importanza del tema per il futuro del mondo.
Analizzando almeno alcune di tali riflessioni abbiamo cercato di estrarne alcuni punti nodali; in particolare, abbiamo isolato quattro minacce che, secondo la letteratura esaminata, lo sviluppo del settore fa planare sul mondo o almeno su di una parte di esso e, d’altro canto, anche un uguale numero di utopie, più o meno benevole.
Quattro minacce
La crescita delle tecnologie numeriche non manca intanto di suscitare delle paure di grande peso, più o meno motivate. Esse sono nella sostanza, in particolare per quanto riguarda alcune di esse, ormai ben presenti all’opinione pubblica.
La minaccia forse più dibattuta riguarda le prospettive del lavoro in un futuro anche prossimo.
Il governo siriano, dopo la caduta del quartiere di Ghouta, ha intensificato le campagne militari contro altri bastioni della resistenza, che sembra meno agguerrita di prima.
Dopo Ghouta, i ribelli hanno accusato il colpo, almeno momentaneamente. E ciò perché il quartiere damasceno era la punta di diamante della resistenza, il suo cervello pulsante. Anche per questo è stata così cruenta la battaglia.
Abbiamo usato i termini usuali del mainstream, che identifica le forze che si oppongono a Damasco come “ribelli” e “resistenza”.
Sotto Ghouta
L’abbiamo fatto apposta, per far vedere quanto questa identificazione, parte fondante della narrazione che vede un regime sanguinario alle prese con un’opposizione libertaria, strida con quanto sta emergendo da Ghouta.
Anzitutto gli orrori. Li documenta un filmato siriano, certo di parte, ma che rimanda immagini che non possono esser frutto di manipolazione.
Nel filmato al quale rimandiamo (cliccare qui) si vedono gli orrori di Ghouta. Le immagini inquadrano la “prigione del pentimento”, dove si vedono le celle oscure e le gabbie interrate, esposte all’aperto. O l’attrezzo che mostriamo nella foto in alto, dove i prigionieri erano legati per essere torturati.
“Occorre tornare là dove tutto è cominciato”. È la suggestione che usiamo spesso per sottolineare l’esigenza di affrontare alla radice, senza scorciatoie, la crisi profonda della sinistra e di ciò che è stato il movimento operaio del Novecento. Tornare all'ispirazione fondativa delle prime leghe operaie e società di mutuo soccorso, ma anche alla capacità di inventiva e immaginazione di quegli operai e di quegli intellettuali militanti.
Il regista haitiano Raoul Peck, con il suo riuscito ed emozionante film Il giovane Marx, ci porta proprio là, nello specifico negli anni tra il 1842 e il 1848, periodo della formazione di Marx e dell’incontro con Engels. E là non troviamo il Marx austero con la lunga barba bianca che siamo abituati a vedere, immagine forse più facile da ossificare, da indurire in ideologia immutabile. Troviamo un Marx ventenne, lontano dalle ortodossie in cui verrà imbalsamato nei paesi del socialismo reale, che pur scagliandosi con veemenza contro quello che definisce “socialismo sentimentalista”, è pieno di sentimento, di passione, oltre che di intelligenza e irriverenza.
Il film inizia con una scena drammatica nella foresta, in cui uomini e donne intenti a raccogliere legna vengono selvaggiamente picchiati dalla polizia.
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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Elezioni o governo destra-Pd: le responsabilità di Di Maio e quelle di Salvini
Non abbiamo
risparmiato critiche a Di Maio, né prima né dopo le elezioni.
La svolta, europeista e sistemica, di M5S l'andiamo
denunciando da un anno
ormai. Il tentativo di un accordo con il Pd si commenta da solo.
E, tuttavia, giocate tutte le carte a disposizione, il leader
pentastellato ha
almeno detto di no al cosiddetto "governo del presidente",
chiedendo nuove elezioni a giugno. Sul punto, invece, Salvini
per ora nicchia. Domandiamoci
il perché.
Che da questi due mezzi populismi - mezzi perché per l'altra metà abbondante compromessi con le forze sistemiche e la loro ideologia liberista - non ce ne venga fuori neppure uno minimamente decente, è un dubbio più che legittimo. Nondimeno, più del 50% degli elettori è lì che si è rivolto per colpire l'oligarchia, per uscire dall'austerità, per mandare a quel paese l'Europa. Un dato imprescindibile, che ci ha portato a pronunciarci per un governo M5S-Lega.
Le stucchevoli sceneggiate degli ultimi quaranta giorni sono comunque agli sgoccioli. Siamo ad un passo dal momento della verità. Quel momento riguarda soprattutto Matteo Salvini. Perché ormai i casi sono due e solo due: o elezioni subito (al massimo nella prima metà di luglio) o nascerà un governo tra la destra ed il Pd.
Vediamo il perché chiarendo tre punti sui quali la confusione regna sovrana. E regna perché mentre i media del regime fanno il loro sporco lavoro, sul web scarseggia la capacità di sfuggire ai luoghi comuni ed ai trucchi semantici diffusi dagli strilloni di lorsignori.
Limiti e contraddizioni di un appello che si fatica a definire alternativo rispetto a DiEM25 e a chi punta a riformare le istituzioni europee
Anche se
nelle elezioni per il parlamento europeo non è possibile
presentare liste transnazionali, in questa direzione si muove
esplicitamente dal 2016 DiEM25, ovvero Il Movimento
per la democrazia in Europa 2025, lanciato dall’ex
ministro delle finanze greco Varoufakis, cui
hanno aderito De Magistris e il movimento
Generation S, lanciato
dall’ex leader del partito socialista francese Hamon.
A tale iniziativa hanno tentato di rispondere il 12 aprile il
Bloco de Esquerda
portoghese, France Insoumise di Mélenchon e
gli spagnoli
di Podemos lanciando a loro volta, anche in
funzione delle elezioni europee previste per il prossimo anno
un “movimento
comune”. Come base programmatica le tre organizzazioni hanno
steso una dichiarazione
firmata a Lisbona.
Tale intento unitario è importante in particolare per France Insoumise e Podemos che non fanno parte del Partito della sinistra europea. D’altra parte il coordinamento a livello europeo di queste due forze risulta piuttosto complicato, dal momento che mentre Podemos mira a rappresentare una “alternativa democratica, popolare e in favore dei diritti umani e della sovranità popolare”, ma tutta interna al processo di unificazione europea, France Insoumise mira ad una “uscita concertata dai trattati europei” con il fine di rinegoziare nuove “regole”, ma al contempo, in caso di mancato successo di questo piano A, ha previsto un “piano B”, ossia la “uscita della Francia dai trattati europei”.
Il vero capolavoro della classe dominante è l’essere riuscita a imporre la falsa idea secondo la quale il modo di produzione capitalistico è l’unico possibile
Renzi, l’uomo immediato e
d’azione che al suo esordio sulla scena politica
nazionale era stato salutato dai commentatori e dagli analisti
di regime come il nuovo che
avanza, l’uomo della provvidenza che avrebbe finalmente
impresso alla vita politica nazionale, e perfino europea, la
svolta decisiva per portare
il Bel Paese certamente fuori dalla crisi, contrariamente a
tutte le aspettative dell’esordio, il quattro marzo scorso è
finito nella
polvere. E’ affondato lui e con lui anche Il Pd che chissà per
quale arcana ragione è stato considerato, e per molti continua
ancora a essere, un partito di sinistra nonostante,
sin dalla sua nascita, sia stato fra gli interpreti più
coerenti dei desiderata di
sua maestà il capitale. Riformista sì, ma non nel
senso della socialdemocrazia storica – quella, per intendersi,
dei
Bernstein, dei Kautskj o di Turati - ma del liberismo più
ortodosso secondo cui il capitalismo è l’unico modo di
produzione
possibile della ricchezza e il libero mercato il
miglior regolatore della vita economica e sociale.
L’uomo immediato d’azione non è spuntato dal nulla e intanto ha potuto conquistare il Pd in quanto a sua volta imbevuto della stessa ideologia della classe dominante che ha ispirato la politica di questo partito sin dalla sua fondazione. Nel condurlo alla disfatta vi ha messo certamente del suo obbedendo ciecamente al gruppo di potere che ne ha sostenuto l’ascesa; ma fare di lui l’unico artefice della miserabile fine della sinistra, come capita di leggere in questi giorni, è confondere una comparsa con l’interprete principale.
Il risultato delle elezioni regionali in Friuli di domenica scorsa (esattamente come quello del Molise di 7 giorni prima) è di quelli che non ammettono interpretazioni o discussioni; in claris non fit interpretatio: il centro destra avanza seccamente, il Pd ha risultati alterni ma sostanzialmente regge, il M5s straperde.
D’accordo: il M5s alle elezioni amministrative va sempre male rispetto alle politiche, pesano fattori locali, Fedriga era un candidato molto forte e difficile da battere o almeno frenare, vice versa il candidato del M5s era il più infelice che si potesse trovare, tutto quello che volete, ma quando un partito perde a precipizio in due regioni distanti fra loro e diversissime, 2 elettori su tre, il tutto a meno di due mesi da elezioni che hanno segnato un successo clamoroso, c’è poco da fare: è il segno che l’elettorato non è contento di come è stato amministrato il suo consenso e sta iniziando a ritirare il suo mandato.
E’ una bocciatura impietosa del come è stata gestita la crisi di governo. Forse non nella misura del 15-17% come accaduto in queste regioni, forse, in caso di elezioni politiche la flessione sarebbe più misericordiosa, diciamo il 4-5%, comunque quanto basta a riportare il M5s sotto l’asticella del 30% e ad archiviare definitivamente il sogno di un governo 5 stelle.
Gli elettori erano stati chiari: basta inciuci, basta PD.
Cos’ha proposto il Movimento 5 Stelle? Un inciucio col PD.
Quel Demostelle che tutte le élite chiedono fin dal 5 marzo, perché il PD è il garante dell’establishment, di quel pilota automatico di cui parlava Mario Draghi. E ormai è chiaro che non gli è affatto necessario sopravvivere alle elezioni per restare al potere.
Così, dopo essersi insultati a vicenda per anni chiamandosi mafiosi, fascisti, assassini e zombie, grillini e piddini, se non fosse per Renzi, potrebbero allearsi, col PD che torna al governo dopo l’ennesima sconfitta alle urne, riuscendo ancora una volta a spacciarlo come un sacrificio per il Bene del Paese, e il Movimento 5 Stelle che si rimangia anche l’ultimo dei suoi distinguo, dei suoi principi “non negoziabili”.
Non c’è da stupirsi che parte della base grillina sia in rivolta, c’è da stupirsi che non lo sia tutta.
Dopo aver raccolto per anni il voto di protesta solo per congelarlo, il Movimento 5 Stelle adesso vorrebbe consegnarlo al PD. Adoperare milioni di voti anti-sistema per mantenere al governo il principale garante del Sistema. Ed è stizzito dal rifiuto di Renzi.
Il ritorno alla zappa di una semicolonia in declino irreversibile
Mentre i paesi capitalistici
avanzati cavalcano la
rivoluzione digitale e ristrutturano drasticamente i propri
apparati produttivi, mentre la Cina Popolare conquista lo
spazio, l'Italia sembra
accettare rassegnata un destino che costringe molti giovani a
tornare al lavoro degli antenati. Con la fatica quotidiana e
spesso la fame che questo
lavoro comporta.
Certo, non è la stessa agricoltura di 50 o 5000 anni fa. Ma non è nemmeno la tecnologia avanzata dei tedeschi.
Il miracolo della rivoluzione passiva però è che questo regresso netto - che è sostanzialmente il sintomo di una pressione gigantesca per la riduzione del costo del lavoro - viene presentato come se fosse chissà quale figata e dobbiamo anche esserne contenti. Basta chiamarle " startup della natura", o qualcosa di simile.
Del resto, è quello che da sempre vuole la sinistra populista che ha in odio lo sviluppo delle forze produttive e va in sollucchero per le giuggiole naccarate dei frati cerconi del Casentino. A patto che siano gli altri ad alzarsi alle cinque per raccoglierle, ovviamente.
Mentre si prepara una nuova grottesca offensiva dell’oligarchia europea sul fronte delle fake news e i debunker del potere ovvero tutti quelli che asseriscono di fare questo mestiere cercando di apparire puri burocrati di verità formali, sperano in un contratto a tempo indeterminato, succede che la “migliore” disinformazione mainstream cominci a entrare in fibrillazione sotto i colpi della realtà. Fino a una decina di giorni fa il Sole 24 ore per cui pensare positivo è quasi un obbligo contrattuale, diceva che tutto andava per il meglio, che non c’era alcun pericolo di una bolla borsistica e che la ripresa viaggiava in prima classe, però quasi all’improvviso si è accorto che invece le cose vanno non vanno poi così bene, che dai bond e dalle borse viene arriva un allarme che va ascoltato, che “l’economia è in frenata” e che il il Documento di programmazione finanziaria è più prudente sulla mitica “crescita”.
Insomma non c’è affatto quella ripresa post crisi che è stata il leit motiv da tre anni a questa parte e resa possibile nelle sue espressioni puramente statistiche dal denaro facile della Fed, da quello successivo di Draghi e soprattutto dall’impulso finanziario cinese. Ora è abbastanza evidente che da quando la Federal reserve ha inumato il quantitative easing e in attesa dell’estinzione di quello messo in piedi dalla Bce, tutto comincia a cambiare: la ripresa appare drogata e comincia a mostrava la sua reale natura di bolla narrativa nella quale il sistema neoliberista si specchiava chiedendosi che è il più ricco del reame.
Due mesi senza riuscire a fare un governo possono sembrare tanti, specie se “il programma” da realizzare è già scritto nei trattati, a cominciare da quel Fiscal Compact che dal 2019 diventerà l’alfa e l’omega di ogni esecutivo. La situazione attuale, oltretutto, non è più quella ante elezioni, quando alcune forze politiche – quelle poi uscite premiate da voto – sembravano “populiste ed euroscettiche”. Sia Salvini sia Di Maio (e quest’ultimo in modo molto netto) hanno rapidamente messo da parte ogni velleità di mettere in discussione i vincoli europei. Dunque non sembrerebbero esserci ostacoli veri alla formazione di un governo comunque obbligato a seguire una strada già tracciata.
Eppure non si schiodano dai veti incrociati.
Per provare a capire le ragioni dello stallo bisogna per forza far riferimento a due fattori strettamente intrecciati, anche se di peso alquanto diverso.
Sul piano strettamente interno, “politicista”, il sistema partitico è diventato sostanzialmente tripolare ma sulla base di dinamiche “maggioritarie” tipiche di un sistema bipolare. Anche la forza nata per rompere lo schema – i pentastellati – sono cresciuti seguendo la stessa dinamica, ma in chiave contrappositiva radicale: “noi” contro tutti gli altri, sostanzialmente uguali (cosa vera, oltretutto, con piccolissimi distinguo).
1. Concetto e funzione di
“critica
immanente”
Il lavoro di Rahel Jaeggi nell’ambito della filosofia e della psicologia sociale contemporanea si colloca, senza ombra di dubbio, in una linea di profonda continuità e nello stesso tempo di radicalizzazione di quella istanza di critica immanente che, di contro ad ogni moralità ed etica del dover-essere, ha ispirato i suoi maestri della Scuola di Francoforte, come Jürgen Habermas e Axel Honneth.
Il concetto di “critica immanente” – o più ampiamente di filosofia come critica – va fatto risalire nel campo sociale e politico al movimento dello Junghegelianismus, quale capacità degli intellettuali critici di sollecitare la modernità al superamento di ogni arretratezza premoderna e al compimento della sua più intrinseca e strutturale razionalità secondo la lezione più propria di Hegel, che aveva assegnato alle istituzioni del tempo moderno l’architettura di una razionalità compiuta, contrassegnata, a suo avviso, dall’intreccio vicendevole e maturo di individuale e universale.
La tessitura e l’articolazione della società che Hegel aveva esposto e concettualizzato nei Lineamenti di filosofia del diritto rimandava al valore fondante e prioritario della libertà, e non dell’autorità, quale contenuto del diritto: propriamente quale realizzazione e riconoscimento dei diversi lati dell’esistenza umana attraverso sfere concentriche e sempre più ampie di socializzazione. Per cui, dopo il compimento del sistema hegeliano come identificazione e teorizzazione della ratio intrinseca alla modernità, il compito della filosofia per i Giovani Hegeliani non poteva che essere quello della denunzia e della critica delle inadempienze e delle arretratezze delle istituzioni e delle idee del presente riguardo appunto al potenziale di razionalità in esso esplicitato e definito dal maestro di Berlino.
«Io non
sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non
definirmi addirittura suo nemico». Le parole di Franz Trotta,
il
protagonista della Cripta dei Cappuccini, potrebbero
ben figurare come epigrafe all’Abecedario di Mario Tronti curato da
Carlo Formenti (DeriveApprodi, 2016). Nelle sette ore di
intervista, che si snodano
attraverso venti lemmi, da Amico/Nemico a Zeit, Tronti
definisce infatti la propria condizione come quella di un
esiliato in patria e respinge persino
la qualifica di «intellettuale». E forse proprio come Trotta,
qualche volta preferisce anche dire di non capire, o persino
di essere
sordo, piuttosto «che ammettere di aver sentito rumori
volgari». Ma è comunque proprio la condizione di chi segue ciò
che
avviene attorno a sé come un estraneo, e con «serena
disperazione», a illustrare la logica che guida la riflessione
più
recente di Tronti. E soprattutto a chiarire il senso della
traiettoria che lo ha condotto dalla critica di società dei
suoi anni giovanili alla
critica di civiltà sviluppata – in termini sempre più decisi –
nell’ultimo ventennio.
Tronti si è probabilmente deciso ad accantonare per una volta la forma scritta, che predilige da sempre, anche per il disagio di essere considerato da molti suoi lettori soltanto, o soprattutto, come il fondatore dell’operaismo. La speranza è cioè che l’esposizione del suo pensiero «senza orpelli» possa diradare qualche equivoco interpretativo e contribuire a chiarire finalmente la logica di un itinerario, che è risultata negli ultimi anni anche per molti dei suoi estimatori quasi indecifrabile. Ma, per affrontare adeguatamente l’Abecedario, è necessario tenere presente che i venti lemmi non sono le voci di un bilancio retrospettivo.
Pubblicato su “Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane", n° 2/2017, licenza Creative Commons BY-NC-ND 4.0
Introduzione
Lo spazio di un contributo non potrà esaurire un oggetto ampio, complesso e ramificato come l’interpretazione lukacsiana di Lenin1. Dal momento in cui aderisce al KMP2 nel dicembre 1918, infatti, sono molteplici gli aspetti del pensiero leniniano di cui Lukàcs si appropria e fa operare — adattandoli di volta in volta alle proprie esigenze — in contesti teorici e storici molto differenti. Il problema dell’eredità culturale, l’atteggiamento verso le avanguardie artistiche, la democratizzazione, le forme dell’organizzazione politica, la transizione al socialismo, sono solamente i principali ambiti su cui Lukàcs si trova nel corso dei decenni ad attingere proficuamente dal laboratorio leniniano.
Nonostante i molti anni di esilio in Occidente e il costante confronto con le posizioni della socialdemocrazia in particolare di area tedesca, il pensiero leniniano è commisto alla tradizione teorico-politica del populismo russo3. Il «punto di vista di classe»4, che molto deve proprio alla polemica anti-populista di Lenin, ottiene in Storia e coscienza di classe un complesso riadattamento teorico nel «Klassenstandpunkt des Proletariats»5. L’intreccio populismo russo-Lenin-Lukàcs dovrebbe quindi costituire un ulteriore elemento da vagliare criticamente per restituire un’immagine veramente esaustiva dell’interpretazione lukacsiana di Lenin.
Oltre alla difficoltà scaturente dai terreni diversi su cui Lukàcs chiama in causa la riflessione leniniana, si pone per l’interprete il problema del profondo mutamento di contesti entro cui, nell’arco di oltre un cinquantennio, le considerazioni lukacsiane hanno luogo. Le prese di posizione su Lenin vanno dal clima del «settarismo messianico»6 dei primi anni Venti, attraversano gli anni dei fascismi prima e della guerra fredda poi, per riemergere infine nell’importante scritto Demokratisierung heute und morgen, estremo tentativo di risposta al problema della «democratizzazione» ad Est e ad Ovest7. Democratizzazione che gli eventi cèchi del 1968 hanno reso tema sì più urgente, ma anche più facilmente manipolabile e potenzialmente aperto a strumentalizzazioni.
Il 16 aprile in Nicaragua il governo ha varato la Riforma del sistema di previdenza e sicurezza sociale. Il 17 aprile, un giorno dopo l’annuncio del presidente Daniel Ortega, l’account @sosinssnica è apparso su Twitter e l’etichetta #SOSINSS è comparso sui social network che hanno promosso proteste della cittadinanza contro la riforma del sistema pensionistico.
Il Consiglio superiore delle imprese private (Cosep) ha respinto la decisione del governo di varare la riforma perché avrebbe generato “incertezza e limitato la creazione di posti di lavoro da parte del settore privato”. Miss Nicaragua 2018, Adriana Paniagua e altre figure del settore dello spettacolo hanno subito sostenuto le proteste usando l’hashtag #sosnicaragua.
