Qual è, tra gli altri, il fattore forse
decisivo della popolarità del pensiero e dell’opera di Gramsci
presso un vasto pubblico,
che va ben al di là della ristretta cerchia degli studiosi e
consente di parlare di una sorta di “ricezione di massa” della
sua
elaborazione? Qual è insomma “il segreto” della sua “egemonia”
- relativa, certo - tra i pensatori politici della
contemporaneità?
Certamente l’onda lunga della salvaguardia e valorizzazione del suo contributo teorico, dovuta in primo luogo a Palmiro Togliatti, al Pci, alle sue strutture di ricerca e ai suoi intellettuali, è tuttora alla base di questo successo, costituendo una sorta di rivincita postuma, a 25 anni dalla Bolognina, rispetto alla sciagurata liquidazione di quel grande partito.
Ma il motivo determinante mi pare stia proprio nella natura del pensiero di Gramsci che, più che come teorico della “rivoluzione in Occidente”, può essere definito un teorico della complessità dei processi di transizione, e dei processi di transizione in società complesse, articolate, più o meno avanzate. In questo senso la sua elaborazione costituisce davvero una pagina decisiva nell’evoluzione del marxismo; è tutta interna a quella concezione del mondo e della storia, e ne rappresenta - direi al pari del pensiero di Lenin - uno sviluppo fondamentale nel XX secolo.
Il
Presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha recentemente dichiarato
che mantenere l’età pensionabile a 67 anni, anziché alzarla a
70, come requisito di pensionamento comporterebbe un costo di
141 miliardi che metterebbe a serio rischio i conti
dell’ente
pubblico. La dichiarazione è da leggere
congiuntamente alle proposte in discussione alla Commissione
Affari Costituzionali della
Camera di modifica dell’art. 38 della Carta costituzionale in
materia di diritto alla pensione. Tra le varie proposte vi è
quella firmata
dai deputati Pd che precisa che “il sistema previdenziale è
improntato ad assicurare l’adeguatezza dei trattamenti, la
solidarietà e l’equità tra le generazioni nonché la
sostenibilità finanziaria”.
Siamo dunque tornati a parlare di pensioni, e ne parliamo seguendo l’ormai logora logica dell’austerità, quella che subordina la garanzia dei diritti ad una presunta sostenibilità finanziaria e che, camuffata da una fasulla solidarietà intergenerazionale, si appresta a definire la base ideologica per l’ennesimo giro di vite regressivo del nostro sistema pensionistico.
È negli Ottanta che si gettano le basi per la distruzione economica del nostro Paese. Tuttavia, quella che oggi viene descritta dai media mainstream come le causa di tale sfascio – l’esplosione del debito pubblico, frutto avvelenato della deriva clientelare dei partiti della Prima Repubblica – appare ad uno sguardo meno superficiale l’effetto di ben altre scelte politiche, che presero forma tra il 1979 e il 1981.
Nell’aprile 1979, malgrado l’opposizione del Partito Comunista (si rileggano gli interventi di Giorgio Napolitano e Luigi Spaventa), i dubbi di economisti keynesiani come Federico Caffè e le riserve della Banca d’Italia di Paolo Baffi, la maggioranza del parlamento italiano decise di votare a favore dell’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo (SME), il primo sistema a cambi fissi tra le valute europee, antesignano dell’euro. Nello specifico, il cambio della lira poteva oscillare al di sopra o al di sotto del 6% rispetto a un parità prefissata con le altre valute europee (questa margine si assottiglierà fino al 2,5% dal 1990). Data la maggior inflazione registrata nel Paese rispetto ai maggiori concorrenti europei, la competitività dell’industria italiana si deteriorerà per tutto il decennio. Le esportazioni di merci non terranno il passo delle importazioni, e si accumulerà un deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti.
Fra i vari attacchi che sta subendo Maduro, il più particolare è la “letteratura” che lo accusa di stare tradendo il suo predecessore Chavez: oppositori che appoggiarono il colpo di Stato del 2002 piangono per difendere la costituzione Chavista che starebbe per essere stravolta, fini commentatori esteri che analizzano con rigore scientifico come le politiche di Maduro (e il suo minore carisma) abbia no deluso i settori popolari venezuelani, la vera base della Rivoluzione Bolivariana, tanto da isolarlo rispetto a quelli che dovrebbero essere i suoi sostenitori. La validità di queste accuse è constatabile dal fatto che sono esattamente le stesse accuse che gli stessi oppositori muovevano a Chavez 15 anni fa. Fra i sostenitori del golpe vengono poi arrestati anche Lopez e Lodezma, i due oppositori che ora tutti piangono perché sono stati ritradotti in carcere dopo avere violato le condizioni per gli arresti domiciliari (quelle molto semplici di non incitare alle violenze).
La storia dimenticata
Nella notte tra l’11 e il 12 Aprile 2002, quindici anni fa, aveva luogo il colpo di stato della destra venezuelana contro l’allora presidente Hugo Chavez.
In diretta nazionale a reti unificate, il generale Lucas Rincòn annunciava che il presidente Chavez era stato prelevato nella notte dal palazzo presidenziale di Miraflores e condotto in un luogo sicuro, e che avrebbe accettato di sottoscrivere la rinuncia al suo ufficio.
Italia-Israele. Acquistato nel 2012 nel quadro di un accordo di cooperazione militare tra Roma e Tel Aviv
È stato lanciato ieri dalla Guyana francese, con un razzo Vega (nella foto) dell’Agenzia spaziale europea costruito in Italia dalla Avio, il satellite Opsat-3000 del ministero della Difesa italiano. Il satellite non è però italiano, ma israeliano. È stato acquistato nel 2012 nel quadro di un accordo di cooperazione militare tra Roma e Tel Aviv, in base al quale Alenia Aermacchi (azienda di Finmeccanica, ora Leonardo) ha fornito a Israele 30 velivoli militari da addestramento avanzato M-346 e le Israel Aerospace Industries hanno fornito all’Italia l’Opsat-3000 e un primo aereo G550 Caew (vedi il manifesto, 31 luglio 2012).
L’Opsat-3000, collocato in orbita bassa (450 km di altitudine), serve non a una generica «osservazione della Terra», ma a fornire dettagliate immagini ad altissima risoluzione di «qualsiasi parte della Terra» per operazioni militari in lontani teatri bellici. Le immagini raccolte da Optsat-3000 arrivano a tre centri in Italia: il Centro interforze di telerilevamento satellitare di Pratica di Mare (Roma), il Centro interforze di gestione e controllo Sicral di Vigna di Valle (Roma) e il Centro spaziale del Fucino di Telespazio (L’Aquila).
L’Opsat-3000 è collegato allo stesso tempo a un quarto centro: la Mbt Space Division delle Israel Aerospace Industries a Tel Aviv.
Andrew Spannaus, LA RIVOLTA DEGLI ELETTORI. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa, Mimesis Edizioni 2017, pp. 110, € 10, 00
Occorre ripartire dal Trattato di Westfalia,
l’intesa che mise fine alla guerra dei trent’anni nel 1648, e
che pose le basi del diritto
internazionale per secoli, per comprendere il testo di Andrew
Spannaus recentemente edito da Mimesis.
Già autore di un testo sulla prevedibile vittoria di Trump, pubblicato lo scorso anno dallo stesso editore e recensito all’epoca su Carmilla (“Perché vince Trump”), l’autore prosegue nella sua ricostruzione dei motivi e delle ragioni che hanno portato al successo (relativo) dei cosiddetti movimenti populisti al di qua e al di là dell’Atlantico. Con un attenzione particolare, come si deduce dal titolo, alle contraddizioni venutesi a sviluppare in Europa tra governati e governanti.
Per l’autore “L’idea di Westfalia è semplice: «gli Stati sono responsabili per il proprio territorio e i propri cittadini, e altri Stati non dovrebbero interferire con nessuno dei due». È stato il principio guida nelle relazioni tra le nazioni occidentali per tre secoli, anche se ignorato abbondantemente nei confronti di altre aree del mondo, con l’imperialismo coloniale.”
Proprio dall’abbandono di tale principio governativo ed organizzativo egli fa derivare le attuali tendenze populiste o, come dichiara il titolo stesso, la rivolta degli elettori nei confronti delle élite.
Venerdì 28 luglio è stato approvato alla Camera
il «decreto vaccini» che porta il nome del ministro Lorenzin.
Come
previsto su questo
blog, il testo convertito in legge si è ammorbidito nel
passaggio parlamentare con la riduzione del numero delle
vaccinazioni obbligatorie
e delle pene per gli inadempienti. E, come previsto, la sua
applicazione si sta già scontrando con difficoltà di diverso
ordine che
lasciano presagire una situazione di incertezza del
diritto ormai tipica di ogni riforma contemporanea:
dalla carenza di organici
delle aziende sanitarie che non riusciranno a vaccinare
tutti gli obbligati nei tempi previsti, agli oneri burocratici a
carico delle scuole, nelle cui aule non si raggiungerà
comunque l'«immunità di gregge» non essendo vaccinati i
docenti e il
personale, né potendoli vaccinare per mancanza di
fondi.
A ciò si aggiungono le più gravi opposizioni dei governi regionali, cioè di coloro che dovrebbero mettere in pratica la legge. Per toccarla piano, l'assessore all'Istruzione della Valle d'Aosta e la sua collega ligure alla Sanità hanno rispettivamente definito il decreto «nazista» e «fascista», con la promessa di boicottarlo non applicando le sanzioni previste. In giugno il Consiglio provinciale dell'Alto Adige ha approvato all'unanimità un documento contro l'obbligo vaccinale, mentre la Regione Veneto è ricorrente in Corte costituzionale contro la riforma.
1. Com’è mia abitudine,
partirò da alcune affermazioni althusseriane (in Sulla
Psiconanalisi, Raffaello Cortina editore, 1994, pagg.
81-84) e poi, dopo essere
passato per Marx, concluderò rispondendo alla domanda del
titolo. Nel testo appena citato, ad un certo punto, criticando
il concetto di genesi,
A. parla della formazione del modo di produzione capitalistico
che, nell’ambito del marxismo tradizionale, è sempre stato
considerato un
prodotto necessario dell’evoluzione del precedente modo di
produzione feudale; il capitalismo nascerebbe proprio per
gestazione interna
all’evoluzione del feudalesimo. Vediamo i passi di A.
“….il modo capitalistico di produzione non è stato ‘generato’ dal modo feudale di produzione come un figlio. Non c’è filiazione in senso proprio (preciso) tra il modo feudale di produzione e quello capitalistico. Il modo capitalistico di produzione sorge dall’incontro ….. di un certo numero di elementi molto precisi, e dalla combinazione specifica di questi elementi ….. Il modo feudale di produzione genera (come un padre genera suo figlio……) soltanto questi elementi, alcuni dei quali d’altra parte (l’accumulazione del denaro sotto forma di capitale) risalgono al di qua di esso o possono essere prodotti da altri modi di produzione.
Riprendiamo dal suo blog uno stimolante contributo di Gianni Fresu
Nel parlamento brasiliano (ma la stessa discussione si sta insinuando anche in Europa) è stata presentata in questi giorni una proposta di legge finalizzata a punire penalmente l’apologia di comunismo, con la seguente argomentazione: “il comunismo avrebbe fatto un centinaio di milioni di morti”. Tralasciamo le considerazioni sulla natura grossolana di questa operazione, perché i simboli che si vorrebbero proibire (la falce e martello e i richiami alla tradizione teorica del socialismo) rappresentano un panorama incredibilmente variegato, non riducibile a una unica esperienza, all’interno del quale si situa con tutte le sue articolazioni la storia della lotta per l’emancipazione del mondo del lavoro. Nelle argomentazioni utilizzate si dice, “è necessario impedire l’istigazione all’odio e alla guerra di classe!”.
Farebbe sorridere, se non fosse tragica, un’affermazione simile, perché l’odio di classe è non solo istigato sul piano teorico ma concretamente praticato nelle nostre società occidentali, dall’alto verso il basso però. Come definire diversamente almeno quattro decenni di assedio ai diritti sociali e a quelli del mondo del lavoro tesi a favorire l’accumulazione dei capitali e la speculazione finanziaria? Come chiamare il vertiginoso aumento negli ultimi quaranta anni della forbice tra chi ha tanto (sempre sfacciatamente di più e in forme indecorosamente concentrate) e chi non ha nulla?
Continua a tenere banco la questione delle sanzioni occidentali contro la Russia e delle contromisure di risposta del Cremlino. Quasi nessuno si ricorda più quali fossero i pretesti addotti, ormai oltre tre anni fa (marzo e dicembre 2014, aprile 2015, luglio e dicembre 2016) per punire Mosca della sua “insolenza” ai danni di quei prodi democratici – nazisti è vero, ma purtuttavia disciplinati picciotti della cupola del Campidoglio – freschi della democratica presa del potere a Kiev a suon di mazze da baseball, bottiglie molotov e cecchini di vari servizi segreti europei. Del resto, è più che naturale che quei pretesti siano evaporati dalla memoria, dal momento che non si trattava, appunto, che di pretesti.
La sostanza appare ora sempre più nitida. E insieme a quella, fanno capolino anche le divergenze d’opinione, tra le due sponde dell’Atlantico e al di qua dell’oceano, su quelle sanzioni. L’osservatore del quotidiano Zavtra, Anatolij Vasserman, parla ad esempio di “banderuola”, a proposito della posizione di molti leader europei che, storcendo la bocca di fronte al recente inasprimento delle sanzioni USA, non disdegnano di irrobustire le proprie. Se in alcuni circoli tedeschi e alla Commissione Europea si sussurra sottovoce di sanzioni UE contro gli USA (?!?), giudicando la “Legge sulla lotta contro gli avversari dell’America per mezzo di sanzioni” una violazione del diritto internazionale, poi, altri tedeschi esigono sanzioni UE contro alti funzionari del Ministero dell’energia russo per la vicenda della turbina Siemens, che sarebbe stata esportata in Crimea aggirando le sanzioni europee.
In questi giorni si parla molto del trasferimento di Neymar al PSG e dell'operazione tutta qatariota per aggirare le regole del fair play finanziario. Riproponiamo un articolo che abbiamo scritto nell'aprile 2015
Il Barcellona
Hanno iniziato nel 2011 sponsorizzando per primi la maglia fino a quel momento (quasi) immacolata del Barcellona. 150 milioni di euro in 5 anni, questa è la cifra astronomica che la Qatar Foundation ha versato nelle casse del Barça. Non un marchio commerciale – tenne a precisare il club catalano – ma un logo istituzionale che appartiene a un’organizzazione internazionale no profit per la difesa dei bambini. Una giustificazione comica quella dei dirigenti blaugrana. Un po’ perché se così fosse realmente stato, quei 150 milioni di euro, la sponsorizzazione più cara della storia calcistica, venivano sottratti a dei bambini bisognosi. Un po’ perché così come il marchio Unicef sul petto, il primo della storia del club (gratuito ma con un ritorno di immagine inestimabile), servì da apripista ai 150 milioni della fondazione qatariota, altrettanto fece la fondazione stessa con lo sponsor (vero stavolta) che la rimpiazzò appena due anni dopo: la compagnia aerea del… Qatar.
In Palestina, dopo settimane di arresti, pestaggi, torture e uccisioni di giovani, uomini e donne palestinesi, oggi 24 luglio 2017, Netanyahu ‘ha fatto un passo indietro’ togliendo i metal detector dall’ingresso della moschea di al-Aqsa.
Centinaia di palestinesi sono stati sequestrati a Gerusalemme: i rapporti mensili documentano gli arresti di massa che hanno colpito la popolazione. I cittadini di Gerusalemme hanno subito i continui attacchi dei coloni atti a demolire le loro residenze e a costringere le loro famiglie a subire la confisca delle terre.
Va sottolineato che la reazione palestinese e araba è stata forte e determinata in tantissime nazioni. Ma una riflessione è necessaria, soprattutto perché la maggior parte dei media si limita a raccontare gli avvenimenti senza un'analisi più approfondita, che cerchi di collegare la narrazione dei fatti quotidiani alla strategia del progetto sionista.
È interessante e illuminante notare come la stragrande maggioranza dei cronisti si accodi alla narrazione sionista, senza la benché minima curiosità di leggere e ripercorrere le strade della memoria, per ritrovare somiglianze col passato e scoprire che la strategia dei sionisti è muoversi a 360 gradi, alleandosi con ‘comunisti’, fascisti, centro o altro… ma sempre privilegiando il proprio storico interesse: la cancellazione del popolo palestinese e la costruzione della ‘Grande Israele’.
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Le post-democrazie odierne sono il risultato di un processo quarantennale di ridimensionamento della sovranità popolare e del movimento operaio che in Europa ha trovato la sua applicazione più radicale
La crisi – economica,
politica,
sociale e istituzionale – che stanno vivendo le democrazie
occidentali, in particolar modo quelle europee, non inizia nel
2008, e neppure nei
primi anni duemila, con l’introduzione dell’euro, come recita
la vulgata. È una crisi che ha origini molto più
lontane, che risalgono almeno alla metà degli anni Settanta. È
a quel punto che il cosiddetto modello keynesiano, che aveva
dominato le
economie occidentali fin dal dopoguerra, entra in crisi. Come
sappiamo, si trattava di un modello basato su una forte
presenza dello Stato
nell’economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno
agli investimenti e alla domanda eccetera), un welfare molto
sviluppato, politiche
del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei
salari (più o meno in linea con la crescita della
produttività) e
l’istituzionalizzazione dei sindacati e della concertazione
come strumento di mediazione tra gli interessi dei lavoratori
e quelli delle
imprese.
A livello internazionale si basava su un regime di cambi fissi (il cosiddetto “regime di Bretton Woods”) – sistema che ruotava sostanzialmente intorno al dollaro come valuta di riserva internazionale, convertibile in oro a un tasso di cambio fisso – e su un ferreo controllo dei movimenti di capitale.
Il turismo uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana
I geografi distinguono “tre tipi
fondamentali di città turistiche: le stazioni (resorts)
turistiche ‘costruite espressamente per il consumo dei
visitatori’;
città turistiche storiche che ‘pretendono un’identità
culturale e storica’; e città convertite, luoghi di
produzione che devono ricavare uno spazio turistico
all’interno di contesti altrimenti ostili ai visitatori”.
Poiché non esiste ormai città al mondo in cui non capiti per sbaglio qualche turista, il termine città turistica va precisato: per esempio, molti stranieri visitano São Paulo, ma quest’enorme megalopoli brasiliana prescinde a tal punto dalla presenza di turisti che è impossibile trovarvi una cartolina da comprare, come si scopre con un sollievo di liberazione.
In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti: in questo senso sono tali non solo Kyoto, Dubrovnik, Bruges, Venezia o Firenze, ma anche centri più grandi come Roma o Barcellona; persino Parigi e Londra sono “città turistiche”, come anche New York, se ci si limita all’isola di Manhattan.
Ma in senso più stretto, il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dell’acciaio (Krupp), Clermont-Ferrand quella della gomma (Michelin), Detroit e Torino erano le città dell’automobile (General Motors e Fiat).
Disumano. Tutto, in questa terribile estate 2017 ci pare disumano. Il caldo mostruoso e il fuoco che divorano l'Italia: e le piogge che iniziano a sgretolarlo, al Nord. E disumano appare un discorso politico che di fronte alla più grande questione del nostro tempo, la migrazione di una parte crescente dell'umanità, reagisce invocando la polizia. Un muro di divise che faccia nel Mediterraneo quello che vorrebbe fare il muro di Trump al confine col Messico.
Eppure no: è tutto terribilmente umano. È stato l'uomo a cambiare il clima. È stato l'uomo a innescare la grande migrazione: sono state la diseguaglianza, l'ingiustizia, la desertificazione, lo sfruttamento selvaggio dell'Africa, la stolta politica internazionale e le guerre umanitarie. "Ascoltate, e intendetemi bene: è dal cuore dell'uomo che escono i propositi di male", dice Gesù nel Vangelo di Marco.
Umano, dunque: terrificantemente umano. Di una umanità sfigurata dalla paura, dalla rabbia, dall'avidità. Parliamo di tutto questo quando parliamo della vittoria della destra: peggio, di una egemonia culturale della destra che si estende sul discorso pubblico. Una egemonia culturale che domina – piaccia o non piaccia: è un fatto – il maggior partito italiano: già di centro-sinistra, oggi inequivocabilmente vittima del pensiero unico della destra della paura e dell'odio. E ci sono almeno tre differenti tipi di destra che si stanno mangiando oggi il corpo del Pd.
Basta sapere chi c’è dietro la cosiddetta opposizione venezuelana per sapere chi va sostenuto, costi quel che costi. Dietro e con i golpisti del 2016-17, gli stessi del 2002 (Capriles, Lopez, Ledezma) che obliterarono presidenza, parlamento e tutte le istituzioni e instaurarono una dittatura sotto la guida di Bush, del suo consigliere Kissinger (quello dell’operazione nazista Condor), del segretario di Stato Colin Powell (quello delle armi di distruzione di massa di Saddam, a proposito di fake news), ci sta lo Stato Profondo Usa, cioè quel carcinoma planeticida composto da servizi segreti, armieri, banchieri e imprenditori apicali come i maltusiani Rothschild, Warburg, Goldman Sachs, Rockefeller, Bill Gates, tutta la lobby talmudista.
A dirci dello stato del mondo basta vedere come agli ordini e al servizio della suddetta consorteria si siano congiunti in unico blocco di cemento, da appendere al collo del popolo venezuelano, sinistre radicali, sinistre moderate, destre moderate, destre radicali, i grandi media e la manovalanza tipo “manifesto”, violenti e nonviolenti, lobby ebraica, cristiani integralisti e cattolici detti progressisti (un controsenso). In testa a tutti, svettante di bianco, il nonviolento par excellence, il caudillo del Vaticano con tutti i suoi cacicchi locali. Dismessa la maschera del “mediatore”, si è trovato con naturalezza dalla parte dei suoi: “Non riconosco la Costituente di Maduro!” ha tuonato.
Sbaglia chi accusa Macron di scarso europeismo perché tratta l’Italia a pesci in faccia. Macron è ancora europeista, solo che non considera l’Italia parte dell’Europa, la fortezza carolingia della quale è impegnato a difendere gli interessi commerciali e coloniali.
E non è certo il solo.
“Fuori dall’Europa”. Cosa prometteranno adesso i nostri abbronzati demagoghi? Siamo già fuori dall’Europa.
Dopo più d’un ventennio di sanguinosi sacrifici, imposti sempre agli stessi lavoratori dalle stesse classi dirigenti in nome dell’europeismo, siamo fuori dall’Europa che conta qualcosa, e ci resteremo per sempre.
Allo Château Macron-Merkel serviamo ancora solo come buttafuori.
Il buttafuori che sta fuori.
Questo compito infame e meschino è l’approdo terminale della stirpe italica: stare sulla soglia del terminal a respingere quelli che i nostri padroni ritengono indegni d’essere ammessi al loro servizio.
Renzi, Salvini, Di Maio, il coro è unanime: “Anneghiamoli a casa loro“.
Siamo i nuovi Gheddafi.
AA.VV.: La grande regressione, A cura di H. Geiselberger, Feltrinelli, 2017. Riportiamo un breve sunto dei quattordici interventi sul tema posto a cui faremo seguire un commento finale. Il tema lanciato è lo stato del mondo (migrazioni, terrorismo, stati falliti, incremento delle diseguaglianze, demagoghi autoritari, globale – nazionale, crollo dei sistemi intermedi come partiti – sindacati – media e naturalmente la parabola neo-liberista e globalista) al cui capezzale vengono chiamate alcune menti pensanti per fare il punto
Per Arjun
Appadurai, la regressione si legge nella nascente
insofferenza verso la democrazia liberale a cui si contrappone
una crescente adesione
all’autoritarismo populista, il mondo vira a destra (come
se la democrazia liberale fosse di sinistra). Di base,
c’è
l’erosione di struttura operata dalla globalizzazione
(ritenuta irreversibile) che depotenzia ogni sovranità
nazionale ma i leader
autoritari/populisti si guardano bene dall’affrontare questa
causa profonda e si presentano come sovranisti solamente sul
più comodo
piano culturale: sciovinismo culturale, rabbia
anti-immigrazione, identità, tradizioni violate. Il fallimento
dei tempi lunghi e di una certa
sterilità della politica democratica nell’affrontare i
problemi fa crescere l’insofferenza ed alimenta la delega a
soluzioni
imperative che però rimangono di facciata in quanto nessuno
veramente sembra intenzionato a discutere i fallimenti del
neoliberismo globale. La
ricetta dell’indiano è stupefacente: l’opinione pubblica
popolare e di élite, liberale ed europea, dovrebbero fare
fronte
per difendere il liberalismo economico e politico – “… abbiamo
bisogno di una moltitudine liberale.”.
Passiamo al da poco scomparso Zygmunt Bauman che conviene sulla lettura dei tempi come perdita completa di ordine e prevedibilità, nonché di messa in discussione della stessa nozione di “progresso”.
La parabola del partito
tendenzialmente
maggioritario, il progetto ideato dal Pd di Veltroni e
rilanciato dal Pd di Renzi, sembra effettivamente giunto alla
sua logica conclusione.
Per poter decollare aveva avuto bisogno di iniettare nel partito, a uso e consumo soprattutto del nuovo elettorato da attrarre, una robusta iniezione di propaganda “anticomunista”, ricalcata sui modelli berlusconiani e tradottasi nella “rottamazione” di quel che restava della sua tradizione socialdemocratica, nella guerriglia mediatica condotta contro i dirigenti che la rappresentavano e nello scontro frontale praticato nei confronti del lavoro dipendente.