Subito gruppi d’azione legati alla destra nicaraguense hanno saccheggiato diversi negozi di elettrodomestici, danneggiato ospedali e centri educativi. Le modalità delle loro azioni, lo schema utilizzato sia negli scontri di piazza che nella gestione della comunicazione, hanno fatto sì che alcuni osservatori registrassero molte similitudine con l’azione delle bande Guarimbas in Venezuela negli anni scorsi. Analisti come Sandino Asturias, Adolfo Pastran ed Ernesto Wong sostengono ai microfoni di Telesur che le violente proteste in Nicaragua fanno parte della strategia nota come il colpo di stato morbido promosso dal Pentagono.
Raccontare la realtà è il suo mestiere, lo fa da quando aveva vent’anni, ha iniziato scrivendo sul taccuino con la biro, adesso usa la cinepresa e il computer, ma la passione è la stessa. Fulvio Grimaldi ha girato il mondo, presente nei luoghi e momenti cruciali, per documentare le crisi e raccontare storie di uomini, ingiustizie, speranze. Il mestiere di reporter imparato sul campo, lontano dai comodi alberghi per giornalisti embedded e senza dipendere troppo dai facili escamotages offerti dalla tecnica. Una professione maledetta, in via di estinzione, Grimaldi ha difeso la necessità morale di “andare sul posto”. Un abitudine condivisa con celebri scrittori che, in veste di reporter, avevano come lui il vizio di frequentare i campi di battaglia, descriverli e tornare poi ai loro romanzi. I paesi che ha visitato sono tanti, è una lista che ricorda gli atlanti di un tempo, quando a scuola si studiava la geografia e le mappe evidenziavano gli stati con vivaci colori. Inviato stampa in Irlanda nel Nord nel 1972, testimone a Derry il giorno della Bloody Sunday, in Palestina per la Guerra dei Sei Giorni, poi negli anni lo troviamo in Yemen, Eritrea, Iugoslavia, Iraq. In mezzo tanta Africa e Centroamerica. Avesse avuto la possibilità, lo avremmo visto a Little Big Horn, per raccogliere la versione dei pellerossa e….anche quella di Custer. Ha collaborato con molteplici testate televisive e della carta stampata, fra le quali BBC, Rai, Nouvel Obersever, Abc, Panorama, Paese sera, Liberazione.
Che ruolo può avere la filosofia entro un mondo che ormai si è fatto “uno”, e cioè privo di quel “fuori” rispetto al quale essa ha sempre definito le sue coordinate? Se lo è chiesto Sandro Chignola nell'appena pubblicato “Da dentro. Biopolitica, bioeconomia, Italian Theory” (DeriveApprodi, 2017), libro nel quale si affrontano criticamente molte tendenze della filosofia contemporanea. Del libro pubblichiamo qui l'introduzione, per gentile concessione dell'autore e dell'editore
I testi che raccolgo in questo piccolo libro hanno avuto tutti la medesima origine. Essi sono stati scritti su invito per seminari, lezioni o convegni di studio all’estero: in Europa o, come avvenuto nella maggior parte dei casi, in America latina. A partire dalla circostanza per la quale sono stati redatti, essi hanno poi ottenuto una certa circolazione: alcuni tra di loro sono stati tradotti in altre lingue, sono stati discussi in altri contesti, hanno dato luogo a riprese.
I motivi per metterli qui assieme a disposizione del lettore sono perciò più di uno. Da un lato, il fatto che alcuni di essi non siano mai usciti in italiano o, quando ciò sia avvenuto, abbiano finito comunque col disperdersi in imprese editoriali differenziate e, in molti casi, occasionali (sintomo, varrebbe la pena di sottolineare, dell’autoimprenditorialità scientifica cui vengono spesso coartati giovani studiosi in cosiddetta, mi viene da sorridere, formazione); dall’altro, offrire la loro serie come indicatore della continuità di un posizionamento: intellettuale, se si vuole, ma soprattutto politico.
“E’ possibile uscire (dalla crisi) con una maggiore e migliore integrazione europea oggi?”
Lo Stato europeo è impossibile. Lo dicono tutti. E’ l’unica cosa su cui in Europa i popoli sono d’accordo con i loro governanti. I trattati hanno un contenuto di classe molto preciso che si è poi tradotto in politiche. Non è che i trattati erano buoni e le politiche sono state cattive come ci siamo illusi che fosse.
I trattati si possono cambiare? Non si possono cambiare. Per un motivo molto semplice, perché si cambiano all’unanimità e basta la Lettonia contraria e non cambi una virgola. E se si cambiano è più facile che si cambino contro di noi che a nostro favore, ad esempio costituzionalizzando il Fiscal Compact che è un delirio dal punto di vista economico, che sarà oggetto di studio nelle scuole nei secoli a venire.
Perché pensare che nella crisi più grave da quella degli anni ’30 si possa pensare di reagire con politiche pro-cicliche distruggendo l’investimento pubblico è una roba che pertiene a un ospedale psichiatrico.
Però ancora ragioniamo nel dire: “è orribile, però se mi levate quello 0,2 poi ci posso anche stare”….NO! Questa roba non può funzionare così. Perché un Paese che ha un 130% di debito pubblico non può permettersi di ridurre il debito del 5% annuo per 20 anni. E’ una roba che non sta né in cielo né in terra. Che è una roba demenziale lo hanno detto i giornalisti del Financial Times.
Il modestissimo “The Post”, recente film di Steven Spielberg, nella sua retorica benpensante aveva almeno un merito: portava a galla il ricordo dei Pentagon Papers, ovvero dello studio che Bob McNamara, ministro della Difesa, aveva fatto preparare da una serie di analisti, e all’insaputa sia del presidente Johnson sia del segretario di Stato Rusk, e che conteneva una serie di verità scomode sulla guerra del Vietnam. I Papers, fotocopiati da un analista del Pentagono diventato pacifista, furono poi (come racconta, male, il film) pubblicati dal New York Times e dal Washington Post sollevando lo sdegno di molti americani che, attraverso di essi, scoprirono che i vertici del governo avevano mentito per anni sulla condotta e sulla natura di una guerra che era stata provocata ad arte per contenere la Cina e che nessuno pensava di vincere.
Al posto di esaltare il mito di giornali che, nel frattempo, sono diventati tra i più guerrafondai al mondo, i nostri intellettuali avrebbero dovuto occuparsi di quei Papers che spiegavano molto bene la natura della politica estera americana. E che, letti oggi, ci fanno capire che siamo tornati esattamente a quei tempi oscuri. Per fortuna ci sono i libri. In questo caso due, dello stesso editore Zambon.
Felice Roberto Pizzuti: Pensioni: una bomba sociale pronta a esplodere
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È proprio vero quello che si dice: in questo
mondo non si possono mai dormire sonni tranquilli. Sono
trascorsi due
mesi dalle elezioni, ancora nessun Governo è all’orizzonte, i
principali partiti italiani traccheggiano in trattative
(presunte o tali)
inutili e, cosa
che non ci sorprende, sembrano non avere troppo tempo
per partorire nuove ed originali misure antipopolari, riforme
lacrime e sangue e simili.
Potrebbe, tuttavia, trattarsi semplicemente di un periodo di
relativa calma prima della tempesta.
All’orizzonte, infatti, nubi oscure si addensano, rappresentate dai “suggerimenti” che le istituzioni internazionali si prodigano a dispensare. Raccomandazioni di questo genere sono state di recente proposte dal Fondo Monetario Internazionale: un condensato di tagli alla spesa pubblica e riduzioni delle pensioni, compressioni dei salari e misure fiscali a favore dei ricchi. È adesso il turno della Banca Mondiale. In questo post cercheremo di spiegare quali misure abbiano in mente gli economisti che lavorano in questa organizzazione internazionale e quale distorta visione del mondo sia sottintesa a tali misure.
La Banca Mondiale è un’istituzione che ha come principale scopo (in teoria) quello di fornire assistenza ai paesi in via di sviluppo, aiutarli a modernizzare e rendere più competitive le loro economie. Non disdegna, tuttavia, di suggerire riforme strutturali ed interventi di politica economica anche alle economie capitaliste mature.
Intervento al dibattito sui tre fronti della lotta di classe di Roma, del 21 aprile 2018
In primo luogo vorrei ringraziare i
compagni e le compagne della Rete dei comunisti per
questa occasione di dibattito. È sempre utile confrontarsi su
questioni di carattere strategico, liberi da urgenze, scadenze
immediate, impegni
contingenti.
Il mio intervento seguirà un po’ schematicamente la griglia delle questioni poste dai compagni della Rdc al centro di questa discussione.
1. Partiamo dunque dall’attualità o meno dell’idea di partito comunista di massa. Preliminarmente penso che occorra precisare che cosa intendiamo con questa formula, distinguendo tra la forma storicamente determinata di partito comunista di massa che abbiamo conosciuto nel nostro paese (il P.c.i.) e una impostazione più generale: quella di un partito radicato tra le masse, nei territori e nei luoghi di lavoro, in grado di partire dai loro bisogni e interessi materiali, di andare cioè al di là della semplice propaganda per fare leva su questioni concrete, partendo da queste ultime per portare le masse stesse dal terreno economico-rivendicativo su un terreno più generale, quello della politica. È la lezione del Che fare? di Lenin, della frazione e poi del partito bolscevico, che poi informò le linee di sviluppo suggerite ai partiti comunisti già nei primi congressi della Terza Internazionale, e poi nella fase dei fronti popolari: l’esortazione costante a non ridursi a piccole sette in grado di fare solo della propaganda, l’ambizione di fare politica (e la politica, per Lenin, iniziava dove agivano “milioni di uomini”) e a diventare, attraverso un lungo lavoro egemonico tra le masse lavoratrici, maggioritari al loro interno; maggioritari, ossia bolscevichi. In questo senso, mi pare che tale impostazione sia ancora valida e che dobbiamo essere consapevoli della nostra attuale condizione minoritaria senza rassegnarci ad essa, ma lavorando per superarla.
In calce una replica di David Harvey
David Harvey, autore di La
guerra perpetua: analisi del nuovo imperialismo e di
altri
acclamati volumi sul capitalismo e l’economia politica
marxista, non solo crede che l’epoca dell’imperialismo sia
conclusa, ma
è anche convinto si sia ribaltata. Nel suo commento su A Theory of
Imperialism di Prabhat e Utsa Patnaik, egli
afferma:
Coloro fra di noi convinti che le vecchie categorie di imperialismo, al giorno d’oggi, non funzionino adeguatamente, non negano in alcun modo i complessi flussi di valore che espandono l’accumulazione di ricchezza e potere in una parte del mondo a scapito di un’altra. Semplicemente, riteniamo che tali flussi siano molto più complicati e cambino continuamente direzione. Lo storico drenaggio di ricchezza dall’Oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli, ad esempio, è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni (enfasi mia, qui e nel prosieguo – JS, p. 169).
Invece di “dall’Oriente verso l’Occidente” si legga “dal Sud al Nord globali”, ovvero, paesi a basso salario e quelli che alcuni, incluso l’autore in questione, definiscono paesi imperialisti. Per riprendere la sorprendente affermazione di Harvey: durante l’epoca neoliberista, vale a dire, gli ultimi trent’anni, Nord America, Europa e Giappone non solo hanno cessato il loro secolare saccheggio di ricchezza da Africa , Asia e America Latina, ma il flusso è stato addirittura invertito: “i paesi in via di sviluppo” stanno ora drenando ricchezza dai centri imperialisti. Questa asserzione, fatta senza portare alcuna evidenza a suo sostegno o una qualsivoglia stima di grandezza, riprende affermazioni analoghe contenute nelle precedenti opere di Harvey. In Diciassette contraddizione e la fine del capitalismo, ad esempio, agli sostiene:
Se ti sei chiesto cosa sta facendo Potere al Popolo!, dove vuole andare, come puoi partecipare a questo progetto, forse queste righe ti possono interessare. Leggile, facci sapere che ne pensi, falle arrivare dovunque. Sono belle notizie, e di questi tempi non è facile trovarne!
Sono passati più di 50 giorni dalle elezioni politiche. Più di 50 giorni che ci hanno restituito lo stallo, la confusione delle classi dominanti italiane, le mille giravolte di una politica trasformista, che vede i supposti “antisistema” dei 5 Stelle pronti ad allearsi proprio con quei partiti, come la Lega o il PD, che sono stati al governo negli ultimi ventiquattro anni. Mentre la crisi sociale continua a mordere, i servizi e gli enti locali a collassare, mentre si sente il bisogno di una redistribuzione della ricchezza, di lavoro e di maggiori diritti, i partiti che sono usciti vincenti dalla competizione elettorale dismettono le loro promesse, a partire dall’abolizione della Riforma Fornero, e cercano l’accordo sulla base di un programma neoliberista che non può risolvere nessuno dei nostri problemi.
Urge far sentire un’altra voce, dal basso, urge porre al centro del dibattito i temi che ci riguardano, e non lasciare questa fase nelle mani dei “professionisti” della politica. Urge prepararsi a un’opposizione reale, credibile. Per riuscirci, però, bisogna essere in tanti, su tanti territori, uniti, ben organizzati.
Nella competizione tra partiti è opportuno concentrarsi sulle percentuali elettorali. In tal senso, le elezioni regionali del Friuli Venezia Giulia dicono molto anche a livello nazionale: chi in questa fase si presenta come opposizione ha tutto da guadagnarci. Viceversa, per una comprensione maggiore del quadro politico nel suo insieme, bisogna guardare ai dati assoluti. Leggendo i quali, si scoprirebbe che la Lega ha perso, rispetto alle politiche di marzo, 29.803 voti. Continuiamo a leggere di trionfi leghisti, eppure i dati nudi e crudi parlano di una ritirata, non di un’espansione. Una ritirata che però, bisogna evidenziare, è più contenuta del tracollo Cinque stelle: rispetto alle politiche di marzo il partito grillino perde 139.489 voti, passando da 169.299 voti addirittura a 29.810. Anche questo dato illustra direttamente l’attuale stallo politico nazionale: a differenza della Lega, per il M5S il tempo del governo è qui e ora. Le elezioni friulane dovrebbero funzionare da bignami della strategia politica, perché descrivono una traiettoria che i vari leader politici conoscono bene. Da una parte c’è la Lega, a cui non interessa andare al governo, ma scalzare Forza Italia quale pivot della coalizione ed egemonizzare il centrodestra. Questo è l’obiettivo principale di Salvini, un obiettivo raggiungibile anche – forse soprattutto – con un ulteriore giro all’opposizione.
I 5 Stelle hanno preso due sonorissime legnate in Molise e soprattutto in Friuli.
Difficile pensare che sia casuale e che questo risultato sia dovuto solo a ragioni di ordine locale. Se così fosse la sconfitta sarebbe stata di misura, ma non certo dell’ordine della metà dei voti perduti rispetto alle ultime politiche.
E’ evidente, quindi, che la sconfitta del M5S alle amministrative in queste due regioni è dovuta a come hanno gestito questi due mesi di schermaglia post elettorale, e a mio parere soprattutto all’apertura al PD. Vero è che il M5S ha uno zoccolo duro di elettorato ideologizzato ma è anche vero che una gran parte non lo è affatto. E questo è quello che determina la sua affermazione o la sua sconfitta. La spregiudicatezza a volte premia in politica, ma può anche sortire l’effetto contrario. Si può infatti dare l’impressione di sbattere da una parte e dall’altra purchessia, pur di raggiungere un obiettivo.
Salvini, a mio parere, ha gestito molto meglio di Di Maio questa fase immediatamente post elettorale, offrendo l’immagine di uno che non fa alleanze con tutti (di certo non con il PD…) ma che al contempo è disposto a trattare sui contenuti, per verificare la possibilità di un possibile accordo di governo su un programma definito, mettendo anche da parte la questione legata al nome del premier.
Spoiler: non ho intenzione di usare queste righe (solo) per celebrare quanto grandioso e inarrivabile sia lo straordinario artista creatore delle meraviglie dei Pink Floyd. Perché è lapalissiano. Voglio piuttosto spostare la vostra attenzione su quanto importante sia lo spettacolo che Roger Waters porta in giro per il mondo oggi, nel 2018, oltre quattordicimila giorni dopo la pubblicazione di The Wall, oltre sedicimilaquattrocento giorni dopo l’uscita di The Dark Side Of The Moon. Uno show epico, e mai aggettivo fu più appropriato. E non solo perché cantare Wish You Where Here o Confortably Numb con altre 8mila persone è una catarsi.
Al Forum di Assago, ma immagino sia così ovunque porti il Us + Them Tour, i volumi sono più bassi rispetto a quelli abituali, e questo rende estremamente godibile il concerto da un punto di vista musicale. Invece che sbattere contro un muro di suono dove tutto è impastato come la calce, si distinguono gli strumenti, si percepiscono le sfumature e persino le imperfezioni. All’inizio sembra troppo basso, ma poi l’orecchio si abitua – come è normale che sia – e si comincia a godere. Far suonare bene un live è molto difficile, ma è fondamentale.
Purtroppo ancora una volta sono stato un facile profeta: negli anni passati avevo più volte espresso l’opinione che il M5S fosse divenuto troppo grande per essere gestito da Grillo e Casaleggio, e non da quella che potremmo chiamare una sorta di segreteria politica, tuttavia quando confusamente e in modo anche turbolento questo processo si è in qualche modo messo in moto sono emersi personaggi , come dire, non appropriati a un movimento inteso a cambiare le cose e men che meno a governare concretamente questo cambiamento. In particolare Di Maio, espressione quasi lombrosiana della democrazia cristiana meridionale, proveniente da un piccolo notabilitato locale ontologicamente privo di progettualità politica, ma propenso unicamente all’eterna mediazione fra interessi spiccioli e in questo senso dotato di una certa plasticità dialettica e ideologica, come se fosse un alter ego di Renzi. Tanto plastico che nel corso della campagna elettorale si sono via via persi per strada i temi del Movimento, fino all’accettazione praticamente totale delle logiche europee e dunque le ragioni dell’opposizione a una governance sostanzialmente oligarchica.
Ma la voglia di cambiamento degli italiani, l’urgenza di liberarsi del marcescente milieu politico tradizionale era tale che questi svicolamenti all’inglese non hanno impedito un’epocale vittoria elettorale.
L’ultimo studio
dell’Eurostat sulla mobilità
del lavoro in Europa lancia l’allarme: nonostante la
fame generata dalla crisi e le umiliazioni inflitte da
disoccupazione e
precarietà, i senza lavoro italiani sono restii ad abbandonare
il loro Paese per trovare un’occupazione all’estero. Solo 7
disoccupati su 100 si dicono disponibili a lasciare l’Italia
per cercare lavoro in un altro paese europeo. Il dato
preoccupa le istituzioni
comunitarie per un motivo preciso: l’Europa che hanno in mente
è un enorme mercato, ed il lavoro deve comportarsi come tutte
le altre
merci, spostandosi lì dove ne emerge il bisogno. Se il
disoccupato resta nel suo Paese quel meccanismo si inceppa: i
suoi affetti, la sua
cultura, il suo radicamento sociale, le sue scelte di vita
sono ostacoli al libero dispiegarsi delle forze di mercato, un
sintomo – gravissimo
– di inefficienza del sistema. Le merci, è noto, seguono una
sola regola: vanno dove il prezzo è più alto, e secondo le
istituzioni europee quella stessa regola dovrebbe governare
anche la vita della popolazione europea, forza lavoro
destinata a spostarsi da un Paese
all’altro a seconda delle oscillazioni del mercato. Un
disoccupato non sarebbe altro che una merce abbandonata in
magazzino, destinata a
spostarsi ovunque possa trovare un mercato di sbocco.
Pertanto, questo il messaggio implicito nei dati pubblicati
dall’Eurostat, i disoccupati
italiani devono imparare a rispettare la ferrea legge del
mercato, sradicandosi dal proprio Paese alla ricerca di
un’occupazione in giro per il
continente. In questo modo, essi contribuirebbero a realizzare
quella “trinità perfetta” di diverse libertà di movimento che
sono alla base del progetto europeo: quella delle merci,
quella dei capitali e quella delle persone.
I duri anni di crisi che stiamo
attraversando stanno portando una rinascita dei movimenti di
estrema destra in tutti i paesi europei. Questo aumento è
dovuto anche ai consensi che questi partiti riescono ad
ottenere nei quartieri
popolari. Il successo di questi partiti non è solo elettorale
o legato esclusivamente al voto di protesta, ma è testimoniato
dal
diffondersi del sostegno a questa ideologia in vasti strati
sociali dei paesi europei: sulle reti sociali si osserva
periodicamente il riproporsi
diffuso di testi che rivendicano e ricordano i successi del
ventennio fascista in Italia, fatto di grandi investimenti e
di istituti sociali a favore
della popolazione. In sostanza il fascismo viene descritto
come un regime bonapartista che, sotto la guida carismatica di
Mussolini, ha soggiogato la
borghesia italiana, ha contribuito al rilancio e al successo
economico del paese e ne ha diffuso i benefici tra tutta la
popolazione. Questi risultati
vengono ulteriormente esaltati facendo il confronto con gli
insuccessi politici ed economici della democrazia
repubblicana. Tutto questo è
vero? È vero che il fascismo ha migliorato la condizione di
tutta la popolazione? I suoi risultati sono stati migliori
della democrazia
repubblicana?
II fascismo
Cerchiamo prima di descrivere quello che fu il fascismo storicamente. Un’approfondita analisi del fascismo fu fatta da Togliatti nel celebre “Corso sugli avversari”, tenuto a Mosca nel 1935: questa analisi copre tutta l’evoluzione del movimento fascista, dalle origini fino alla soglia della Seconda Guerra Mondiale.
Il nome ormai automaticamente associato al
genere della “critica al politicamente corretto” è quello di
Robert Hughes.[i] È lecito chiedersi se
Jonathan Friedman, autore di un Politicamente corretto
che esce
contemporaneamente in edizione inglese e italiana (Meltemi,
2018) ne diventerà il nuovo eroe eponimo.