Il balzo del Pd registrato alle europee col 40% dei voti aveva convinto Renzi a proseguire con decisione per il sentiero tracciato.
Col miraggio di sempre nuove vittorie, la maggioranza del partito, messi da parte o archiviati principi e valori “del passato”, ha seguito il comandante e il cerchio magico che lo applaudiva; la minoranza ha subito per mesi le scelte del capo, sempre incerta sul da farsi, mentre sul carro del vincitore, dopo le giravolte e le retromarce del Cavaliere, erano nel frattempo saliti i “diversamente berlusconiani”.
Nel demenziale dibattito coatto sulle migrazioni, sulle ONG e sui fantomatici piani di invasione e sostituzione negra o beduina della popolazione indigena ario-europea – un dibattito permanente che rappresenta una sorta di ininterrotta autoanalisi – inizia finalmente a farsi strada, attraverso i discorsi e i loro meccanismi logici e semantici, una verità. Ovvero il senso sostanziale che soggiace alla schiuma retorica di superficie con la quale vengono riempite le forme di coscienza.
Cosa vogliono veramente le classi dominanti europee? La destrutturazione dell’idea di umanità – con la bagatellizzazione pedagogica del sacrificio dei sottouomini privi di valore, la loro spensierata assimilazione a Gegenstand fertilizzante e il concomitante revival impudico del linguaggio della crudeltà priva di freni inibitori, spacciato per coraggioso anticonformismo – è certamente un momento importante di questa scarna verità.
Una sua parte indispensabile, perché mette in crisi l’edificio di sentimenti morali costruito nel corso della Seconda guerra dei Trent’anni. E cioè il pilastro ideologico-empatico della Rivoluzione democratica internazionale che ha condotto alla sconfitta del Terzo Reich e del suo progetto di Nuovo Ordine Mondiale edificato sulla base di una divisione razziale delle sfere di influenza, ma che aveva sfrondato provvisoriamente anche il liberalismo dai suoi presupposti Herrenvolk.
E’ in corso una larga, ed aspra, discussione di fronte al fenomeno del costante flusso di persone in movimento che si affollano lungo i paesi limitrofi le nostre frontiere, in parte per cercare di dare risposta alla loro disperazione in Italia, in parte solo perché il nostro paese è una delle più importanti porte di accesso agli altri paesi europei dove in questo momento il mercato del lavoro è più ricettivo. Accordi di natura egoistica, ovvero tipici dell’attuale fase, hanno lasciato in buona sostanza tutto l’onere sulle nostre spalle. E noi, di fatto, l’abbiamo scaricato più di recente su quelle di chiunque volesse organizzarsi in nostra surroga. Alcuni di questi sono meravigliose persone ed organizzazioni, altre lo sono meno, altre per niente, ma il problema non sono certo le Ong: il problema siamo noi.
In tre occasioni, di recente, sono tornato su questo tema: in “Poche note sulla questione dell’immigrazione: la svalutazione dell’uomo” reagivo al cambio di linea grazie alla quale il Segretario del PD, improvvidamente e senza adeguata preparazione, secondo una collaudata tecnica che si potrebbe definire ‘populismo dall’alto’, ha rigettato il “dovere morale di accogliere” sostituendolo con un vaghissimo “aiutarli a casa loro”. L’assoluta mancanza di analisi del fenomeno, delle sue cause e delle sue condizioni di esistenza, produce qui il mostro di un accarezzare di fatto il sentimento reattivo della parte più debole, quindi più esposta agli effetti di un’accresciuta competizione, senza fornire un racconto razionale capace di definire un percorso di speranza, un progetto.
Il tempo dell’accelerazione è finito. La luce che ci arriva, come da stelle lontane, è luce di stelle morte. Il tempo sociale non è finito. Si è, più banalmente, disperso. È, letteralmente, tempo «discronico». E la discronia, osserva con incedere apodittico Byung-Chul Han, nel suo Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose (Vita e Pensiero, pp. 132, euro 15, traduzione di Claudio Alessandro Bonaldo) fa «agitare il tempo», ne scombussola il ritmo. Da dove ci viene, allora, la sensazione che il tempo acceleri, se non da questa fondamentale aritmia? Per il filosofo coreano, docente all’Universität der Künste di Berlino, deriva proprio da questo sconquasso: un tempo disorientato e fuori di sesto subisce la discronia non come effetto dell’accelerazione, ma come conseguenza dell’atomizzazione e della parcellizzazione anche di quegli atomi di tempo.
A farne le spese è, prima di tutto, l’esperienza, poiché l’esperienza è un fenomeno di durata e non di istanti. Time is out of joint: nulla contiene più il tempo, né gli animali superiori, né le cose. La tesi di Byung-Chul Han è che si viva una povertà di mondo e la povertà di mondo sia inevitabilmente un fenomeno discronico. L’uomo si riduce a corpo – un corpo funzionalizzato, spazializzato, da tenere sano e rianimare di continuo tramite shock fisico-ginnici -, il corpo si riduce a macchina, il mondo a micro-mondo.
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Uno studio scientifico con cui Mazzei svela chi ci guadagnerebbe veramente con la "tassa piatta", ovvero le cifre che i liberisti Matteo Salvini, Armando Siri e Nicola Rossi non vi faranno vedere mai
Ci siamo già occupati di flat
tax un paio di settimane fa. Lo abbiamo fatto per
denunciarne l'effetto di
scardinamento che essa avrebbe sull'intero impianto
costituzionale. Ci torniamo sopra oggi per dare la parola ai
numeri, per dimostrare cioè
quale sarebbe l'effetto concreto della "tassa piatta" sia in
termini di redistribuzione della ricchezza a favore delle
fasce di reddito più
alte, sia per quanto riguarda la cancellazione di ogni diritto
sociale che ne deriverebbe.
Gli imbroglioni sono infatti all'opera. Per loro con la flat
tax tutti ci guadagnerebbero. Un'idea win win
quindi, che avrebbe
anche il grande pregio di semplificare il sistema fiscale.
Come se le complicazioni del fisco dipendessero dal numero
delle aliquote
dell'Irpef. Aliquote che dal 1974, quando l'Imposta sul
reddito delle persone fisiche entrò in vigore, sono passate da
32 a 5. Chissà
com'era complicato il sistema fiscale negli anni '70!
Un po' di storia
La verità è che il principio costituzionale, fissato nell'articolo 53 - «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività» - è stato gradatamente attaccato già a partire dal 1983.
"L'inferno è colmo di buone speranze
e desideri" (S.
Bernardo di Clairvaux).
Definire il concetto di intervento umanitario è problematico e, quindi, l'implementazione della sua concettualizzazione è controversa. Da una parte, l'intervento umanitario è di regola inteso come un'azione di ultima spiaggia presa da uno stato o da un gruppo di stati per alleviare o far terminare palesi violazioni dei diritti umani per conto ed in favore di cittadini di una minoranza etnica dello stato-bersaglio, attraverso l'uso della forza militare. Dall'altra parte, l'intervento umanitario è percepito come una delle più sottili e nascoste forme di esercizio del potere nei sistemi geopolitici contemporanei. Vale a dire che le strutture ideologiche che provvedono a dare e sostenere la legittimazione per un più aperto e dichiarato esercizio del potere politico ed economico sono manifestate attraverso la retorica dell'interventismo umanitario.
Conseguentemente, il fenomeno dell'intervento umanitario è stato uno degli argomenti più controversi nel diritto internazionale, nella scienza politica e nella filosofia morale. Tuttavia, esaminando l'evoluzione del concetto, si può concludere che le motivazioni per l'intervento umanitario sono moralmente e giuridicamente intollerabili, agendo quest'ultimo come una forza dell'imperialismo liberista.
Mentre molti turisti, sdraiati sotto gli ombrelloni dalle isole greche al Sud Est asiatico, nel corso dell’estate si sforzeranno di scrutare l’orizzonte marino oppure il bagnasciuga senza dare nell’occhio, nel timore di scorgere un’onda anomala o un qualsiasi altro sintomo dei più sotterranei, profondi e inevitabili moti della crosta terrestre e della tettonica a zolle, la maggior parte dell’opinione pubblica e delle classi “dirigenti” continuerà ad ignorare la spaventosa onda finanziaria che già ha contribuito a spazzare via numerose società di navigazione e banche e che si appresta a travolgere l’intera economia mondiale se non sarà adeguatamente affrontata.
Un’onda gigantesca che non si accontenterà, come ai tempi dell’esplosione del vulcano dell’isola di Santorini tra il 1627 e il 1600 a.c., di spazzare l’Arcipelago Egeo e il mare Mediterraneo, ma autentici colossi della finanza quali la Deutsche Bank, in confronto alla quale il colosso di Rodi non poteva costituire altro che un misero e impotente nano.
Contro questo pericolo, apparentemente invisibile e sicuramente sottovalutato, ci mette in guardia l’ultima raccolta di testi di Sergio Bologna, pubblicata da DeriveApprodi.
Da estimatore dei libri dello storico Enzo Traverso ho tradotto questa bella recensione del suo ultimo libro Malinconia di sinistra. Avendo fondato negli anni ’80 una rivista a 19 anni che si chiamava Spleen e dato che “in mezzo alle sconfitte ci sono nato” come rappava un poeta della mia generazione mi ritrovo nella “tradizione nascosta” di cui parla Traverso
Questo brillante saggio è un tentativo di recuperare una tradizione nascosta e discreta: la tradizione della “malinconia di sinistra”. Questo stato d’animo non fa parte della narrazione canonica della sinistra: la sinistra è più orientata a festeggiare gloriosi trionfi che tragiche sconfitte. Tuttavia, la memoria di queste sconfitte – dal giugno 1848 a maggio 1871, gennaio 1919 e settembre 1973 – e la solidarietà con la sconfitta nutrono la storia rivoluzionaria come un invisibile fiume sotterraneo. Nelle profondità della rassegnazione, questa melanconia di sinistra è un filone rosso che attraversa la cultura rivoluzionaria, da Auguste Blanqui al cinema critico, passando per Gustave Courbet, Rosa Luxemburg e Walter Benjamin. Traverso con forza – e contro-intuitivamente – rivela l’intensa carica sovversiva, emancipatoria del lutto rivoluzionario.
La storia del socialismo negli ultimi due secoli è stata una costellazione di sconfitte tragiche e spesso sanguinose.
Ancora alcuni interventi degli esponenti del “Gruppo Krisis”, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, dopo quelli del 2008 e 2012, sulla crisi finanziaria ed il “capitale fittizio”, rispettivamente, che avevamo letto qui.
Del “Gruppo Krisis” abbiamo parlato nel
post, citato; dalla fine degli anni ottanta esso è attivo,
intorno alla omonima
rivista, nello sviluppo della critica marxista, in particolare
concentrandosi sulla teoria del valore e del denaro. Questo
tema è di tale
importanza che conviene tornare su alcuni brevi testi, dei
quali due sono antecedenti alla rottura teorica con Robert
Kurz (nel 2004), che abbiamo
letto in “Le
crepe del
capitalismo”, e uno è successivo. Nel testo
in esame Robert Trenkle si
interroga, nel 1998, sul concetto di “valore” nella teoria
marxista, e Lohoff, nel 2000, sulla teoria delle crisi. Quindi
nel saggio del
2012, che firmano insieme, ridescrive il ciclo della crisi del
2008.
Uno dei punti di differenza nell’analisi è che prima della rottura tra Krisis e Exit la “teoria del valore” del Gruppo è imperniata sul concetto di capitale “fittizio”, in quanto in sostanza anticipazione di valore futuro (il punto è certamente fondato, rintracciandosi anche nelle analisi di scuole molto diverse e distanti, come il keynesismo radicare di Amato e Fantacci e persino il liberismo temperato di Mervyn King), mentre dopo di essa l’analisi del Gruppo Krisis rimanente attenua questo piano di critica, per evidenziare la funzione sistemica della creazione di denaro a partire da una funzionalizzazione del tempo, e quindi in qualche senso riconosce la sua “realtà” (fin che dura la giostra). Viene messa a fuoco quindi la nozione di “merci del secondo ordine”.
La contestazione del
decreto
Lorenzin, diventato legge il 28 luglio, sui 12 vaccini (poi
“solo” 10) obbligatori per l’ammissione dei bambini ai nidi e
alla
scuola pubblica ha suscitato un movimento di massa – due
manifestazioni nazionali di 40mila persone a Roma, una a
Pesaro di 60 mila, un presidio
di parecchi giorni davanti al parlamento, decine di cortei e
fiaccolate con migliaia di partecipanti in tutta Italia –
intorno a cui media e
stampa hanno eretto un muro di silenzio, fino a che due calci
contro l’auto di tre deputati del PD non hanno permesso loro
di gridare alla
violenza e al fanatismo (Michele Serra), riempiendo pagine e
schermi di editoriali e deprecazioni. Non entro nel merito
tecnico della contestazione
– non ne ho le competenze – ma alla dimensione sociale e
politica di questa vicenda non solo è lecito, ma doveroso
prestare
attenzione. Partiamo dagli schieramenti in campo.
A sostegno del decreto troviamo in prima linea Beatrice Lorenzin, ministra che non ha fatto niente per la salute degli italiani, ma si è messa in evidenza con la promozione del fertility-day e l’accusa alle popolazioni della Terra dei fuochi, massacrate dai rifiuti, di essere loro la causa dei propri malanni per abuso di alcol e fumo. La ministra ha anche raccontato fandonie, come una epidemia di morbillo a Londra completamente inventata.
Se il 28 giugno 2017 un (fallito) colpo di stato militare, con tanto di colpi esplosi contro la sede del Ministero di Giustizia e di granate lanciate sull'edificio della Corte Suprema, ha tentato di impedire lo svolgimento, in Venezuela, delle libere elezioni per l'Assemblea costituente, esortando l'abbattimento del governo Maduro in modo violento [1], il 6 agosto, nella città di Valencia, un secondo golpe militare ha tentato di annullare, sempre facendo ricorso alle armi, l'esito della consultazione del 30 luglio [2], vale a dire la schiacciante vittoria del chiavismo contro le destre interne ed esterne al paese [3]. Un tentativo di golpe dunque, quest'ultimo, che si scaglia contro il risultato elettorale e affianca quelle sanzioni economiche imposte da Donald Trump al Venezuela l'indomani del voto [4].
L'opinione pubblica dell'Occidente mostra una certa compattezza nel riconoscere uno scontro estremamente aspro in atto nella Repubblica Bolivariana. Una compattezza, tuttavia, suscettibile di sfaldarsi non appena viene affrontata la questione degli interessi in gioco e della pars da sostenere.
Fin qui nulla di anomalo. Ma tale sfaldamento, occorre precisare, non avviene in modo sistematico e coerente.
Ora che la Corte dei Conti ha fatto il punto sui famosi F35 – dicendo che costeranno il doppio, che la famosa occupazione per aggiustarli e fare la manutenzione sarà poca cosa, che ci abbiamo rimesso un sacco di soldi – sarebbe interessante riavvolgere il nastro e andare a vedere (basta un piccolo lavoro d’archivio, su, coraggio) chi diceva le stesse cose cinque o sei anni fa. C’erano i soliti pacifisti (uff, che palle!), la sinistra-sinistra che dice sempre no (non erano ancora di moda i gufi, ma il concetto già esisteva), i “disfattisti”, pochissimi giornali fuori dal coro, tutti archiviati con fastidio come generici e onnipresenti rompicoglioni. Oggi la Corte dei Conti ci dice che abbiamo buttato nel progetto così tanti soldi che tirarci indietro (nonostante non ci siano penali) non conviene.
Traduco in italiano: un impiegato a millecinquecento euro al mese si compra una Ferrari. Qualcuno gli dice, ehi, amico, stai facendo una cazzata, e lui risponde irritato che chi lo sconsiglia non capisce nulla. Ora si trova a dover pagare altre duecento rate altrimenti perde le cento già pagate, e della Ferrari possiede un cerchione.
Nella vicenda dei famosi aerei da guerra futuribili e costosissimi (e pure non del tutto affidabili, a quanto si legge) entra anche un grande classico dell’Italia contemporanea: il miraggio dell’occupazione.
Riproposto da Orthotes «Mille piani» di Gilles Deleuze e Felix Guattari. A venti anni dalla prima edizione, l’analisi del libro può risultare familiare e priva di radicalità . L’attualità di questo classico del Novecento risiede nella ricerca di una politica adeguata al capitalismo
«Mille piani, fra i nostri libri, è stato quello accolto peggio. Eppure, se lo preferiamo, non è al modo in cui una madre può preferire un figlio disgraziato». Così, nella prefazione all’edizione italiana di Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, uscita nel 1987, Gilles Deleuze e Felix Guattari descrivono il loro rapporto con quest’opera ambiziosissima, che era apparsa in Francia nel 1980, a segnare quasi uno spartiacque tra la chiusura dei cicli di lotte formidabili dei Settanta e la grande normalizzazione del decennio successivo. E infatti, in quella prefazione, i due chiamano in causa il Sessantotto come riferimento fondamentale: l’Anti-Edipo, ricordano, era stato pubblicato quando ancora era prossima «l’epoca agitata», mentre Mille piani era stato varato nella «calma già piatta».
È FUORI STRADA, però, chi oppone un Anti-Edipo eccessivo, sovversivo, e «desiderante» a un Mille piani meditato e filosofico. Deleuze e Guattari dicono, in quella premessa, tutt’altra cosa: amiamo questo libro perché si libera definitivamente dell’Edipo, lasciandosi dietro ogni tonalità semplicemente oppositiva, perché allarga il quadro e si spinge finalmente in terre «vergini d’Edipo».
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“Il microcredito non è altro che un modo socialmente accettabile con cui le élite finanziarie sfruttano i poveri”. Una lapidaria affermazione che riassume questa analisi di un’idea, pubblicizzata come una panacea per alleviare la povertà nel mondo, che si è però rivelata essere l’ennesima beffa ai danni dei più poveri e disperati. E difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti, trattandosi in realtà di un’interpretazione in chiave neoliberista dell’economia dello sviluppo. Fortemente voluta e promossa dagli stessi attori economici che hanno causato e continuano a perpetuare le diseguaglianze nel mondo, il microcredito continua, nonostante plateali fallimenti e scandali spettacolari, ad essere una delle strategie favorite dalla Banca Mondiale e dal complesso industriale della filantropia — con effetti catastrofici nei paesi in via di sviluppo
Trent’anni fa la
comunità internazionale per lo sviluppo era in estasi. Credeva
di aver trovato la perfetta soluzione in linea con il mercato
alla
povertà nei paesi in via di sviluppo: il microcredito.
Il divulgatore di questa nuova strategia — che consisteva nell’offrire piccoli prestiti per permettere ai poveri di avviare attività di lavoro autonomo — era l’economista del Bangladesh educato in America Muhammad Yunus, che dipingeva il microcredito come una panacea in grado di creare in breve tempo un numero illimitato di posti di lavoro e di eradicare la povertà endemica.
L’idea di Yunus di “portare il capitalismo ai poveri” fece rapidamente di lui l’esperto assoluto della povertà mondiale. Nel 1983, avendo ormai fatto il pieno di donazioni, soprattutto da parte di agenzie di cooperazione e fondazioni private americane, Yunus fondò la sua “banca dei poveri” — l’oramai emblematica Grameen Bank.
Ho
molto apprezzato il recente intervento di Andrea Terzi su economiaepolitica.it
riguardo all’esigenza di ripensare la politica fiscale, considerandola
come il solo vero strumento in grado di immettere attività
finanziarie direttamente
nel sistema economico e proponendone una rilettura in chiave
di nuova reinterpretazione della relazione fra debito e
risparmio. Ho anche molto
apprezzato la disponibilità di Terzi a dialogare su alcuni
aspetti del suo intervento per me non chiari, da cui è
scaturito il
mini-dibattito che la rivista riporta in calce all’intervento
di Terzi.
Sento tuttavia di dover tornare su una delle tesi principali di Terzi, che non ritengo di poter condividere, soprattutto a causa delle conseguenze critiche che da essa potrebbero derivare nel caso di un’azione sostenuta di politica fiscale espansiva.
Obsolescenza del vincolo intertemporale di bilancio
Terzi contesta la scelta di sottoporre la spesa pubblica al vincolo intertemporale delle entrate fiscali, secondo lui motivata, in teoria come nella prassi, dal timore di ‘monetizzazione’ del debito pubblico cui il governo farebbe ricorso nel caso si trovasse in assenza di sottoscrittori.
L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà
Il giovane Marx di György Lukács è un testo indispensabile per riconfigurare il pensiero di Marx, il filosofo ungherese ricostruisce la processualità genetica del pensiero di Marx, applica la categoria della totalità che gli consente di rappresentare la linea evolutiva-genetica del suo pensiero da cui emerge la personalità di Marx. Il filosofo di Treviri appare come un pensatore che non teme il rischio del nuovo, e specialmente non teme la solitudine e l’isolamento. Il confronto dialettico con la sua epoca svela, il filosofo con la sua personalità affilata, pronto alla critica, ad assumere posizioni filosofiche originali. La formazione giovanile, già nella sua tesi di laurea, nella quale pone a confronto il pensiero di Democrito ed Epicuro, rileva il fine sostanziale della sua opera: l’emancipazione sociale e politica. Hegel aveva interpretato Epicuro e la Stoa come momenti secondari della storia della filosofia. Marx interpreta Epicuro come un filosofo illuminista, il cui intento è la liberazione dell’uomo dalle paure che gli impediscono di vivere una vita degna d’essere vissuta: «Hegel, coerentemente con la sua teoria generale della storia della filosofia, aveva visto nella Stoa e nell’Epicureismo solo dei momenti di secondaria importanza dello svolgimento della filosofia ellenistico-romana che solo nello scetticismo sarebbe pervenuta alla vera sintesi.
L’elezione di Trump è stata una manna: ci mostra l’America com’ è, senza gli abiti dell’imperatore, senza il bon ton politico ideologico, senza mitologie e leggende accumulatesi in un secolo. Ci mostra l’America di Monroe e della sua dottrina, quella di Benjamin Harrison che ne mise a punto gli strumenti, quella di William McKinley che inaugurò con la guerra cubana un colonizzazione tanto più tracotante quanto più dissimulata; ci indica gli States di Woodrow Wilson e la sua prima riduzione in ceppi dell’Europa o quelli di Coolidge che portarono al Crollo di Wall street o quelli di Eisenhower, di Johnson, della famiglia Bush. Lincoln e Roosevelt giacciono come soprammobili, fanno da alibi alle teorie dell’eccenzionalità americana, ma alla fine salta fuori per bocca del presidente che “rimarremo sempre il paese più potente al mondo!”. Heil.
La crisi coreana se così la vogliamo chiamare mette finalmente allo scoperto tutto questo verminaio: si minaccia la distruzione atomica per chi volesse mettere a punto armi potenzialmente in grado di colpire gli Usa, già questo basta per costituire una minaccia e giustificare l’Armageddon. Poco importa se queste minacce abbiano solo una remotissima probabilità di realizzarsi e siano anzi una dimostrazione di debolezza, il fatto centrale della vicenda è che la tracotanza americana non risponde a minacce dirette, è completamente gratuita e ormai non ha nemmeno bisogno di pretesti per manifestarsi.
Se sempre più persone nel mondo vivono di stenti anche il nostro pianeta Terra non è da meno. E il colpevole di tutto questo ha sempre lo stesso nome: il sistema capitalistico
La Terra è un sistema finito, le riserve di risorse del nostro pianeta hanno un termine, così come la sua capacità di rigenerarsi e di assorbire CO2. Chiarito questo risulta evidente come l’essere umano per non distruggere il proprio habitat e permettergli di rigenerarsi, non dovrebbe consumare più di quanto la Terra è in grado di produrre. Solo così l’equilibrio della sopravvivenza potrà essere rispettato. Secondo i calcoli del Global Footprint Network, dal 1971 l’essere umano consuma ogni anno più risorse di quante la Terra sia in grado di produrre e produce più biossido di carbonio di quanto il pianeta sia in grado di assorbire.
Il Global Footprint Network calcola annualmente l’estensione e l’utilizzo delle aree agricole, dei pascoli, delle foreste, delle aree di pesca oltre che la produzione di biossido di carbonio (CO2) e lo confronta con la biocapacità globale, ossia la capacità del Sistema Terra di produrre risorse e assorbire CO2. Secondo questi studi nel 2017 l’essere umano ha dato fondo alle riserve annuali della Terra e alla sua capacità rigenerativa annuale il 2 agosto. In 7 mesi e 2 giorni sono, cioè, state consumate le risorse che il pianeta è in grado di produrre in un anno.
Il testo che segue, di Peter Frase, è la traduzione dell'articolo originale, scritto nel 2011 e pubblicato su Jacobin, che poi servirà per il libro del 2016, dello stesso autore, dal titolo "Quattro futuri: la vita dopo il capitalismo"
Nel suo discorso, all'accampamento
di
Occupy Wall Street a Zuccotti Park, Slavoj Žižek si lamentava
del fatto che «È facile immaginare la fine del mondo, ma non
riusciamo ad immaginare la fine del capitalismo.» Si tratta
della parafrasi di una commento fatto da Fredric Jameson
alcuni anni fa, quando
ancora l'egemonia del neoliberismo appariva essere assoluta.