Hughes ambiva a fornire una descrizione, più che un’interpretazione, del fenomeno; inoltre gliene stavano a cuore soprattutto i riflessi sulla cultura e sull’insegnamento e giudicava tutta la faccenda secondo un’attitudine ironica, fondata su di un common sense ostile all’astrazione teorica (scriveva cose terribili su Foucault), che poteva apparire, a seconda del lettore, sarcasmo da conservatore o garbato buon senso da grande umanista. Al contrario Friedman, che è un importante antropologo, affronta la materia da scienziato sociale: il suo obiettivo è fornire un’interpretazione generale del p. c. Nonostante il libro prenda le mosse da esperienze autobiografiche, i casi personali hanno funzionato da molla che ha fatto scattare nello studioso il desiderio di una sistematizzazione teorica.
La natura «formale, o strutturale» del p. c.
Che cosa, innazitutto, non è il p. c.? Non è principalmente una questione di censura o ipocrisia linguistica, ma un più profondo fenomeno sociale, antropologico e politico. Friedman ne analizza le manifestazioni nella società svedese e in sottordine negli Stati Uniti e in Francia (l’antropologo è uno statunitense che ha vissuto per quarant’anni in Svezia).
Il p. c. è «una forma di comunicazione e di categorizzazione»:[ii] è un regime linguistico e sociale relativamente indipendente dall’orientamento politico, che è solitamente di sinistra in Europa e liberal negli Usa; possono infatti adottare uno stile comunicativo p. c. anche i conservatori.
La portaerei Usa Harry S. Truman, salpata dalla più grande base navale del mondo a Norfolk, in Virginia, è entrata nel Mediterraneo con il suo gruppo d’attacco.
Esso è composto dall’incrociatore lanciamissili Normandy e dai cacciatorpediniere lanciamissili Arleigh Burke, Bulkeley, Forrest Sherman e Farragut, più tra poco altri due, il Jason Dunham e The Sullivans. È aggregata al gruppo d’attacco della Truman la fregata tedesca Hessen.
La flotta, con a bordo oltre 8.000 uomini, ha una enorme potenza di fuoco.
La Truman – superportarei lunga oltre 300 metri, dotata di due reattori nucleari – può lanciare all’attacco, a ondate successive, 90 caccia ed elicotteri. Il suo gruppo d’attacco, integrato da 4 cacciatorpediniere già nel Mediterraneo e da alcuni sottomarini, può lanciare oltre 1.000 missili da crociera.
Vengono così notevolmente potenziate le Forze navali Usa per l’Europa e l’Africa, con quartier generale a Napoli-Capodichino e base della Sesta Flotta a Gaeta, agli ordini dello stesso ammiraglio (attualmente James Foggo) che comanda la Forza congiunta alleata a Lago Patria (Giugliano).
Ciò rientra nel potenziamento complessivo delle forze statunitensi in Europa, agli ordini dello stesso generale (attualmente Curtis Scaparrotti) che ricopre la carica di Comandante supremo alleato in Europa.
Apparentemente, la sceneggiata in corso sulla formazione o no di un governo sulla base del voto del 4 marzo sembra un teatro dell’assurdo. Il tripolarismo uscito dalle urne è assai meno fatto di “incompatibilità” di quanto non venga messo in mostra.
Prima del voto, infatti, centrodestra, grillini e Ps si dichiaravano tutti indisponibili a governare con uno degli altri due soggetti in campo. I programmi, persino quelli, risultavano visibilmente diversi (abolire la Fornero o farsene un vanto, il reddito di cittadinanza oppure il lavoro obbligatorio sottopagato, abolire il Jobs Act o farne la pietra miliare del nuovo mercato del lavoro), per non dire delle posizioni sulle questioni internazionali (fuori/dentro l’Unione Europea oppure non saprei, difesa dell’euro o ritorno alla lira, per sempre con la Nato oppure vediamo, parliamo con la Russia).
Due mesi di “trattative” hanno cancellato dal discorso pubblico ogni differenza sostanziale. Sono tutti “europeisti” (con qualche imbizzarimento leghista), pur se con percentuali di entusiasmo differenti. La moneta unica non si tocca per nessuno, le critiche semmai riguardano il passato e il tasso di cambio originario. La Nato e l’America restano l’unico faro, anche se pezzi importanti di Confindustria vorrebbe eliminare almeno in parte le sanzioni a Putin e riprendere ad esportare in Russia.
L’idea stessa di crisi è qualcosa di controverso. Infatti a volte si usa la parola crisi quando non si sa come descrivere un fenomeno. O al primo fatto controverso che si para davanti.
Eppure quello che stiamo vedendo dal 4 marzo ad oggi è proprio crisi anzi, una sovrapposizione di crisi. Un filo conduttore delle cronache di queste settimane è sicuramente la crisi della rappresentanza, un fenomeno che ha fatto capolino già alla fine degli anni settanta e che ha finito per erodere le fondamenta stesse dei partiti della repubblica.
Tanto che tutti gli attori che si sono imbarcati nei tentativi di ingegneria elettorale, che sono emersi già dalla fine degli anni ‘80, hanno sempre provato a risolvere la crisi della rappresentanza a modo loro. Ovvero, non potendo più materialmente rappresentare gli interessi della società, tentando di costruire architetture elettorali che concentravano potere nelle mani di pochi. Cercando così di evitare di dover cercare consensi nella società erogando posti di lavoro, servizi, strutture che, già allora, non potevano essere distribuiti con le risorse a disposizione del decennio precedente. Tutto questo florilegio di leggi elettorali, di killer application del voto, ha, dalla fine degli anni ‘80, sempre avuto una logica: costruire dispositivi di voto per concentrare potere nelle mani di pochi per risparmiare, in tutti i sensi, sulla ricerca del consenso in una platea vasta della società.
Nessun giornale italiano ne ha dato notizia, eppure la seduta svoltasi l’altro ieri a l’Aja, nella sede dell’Opcw (Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons), ha preso in esame il famoso “attacco con armi chimiche” delle truppe di Assad che per poco non è diventato il casus belli di uno scontro potenzialmente catastrofico tra Usa e Russia.
Cos’è successo?
Davanti ai “giudici” sono comparsi 17 cittadini siriani di Douma, ripresi nei video che hanno fatto il giro del mondo. Tra di loro il bambino di 11 anni, Assan Diab. Che veniva investito da un getto d’acqua per “liberarlo dai gas al cloro”.
Com’è noto, abbiamo nutrito più di qualche dubbio su quel filmato girato dagli “Elmetti bianchi” (una sorta di Croce rossa legata ai jihadisti alleati degli Usa e della Turchia), proponendovi anche un’analisi informata da parte di un ex ufficiale dell’esercito italiano che aveva svolto il suo servizio proprio nei reparti Nbc (quelli che devono affrontare le conseguenze di eventuali attacchi nucleari-batteriologici-chimici). Ma quel che è venuto fuori da questa seduta olandese ha superato anche la nostra esperienza in bufale di guerra.
La riforma del sistema pensionistico e la rivolta reazionaria contro il governo sandinista
Pubblichiamo questo testo, proveniente da un oppositore da sinistra del governo sandinista in Nicaragua, sulle recenti rivolte nel paese centramericano. Mentre i media italiani sono già contenti di poter parlare di Ortega che si trasforma in un caudillo sanguinario, la realtà ci appare diversa. Come in molti paesi del Sudamerica le reali difficoltà dei governi progressisti sono strumentalizzate dalla reazione che non si fa nessuno scrupolo a cercare i morti in piazza. Specifichiamo che non condividiamo necessariamente tutte le prese di posizione dell’autore. Ringraziamo Geraldina Colotti per avere segnalato questo pezzo.
* * * *
Ora ho più chiaro cosa sta succedendo in Nicaragua.
Daniel Ortega, un populista nel senso utilizzato dalla Teoria della Dipendenza, nel suo tentativo di mantenere gli equilibri tra le classi durante il suo secondo mandato, si è spostato verso destra. Ha formulato un “patto di unità nazionale” che include gli imprenditori, una coalizione con la vecchia oligarchia e i nuovo ricchi del sandinismo, i sindacati sandinisti che per quanto cooptati devono rispondere alle loro basi, e il governo. Gli imprenditori oligarchici che fecero opposizione dura al primo governo Ortega hanno accettato volentieri il patto perché assumevano l’egemonia nel blocco al potere. Tutto andava col vento in poppa, almeno dentro al paese.
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Dante Barontini: Tsunami grillin-leghista. La “terza repubblica” nasce senza padrone
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Oggi,
3 maggio 2018, mentre i media nazionali rispettosi soltanto
dei vuoti rituali della politica guardano a
ciò che avverrà nella direzione del PD, cade il
venticinquesimo giorno dell’occupazione militare della ZAD di
Notre Dame des
Landes da parte dei mercenari in divisa da gendarmi dello
Stato francese.
2500 agenti che da venticinque giorni, con ogni mezzo non necessario se non a ferire gravemente i corpi o a violentare i territori percorsi da autoblindo, ruspe e gru e a distruggere campi coltivati, boschi e abitazioni, cercano di cancellare dalla faccia della Francia, dell’Europa e della Terra ogni traccia di una delle nuove forme di civiltà e comunità umana che si è andata delineando negli ultimi decenni sui territori che la società Da Vinci e gli interessi del capitale avrebbero voluto trasformare in un secondo ed inutile aeroporto della città di Nantes.
Un’azione fino ad ora respinta valorosamente dagli occupanti e dalle migliaia di uomini e donne di ogni età e provenienza sociale che si sono recati là al solo fine di manifestare la loro solidarietà con quell’esperimento comunitario e di respingere ancora una volta, come nel 2012 con l’operazione César voluta all’epoca da Hollande allora fallita, le mire del capitale finanziario sul bocage e della repressione poliziesca nei confronti di un esperimento di società senza Stato, senza denaro, senza polizia, senza rappresentanza politica se non diretta dei suoi abitanti.
Duecento anni fa, il 5 maggio del 1818, nasceva
Karl Marx. In questi due secoli la sua opera è stata studiata,
amata, odiata, interpretata, travisata. Dopo Marx sono nati i
marxisti e i marxismi. Non sempre coerenti con il pensatore di
Treviri che diceva di
sé di non essere marxista, non tanto per il piacere della
battuta, quanto per sottolineare il suo approccio
profondamente antidogmatico allo
studio della realtà. Alla sua opera si sono ispirate molte
delle rivoluzioni del ventesimo secolo. Con esiti non sempre,
anzi quasi mai,
soddisfacenti. A dimostrazione che pensare di applicare ciò
che Marx ha detto e scritto è già un travisamento che può
portare anche a conseguenze disastrose.
Eppure la diffusione su scala planetaria del suo pensiero, attraverso le opere scritte, molte delle quali assieme a Friedrich Engels, ha raggiunto livelli da record. La sua opera maggiore, cioè il Capitale ha avuto una diffusione straordinaria, anche se è stato meno letto di quanto sia stato distribuito o venduto, probabilmente per la lunghezza e la indubbia complessità che lo contraddistingue. Non è un caso che un libro di questi anni, anch’esso assai complesso e che ha avuto un sorprendente successo mondiale, richiami nel titolo e nel testo il tema dell’analisi del capitale contemporaneo. Mi riferisco ovviamente a Il capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty. Se il primato dell’opera comunista più diffusa della storia appartiene indubbiamente al famoso “libretto rosso” delle citazioni di Mao Tse-tung (che contende il primato della diffusione al Corano e alla Bibbia ) il Manifesto del partito comunista, redatto da Karl Marx e Friedrich Engels esattamente 170 anni fa può vantare anch’esso record da best seller, niente affatto sminuiti dal passare del tempo.
Riagganciare direttamente la dimensione morale
alle dinamiche delle lotte sociali, e viceversa, superando
così
l’economicismo imperante in larga parte della tradizione
filosofico-politica di orientamento socialista, per poi
spingersi verso
l’adozione di una prospettiva immanentista sempre più radicale
nella quale la normatività viene interamente ricostruita dalla
dinamica del progresso storico: sono questi alcuni dei tratti
di fondo che caratterizzano lo sviluppo del progetto teorico
complessivo di Axel
Honneth, dalla sua nascita a oggi. Un progetto il cui cuore
pulsante è rappresentato dalla attualizzazione della
concezione etica della lotta
per il riconoscimento di Hegel, interpretata quale motore
morale delle lotte sociali, e quindi del progresso
storico.
Il baricentro della nuova teoria critica è stato così rispostato su un asse neo-hegeliano. Se infatti già Habermas aveva ripreso la teoria del riconoscimento del giovane Hegel per conferire un fondamento intersoggettivista alla sua reinterpretazione dell’imperativo categorico in chiave di agire comunicativo, l’immanentismo di Honneth punta a bypassare completamente quel costruttivismo kantiano volto a fondare la moralità su procedure formali. Riprendendo la concezione hegeliana della Sittlichkeit quale dimensione che ingloba, superandola, la Moralität, Honneth ritiene infatti di poter dedurre, o meglio ricostruire in modo immanente i criteri per valutare la correttezza e legittimità della dimensione normativa dallo sviluppo storico. La normatività viene così ri-ancorata o meglio calata direttamente e interamente nel flusso del divenire storico. Non si tratta, quindi, di limitarsi all’invero già ambizioso obiettivo di ricostruire la dimensione morale che anima dall’interno la nascita e lo sviluppo delle lotte sociali riconducibili al framework del riconoscimento, superando il quadro economicista fondato sulla categoria di interesse, come Honneth si sforzava di mostrare in Lotta per il riconoscimento, con un andamento per diversi aspetti affine a quello gramsciano[1].
Una pasticca contro la nausea e via: proviamo a descrivere lo stallo politico intorno alla formazione di un governo.
Come tutti avevano già capito domenica sera – Matteo Renzi che in diretta tv boccia in anticipo qualsiasi “dialogo” con i grillini, ben prima della direzione Pd convocata per decidere – non sarà possibile nessuna maggioranza “politica”, ossia nessuna aggregazione consensuale intorno a un programma fatto di mediazioni, veti incrociati, favori reciproci.
La nota con cui Sergio Mattarella ne ha preso atto è anche una specie di ultimatum: ultimo giro di consultazioni lunedì, poi incaricherà un “uomo delle istituzioni” per formare un “governo di tregua”, che durerà il tempo necessario a redigere la legge di stabilità, sotto la sorveglianza della Commissione europea che già si è fatta sentire.
I quirinalisti più addentro alle segrete cose del Palazzo riferiscono che il presidente spera anche in una modifica alla legge elettorale tale da evitare il ripetersi dell’attuale situazione. Ma non servono orecchie in quei saloni per sapere che qualsiasi proposta di modifica incontrerebbe – a seconda della stesura – l’opposizione feroce di uno dei tre “poli” (per non dire delle varie fazioni di ognuno). Giusto l’attribuzione di un più consistente “premio di maggioranza” a chi prende più voti potrebbe incontrare un consenso allargato, ma solo se non si proverà a distinguere tra “lista” e “coalizione”.
L’Unione Europea prosegue nella sua stretta sui canali non ufficiali di informazione su internet. Le misure hanno ancora un notevole margine di ambiguità: si va dall’intimidazione nei confronti dei gestori delle piattaforme, sino all’istituzione di un “gruppo di verificatori” delle informazioni diffuse su internet.
L’iniziativa della Commissione Europea è corredata dalla “notizia” (una “fake”?) secondo cui la maggioranza della pubblica opinione considera le cosiddette “fake news” una “minaccia per la democrazia” (ma quant’è cagionevole ‘sta democrazia). L’annuncio più eclatante è però che sarebbero già stati monitorati tremilanovecento casi di disinformazione “pro Cremlino”. Come a confessare che il confronto politico-militare con la Russia continua ad essere il principale, se non esclusivo, movente dell’allarmismo.
Sono stati da più parti giustamente denunciati i pericoli per la libertà di espressione di queste misure adottate dall’UE. D’altra parte non si può neanche avallare troppo l’enfasi che viene data nel descrivere il fenomeno dell’informazione fuori dal mainstream che viene lanciata su internet, un fenomeno che rimane comunque di “nicchia”. La stragrande maggioranza delle persone continua infatti ad “informarsi” con i telegiornali ed i talk-show ed anche i casi dei blog più popolari sono comunque supportati dalla notorietà televisiva dei loro conduttori.
I padroni stanno facendo i conti con la madre di tutte le contraddizioni, quella che potremmo sintetizzare “botte piena e moglie ubriaca”. Da un lato le controriforme del sistema previdenziale hanno allungato l’età pensionabile tenendo in attività i lavoratori “fino all’ultimo battito utile”, dall’altra le innovazioni tecnologiche richiedono lavoratori più giovani e più preparati a misurarcisi, che però non trovano spazio nel mercato del lavoro.
Cuore della contraddizione – ma guai a dirlo ai “prenditori” che altrimenti si offendono – è che questi giovani lavoratori vengono pagati sempre meno, anche avendo a disposizione conoscenze elevate, mentre i refrain sul taglio dei costi della spesa pubblica (inclusa quella pensionistica) si scontrano con il fatto che i lavoratori anziani vengono tenuti in attività per sempre maggior tempo. I padroni vorrebbero risolverla facile con due semplici equazioni: tagliare le pensioni pur mantenendo l’allungamento dell’età pensionabile per stornare risorse oggi destinate alla spesa pubblica e pagare sempre meno i nuovi lavoratori che entrano in produzione. A fare gli imprenditori così saremmo capaci anche noi che non abbiamo certo lo spirito degli “entrepreneur”. Per questo ci viene istintivo definirli come “prenditori” piuttosto che come soggetti che rischiano di proprio sul mercato.
Ilaria Bifarini dopo essersi imposta all’attenzione con “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una bocconiana redenta)”, ci offre adesso un nuovo studio dalle implicazioni allarmanti: I coloni dell'austerità. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa. Il fenomeno delle migrazioni e la crisi africana come anticipazione del nostro futuro
Un libro sulle migrazioni, un tema caldo, quali sono state le reazioni immediate?
Ci sono state reazioni contrastanti. Da una parte, sono stata tacciata di essere razzista, in quanto ad oggi è praticamente impossibile affrontare in modo oggettivo questo argomento senza cadere in quello che ormai si è consolidato come tabù del razzismo. Dall’altra, invece, sono stata rimproverata di essere troppo indulgente nei confronti di queste persone che vengono considerate, seppur da una minoranza, come responsabili della situazione nella quale si trovano.
Ho ritenuto che fosse necessario un libro che affrontasse un argomento così delicato in modo oggettivo, in termini economici, risalendo alle cause che hanno impedito lo sviluppo del continente africano e hanno provocato l’attuale fenomeno delle migrazioni di massa, e che lo fosse anche in tempi rapidi. In una situazione di emergenza è fondamentale comprendere le cause per affrontare e gestirne le conseguenze, senza cadere nella retorica dei luoghi comuni e delle posizioni aprioristiche.
Un bel film pienamente godibile e che lascia non poco su cui riflettere allo spettatore
Al momento è il film migliore che abbiamo visto fra quelli usciti in sala in questo 2018 [1]. Non è certo un capolavoro assoluto, né pretende di esserlo, ma in questa epoca di crisi strutturale e sovrastrutturale, produttiva e distributiva riuscire a vedere un bel film in prima visione, con un perfetto equilibrio fra forma e contenuto, entrambi di buon livello, non è cosa da poco. I segreti di Wind River è un avvincente thriller, con uno sfondo sociale realistico nella migliore tradizione del noir, contribuisce al necessario sano revisionismo del genere western e, più in generale, del “mito americano della frontiera”, mostrando come ancora oggi siano presenti i suoi pesantissimi costi sociali, nei confronti in primo luogo delle popolazioni native. Infine, pone al centro del film un tema finalmente divenuto centrale nel dibattito attuale, ossia il tema della violenza sulla donna e più in generale del femminicidio.
Abbiamo, quindi, come necessaria base di partenza, merce purtroppo sempre più rara ai nostri giorni, un solido e intrigante plot, una avvincente storia, profonda e realistica di denuncia rispetto a una terribile piaga sociale, che si tende erroneamente a considerare come un triste ricordo del passato: le tragiche condizioni in cui sono costretti a sopravvivere i nativi e le ancora più drammatiche condizioni in cui sono troppo spesso costretti a perire i settori più deboli, ovvero anche in questo caso le giovani donne.
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Il prossimo 5 maggio ricorrono i duecento anni dalla nascita di Karl Marx. PalermoGrad li celebra pubblicando questo testo, sotto forma di intervista, di Riccardo Bellofiore, che ringraziamo vivamente
Questa intervista che ora
pubblica PalermoGrad ha una breve storia che va raccontata
per
comprenderne la genesi. Alla fine degli anni Novanta la RAI
intendeva preparare un ciclo di trasmissioni sulle grandi
figure del pensiero economico.
Cristina Marcuzzo sfruttava le occasioni convegnistiche per
poter intervistare vari economisti, italiani e stranieri. Le
interviste duravano poco meno
di un’ora, se ricordo bene. Venni così intervistato a
Firenze su Marx. Non avevano ancora deciso come costruire
effettivamente il
programma. La scelta finale, a mio parere felice, fu di
mettere da parte le interviste. La trasmissione che andò in
onda si chiamò
infine La fabbrica degli spilli: un titolo evidentemente
smithiano. Ad essere interrogato era il solo Alessandro
Roncaglia che stava allora ultimando
il suo La ricchezza delle idee per Laterza: lo interrogavano
due giornalisti che si alternavano. Uno dei due, ricordo,
era Roberto Tesi: più
noto come Galapagos, del manifesto. In ogni trasmissione si
aprivano due medaglioni con un breve estratto dalle
interviste. Nella trasmissione su Marx
i medaglioni erano costituiti da Ernesto Screpanti e dal
sottoscritto: infelicemente, il lavaggio di capelli la
mattina in albergo mi fece apparire
con una capigliatura da fare invidia ad Angelo Branduardi o
alla primissima Nicole Kidman. Ovviamente, mi preparai.