Eppure l'esistenza stessa di Occupy Wall Street suggerisce che
ultimamente la fine del
capitalismo è diventata un po' più facile da essere
immaginata. Dapprima, quest'immaginazione aveva preso una
forma piuttosto tetra e
distopica: all'altezza della crisi finanziaria, con l'economia
globale che sembra essere apparentemente arrivata al collasso,
la fine del capitalismo
sembrava che potesse essere l'inizio di un periodo di
anarchia, di violenza e di miseria. E potrebbe esserlo ancora
adesso, con l'Eurozona che vacilla
al limite del collasso mentre scrivo. Ma più recentemente, la
diffusione della protesta globale, da Cairo a Madrid a Madison
a Wall Street, ha
dato alla sinistra qualche ragione per aver qualche speranza
in più in un futuro migliore dopo il capitalismo.
Una cosa di cui possiamo esser certi circa il capitalismo è che esso finirà.
Il filosofo Giorgio Agamben era ad Atene invitato dai giovani di SYRIZA e dall’istituto Nikos Pulantzas. Il suo intervento, nell’aula gremita di Technopoli, dal titolo Una teoria sul potere della spoliazione e del sovvertimento, è stato dedicato al compimento dei quarant’anni dalla rivolta del Politecnico. Domenica 17 novembre, dopo il corteo del Politecnico, l’hanno incontrato e hanno conversato con lui Anastasia Giamali, per l’Alba, e Dimosthenis Papadatos-Anagnostopulos per RedNotebook. Il testo che segue è la conversazione completa, mentre negli Ενθέματα της Αυγής e sul loro blog troverete una versione accorciata.
Ha
cominciato il suo intervento ad Atene dicendo che la
società nella quale viviamo non è semplicemente non
democratica, ma, in ultima
analisi, non politica, dal momento che lo status di
cittadino non è più se non una categoria del diritto. È
però
conseguibile il cambiamento politico nella direzione di
una società politica?
Quel che volevo evidenziare è l’aspetto del tutto nuovo della situazione. Credo che, per capire ciò che ci siamo abituati a chiamare “situazione politica”, dobbiamo tenere a mente il fatto che la società nella quale viviamo forse non è più una società politica. Un fatto simile ci obbliga a cambiare completamente la nostra semantica. Ho provato allora a mostrare come, nell’Atene del quinto secolo a.C., la democrazia inizi con una politicizzazione dello status di cittadino. L’essere cittadino ad Atene è un modo attivo di vita. Oggi, in molti paesi d’Europa, come anche negli USA, dove la gente non va a votare, l’essere cittadino è qualcosa di indifferente. Forse in Grecia questo vale in misura minore; per quanto ne so, qui esiste ancora qualcosa che somiglia a una vita politica. Il potere oggi tende a una depoliticizzazione dello status di cittadino. La cosa interessante in una situazione talmente depoliticizzata è la possibilità di un nuovo approccio alla politica. Non si può stare attaccati alle vecchie categorie del pensiero politico. Bisogna rischiare, proporre categorie nuove. Così, se alla fine si verificherà un cambiamento politico, forse sarà più radicale di prima.
Le idee socialiste sono entrate in crisi quando governi di sinistra hanno applicato in economia le regole dei liberisti. E ora i progressisti rischiano di scomparire nel tentativo di emulare un'altra destra, quella xenofoba
Il declino dei partiti del socialismo europeo è oggetto in questi mesi di nuove interpretazioni. Passata di moda l’idea blairiana dell’obsolescenza della socialdemocrazia e dell’esigenza di una “terza via”, sembra oggi farsi strada una tesi più affine al senso comune: la sinistra è in crisi perché una volta al governo ha attuato politiche di destra. Con un certo zelo, potremmo aggiungere.
* * *
Consideriamo in tal senso le politiche del mercato del lavoro. Una parte cospicua delle riforme che hanno contribuito in Europa a diffondere il precariato è imputabile a governi di ispirazione socialista. In molti paesi, tra cui l’Italia e la Germania, il calo più significativo degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’OCSE è avvenuto sotto maggioranze parlamentari di sinistra. Con quali risultati? La ricerca scientifica in materia ha chiarito che questo tipo di riforme non contribuisce ad accrescere l’occupazione.
Con buona pace per i nostrani apologeti del Jobs Act, questa evidenza è ormai riconosciuta persino dalle istituzioni internazionali maggiormente favorevoli alle deregolamentazioni del lavoro.
Come le grandi imprese del capitalismo globalizzato sfruttano a loro modo la tragedia dei rifugiati. I loro portavoce scrivono: «l'umanitarismo può far fare buoni affari»
1. La feroce determinazione con cui si colpisce chi cerca di salvare vite umane mentre si lascia carta bianca alle multinazionali che si stanno spartendo la “risorsa rifugiato” sono due aspetti non disgiunti, ma complementari, dello stesso disegno di appropriazione del pianeta e di riduzione in schiavitù della maggioranza dei suoi abitanti perseguito dalle istituzioni finanziarie e dai governi che ai loro dettami ubbidiscono. Un disegno nel quale la crescente collaborazione tra il settore pubblico e le grandi imprese coinvolte nelle così dette “partnership per i rifugiati” ha un ruolo non irrilevante.
Più che dalla abusata motivazione che gli stati nazionali non hanno denaro e quindi devono collaborare con i privati ricchi di risorse ed esperienza manageriale, la diffusione di tali iniziative è frutto di una scelta strategica delle imprese. Molte, infatti, hanno capito che firmare un assegno o farsi un selfie con un rifugiato per migliorare l’immagine della ditta sono gesti che rendono poco rispetto ai profitti che si possono ricavare diversificando gli investimenti e destinando una quota di capitale alla filiera filantropica e hanno deciso di adottare linguaggio e metodi del capitale di ventura per conquistare il mercato dei beni e servizi per rifugiati.
Per una nuova scienza, libera e autonoma dal complesso militare-industriale
Nella nostra epoca, quella del
tardo-capitalismo, pressoché tutte le forme dei saperi
propriamente scientifici sono stravolte: l'originaria
«filosofia della natura» coltivata nelle università da piccoli
gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via
via dislocata all'interno del complesso militare-industriale,
divenendo appunto Big Science: una vera e propria
fabbrica di innovazioni
tecnologiche caratterizzata dai costi immani e da decine e
decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un regime di
fabbrica di tipo fordista.
Si può affermare che il Progetto Manhattan, ovvero la
costruzione della bomba atomica americana, costituisca il
punto di non ritorno che separa
la scienza moderna da quella tardo-moderna, la Big Science appunto.
A dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non
esiste né può esistere un «capitalismo cognitivo»; semmai v'è,
in formazione, un “capitalismo
tecnologico”, un modo di produzione che promuove una furiosa
applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale –
applicazione
che genera continue innovazioni di processo e di prodotto, ma
queste non hanno alcun significativo rapporto con
l'accumularsi delle conoscenze.
Infatti, per loro natura, le scoperte scientifiche non possono
essere né promosse né tanto meno programmate, perché esse sono
in
verità risposte a domande mai formulate – come accade nei
viaggi o nei giochi.
È
passato più di un anno dalla pubblicazione di European
House of Cards, ma tutte le
cause strutturali del fallimento dell’eurozona e le
previsioni descritte in questo articolo di Stefan Kawalec
rimangono tutt’ora in piedi,
ugualmente inascoltate dai decisori politici europei.
Sicché, mentre si materializzano le
paventate guerre valutarie e
commerciali causate dagli squilibri globali innescati
dall’euro, e il
dollaro americano continua a
svalutarsi sulla moneta unica, l’eurozona
rimane intrappolata nelle sue false speranze, di volta in
volta artatamente rinvigorite
o sgonfiate nel dibattito pubblico con l’intento strumentale
di portare avanti le politiche deflazionarie che favoriscono
i paesi più
forti, quelli creditori, e le classi sociali vincenti, i
rentier della finanza con i loro sostenitori. Fino a che il
gioco potrà andare
avanti.
Kawalec si sofferma anche sulla inevitabilità della riduzione del surplus commerciale tedesco, e sulla necessità che ciò avvenga in modo graduale. Come dimostrano precedenti storici, un surplus di questo tipo è segno di debolezza anziché di solidità: l’economia tedesca non è in grado di sfruttare le proprie risorse senza attingere alla domanda estera, e quando questa dovesse venire a mancare sarà inevitabile un periodo di recessione e alta disoccupazione.
Sebbene i media lo abbiano detto solo incidentalmente, si è immediatamente notato che il nocciolo “hard” del recentissimo Decreto del governo Gentiloni presentato come un provvedimento per il Sud, era costituito in realtà dal via libera alla multinazionale tedesca Flixbus. Il caporalato digitale rappresenta uno dei business multinazionali del futuro e Flixbus ha superato Uber, poiché ha allargato la nozione di caporalato digitale dai semplici autisti addirittura alle aziende di trasporti. Dalla pauperizzazione del lavoro si è passati alla pauperizzazione del ceto medio.
La retorica meridionalista è servita quindi ad una pura operazione di lobbying a favore di una multinazionale. Per quanto riguarda la parte del Decreto che incentiva la formazione di nuove aziende al Meridione, il trucco sottostante è sempre lo stesso: si prevedono certi incentivi ma questi possono essere prontamente ritirati se i progetti non partono in tempo. In base ai dati, mai smentiti, di un’agenzia ufficiale come lo Svimez, i tagli di spesa pubblica sono stati storicamente più intensi al Meridione e gli ultimi governi hanno confermato la tendenza. Storicamente la pauperizzazione del Sud ha quindi svolto la funzione di strumento deflattivo a vantaggio della finanza. La deflazione preserva il valore dei crediti e rende impagabili i debiti, incentivando la spirale dell’indebitamento.
Sono passati ormai due anni da
quando il governo greco
formato da Syriza e dalla destra dei “Greci Indipendenti” si è
piegato alle pressioni delle “istituzioni” europee, a
seguito di un referendum in cui la stragrande maggioranza del
popolo greco si è espressa contro l’imposizione di ulteriori
misure di
austerità da parte della UE. Riteniamo che questi due anni
siano una distanza di tempo sufficiente per elaborare una
riflessione seria
sull’esperienza greca durante il tumultuoso periodo intercorso
tra il gennaio e il luglio 2015, oltre che sul significato di
quel referendum e
sull’operato del governo greco fino ad oggi.
Oggi possiamo senz’altro dire che il tentativo di Syriza di ottenere cambiamenti reali non solo si è rivelato un fallimento totale, ma ha anche inflitto un duro colpo alla credibilità della sinistra su scala internazionale. Prima di iniziare una valutazione dell’operato di Syriza al governo dall’estate 2015 a oggi è però importante riportare alcuni dei fatti per come si sono svolti; è importante, cioè, mettere in pratica il classico metodo marxista del confronto tra discorso pubblico e realtà storica.
Quando gli storici dovranno cercare di capire in che momento si è rotta definitivamente la continuità tra la Repubblica nata dalla Resistenza e lo stato criminogeno presente, non faticheranno a individuare in questi mesi roventi, densi di incarognimenti su tutti i fronti, il discrimine tra un prima e un dopo.
Segnali e slittamenti ce n’erano stati a centinaia, fin dall’apparizione del Cavaliere sul palcoscenico della politica-spettacolo, che aveva sdoganato i fascisti (presto divisi tra nostalgici e post, ma tutti prontissimi ad afferrare la prima poltrona a disposizione).
Una rottura abbastanza seria era stata registrata nel novembre 2011, dopo la “lettera della Bce” che fissava l’inderogabile programma economico dei successivi governi italiani. Defenestrazione del Caimano, nomina di Mario Monti, riforma Fornero, ecc, misero in chiaro che il potere decisionale (o la sovranità, nel normale linguaggio internazionale) si era spostato sull’asse Bruxelles-Francoforte-Berlino. Da lì in poi, i governi del Belpaese avrebbero potuto solo gestire la ripartizione sociale dei “sacrifici”, all’interno di un ventaglio di possibilità sempre meno esteso (visti gli automatismo previsti da Fiscal Compact, Two Pack, Six Pack, ecc).
Quando il contafrottole di Rignano ha cercato di dare una cornice costituzionale coerente alle rotture già avvenute nei rapporti di forza tra le classi e le varie figure sociali, il referendum del 4 dicembre ha decisamente segnalato l’insofferenza della stragrande maggioranza della popolazione nei confronti di questa deriva.
Pier Paolo Pasolini allorché intendeva riferirsi alla televisione non utilizzava mai il termine Mass-Media bensì Medium di massa. Giustificava tale scelta sottolineando il rapporto asimmetrico e quindi antidemocratico tra mezzo televisivo e telespettatore, poiché a quest’ultimo è di fatto preclusa ogni possibilità di replicare al messaggio veicolato. Chi ascolta finisce dunque intrappolato in un circuito comunicativo “verticale” ove il ruolo dell’ascoltatore diviene meramente passivo e subalterno.
Pier Paolo Pasolini ci aveva visto lungo perché nell’anno 2017, data in cui si dispone di un apparato mediatico decisamente potenziato rispetto a quello degli anni settanta, tale problematica diviene attuale e dà un’ idea di quanto capillarmente oggigiorno i mezzi di informazione siano grado di diffondere e promuovere il loro punto di vista su ciò che accade nel mondo.
In questo senso il caso Venezuelano risulta decisamente indicativo. I Tg raccontano quello che succede nelle varie città del paese riportando sempre la stessa narrazione dei fatti, a partire dalla vittoria delle opposizioni alle legislative del 2015, la conseguente richiesta di dimissioni rivolta a Maduro ed il rifiuto da parte del presidente di lasciare la guida del paese. Poi le inaudite violenze compiute dalle forze di polizia contro i “manifestanti” e la terribile guerra civile.
Il quotidiano «Le Monde» del 5/8/2017 [1] riprende la ricerca pubblicata dalla rivista «The Lancet Planetary Health» [2] a proposito dei rischi di forte aumento della mortalità da ora a fine XXI secolo a causa delle conseguenze del cambiamento climatico. Purtroppo, questo studio realizzato per la Commissione europea parla solo dell’Europa e in particolare dei paesi del sud europeo mentre ignora che queste conseguenze saranno altrettanto se non più catastrofiche negli altri paesi mediterranei come in tutti quelli più “sfortunati”.
E fra le conseguenze si ignorano le migrazioni “disperate”…
Oltre 100 famosi esperti e personalità varie in occasione del summit COP-21 di Parigi 2015 (https://350.org/climate-crimes-it/) avevano fatto appello contro il rischio di “crimine climatico” che appare più opportuno chiamare crimine contro l’umanità, dovuto innanzitutto alle attività e alle scelte politiche imposte dalle multinazionali dei vari settori fra i quali quelle del nucleare, degli armamenti, del petrolio e dell’energia, dell’agricoltura con pesticidi e chimica ecc. ecc.
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«…nel momento in cui il passato
diveniva l’avvenire e l’avvenire il passato…»
Victor Hugo, “L’uomo che ride”,
Parte seconda, Libro primo.
«L’Unità d’Italia è avvenuta con una feroce guerra di occupazione da parte dell’esercito sabaudo con un milione di morti e milioni di emigranti.» Così scriveva nel 2011, senza alcun timore di apparire ridicolo o delirante, un nostalgico del regime borbonico e delle ‘piccole patrie’ pre-unitarie in una lettera pubblicata dal quotidiano online “VareseNews”1 . Capisco, naturalmente, che l’uso politico-propagandistico della storia a fini di mistificazione e di falsificazione escluda l’obbligo della ricerca e della consultazione di fonti documentali affidabili e di testi storiografici seri; è sufficiente, infatti, per questo tipo di rigattieri della cultura prelevare dati da siti web privi di qualsiasi attendibilità e orientati in senso antirisorgimentale: puro folclore, che però rivela il carattere bifido di Internet (torbida fogna dell’ignoranza e, insieme, strumento prezioso di indagine), oltre che la deriva intellettuale di alcune fasce dell’opinione pubblica di questo Paese.
Su Micromega
e qui
un’intervista al sociologo Erik
Olin Wright. Nella prima parte analizza i concetti di
classe e lotta di classe, che oggi è di moda ritenere superati
per prossima
estinzione di uno dei contendenti, il ceto operaio; nella
seconda spiega la sua visione strategica per “la
democratizzazione e il controllo del
capitalismo”.
Condivisibile la prima parte dell’intervista, meno la seconda.
Fino al secolo scorso l’identificazione del ceto operaio con la classe subordinata era giustificata dal fatto che esso ne costituiva la parte prevalente e trainante. Omogeneità (socio-economica) e aggregazione (nei luoghi di lavoro) erano i fattori che agevolavano il discorso identitario.
Oggi è vero che il ceto operaio è in fase di forte regressione, sia numericamente che dal punto di vista politico; ma ciò non significa che altrettanto stia succedendo alla classe subordinata, la quale è anzi in aumento a causa del progressivo smottamento dei ceti intermedi. Il problema, semmai, è che a questo aumento quantitativo (la classe “in sé” marxiana) non ne corrisponde ancora uno qualitativo (la classe “per sé”): manca cioè della consapevolezza necessaria a trasformarla in classe dal punto di vista politico, a causa della sua disomogeneità e grazie alla manipolazione culturale della narrazione di sistema (1).
Salda sulle questioni di principio, in fuga dalla politica e dalla realtà dei fatti: ecco perché la sinistra sta perdendo sia la partita libica, sia quella egiziana. Perché conosce la realtà, ma la nega, rifugiandosi nei principi e nei preconcetti
È un copione già molto visto ma le ultime settimane è stato riproposto come nuovo. La sinistra in fuga dalla politica si aggrappa a qualunque salvagente purché sia di quelli “senza se e senza ma”, cioè eviti di pensare, distinguere, agire e magari sporcarsi le mani. Le ultime ciambelle della serie sono le polemiche sulle Ong nel Mediterraneo e il cosiddetto “caso Regeni”.
Sul tema dei migranti e della gestione dei flussi abbiamo avuto il varo del “codice Minniti”, il gran rifiuto di Medici senza Frontiere, gli interventi della guardia costiera libica sostenuta dagli aiuti italiani. E infine il ritiro delle navi delle Ong, ora attraccate in Turchia, a Malta, in Tunisia, in Italia.
La sinistra-sinistra, senza se e senza ma, ha scelto Medici senza Frontiere. Prima contro un codice all’acqua di rose che è parso del tutto legittimo alle autorità Ue e a quelle internazionali e accettabile pure alla Conferenza episcopale italiana, che quanto ad accoglienza non può ricevere lezioni da nessuno.
Da quelli che danno la caccia alle informazioni che disturbano l’establishment dei ladri, corrotti, mafiosi, massoni, assassini seriali, che governano i vari paesi dell’area euro-atlantica, che hanno già stabilito sanzioni, radiazioni, eliminazioni, punizioni per chi insiste a diffondere quelle per le quali hanno inventato il termine “fake news” (notizie farlocche), o che, come la Boldrini, le promuovono da noi, il New York Times, house organ della lobby insraelo-talmudista internazionale viene giudicato la Bocca della verità, il Golden Standard del giornalismo mondiale.
E non potrebbe che essere così, dato che questo giornale è stato negli anni dell’assalto terroristico, militare, agrochimico, farmaceutico e finanziario, dei globalisti all’umanità, del trasferimento della ricchezza globale dal 99% all’1%, ben rappresentato da quegli 8 individuo che hanno più di quanto hanno 3, 5 miliardi di conseguentemente poveri, delle 7 guerre di Obama, lo strumento principale della lobotomia transorbitale operata sui cervelli dei sudditi dell’Impero.
Il giornale che, con i suoi soci nelle campagne di demolizione della verità, Washington Post, CNN, Guardian, giù giù fino agli sguatteri mediatici italiani, è diventato la bandiera di uno storicamente inusitato blocco nichilista sinistre-destre
Ci siamo occupati altrove della piddinitas juridica: quello strano atteggiamento di certi nostri colleghi di altro settore, in virtù del quale essi "sanno di sapere" tante verità economiche, senza aver mai in realtà acquisito la grammatica e la sintassi dell'economia (e questo non sarebbe un difetto), e senza essersi mai posti una domanda sulle fonti da cui traggono cotanta sicumera (e questo è un difetto, perché, quando gratti un po' la superficie, vedi che la loro fonte delle fonti è sempre il dottor Giannino).
Che sia un economista a non interrogarsi sui conflitti di interesse dei vari attori economici e sociali mi sembra già grave: ma che non lo faccia un giurista mi sembra gravissimo! Ripetere a vanvera le note leggende metropolitane sui risparmi spazzati via, sui salari che verrebbero decurtati, sulla svalutazione i cui benefici verrebbero annichiliti dall'inflazione, e via dicendo, espone al rischio di fare una figura barbina se qualcuno tira fuori un dato, o semplicemente chiede al concionatore di turno di definire i concetti che sta usando (io non devo sapere cos'è un termine ordinatorio, e quindi non ne parlo, mentre chi parla di inflazione dovrebbe sapere cos'è, e non confonderla con la svalutazione). Per sottrarsi a questo rischio, basterebbe semplicemente che prima di concionare, il concionatore si ponesse un domanda semplice semplice: "Questa storia che la svalutazione deprime i salari me la ripetono i quotidiani e le riviste scientifiche di Confindustria.
E
alla fine hanno ottenuto il loro decreto urgente in assenza di
urgenza. La vicenda è emblematica, cristallinamente
rappresentativa del saldo
intreccio di interessi internazionali, piccoli e grandi, che
presiede al governo mondiale, della macchina mediatica che lo
copre e ne è
strumento e che gli permette di governare “democraticamente”
(almeno nei paesi occidentali), della trasformazione della
scienza e dei suoi
metodi in dogmatismo.
La scienza trasformata in dogma
Pochi giorni fa, esattamente il 29 luglio, il Consiglio direttivo nazionale della Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia (SIPNEI) ha reso pubblico un comunicato ufficiale in cui prende posizione sul decreto legge sull’obbligo vaccinale e sul dibattito da esso suscitato. Subito dopo il riconoscimento che è
un dato oggettivo che i vaccini siano una risorsa di prevenzione sanitaria assolutamente preziosa
il documento afferma chiaramente che
Dal compagno Fosco Giannini riceviamo la sua recensione dell’ultimo libro di Domenico Losurdo, “ Il marxismo occidentale, come nacque, come morì, come può rinascere”
Inizio questa mia recensione
all’ultimo -
importantissimo, al fine di un rilancio d’un pensiero e di una
prassi comunista, antimperialista, rivoluzionaria in Italia e
in Occidente -
libro di Domenico Losurdo ( “ Il marxismo occidentale - Come
nacque, come morì, come può rinascere”, edizioni Laterza,
prima
edizione aprile 2017 e già alla seconda edizione) mettendo in
campo alcuni ricordi personali.
1. Ricordi di un recensore non accademico
Il metodo non è, accademicamente, dei più ortodossi, ma l’eterodossia mi sarà forse perdonata se riuscirò a renderla funzionale a un obiettivo: dimostrare come la degenerazione del “marxismo occidentale”, che ha segnato e segna, purtroppo, di sè una parte considerevole anche del marxismo italiano, sino a divenire egemonica, abbia trovato nel “marxismo orientale” un proprio, primario, nemico; come Domenico Losurdo si sia da decenni collocato e tuttora si collochi - con grande coraggio intellettuale e rischiando la solitudine filosofica e politica - sul fronte del marxismo orientale (tanto per non seminare equivoci : sul fronte materialista, marxista e leninista) e come questa collocazione lo abbia - consapevolmente - posto perennemente sotto il fuoco di tutta l’ala dominante - quanto liquidatoria della prassi comunista - del “marxismo occidentale” italiano.
Questo commento di Stefano Poggi vuole essere un primo contributo ad un dibattito su un tema che evidentemente richiederà una discussione plurale ed articolata. Nelle prossime settimane, quindi, pubblicheremo altri pezzi a riguardo
Carlo Formenti, intellettuale di provenienza autonoma e di riconosciuta apertura teorica, ha recentemente espresso su Facebook un giudizio abbastanza inequivocabile sull’istituzione della giornata della memoria per le vittime meridionali da parte della Regione Puglia a guida Partito Democratico. Formenti, in particolare, ha attaccato i suoi pari intellettuali meridionali, rei di essere “negazionisti” della verità storica: cioè di quel «processo di colonizzazione interna subito [dal meridione] da parte dal capitalismo settentrionale e dello stato sabaudo».
Lungi da me iniziare un dibattito di storiografia ottocentesca. Pur da (aspirante) storico dell’Ottocento, sono consapevole di non avere la preparazione che invece – mi par di capire – Formenti possiede. Mi permetto, piuttosto, di fare qualche considerazione sparsa a riguardo di questa (a mio parere significativa) uscita.
1. Da veneto, non può che divertirmi questo inseguimento della retorica neoborbonica (perché di questo si tratta), che vede nella storia italiana dell’Ottocento uno scontro fra Nord e Sud (con le iniziali maiuscole, ovviamente).
«Sarà facile
persuadere la Germania?
certo che no. (...) La Germania intende
rafforzare la normativa fiscale e assoggettare i Paesi che
non si adeguano a qualcosa che assomiglia, in pratica, a un
governo coloniale, esattamente
quello che è successo alla Grecia, ma su scala più vasta».
Wolfgang Münchau
Dopo le elezioni tedesche, se diamo per scontata la vittoria della Merkel, il governo tedesco, forte dell'appoggio di Macron, darà un'accelerazione alle manovre di "riforma, rafforzamento e integrazione dell'Unione europea".
Ma cosa deve intendersi per "riforma, rafforzamento e integrazione"?
La Commissione di Junker ha posto di recente sul tavolo le sue proposte. Formalmente rappresentando l'Unione, essa tenta di dare una botta al cerchio e una alla botte, proponendo soluzioni farraginose che sulla carta dovrebbero tuttavia rappresentare un compromesso tra i diversi e in certi casi opposti interessi nazionali.
Che questo non sarà possibile non lo diciamo soltanto noi, ce lo dice l'autorevole economista Wolfgang Münchau con un editoriale sul Financial Times, tradotto e pubblicato sull'ultimo numero di L'ECONOMIA del Corriere della Sera.*
Fate attenzione ai mastini della guerra. Le stesse “persone” dell’intelligence che vi hanno fatto sapere dei neonati strappati dalle incubatrici dagli iracheni “cattivi” così come anche delle inesistenti Armi di Distruzione di Massa, stanno ora facendo circolare la teoria che la Corea del Nord abbia prodotto una testata nucleare in miniatura in grado di adattarsi al suo missile balistico intercontinentale ( ICBM)di recente testato.
Questo è il nucleo di un’analisi completata in luglio dall’Agenzia di Intelligence della Difesa (DIA). Inoltre, l’intelligence degli Stati Uniti crede che Pyongyang abbia ora accesso fino a 60 armi nucleari. Sul campo l’intelligence statunitense sulla Corea del Nord è praticamente inesistente, quindi queste valutazioni nel migliore dei casi sono congetture.
Però, quando sommiamo le congetture con un libro bianco annuale di 500 pagine, pubblicato all’inizio di questa settimana dal Ministero della Difesa giapponese, i campanelli d’allarme cominciano a suonare.
Il libro bianco mette in evidenza che il “progresso significativo” di Pyongyang è la corsa agli armamenti nucleari e la sua “probabile” (le virgolette sono mie) capacità di sviluppare testate nucleari miniaturizzate in grado di adattarsi alle punte dei suoi missili.
Questa “probabile” capacità viene annegata in un’ipotesi assoluta.
Pubblico da POLISCRITTURE FB questo scambio di opinioni tra me e Roberto Buffagni che su è svolto nell’ultima settimana sullo spunto della mia segnalazione di un articolo di Marco Rovelli, Gli specialisti del disumano” e ha fatto emergere anche i nostri diversi e contrapposti retroterra politici e culturali. Lo faccio perché il problema è davvero complesso, rischia di diventare ancora più tragico di come oggi si presenta e richiede l’attenzione e l’intelligenza di tutti per approfondirlo. E anche uno sforzo – almeno qui su POLISCRITTURE – per uscire dai veleni delle propagande contrapposte dei “buonisti e dei “cattivisti”. [E. A.]
SEGNALAZIONE (dalla bacheca di Marco Revelli):
Gli specialisti del disumano di Marco Revelli
“Noi veniamo dopo” scriveva George Steiner nel 1966, “Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz”.
Anche noi “veniamo dopo”. Dopo quel dopo. Sappiamo che un uomo può aver letto Marx e Primo Levi, orecchiato Marcuse e i Francofortesi, militato nel partito che faceva dell’emancipazione dell’Umanità la propria bandiera, esserne diventato un alto dirigente, e tuttavia, in un ufficio climatizzato del proprio ministero firmare la condanna a morte per migliaia e migliaia di poveri del mondo, senza fare una piega.
Introduzione
Il fallimento di tutti i tentativi di riformare la pianificazione centralizzata per dare vita a un socialismo democratico e il crollo del muro di Berlino, con il ritorno della Russia al capitalismo, sta dando luogo a un grande cambiamento di opinioni su che cosa sia veramente il socialismo. E l’idea che a noi sembra corretta a riguardo è che il socialismo è la gestione democratica delle imprese, la gestione delle imprese da parte di tutti coloro che partecipano a ciò che essa produce[1]. Questa è l’idea anche di Richard Wolff, che è considerato oggi il maggior studioso marxista degli Stati Uniti.
Wolff ha individuato l’impresa socialista nella Wsde, che è una workers’ self-directed enterprise. In contrasto con l’impresa capitalistica, ove a comandare sono, di regola, pochi individui dotati di ricchezza, i capitalisti, in una Wsde – secondo quanto egli scrive – nessun gruppo separato di persone, nessun individuo che non partecipi al lavoro produttivo dell’impresa, può essere un membro del corpo dei dirigenti. Anche se vi fossero degli azionisti di una Wsde, essi non avrebbero il potere di eleggere i direttori. Invece, tutti i lavoratori che producono il surplus generato nell’impresa se ne appropriano collettivamente e lo distribuiscono. Essi soli compongono il corpo dei dirigenti.
Mentre Donald Trump e Kim Jong Un alzano i toni dello scontro e continuano a minacciarsi a vicenda, altri due Stati, Russia e Cina, stanno spendendo tutte le energie delle rispettive diplomazie per evitare che l’escalation verbale tra Washington e Pyongyang arrivi a un punto di non ritorno. Dall’inizio dell’aumento delle tensioni fra i due Stati, Mosca e Pechino non hanno mai nascosto la necessità di fermare il prima possibile questa deriva militare dai risvolti potenzialmente tragici, ed entrambi i Paesi hanno spesso fatto in modo che il regime di Pyongyang ragionasse evitando di minacciare ulteriormente gli alleati degli Stati Uniti con test missilistici e proseguimento del programma nucleare. Per Russia e Cina l’eventualità di un conflitto nella penisola coreana, per differenti ragioni, sarebbe, infatti, un disastro che metterebbe a repentaglio non soltanto la stabilità regionale, ma anche un sistema di alleanze e rapporti che fanno dell’Asia orientale un sistema sostanzialmente collaudato di collaborazione fra le due superpotenze. E proprio per questo motivo, entrambi gli Stati hanno appoggiato la risoluzione presentata all’Onu dagli Stati Uniti con la quale si chiedeva l’irrigidimento delle sanzioni nei confronti del regime coreano. Una mossa con cui hanno voluto dimostrare di non essere fieri sostenitori di Kim e nello stesso tempo di essere pronti a costruire un muro eurasiatico che fronteggiasse apertamente gli Stati Uniti.
In Italia si sa, ogni Ministro dell’Istruzione vuole passare alla storia per aver promosso e attuato una riforma che innovi il sempre vetusto e inadeguato ai tempi sistema scolastico. Dalla scuola dell’autonomia di Berlinguer alla buona scuola dell’alternanza lavorativa di Renzi-Giannini, dalla scuola delle tre I (internet, inglese, impresa) della Moratti alla snella scuola azienda della Gelmini, abbiamo assistito a variopinti tentativi di rendere la scuola italiana del presente e del futuro più moderna ed efficiente, nonostante essa avesse nel ciclo della primaria e nei licei un punto di forza formativo ammirato in tutto il mondo. Al di là delle giustificazioni pedagogiche e didattiche, sostenute con zelo dai soliti esperti menestrelli ben retribuiti dal potere, ogni riforma è stata ideata e progettata rigorosamente all’interno di due parametri, uno economico e uno ideologico, entrambi di rigida matrice liberista. Il primo, figlio dell’Europa di Maastricht, consiste nella costante riduzione della spesa pubblica e il secondo nella modernizzazione, in senso competitivo, aziendale e tecnologico, dei processi formativi. Per realizzare tale progetto era indispensabile superare la scuola italiana del Novecento, la quale, con tutti i suoi limiti, poggiava su un’architettura costituzionale egualitaria e solidaristica finalizzata all’emancipazione della persona. Ogni riforma, pertanto, ha smantellato, spesso tra l’indifferenza dei cittadini e la complicità dei sindacati confederali, un pezzo di scuola statale con una manovra a tenaglia:
Alberto Gaino, Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2017, 222 pagine, 15 euro
Partiamo dalla realtà di oggi: che aiuto si garantisce ai bambini “disadattati”, a quelli con difficoltà di apprendimento o di comportamento, e a quelli con problemi neuropsichiatrici gravi? Cosa si fa per evitare di tornare a “doverli” semplicemente custodire in strutture chiuse, così simili ai vecchi manicomi? Il rischio, di sicuro a causa in primo luogo della nostra eterna crisi economica, è davvero quello di tornare indietro di quaranta o cinquantanni:
Il personale dei servizi pubblici è stato tagliato pesantemente, le liste d’attesa si sono allungate in modo impressionante, non si conosce neppure il fabbisogno delle richieste per affrontare il disagio mentale della nostra gioventù. Per cui, come si possono programmare gli stanziamenti di risorse e interventi? Si tampona: è la sola politica che si conosce in Italia (p. 155).
La diffusione e, in molti casi, la qualità dell’assistenza sanitaria e del sostegno scolastico non fanno che mostrare sempre più chiaramente l’ipocrisia democratica oggi dominante: enunciazione di principi egualitari, ma tagli delle risorse: tutti hanno diritto a tutto, ma solo chi ha qualcosa (o ha molto) può difendersi e salvare i propri figli.
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Premessa
Come si dice? Molta acqua è passata sotto i ponti (e a Roma è riuscita a farlo nonostante la scarsa attenzione riservata al biondo Tevere dai suoi amministratori, di destra e di sinistra!), e, dopo la caduta dell’U.R.S.S. anche la situazione internazionale è cambiata radicalmente, se si pensa che dal 1991 ad oggi ci sono state: due guerre del Golfo, seguite da un embargo micidiale per la popolazione irachena, la guerra (e la relativa distruzione) della Jugoslavia, il crollo delle torri gemelle, la guerra in Afganistan, la guerra in Iraq e, last but not least, l’attuale crisi economica mondiale. L’intento di questo articolo e quello di provare a fornire un quadro sintetico della situazione attuale (e scusate se è póco! direbbe un comico pugliese), con specifico riferimento alla crisi degli U,S.A. cui sembrava toccasse un secolo, il ventunesimo, tutto intero e che forse dovranno accontentarsi di “spartirlo” , fin da subito, con altre potenze in lotta per l’egemonia mondiale. Per non parlare dell’opinione di quell’esperto cinese di relazioni internazionali all’università Fudan che ha dichiarato di recente: “il nostro problema, nell’immediato, è come impedire che il declino dell’America avvenga troppo presto”.
Un paio d’anni fa, in Dentro e
contro. Quando il populismo è di governo (Laterza, Roma
– Bari, 2015), Marco Revelli forniva una lettura delle
dinamiche che avevano
condotto Matteo Renzi a Palazzo Chigi e dunque alla nascita di
una sorta di inedito «populismo istituzionale».
Nell’introduzione a
quel volume, guardando ai primi due anni di governo dell’ex
sindaco di Firenze, Revelli formulava anche una previsione,
che intravedeva
già nell’immediato futuro il profilarsi di difficoltà che
avrebbero potuto rendere effimeri i successi renziani: «la
marcia
si è fatta, col tempo, meno trionfale. Le fragilità culturali
e i difetti di carattere hanno scavato in quel piedistallo di
consenso che
le elezioni europee gli avevano regalato. Lo stesso partito
che aveva scalato per scalare il paese si va
facendo ogni giorno più
volatile ed evanescente, man mano che la leadership
carismatica si attenua e stenta a funzionare come polarità
aggregante dall’alto,
mentre i potentati locali vanno assomigliando a premoderne
marche di confine. È comunque ipotizzabile, visti i cattivi
venti che spirano
dall’alto d’Europa, che il suo cammino – sia pure più tortuoso
e impervio – continui, sostenuto da un’oligarchia
sovrana ancora potente e, a livello continentale, ancora
scarsamente contrastata. Oppure è possibile, come temono (o
sperano) in molti, che
Matteo Renzi non riesca a portare in fondo il proprio progetto
per sedersi infine sul trono che si è costruito.
Che Jamie Dimon, numero uno di JPMorgan Chase, la più grande banca degli Stati Uniti, sia diventato un campione di antifascismo è dura da credere. Soprattutto andando a rivedere il report redatto dalla banca quattro anni fa sulle Costituzioni antifasciste europee, che sarebbero inadatte a favorire l’integrazione europea perché troppo sbilanciate verso i diritti dei lavoratori. Sta di fatto che Dimon ha abbandonato il gruppo dei consiglieri di Trump prima di Richard Trumka, capo dell’Afl-Cio, il più grande sindacato degli Stati Uniti, che ha dato le dimissioni dopo l’esplicito attacco del «New York Times» nei suoi confronti. Un episodio, questo, che riveste un significato simbolico, oltre che reale, non scontato. Dopo i fatti di Charlottesville e l’uccisione dell’attivista antirazzista Heather Heyer, l’élite del management dei principali gruppi capitalistici che ancora manteneva un rapporto di collaborazione con Trump ha deciso di puntare sul rapporto di forza con la Casa Bianca. Costringendo, in questo modo, anche il gruppo dirigente del più grande sindacato a fare un passo indietro nella volontà concertativa con The Donald. Nessun improvviso antifascismo o antirazzismo sta attraversando i consigli di amministrazione delle grandi società e gli esecutivi dei sindacati. C’è invece la valutazione politica della debolezza intrinseca, e quindi della pericolosità sia sul fronte interno che internazionale, della «macchia arancione» che siede nello studio ovale.
False Flag, che palle
Con tutto il rispetto per le 14 vittime e i tanti feriti di Barcellona, con tutto, lo sconcerto per i morti “cattivi” ammazzati, o saltati per aria (prassi ricorrente e risolutrice), con ogni apprensione per gli arrestati, predestinati o a casaccio, con tutto l’orrore possibile per il viluppo terroristico in cui ci hanno rinchiuso e con cui ci stanno sterilizzando, viene ormai a noia occuparsi dell’ennesimo attentato False Flag. E’ diventato sfessante ogni volta gridarne al vento obiettivi immediati, scopi finali, lacerazioni logiche, elenco di chi se ne avvantaggia e chi ci rimette, parallelismi con episodi identici, analoghi, affini, contraddizioni, incongruenze, veri e propri buchi neri, colmati soltanto dalla dabbenaggine della gente assordata dal coro complice delle presstitute. Lo facciamo dall’11 settembre, dove l’arrogante insipienza degli autori e il lavoro meticoloso e inconfutabile del contradditorio scientifico e tecnico, ci avevano reso il lavoro facilotto.
Un operativo anti-islamico serio mai?
Ora, dopo Nizza, Berlino, due volte Parigi, due volte Londra, siamo all’ennesimo veicolo lanciato nel mucchio, a falcidiare una folla qualunque, priva di qualificazioni politiche, culturali, sociali, militari, composta da cittadini comuni, inermi e inoffensivi di 38 paesi, compresi i musulmani. Come in tante altre occasioni, da Charlie Hebdo – operazioni guardata e protetta da mezzi della polizia, vedi video – in poi, il conducente se la svigna,
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan da quando ha rotto con l’islamista Fethullah Gülen non piace più molto all’Occidente: ha intensificato le relazioni con la Russia e la Cina, ha fatto limitare l’uso del dollaro nelle transazioni commerciali internazionali, reprime le ONG filo-americane come Amnesty International, impedisce la balcanizzazione degli stati nazionali bombardando i militanti separatisti curdi di PKK/YPG armati da Washington, spedisce in esilio gli alti ufficiali dell’esercito collusi con la NATO, non cede alle richieste europee su Cipro, ecc. Insomma sembra che l’imperialismo atlantico abbia perso il controllo sul proprio burattino.
L’Occidente ha dunque deciso che Erdogan deve essere sostituito. E forse l’UE e gli USA potrebbero aver già stabilito la loro “alternativa”. Per ora nessuna candidatura è certa, ma alcune testate giornalistiche di quelle che contano hanno già deciso al posto dei turchi in perfetto stile coloniale.
L’alternativa a Erdogan, stando al “Time” del 14 luglio scorso, è donna, si chiama Meral Aksener, ed è già stata ministro degli interni per il l’ex-DYP, un partito liberale filo-occidentale al governo negli anni ’90 in piena foga privatizzatrice. Poi, quando il vento cambiava, si è trasformata in “nazionalista” assumendo addirittura incarichi nel MHP, il partito che fu espressione dei “Lupi Grigi”, da cui però è stata recentemente allontanata.
L’economista
marxista Emiliano Brancaccio è da molti anni uno dei più
coerenti e determinati critici dell’assetto delle cose, con il
tempo ha
guadagnato, dalla sua cattedra periferica a Benevento, una
certa capacità di intervento nella sfera pubblica, anche su
testate rilevanti come
L’Espresso (o il Sole 24 Ore). È il caso di questo
intervento agostano, nel
quale costruisce un sillogismo piuttosto schematico:
1. se la sinistra di governo si è in passato schiacciata sul liberismo (inseguendo la svalutazione del lavoro, la liberazione dei capitali e la riduzione del ruolo dello stato in economia),
2. e se lo ha fatto in cerca di una identità (suppongo dopo il crollo dell’identificazione con il socialismo, più o meno “reale”), “scimmiottando l’avversario”,
3. allora anche oggi la tendenza a introdurre elementi di critica alla piena liberazione dei flussi di emigrazione dai paesi poveri del mondo è solo un’altra manifestazione di questa “tentazione”. Quella di andare dietro questa volta alla “destra xenofoba” (l’altra volta a quella tecnocratica neoliberale), emulandola.
Insomma, la sinistra sarebbe in crisi perché attua politiche di destra e si dimentica di essere se stessa.
Dino Greco sottopone ad esame critico il breve saggio Sinistra transgenica pubblicato giorni or sono su SOLLEVAZIONE. Fedeli alla massima che per cambiare occorre agire, ma prima di agire occorre pensare, siamo ben lieti di consegnare la critica di Dino ai nostri lettori
Cari compagni,
scusandomi per l’eccessivo schematismo provo a mettere in fila alcune considerazioni sul breve ma importante saggio di Moreno Pasquinelli, “Sinistra transgenica”, che mi pare contenga il nocciolo duro, il fondamento teorico e il presupposto politico della Confederazione per la Liberazione Nazionale (CLN).
Rovesciando l’ordine del discorso di Moreno, comincio dal tema “cruciale” che per me come per voi è il progetto su cui far nascere una soggettività sociale e politica capace di mettere sul serio (e non per finta) in discussione l’ordine delle cose presente.
Quella che nella vulgata corrente, per uno di quei paradossi che la storia talvolta ci riserva, continua a chiamarsi (e ad essere chiamata) sinistra, credo abbia da tempo superato lo stadio della manipolazione transgenica.
Qui si è perfettamente compiuta una totale mutazione.
Nel febbraio scorso 200 mila persone sono sfilate a Barcellona in nome dell’accoglienza per i migranti mettendo in grave imbarazzo il governo di Madrid che sta facendo di Mellilla e Ceuta due fortezze destinate a deviare ogni flusso migratorio dalla penisola iberica ad altre penisole mediterranee, immaginate quali. E quelle stesse 200 mila persone, assieme a qualche altro milione si recheranno alle urne il prossimo 1 ottobre per decidere sull’indipendenza della Catalogna in un referendum fortemente osteggiato da Madrid che raccoglie l’ovvia solidarietà di Bruxelles e di Washington.
Ora però con l’attentato al furgone di Barcellona (con tanto di passaporto lasciato nel veicolo) e con l’enigmatico macello di Cambrils in cui sono stati uccisi cinque kamicaze con cinture esplosive finte, due cose appaiono chiarissime: bisogna diffidare dell’immigrazione che porta con sé l’oscuro periglio e bisogna rimanere uniti contro il terrorismo. L’elemento romanzesco, sia pure banale, ripetitivo e raffazzonato, c’è tutto, compresa un rivendicazione dell’Isis, prima fatta, poi smentita, poi di nuovo asserita dall’ineffabile signora Rita Katz, l’avvertimento della Cia (su Rai uno c’è mancato poco che l’ improvvisata cronistucola della vita in diretta non si inginocchiasse pronunciando tanto numinoso acronimo) uscito stranamente in tempo reale e infine il delirio della Cnn che ha messo in relazione l’attentato delle Ramblas
L’11 marzo scorso l’Università di Firenze e l’Associazione italiana per l’intelligenza artificiale hanno organizzato il convegno “Uomo e robot, metamorfosi di un’alleanza”. Sempre più ricerche sostengono che in un futuro molto prossimo l’automazione cancellerà gran parte dei posti di lavoro, mandando la disoccupazione alle stelle (altri invece ridimensionano questi timori). Qui di seguito il mio intervento: il problema non si risolve fermando l’impiego delle macchine. Alla base di ogni teoria economica c’è un’idea di società: ne serve una che ripensi l’organizzazione sociale in funzione del progresso tecnologico.
Pochi giorni fa un economista insignito del Nobel, Eric Maskin, ha espresso queste idee: "Decidere sulle tasse e sulla spesa - chi debba essere tassato e per quali beni pubblici si spende - è affidato ai cittadini e ai loro eletti. (…) I tecnici prendono decisioni migliori di chi è eletto su politiche la cui efficacia non può essere facilmente giudicata dai cittadini, o che richiedono tempi lunghi prima che se ne vedano in pieno i risultati".
Non sono idee nuovissime: ne ha parlato qualche anni prima, per esempio, tal Platone, proponendo il “governo dei filosofi”, cioè i “tecnici” dell’epoca.
In vista dell’autunno, i temi più caldi tornano a essere quelli del lavoro e delle pensioni. Dalla maggioranza e suoi megafoni celebrano le riforme degli ultimi due anni, soprattutto il Jobs Act. Un ritornello che compete con le hit estive: non soltanto la crisi è alle spalle, ma addirittura, dice a Repubblica l’ex sottosegretario Tommaso Nannicini, le aspettative del governo sugli effetti del Jobs Act erano inferiori a quel che poi si è osservato. L’economista della Bocconi sostiene che “rispetto a più di un milione di posti di lavoro bruciati dalla crisi, in due anni è stato colmato quasi l’80%, in gran parte con lavoro stabile”.
Secondo i dati della Rilevazione delle forze di lavoro dell’Istat, a fine trimestre 2017 si contano ancora 363.489 lavoratori in meno rispetto al 2008. Nel 2014, ultimo anno di recessione tecnica, la contrazione degli occupati rispetto al 2008 ammontava 811.431 unità. Il recupero millantato da Nannicini si ferma al 55% dei posti persi e non all’80%. Il tasso di occupazione nel primo trimestre 2017 è il 57,2% contro il 58,6% del 2008, record negativo europeo. Il dato più lampante è quello della distribuzione anagrafica dei nuovi occupati tra il 2014 e il 2017: quasi un milione di lavoratori in più tra gli over 50, mentre tra i 35 e 49 anni si contano ancora 373 mila lavoratori in meno e soltanto un aumento di 60 mila unità per gli under 35.
Nel suo libro «La variante populista» Carlo Formenti compie una duplice svolta. Da un lato intende infatti chiudere definitivamente i conti con l’operaismo. Dall’altro sostiene invece la necessità di adottare (seppur criticamente) lo schema populista delineato da Ernesto Laclau, perché ai suoi occhi solo la «forma populista» risulta adeguata a sostenere una battaglia capace di riconquistare la «sovranità popolare» e la «sovranità nazionale». Se percorrendo un simile sentiero la proposta di Formenti giunge certamente a cogliere alcuni nodi cruciali, rischia però anche di legittimare una deriva teorica e politica incontrollabile. E proprio per questo la «variante populista» somiglia molto a un’incognita di cui è davvero difficile prevedere le direzioni di sviluppo
«Lotta
di popolo»
«Siamo operai, compagni, braccianti / e gente dei quartieri /siamo studenti, pastori sardi, / divisi fino a ieri! / Lotta! Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata: lotta continua sarà!». Con l’efficacia che a volte hanno le canzoni, l’inno che Pino Masi scrisse per Lotta continua all’inizio degli anni Settanta riusciva a restituire in pochi versi il sincretismo teorico che distingueva quell’organizzazione rispetto al panorama della sinistra extra-parlamentare italiana. Un sincretismo che combinava le suggestioni della «rivoluzione culturale» e della «guerra di popolo» maoista con alcuni elementi della tradizione operaista e con i lasciti della contestazione ‘anti-autoritaria’, ma in cui non erano certo assenti gli echi della Lettera a una professoressa di don Milani e una sensibilità verso gli ‘esclusi’ e i ‘marginali’ ereditata principalmente dal dissenso cattolico della fine degli anni Sessanta. Ma a quasi mezzo secolo di distanza forse è anche possibile leggere l’inno di Masi – e l’intera operazione condotta da Lotta continua, quantomeno nei suoi primi anni di vita – come un tentativo di sviluppare ciò che, sulla scorta della proposta teorica di Ernesto Laclau, oggi si definirebbe un «populismo di sinistra».
“E seguitava a ripetere la stessa cosa: “Questo
non è come in una guerra… In una
battaglia
hai il nemico davanti… Qui il pericolo
non ha
volto né orario”. Si rifiutava di
prendere
sonniferi o calmanti: “Non voglio che mi
acchiappino
addormentato o assopito. Se
vengono a prendermi, mi difenderò,
griderò,
getterò i mobili dalla finestra… Scatenerò
uno scandalo…”.
Alejo Carpentier, La
consacrazione della primavera
1. E’ indubbio che Nicolás Maduro non è Allende. E nemmeno è Chávez. Ma quelli che hanno fatto il golpe contro Allende e contro Chávez sono, e anche questo è indubbio, gli stessi che ora stanno cercando di attuare un golpe contro il Venezuela.