Avevo delle scalette, ma dietro le
scalette stavano delle domande (in numero di 10) che avevo
buttato giù, corredate di risposte. C’era un ordine imposto
dalla produzione,
che però col loro consenso sovvertii. La prima domanda
doveva essere sulla biografia, e così fu. La seconda sul
metodo, e così
non fu: sono fermamente convinto che il metodo dipenda dal
contenuto dell’oggetto che si indaga, quindi collocai quella
domanda verso la
fine.
Abbiamo una
missione, siamo chiamati a plasmare la Terra.
Novalis
Nella Prefazione del mio recente libro[1], scrivevo “Tale grande studio era orientato ad un punto di fuga, il concetto di complessità”. Per un errore nel processo di revisione delle bozze, quel “grande studio” è venuto fuori minuscolo, invece doveva essere maiuscolo. Messo così, in effetti, è abbastanza ridicolo, uno studioso non può certo dire che il suo studio è “grande”. Doveva esser maiuscolo perché si riferiva al Dà Xué (大学, Grande studio), titolo di uno dei quattro libri attribuiti a Confucio[2] . Come recita la breve bio dell’autore di questo spazio di riflessione, quindici anni fa mi sono ritirato a “confuciana vita di studio” ed il Dà Xué è considerato appunto il dao (la Via) della conoscenza dell’antico Maestro cinese, coevo di Solone e Talete, del Buddha storico e delle Upanishad, della probabile compiuta redazione dei canoni dell’Antico Testamento in quel di Babilonia, quella irripetibile stagione che il tedesco Karl Jaspers chiamò “Età assiale”[3].
Quindici anni fa infatti smisi di lavorare e mi immersi nello studio. In effetti all’inizio mi misi semplicemente a leggere con agio ma, capitando proprio su i Dialoghi di Confucio (Kong zi), presi a studiarli leggendo altro di lui, molto su di lui, sul suo periodo storico, la cultura della Cina antica, il seguito del suo pensiero detto “confucianesimo”[4] un canone tutt’altro che unitario il cui corso arriva sino alla Cina contemporanea e che ha una riconducibilità relativa al Maestro storico.
Pubblichiamo qui la bella introduzione di
Willy Gianinazzi al libro da lui curato “Il filo rosso
dell’Ecologia”, uscito per i tipi di Mimesis nel settembre
2017, con traduzione del nostro Riccardo Frola, e dedicato
al pensiero di
André Gorz. L’edizione italiana riprende, integrandola,
quella francese, “Le fil rouge de l’écologie. Entretiens
inédits en français”, uscita sempre a cura di Willy
Gianinazzi per le Editions de l’Ehess, Paris 2015. Ci sono
alcuni
inediti di Gorz e un’importante intervista con lo studioso
austriaco Erich Hörl. I temi dibattuti nel libro sono
tuttora al centro del
dibattito più interessante che ha di mira il superamento del
capitalismo e della forma merce. Soluzioni come “reddito di
cittadinanza” o di “esistenza”, oppure che si ispirino al
modello “software libero” o della decrescita, meritano,
crediamo, tutta la nostra attenzione. Crediamo però anche
che la “critica del valore”, in particolar modo grazie alla
riflessione
di Robert Kurz ma non solo, abbia saputo già chiarire molti
aspetti di queste proposte e messo in condizioni di non
doverci incamminare,
provando a percorrerle o soltanto verificandone la
consistenza, verso false vie d’uscita [Redazione].
* * * *
La prima opera di André Gorz, Il traditore (1958),1 è un romanzo autobiografico, incensato da Jean-Paul Sartre. L’ultima opera pubblicata da vivo, quella che ha fatto conoscere Gorz al grande pubblico, Lettera a D. (2006),2 è un commovente e autocritico racconto della sua vita amorosa; è l’opera che ha preceduto di poco il suicidio del suo autore, avvenuto nella notte del 22 settembre del 2007, all’età di ottantaquattro anni, insieme alla compagna.
Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta sottoscritta da 32 personalità del mondo ebraico italiano a proposito dell'operazione di immagine organizzata in occasione del 70°anniversario della nascita dello Stato di Israele, operazione che coinvolge anche il nostro paese icon la partenza del Giro d'Italia con grande risonanza mediatica da Gerusalemme
Nel prossimo maggio lo Stato d’Israele compirà 70 anni. Se per molti ebrei la memoria del maggio ‘48 sarà quella di una rinascita portentosa dopo la Shoà e un’oppressione subita per molti secoli, i palestinesi vivranno lo stesso passaggio storico ricordando con ira e umiliazione la Nakba, la “catastrofe”: famiglie disperse, esistenze spezzate, proprietà perdute, il tragico inizio dell’esodo di una popolazione civile di oltre settecentomila persone.
Molto problematica è in particolare oggi la situazione di Gerusalemme, città che Israele, dopo averne annesso la parte orientale, celebra come “capitale unita, eterna e indivisibile”. Tale statuto, oltre a non essere riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei governi mondiali, secondo i dettami dell’accordo di Oslo del 1993 doveva essere oggetto di negoziati fra le parti in causa. Gerusalemme Est resta quindi, secondo le norme internazionali, una città occupata con i suoi 230.000 ebrei che vi abitano in aperta violazione delle suddette norme.
Il 24 e il 25 aprile a Bruxelles sono stati organizzati, rispettivamente da Jeunes FGTB e dalla comunità degli antifascisti italiani in Belgio, due incontri che hanno portato al centro del dibattito la questione delle condizioni lavorative dei cosiddetti riders, i ciclo-fattorini che lavorano per le piattaforme digitali di consegna di cibo a domicilio (“food delivery”), come Foodora e Deliveroo.
Al giorno d’oggi, anche il mondo del lavoro è soggetto a trasformazioni continue alle quali il sistema ultra-rigido delle relazioni industriali non riesce a far fronte.
Infatti, la fine del modello fordista viene generalmente fatta risalire al periodo compreso tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del secolo scorso. Alla crisi di questo modello concorsero una pluralità di fattori inerenti sia all’ambito prettamente economico sia alle altre sfere politiche, sociali e culturali: la saturazione del mercato di base dei beni industriali durevoli, gli shock petroliferi, l’aumento della concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione con più basso costo del lavoro, l’introduzione di nuove tecnologie, la fine del regime dei cambi fissi e il conseguente aumento dell’instabilità sul mercato internazionale, l’esplosione della conflittualità sociale a partire dal ‘68.
Il filosofo francese alle prese con il pamphlet più emblematico della tradizione marxista. Un testo che mantiene la sua forza alternando critica filosofica e analisi sociale del capitalismo. Anticipazione dalla nuova edizione del «Manifesto comunista» per Ponte alle Grazie
Pur non essendo l’opera «comunista» più diffusa della storia (la palma in questo senso va al «libretto rosso» di Mao, titolo divulgativo delle Citazioni del Presidente Mao Tse Tung, che contende da vicino il primato di diffusione al Corano e alla Bibbia), il Manifesto del 1848 resta il testo più emblematico della tradizione marxista rivoluzionaria. Quello che ne dichiara e ne rende esplicite le intenzioni, ne getta le fondamenta teoriche, attraverso un excursus storico integrato con un’analisi sociale, per arrivare infine a elaborare un programma politico. Nel Manifesto vengono formulate le parole d’ordine attorno alle quali si organizzerà e svilupperà (ma anche, come accade nella storia di tutte le grandi «fedi», si scinderà e si riformerà) un movimento di massa che, pur non avendo trasformato il mondo come nelle sue intenzioni, è comunque stato determinante più di ogni altro nello scenario politico di tutto il XIX secolo e di buona parte del XX.
Il lavoro diplomatico continua in alcune delle aree con le più alte tensioni geopolitiche nel mondo. Negli ultimi giorni ci sono stati incontri e contatti ad alto livello tra Turchia, Iran e Russia sulla situazione in Siria; incontri tra Modi e Xi Jinping per allentare le tensioni tra India e Cina; e infine, lo storico incontro tra Moon Jae-in e Kim Jong-un. La componente comune in tutti questi incontri è l'assenza degli Stati Uniti, che potrebbe spiegare gli eccellenti progressi che sono stati osservati
Le ultime settimane hanno portato una nota di ottimismo nell’ambiente delle relazioni internazionali. L'incontro tra Modi e Xi Jinping in Cina ha offerto un esempio, confermato dalle parole di Wang Yi, membro del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese:
"I nostri interessi comuni [di India e in Cina] superano le nostre differenze. Il vertice farà molto per approfondire la reciproca fiducia tra i due grandi vicini. Faremo in modo che il vertice informale sia un successo completo e una nuova pietra miliare nella storia delle relazioni Cina-India ".
Viste le tensioni di agosto 2017 nella zona di confine himalayano tra i due paesi, i progressi compiuti negli ultimi nove mesi fanno ben sperare per un ulteriore aumento della cooperazione tra le due nazioni. Il commercio bilaterale ammonta a circa 85 miliardi di Dollari all'anno, con la Cina quale maggiore partner commerciale dell'India.
Esattamente cinquant’anni fa Jean Baudrillard pubblicava in Francia il volume Il sistema degli oggetti presso l’editore Gallimard. Questo testo ha visto crescere nel corso del tempo il suo successo e oggi può essere senz’altro considerato un classico del pensiero sociologico. In realtà non è nato come volume da pubblicare presso un editore, ma come tesi di dottorato in sociologia, discussa da Baudrillard nel 1966 davanti a una prestigiosa commissione composta da Roland Barthes, Pierre Bourdieu e Henri Lefebvre e scritta sotto la diretta influenza delle lezioni frequentate al seminario diretto da Barthes all’École Pratique des Hautes Études tra il 1962 e il 1964 dal titolo L’inventaire des systèmes contemporaines de signification: système d’objets. E l’idea di condurre una trattazione sistematica del mondo degli oggetti quotidiani è venuta probabilmente a Baudrillard dalla sociologia della vita quotidiana di Lefebvre, ma soprattutto dalle intense ricerche condotte da Barthes sul linguaggio dell’abbigliamento a partire dalla fine degli anni Cinquanta e raccolte nel 1967 nel volume Sistema della Moda. È evidente dunque come Il sistema degli oggetti non sarebbe probabilmente nato senza la lezione semiologica di Barthes. Non a caso l’edizione italiana pubblicata dall’editore Bompiani nel 1972 è stata fortemente voluta dal semiotico Umberto Eco, come lui stesso mi ha raccontato anni fa.
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Quando David Harvey afferma “Lo storico
drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente,
protrattosi per oltre due secoli, ad esempio, è stato in larga
parte invertito negli ultimi trent’anni”, i suoi lettori
supporranno
ragionevolmente che egli si riferisca ad un tratto
caratteristico dell’imperialismo, vale a dire il saccheggio
del lavoro vivo, nonché
delle ricchezze naturali, nelle colonie e semicolonie da parte
delle potenze capitaliste in ascesa in Nord America ed Europa.
In effetti, egli non
lascia dubbi in merito, dato che fa precedere a queste parole
il riferimento alle “vecchie categorie dell’imperialismo”. Ma
qui
incontriamo il primo di tanti offuscamenti. Per oltre due
secoli, l’Europa ed il Nord America imperialisti hanno drenato
anche ricchezze
dall’America Latina e dall’Africa, così come da tutte le parti
dell’Asia… eccetto il Giappone, il quale a sua volta
è emerso come potenza imperialista durante il XIX secolo.
“Oriente-Occidente”, dunque, costituisce un sostituto
imperfetto per
“Nord-Sud”, ed è per questo che ho
osato adeguare i punti della bussola di Harvey,
attirandomi una risposta
petulante.
Come David Harvey ben sa, tutte le parti coinvolte nel dibattito su imperialismo, modernizzazione e sviluppo capitalistico riconoscono una divisione primaria tra paesi definiti, variamente, come “sviluppati e in via di sviluppo”, “imperialisti e oppressi”, “del centro e della periferia”, ecc., persino laddove non vi è accordo su come tale divisione si stia evolvendo. Inoltre, i criteri per determinare l’appartenenza a questi gruppi di paesi possono validamente includere politica, economia, storia, cultura e molto altro, ma non la collocazione geografica – “Nord-Sud” non essendo altro che una scorciatoia descrittiva per altri criteri, come indicato dal fatto, generalmente riconosciuto, che il “Nord” comprende Australia e Nuova Zelanda.
Festeggiamo i duecento anni di Marx con uno speciale che raccoglie materiali inediti e stralci della nuova edizione de “Il Manifesto comunista” (per i titoli di Ponte alle Grazie, a cura del collettivo C17). Come ci ha insegnato Machiavelli, d’altronde, nella crisi permanente l’unico modo per rinnovarsi è il “ritorno ai principi”, o, per dirla con Lenin: “ripetere l’origine”. Cominciamo con un’intervista a Paolo Virno che chiarisce l’attualità del rivoluzionario tedesco e del suo pensiero
«È giunta l’ora della
piena leggibilità di
Marx». Paolo Virno, tra i più originali filosofi
materialisti del nostro tempo, usa Walter Benjamin per
affermare
l’attualità del Moro di Treviri. A duecento anni esatti
dalla sua nascita, si torna a parlare di Marx, del Manifesto
scritto con
Engels per conto della Lega dei comunisti, della sua
insuperabile diagnosi del capitalismo. La sua critica
dell’economia politica ha costituito,
come noto, il riferimento teorico decisivo del movimento
operaio e delle sue lotte, inondando il Novecento quasi
tutto a partire dalla rivoluzione del
1917. Marx – e questo lo racconta bene anche il film di
Raoul Peck (Il giovane Marx) – fu innanzi tutto
filosofo.
Materialista. Del rapporto tra Marx e la filosofia
si sono occupati a più riprese i marxisti eterodossi degli
anni Venti,
Lukács e Korsch tra tutti. Poi Marcuse e i francofortesi,
insistendo sulla scoperta dei Manoscritti del
1844. Quindi,
nell’immediato dopo guerra, Sartre e Merleau-Ponty in
Francia; Della Volpe in Italia. Negli anni Sessanta, si è
imposta la
«cesura» strutturalista di Althusser e dei suoi allievi,
mentre in Italia Marx è diventato un’arma teorica e politica
decisiva per l’operaismo e le lotte autonome dell’operaio
«massa» prima, di quello «sociale» a seguire (nei tardi
Settanta). E oggi? Cosa ne è di Marx nel mondo dominato
dalle multinazionali e dalla finanza? Cosa, quando il
capitalismo comanda e sfrutta la
forza-lavoro tramite gli algoritmi? «Proprio nella nostra
epoca», chiarisce Virno, «Marx è finalmente leggibile oltre
il marxismo».
* * * *
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e il modo di produzione capitalistico non ha smesso di dominare il mondo. Semmai, dopo il Novecento e con la crisi dell’ultimo decennio, il capitalismo ha rafforzato ovunque il suo potere. Ma molte sono state la trasformazioni, imposte dalle lotte come dalle discontinuità tecnologiche. Nella scena della Gig Economy e della finanza, il pensiero di Marx è ancora attuale?
Il lavoro storiografico di Eric J. Hobsbawm
rappresenta ancora oggi un punto di riferimento obbligato per
lo storico
dell’età contemporanea e, più in generale, per chiunque sia
interessato a comprendere le grandi trasformazioni della
contemporaneità tra Otto e Novecento. Se è vero che le sue
opere appaiono ormai datate, la sua periodizzazione dell’età
contemporanea, suddivisa in un Lungo Ottocento e in un ‘breve’
Novecento,2 mantiene un indiscutibile fascino e
costituisce,
nonostante tutto, uno straordinario affresco della storia
degli ultimi due secoli.
Proprio a partire da questa periodizzazione possiamo rilevare l’importanza che Hobsbawm attribuisce agli eventi rivoluzionari, che segnano e organizzano l’intero movimento della storia contemporanea. È la duplice rivoluzione industriale e politica che segna l’inizio dell’Ottocento borghese; è la rivoluzione del 1848, con il proprio fallimento, a marcare l’inizio del trionfo della borghesia che si prolunga sino agli anni Settanta del secolo, e che darà forma a quel sistema-mondo imperiale che condurrà alla Guerra del 1914 e alla rivoluzione del 1917, dando così avvio al nuovo secolo. E in particolare il Novecento sarà il «secolo delle rivoluzioni», non solo perché le donne e gli uomini di quel periodo assistettero al maggior numero di eventi rivoluzionari di quanto non fosse mai accaduto prima, ma anche perché la storia del Secolo breve coincide di fatto con la storia dell’Unione Sovietica, lo stato nato dalla rivoluzione.
Sarebbe riduttivo credere che la rivoluzione costituisca per Hobsbawm l’elemento chiave nella periodizzazione della storia contemporanea solo in ragione di una comodità storiografica o di una fortuita coincidenza di date.
Tra passato e presente. Un'anticipazione dal libro «Il sogno di una cosa. Per Marx», che esce con DeriveApprodi e viene presentato sabato al festival di Bologna, organizzato dalla casa editrice
Nello schema che Marx consegna alla «Prefazione» a Per la critica dell’economia politica riflettendo sulla vicenda delle rivoluzioni borghesi, un processo di transizione da una «formazione economico-sociale» a un’altra si verifica in quanto nel quadro dei processi riproduttivi di una data «formazione sociale» hanno luogo dinamiche conflittuali dirompenti: tali da provocarne – in capo a uno svolgimento di lungo periodo – lo scardinamento e la sostituzione da parte di una «formazione economico-sociale» basata su un diverso «modo di produzione».
(…)
Questa pagina della «Prefazione» del ’59, oggettivamente centrale nell’architettura complessiva della teoria marxiana, ha sempre attratto attenzione e suscitato riserve.
UNA POLEMICA RICORRENTE, e a prima vista consistente, concerne la (apparente) «centralità del terreno economico», che Marx sembrerebbe considerare in ogni epoca determinante. Come se l’assunto-base della filosofia storico-materialistica (la «costante» funzione fondativa attribuita all’«attività produttiva» nei confronti dell’«organizzazione sociale» e della sfera politico-istituzionale) disperdesse la consapevolezza storica dell’essenziale diversità delle logiche riproduttive proprie delle singole «formazioni sociali».
Per fare gli auguri ad un giovanotto di duecento anni è bene interrogarsi sul suo stato di salute. Come sta Marx? Il nostro tempo ha ancora bisogno della sua lezione? E qual è l’atteggiamento prevalente del nostro tempo nei suoi confronti?
Cominciamo dalla fine
Rispetto al florilegio di becchini proprio degli anni Novanta (quando, a seguito della caduta dei regimi socialisti nell’Europa dell’Est, la moda prevalente era quella di celebrare il funerale di Marx e del comunismo, di proclamare la storia finita ed il comunismo una pericolosa illusione del passato) sembra che, con la crisi che dal 2007 ha colpito il capitalismo, anche sui giornali della borghesia questo clima di fiducia nei confronti delle magnifiche sorti e progressive del capitale si sia smarrito e che, d’un tratto, la silhouette di un uomo con la barba sembri fare nuovamente capolino nel dibattito pubblico.
La Banca d’Inghilterra, illustri settimanali anglosassoni o anche la meno nobile informazione quotidiana di casa nostra, tutti sono concordi nel dire che «Marx aveva ragione», con i seguenti argomenti: l’innovazione tecnologica è utilizzata dal capitale per espellere un numero sempre maggiore di lavoratori dai processi di produzione; le crisi del capitalismo si mostrano come fisiologiche, connaturate alla natura di questo modo di produzione; esse sono sempre più violente e profonde e l’uscita da una crisi prepara la crisi successiva. Il modo di produzione capitalistico, insomma, spinge sempre più le sue contraddizioni fino alla barbarie.
In occasione del 200° anniversario della
nascita di Karl Marx,
il sito di Radio Cina Internazionale ha ospitato un articolo
di Francesco Maringiò, della redazione di Marx21.it (italian.cri.cn
news.cri.cn)
Il 2018 è un anno ricco di anniversari importanti per la storia del movimento comunista e del marxismo, a partire dalla celebrazione del bicentenario della nascita di Karl Marx ed il 170esimo anniversario del Manifesto del Partito Comunista.
L'occasione è propizia, in sede di dibattito storico e culturale, per porsi una domanda essenziale: perché ha senso – politico e teorico – parlare di ritorno al (e del) pensiero di K. Marx?
Il ritorno di Marx
La crisi economica scoppiata nel 2008 ha fatto registrare un successo editoriale delle opere di Marx tra quanti ricercavano alternative valide alle teorie in voga nell'Occidente liberal-capitalistico e persino prestigiose riviste di orientamento liberale sono arrivate a chiedersi "cosa avrebbe pensato Karl Marx" (Economist, 15/10/2008 e Time, 29/01/2009). Tuttavia, piuttosto che segnare davvero il ritorno del marxismo nell'Occidente, queste operazioni hanno costruito un'immagine "pop" del pensatore tedesco, relegandolo a visionario delle storture del capitalismo, invece di tributare alla sua elaborazione teorico-politica il ruolo che spetta ai grandi classici, capaci -per dirla con lo storico inglese A. N. Wilson- di «cambiare il modo in cui gli uomini guardano a se stessi».
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Niamey, aprile 2018. Nel blu, dipinto di blu. Siamo allora nel 1958 al festival di Sanremo, vinto quell’anno da Domenico Modugno con la notissima canzone ‘Volare’. Il blu non è preso in considerazione nella recente cartina geografica delle zone a rischio, colorata dal Ministero degli Affari Esteri francese. Nel Sahel siamo dipinti di rosso, profondo rosso, pericolosamente rosso. Una carta ad uso dei viaggiatori occidentali aggiornata al marzo passato dopo gli attentati di Ouagadougou, nel Burkina Faso di Thomas Sankara. Colorato anch’egli di rosso ma per altri motivi, in quanto assassinato perché portatore sano di rivoluzione. I viaggiatori sono messi in allerta dai colori e sono nel Sahel formalmente allontanati. Il colore rosso conferma l’esclusione dei popoli di questa zona dell’Africa. La diplomazia francese colora di rosso i paesi dove la minaccia di attentati è alta e forse probabile. Nessuna zona può considerarsi come sicura. Avrebbero fatto meglio a cominciare dal mare.
Dipinto, appunto di blu, non rappresenta nessun pericolo, per gli occidentali. Per chi viene dal Sahel, invece, non c’è nulla di più pericoloso al mondo. Dall’anno duemila fino ad oggi i morti nel mediterraneo superano le decine di migliaia. Solo dall’inizio dell’anno i morti in mare o i dispersi sono almeno 360, colorati dal sale e dalla vergogna delle carte marine. Nessun attentato, rapimento o guerriglia ha raggiunto nel Sahel questa cifra.
Non è sufficiente affidarci alle opinioni del “popolo” per intraprendere una politica trasformatrice
Credo che si debba rispondere in maniera negativa a questa domanda e cercherò di argomentare brevemente le mie ragioni.
Prima di tutto tentiamo di chiarire cos’è il “popolo”, concetto i cui contenuti non sono mai indicati da chi si riempie la bocca di questa parola e che invece bisogna specificare, se non vogliamo proclamare soltanto degli slogan, magari ad effetto ma assai poco incisivi sullo stato delle cose.
Nella tradizione marxista classica il popolo è sempre stato considerato un conglomerato di gruppi sociali assai differenti tra loro (operai, contadini, piccoli borghesi, intellettuali etc.) e talvolta addirittura in contrasto, che tuttavia, in talune occasioni, si è potuto agglutinare ed orientare verso obiettivi unificanti. Ma per essere tali, questi ultimi sono spesso risultati vaghi e non specificati, altrimenti come si potrebbero unire gruppi così disparati, se non con una complessa operazione che individui un decisivo tratto unificante? In questa direzione andava la determinazione di classe.
Non è un caso che il termine “popolo” è ampiamente usato in maniera retorica da uomini politici che hanno idee assai diverse sul come organizzare la vita sociale, o da coloro che si rifiutano di specificare il loro orientamento [1], dichiarandosi estranei sia alla destra che alla sinistra.
Il presente è una rielaborazione per Marx 21 di due articoli distinti usciti rispettivamente il 21 e il 28 aprile
Fine
della Storia?
Sul Fatto Quotidiano di domenica 22 Aprile, Furio Colombo, che immagino permanentemente tormentato da due aste di bandiera conficcate nel cervello, quella americana e quella israeliana, si domanda come sia possibile “fare a meno dell’America” e, preoccupatissimo per le acrobazie politiche senza rete di Trump, teme che “il Paese [con la maiuscola] che fino a un momento fa era stato capofila dell’avanguardia” di praticamente tutto lo scibile e tutti i diritti si chiuda in sé stesso e non regali più a noi poveri sudditi il bene prezioso della sua democrazia, la cui esportazione nel mercato mondiale è sostenuta da un elevata capacità competitiva non proprio esattamente sul terreno economico.
Poi conclude: “forse Trump, con tutti coloro che lo stanno imitando, sta rappresentando la profezia di Fukuyama: la Storia [ancora con la maiuscola] si è fermata”. Sì, quella fine della storia di Fukuyama che andava bene e veniva acriticamente richiamata quando serviva a diagnosticare il venir meno dell’antagonismo di classe e dei movimenti antimperialisti dopo l’ ‘89, è ora temuta non perché il modo stia fermo, piuttosto perché, a differenza di quello che pare al Nostro, si sta muovendo troppo, anche se non nella direzione da lui auspicata. E difatti sta ponendo fine all’egemonia americana e affermando un nuovo multipolarismo.
Stiamo attraversando – e, contrariamente a quello che ci raccontano i giornalisti embedded, ci siamo ancora dentro – una delle crisi più catastrofiche del capitalismo. Dopo ogni crisi niente rimane come prima, e le formazioni economico-sociali subiscono dei cambiamenti, talvolta in positivo e talvolta in negativo.
Sincronismi e sintonie
L’angolazione a cui dovrebbe interessare particolarmente guardare non è solo la natura delle azioni condotte dalle potenze uccidentali, dai loro protagonisti e dai gruppi di potere che li sostengono. Non è neanche in prima istanza il giudizio da dare sulla classe politica italiana, sulle forze economiche che ne determinano il comportamento e sui media che ne sostengono la linea. E’ la sostanziale omologazione che unisce e confonde tutti questi soggetti. Basta un minimo di maieutica per estrarre dal sincronismo con cui operano, da Renzi o Orlando a Di Maio attraverso Bersani, Fratoianni, sociali avvizziti in basso a sinistra, da Repubblica e l’Espresso a il manifesto o il Fatto Quotidiano, da Mattarella a Bergoglio, da Confindustria ai sindacati, la constatazione di una sintonia strategica. Quella della visione del mondo atlantico-israeliana: i buoni in questa metà dell’emisfero Nord, tutti i cattivi concentrati nell’altra metà e, disseminata in tutto l’emisfero Sud, una mescolanza di brutti, sporchi, cattivi da abbattere, e poveracci disperati da soccorrere a proprio merito e profitto.
Chi tra i nostri gazzettieri fa caso a quanti venerdì di
morte all’orlo del Lager Gaza sono trascorsi dal primo, con i
relativi eccidi
di innocenti inermi, a dispetto delle cifre agghiaccianti
(andiamo verso la cinquantina di morti e ai 5000 feriti? Vedi
qui
e qui).
Gaza o Homs come Derry? Altri tempi
Il 30 gennaio del 1972 ero a Derry e vidi 14 giovani e vecchi falciati dai parà della Regina senza che ci fosse stata, tra 20mila famiglie manifestanti per elementari diritti civili, sociali, nazionali, un’ombra delle provocazioni poi attribuite da Londra e media a fantasmatici “terroristi dell’IRA”.
Angelo D'Orsi, già autore di alcuni importanti
studi su Antonio Gramsci, ci offre in questo nuovo volume una
biografia esaustiva sull'importante pensatore politico sardo.
Il suo obiettivo, dichiarato nella prefazione, era quello di
“rivolgersi non
soltanto ai “gramsciologi” ma a un pubblico più largo, sia
pure dialogando sempre, fra le righe, con gli specialisti” (p.
10). Si tratta perciò di raccontare Gramsci non solo e non
tanto agli studiosi quanto ad una platea più vasta di lettori
comuni, senza
però perdere una dimensione scientifica della ricostruzione
storica.
La sensazione è che tale scelta nasca per D'Orsi, direttamente o indirettamente, dalla necessità di affrontare la diffusa ed incerta filologicamente “gramsciologia” oggi esistente. Le vicende gramsciane, politiche e personali, sono diventate infatti una sorta di tema ricorrente nell'attuale mercato editoriale e culturale italiano, con continue “scoperte” e “rivelazioni” basate su supposizioni e congetture spesso prive di riscontri documentari.
In questo quadro D'Orsi si inserisce con un lavoro che vuole essere al contempo rigoroso ma anche capace di offrire in maniera sintetica e godibile le più recenti acuisizioni, sia biografiche che interpretative. Il riferimento esplicito è da questo punto di vista la vecchia biografia di Giuseppe Fiori, quella del 1966, al fine però di produrre un lavoro che sappia coniugare, come quella, la dimensione personale con quella politica, costruendo però una narrazione biografica rinnovata “alla luce di nuove acquisizioni documentali, nuovi studi, nuove visioni dei problemi e ovviamente”, come scrive l'autore, con un punto di vista “non riducibile a nessuna “ortodossia” (p. 10).
L’8 maggio 1968, in occasione del centocinquantenario della nascita di Marx, Raymonde Aron, sociologo liberale e critico di Marx (soprattutto dei marxismi), nell’ambito della propria relazione al grande convegno parigino organizzato dall’ Unesco, mise in evidenza «il contrasto tra le dure condizioni nelle quali visse l’esule a Londra, e il quadro grandioso e ufficiale in cui professori togati, venuti da tutte le università del mondo, si propo[neva]no di intrattenere un dialogo cortese, dopo aver ricevuto la consegna di attenersi al contributo scientifico di Marx e di dimenticare il rivoluzionario – ma con l’intenzione (…) di non rispettare affatto questa consegna».
In effetti lo scenario delle celebrazioni era davvero imponente: non solo per il numero e la qualità dei professori intervenuti, ma anche di quelle che René Maheu, direttore dell’Unesco, appellava come «Eccellenze», capi politici e di istituzioni statali, tutti uniti per onorare colui che aveva, sempre parole di Maheu, «profondamente modificato il rapporto tra realtà e pensiero».
Le celebrazioni del bicentenario sono ben lungi dall’avere quel carattere di grandiosità e ufficialità. Sono in corso, ovviamente, convegni di studio, seminari, pubblicazioni ecc., ma in un contesto assolutamente diverso rispetto, a quello dell’8 maggio 1968.
A proposito delle bufale quirinalizie — con una domanda ad Alberto Bagnai...
«Si giustifica il rinvio sine die delle elezioni con due motivazioni: che l'Italia rischierebbe altrimenti di non essere adeguatamente rappresentata al vertice europeo di fine giugno; che non si riuscirebbe a disinnescare le clausole di salvaguardia dell'IVA. Due boiate pazzesche, avrebbe detto il compianto Paolo Villaggio. Purtroppo due boiate sulle quali né Salvini né Di Maio hanno ancora detto nulla».
E' tempo di bufale. Bufale mediatiche, ma di matrice quirinalizia. La crisi politica si incancrenisce e un nuovo voto si imporrebbe, ma lorsignori temono la democrazia e vogliono guadagnare tempo. Per giustificare la manovra raccontano allora una balla dietro l'altra: che non si potrebbe votare prima dell'estate, ma adesso neppure in autunno, che si imporrebbe perciò un'ammucchiata denominata "governo del presidente". Di tutto ciò ci siamo già occupati 3 giorni fa. Ci torniamo sopra per mettere ancor più in luce alcune delle mistificazioni che vanno per la maggiore in questi giorni sui media. Due in particolare: quella riguardante il vertice europeo di fine giugno; quella concernente le cosiddette "clausole di salvaguardia" sull'IVA.
Nell'articolo già citato ho sostenuto una tesi secca: che non esiste nessun "governo del presidente", che ormai l'alternativa è solo tra nuove elezioni od un governo destra-Pd. E che dunque la scelta definitiva è sostanzialmente nelle mani di Salvini. Mi pare che gli avvenimenti degli ultimi due giorni confermino quell'analisi.
La Corea del Nord prepara la guerra, questo dicevano gli scrivani del potere occidentale, debordando dai loro giornali o dalle loro trasmissioni di approfondimento, anzi di affondamento nel nulla. Invece Kim Jong-un si è servito della bomba atomica e poi di una possibile denuclearizzazione per mettere in trappola Washington e preparare la pace o quanto meno le condizioni di una pace tra le due Coree che gli Usa, arrivati alla minaccia di sterminio, hanno impedito da settant’anni. Lo storico incontro tra il leader di Pyongyang, Kim Jong-un e il Presidente di Seul Moon Jae-in al confine tra Corea del Nord e Corea del Sud il 28 aprile scorso, cambia completamente le carte in tavola e ridisegna nuove possibili mappe alla più vitale periferia dell’impero.
E’ anche possibile che in un futuro non troppo lontano si possa finalmente arrivare a un trattato di pace fra le due Coree le cui popolazioni peraltro non hanno mai accettato la separazione, ma per il momento acquista importanza il fatto che il presidente della Corea del Sud, di fatto territorio di occupazione americana e disseminata di basi a stelle strisce, abbia trovato alla fine il coraggio di incontrare il suo omologo del Nord fino a ieri demonizzato e opporsi così al divieto di aperture permesse solo nella retorica ufficiale.
Se mi chiedono “Sei marxista?”, dopo una breve esitazione rispondo “Sì”. Marx mi ha insegnato come funziona il capitalismo nella sua dinamica essenziale. La lettura del Capitale è stata decisiva per la mia formazione intellettuale e per la mia vita di cittadino responsabile. Purtroppo oggi i giovani quasi mai passano attraverso questa esperienza e sono tantissimi quelli meno giovani che credono di aver letto Marx senza averlo fatto.
Mi domando come si possa possedere un po’ di spirito critico senza avere letto almeno il primo volume del Capitale, senza avere un’idea non del tutto vaga di cosa sia una “merce”, il “valore di scambio”, la “forza lavoro”, lo “sfruttamento”, il “plusvalore”. E come sia possibile orientarsi nel mondo attuale della finanza planetaria, o magari solo ascoltare un bollettino sull’andamento delle borse, senza avere chiaro il fatto che Marx, lungi dal darci lezioni di economia politica, ci spiega che il nostro compito, culturale e politico, è quello di riuscire a esercitare una “critica dell’economia politica” (sottotitolo fondamentale per capire cosa troviamo nelle pagine del Capitale e, direi, in tutto ciò che Marx ha scritto).
Il Russiagate, la grande saga politica americana, si arricchisce di un nuovo, divertente capitolo. Dopo due anni di indagini cui lavorano 17 agenzie di sicurezza con 11 mila dipendenti, l’assunto di partenza (quello enunciato da Barack Obama nell’estate del 2016: i russi hanno lavorato per screditare Hillary Clinton e far eleggere Donald Trump) è lontano dall’essere corroborato da vere prove. Al contrario: i pasticci di Facebook e i maneggi di Cambridge Analytica, con 81 milioni di americani raggiunti dalla propaganda elettorale, fanno pensare che ad aiutare Trump, semmai, siano stati gli spin doctor e le web factories occidentali, non gli hacker orientali.
Ma come ormai hanno capito anche i sassi, il Russiagate serve soprattutto a tenere a bada qualunque tentativo di introdurre nella politica estera americana elementi diversi dalla strategia della “esportazione della democrazia” varata nel 1989 dal presidente George Bush senior e da allora sempre sostenuta dall’establishement sia democratico sia repubblicano. Per questi ambienti, legati al complesso industrial-militare, la Clinton era il candidato ideale, Trump invece l’incognita, il cavallo pazzo. Il Russiagate lo tiene a bada, lo blocca e lo costringe a farsi portavoce della politica che da candidato criticava. Tra Russiagate, caso Skripal, bombardamenti sulla Siria e disdetta dell’accordo sul nucleare dell’Iran c’è una evidente continuità.
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Traccia dell'intervento all'incontro C'è un futuro per la sinistra?, VI assemblea nazionale del Network per il Socialismo Europeo, Fiuggi, 5-6 marzo 2, (non tutto letto, e con qualche postilla che susciterà qualche reazione isterica)
La risposta al quesito che mi
ponete è incoraggiante: per ora non si sta preparando
nulla. Visto ciò che si discuteva, questa è una buona cosa. Ma
non è che l’attuale assetto istituzionale-economico europeo
non sia già abbastanza penoso, per cui non v’è molto da
festeggiare.
Non è neppure facile districare i termini delle posizioni e delle questioni.
Intanto quando si parla di riforme dell’eurozona si parla di poca cosa (ma con potenziali devastanti).
L’eurozona nasce male, non si fa una moneta senza uno Stato, e lo Stato federato europeo non è realistico, spero che ormai ne siamo tutti convinti (ma purtroppo non fuori di qui). L’eurozona non è un’area valutaria ottimale, anche questo è common knowledge. Per farla funzionare bene in maniera che assicuri la piena occupazione, a fronte agli squilibri che produce occorrerebbero politiche fortemente espansive nel paese dominante e, probabilmente, anche trasferimenti fiscali perequativi da quest’ultimo. Pensare che questo accada significa essere folli. Il resto, solidarietà europea ecc. sono chiacchiere.
Quindi, punto uno, quando si parla di riforme, si parla di cose marginali che non affrontano i suoi nodi, per così dire, strutturali. Parlando di Europa vale veramente l’abusata battuta di Flaiano che la situazione è tragica, ma non è seria.
Non sono prove anonime, stravolgono i programmi scolastici, mettono in discussione l’aiuto reciproco tra bambini e soprattutto la loro serenità, tra deliranti cronometri, insegnanti che diventano sorveglianti e aule trasformate in celle di massima sicurezza, da cui a bambini e bambine di sette anni non è consentito allontanarsi per fare la pipì. Tuttavia quando si ragiona sulle motivazioni del rifiuto delle prove Invalsi, previste da queste settimana, si sottovaluta un aspetto, il più inquietante ma anche motivo di speranza: quei test si reggono prima di tutto sull’obbedienza gratuita dei docenti chiamati a somministrarli seguendo un vergognoso Manuale. Se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore, tutto quell’odioso esperimento crollerebbe
Il grande esperimento Invalsi: appunti
sull’eteronomia
Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.
Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare – ad esempio – gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o – chissà – addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.
La debacle elettorale della sinistra richiede
un’analisi di fondo delle sue cause. Queste non
risiedono solo negli ultimi mesi, ma hanno radici lontane.
Affondano nella incapacità di fronteggiare in tutti i suoi
aspetti l’offensiva
neoliberista che ha cambiato il mondo. E ha cambiato
l’antropologia e il modo di pensare. L’individualismo
competitivo è penetrato
nel profondo. La risposta non può essere solo sulla
difensiva o puntiforme, ma deve avanzare un’idea di società
e di modelli di
vita alternativi. La sinistra radicale non ha saputo
contrastare la sfida populista. E’ passata da una elezione
all’altra non solo
perdendo voti, ma cambiando ogni volta la loro composizione.
Dimostrando una incapacità a trasformarli in partecipazione
attiva e costante.
Nello stesso tempo gli insediamenti sociali, quand’anche ci
sono, non garantiscono nei tempi brevi i ritorni di voto
attesi. Del resto il voto
stesso cambia di senso nella postdemocrazia del
maggioritario. Eppure le nuove figure del precariato creato
dal capitalismo delle piattaforme indicano
un campo di iniziativa da cui ripartire.
* * * *
Le elezioni del nostro scontento si sono inevitabilmente trasformate in quelle del nostro sconforto. Tale è lo stato d’animo generale – salvo qualche euforia di facciata del tutto fuor di luogo – che affligge la sinistra nel nostro paese. Ciò che ne resta, se resta. Una sinistra che non ha saputo acchiappare al volo una occasione probabilmente storica, certamente non da poco, rappresentata dalla sconfitta verticale del Pd. Una perdita di consensi e di credibilità, che la stessa sinistra - in questo caso anche quella interna al Pd che avrebbe poi dato vita alla scissione di Articolo1- Movimento Democratico e Progressista (Mdp) - aveva contribuito in maniera assolutamente determinante a fare maturare con l’esito del voto referendario del 4 dicembre del 2016.
Il nuovo saggio dell’economista francese studia i comportamenti elettorali in Francia, Usa e Regno Unito dal 1948 al 2017 e ne conclude che i sistemi politici non si possono più interpretare in base alla lotta di classe. A confrontarsi sono due diverse élite, quella degli intellettuali (i “Bramini”) nei partiti di sinistra tradizionale, e quella degli affari (i “Mercanti”) in quelli di destra. Per i più svantaggiati restano i “populismi” e ancor più il non voto.
Il periodo in cui sono prevalse le politiche di riduzione delle disuguaglianze è quasi un accidente della storia, perché si è verificato solo in seguito ad eventi particolari: la Grande depressione, la seconda guerra mondiale, l’ascesa del comunismo. Lo dice Thomas Piketty, quello diventato famoso con il suo “Il capitale nel XXI secolo”, nel suo nuovo saggio “Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality & the Changing Structure of Political Conflict”, ossia Bramini di sinistra contro Mercanti di destra: crescita della disuguaglianza e cambiamento nella struttura del conflitto politico.
Piketty ha studiato tutte le ricerche post-elettorali in Francia, Usa e Regno Unito dal 1948 al 2017 ed ha esaminato i risultati non in base alla sola variabile dell’occupazione, che è di norma quella usata in queste ricerche, ma a molte variabili (reddito, patrimonio, istruzione, sesso, religione, età, ecc.).
Joschka Fischer - ex segretario dei Verdi tedeschi, nonché vice Cancelliere nel governo di Gerhard Schroder – aveva già dato prova, nel corso della sua carriera politica, della propria evoluzione da leader ecopacifista a promotore di una rinnovata egemonia politico militare, oltre che politico economica, del suo Paese. Da un lungo articolo intitolato “Merkel sia audace, la storia non può aspettare Berlino”, tradotto in italiano e pubblicato il 6 maggio scorso dal “Corriere della Sera”, apprendiamo come si prepari a compiere un nuovo, formidabile balzo in avanti sulla via del rilancio dell’imperialismo tedesco.