Non è affatto indifferente che i media attribuiscano a Kim Jong-un l’irrealistico epiteto di “dittatore”, piuttosto che quello di addetto alle pubbliche relazioni della casta militare nord-coreana. Kim Jong-un svolge in Corea del Nord un mero ruolo di simbolo di continuità istituzionale, ma è evidente che tutte le scelte di carattere economico e militare del regime prescindono dalla sua persona. Anche se l’espressione “casta militare” ha un’accezione negativa, essa presuppone comunque un contesto ed una storia; proprio ciò che il sistema della propaganda “occidentale” non vuole ammettere, in quanto tutto deve essere ricondotto a patologie individuali. Si riduce quindi tutto a una fiaba moral-demenziale, nella quale Kim Jong-un interpreta la parte di una sorta di Gollum del “Signore degli anelli”: un essere inferiore che vorrebbe velleitariamente accedere ad un potere che non gli spetta e, per questo motivo, si abbrutisce ancora di più.
Ma il sistema occidentale non combatte solo i “dittatori” che rivendicano un’indipendenza, in quanto combatte soprattutto i propri stessi popoli. Per tale motivo anche interi popoli possono essere criminalizzati e inquadrati dalla propaganda in patologie morali. Le istituzioni sovranazionali svolgono proprio la funzione di Super-Io incaricato di spegnere le velleità di autonomia economica dei popoli che “vorrebbero vivere al di sopra dei propri mezzi”.
Una grossa polemica scatenata sui titoli di studio conseguiti dalla Ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli ha aperto il suo mandato. Il tentativo di renderla un personaggio banale che nel suo mandato non poteva che fare strafalcioni ed essere incapace ha funzionato, tutti ci abbiamo un po’ creduto. Ma nel frattempo la Ministra si è messa a lavoro continuando quel lavoro di riconfigurazione in un nuovo sistema di scuola e università. Solo negli ultimi giorni alcune importanti misure che investiranno la vita di milioni di giovani in formazione sono state firmate dalla Ministra.
Liceo breve
La riforma del liceo breve era già stata minacciata dal premier Renzi con la Buona Scuola, ma è la Fedeli a renderla operativa. 100 classi cominceranno da quest’anno scolastico la sperimentazione del nuovo progetto didattico che termina dopo 4 anni con l’esame di maturità.
Circa 1050 ore annuali anziché 900. Grandi promesse su un innovativo sistema didattico. Grandi promesse su una maggiore possibilità di entrare nel mondo del lavoro.
E la continua ossessione che fa sobbalzare nel sonno tutti i ministri e premier nel nostro Paese, l’ adeguamento a un modello europeo.
Al di là di quanto possano sostenere le estemporanee dichiarazioni di Donald Trump, non sono certo le precarie condizioni della democrazia né esattamente l’eredità chavista del Socialismo del XXI Secolo la maggiore preoccupazione che spinge gli Stati Uniti ad avere tanta fretta di liberarsi del governo di Nicolas Maduro. Per comprenderlo, basta dare un’occhiata al profilo della presenza strategica cinese: il Venezuela è un “socio” importante per noi, sostiene il Global Times, rivista di proprietà del Quotidiano del Popolo. Caracas riceve già quasi la metà dei rilevanti prestiti cinesi nella regione sudamericana e a Pechino sono intenzionati a mantenere una solida presenza nell’area, del tutto indipentemente dal colore politico dei governi che si succederanno. Gli investimenti più importanti sono naturalmente quelli nel settore petrolifero e, se tutto va come deve andare, presto il mercato cinese è destinato a superare quello statunitense per l’export venezuelano
Conoscere i criteri che usa la potenza emergente sull’America Latina, e in particolare sul Venezuela, è sommamente importante giacché raramente i loro mezzi di comunicazione lasciano intravedere le opinioni che circolano nel governo cinese. Il 1° agosto la rivista cinese Global Times ha pubblicato un esteso editoriale intitolato “Venezuela un microcosmo dell’enigma latinoamericano” .
Il Global Times appartiene all’organo ufficiale del Partito Comunista della Cina, Quotidiano del Popolo, ma si focalizza su temi internazionali e le sue opinioni hanno maggiore autonomia del media che lo patrocina.
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Quello che si può dire con certezza dell’EPA – l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Africa Occidentale – è che è straordinariamente poco conosciuto. I mass media non si preoccupano di spiegare che un gruppo di stati tra i più poveri del mondo sono stati – volenti o nolenti – inclusi in un accordo commerciale con l’Unione europea che li costringe a condizioni svantaggiose, riproducendo – in un contesto di povertà ben più drammatico – regole fiscali assurde sul tipo di quelle imposte agli Stati membri dell’Eurozona. L’economista Bill Mitchell espone sul suo blog i risultati dell’analisi dell’EPA realizzata dall’organizzazione indipendente svedese CONCORD: questo trattato non è coerente con gli obiettivi di sviluppo dell’Africa Occidentale, e ha conseguenze addirittura opposte, intrappolando un gruppo di nazioni per la maggior parte già poverissime in una crescita bassa e discontinua e perpetuando le condizioni misere delle popolazioni
In un post recente – Se l’Africa è ricca – perché è così povera?
– ho preso in esame la questione del
perché le risorse che rendono ricca l’Africa non siano state
impiegate per il benessere della popolazione indigena che vive
sul posto.
Abbiamo visto che la povertà in Africa dilaga, benché sia
evidente a chiunque che il continente è abbondantemente ricco
di
risorse. La risposta a questo paradosso è che la rete di aiuti
per lo sviluppo nonché la supervisione messe in atto dalle
nazioni
più ricche e mediate da enti come FMI e Banca Mondiale possono
essere viste più come un gigantesco aspiratore, ideato per
risucchiare
risorse e ricchezza finanziaria dalle nazioni più povere, con
sistemi legali o illegali, a seconda di quali generino i
flussi maggiori.
Così benché l’Africa sia ricca, la sua interazione con il
sistema monetario e di commercio mondiale lascia milioni dei
suoi
abitanti in condizioni di povertà estrema – non in grado di
procurarsi neppure il cibo per vivere. L’accordo di libero
scambio
(EPA) tra l’UE e gli stati dell’Africa Occidentale è una di
queste istituzioni-aspiratore.
Sarò più Franti che Garrone, ma non mi sono mai piaciute le operette morali sotto forma di letterina paterna alla prole, fossero del babbo di Enrico, di Einstein che vuol mostrare affezione al figlio che non ha riconosciuto in tram dedicandogli un mese all’anno di partecipata vicinanza, fossero di boiardi in temporanea eclissi (ve lo ricordate il risentito Celli che istigava il figlio a esportare i suoi talenti?), perlopiù ben accomodati su comode poltrone, in aziende o salotti borghesi o autorevoli giornalini dalle quali si augurano di garantire alla dinastia una dorata continuità. Mentre non abbiamo notizia di padri che – è dimostrato dalla storia – hanno impartito lezioni di etica, coraggio, libertà non essendoci pervenute missive di papà Cervi, o del babbo di Albino Albico, operaio, ammazzato a 24 anni, di Achille Barillati, 22 anni, studente di economia e tati altri prima di loro.
Oggi ha grande successo di pubblico quella di una soave e alata penna molto apprezzata benché Massimo Giannini, come tanti altri, non abbia dimostrato una grande lungimiranza e qualità di osservatore quando, orfano del grande nemico ci ha messo un bel po’ per avere contezza che quelli dopo erano quasi peggio, sorpreso dalla rivelazione tardiva di una sgangherata indole all’autoritarismo più becero e di una plebea indifferenza per legalità e legittimità delle sue azioni
In autunno l’UE dovrà aprire una discussione sul Fiscal Compact per valutarne l’efficacia e farlo diventare diritto comunitario. Potrebbe essere l’occasione per rivedere le politiche adottate e portare tutta l’Europa oltre Maastricht
L’Unione Europea ha mostrato nel
corso della sua storia una serie di vincoli politici,
istituzionali ed economici che ne hanno limitato il suo
sviluppo; questi limiti sono diventati
manifesti soprattutto con la crisi economica del 2007.
L’Europa nel tempo, purtroppo, è diventata una istituzione
burocratica che al
limite coordinava o indirizzava le politiche economiche e
sociali, con degli obiettivi che diventavano sempre meno
credibili in assenza di una
politica pubblica nel senso stretto del termine, in
particolare se consideriamo i “principi”, le “norme” e le
“regole” che sottendono l’economia pubblica e i suoi tre campi
d’azione tracciati da Musgrave[1], così
come i così detti fallimenti del mercato sottesi all’economia
del benessere (V. Pareto[2]) ripresi in
molti testi di economia pubblica[3]. Il trattato di Maastricht (1992),
con tutte le sue imposizioni su deficit, debito e inflazione,
determina dei vincoli
esogeni, ma in nessun modo prelude ad una politica economica
almeno federale. Sebbene il clima culturale degli anni ottanta
abbia cambiato
l’orizzonte e il target dell’intervento pubblico con “nuove”
parole d’ordine – semplicità e
neutralità – come nuovi principi fondamentali da privilegiare
rispetto all’equità[4], è
comunque altrettanto vero che la politica pubblica indirizza
il sistema economico verso la realizzazione di determinati
obiettivi (maggiore o minore
concorrenza), così come la politica fiscale (finanziaria) e
l’insieme delle tasse e dei tributi, e la gestione e l’impiego
delle
risorse finanziarie[5].
ISIS/SITE: tocca a voi!
A proposito dell’annuncio post-Barcellona di un imminente attentato in Italia, ce ne sono stati altri che minacciavano sfracelli in Vaticano, al Colosseo, la conquista di Roma. Ma stavolta potrebbe essere diverso. Intanto la notizia proviene da fonte autorevole e credibile: il sito SITE di Rita Katz, portavoce e diffusore da anni del jihadismo più efferato, in particolare dell’ISIS, con il quale la collaborazione nella promozione di quel panico che si sa funzionale alle aggressioni belliche e all’instaurazione di regimi di polizia, è stretta e, come provano i risultati, efficacissima. Senza l’istantanea diffusione a dimensione mondiale dei più raccapriccianti video e comunicati, prodotti con la nota perizia professionale dagli studios del mercenariato imperialista, di cui siamo debitori a Rita Katz, titolare del sito SITE, gran parte del messaggio terrorizzante e intimidatorio assegnato ai protagonisti della guerra al e del terrore sarebbe andata persa.
Rita Katz, ufficiale israeliano e portavoce Isis
Non deve stupire, data l’intesa strategica sugli obiettivi, l’amalgama Israele-jihadisti, evidenziato nel concorso israeliano alle operazioni sul campo dell’Isis e di Al Nusra e nel recupero israeliano di combattenti jihadisti curati negli ospedali allestiti sul Golan.
Viviamo una dittatura mediatica globale. Che dobbiamo combattere in un nuovo scenario di guerra asimmetrica
La presunta “ingerenza di Cuba in Venezuela” è stato un messaggio ricorrente della stampa di ultra-destra (1) nei 18 anni di Rivoluzione Bolivariana (2).
Oggi, in uno scenario di vessazione viscerale al governo di Nicolás Maduro, il messaggio ha già condizionato l’intero sistema mediatico (3).
Ricordiamo che, nel 2003, Cuba trasferì decine di migliaia di professionisti nelle zone più povere del Venezuela, principalmente nella Missione sanitaria comunitaria Barrio Adentro (4). Attualmente, Cuba ha 46000 cooperanti nei 24 stati del paese, in quasi 20 programmi sociali (5). Per citare solo un dato di impatto, la cooperazione sanitaria cubana, in Venezuela, ha salvato 1700000 vite (6).
Ma, in questi 14 anni, ai media internazionali non gli è interessato mostrare il cambiamento operato nella vita di milioni di persone grazie a questi programmi (7). Le uniche storie di vita pubblicabili sono state quelle di una minoranza di cooperanti cubani che, per accedere ad una migliore retribuzione, decisero aderire al programma di asilo politico negli USA (8). A proposito, eliminato, in gennaio, questo programma, da Barack Obama, oramai leggiamo poche notizie su “medici cubani disertori” (9).
Dall'Italia
alla Francia, dalla Spagna all'America latina si moltiplicano
le analisi dei “critici-critici” sulla situazione in
Venezuela. Si avverte,
soprattutto in Italia, l'affannosa ricerca dell'aurea
mediocritas da parte di una certa sinistra
piccolo-borghese: l'assunzione di
quell'aurea via di mezzo che consente, da una posizione
intermedia, di cogliere la pagliuzza negli occhi degli altri
per non vedere la trave nei
propri. Contro il socialismo bolivariano, ognuno agita i
propri fantasmi rimettendo in circolo, spesso senza nominarli,
dubbi e nodi irrisolti delle
grandi rivoluzioni. Ma intanto, anche se “Maduro non è
Chavez”, come ripetono come un mantra i cantori dell'”aureo
mezzo”, i nemici che deve affrontare sono gli stessi che ha
dovuto combattere Chavez. Maduro, se è per questo, non è
neanche
Allende ma – come ha fatto notare l'analista argentino Carlos
Aznarez – le forze che vogliono abbatterlo sono le stesse,
mutatis mutandis,
che hanno stroncato la “primavera allendista” nel Cile del
1973.
Anche al “socialismo del XXI secolo”, dunque, che si definisce umanista, cristiano, libertario e gramsciano, tocca misurarsi con gli scogli di quello novecentesco, disseminati su una rotta che appare per molti versi simile.
Abbiamo
passato anni
a denunciare l’uso tossico dei mezzi di informazione da parte
di Berlusconi: ma la malattia era ed è ben più generalizzata.
Il tg1
della sera di domenica 18 giugno ha parlato del Venezuela come
di un paese sull’orlo della dittatura per colpa dei chavisti,
persecutori di
eroici oppositori innamorati della democrazia. Nello stesso
programma
l’evento del Brancaccio promosso da Tomaso Montanari e
Anna Falcone è stato rappresentato molto
sinteticamente come il
raduno della sinistra che non vuole stare nel Pd, identificata
quindi, sostanzialmente, dalla sua divisività incarnata dai
fischi a Gotor.
Subito dopo un’intervista a Romano Prodi, che al Brancaccio
non c’era neppure. Niente (dicasi niente) riguardo alla linea
politica
dichiarata da Montanari e dagli altri intervenuti. Nulla sul
programma (aliquote fiscali, patrimoniale, Stato sociale,
articolo 18, etc..), sulla
chiara e netta disamina della lotta politica in Italia. Ma, lo
si sa, la televisione è bene non guardarla.
Si sarebbe potuto capire di più leggendo il trafiletto che “Repubblica” (il giornale che ha educato generazioni di soggetti della sinistra liberal all’insegna dell’indignazione per la manipolazione berlusconiana) dedicava lunedì all’assemblea sulla Democrazia e l’eguaglianza? No. Niente di più del servizio del TG1.
Ogni attentato moltiplica geometricamente l’ovvinionismo mediatico, ma la diabolica spirale di cazzate in cui siamo immersi dal 17 agosto segna nuovi e decisivi record. Sui due principali network mediatici del paese (Repubblica e Corriere della Sera) il quesito dal sapore amletico occupa le prime pagine: come rendere esteticamente attraenti le barriere anti camion? Importanti i pareri consultati: Stefano Boeri propone querce e melograni al posto dei banali jersey di cemento; Benedetta Tagliabue avanza l’ipotesi di laghetti rinfrescanti; Mimmo Paladino suggerisce l’installazione di grandi corni portafortuna; più remissivo il proposito di Michelangelo Pistoletto, secondo cui le barriere dovrebbero essere costituite da aiuole colorate.
Queste interessanti e appropriate opinioni celano però una modalità di lettura del fenomeno terrorista inteso come fatalità, alla quale gradualmente adattare la società europea. Si vorrebbe spogliare il fenomeno terrorista della sua matrice politico-sociale, relegandolo a problema d’ordine pubblico al quale abituare il nostro “stile di vita”. Eppure il terrorismo genera il panico nella società occidentale proprio perché ha la sua genesi e la sua soluzione nella politica.
La notizia dell’ennesimo attentato che ha colpito l’Europa sta riempiendo giornali, tv e blog di immagini e video. All’indignazione per le tante vittime innocenti si intrecciano i commenti di intellettuali, giornalisti e politici. Purtroppo, come al solito, si tratta di commenti fuorvianti che cavalcano l’emozione del momento, completamente incapaci di mostrare una visione d’insieme. La quasi totalità delle opinioni che ci apprestiamo ad ascoltare nello tsunami dis-informativo che giungerà nelle nostre case non ci spiegheranno i perché di tali gesti che sono solo sintomi di una grave malattia. Una malattia che è la fine del modello di sviluppo del mondo occidentale che, per perseverare nella sua folle crescita economica, deve depredare nuovi territori sempre con maggiore voracità.
Il fine nei prossimi giorni sarà sempre lo stesso: dividere in modo ipocrita il mondo tra buoni e cattivi, in modo da permettere a coloro che esercitano il vero potere di raggiungere gli obiettivi prefissati. Obiettivi atti a giustificare nuove spese militari, ulteriori restrizioni delle libertà in Occidente e la possibilità di usare, ancora un volta, la religione come maschera per celare la vera posta in palio che è la razzia di petrolio, gas e stupefacenti. Negli ultimi anni pianificate guerre dirette e per procura hanno destabilizzato un’importante area geografica. Le aggressioni all’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria hanno fatto montare la rabbia.
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Grant Evans e Kelvin Rowley analizzano lo sviluppo dei movimenti comunisti in Vietnam, Laos e Cambogia e replicano alle affermazioni degli analisti occidentali, i quali hanno visto i conflitti fra questi tre paesi, successivi al 1975, come espressione di antagonismi “tradizionali”
Pubblicato
per la
prima volta nel 1984 e rivisto nel 1990, il libro di Grant
Evans e Kelvin Rowley, Red
Brotherhood at War: Vietnam, Cambodia and laos since 1975,
esplora le cause dietro la guerra inter-comunista in Asia
seguita alle riuscite
rivoluzioni in Vietnam, Laos e Cambogia.
A detta di alcuni, tali eventi esprimevano la fine delle idee basate sull’internazionalismo socialista. Il New York Times pubblicava un editoriale intitolato “La fratellanza rossa in guerra”, nel quale annunciava con esultanza: “Questa settimana cantavano ‘L’internazionale’ in ogni angolo dei campi di battaglia asiatici, mentre seppellivano le speranze dei padri comunisti insieme ai corpi dei loro figli”. Le “speranze dei padri comunisti” potevano essere sintetizzate, dato che la guerra era causata dall’imperialismo capitalista, nel’auspicio che il socialismo internazionale avrebbe portato la pace. Questi ideali si ritrovano ora sconvolti dai nuovi conflitti che attraversano l’Indocina. Non c’è da sorprendersi se molti nella sinistra occidentale sono stati colti da confusione e disorientamento di fronte a simili sviluppi.
I tardi anni Settanta son stati l’epoca di quella che Fred Halliday ha definito Seconda guerra fredda. Ovunque in Europa, era la destra ad essere in ascesa, sia politicamente che intellettualmente.
Dopo
l’attentato nazista che
a
Charlotteville ha causato morti e
feriti, sono stato inghiottito mio malgrado dalle
polemiche per una questione marginale se non irrilevante,
ossia l’oltraggio che ho
espresso, in quanto storico, di fronte all’idea che sia
“progressista” o comunque scusabile vandalizzare
opere d’arte solo
perché rappresentano personaggi “odiosi”, come un
soldato del Sud nella Guerra di Secessione americana.
In quanto storico io vado in panico al solo sentire parlare di “distruggere” un documento, sia esso un testo o una statua. Mi viene subito in mente che anche i cristiani provavano un giusto oltraggio di fronte alle statue religiose dei pagani (che li avevano perseguitati per secoli) scolpite da Prassitele o Fidia, e le sfasciavano. Come questo volto di Afrodite, copia da Prassitele, sfigurato da un cristiano che incise la croce sul volto e il naso per cancellare un passato “ignobile”, a beneficio dei posteri.
Migrare è una tendenza umana spontanea o è frutto di specifiche determinazioni?
Il
sito Italianieuropei, rivista della fondazione di
area politica riformista, voluta da una serie di personaggi,
tra cui spicca Massimo
D’Alema, contiene un articolo sul fenomeno delle migrazioni,
volto a rassicurare i lettori spaventati dalle migliaia di
arrivi di profughi
provenienti dal cosiddetto sud del mondo. Molto significativo
è il titolo dell’articolo (Immigrazione: fenomeno
inevitabile, sfida da
vincere), i cui contenuti cercheremo di smontare con
una serie di argomentazioni storiche, economiche e
antropologiche.
Innanzi tutto, del tutto ingenui sono i punti di partenza dello scritto: “Spostarsi sul territorio è un fatto naturale della vita. I movimenti migratori sono stati uno dei principali motori del popolamento del pianeta e del suo sviluppo economico e sociale”.
La prima constatazione tende a mettere sullo stesso piano i vari tipi di migrazione, che hanno alla loro base motivazioni assai diverse, come per esempio il passaggio dello stretto di Bering di uomini provenienti dall’Asia e diretti in America, avvenuto durante l’ultima era glaciale (situata in epoche diverse dagli studiosi), e la tratta degli schiavi (non solo africani), che analogamente produce spostamenti, in questo caso indesiderati, di popolazioni.
Come
sapete, uno dei temi portanti della mia ricerca, forse il più
rilevante in chiave di riflessione politica, è l'indagine
sulle cause dell'autorazzismo: quella porca rogna italiana di
autodenigrarsi, autentico cancro che corrode la nostra
capacità di elaborare
strategie coerenti sia sul piano interno, che su quello
internazionale. Ci ho scritto un libro (L'Italia può
farcela), ne ho discusso
qui con voi, a lungo, senza giungere a conclusioni definite.
D'altra parte, un fenomeno così devastante non ci si può
aspettare che
abbia un'unica causa: più facile che abbia molte concause. Col
passare del tempo, visto anche la particolare pervicacia dello
schieramento
progressista nell'aggredire indiscriminatamente gli italiani tout
court (inclusa quindi quella maggioranza di lavoratori
che i progressisti
pretendono di tutelare), mi ero fatto un'idea su quale potesse
essere la causa prevalente. L'Italia, va detto, è uno strano
paese: il paese in
cui una parte degli abitanti si gloria di aver vinto una
guerra che in effetti il paese ha perso (sì, parlo della
Seconda Guerra Mondiale).
Ora, è chiaro che questa mitologia (oggi si dice
"narraFFione") non può sostenersi che sulla asserita
superiorità etnica dei
vincitori rispetto al resto della popolazione, gli sconfitti.
D'altra parte, i pretesi vincitori erano partiti bene, dando
dei "mandolinisti" alla
compagine nazionale. Come volete che finisse?
Jacques Sapir commenta gli avvenimenti recenti che indicano dei mutamenti di atteggiamento verso l’euro: l’accusa della corte di Karlsruhe verso la BCE, che avrebbe agito in modo incompatibile con la Costituzione tedesca (mossa simbolicamente importante che lancia un avvertimento pesante a Draghi), e la proposta insolitamente argomentata fatta da Berlusconi per l’introduzione di una doppia moneta in Italia (proposta inattuabile, ma che ammicca all’uscita dall’euro). Si tratta in entrambi i casi di mosse legate al clima pre-elettorale. Tuttavia, esse mostrano come la politica sia sempre più spinta a prendere posizione sul tema dell’euro e ad assumersene delle responsabilità
Nel giro di una settimana si sono sommate diverse brutte notizie per l’euro. Si tratta essenzialmente di notizie politiche. Non torneremo, in questo articolo, sui problemi economici della moneta unica, che abbiamo già descritto e analizzato in vari post [1].
Queste notizie arrivano in parte dall’Italia, il che non sorprenderà nessuno vista la situazione di quel paese, che l’euro sta strangolando. Ma il punto importante è che un’altra notizia viene dalla Germania, fatto più intrigante che merita una spiegazione.
L’euro e la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe
Le prime cattive notizie provengono proprio dalla Germania. La corte costituzionale tedesca di Karlsruhe, che in effetti è l’equivalente della Corte Costituzionale, ha riconosciuto che le misure della Banca centrale europea note come PSPP (programma di acquisto titoli del settore pubblico) potrebbero rappresentare una violazione della Costituzione tedesca [2].
Scrivere sotto gli effetti di una sconfitta elettorale spesso può essere catartico, ma anche controproducente. In ogni caso, può essere anche un’occasione privilegiata per riacquistare un po’ di lucidità. I risultati delle elezioni PASO (Primarias abiertas, simultaneas y obligatorias) esigono un’analisi seria e profonda da tutti coloro che, da diverse prospettive, sono impegnati nella critica del neoliberalismo, poiché l’avversità va chiaramente al di là delle urne e sorregge il successo di quelle politiche a cui cerchiamo di resistere.
Cambiemos (il partito di Macri) sta consolidando il suo dominio in tutto il paese, grazie al supporto di segmenti sempre più ampi della popolazione. Il macrismo è penetrato con la propria versione del “cambiamento” in quasi tutti gli angoli del paese, fino a divenire una vera (e la principale) forza politica nazionale. Ha vinto in province in cui era impensabile vincesse fino ad ora. Ha conquistato una vittoria travolgente nei grandi centri urbani. E, benché sia stato sconfitto nella provincia di Buenos Aires (nell’estesa cintura della città di Buenos Aires, il ‘conurbano’) dalla principale candidata dell’opposizione, Cristina Kirchner, ha chiaramente incrementato la propria base elettorale (nonostante uno scontento generalizzato e piuttosto manifesto nei confronti del suo primo anno e mezzo di gestione). In sintesi, si può dire che la macchina “gialla” (colore scelto da Macri per rappresentare la propria forza politica) sia riuscita a conquistare un’importante sedimentazione territoriale.