Dopo aver messo in guardia contro le <<forze dirompenti dei nuovi nazionalismi>> che minacciano la <<democrazia, lo stato di diritto e tutti gli altri valori fondanti dell’Unione>> (chiedere, in merito ai “valori democratici>> in questione, cosa ne pensano i cittadini Greci che ne hanno assaggiato i morsi), l’impareggiabile Joschka si lancia in un entusiastico encomio del presidente francese Emmanuel Macron, non solo e non tanto per la sua <<promessa di rilanciare le riforme a livello europeo e modernizzare l’economia del Paese>> (promessa che non sembra particolarmente gradita al popolo francese), ma soprattutto per la sua intenzione di <<creare un sistema comune di protezione delle frontiere e fondare un programma di difesa comune a tutta la Ue>>.
1. Finalmente, tra le tante fantasiose opzioni (e non essendo allo stato disponibile quella dello "spread!"), si è deciso quale volto dovesse assumere, in questo frangente, lo stato di eccezione che consenta, impunemente, di vanificare i risultati del voto (a volerli comprendere...): urge disinnescare le clausole di salvaguardia.
Da questo articolo sull'Huffington (del 2016) ne riportiamo la genesi e la cronistoria:
"I fatti sono, in sintesi, i seguenti:
Governo Berlusconi
Con i decreti dell'estate 2011 (decreto legge 98/2011 del 6 luglio e 138/2011 del 13 agosto) il governo Berlusconi dispone una copertura a futura memoria, assistita da una clausola di salvaguardia: se il governo (il governo che verrà) non troverà, entro il 30 settembre 2012, 20 miliardi attraverso i tagli al sociale ipotizzati da una improbabile delega fiscale-assistenziale, i soldi, già iscritti in bilancio come entrata, si dovranno trovare con un taglio lineare di tutte le agevolazioni fiscali, oppure con un aumento delle aliquote delle imposte indirette, incluse le accise.
Governo Monti
Il governo Monti, subentrato a quello Berlusconi a metà novembre 2011, riesce a disinnescare progressivamente buona parte di questa clausola (per 13,4 miliardi), ma non la previsione, di un aumento dell'Iva, a partire dal primo luglio 2013, come salvaguardia nel caso in cui non si fosse proceduto a tagli delle agevolazioni fiscali o di prestazioni assistenziali, per 6,6 miliardi di euro annui.
Su quanto accaduto ad aprile in Nicaragua si è scritto e detto molto. Un po’ di tutto, dall’analisi serie e soppesate alle reazioni viscerali, alla focosa difesa del comandante della rivoluzione, Daniel Ortega. Personalmente non pretendo di dire qualcosa di nuovo ma vorrei, modestamente, cercare di fare un bilancio di quanto già espresso da molte persone, cercando qualche possibile conclusione.
Senza dubbio quanto accaduto ha smosso le passioni. E le ha smosse perché il Nicaragua continua ancora a risvegliare passioni. Di fatto, fuori da Cuba, è stato il primo paese in territorio latinoamericano a produrre un rivoluzione socialista. Quella del 19 luglio del 1979, lontano nel tempo – e purtroppo non solo nel tempo -, per molti continua ad essere un riferimento, una torcia che indica il cammino: la Rivoluzione Sandinista mostrò che è possibile scontrarsi con la dittatura, con l’impero statunitense… e vincere!
Ortega da sandinista a uomo d’affari
Tuttavia, per molti, anche quell’immagine gloriosa di un popolo in armi che costruisce il socialismo è il vergognoso promemoria di un tradimento. Il sandinismo vittorioso degli anni ‘80 del secolo, dopo aver lasciato il potere nel 1990 nel tempo si è trasformato, per mano dell’imprenditore Daniel Ortega e di sua moglie Rosario Murillo, in un tiepido riformismo, un capitalismo dal “volto umano”, gestito e a discrezione di questa coppia onnipotente.
Il 5 maggio del 1818, a Treviri, una città della Germania Meridionale, nella pittoresca regione vinicola della Valle della Mosella, nacque Karl Marx. A quei tempi, Treviri era un decimo rispetto a quelle che sono le sue dimensioni attuali, con una popolazione di circa 12mila persone. Secondo Jürgen Neffe, uno dei più recenti biografi di Marx, Treviri è uno di quei posti dove «anche se tutti non conoscono tutti, molti sanno un pel po' di cose a proposito di molti.» Simili vincoli provinciali non potevano certo costituire un limite per lo sconfinato entusiasmo intellettuale di Marx. Sono stati assai rari i pensatori radicali delle principali capitali europee del suo tempo che egli non sia riuscito sia ad incontrare che a rompere polemicamente con loro per motivi teorici, compresi i suoi contemporanei tedeschi Wilhelm Weitling e Bruno Bauer; il "socialista borghese" francese Pierre-Joseph Proudhon (così come lo avrebbe etichettato Marx, insieme a Friedrich Engels, nel "Manifesto Comunista"; e l'anarchico russo Mikhail Bakunin. Nel 1837, Marx rinuncerà a seguire la carriera legale che il padre - anch'egli un avvocato - aveva tracciato per lui e si immergerà invece, all'Università di Berlino, nella filosofia speculativa di G.W.F. Hegel.
Landor, corrispondente del World, intervista Marx a Londra il 3 luglio 1871. Soltanto un paio di mesi prima, la Comune di Parigi, cui Marx aveva partecipato, era stata soffocata nel sangue. www.internazionale.it
Londra, 3 luglio 1871. Mi avete chiesto di
raccogliere informazioni sull’Associazione Internazionale e
io ho cercato di farlo. Attualmente, si tratta di un’ardua
impresa. Londra è indiscutibilmente il quartier generale
dell’Associazione, ma gli inglesi sono spaventati e sentono
odor d’Internazionale dappertutto, come re Giacomo sentiva
odor di polvere da
sparo dopo la famosa congiura. Naturalmente, il livello di
consapevolezza dei membri dell’Associazione è aumentato con
la
sospettosità del pubblico e se gli uomini che la dirigono
hanno un segreto da custodire, il loro stampo è tale da
custodirlo bene. Ho
fatto visita a due dei suoi esponenti più in vista; con uno
di essi ho parlato liberamente e qui di seguito riferisco il
succo della nostra
conversazione. Mi sono personalmente accertato di una cosa,
e cioè che si tratta di un’associazione di veri lavoratori,
ma che questi
lavoratori sono guidati da teorici politici e sociali
appartenenti a un’altra classe. Uno degli uomini che ho
visto, fra i massimi dirigenti del
Consiglio, si è fatto intervistare seduto al suo banco da
lavoro, e a tratti smetteva di parlare con me per ascoltare
le lamentele espresse in
tono tutt’altro che cortese da uno dei tanti padroncini del
quartiere che gli davano da lavorare. Ho sentito quello
stesso uomo pronunciare in
pubblico discorsi eloquenti, animati in ogni loro passo
dalla forza dell’odio verso le classi che si autodefiniscono
governanti. Ho capito quei
discorsi dopo aver assistito a uno squarcio della vita
domestica dell’oratore. Egli deve essere consapevole di
possedere abbastanza cervello da
organizzare un governo funzionante ma di essere costretto a
dedicare la sua vita alla più estenuante routine di un
lavoro puramente meccanico.
Pur essendo un uomo orgoglioso e sensibile, era
continuamente costretto a rispondere a un grugnito con un
inchino, e con un sorriso a un ordine che
sulla scala dell’urbanità si collocava più o meno allo
stesso livello del richiamo che il cacciatore lancia al suo
cane.
“il manifesto”: ma che belle cronache!
Qualcuno potrà dirmi che me la prendo sempre con il giornale che si sfregia del vezzeggiativo “quotidiano comunista”. Che tanto è inutile, che è come prendere a cannonate un cagnetto di compagnia (quello di Soros e Hillary), che comunque quei quattro lettori, sopravvissuti al disvelamento ormai scontatissimo della sua missione di megafono delle buone ragioni imperialiste, non li schiodi neanche se gli dimostri che Chiara Cruciati è sposata con un boss curdo di Kobane e passa le ferie tra l’Isis del Sinai, o che Norma Rangeri, Laura Boldrini, Asia Argento, Emma Bonino succhiano sangue di bambini maschi dopo mezzanotte.
Tutto vero, ma tant’è. La smetterò, ma non stavolta. Stavolta, intendo il numero del 5 maggio del “manifesto”, ne ha fatto una più raggelante del solito. Come del sistematico sostegno alle buone ragioni dell’occupazione Usa-Nato dell’Afghanistan, della trasformazione di un regime change amerikano in rivoluzione democratica (ultima quella in Armenia del mercenario Cia Pashinyan), della santificazione di curdi venduti a Usa, Israele e Sauditi, della balla Regeni, della bufala Russiagate, dello sfegatato sostegno alla killer Hillary come ai nani di giardino LeU, dell’avallo a ogni False Flag che passi per la mente a Mossad, Cia, MI6 e altre conventicole della buona morte di massa, della vilificazione in dittatori di chiunque vada col suo popolo in direzione ostinata e contraria all’Uccidente, dello scudo finto buonista e vero malista con cui copre i facilitatori Ong, in mare e in terra, della spoliazione del Sud del mondo…
Il saggio[1] si propone di considerare
ciò che io definisco «patologie del lavoro» nel contesto di
una ricostruzione storico-normativa del significato di lavoro
quale cooperazione sociale. Coll’adottare questo
approccio analitico, io mi propongo due scopi. Considerare da
un lato gli sviluppi
sociali aberranti del lavoro, al fine di chiarire, attraverso
l’analisi di fenomeni negativi, il contenuto positivo del
termine e del senso del
lavoro nelle società moderne. Dall’altro riunire, sotto un
unico tema, una serie di problemi diversi. Tali problemi
comprendono
l’esistenza permanente di sfruttamento e alienazione, la
precarietà del lavoro, la disoccupazione strutturale a lungo
termine, la
minaccia posta alle condizioni di lavoro contemporanee da
quella che si potrebbe chiamare la sottrazione di dignità
(the
«de-dignifying») al lavoro (per invertire una
espressione usata da Robert Castel).
Il titolo di questo mio saggio, Patologie del lavoro, intende appunto indicare e stabilire una connessione tra questi diversi problemi, concependoli come diverse tipologie di deficit all’interno di una forma (mediata-dal-lavoro) di cooperazione sociale. Prendendo a prestito una frase di Hegel, possiamo dire che il lavoro equivale a condividere, partecipare o prender parte alle risorse generali della società. Il termine risorse è qui usato per indicare ciò che una determinata società ha raggiunto, e che sarà capace ulteriormente di sviluppare, in termini sia di ricchezza che di competenze. Il lavoro consente cioè ad ognuno di condividere le risorse della società, non semplicemente nel senso di essere un mezzo per acquisire ricchezza o entrare nella sfera delle relazioni intersoggettive, ma anche perchè consente di condividere il sapere nel suo evolversi e il know-how di una società.
Nei giorni scorsi i giornali italiani, con toni da piagnoni, hanno celebrato un particolare ‘sorpasso’ della Spagna ai danni dell’Italia. Non sono mancati i più bizzarri paragoni con il calcio ed il motociclismo, quelli sullo stile di vita, sulle abitudini alimentari, sugli orari di lavoro, ed altre amenità che poco hanno a che fare con la significatività del dato che proveremo di seguito a commentare. Nel dettaglio, la notizia ‘vera’ è la seguente: il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente reso pubblico il dato per cui il PIL procapite in Spagna è per la prima volta superiore a quello dell’Italia: 31.191 Euro rispetto ai nostri 31.072 Euro (in termini reali e a parità di potere di acquisto). Tecnicamente, il PIL procapite non è altro che il valore del reddito complessivo nel 2017, diviso per il numero di abitanti nello stesso anno.
Detta così sembrerebbe, come scrivono alcune testate nostrane, che ad oggi “gli spagnoli sono più ricchi di noi” italiani.
Sgomberiamo anzitutto il campo da un equivoco molto diffuso, quello secondo cui il PIL sarebbe un indicatore della ricchezza di un Paese. Il PIL può essere considerato un ragionevole indicatore di benessere e sviluppo di un Paese, in quanto rappresenta l’ammontare complessivo di reddito che ogni anno viene distribuito tra le diverse classi sociali (poi bisogna vedere come…).
La “Dichiarazione [di Lisbona] per una rivoluzione democratica” e i classici del marxismo
Rimanendo alla categoria del mero “possibile” per cui, direbbe Hegel, “tutto è possibile”, anche una rivoluzione, democratica, pacifica è indubbiamente possibile. Tanto più che, come ricorda a ragione Lenin, non “esistono leggi storiche riguardanti le rivoluzioni e che non conoscono eccezioni” [1]. D’altra parte, però, la teoria della rivoluzione, come ogni teoria, non può che nascere dalla riflessione sull’esperienza storica, mirando a stabilire “ciò che Marx ha definito una volta ‘ideale’”, nel senso di un contesto storico “medio, normale, tipico” [2]. Dunque, sebbene vi siano casi particolarmente fortunati in cui sarà possibile una trasformazione strutturale del sistema sociale e politico senza dover “spezzare” lo stato borghese, in generale le forze rivoluzionarie saranno costrette a battersi sul campo imposto dagli avversari, dalle classi dominanti che si serviranno degli apparati repressivi dello Stato contro ogni tentativo di porre radicalmente in discussione i loro privilegi.
Per rimanere sul terreno dell’analisi concreta di una situazione concreta, emblematico è il caso venutosi a creare in Russia nella fase del dualismo di potere in seguito alla Rivoluzione di febbraio, con l’esercito in via di auto-dissoluzione: “Le armi nelle mani del popolo, la mancanza di una costrizione esterna sul popolo: ecco qual era l’essenza della situazione. Ecco ciò che apriva ed assicurava una via di pacifico sviluppo a tutta la rivoluzione” [3].
Gli esiti delle elezioni “in Friuli” (per la verità ci sarebbe pure la Venezia Giulia, ma l’informazione italiana l’ha ormai tacitamente abrogata!) sono stati catastrofici per il moVimento lanciato da Beppe Grillo: i cinque astri che risplendettero la notte del 4 marzo parrebbero essersi ridotti ad altrettante stelle cadenti.
Lo smacco subito in Molise è stato soltanto l’anticipazione di un’autentica disfatta a nordest: in meno di due mesi il M5stelle ha perso oltre 106 mila dei 169.299 voti conquistati a marzo (alla Camera), passando dal 24,56 al misero 11,67% di preferenze ottenuto dal candidato Presidente Alessandro Fraleoni Morgera. Se poi considerassimo esclusivamente i voti di lista lo scenario sarebbe ancor più desolante: una percentuale del 7,06% significa meno di 30 mila suffragi. Prendiamo per buono il primo dato, e non solo perché spiace infierire: nel caso dei 5stelle, sempre beatamente soli, chi sceglie il front-man sceglie automaticamente anche la lista.
Come spiegare un crollo così repentino a fronte, ad esempio, dell’exploit dell’amica-nemica Lega, capace di raccogliere (e questo l’avevo pronosticato) un clamoroso 35%?
A Milano corteo di anarchici contro “l’Eni e le sue guerre”
Ecco un tipico esempio di qualcosa su cui tutti dovrebbero concordare, senza dubbi.
Invece i dubbi ci vogliono, data anche l’imperizia e la dabbenaggine di alcune forze partecipanti.
Nessuno mi potrà mai accusare di essere tenero con l’ENI e gli inquinatori fossili. Li combatto con il mio lavoro da decenni, in Rai, con il blog, le conferenze in giro per l’Europa e i miei documentari, ultimi sulla devastazione della Basilicata, sui gasdotti in Puglia, sulla passione fossile del regime Renzi, sulle piattaforme che distruggono Adriatico e Ionio, sulla proliferazione di serbatoi e scavi in zone sismiche nel Nord Italia (vedi “Fronte Italia, partigiani del 2000”, “L’Italia al tempo della peste”, “O la Troika o la vita – Epicentro Sud”)....
Ma so anche che gli attacchi all’ENI (vedi Regeni, provocazione finalizzata a boicottare gli accordi ENI-Cairo sul giacimento di gas più grande del Mediterraneo, vedi la guerra alla Libia) e alle sue tangenti ai governi produttori, sono qualcosa che piace moltissimo a coloro, tutti tangentari ben oltre l’ENI, che ammazzarono Mattei e da allora conducono una lotta senza quartiere a un ente petrolifero che si permette di rompere le palle ai grandi dell’Occidente, a commerciare con la Russia, a pretendere spazi in Libia, Iran, Algeria, Egitto, Indonesia, Africa, a provare a sottrarre l’Italia al dominio delle multinazionali anglo-franco-americane e a impedirle di rifornirsi dal gas, più conveniente e vicino, della Russia.
La prima osservazione che mi sento di fare è che Marx, al contrario di come viene solitamente (e stoltamente) considerato, non è un filosofo. Secondo me è a tutti gli effetti uno scienziato; comunque non un filosofo. Di filosofia ha trattato assai poco durante la sua vita e non in modo da poter figurare come un buon filosofo. Di fatto, chiude con questo ramo del sapere nel 1845 scrivendo una vasta serie di appunti – che lui stesso disse di voler affidare alla “critica roditrice dei topi” – pubblicati poi nel 1932 con il titolo di Ideologia tedesca. Nel 1847, scrive Lavoro salariato e capitale; e già dal titolo si capisce che si è indirizzato allo svolgimento di considerazioni economiche. Nel 1847 pubblica pure (in francese) Miseria della filosofia, un testo di critica e confutazione delle tesi di Proudhon che aveva scritto la “Filosofia della miseria”, il cui titolo effettivo è però Sistema delle contraddizioni economiche; e anche questo fa capire che si parla più di economia che di filosofia. In effetti, in questo suo scritto critico Marx inizia ad elaborare la sua teoria del valore, mutuata dagli economisti classici, però con una decisiva variazione che poi vedremo.
In definitiva, si può tranquillamente affermare che, a partire dalla metà degli anni ’40 e fino alla fine della sua vita, Marx si è sempre dedicato allo studio dell’economia politica; e in particolare dei classici, di Adam Smith e David Ricardo.
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1. Introduzione
Nell’Unione monetaria europea (UME) le istituzioni e le politiche intraprese hanno tollerato o alimentato asimmetrie in parte preesistenti, che hanno generato a loro volta squilibri macroeconomici. Indichiamo prima le istituzioni e le politiche europee e poi le asimmetrie. Segue qualche riflessione sulle possibili vie di uscita.
2. I difetti delle istituzioni dell’Unione Monetaria Europea.
L’UME, entrata in vigore il 1° gennaio 1999, è caratterizzata da una politica monetaria unica, con la quale la Banca Centrale Europea (BCE) stabilisce un unico tasso di interesse nominale valido in tutti i paesi membri. La BCE è un’istituzione indipendente dal potere politico e conservatrice, avente per obiettivo un tasso di inflazione inferiore – ma vicino – al 2%. Soltanto in via subordinata, quando questo obiettivo predominante sia soddisfatto, la Banca può perseguire altri obiettivi come l’occupazione e la stabilità finanziaria, che invece costituiscono obiettivi di pari dignità dell’inflazione per altre banche centrali, come la Federal Reserve statunitense. La BCE agisce da prestatore di ultima istanza per il sistema creditizio che abbia bisogno di rifinanziarsi, ma non può prestare – almeno direttamente – agli stati membri. Gli interventi che finora sono serviti ad attuare la politica monetaria sono in larga misura basati sull’acquisto (o vendita) di titoli pubblici già in essere. In questo senso, si può dire che la BCE può aver indirettamente facilitato il finanziamento pubblico.
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“A questo mondo si rassegna solo chi non
ha bisogno di fare altrimenti. La rassegnazione è la
filosofia di
chi non è obbligato a lavorare sempre col dubbio di
perdere il lavoro, a lottare sempre col dubbio di rimanere
sconfitto nella lotta, a dormire
sempre col dubbio di svegliarsi e di trovarsi affamati. La
rassegnazione è la filosofia dei soddisfatti. La ricchezza
fra gli altri vantaggi
che procura, procura anche quello della rassegnazione. Io
credo che se Lei da bambino avesse sofferta la fame e
l’avesse sofferta in compagnia
dei Suoi fratelli e della Sua mamma, se Lei dovesse vivere
sempre nell’incertezza del domani, se Lei dovesse vedere
davanti a sé sempre
la minaccia di vedere i Suoi figli soffrire la fame, come
Lei la soffrì quando era bambino, io credo che la
filosofia della rassegnazione non
sarebbe fatta per Lei….”.
Lettera
di Gaetano Salvemini
all’amico Carlo Placci del 15 giugno 1898.
Le premesse
“Oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese.” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista)
Il ’98 rappresenta, non solo a Milano ma in tutta Italia, il culmine di una crisi sociale e politica che per profondità, durata ed estensione ha indotto gli storici a qualificare tale periodo, riferendosi ai conflitti di classe e alle repressioni statuali degli anni ’90, attuate con il continuo ricorso allo “stato di assedio” e quindi all’intervento militare, come ‘decennio di sangue’. Quei conflitti avevano trovato la loro espressione, durante il biennio 1893-1894, nel movimento popolare dei Fasci siciliani, che alla protesta contro il fiscalismo e il dominio del latifondo univa la rivendicazione di terre da coltivare, e nel tentativo insurrezionale anarchico in Lunigiana.
Qualche giorno fa, Franco Calamida – che
proprio nei giorni del sequestro Moro fu tra i fondatori
di Democrazia Proletaria – ha ricordato come il terrorismo
sia stato “il nostro peggior nemico”. Dopo il massacro dei
cinque uomini
della scorta, “l’omicidio del leader democristiano, l’atto
irreversibile della sua morte trasformava l’oppressore –
l’uomo del potere – in vittima e, al contrario, chi si
affermava come vendicatore… diventava a sua volta
oppressore”, scrisse
all’epoca Ninetta Zandegiacomi (su Unità Proletaria,
giugno-luglio 1978). A partire dai ragionamenti “alti” di
Leonardo
Sciascia e Alberto Arbasino, fino all’ultimo improvvisato
“dietrologo” fuori tempo massimo, del rapimento e
dell’uccisione di
Aldo Moro non si è mai smesso di parlare, lungo questi 40
anni che ci separano dal tragico epilogo di via Caetani. In
questo intervento Roberto
Salerno fa giustizia dei tanti mediocri complottismi,
proponendo invece una riflessione sul ruolo transitorio e il
fragile potere di chi
temporaneamente ha “in mano le redini” delle strutture
statali [PalermoGrad].
* * * *
La mattina del 9 maggio del 1978 a due passi da Via delle Botteghe Oscure e a qualcuno di più da Piazza del Gesù venne ritrovato il corpo di Aldo Moro. Il presidente (dimissionario) della Democrazia Cristiana era stato rapito 55 giorni prima, il 16 marzo, da un gruppo formato da almeno dieci persone.
Per quanto queste due affermazioni possano sembrare – e siano – asettiche, persino su queste alcuni hanno avanzato dei dubbi e ci sono poche certezze. Per esempio sull’orario del ritrovamento ci sono varie incongruenze.
Disinnescare l'aumento dell'IVA o il "pilota automatico"?
Interrogato da un giornalista circa la possibilità che forze politiche contrarie all’austerità conquistino il potere in Italia, Mario Draghi – il governatore della Banca Centrale Europea – risponde nel 2013 che non c’è nulla da temere: “Il percorso di consolidamento fiscale proseguirà, come se fosse stato inserito il pilota automatico”. In buona sostanza, la realizzazione delle politiche dettate dall’Europa – dalle fatidiche riforme alla riduzione del debito pubblico – sarebbe impermeabile al processo democratico: l’austerità non può essere fermata.
Ricordare queste parole di Draghi può essere utile per iniziare a districare la matassa dell’attuale situazione politica italiana. Seguendo il filo rosso del pilota automatico, scopriremo che questa fase politica risulta meno complicata di quel che sembra. Le apparenze ingannano e, contrariamente a quello che si potrebbe pensare seguendo pedissequamente le concitate trattative di queste ore, solide certezze dominano l’orizzonte politico di quella che, sebbene tanto bistrattata, resta la terza potenza europea. Certezze che pesano circa 18 miliardi di euro, tenendo l’Italia saldamente ancorata al porto dell’austerità.
Qualcosa dev’essere scattato nelle teste di Salvini e Di Maio dopo aver sentito del famoso governo neutrale di Mattarella: saranno anche degli sprovveduti, ma quando hanno ascoltato pronunciare questo ossimoro, evocare questo mostro mitologico visto che i governi neutrali non esistono in natura, hanno subito capito che c’era aria di fregatura e così sono tornati a discutere sull’alleanza M5S- Lega. In realtà fare un governo non è esattamente nei loro interessi visto che dovranno gestire gli impietosi diktat della troika che sta col fiato sul collo del Paese, ma i due leader hanno compreso che lasciar fare avrebbe significato la loro personale disgrazia e quella delle forze che rappresentano.
E chissà magari su questa decisione può aver pesato l’intervista fatta un da quel vecchio marpione della razza padrona, Giuseppe Turani a un “importante banchiere” di cui non si fa il nome. Magari il personaggio evocato nemmeno esiste in carne ed ossa, ma si può essere assolutamente sicuri che le sue parole esprimono appieno le paure e il pensiero della classe dirigente nonché quelle dello stesso intervistatore. Dunque l’importante banchiere dice: “La mia prima preoccupazione è che Berlusconi non riesca a tenere a freno Salvini e che alla fine si faccia un governo Di Maio-Salvini. Sarebbe una catastrofe”.
Solo una cosa è sicura: a luglio non si vota. La mossa di Berlusconi – annunciare che non si oppone più alla nascita di un governo Lega-M5S, anche se non voterà la fiducia – ha come primo e per ora unico effetto quello di allungare i tempi. Salvini e Di Maio hanno fortemente voluto questa chance, consapevoli che altrimenti la loro carriera politica avrebbe cominciato a volgere sul viale del tramonto. Il grillino a causa delle regole interne del movimento (“massimo due mandati”, anche se con il voto anticipato si sarebbe fatto finta che questa legislatura non sarebbe mai esistita), il leghista perché sa benissimo di essere stato “spinto” soprattutto dalle tv berlusconiane (con Mediaset che sta rimuovendo o limitando, uno ad uno, i conduttori più fasciorazzisti, come Giordano, Del Debbio, ecc).
Un ruolo enorme lo ha avuto il presidente della Repubblica, che ha interpretato fino in fondo la parte del “guardiano dell’Unione Europea” (non certo della Costituzione, come pur pretende la visione liberal-kelseniana). Lo ha fatto proponendo un “governo neutrale” – un ossimoro, come “guerra umanitaria” – e facendo filtrare una lista di potenziali ministri scelta del non infinito recinto dei “tecnici ultra-europeisti”, a cominciare da Carlo mani-di-forbice Cottarelli.
Una minaccia che ha sortito l’ultimo effetto, costringendo i due “vincitori” del 4 marzo a smussare ulteriormente le proprie pretese e caratteristiche.
1. Si dice che Dagospia, talora, faccia eccessivo affidamento su voci e spifferi, ma, tendenzialmente, ha il pregio dell'essere tempestivo e completo quantomeno nel sintetizzare i rumors più diffusi; e ciò indipendentemente dalla loro attendibilità; e tale caratteristica non necessariamente coincide con la credibilità, comunemente intesa, che è una diversa attribuzione, propria delle notizie vere e proprie (su accadimenti già manifestatisi, ed oggetto dell'informazione giornalistica "convenzionale") e del taglio che si sceglie di dare ai fatti cui rinviano. Un'attendibilità che ben può attribuirsi alla dimensione del gossip indipendentemente dal suo fondamento fattuale. Il gossip, il "si dice", è credibile in quanto quantitativamente indicativo di un probabile e supposto andamento di fatti nonché in quanto diffuso da fonti, più o meno, direttamente coinvolte.
La fonte ideale del gossip - e che gli conferisce talora la dignità anticipatrice del vero e proprio "scoop!"- è infatti la "gola profonda" di watergatiana memoria. In ogni modo, la raccolta tempestiva di tali voci e l'abile individuazione di queste fonti è la ragione sociale, dichiarata dalla nascita, dell'ormai glorioso sito.
2. Ciò premesso, in contumacia di spiegazioni del reale più dettagliate, plausibili e esplicative, da Dagospia traiamo lo "stato dell'arte" del difficoltoso opus di ricerca di un accordo di governo tra centrodestra e M5S. Ne seleziono, riportandevoli, i passaggi che, a nostro modesto avviso, sono i più significativi.
La nuova bomba nucleare B61-12 – che gli Usa si preparano a inviare in Italia, Germania, Belgio, Olanda e probabilmente in altri paesi europei – è ormai in fase finale di realizzazione.
Lo ha annunciato il generale Jack Weinstein, vice-capo di stato maggiore della U.S. Air Force, responsabile delle operazioni nucleari, intervenendo il 1° maggio a un simposio della Air Force Association a Washington di fronte a uno scelto uditorio di alti ufficiali e rappresentanti dell’industria bellica. «Il programma sta andando estremamente bene», ha sottolineato con soddisfazione il generale, specificando che «abbiamo già effettuato 26 test di ingegneristica, sviluppo e volo guidato della B61-12».
Il programma prevede la produzione, a iniziare dal 2020, di circa 500 B61-12, con una spesa di circa 10 miliardi di dollari (per cui ogni bomba viene a costare il doppio di quanto costerebbe se fosse costruita interamente in oro). I molti componenti della B61-12 vengono progettati nei laboratori nazionali Sandia di Los Alamos, Albuquerque e Livermore (in New Mexico e California), e prodotti in una serie di impianti in Missouri, Texas, South Carolina, Tennessee.
Sono reduce
dall’Assemblea annuale del Network per il Socialismo
Europeo, il cui titolo, significativo, consisteva in un
domanda: “C’è futuro per la sinistra in Italia?” Devo
dire
che, alle volte, le risposte più significative ai grandi
quesiti derivano da impressioni e sensazioni, più che da
complessi
ragionamenti. E’ nel corpo vivo della militanza della politica
che si colgono i segnali di consapevolezza della situazione e
della
capacità di riscossa, dopo le sconfitte storiche. Da questo
punto di vista, la sensazione è quella di un mondo piuttosto
cristallizzato
su schemi tradizionali e speranze fideistiche. Nel suo
intervento, Giovanni Paglia rimanda ad un imprecisato lungo
periodo la speranza incrollabile di
una rinascita della sinistra, poiché le contraddizioni del
neo-capitalismo produrrebbero inevitabilmente, prima o poi,
una nuova forza di
sinistra. Si tratta evidentemente di un cascame di cultura
politica otto-novecentesca, che positivisticamente attribuisce
alla dinamica storica un
avanzamento in senso progressivo, scaturente dalle
contraddizioni intrinseche della struttura.
Quello che è evidente, invece, è che a protrarsi nel tempo, ed a rafforzarsi nelle fasi di ristrutturazione in senso regressivo del sistema, sono le istanze sottostanti le ragioni storiche della sinistra: la giustizia sociale, l’eguaglianza formale e sostanziale, la liberazione dallo sfruttamento e dall’alienazione dal modo di produzione. Ma non è affatto detto che tali istanza saranno, in futuro, rappresentate da una sinistra politica autonoma. Non è una disquisizione teorica.
Works di Vitaliano Trevisan e Ipotesi
di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi,
rispettivamente 2016 e
2017) sono due mémoires che, apparentemente, condividono
intento e impianto architettonico: raccontare una formazione
di scrittore attraverso
il resoconto cronologico dei lavori svolti. Addentrandosi in
queste due costruzioni, però, ci si accorge subito che
l’atmosfera che si
respira è profondamente diversa: le due opere a confronto
testimoniano, anzitutto, della faglia storica che le separa.
Vitaliano Trevisan è nato nel 1960, Giorgio Falco nel 1967. I due autori condividono, grossomodo, la classe sociale di provenienza, le prime esperienze lavorative (un lavoro estivo in fabbrica durante gli studi superiori), l’altezza cronologica dell’ingresso a tempo pieno nel mondo del lavoro — poco dopo l’esame di maturità, dopo una breve parentesi universitaria che si conclude per entrambi con l’abbandono degli studi.
Gli anni che li separano, però, sono anni cruciali. Trevisan inizia a lavorare a tempo pieno nel dicembre del 1979, Giorgio Falco (cercando di ricostruire la cronologia: i riferimenti temporali espliciti sono meno frequenti nel suo romanzo) all’incirca nel 1988: sono gli anni in cui il lavoro inizia a smaterializzarsi, si compie il passaggio dal capitalismo novecentesco al capitalismo flessibile di impronta sempre più marcatamente neoliberista, inizia a prendere forma il precariato cognitivo.
Guy Debord ha detto spesso che, più
di ogni altra cosa, egli si considerava come uno
«stratega». E, in effetti,
l'interesse che continua a suscitare, più di cinquant'anni
dopo la
pubblicazione della sua opera principale, La Società
dello Spettacolo, ha molto a che fare con la sua
capacità di ottenere con
uno sforzo minimo quello che si proponeva. In questo modo, è
riuscito a vincere la sua scommessa contro lo
«spettacolo» senza apparire sulla
scena, ed in modo che lo giudicassero indispensabile tutti gli
altri nemici
giurati dell'ordine esistente: Debord non si è mai esibito in
pubblico, non ha mai concesso alcuna intervista, non ha mai
scritto sulla stampa,
ha comunicato unicamente attraverso i mezzi che egli stesso
aveva scelto (la rivista Internazionale Situazionista,
i suoi libri, i suoi film,
promossi da produttori ed editori amici). In breve, era
inaccessibile.
Tutto questo ha contribuito al mito che era riuscito a creare intorno a sé stesso. Fino al suo suicidio nel 1994, ha saputo difendere la sua «cattiva reputazione» (il titolo del suo ultimo libro, del 1993) di sovversivo infrequentabile. È stato un caso pressoché unico. Tuttavia, subito dopo la sua morte, ha avuto inizio una diffusione del suo pensiero che ha sfiorato perfino la "panteificazione", e che ha fatto di lui un «grande autore francese», in generale a spese del contenuto sovversivo della sua vita e della sua opera.
Se nessuno si straccia le vesti – nell’establishment italico o a Bruxelles, e neanche sui mercati finanziari – per la formazione di un governo “populista-sovranista”, qualche motivo ci deve essere. Fino al 4 marzo l’ipotesi di un esecutivo addirittura formato da pentastellati e leghisti (gente che a Strasburgo aveva fatto gruppo comune con Nigel Farage o Marine Le Pen) evocava gli spettri del crollo di fiducia internazionale nell’Italia, con conseguente decollo verticale dello spread, fuga dei capitali, minacce da parte della Troika, ecc. Ora nulla, calma quasi piatta, curiosità “etnologica”, ma nessuna preoccupazione seria.
Cos’è accaduto?
A noi sembra evidente che il punto decisivo non sia stato affatto il “passo di lato” di Berlusconi. O meglio, ci sembra che quel passo sia stata la conseguenza di un livello di assicurazioni fortissimo verso i poteri sovranazionali cui l’ex Caimano aveva giurato nuova fedeltà, stringendo un forte accordo con Angela Merkel. Come se qualcuno avesse deciso – lassù – che ora ci si poteva fidare di quella strana coppia, così simile al repertorio degli stereotipi (il settentrionale ganassa e volgare, il meridionale tutto chiacchiere compite che dicono tutto e il contrario di tutto, a seconda dell’interlocutore).
Le dichiarazioni del Presidente Sergio Mattarella di lunedì ultimo scorso hanno dimostrato ancora una volta come si possano “guidare” le consultazioni per il nuovo governo attraverso il copione dei “mandati esplorativi”, già collaudato da Giorgio Napolitano nella scorsa legislatura. Se Mattarella avesse immediatamente attribuito l’incarico dapprima a Salvini e poi eventualmente a Di Maio, essi avrebbero potuto acquisire credibilità per quel minimo di fatto compiuto che l’incarico costituiva. Non c’era inoltre nulla di incostituzionale nel consentire a governi minoritari di presentarsi in parlamento a cercare voti; anzi, sarebbe stata questa la logica di una repubblica parlamentare.
Anche nel caso di fallimento di entrambi i presidenti incaricati, il tutto si sarebbe consumato in un lasso di tempo tale da consentire di indire le nuove elezioni entro giugno. Ma è molto improbabile che un parlamento direttamente interpellato si sarebbe messo nelle condizioni di farsi sciogliere appena insediato.
La tattica delegittimante di Mattarella, condita da perdite di tempo con il pretesto di dare tempo ai partiti, ha creato artificiosamente una situazione di emergenza, tenendo il parlamento sotto il ricatto di elezioni in estate e dell’urgenza di una legge finanziaria che debba scongiurare l’aumento automatico dell’IVA a gennaio.
Israele continua a colpire in Siria, Paese alleato della Russia e in cui Vladimir Putin ha investito soldi, uomini e buona parte della sua politica estera. L’ultimo attacco, quello di stanotte, ha visto bersagliata dai jet israeliani una base a sud di Damasco considerata un deposito di missili iraniani o di Hezbollah. Le notizie sono ancora poche e contraddittorie. Ma Israele non ha negato di aver realizzato il raid. E anche questa volta, ci sono stati dei morti.
Dopo questo radi, la domanda che tutti iniziano a porsi è perché Putin non reagisce. Israele, così come l’Occidente nell’ormai noto attacco alle basi siriane ritenute coinvolte nel presunto arsenale chimico di Bashar al Assad, colpisce ormai da mesi in territorio siriano. Prima con cautela. Adesso quasi a voler dimostrare di poter agire indisturbato. E ci si domanda perché Mosca, alleato fondamentale di Damasco, non attivi più i suoi sistemi di difesa aerea né tuoni, come faceva prima, contro i recenti raid di Tel Aviv.
La questione in realtà è molto più profonda di quanto possa sembrare. E la Russia, in particolare Putin, si trova a dover affrontare un momento estremamente delicato in cui si innescano strategie e rapporti internazionali potenzialmente conflittuali. È un tempo di scelte che la guerra al terrorismo aveva rimandato, ma che adesso, con la fine dello Stato islamico, stanno lentamente tornando a galla. E Mosca deve decidere, controvoglia, da che parte stare.
L'altro giorno Matteo Orfini ha affermato che M5S e Lega sono “antitetici alla sinistra”. Se ciò che il buffo presidente del Partito Democratico intendeva indicare con la parola “sinistra” sono le politiche praticate da tutte le varianti del centrosinistra dell’ultimo ventennio (cioè dei governi di Romano Prodi, passando per il sostegno al governo Monti, fino agli ultimi governi guidati da Renzi e poi da Gentiloni) c’è solo da preoccuparsi ed attrezzarsi per avversarla e combatterla questa “sinistra”, perché è esattamente quella cosa che ha prodotto la più grande e grave soppressione diritti sociali degli ultimi settant’anni nel nostro pase.
Ma eccola là la nuova frontiera della “sinistra” europea, il paradigma greco che ora viene agitato come modello per l’Italia e gli altri “Pigs”: “La crescita della Grecia ha doppiato quella dell’Italia” titola il renzianissimo Linkiesta.
A che prezzo? Un punto di PIL in più in cambio di milioni di persone che non arrivano nemmeno alla metà del mese, che non vengono più curate e che vengono buttate fuori dalle loro case ipotecate da banche tedesche e francesi.
Se un tempo l’oggetto della parola “sinistra” era il “popolo”, le sue aspirazioni di uguaglianza, emancipazione e riscatto, ebbene, oggi, seguendo la lezione di Saussure o di un Lacan, non possiamo fare a meno di osservare che la parola “sinistra” nel linguaggio comune, è ridotta ad un significante vuoto, perché priva ormai di una qualsiasi relazione con il contesto storico e simbolico che ne ha determinato il significato per circa un secolo e mezzo.
Vladimir Ilic Lenin: Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, Il Saggiatore, Milano, 2017, pp.521, ISBN 9788842823605
Curato e introdotto da Vladimiro Giacché, questo volume è un importante contributo allo studio e all’analisi di quel primo rilevante «processo di apprendimento» (Losurdo) del movimento comunista che è stata la costruzione della repubblica dei soviet, seguita all’esplosione rivoluzionaria dell’ottobre 1917. Vengono raccolti 67 testi economici del dirigente e rivoluzionario bolscevico, chiamato a governare l’immenso Stato russo in una situazione di profonda arretratezza dovuta ai rapporti sociali semifeudali dominanti e aggravata da anni di guerra imperialista. I tre capitoli del libro raggruppano gli scritti dedicati rispettivamente alla fase iniziale della costruzione socialista, al «comunismo di guerra» e alla Nuova politica economica.
La prima parte, che inizia con l’appello Ai cittadini di Russia, con il quale il nuovo governo annunciava la fine del potere zarista, passa in rassegna i provvedimenti economici immediatamente successivi alla conquista del potere, come i decreti sulla pace e sulla terra, sul controllo operaio della produzione industriale, sulla nazionalizzazione delle banche.
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Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito, in
materia fiscale, ad una tendenza univoca molto chiara: lo spostamento
del carico fiscale dai più
ricchi ai più poveri e dai redditi di capitale ai
redditi da lavoro. Questa tendenza è stata accompagnata da una
sempre più
sofisticata capacità di evasione ed elusione fiscale da parte
dei redditi da capitale, in particolare i grandi capitali che
possono essere
esportati, legalmente o illegalmente, all’estero. In estrema
sintesi: i lavoratori e i soggetti meno abbienti pagano sempre
più imposte,
i capitali e i soggetti più ricchi ne pagano sempre meno. Un
dibattito politico ed economico fortemente impoverito,
tuttavia, colpevolmente
ignora questi aspetti: ad essere oppressi dal carico fiscale
sarebbero esclusivamente solerti imprenditori, scoraggiati dal
“fare impresa”
e generare ricchezza per tutti da uno Stato oppressore e
sanguisuga.
Proviamo a fare chiarezza ed un po’ di pulizia. Tra i temi più evocati nel dibattito politico e giornalistico di questi giorni un posto d’onore spetta senza dubbio all’IVA, l’imposta sul valore aggiunto. Se ne paventa un aumento a decorrere dal 2019 e i partiti politici si affannano a capire come poter scongiurare questo evento, previsto dalla clausola di salvaguardia presente nella legge di bilancio dall’ormai lontano luglio 2011. Secondo tale clausola, l’aumento dell’IVA scatta automaticamente nel momento in cui non si sono raggiunti gli obiettivi di contenimento del deficit previsti dalla Commissione europea. Ma procediamo per gradi.