Wikileaks rivela Expresslane: il software con cui la Cia ruba dati ai servizi segreti amici. L’Ots, il leggendario centro della Cia che mette a punto ogni sorta di soluzione hi-tech per le missioni di intelligence, ha creato un software per rubare scansioni dell’iride, impronte e riconoscimenti facciali raccolti dai servizi di spionaggio con cui collabora in tutto il mondo.
ExpressLane doveva rimanere segreto fino al 2034, ma WikiLeaks lo rivela oggi con Repubblica e con le testate francesi di Libération e Mediapart. Sintesi di racconto e segreti.
Office of Technical Service
È una delle sezioni più misteriose della Cia. Si chiama ‘Office of Technical Service’, OTS, e crea tecnologie futuristiche per le missioni d’intelligence. Durante la Guerra fredda, ad esempio, ha inventato una pistola a forma di sigaretta, telecamere miniaturizzate negli accendini, una penna capace di lanciare lacrimogeni e sistemi per neutralizzare l’auto di un avversario: cose da film di James Bond. L’ultima invenzione nota di Ots si chiama ExpressLane, e serve a rubare i dati biometrici raccolti dai servizi di intelligence con cui la Cia collabora nel mondo. Impronte digitali, scansione dell’iride, riconoscimento vocale e facciale, tecniche per stabilire l’identità di un individuo.
Nel suo
recente
Non è una questione politica (Italosvevo, pp. 67, euro
10.00) Alfonso Berardinelli si pone un interrogativo sulla
scelta di adottare il
termine «populismo» per indicare quegli attori che negli
ultimi due decenni hanno sfidato i partiti tradizionali. «Mi
chiedo da anni
chi è che ha deciso di chiamare ‘populismo’ ogni fenomeno
politico che incontra il favore crescente dei cittadini»,
scrive
infatti il critico (affrontando un nodo che, a dispetto del
titolo del volumetto, è ovviamente ‘politico’). E la risposta
che
suggerisce è molto semplice: «Ho detto ‘mi chiedo’. Invece c’è
poco da chiedersi, perché si sa
già. Da quasi un quarto di secolo una sinistra che ha perso il
‘senso della storia’ (per dirla con una sua vecchia formula),
che ha
perso la sintonia con quanto avviene nelle nostre società e
coccola invece le minoranze snob prendendo per diritti i loro
desideri, se la
prende con la volgarità del ‘popolo’» (p. 16). E, in termini
ancora più espliciti, ciò significa per
Berardinelli che la sinistra non rappresenta più quelle classi
sociali di cui era stata (o aveva preteso di essere) il
principale referente.
«Se la sinistra non rappresenta né le classi lavoratrici né i
ceti medi proletarizzati, allora vuol dire che rappresenta i
mendicanti e l’alta borghesia. Solo che i mendicanti non ce li
vedo a sentirsi rappresentati dal ceto politico di sinistra.
A proposito dell’articolo di un fisico italiano, apparso un giorno di questa estate afosa in un quotidiano economico
Nell’agosto di 130 anni fa nasceva a Vienna Erwin Schrödinger, noto per i suoi contributi fondamentali alla nascita della meccanica quantistica, a cominciare dalla formulazione dell’equazione recante il suo nome che gli valse il Nobel. Schrödinger fu un uomo di vasti interessi, che spaziavano dalla fisica alla botanica, dalla storia alla politica alla religione. Tra una conferenza sull’arte italiana ed una sulla filosofia tedesca, nel 1943 tenne un ciclo di lezioni al Trinity College di Dublino in una delle quali, anziché parlare di fisica quantistica come tutti si aspettavano, sviluppò il tema “Che cos’è la vita?”. Un anno dopo, quella lezione divenne un libro che avrebbe fatto storia della scienza.
I biologi non sanno definire la vita, ma anche un bambino la riconosce. Da ogni parte vediamo cocci che come per magia si ricompongono in splendidi oggetti, componenti aeronautiche che si assemblano da sole in macchine volanti, tessere sparse che si dispongono spontaneamente in posizioni ordinate. Sono i semi sepolti che diventano piante riordinando, una alla volta, sostanze sparpagliate nell’aria e nell’humus, con un lavorio continuo che sembra obbedire ai comandi di un programma. Sono gli uccelli che crescono da un embrione, i cui organi nell’uovo metabolizzano le molecole, aggregandole con tutta evidenza secondo un progetto e diventando splendidi oggetti volanti. È l’avventura di ogni essere umano iniziata dall’incontro di uno spermatozoo con una cellula uovo; è la ferita a un dito che si rimargina da sola; ecc., ecc.
Prima l’articolo del New York Times dove l’autore, Declan Walsh (già espulso dal Pakistan nel 2013 per pubblicazione di notizie false), pubblicava testimonianze di alcuni ex funzionari dello staff di Obama che fornivano “prove inconfutabili sulla responsabilità ufficiale egiziana” nel caso Regeni, tirando in ballo “alti membri del governo del Cairo”. Il giornalista del New York Times si inoltrava poi su questioni interne al governo italiano tirando in ballo presunte collusioni tra Eni, esecutivo a Roma e mediazioni varie con l’Egitto.
Pochi giorni dopo emerge che gli Stati Uniti hanno deciso di bloccare 195 milioni di dollari di aiuti militari all’Egitto e di ritirare altri aiuti per un valore di 96 milioni.
Le motivazioni? La preoccupazione riguardo al rispetto dei diritti umani e alle nuove leggi che limitano le Ong, come confermato martedì dal segretario di Stato Rex Tillerson e da fonti del Dipartimento di Stato americano.
In poche parole, se l’Egitto non “rispetta i diritti umani” e non permette alle Ong di operare, i finanziamenti non saranno ripristinati. Una decisione che suona come un ricatto bello e buono, ma perché a Washington stanno così a cuore il rispetto dei “diritti umani” e l’operato delle Ong in Egitto?
Pubblichiamo di seguito un documento di analisi e prospettive sull’Alternanza Scuola Lavoro
Il
documento,
frutto del lavoro collettivo svolto nel corso dell’ultimo anno
scolastico, inquadra l’Alternanza Scuola Lavoro all’interno
del
più generale processo di asservimento della scuola alla logica
di mercato, così come si sta realizzando in tutti i Paesi
europei e prova
a ipotizzare delle strategie di resistenza e risposta a questo
nuovo dispositivo obbligatorio, che riteniamo estremamente
pericoloso.
L’ASL infatti, oltre a creare manodopera gratuita minorenne, punta a modificare il modo stesso di pensare e pensarsi degli studenti e del corpo docente, con l’evidente scopo di formare manodopera più meno specializzata che sposi una idea di mobilità professionale e geografica estrema e che si abitui fin da subito alla logica della precarietà e della mancanza di diritti.
Siamo convinti che la ASL non sia riformabile, ma che debba essere combattuta nelle scuole e nei luoghi di lavoro, dove ha la potenzialità di trasformarsi in una sottrazione di posti di lavoro per il personale retribuito e che debba essere rigettata dagli studenti stessi, oggi costretti a svolgerla perché inserita in modo obbligatorio nell’Esame di Stato.
Lo
sgombero dei profughi (che siano rifugiati politici o
immigrati per ragioni di mera sopravvivenza è, per quanto mi
riguarda, del tutto
irrilevante) che occupavano dal 2013 l’edificio di Via
Curtatone, di proprietà di una immobiliare, la Idea Fimit, è
una chiara
operazione elettorale.
Era scontato infatti che la suddetta operazione, avvenuta in pieno centro di Roma, condotta peraltro anche con una certa dose di “teatralità”, diciamo così, da parte della polizia, sollevasse un grande polverone mediatico. E molto probabilmente era proprio quello che si voleva. Si potevano concordare delle soluzioni prima dello sgombero e non è stato fatto. Il balletto e il rimpallo delle responsabilità fra i vari enti, Comune, Regione, Governo, e fra le varie forze politiche dopo lo sgombero e le polemiche che ne sono seguite, è ridicolo.
Il governo Gentiloni – quindi il Partito Democratico – ha deciso di dare un segnale alla “pubblica opinione”, cioè alla “pancia” del paese e di fare concorrenza alla Lega di Salvini, al centrodestra nel suo complesso e anche al M5S che ormai da alcuni mesi a questa parte, specie dopo la debacle della ultime elezioni amministrative, ha dato anch’esso una sterzata a destra, specie in tema di immigrazione.
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In una lettera del 1951 a K. Jaspers, H.
Arendt si interroga sul concetto di “male radicale” che
aveva proposto all’interno della celebre indagine sulle
Origini del totalitarismo. Confessa di non saper bene
definirlo ma di avere la sensazione o intuizione che abbia a
che fare con una riduzione dell’uomo a concetto, forse gli
uomini hanno solo declinazione plurale e ogni loro
singolarizzazione è una riduzione pericolosa, pericolosa
perché taglia parti essenziali della loro stessa essenza
irriducibilmente molteplice. Aggiunge di avere il sospetto
che la filosofia non sia esente da colpe in questa riduzione
ad unum e del resto il sospetto viene facile visto
che la filosofia pensa appunto per concetti. A questo punto,
specifica che questo non porta in conseguenza -come poi
invece sosterrà Popper-, una discendenza diretta di Hitler
da Platone ma induce a pensare che la filosofia politica
occidentale sembra avere un punto cieco nel quale invece di
avere un concetto puro della politica come attività che
porta i plurali alla decisione singolare, ha sviluppato
molti tentativi di singolarizzare la natura umana di modo
che la decisione una, possa esserne dedotta in via
logico-naturale dall’unità della presunta natura umana.
La filosofia politica occidentale, ha avuto due linee di sviluppo principali. La prima risale a Platone ed è la teorizzazione ideale di un modello di funzionamento della comunità, la seconda risale compiutamente a Machiavelli ed è una teorizzazione pratica dello stesso modello.
Anche le crisi, guerre e disastri fanno bene al PIL. Le collusioni tra la politica e gli interessi economici derivanti dalle emergenze esplorate dalla Klein nel suo ultimo libro "No non è abbastanza! Come resistere nell’era di Trump".
«Dall’uragano
Katrina alle crisi finanziarie,
alcune multinazionali statunitensi sfruttano
da anni le emergenze per imporre riforme
liberiste e fare enormi profitti, a spese dei
cittadini più poveri. Oggi i dirigenti di queste
aziende sono ai vertici dell’amministrazione Trump».
Nei viaggi che ho fatto per scrivere reportage dalle zone di crisi ci sono stati momenti in cui ho avuto l’inquietante sensazione non solo di assistere al succedere di un evento, ma di scorgere un barlume di futuro, un’anteprima di dove ci porterà la strada che abbiamo preso se non afferriamo il volante e non diamo una bella sterzata.
Quando sento parlare il presidente degli Stati uniti Donald Trump, che evidentemente si diverte a creare un clima di caos e destabilizzazione, penso spesso di avere già visto quella scena. Sì, l’ho vista negli strani istanti in cui ho avuto l’impressione che mi si spalancasse davanti il nostro futuro collettivo.
“Soffriamo di una cittadinanza oppositiva, nazionale, puramente identitaria, mentre dovremmo essere preparati a vivere in una nuova common, ove la persona è cittadina in qualunque luogo si trovi”
Nell’era della
globalizzazione in cui siamo immersi è necessario
rielaborare il concetto di diritto, svilito dalle
trasgressioni sull’impianto costituzionale e dalla dilagante
corruzione. Retaggi di un passato che si è fatto un
insopportabile presente, in cui giustizia, vivere civile e
diritti sociali umanitari sono spariti. Stefano Rodotà (già
recensito in Solidarietà,
utopia necessaria) da eccellente giurista e
grazie alla sua passione civile, ci lascia in eredità,
tramite i suoi scritti, gli strumenti per analizzare le
questioni più importanti, legate al “diritto di avere
diritti”, che è anche il titolo di un suo importante saggio.
Lo spazio e il tempo dei diritti
È un nuovo mondo. Viviamo in uno spazio sconfinato. L’era dei sans frontieres e della globalizzazione, l’era di internet. Può dare effetti collaterali, come lo spaesamento o l’agorafobia. Se ne può verificare il rigetto e il voler tornare alle frontiere, a confini ben delimitati o anche allo Stato nazionale, all’identità territoriale, allo spazio privato ove l’altro che viene da lontano, se lo oltrepassa, è considerato un invasore e va tenuto a distanza, ne dobbiamo diffidare.
Sto trasecolando.
Il sistema di potere che ci opprime, che ha scatenato contro di noi la potenza distruttiva della libertà incontrollata dei capitali, collassa sotto ai nostri occhi per aver promosso, con gli stessi fini di deflazione salariale, un'altrettanto incontrollata (e formalmente illegale) mobilità del lavoro. Chiedendo venia per il cinismo, e con un pensiero alle vere vittime di questa spregiudicata manovra tattica, cioè ai rifugiati (quelli tipizzati dalla Convenzione di Ginevra del 1951), vorrei capire perché, proprio nel momento in cui il sistema commette un errore che si sta rivelando fatale per lui, dovremmo cominciare a beccarci fra noi, o ad assumere atteggiamenti che legittimino quello che il potere desidera: dare un giro di vite definitivo alla nostra libertà di espressione.
A differenza di quello prodotto dall'euro, il dumping prodotto dall'immigrazione incontrollata è palpabile e sta aprendo gli occhi a tutti. Quasi nessuno (anche qui) capisce la differenza fra svalutazione e inflazione: chi lo aveva avuto in sorte ha capito che qui c'era un pezzo di verità, ma quanto ad aver capito quale verità fosse, sarà meglio che sorvoliamo (e non parlo solo della nostra cara Nat)... Tuttavia, la differenza fra lavorare o trovarsi a spasso, o quella fra tornare a casa intero o a pezzi, la capiscono tutti, giusto?
Il livello del dibattito pubblico sui fenomeni migratori, lo sappiamo, è quello che è: sconsolante. A stupire ogni volta è l’assoluta mancanza di dati di fatto in grado di giustificare, almeno parzialmente, le paure sociali generate dalla costante polemica politica sui migranti. Secondo alcuni di questi dati, scopriamo che l’Italia è l’ottavo paese al mondo per numero di emigranti (250.000 nel 2016), un dato che ha fatto preoccupare persino l’Ocse. In Italia c’è in effetti un problema migratorio, ma nel senso contrario rispetto alla vulgata comune: posta nella classifica dopo il Messico e prima del Vietnam, dall’Italia si emigra troppo. Gli italiani, insomma, raccontati come accoglitori riluttanti di stranieri in fuga, sono piuttosto un popolo accolto dagli altri paesi. Basterebbe solo questo dato per destituire di fondamento qualsiasi polemica politica sul fenomeno migrante in Italia. Ma ce n’è un altro altrettanto decisivo per smontare le narrazioni razziste che egemonizzano il confronto politico: a fronte dei 250.000 italiani emigrati, nel 2016 sono entrati in Italia complessivamente 181.000 migranti. Il saldo è negativo per 69.000 persone! L’Italia, insomma, è un paese che si sta lentamente svuotando. Oltretutto, bisogna aggiungere che dei 181.000 arrivati una quota importante transita per l’Italia verso altri paesi.
Alla metà del XIX secolo il tema della uguaglianza sociale stava cominciando a prendere piede anche in Russia. Nel 1859 l'Università statale di San Pietroburgo permise alle donne di assistere ai propri corsi, ma la politica riformista fu revocata solo quattro anni più tardi. Nel corso degli anni '60 del XIX secolo un movimento femminista cominciò ad esistere a San Pietroburgo: venne diretto da Anna Filosofova, Nadezhda Stasova e Mariia Trubnikova, che insieme erano conosciute come il "triumvirato".[..]
Nel 1910 Poliksena Nesterovna, prima donna ad essersi diplomata in ginecologia in tutta la Russia, diventò presidente della Lega russa per i diritti delle donne; l'obiettivo primario sotto la sua guida fu quello del suffragio femminile universale: il movimento guadagnò molto sostegno popolare sia all'interno sia all'esterno del paese. Nel marzo del 1917 il governo provvisorio che aveva sostituito l'autocrazia di Nicola II di Russia concesse alle donne russe il diritto di voto e di presiedere un ufficio politico: fu la prima riforma effettuata dal nuovo potere politico.
Le donne nella Russia Sovietica sono diventate un parte fondamentale nella mobilitazione nella forza-lavoro e questa apertura delle donne in settori precedentemente irraggiungibili hanno permesso opportunità di istruzione, sviluppo personale e formazione.(..)
Una delle chiavi per comprendere la politica mediorientale e gli sviluppi del difficile rapporto fra Russia e Stati Uniti è rappresentata dalla collaborazione fra Russia e Turchia. I due Paesi, che per mesi sono apparsi sull’orlo di una guerra, vivono oggi un periodo di sostanziale collaborazione, tanto che si può ben parlare di un rinnovato rapporto di amicizia fra Ankara e Mosca dopo le turbolente fasi dell’inizio della guerra in Siria e dell’abbattimento del caccia russo ad opera della contraerea turca. La Storia insegna che Turchia e Russia non possono considerarsi estranei alla propria geopolitica, ma la loro esistenza risulta sempre legata a doppio filo grazie a tre aree geografiche che le collegano e le dividono: i Balcani, il Mar Nero e il Caucaso. Su queste tre direttrici si è sviluppato il rapporto mai facile fra questi due mondi, prima imperi ora Stati, e ora, sempre sulle stesse direttrici ed anche con diversi protagonisti, può rafforzarsi e tornare a essere un rapporto proficuo.
La guerra in Siria ha rappresentato sicuramente uno spartiacque importante per la svolta nei rapporti fra Mosca e Ankara. Per decenni, la Turchia ha rappresentato il bastione della Nato in Medio Oriente e un limite all’avanzata della sfera d’influenza russa nell’area mediorientale.
A seguito delle manifestazioni
convocate dal movimento femminista contro l’investitura di
Donald Trump, Nancy Fraser, attualmente professoressa di
Filosofia e Politica presso la New School for Social
Research di New York, firmò – assieme a molte altre, come
Angela Davis e Rasmea Odeh – un appello per un “femminismo
del 99%”, transazionale e anticapitalista. La sua
scommessa cerca di costruire un femminismo maggioritario,
inclusivo, che rifiuti la cooptazione neoliberale.
Con vari decenni di lavoro accademico alle spalle, durante i quali ha indagato questioni come la giustizia, il capitalismo ed il femminismo, Fraser è al giorno d’oggi una delle più riconosciute intellettuali del pensiero critico. Ferma nella difesa della strategia attuata da Bernie Sanders, critica su Hillary Clinton e in strenua opposizione a Trump, in questa intervista analizza nel dettaglio la situazione politica attuale, posizionandosi a favore di un “populismo di sinistra” che si opponga al “neoliberalismo progressista” e al “populismo reazionario”.
* * * *
Qual è la sua valutazione dei primi cento giorni del mandato del Presidente Trump? Cosa ci raccontano questi mesi sul suo progetto, i suoi limiti e le possibili resistenze?
Direi che ci segnalano due aspetti: da un lato, la facilità con la quale le correnti più convenzionali del Partito Repubblicano siano riuscite a frenarlo e a disarmare la dimensione populista della sua campagna.
Replico ad un commento di Roberto Buffagni apparso sotto l’articolo “Migrazioni: punti di vista in contrasto” (qui). Lo riporto per comodità all’inizio del post. [E. A.]
Roberto Buffagni 17 agosto
2017 alle 13:57
Caro
Ennio,
in
breve:
1) Cina, Cambogia, Manifesto, Fortini. Non ho voglia di fare ricerche in biblioteca per documentare gli abbagli della “sinistra critica” sul compagno Mao e il compagno Pol Pot, ci sono e chi ha la nostra età se li ricorda. Fortini, che era una persona intelligente, di Pol Pot non si innamorò mai, della Cina di Mao sì, come attesta “Asia maggiore”, 1956, un diario di viaggio in Cina in cui Fortini, oltre a scrivere delle belle pagine impressionistiche su paesaggio della Cina e contadini cinesi, fa l’Alice nel Paese delle Meraviglie credendo a tutto quel che gli ammanniscono i suoi tour manager (il Céline non ancora fascista ma già scettico e scafato, in viaggio in URSS vent’anni prima, NON ci è cascato, probabilmente uno dei motivi per cui è diventato fascista è proprio quel viaggio). In quegli anni Cinquanta, uscivano sulla stampa capitalistica anglo accessibilissima a Fortini notizie di un paio di milioncini e mezzo di “nemici di classe” non meglio specificati appena sterminati a freddo dal compagno Mao dopo la guerra. Fortini non è il solo a sorvolare, c’è un interessante scambio di lettere tra Piero Calamandrei e suo figlio, allora giornalista dell’Unità che si occupava dell’Oriente, in cui Piero chiede notizia degli sterminati, se sia vero o no, o aggiunge che se fosse confermata la notizia sarebbe grave PER LE RIPERCUSSIONI PROPAGANDISTICHE favorevoli al campo avverso (Calamandrei non era neanche comunista, ma azionista).
Nel 1973, il colpo di stato del generale
Pinochet contro il Governo di Unità Popolare in Cile provocò
un’ondata di indignazione senza precedenti nei settori
progressisti del mondo intero. La sinistra europea ne fece
il simbolo del cinismo delle classi dominanti che avevano
appoggiato questo “pronunciamiento”. Accusò Washington,
complice del futuro dittatore, di aver ucciso la democrazia
armando le braccia assassine dei militari golpisti. Nel
2017, al contrario, i tentativi di destabilizzazione del
potere legittimo in Venezuela hanno raccolto nel migliore
dei casi un silenzio infastidito, un sermone moralizzatore,
quando non una diatriba antichavista da parte degli ambienti
di sinistra, che si trattasse di responsabili politici, di
intellettuali che godono di appoggi o di organi di stampa a
grande tiratura.
Dal Ps all’estrema sinistra (ad eccezione del “Pôle de renaissance communiste en France”, che ha le idee chiare), si rimesta, si mette insieme capra e cavoli, si rimprovera al Presidente Maduro il suo “autoritarismo” il tutto mentre si accusa l’opposizione di mostrarsi intransigente. Nel caso migliore, si chiede al potere legale di fare dei compromessi, nel peggiore si esige che si dimetta. Manuel Valls, ex primo ministro “socialista”, denuncia la “dittatura di Maduro”.
Quando si parla di immigrazione l’occidentale medio, che ormai parla e pensa come se fosse un pixel di un megaschermo globale, si divide e si azzuffa tra xenofobi o accoglienti dando l’impressione della vita, mentre si tratta di un fenomeno galvanico, di nervi scoperti che non chiedono di andare al cuore delle cose, che non si chiedono le ragioni della migrazione e non pretendono che l’informazione fornisca delle tracce, come avvertendo che questo sarebbe un peso sulle loro coscienze e una rivelazione sulle loro vite. Sì, è vero, il macello siriano ha fatto muovere un po’ l’ago dell’encefalogramma, ma ha anche prodotto un nuovo equivoco ben presto sfruttato dalle oligarchie euroamericane per dividere l’incessante flusso di naufraghi della civiltà tra richiedenti asilo cui la cattiva coscienza offre formalmente una possibilità di accoglienza e i migranti economici che invece non hanno alcun diritto se non quello, all’occorrenza, di essere gestiti in funzione del nuovo schiavismo.
In questo modo, paradossalmente, l’occidente nasconde il sangue che costa lo sfruttamento intensivo dell’Africa che per essere attutato si serve di regimi assoldati, di guerre che rendono impossibile il controllo dei governi sulle risorse, di spedizioni punitive.
Com'è evidente le élite dominanti, forti del loro predominio economico, tengono stretto, per difendere quello politico, il loro monopolio sui mezzi di informazione.
Certo, alcune cose sono cambiate con l'arrivo di internet, ma resta che per manipolare l'opinione pubblica, decisivo è il possesso delle principali testate giornalistiche, delle più grandi case editrici, quindi dei grandi canali televisivi.
Fateci caso, come nelle banche, nella finanza e nelle grandi aziende, anche in quello dell'informazione il sistema inossidabile è quello delle porte girevoli: c'è una ristretta cupola di ottimati, di prescelti, a cui vengono sistematicamente assegnati i posti apicali. Si tratta di una vera e propria aristocrazia autoperpetuantesi di tipo feudale, una cupola massonica alla quale si accede solo ed esclusivamente per cooptazione.
Guardate ad esempio ai cosiddetti opinion makers o opinion leaders, in particolare quelli che scrivono gli editoriali su quotidiani come il Coriere della sera, repubblica, ecc.
Da decenni sono sempre loro, con qualche new entry per sopperire al turn over. E da decenni stile e discorsi sono i medesimi. Lo stile è sapienziale, pontificale, politicamente corretto, tipico di chi, pur essendo partigiano, si camuffa volendo far credere di essere al di sopra delle parti.
Per una volta la prova di forza la vincono occupanti e migranti. Sarà stata la figura di merda internazionale, la condanna dell’Onu, le parole della Chiesa o, più semplicemente, l’ostinazione delle famiglie sgomberate e la forza dei numeri vista ieri in piazza. Fatto sta che persino il Viminale è costretto al mezzo passo indietro: «Stop agli sgomberi se non ci sono case disponibili», riportano i giornali.
Non va sottovalutato neanche lo sciacallaggio orchestrato dal Pd in questi giorni. Ieri Repubblica sembrava l’organo dei movimenti di lotta per la casa: «Se la povertà diventa una colpa.
L’aria che si respirava lo scorso dicembre a Damasco era di assoluta tranquillità. I new jersey sparsi negli snodi centrali della città per evitare attacchi terroristici erano e sono ancora necessari. Le macchine zigzavano per dirigersi verso il centro e i militari controllavano con una precisione maniacale ogni automobile. Gli errori non erano ammessi. C’era in ballo la vita non solo dei militari stessi, ma anche quella di tutti i civili che passeggiavano per le strade. Oggi, a quasi un anno dalla mia visita a Damasco, ritrovo gli stessi new jersey per fermare i terroristi nelle principali vie di Milano, Roma e Torino. Con un po’ di ipocrisia, quando i jihadisti
Lo scorso dicembre a Damasco si pensava che la guerra sarebbe finita entro la primavera. Una previsione un po’ troppo ottimistica, ma rivelatrice di un fatto: Bashar al Assad stava vincendo la guerra in Siria. Lo dimostra il fatto che lo scorso luglio la banca centrale siriana ha annunciato che verrà messa in circolazione una nuova banconota da 2mila lire raffigurante il volto di Bashar, che andrà così a sostituire quello del padre, Hafez. Il presidente siriano sa di essere diventato un simbolo per tutto il Paese: “Io sono un simbolo. Se va via un simbolo crolla tutto”. E questa strategia sembra reggere, se è vero che quasi 603mila cittadini siriani , per l’84% sfollati interni, sono tornati ai loro luoghi d’origine tra gennaio e luglio 2017.
Il 29 agosto 2017 è
stato
approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il
Reddito di inclusione (REI). Si tratta di una misura nazionale
di contrasto alla
povertà, selettiva e condizionata. Si compone di due parti:
In questa scheda presentiamo i requisiti richiesti, così come descritti dallo stesso ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale
Requisiti di residenza e soggiorno
Possono accedere al REI le seguenti categorie di cittadini:
Con il
cambio
netto e repentino di linea politica sulla questione dei
migranti da parte di Minniti, Gentiloni, Mattarella – poi
santificato
nell’incontro di Parigi – la sinistra clintoniana italiana si
è trovata in una crisi imprevista. L’ideologia
dell’accoglianza sempre e comunque non c’è più.
Un cambiamento di politica non nato, a mio parere, solo per un mero calcolo elettorale del PD, ma dalla spinta di apparati dello Stato che hanno ritenuto l’immigrazione di massa illegale non più gestibile.
In rapidissima sequela, sono scesi in campo Saviano, il manifesto, Ezio Mauro, Calabresi, Giannini, Ignazi, Maltese ed altri ancora. Non è mancato ovviamente l’intervento dell’ineffabile Boldrini.
Il tono è quello dell’indignazione moralisticheggiante: reato umanitario, inversione morale, emergenza morale, resa della civiltà, il dovere di rimane umani e cosi via.
Per costoro la regolamentazione delle ONG appare un reato morale. Per colpire gli scafisti, si sentenzia, si colpiscono anche coloro che salvano le vite. L’azione dei volontari, in quanto dettata dalla sfera della coscienza, sarebbe intoccabile.
Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore, Laterza, Roma – Bari 2016, pp. 378, 18 euro (scheda libro)
A 10 anni
dall’inizio della crisi, appare ormai chiaro come l’economia
del settore pubblico rappresenti sempre di più la chiave di
volta per
quei problemi, rimasti sopiti o ignorati fino alla recessione
iniziata nel 2007, che stanno affliggendo i paesi occidentali.
Negli ultimi
l’opinione comune circa l’intervento statale era che questo
avrebbe dovuto mantenersi ai margini dell’azione di governo,
limitandosi
alla garanzia della legalità ed alla “stabilizzazione” del
mercato in momenti difficili.
Come sostiene brillantemente Mariana Mazzucato nel suo libro “Lo Stato Innovatore”, il pubblico non è un’entità inerziale, un carrozzone di poco valore che soffoca le forze del mercato, i cui eventuali “fallimenti” sono l’unica cosa di cui debba occuparsi. Lo Stato è invece il principale promotore dell’innovazione, un processo fondamentale per la crescita economica, caratterizzato però da una fortissima incertezza, la cosiddetta “incertezza di Knight”[1]. L’innovazione è quindi un processo su cui il capitale privato sarà disposto ad investire solo in una fase finale, quando saranno chiaramente visibili i ritorni finanziari. Il problema quindi è che, senza gli iniziali investimenti dello Stato, unico attore a sapersi realmente accollare grossi rischi e fornire “capitali pazienti”, non si potrebbe nemmeno dare il via a quel processo cumulativo e rischioso che è l’innovazione.
Alla luce del fallimento delle politiche attuate da quasi un decennio, occorrerebbe una radicale correzione di rotta. Nella direzione dell’utilizzo dello spazio fiscale disponibile per maggiori investimenti pubblici che facciano crescere, contestualmente, la domanda interna e la produttività del lavoro
Il combinato di politiche di austerità (ridenominate misure di “consolidamento fiscale”) e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.
Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali.
A me l’accordo sui migranti dei governi della Unione Europea fa ribrezzo. Prima di tutto per l’infamia di un progetto che, come fu detto dagli autori dello sgombero di Roma, serve a far sparire le persone, non a risolvere i loro e i nostri problemi. Lo scopo di tutta l’operazione è costituire campi di concentramento di migranti, chiamati ipocritamente hotspot, in piena Africa, impedendo così alle persone di giungere ai confini della Unione Europea. Naturalmente per fare questo bisognerà costruire basi militari, inviare soldati, corrompere ancor di più governanti già abbondantemente corrotti, pagare lautamente le bande di tagliagole che sul traffico di persone guadagnano.
Alla fine il costo per noi sarà ben superiore ai 35€ al giorno per persona dell’accoglienza. Al governo turco di Erdogan la UE versa 6 miliardi perché fermi, con i suoi metodi, i migranti. Costerà moltissimo, però i migranti non li vedremo più, già 18.000 sbarchi in meno, vanta Minniti, che gongola per gli elogi europei ricevuti. Dove sono? Nel deserto in attesa di sparire. Quando Salvini e Renzi dicono “aiutiamoli in casa loro” intendono questo: aiutare chi ci toglie di mezzo il problema, cioè le persone.
E poi ecco la tripla ipocrisia dei governi europei, che non solo nascondono le loro vere intenzioni sui migranti nel solito sproloquio sui diritti umani, ma usano gli sbarchi qui per sbarcare in Africa con un rinnovato colonialismo.
Porre l’accento sui caratteri della trasformazione industriale 4.0 permette di rendere evidente quale è la contraddizione sociale di fondo e apre un ampio spazio di riflessione teorica e di discussione politica per qualificare progetti alternativi
Certo che c’è “un” problema, come sostiene Aimar, ma forse è “il” problema, se è vero che – come indicano Guarascio e Sacchi – il salto tecnologico giunto a maturazione, e riassunto sotto l’etichetta “Industria 4.0”, prospetta – o, meglio, impone – una società in cui le condizioni di lavoro, e quindi di vita, di una larga parte della popolazione siano contraddistinte da precarietà e insussistenza.
Nelle sue linee essenziali, il problema è ben definito dai due interventi. Come argomentano Guarascio e Sacchi, l’organizzazione produttiva di Industria 4.0 non è “neutrale” per quanto riguarda la quantità e la qualità dell’occupazione futura dato che, come noto, le forme della distribuzione sociale dipende dalle forme dell’organizzazione produttiva. Entrambi gli interventi, ritenendo insoddisfacenti le prospettive implicite nelle tendenze in atto, esprimono la necessità di una politica economica che affronti la questione della “sostenibilità sociale della futura organizzazione economica al fine di garantire in via strutturale una più equa distribuzione dei costi e dei benefici.
György Lukács scrive Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, donandoci un testo oggi prezioso per chiarire a noi stessi ed alle generazioni future gli effetti della fine del comunismo storico novecentesco. L’integralismo del liberismo è florido mediante l’operazione ideologica dell’oblio programmato perennemente in opera. Lenin non solo è dimenticato, ma in particolare è associato nell’immaginario a Stalin, o a un’epoca di soli errori, tutti da dimenticare. Ci dicono che viviamo nel migliore dei mondi possibili, per cui ogni ricerca è ritenuta vana: nell’epoca degli idola, la nostra, non si vuole che la cifra dell’autenticità possa guidare verso una comprensione più vera e complessa del recente passato; si teme, probabilmente, un confronto contrastivo che possa rimettere in gioco i pregiudizi ideologici che puntellano l’integralismo dei nostri giorni.
Il sottotitolo dell’opera di György Lukács è il filo di Arianna che ci può condurre nella lettura del testo. Lenin era un materialista dialettico che aveva accolto la lezione migliore di Marx ed Hegel. Le contingenze storiche non sono sufficienti causare la Rivoluzione; senza l’azione di un partito organizzato che favorisca l’emergere della coscienza emancipativa e progettuale degli ultimi, non vi è rivoluzione. La rivoluzione ha un destino storico se una parte, anche limitata, della popolazione decide di rompere le catene secolari della mortificazione, e dell’alienazione.
Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici.
Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)
L’ideologia
e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il
bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante,
che
può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una
ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene
aggredita prima
da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor
Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e
attraverso complesse
vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile
minaccia;
divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo averlo sconfitto.
Primo
antefatto.
Respira e intona il mantra: «Class is not cool»
Un libro racconta la storia di un educatore precario, figlio di un operaio di una fonderia. Padre e figlio si incontrano a parlare il sabato pomeriggio allo stadio. Come viene descritto quel romanzo inglese in Italia? Come un libro sul calcio. Ma in realtà quel romanzo è un racconto sulla classe operaia. Sulla working class inglese, che notoriamente attorno alla birra, al pub e al football aveva costruito elementi di convivialità e socialità. Dopo la fabbrica, ovviamente, ma quella era già stata smantellata. Così in Italia si adotta come un libro sul calcio quello che invece è un romanzo che racconta una classe sociale. La working class inglese.
Guai infatti a parlare di classe operaia. Ripetere tre volte il mantra ad alta voce: la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste – la classe operaia non esiste. Poi comprare su una piattaforma on line una penna usb assemblata in una fabbrica cinese e chiedersi quante decine di mani operaie toccano quel singolo oggetto da Shanghai a Piacenza.
Secondo antefatto. La servitù sta al piano basso, reparto «Sociologia»
Un’amica mi racconta un episodio curioso: entrata in una grande libreria di catena di Firenze, chiede una copia del mio libro Amianto, una storia operaia.
Ai piedi
del post “Circa
Emiliano Brancaccio “La
sinistra è malata quando imita la destra”, ripreso da Sinistra
in Rete con un titolo lievemente diverso, precisamente
sotto quest’ultimo
Fabrizio Marchi, direttore de L’interferenza, ha
postato il seguente gradito commento:
“Partendo dall'ultima affermazione contenuta nel'articolo, se è vero che non si possono aiutare gli ultimi ad esclusivo danno dei penultimi, è altrettanto vero che non si può fare la guerra agli ultimi per "difendere" i penultimi …
Ergo, è necessario un lavoro molto paziente, lungo e difficile per spiegare sia agli ultimi che ai penultimi che le cause della loro condizione non sono determinate da loro stessi ma da altri, cioè dai veri padroni del vapore che hanno interesse a che ultimi e penultimi siano in competizione e si facciano la guerra. Mi rendo conto che è un lavoro lunghissimo e che non porta risultati immediati, però non c'è alternativa. Resto convinto che l'immigrazione sia solo un effetto, o uno degli effetti, del processo di espansione planetaria del capitalismo (quella che viene chiamata globalizzazione, processo in realtà in corso da secoli e oggi giunto alla sua fase apicale) e che quindi la riduzione dei salari e il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori autoctoni sia solo in modesta parte determinato dalla presenza di lavoratori immigrati. Le cause principali sono altre. La sconfitta storica del Movimento Operaio e della Sinistra nel suo complesso e il crollo del socialismo reale, hanno tolto di mezzo ogni ostacolo al capitalismo che è da trent'anni all'offensiva (dicasi guerra di classe, ma dall'alto) senza più nessun ostacolo.
Le lettere che Antonio Gramsci inviò ai famigliari durante la detenzione cui fu sottoposto dal regime fascista fra il 1926 e il 1937, detenzione che lo condusse alla morte, sono un documento eccezionale di umanità e di cultura, senza precedenti nella storia letteraria del nostro secolo1. Esse, sia con i riferimenti alle condizioni psicofisiche di Gramsci sia nello stile che da ironico e discorsivo si fa sempre più cupo e tagliente, riflettono i diversi periodi della carcerazione. L’odissea carceraria del rivoluzionario sardo ha infatti il suo inizio quando Gramsci, con l’entrata in vigore delle “leggi eccezionali”, benché protetto dall’immunità parlamentare viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, nel più assoluto isolamento, e contemporaneamente tutti i parlamentari comunisti vengono dichiarati decaduti. Dopo quelli di Ustica (1926-’27) e di Milano (1927-’28), con l’arrivo al carcere di Turi ha inizio per Gramsci, prima del ricovero in clinica a causa del progressivo aggravamento delle sue condizioni di salute, il periodo più lungo della sua vita di detenuto (1928-’33), talché il problema di sopravvivere nelle condizioni in cui si trova acquista un posto centrale nella sua vita e diventa assillante.
Gramsci sa bene che il carcere, nelle intenzioni dei suoi carnefici, ha e vuole avere una funzione punitiva, deve distruggerlo come uomo e svilire la sua ricca umanità.
Se, in questa vita, rispondiamo delle nostre azioni attraverso il sistema delle leggi, e nell'altra ne rispondiamo, secondo il buddismo, attraverso reincarnazioni successive, il motivo sta - scrive Giorgio Agamben nel saggio Karman - nel fatto che morale religiosa, diritto ed etica fondano sul principio per cui ogni azione è legata alle sue conseguenze, e noi, a tale principio, soggiaciamo.
Qualche anno fa Agamben ha diviso il mondo in due gruppi. Gli esseri viventi e l'insieme di istituzioni, saperi e pratiche che controllano e orientano i gesti e i pensieri degli esseri viventi: i dispositivi.
* * * *
Domanda: Professore, il diritto - le cui porte, se fosse un edificio sarebbero la causa e la colpa - è un dispositivo al quale sottrarsi?
Agamben: "Il diritto è una parte troppo essenziale della nostra cultura perché ci si possa semplicemente sottrarre a esso. Altrettanto vero è, però, che la nascita del cristianesimo coincide con una critica implacabile della Legge. È difficile immaginare una obiezione più radicale di quella contenuta nelle affermazioni di Paolo secondo cui senza la legge non ci sarebbe stato il peccato e il messia è la fine e il compimento (il telos) della legge.
Le borse sono al loro massimo storico, l’inflazione è minima, le Banche centrali, a partire dalla FED e dalla BCE si congratulano per il successo delle loro politiche di Quantitative Easing (QE). Il loro entusiasmo è appannato solo da un tenue pericolo che scoppi una nuova bolla speculativa e dalle minacce che partono da Trump e Goldman Sachs di allentare le regole di disciplina finanziaria introdotte negli USA da Obama.
Vorrei provare a spiegare, con pochi riferimenti colti ma molto semplici, perché vi è qualcosa di illusorio e illogico in questa contentezza.
Alcuni economisti di altri tempi (Simon Newcomb, Irving Fisher) definirono, a cavallo del ‘900, una relazione da un lato tra quantità di moneta (M) e sua velocità di circolazione (V, il numero di volte che in un anno la stessa moneta è usata per le transazioni T che avvengono in una economia), e, dall’altro, le quantità di “cose” scambiate attraverso tali transazioni e i relativi prezzi medi (P): MV=TP. Si tratta di una sorta di identità ma bisogna stare attenti. Quali sono infatti le cose oggetto delle transazioni?
Per quei due economisti “tutte”, dalle compravendite di proprietà immobiliari avvenute in un anno, ad esempio, ai chili di pesce prodotti e scambiati nello stesso anno. Si tratta quindi di “cose” molto eterogenee.
La battaglia di Dunkerque si svolse tra il 26 maggio ed il 3 giugno 1940. Guderian era a 16 km da Dunkerque, ultimo contatto tra le armate franco -britanniche e il mondo esterno, un’ora per i carri armati. L’accerchiamento era completato. Ma arrivò l’ordine di Hitler di non sorpassare la linea Lens-Béthune-Aire-Saint Omer-Gravelines. «Dunkerque deve essere lasciata all’aviazione» disse Hitler. Sembrerebbe una concessione a Göring, il quale lamentava che la sua Luftwaffe non aveva una parte sufficientemente grande nella vittoria, perché il primo posto era lasciato all’esercito, i cui capi reazionari – a detta del maresciallo – detestavano “la rivoluzione nazista”.
«Da Gravelines, Guderian comunica che vede la città, che tira sulle navi, che è testimonio di imbarchi massicci e chiede l’autorizzazione a piombare nello straordinario disordine che regna nelle file nemiche. Brauchitsch acconsente…»1. Ma Hitler bloccò tutto. Dichiarò che non avrebbe deciso personalmente, ma che avrebbe chiesto il parere del generale Rundstedt, il quale, contro il parere del suo superiore Brauchitsch e di Guderian, diede ragione a Hitler.
Sulla battaglia di Dunkerque si è detto e scritto moltissimo, chi pensa ad un errore di Hitler, chi a un miracolo a favore degli inglesi. La leggenda si è sostituita alla storia. Per questo è importante riscoprire uno scritto pubblicato su “Prometeo”, sicuramente di Bordiga.
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Federico Pieraccini: Il Grande Gioco Mediorientale: Qatar vs Arabia Saudita
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Martin Empson: Natura, lavoro e ascesa del capitalismo
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Una delle questioni più
affascinati della storia delle idee è capire come una corrente
minoritaria del pensiero economico, il neoliberalismo,
sviluppatosi in Germania
e Austria fra la prima e la seconda guerra mondiale, sia
riuscita a conquistare negli ultimi decenni del XX secolo un
ruolo egemone, nella vulgata
degli studiosi e nelle politiche degli Stati. Tanto da
giustificare l’idea di un “progetto”, o una manovra
neoliberista, pervasiva
al punto da determinare la vita d’ogni essere umano sul
pianeta. Ma la questione di più scottante attualità è il
tramonto
di questa corrente insieme al suo ambizioso tentativo di dare
luogo a un modello di civilizzazione alternativo e virtuoso.
Il libro
Il libro di Massimo De Carolis ha il grande merito di scandagliare in profondità – sulla scorta di altri pensatori, soprattutto il Foucault delle lezioni contenute in Nascita della biopolitica (Feltrinelli, 2005) – le origini di questa tendenza di pensiero per scovarne nella miopia teorica le cause del suo tramonto.
Dopo il gran tam-tam estivo il Venezuela è
sparito dai giornali italiani. Eppure, nel giro di tre giorni,
El País di Madrid, che da
una ventina di anni sta alla versione ufficiale delle destre
neoliberali sull’America latina come la Pravda stava al PCUS e
all’URSS, e
come tale merita di essere letto con la massima attenzione, ha
pubblicato ben due articoli significativi di un cambiamento in
atto. Questi infatti
dimostrano grande frustrazione, e un filino di rabbia,
rispetto al comportamento dell’opposizione venezuelana,
appoggiata fino a ieri con
trasporto nella sua lotta contro la “dittatura castrochavista”
di Nicolás Maduro.
Il primo è firmato dal giornalista venezuelano Ewald Scharfenberg, di fatto corrispondente dalla capitale caraibica, il secondo è un editoriale del cattedratico argentino di stanza a Georgetown, Héctor Schamis, che da Washington è sempre stato durissimo con tutti i governi progressisti latinoamericani. Per entrambi l’opposizione sarebbe rea di non aver dato la spallata finale al regime chavista che, come ripetuto per mesi, era ormai cosa fatta.
In particolare per Schamis l’opposizione sarebbe incomprensibilmente più volte andata in soccorso del governo.
La Rivoluzione d’Ottobre e l’inizio della costruzione dello stato sovietico a Pietrogrado
E’
annunciata
per il prossimo 14 settembre l’uscita del libro dello
storico americano Alexander Rabinowitch “1917. I
bolscevichi al potere” (Feltrinelli). Si tratta della
riedizione di quello che
è diventato ormai un classico tradotto in tutto il mondo
della storiografia sulla rivoluzione russa già pubblicato in
Italia nel 1978
dalla Feltrinelli. Nel 1989 fu il primo lavoro di uno
storico occidentale sulla rivoluzione bolscevica a essere
pubblicato in Russia con grande
successo tra gli storici e i lettori (oltre 100.000 copie
della prima edizione andarono rapidamente esaurite).
Purtroppo è l’unico testo
disponibile in italiano di uno dei più importanti studiosi
della Rivoluzione del 1917. Dà l’idea di quale sia stato il
clima
culturale nel nostro paese negli ultimi decenni il fatto che
dagli anni ’70 non siano stati tradotti gli altri suoi
lavori, in particolare gli
altri due volumi della sua trilogia sulla rivoluzione:
Prelude to revolution e The Bolsheviks in Power: The First
Year of Bolshevik Rule in Petrograd
che nel 2007 uscì in contemporanea in edizione russa e
inglese. Vi proponiamo la traduzione della conferenza che
Alexander Rabinowitch ha
tenuto presso la Humboldt University di Berlino il 14
ottobre 2010 in occasione della ripubblicazione in Germania
del libro. (M.A.)
* * * *
Questa sera, voglio condividere con voi alcuni punti di vista sui bolscevichi, la Rivoluzione d’Ottobre e l’inizio della costruzione dello stato sovietico a Pietrogrado sviluppate durante quasi un’intera vita trascorsa a studiare i vari aspetti di questa materia ancora molto controversa.
Sullo sciopero dei professori universitari, che si svolge dal 28 agosto al 31 ottobre solo nella prima sessione degli esami autunnali, si è scatenata sui social una canea spaventosa, fatta di insulti, denigrazioni, falsità, un vero e proprio festival di “fake news”, su cui vale la pena soffermarsi un momento per cercare di comprendere da dove nasce un fenomeno come questo e di quale patologia sociale è il sintomo. Anzitutto la verità dei fatti. Molti giornali correttamente ne hanno parlato, ma non è inutile un’ulteriore sottolineatura. La proclamazione dello sciopero non è stato un atto improvvisato o gratuito, ma è giunta dopo una lunga serie di tentativi di interlocuzione con il Ministero e con i governi succedutisi negli ultimi tre anni. Protagonista è stato il Movimento per la Dignità della Docenza, fondato dal professor Carlo Ferraro del Politecnico di Torino, che ha tessuto pazientemente la tela dei contatti tra tutti i docenti dei 79 atenei italiani. Fino ad ottenere dal Garante il via libera allo sciopero, di cui non intendo ripetere qui le modalità di svolgimento, che ieri questo giornale ha ampiamente riportato.
E che non è affatto uno sciopero corporativo, ma ha un respiro generale dal momento che si rivolge a tutti gli strati sociali affinché prendano coscienza di quanto sta succedendo nell’università italiana. Due sono, infatti, i punti che vanno sottolineati con forza.
Il futuro, sostiene il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, appartiene allo Stato-nazione e non agli organismi sovranazionali. Solo all’interno degli Stati-nazione può essere esercitato un vero potere di controllo democratico
D: Signor Streeck, in Europa c’è ancora bisogno di singole nazioni, oppure è l’Unione Europea che deve risolvere i nostri problemi politici?
R: La democrazia moderna è nata dai conflitti all’interno degli stati nazionali. E fino ad oggi ha la sua patria (Heimat) negli stati nazionali. Al contrario, le organizzazioni internazionali sono dominate dagli esperti. Mancano di quella che chiamerei la dimensione plebea della democrazia.
D: Cosa intende con ciò?
R: La democrazia non è prerogativa di una classe colta, istruita, i cui membri si comportano in modo gentile e garbato tra di loro, e cercano di risolvere insieme i problemi. Anche quelli che stanno ai gradini inferiori della società devono poter alzare la voce e dire quello che vogliono.
In un recente post, Bill Mitchell illustra nei dettagli come l’Unione europea abbia “clonato” se stessa e la sua unione monetaria nell’Africa sub-sahariana (come se una non fosse sufficiente). Si tratta, perlopiù di paesi sottosviluppati un tempo colonie francesi. È impressionante leggere come anche questa unione di stati africani abbia le sue belle regoline di convergenza, regoline che impongono la parità di bilancio, regoline per il controllo della spesa, delle tasse e le relative belle sanzioncine per la violazione di tutte queste belle regoline.
Come se non bastasse, l’Ue ha imposto a questi paesi un trattato di libero scambio, che, nelle parole di Bill Mitchell, non è altro che
un gigantesco aspiratore, ideato per risucchiare risorse e ricchezza finanziaria dalle nazioni più povere, con sistemi legali o illegali, a seconda di quali generino i flussi maggiori.
E allora mi è venuto da pensare che non sono solo le guerre, le carestie, il terrorismo islamico, le bombe franco-anglo-americane ad aver dato la stura al recente aumento degli arrivi di immigrati provenienti dall’Africa occidentale sub-sahariana, ma anche le stesse dinamiche economico-istituzionali che presiedono all’emigrazione dei giovani italiani.
Nella più cristallina logica neoliberista l’Europa ha imposto a questi paesi la libertà di commercio, libertà dei capitali, libertà di spostamento della forza lavoro (con l’aggiunta della fissa teutonicordoliberista socialmente darwiniana della concorrenza: solo i più forti sopravviveranno).