A quarant'anni dalla morte di Aldo Moro, "Maelstrom" ripropone la lettura di un libro di Fausto Colombo
I posteri risponderanno forse alla
domanda se Nanni Moretti sia davvero un grande regista, o
– come voleva Mario Monicelli – soltanto un epigono, neppure
troppo originale, della commedia all’italiana. Al di là di
ogni
rilievo stilistico, anche i suoi più spietati critici non
possono però negare al cineasta romano un fiuto formidabile
nel saper cogliere
le tendenze della società, le trasformazioni culturali, il
mutamento nei costumi, proprio come i migliori esponenti della
commedia
all’italiana degli anni Sessanta. Se il cinema di Monicelli e
Risi prendeva di mira in prevalenza i ‘tic’, le ambizioni e i
complessi di una piccola borghesia investita dal boom, il
bersaglio privilegiato del regista romano è invece costituito,
fin dai suoi primi
film, dalla media borghesia intellettuale della capitale: un
gruppo sociale piuttosto ristretto, autoreferenziale, a suo
modo estremamente
provinciale, ma ciò nondimeno straordinario punto di
osservazione, proprio perché all’interno di questo gruppo
possono essere
osservate – come in una sorta di incubatrice – tutte quelle
deformità che negli anni seguenti si ritroveranno, amplificate
fino
all’oscenità, nell’intera società italiana. Alcune memorabili
sequenze di Io sono un autarchico o di Ecce
bombo rimangono da questo di vista quasi inarrivabili, e
diventano una sorta di documentario anche perché vi si possono
talvolta persino
scorgere i reali protagonisti di quello zoo intellettuale.
Alcuni momenti di Palombella rossa, Caro Diario
e Aprile non perdono
nel tempo le loro efficacia, nell’esibire i tormenti – ormai
non più giovanili – di quel medesimo teatrino, ma sono
probabilmente alcune delle scene di Bianca a mostrare
la sensibilità con cui il regista romano riesce ad afferrare
lo Zeitgeist, forse
prima ancora che si sia compiutamente dispiegato.
Parla Marx
Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate — virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. — tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore. (Miseria della filosofia, Cap. I §1, 1847, M. ha 29 anni.)
A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come un’immane raccolta di merci [...]. (Per la Critica dell’Economia Politica, Incipit, 1859, 41 anni.)
La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una «immane raccolta di merci» [...]. (Il Capitale, Incipit, 1867, 49 anni.)
Una teoria che ha funzionato, cioè predittiva
• Una definizione e una previsione
Possiamo leggere questi tre brani, nei quali il Marx giovane e quello maturo si tengono perfettamente, come una definizione della società capitalistica: è quella dove la merce dilaga e come una previsione: tutto diventerà merce. Va realisticamente preso atto che la previsione si è avverata e continua a farlo ed è propria di Marx.
• La merce
Cos’è una merce? Nella sua forma compiuta ed esplicita è qualcosa che si può portare liberamente al mercato e liberamente comprare: cose, servizi, animali, uomini ecc. (ilportare al mercato a volte non è fisico, es. gli immobili).
Da poco ripubblicato “La tirannia della valutazione” della filosofa francese Angélique Del Rey: un testo intrigante che vede nella valutazione uno strumento di potere e critica il mito dell'oggettività. Ma il libro ha il grosso limite di un discorso troppo radicale: non è possibile retrocedere alla “vecchia” idea di valutazione o all’educazione autoritaria del passato, né rinunziare del tutto a pratiche di monitoraggio. È difficile immaginare modelli alternativi, ma se ne avverte un gran bisogno.
A partire dall’introduzione della customer satisfaction fino all’attuale protagonismo di istituti per la valutazione come l’ANVUR o l’INVALSI, l’idea di misurare, calcolare, comparare, diagnosticare qualunque aspetto della vita pubblica e privata, costituisce quello che Marcel Mauss avrebbe definito un “fatto sociale totale”. Indagando l’ansia valutativa che caratterizza questa fase malinconica del post-fordismo, possiamo davvero comprendere molto di noi stessi e della cultura in cui siamo immersi. Un’analisi importante da sviluppare, ma che esige una certa prudenza intellettuale.
La filosofa francese Angélique Del Rey ha scritto un libro intrigante, forte e capace di proporre una lettura chiara di questo fenomeno. Nel volume intitolato La tirannia della valutazione, appena ripubblicato da Eleuthera (20182), l’autrice raggiunge alcuni importanti traguardi analitici, salvo poi eccedere in alcuni passaggi, inebriata dalle proprie stesse intuizioni.
Lo ripeto per non essere frainteso: tutti coloro che si immaginano che la deriva liberale del Pd abbia come attore fondamentale Matteo Renzi si sbagliano e dimostrano di non avere quella minima conoscenza dei fatti che in politica è indispensabile. La deriva liberal-liberista data dalla fine del Pci e, più precisamente, data dall’ascesa di M. D’Alema.
Per chi volesse annoiarsi a ripercorrere solo la cifra culturale di questa impresa che ha traghettato il più grande partito comunista dell’Occidente nel vasto arcipelago del “moderno” liberalismo (evitando accuratamente di transitare per qualsivoglia forma di socialdemocrazia), rimando ad un libricino che ho scritto, figurarsi, nel lontano 2008 (La fine del liberismo di sinistra, 1998-2008, Firenze, Il Ponte).
Quando si è consumata la scissione del Pd, che poi ha dato vita a quella che sarebbe diventata Leu, cioè poco di più del solito cartello elettorale di “sinistra unita e plurale” che tante sconfitte ha accumulato in questi anni, ho scritto nero su bianco ciò che non potevo non scrivere. E cioè che il tentativo di D’Alema e di Bersani non aveva la minima credibilità: appunto perché proprio loro sono stati protagonisti della svolta “liberal” del movimento dei lavoratori un tempo del Pci.
Di fronte agli abusi del Quirinale dove sono i costituzionalisti?
E Mattarella di qua e Mattarella di là. A leggere i giornali sarà lui a decidere il presidente del consiglio, a mettere il becco sul nome di ogni ministro, a porre veti e suggerire promozioni. Il tutto a garanzia dei poteri oligarchici - nazionali ed europei - che hanno ridotto il Paese nella condizione in cui si trova. Detto in breve, questi poteri affidano a Mattarella il compito di rovesciare l'esito democratico delle elezioni del 4 marzo. E l'interessato è ben lieto di svolgere questo servizio, altro che garante della Costituzione!
Se questo tentativo passasse la stessa controriforma renziana, seppellita nelle urne del referendum del 2016, parrebbe quasi una roba da ragazzi. Ecco perché è scandaloso - lo sottolineamo, SCANDALOSO - il silenzio dei tanti costituzionalisti che dissero di no due anni fa e che oggi invece tacciono.
Che faranno di fronte alla protervia presidenziale Di Maio e Salvini? Se dire no a Mattarella è dovere di ogni democratico, per i due che si accingono a formare il nuovo governo la questione è dirimente. Più esattamente è una questione di vita o di morte. Un governo che nascesse sotto la tutela del Quirinale, e quindi dell'Unione Europea, della Nato, delle banche, degli stessi poteri bocciati dagli elettori, nascerebbe infatti già morto.
Temo che di fronte allo scenario politico che si sta delineando le due reazioni piu diffuse - quella del pop corn e quella dell'anatema - siano ugualmente idiote.
La prima è anche infame: se si pensa che quello in costruzione sia il peggior governo possibile e che porterà il Paese allo sfascio, sedersi in poltrona a godersi lo spettacolo (come se la posta in gioco non fossimo tutti noi!) è semplicemente da delinquenti.
Anche l'anatema, in sé, non porta lontano.
Sia chiaro: la critica politica dei nuovi potenti è e sarà indispensabile (senza critica non c'è democrazia) e non c'è bisogno di aspettare il giuramento per aspettarsi poco di buono - ad esempio - da un eventuale Salvini al Viminale: altro che numero identificativo dei poliziotti sulla divisa, altro che garanzie umanitarie e legali per i richiedenti asilo, e così via.
Ma, detto questo, non è certo con l'anatema che si smuove l'egemonia culturale, che si modificano i consensi, e tanto meno così si delinea uno scenario migliore.
Anzi, l'anatema ha spesso l'effetto opposto, specie se a lanciarlo sono quelli che avendo comandato il vapore fino a ieri sono i principali responsabili del suo naufragio sugli scogli.
Ad esempio, questa mattina leggevo sul Foglio un editoriale che ha dell'incredibile - e sia detto senza alcun attacco personale al suo autore.
Alain Badiou, Trump o del fascismo democratico, Meltemi, 2018, pp. 72, € 9,00
La vittoria di Trump suscita depressione e paura. Inutile nascondersi dietro raffinate analisi politiche. Alain Badiou, filosofo comunista, autore di numerosi pamphlet sull’attualità politica, nei giorni immediatamente successivi all’elezione del presidente USA tiene due conferenze negli Stati Uniti che si trasformano in un commento a caldo sul nefasto evento. Il compito che il filosofo si pone da subito è quello di superare il comprensibile sgomento per studiare a mente fredda la situazione politica che ha consentito una vittoria per certi versi così sconcertante. Il risultato è un ragionamento al tempo stesso semplice e denso, un’analisi di fase a tutto tondo che va ben al di là delle vicende elettorali americane. II tutto disponibile nel breve testo Trump o del fascismo democratico.
Secondo Badiou sono quattro le condizioni fondamentali che guidano la dialettica dell’attuale fase storica: il dominio strategico del capitalismo globale, la crisi della tradizionale oligarchia politica borghese, il disorientamento e la frustrazione delle persone, la mancanza di una direzione strategica alternativa. Oggi per l’élite borghese non è necessario sostenere che il mondo attuale è migliore di tutte le possibili alternative, ma è sufficiente affermare che è l’unico possibile. There is no alternative.
1. Inutile ripetere le osservazioni e le analisi di ordine costituzionale che, nel post precedente, e nei relativi commenti, hanno già puntualizzato come ci si trovi di fronte ad una situazione istituzionale "inedita", cioè, nonostante il richiamo a pallidi precedenti storici einaudiani, mai verificatasi prima nella storia della Repubblica.
Il messaggio ampiamente concertato dai media - che registri o meno con esattezza le indicazioni comunque più volte esplicitate dal Quirinale- sarebbe quello che il primato del vincolo esterno, cioè dell'adeguamento ordinamentale italiano all'indirizzo politico derivante dai trattati Ue e dell'adesione alla moneta unica, sarebbe tale da prevalere incondizionatamente sulle indicazioni date dai risultati elettorali; ciò da un lato, renderebbe legittima un'intensa ingerenza del Capo dello Stato sulla scelta dello stesso premier (limitando ulteriormente le già di per se stesse difficili possibilità di accordo tra i partiti interessati) e, addirittura, dei singoli ministri, dall'altro, farebbe emergere un ruolo presidenziale di filtro "a tutto campo" sulla legittimità costituzionale dei futuri provvedimenti legislativi di un governo, evocandosi, come parametro principale, se non sostanzialmente unico, quello del nuovo art.81 Cost.
Il libro
di Jean-Claude Michéa è
del 2017 e come corrisponde alle consuetudini dell’autore si
compone di un breve testo in forma di intervista e di alcuni
“scoli”
che ritornano sui temi affrontati, approfondendoli in percorsi
paralleli. Lo scopo del testo è sviluppare una serrata critica
della confusione
tra la logica del liberalismo, individualizzante e figlia di
un universalismo astratto e razionalismo totalitario, e quella
del socialismo, resistente
alla riduzione dell’uomo a macchina di valorizzazione e
desiderio subalterno e della comunità umana alla mera somma
delle sue parti. Lo
scopo è, in altre parole, aiutarci a “recuperare il tesoro
della critica socialista originaria”. Ciò lavorando sia sulla
tradizione che ci viene da Marx come da quella che scaturisce
dalle altre fonti del pensiero socialista, come Proudhon, per
il quale spende alcune
belle pagine.
Ancorandosi alla lettura di Lohoff e Trenkle, e la loro “critica del valore”, Michéa sostiene che il problema di questa divergenza è molto profondo, che, cioè, c’è una coerenza radicale tra la società dei consumi, il modello umano che crea, e la spinta interna necessaria di ogni economia che sia liberale di orientarsi alla mera valorizzazione illimitata del capitale. L’estensione all’infinito del processo di valorizzazione del capitale determina necessariamente quello che Michéa chiama “il regno dell’assolutismo individuale” e quindi la perdita continua e progressiva di tutti valori tradizionali. Questi per l’autore sono organizzati da una logica di reciprocità che Mauss ha indentificato con il triplice legame del “dono”; una ‘istituzione totale’ che sta alla radice del legame sociale: un legame in cui l’attesa obbligante di restituire non soggiace ad una metrica astratta, quella del ‘valore’, ma fonda proprio nel legame che crea.
Nelle
more di nuovi articoli, e in altre faccende scrittorie
affaccendato,
ricevo e pubblico volentieri il contributo di un amico,
lettore e commentatore del blog, Tom Bombadillo. Si
tratta della recensione di un film
di grande successo proiettato in questi giorni anche in
Italia. Nel rilevare un cambio di paradigma nella
cinematografia di intrattenimento americana
- e quindi globale - l'autore registra l'emersione anche
subliminale di temi bioetici e biopolitici che
sembrano destinati a occupare sempre
più spazio nel mainstream, oltreché nei commenti della
cronaca. Nella trama del nuovo cult della Marvel-Disney
l'idea di una "igiene del
mondo" che lo renda più sostenibile ed equo, di un'umanità
di troppo di cui ci siamo già
occupati in altro modo sul blog, si insinua nella
riflessione degli spettatori giovandosi di una dialettica
morale inedita dove il male si
contamina con il bene, diventa bene superiore e si veste da
ragion di Stato, qui anzi dell'Universo.
Non abbiamo mai scritto in queste pagine di sovrappopolazione, pur sapendolo un tema molto caro ai sovrani del nostro tempo: letteralmente e non. Né saremmo in grado di farlo con competenza, salvo osservare in punto di metodo una curiosa convergenza: tra i messaggi apocalittici di una denatalità che renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni - da cui la prescrizione di imbarcare carne umana dal Terzo Mondo, quella che "ci pagherà le pensioni" - e i messaggi apocalittici di un'esplosione demografica che... renderebbe insostenibili gli standard di vita odierni. E condividere con i lettori la sensazione, netta, che in un regime di riduzione e selezione eugenetica delle vite umane non saremo noi a dettare i tempi, i modi e i numeri dell'austerità biologica, come già oggi di quella fiscale.
Né chi ce li impone, come già oggi, a subirli [il pedante].
“Qui comando io”. La trasformazione di Sergio Mattarella, da mite notaio delle istituzioni in decisore di ultima istanza delle sorti del paese, si è consumata in pochissimi giorni.
Prima ha rotto il cincischìo dei “tre poli” incapaci di formulare una maggioranza di governo, avanzando esplicitamente la formula del “governo neutrale”, con tanto di nomi ultra-tecnici fatti circolare nel sistema mediatico.
Ieri ha definitivamente messo da parte ogni cautela per avanzare una originale rivisitazione dei poteri del Capo dello Stato, in senso marcatamente autoritario. Lo ha fatto a Dogliani, residenza abituale di Luigi Einaudi, il secondo a ricoprire la carica nell’era repubblicana, economista liberale di fama internazionale, ex governatore della Banca d’Italia e ministro delle finanze (del Tesoro e del Bilancio, contemporaneamente), nel quarto governo De Gasperi. Un “super-tecnico”, non a caso; un Ciampi accademicamente molto più considerato.
Ma Mattarella non si è affatto limitato a magnificare il ruolo di un presidente di 70 anni fa, ma ha voluto evidenziare alcuni passaggi decisivi di quella presidenza che oggi diventano la sua stella polare nell’affrontare questa crisi politica.
Ha messo infatti in fila quattro concetti che cambiano radicalmente il suo del presidente:
Se il diavolo (o un qualche messia, secondo i gusti di chi legge) non ci mette lo zampino, ovvero se i due “capi politici” non romperanno sul premier, se Mattarella non bloccherà la lista dei ministri, oppure ancora se la prospettiva di essere stato riabilitato non spingerà Berlusconi a tentare il colpo delle elezioni anticipate, avremo quindi un governo “populista” e “sovranista”, un unicum in Europa occidentale, una minaccia per la democrazia, per l’euro, per i conti pubblici, per la collocazione internazionale dell’Italia. Un governo privo di esperienza, di cultura politica, di una prospettiva per il Paese. Una sciagura apocalittica, decifrabile solo con l’ipotesi che gli italiani siano ammattiti, o ingannati per anni da media antisistema.
Tutti i centri di potere europei sono pronti, col fucile puntato, a inchiodare gli usurpatori al primo errore. Tutti i media dell’establishment fanno a gara nel delegittimare il governo non ancora nato, nel prevedere le terribili rappresaglie a cui lo sventurato Paese andrà incontro, nel ripercorrere sdegnati il mare di menzogne e di cambiamenti di rotta che i partiti di governo hanno ammannito agli italiani nei due mesi di trattative, stanati solo dalla mossa vincente di Mattarella.
La Costituzione (articolo 87) dice esplicitamente che il presidente della repubblica è “il capo dello Stato” e rappresenta “l’unità nazionale”: concetti ormai incomprensibili per i liberisti di destra e di sinistra, da anni impegnati nella dissoluzione dello Stato e dell’idea di nazione per lasciar campo libero alle multinazionali private. Infatti il presidente scelto da Renzi e Berlusconi sull’argomento è stato esplicito: non riuscendo a imporre il suo governo “neutrale” (la frase seguente spiega bene quale sia la sua idea di neutralità) si è raccomandato, lo cita con grande evidenza La Repubblica, di “avviare una riscoperta dell’Europa come di un grande disegno sottraendosi all’egemonia di particolarismi senza futuro e di una narrativa sovranista pronta a proporre soluzioni tanto seducenti quanto inattuabili”. Puro liberismo globalista, sia nella rinuncia forzata alle specificità locali e nazionali (spacciati come “particolarismi”) sia nella retorica consunta della impossibilità storica di qualunque soluzione (“inattuabile”, “senza futuro”) che, pur interessante e gradita alla gente (“seducente”), non piaccia ai poteri forti dell’economia; per non parlare della ridicola attribuzione dell’“egemonia” non a chi davvero la esercita (il neocapitalismo planetario e il suo pensiero unico) ma a chi faticosamente cerca di opporsi a esso e di indicare modelli alternativi. È tipico dei democristiani essere passati dalla fede nella Provvidenza (Dio lo vuole) alla fede nella finanza (lo vuole il Mercato).
Una riflessione di Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise, sulle prospettive politiche e sui rapporti internazionali che si possono creare a partire dall’appello di Lisbona per una “rivoluzione democratica” in Europa. Traduzione, a cura di Andrea Mencarelli, dell’articolo originale pubblicato su: https://melenchon.fr/2018/05/02/europe-et-maintenant-le-peuple
La France Insoumise ha firmato una breve manifesto con Podemos e Bloco de Esquerda in Portogallo dal titolo “Et maintenant le peuple”, “Ahora el pueblo”, “Agora o povo” [“E ora il popolo”, ndt], che sarà senza dubbio il nome comune delle nostre liste in tutti i paesi possibili. L’idea è di fondare un nuovo movimento politico in linea con i grandi cambiamenti che alla fine hanno modificato il volto della cosiddetta sinistra, prima con la caduta del Muro e poi con la dissoluzione della socialdemocrazia nel liberalismo sociale. È necessario farlo per affrontare le sfide sollevate dall’attuale violenta agonia dell’Unione Europea. Il manifesto propone di voltare pagina al neoliberismo e di uscire dagli attuali trattati. In breve, una chiara linea d’azione per il prossimo decennio.
Immediatamente, il quotidiano Le Monde, senza neanche avere il testo definitivo in mano, ne ha fatto carta straccia, che poi è girata in bocca a tutti gli altri media. Così funziona questa società popolata da quello stesso tipo di pigri che non lavorano sul testo, ma copiano ciò che conviene ai loro pregiudizi. Piuttosto che concentrarsi sulla novità e su che cosa significa, Abel Mestre di Le Monde, desideroso di andare in vacanza, ha preferito parlare a vanvera sulle differenze tra i firmatari! E, naturalmente, la divergenza si sarebbe concentrata su un “dettaglio”… l’uscita dai trattati, pertanto il “giornalista” ignora che questa figurava come l’asse portante in ogni singola parola nel testo finale che non aveva letto.
Il primo capitolo del Manifesto del Partito Comunista, pubblicato nel 1848, comincia con le seguenti parole famose: «La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.» Ancora oggi, il primo concetto che una grande maggioranza di persone associa al nome di Karl Marx è sicuramente quello di «lotta di classe». La lotta di classe evoca immediatamente il proletariato, soprattutto quello di fabbrica. Esistono delle letture dell'opera di Marx che, pur insistendo sulla sua attualità, privilegiano degli aspetti diversi rispetto a quelli che vengono solitamente evocati. Per molto tempo, tali approcci si sono concentrati sulla questione dell'«alienazione» - una tematica sviluppata soprattutto nelle opere giovanili di Marx. Si tratta quindi di non denunciare solamente lo sfruttamento economico, bensì la globalità delle condizioni di vita create dal capitalismo.
«Segreto», «misterioso», «geroglifico» A partire da alcuni decenni, è stato assai spesso il concetto di «feticismo delle merci» ad aver catturato l'attenzione dei marxisti critici. Quest'espressione viene sovente usata nel discorso ordinario, ma solamente per riferirsi, in maniera vaga, ad una sorta di eccessiva adorazione degli oggetti prodotti, e riguarda piuttosto la psicologia del consumatore. In Marx, il termine di «feticismo» ha un significato molto più ampio e assai più profondo. Dei riferimenti al feticismo, li possiamo trovare in tutta la sua opera, a partire da tutti i suoi primi articoli.
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