Il professore di economia all’Università di Kinstom, Steve Keen, su Forbes scrive un incisivo articolo simpaticamente costruito come una lettera al Presidente Trump (anche se è solo un pretesto). L’attacco è rivolto in realtà alla convinzione dogmatica ed interessata della disciplina economica, e di tutte le forze sociali e politiche che si lasciano influenzare da essa, che la globalizzazione ed il libero scambio gioverebbero a tutti se solo si condividessero più equamente i guadagni. In sostanza è come se si fosse data una grande festa dimenticando di invitare alcuni, e si potesse rimediare semplicemente facendolo.
Basta quindi fare questa promessa, non è necessario terminare la festa.
Questa per Keen è “una fallacia fondata su una fantasia”, cioè sul nulla. Ed è stata tale sempre, “sin da quando David Ricardo ha iniziato due secoli fa a sognare del ‘Vantaggio comparato e dei guadagni del commercio”. Una teoria che non certo a caso, come ricorda, è stata scritta quando l’Inghilterra era la superpotenza economica mondiale ed il Portogallo un suo rivale. Lo scontro dal quale nacque il libro di Ricardo era del resto ben concreto: abolire o meno le “Leggi sul mais” che imponevano tariffe protettive ai cereali importati dall’Europa. Chiaramente si contrapponevano due sistemi di interesse ben definiti: da una parte i produttori agricoli (ovvero la nobiltà di campagna, difesa da Malthus), dall’altra la crescente forza dell’industria.
A metà agosto il Qatar ha annunciato il ripristino delle relazioni diplomatiche con l’Iran. Più che significativa la motivazione: «Lo Stato del Qatar ha espresso la sua aspirazione a rafforzare le relazioni bilaterali con la Repubblica islamica d’Iran in tutti i campi», si legge nel comunicato ufficiale.
Uno sviluppo imprevisto del conflitto innescato dall’Arabia saudita e dai Paesi del Golfo prossimi a Ryad, che nello scorso giugno hanno rotto le relazioni diplomatiche con Doha, accusata di sostenere il terrorismo.
A promuovere l’iniziativa è stato il principe ereditario saudita Mohamed Bin Salman, il quale si proponeva di porre fine all’attivismo qatariota e soprattutto a quello della Fratellanza musulmana, che in Doha ha un punto di riferimento importante.
L’iniziativa del principe intendeva dare maggiore concretezza alla cosiddetta Nato sunnita, organismo militare e geopolitico che egli vorrebbe posto sotto la stretta tutela saudita. Prospettiva che non prevede quindi un ruolo né per il Qatar né per la Fratellanza, se non di subalternità.
Bin Salman sperava in una resa immediata del piccolo Stato del Golfo. Non è andata così: Il Qatar ha trovato sostegno insperato nell’Iran, che gli ha consentito di resistere e con il quale ora si propone di sviluppare rapporti più ampi.
Sino al
crollo del Muro di
Berlino il confronto tra capitalismo e socialismo aveva
monopolizzato l’attenzione degli studiosi. Solo in seguito ci
si è dedicati alle
varietà di capitalismo, anche e soprattutto per promuovere la
diffusione di quella più in linea con l’ortodossia
neoliberale, da
ritenersi oramai la normalità capitalistica. La crisi ha però
incrinato molte certezze, tanto che alcuni hanno ipotizzato un
futuro
caratterizzato da un ritorno del capitalismo di Stato. Di qui
uno dei tanti motivi di interesse per l’ultima fatica di
Vladimiro Giacché:
un’antologia degli scritti economici di Lenin introdotta da un
ampio saggio in cui si sintetizza e commenta il percorso che
ha portato a
concepire il comunismo di guerra prima, e la nuova politica
economica poi1. È
in questa sede che si individuano alcuni punti di contatto
tra le teorie
economiche leniniane e la situazione attuale, alle quali
dedicheremo le riflessioni che seguono.
Ci concentreremo inizialmente sullo scontro tra modelli di capitalismo e sulla possibilità di ricavare dal pensiero Lenin, pur nella radicale diversità dei contesti, alcuni spunti utili al dibattito. Verificheremo poi come attingere da quel pensiero per contribuire a un altro aspetto rilevante per la riflessione sulle varietà del capitalismo: la sua instabilità nel momento in cui prende le distanze dall’ortodossia neoliberale, ovvero l’assenza di alternativa tra il superamento del capitalismo e il ritorno alla normalità capitalistica.
Guerra nucleare con la Corea del
Nord. Guerra fredda II
con la Russia. Guerra sporca in Yemen. Guerra indefinita in
Afghanistan. Guerra economica contro il Venezuela. Guerra
retorica con l'Iran. Guerra dei
muri con il Messico. Guerra razziale negli Stati Uniti.
Per essere il presidente che ha promesso "nessun intervento" e "l'America prima di tutto", in soli otto mesi Donald Trump è diventato il re delle guerre. E ditro c'è l'intero settore militare statunitense e le sue imprese miliardarie che sbavano alla prospettiva di espandere e ampliare il potere militare USA.
Per la prima volta nella storia contemporanea del paese, Trump ha militarizzato la Casa Bianca, piazzando i generali nelle più importanti posizioni del gabinetto presidenziale per le politiche di sicurezza e di difesa e demandando al Pentagono le decisioni dirette sulle operazioni di combattimento. Il suo capo di Stato maggiore, John Kelly, è un generale dei marines che per un breve periodo ha anche ricoperto la carica di Segretario alla Sicurezza nazionale di Trump - inasprendo le politiche antimigratorie – ed è stato anche a capo del Comando Sud dal 2012 al 2016, quando Washington ha intensificato la sua politica aggressiva contro il Venezuela.
Nella storia l’ economia ha cambiato pelle e
così il Capitalismo. Nel ‘500 l’economia feudale
lasciò spazio a quella mercantile; si formarono i primi
Stati nazionali (Francia Spagna ed Inghilterra) in mano alle
monarchie; le scoperte
geografiche portarono questi Stati alla conoscenza di nuove
merci, fondamentali le spezie e le pietre preziose, per
l’accaparramento delle quali
si iniziarono una serie di conflitti che portarono alla
fondazione di innumerevoli colonie. Gli Stati appena fondati
rivelarono il proprio
imperialismo, tramite il quale un modello proto-capitalista
faceva incetta di merci.
La prima Rivoluzione Industriale trasformò ancora il modello economico, fino ad arrivare alla odierna Rivoluzione digitale, che ha finito per colonizzare le nostre vite, le nostre menti.
Il testo che segue, è un’ analisi lucida dei meccanismi che il capitale odierno, quello delle Corporations digitali, utilizza per continuare a fare man bassa di profitti e di come si sia trasformata la merce stessa. Altrettanto lucidamente l’autore del libro, da cui è stato estratto il brano, ci mette al corrente del controllo e dello sfruttamento inconsapevole di cui siamo oggetto ogni giorno, ogni minuto che utilizziamo con i nostri onnipresenti dispositivi (smartphone, pc, tablet) social network o Rete. E dei pericoli a cui la società va incontro.
La proposta di emettere una moneta parallela all'euro per bypassare le rigide regole dell'euro è destinata a scontrarsi con le autorità europee. Non servono trucchi contabili, ma un'alternativa a questa Europa
Nel luglio 2015 l'allora ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, prima della capitolazione di Syriza di fronte ai diktat della trojka, aveva fatto una proposta, nel tentativo di smarcare il suo paese dalle strette maglie delle regole europee senza tuttavia uscirne, visto che ciò nella sinistra – greca e non solo – era un tabù: l'emissione di una sorta di “moneta parallela” all'euro. In un suo precedente studio del 2014 aveva parlato di questo strumento definendolo “un sistema di pagamento denominato in euro” basato sulle tasse future e per questo chiamato FT (future taxes). Si trattava, in sostanza di assegnare al possessore un diritto allo sconto sulle tasse future, che potevano essere pagate con questo mezzo anziché con gli euro.
Usando le stesse parole di Varoufakis, avrebbe dovuto funzionare così:
“Tu paghi, per esempio, 1.000 € per comprare 1 FT presso un sito web del Tesoro di una nazione in base a un contratto che impegna quel Tesoro: (a) a riscattare il FT per 1.000 € in qualsiasi momento o (b) di accettare il tuo FT due anni dopo la sua emissione come pagamento che estingue, per esempio, 1.500 € di tasse.
La favola dell’uomo nero è diffusa un po’ in tutto il mondo.
E non è priva di implicazioni assai significative. Di solito la si utilizza nei confronti dei bambini indisciplinati, specie quelli che non vogliono dormire. Con lo scopo di suscitare in loro il sentimento più atavico e potente: la paura.
Quella stessa paura che uno dei suoi studiosi più profondi, Thomas Hobbes, definiva come il mezzo più efficace per affermare l’”obbedienza”, unica “virtù di un suddito”.
Una favola molto simile viene utilizzata nei confronti degli adulti, anche in questo caso con l’intento di produrre in loro il sonno (della ragione) e l’obbedienza verso le teorie più strampalate e pericolose.
Accade anche in questi giorni, in seguito al terribile episodio dello stupro di gruppo commesso da quattro ragazzi neri in quel di Rimini. A speculare su questo episodio è stata la compagine di estrema destra chiamata “Forza nuova”, che in realtà di nuovo non possiede neppure la grafica, visto che ha ben visto di riprodurre il manifesto razzista che era stato utilizzato dal regime fascista negli anni più sciagurati del nostro paese.
La fiaba del terrorismo islamico dovrebbe essere dichiarata dall’UNESCO patrimonio culturale dell’umanità poiché consente di decontestualizzare ogni attentato e di aggirare qualsiasi evidenza. Sarebbe stato infatti davvero difficile evitare di accorgersi che l’attentato di Barcellona si colloca in un contesto di crescente conflittualità tra Spagna e Marocco per la questione delle enclavi spagnole in territorio marocchino, vere e proprie colonie vecchio stile in pieno XXI secolo. Le città di Ceuta e Melilla sono in Marocco ma sotto giurisdizione spagnola, territorio spagnolo a tutti gli effetti. Considerate la frontiera Sud dell’Europa e circondate da un muro di filo spinato anti-immigrati (costruito con i soldi dell’UE), queste città costituiscono centrali di contrabbando e micidiali spine nel fianco dell’economia marocchina.
Gli attentati hanno cause precise che vanno oltre i contenziosi territoriali e presentano quasi sempre risvolti affaristici, perciò gli attentati sono spesso messaggi in codice che concernono questo o quel business a rischio di essere bloccato. Non è quindi improbabile che proprio in ciò che accade a Ceuta e Melilla vi siano le chiavi per decodificare il “messaggio” lanciato a Barcellona.
Quelli che dicono che bisogna lasciar perdere i blog complottisti in fondo hanno ragione. Bisogna andare alle fonti ufficiali per trovare le notizie davvero inquietanti.
Scriveva due anni fa Giulio Moini nel suo Neoliberismi e azione pubblica che «il secondo tipo di depoliticizzazione riguarda il trasferimento di questioni di interesse pubblico nella sfera privata, ossia nell’ambito delle scelte individuali. Le questioni ambientali, ad esempio, non implicano scelte di governo o mutamento nei comportamenti delle imprese che producono beni e determinano inquinamento, ma diventano questioni che riguardano gli stili di vita e di consumo dei singoli. Il benessere individuale non è più conseguenza del funzionamento di un efficace sistema di welfare, ma diventa l’esito possibile di un individuo che responsabilmente si occupa di se stesso». Tale processo liberista di depoliticizzazione delle questioni sociali si adatta bene alla vicenda dell’acqua a Roma. Da settimane media e politici ci invitano a “consumare di meno”, a “chiudere-il-rubinetto-quando-ci-laviamo-i-denti”, e contestualmente la giunta Raggi, d’accordo con Acea, sta razionando l’afflusso di acqua nelle abitazioni private. Non mancano i quotidiani avvertimenti su quanti litri d’acqua potremmo risparmiare se solo facessimo le lavatrici a pieno carico o se, putacaso, facessimo la doccia al posto del bagno (ma chi diamine si fa il bagno caldo d’estate?). Tutto molto bello e, al tempo stesso, tutto molto inutile.
Jeso'pazzo: Una risposta a Falcone, Montanari e a tutta la sinistra in buona fede
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I cambiamenti che hanno
scosso
l'età moderna sono stati anzitutto antropologici, e poi
economici e giuridico-politici. Oggi siamo di fronte a un
altro snodo storico, che sta
producendo una nuova mutazione del senso. Per interrogare
quest'ultima bisogna osservare ancora una volta la traiettoria
della modernità
In questo intervento, cercherò di focalizzare genealogicamente l’attenzione su alcuni punti di snodo fondamentali della storia della modernità, al fine di focalizzare meglio le dinamiche antropologico-politiche del contemporaneo. Cercherò di evocare tali trasformazioni attraverso l’uso di simboli che racchiudano il senso complessivo della presenza storica degli uomini nel passaggio fra “pre-moderno” e “moderno” e fra il “moderno” e l’“attuale”.
La tesi che accompagna il mio lavoro consiste nell’idea secondo cui il percorso dell’Occidente che giunge fino a noi, incomprensibile se non si considera l’enorme peso che in esso ha assunto la tecnica, abbia comportato vere e proprie mutazioni antropologiche: cercherò di concentrarmi su tali mutazioni e di delinearne il senso nella convinzione che comprenderle significhi illuminare lo scenario attuale e le sue profonde contraddizioni.
L’Evo moderno – come è noto – si caratterizza per esser andato progressivamente tras-mutando l’idea medioevale (aristotelico-tomistica) di legame sociale in una realtà accelerata in senso “progressivo”:
Questa è una lettera che avevo indirizzato ad Alessandro Di Battista in merito al suo intervento alla Camera sul caso Regeni-NYT e, per conoscenza, ad alcuni parlamentari 5Stelle di mia conoscenza. Non ho ricevuto risposta e questa lettera diventa pubblica, anche perché contiene considerazioni che possono essere indirizzate a molte altre persone
Questa che è una critica all’intervento del deputato 5Stelle e un invito a riconsiderare certe sue posizioni, non mette minimamente in questione la stima e la solidarietà che ho nei confronti di tante ottime battaglie condotte da Di Battista, alcune delle quali sono state anche da me condivise sul campo
Caro Alessandro Di Battista,
faccio il giornalista da oltre mezzo secolo, oggi indipendente ma vengo da organi come la BBC, Paese Sera, Panorama (pre-Berlusconi), L’Espresso, The Middle East, Giorni Vie Nuove, Astrolabio, Rai-TG3. Ho sostenuto molte attività del M5S e con il MoVimento e suoi illustro sostenitori ho organizzato nella mia zona pubbliche iniziative (con Morra, Ruocco, Imposimato, Lanutti, Scibona, Bertorotta...) Ho intervistato deputati e senatori del MoVimento, compreso te, sono amico della senatrice Ornella Bertorotta e ho partecipato a numerose vostre iniziative alla Camera e al Senato. Miei documentari sono stati presentati al Senato. Ho lavorato con militanti 5Stelle sul territorio per i miei documentari e articoli No Tav, No Muos, No Triv, No Basi, terremotati. Spero che tutto questo mi dia un po’ di credibilità.
Conosco la tua esperienza in America Latina e nel Sud del mondo e quindi presumo una tua conoscenza del modus operandi di certe grandi potenze dagli insopprimibili appetiti coloniali in quelle parti del mondo.
È
un luogo comune affermare che i docenti italiani godano di ben
due mesi di ferie consecutive[1]. Non è così; ma se anche
fosse, il mese
di agosto non è stato mai poco significativo per il loro
lavoro. È prassi consueta quella di far passare provvedimenti
importanti
durante il periodo estivo, quando gli insegnanti hanno poche
possibilità di organizzare e rendere noto il loro eventuale
dissenso. Ciò
conferma quanto da lungo tempo in molti hanno fatto notare; e
cioè che, al di là della retorica, gli insegnanti non sono
oggetto di
particolare considerazione né consultati in maniera
significativa quando si decidono provvedimenti rilevanti per
la qualità della loro
professione. In coerenza con un assunto teorico continuamente
ribadito dai diversi documenti ministeriali: i docenti, dalla
scuola primaria alla
secondaria superiore, non sono più considerati depositari di
positive capacità professionali, sulle quali la comunità deve
investire per la formazione culturale e civile delle nuove
generazioni; bensì lavoratori la cui preparazione risulta
ormai inadeguata rispetto
alle grandiose trasformazioni epocali verificatesi negli
ultimi decenni. Essi devono dunque accettare il principio di
dover rimettere totalmente in
discussione la propria professionalità[2] .
All’indomani del 2007 l’impegno solenne era stato quello di chiudere una volta per tutte il casinò finanziario e di ridurne potere e influenza. Non solo non è stato fatto, ma oggi ci troviamo in una situazione probabilmente peggiore
Lo scoppio di una nuova bolla non sembra essere questione di “se” ma di “quando”. Le banche centrali hanno immesso migliaia di miliardi nella speranza di fare ripartire l’economia dopo la crisi esplosa dieci anni fa. Una montagna di liquidità usata soprattutto per acquistare titoli di Stato. Se questo può avere aiutato l’Italia a ridurre lo spread e a gestire il proprio debito pubblico, un effetto non secondario è stato quello di spingere al rialzo la quotazione delle obbligazioni private, anche perché negli ultimi anni la BCE ha comprato direttamente titoli di alcune delle maggiori multinazionali europee.
Una montagna di soldi rimasta però incastrata in circuiti finanziari senza un trasferimento, se non in minima parte, nell’economia. In altre parole un sempre maggiore distacco della finanza dai fondamentali economici, ovvero la definizione stessa di una bolla. E’ paradossale che si continui a considerare sempre e comunque positivo l’aumento delle quotazioni sui mercati. Come scrive Sergio Bruno su Sbilanciamoci: “Perché l’aumento dei prezzi dei flussi prodotti si chiama inflazione e viene ritenuto negativo e pericoloso, mentre l’aumento dei prezzi degli stock di ricchezza viene ritenuto una benedizione,
Mi dicono i redattori di SOLLEVAZIONE che il mio articolo La sinistra "radicale" in Sicilia e i soliti trombati (della serie cornuti e mazziati) ha avuto un sacco di lettori. La ragione penso sia la grande importanza che le elezioni siciliane hanno per il resto d'Italia.
E' infatti evidente che il menù che i politici stanno approntando per gli elettori siciliani anticipa quello che verrà servito al resto degli italiani nelle elezioni generali della prossima primavera.
La morale della favola è che avremo in lizza i tre blocchi principali che occupano il panorama politico: Pd, centro-destra unito e 5 Stelle. Fuori da questo coro, qui in Sicilia, c'è solo una novità, la lista "Noi siciliani con Busalacchi - Sicilia Libera e Sovrana", il movimento che ha siglato un Patto di alto valore politico con la Confederazione per la Liberazione Nazionale.
I cornuti e mazziati, i cespugli della sinistra radicale, adesso piagnucolano perché Rifondazione e il Partito Comunista italiano, con in testa il loro candidato Ottavio Navarra, hanno stracciato il "solenne" patto del 29 luglio e hanno deciso di andare coalizzati con Sinistra Italiana e i d'alemiani di Articolo 1 - MDP.
Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Era chiaro sin dall'inizio che sarebbe andata a finire così (e non solo perché qui in Sicilia c'è lo sbarramento del 5%).
Cerchiamo, per un attimo, di guardare oltre la questione dell’efficacia o meno dei piani di vaccinazione obbligatoria e andiamo a guardare un po’ da vicino il perché proprio ora tutelare in anticipo la salute di italiani e europei sia diventato così improcrastinabile, tanto urgente da imporre per legge una vaccinazione di massa praticamente contro tutti i mali.
Perchè?
Siamo davvero così a rischio?
La risposta è SI’, la nostra salute è a rischio, gravemente a rischio, anche se, purtroppo, vaccinare i nostri figli non servirà a salvarli.
I più svegli fra noi hanno capito che, in fondo in fondo, le ragioni dei PROVAX si riducono a un solo argomento “fine del mondo” con il quale ammutoliscono ogni interlocutore: “Non volete vaccinarvi? OK, ma poi, quando vi ammalerete, non pretendete di essere curati gratis dal Sistema Sanitario Nazionale!”
Ed è proprio così: l’altra faccia dei vaccini, poco nobile e poco “scientifica” è lo SMANTELLAMENTO DELLA SANITÀ PUBBLICA, parte essenziale – insieme alla scuola e al sistema previdenziale – di quel famoso Stato Sociale che, hanno deciso, “non possiamo più permetterci”.
Ma COSA non possiamo più permetterci, in dettaglio?
La scuola che sta prendendo forma è un incubo lisergico finalizzato a consegnare le future generazioni al mercato del lavoro (un mercato dove la merce sono i ragazzi)
Un susseguirsi di annunci sulla scuola ha caratterizzato il passato periodo di vacanze, la ministra Fedeli ha imperversato su tutti i media con dichiarazioni che messe insieme mostrano un quadro che va dallo smantellamento della formazione culturale alla demagogia.
Il 22 agosto riassumevo la situazione convulsa e demagogica con un tweet che a giudicare dall’interesse suscitato coglieva lo stato d’animo di molti:
Il tweet aveva lo scopo di far notare la contraddittorietà di una politica che propone l’estensione dell’obbligo scolastico nel momento stesso in cui dispone l’abbreviazione del percorso di studio,
Viviamo in
un
mondo violento e non possiamo evitare di affrontare da un
punto di vista politico questo problema.
Nel 1917, la violenza della guerra si era propagata in ogni dove. Nell’ultimo capitolo della sua Storia della rivoluzione russa, Trotsky scrive:
«Non è forse significativo che il più delle volte a indignarsi per le vittime delle rivoluzioni sociali siano gli stessi che, se pur non sono stati fautori diretti della guerra mondiale, ne hanno almeno preparato ed esaltato le vittime, o quanto meno si sono rassegnati a vederle cadere?»[1].
Si stima che il numero dei morti durante la prima guerra mondiale, fra militari e civili, ammonti a una cifra tra quindici e diciotto milioni. Alla fine del 1917, un medico socialista calcolò che “la folle corsa della giostra della morte” aveva portato a “6.364 morti al giorno, 12.726 feriti e 6.364 disabili”. Probabilmente, la precisione che dimostra non è corrispondente alla realtà, ma il suo senso delle proporzioni lo è. La gente moriva in battaglia, nonché per le privazioni e le malattie che ne conseguivano.
Su Le Monde Diplomatique, una analisi approfondita del modello sociale tedesco fondato sulle riforme Hartz, che hanno segnato il passaggio dal sistema di sicurezza sociale a tutela dei lavoratori a un modello di “inclusione” dove i disoccupati sono trasformati in una grande sacca di lavoratori poveri sottoposti a un regime di controlli rigidamente coercitivo, fondato sulla stigmatizzazione di chi si trova in difficoltà. Questo è il modello che ispira la riforma del mercato del lavoro che il governo Macron va ad imporre per decreto anche in Francia
Il modello a cui si ispira
Emmanuel Macron
Ore otto del mattino: il Jobcenter di Pankow, quartiere di Berlino, è appena aperto e già 15 persone attendono davanti allo sportello d’accoglienza, ciascuna chiusa in un silenzio ansioso. “Perché sono qui? Perché se non rispondi alle loro convocazioni, si riprendono ciò che hanno ti hanno dato” borbotta un signore sulla cinquantina a voce bassa. “Del resto, non hanno nulla da proporre. A parte forse un impiego da venditore di mutande, chissà.” L’allusione gli strappa un magro sorriso. Da un mese, una donna di 36 anni, madre sola, educatrice e disoccupata, ha ricevuto per posta un invito del Jobcenter di Pankow a fare domanda per una posizione da agente commerciale per un sexy-shop. Pena per la mancata domanda: un’ammenda. “Ne ho viste di tutti i colori con questo Job centre, ma questo è troppo”, reagisce l’interessata su Internet, prima di annunciare la propria intenzione di sporgere denuncia per abuso di potere.
Nel parcheggio delle case popolari, “la cellula di sostegno mobile” del centro dei disoccupati di Berlino è già all’opera. Su una tavola pieghevole, disposta davanti al furgone del gruppo, la signora Nora Freitag, 30 anni, dispone una pila di brochures intitolate “come difendere i miei diritti di fronte al Jobcenter.”
1. Il neo
liberismo produce guerre, miserie e migrazioni irregolari
Se il mondo fosse più giusto e solidale dovrebbe riconoscere, e attuare, come primo diritto umano quello di non- emigrare ossia non costringere gli uomini e le donne del Pianeta ad abbandonare la propria casa, la propria terra in cerca di un lavoro, di una vita migliore.
Ovviamente, c’è anche un diritto di emigrare per chi desidera spostarsi liberamente. Ma per scelta non per costrizione. Purtroppo così non è.
La gente continua a emigrare per costrizione, quasi sempre dal Sud verso il Nord.
Così è sempre stato, potrebbe dire qualcuno. Una verità parziale spesso usata come alibi per non affrontare il dramma attuale. Prima di appellarsi ai comportamenti primordiali, questo signor “qualcuno” dovrebbe domandarsi perché, oggi, ci sono tanta miseria, tanti conflitti micidiali che affliggono le medesime regioni del mondo dove si cumulano cause antiche e recenti che non si possono spiegare tutte, e sempre, con il colonialismo finito da 60 anni: il tempo di tre generazioni in cui si potevano cambiare tutti i meccanismi di dipendenza e conquistare la piena sovranità dei popoli soggiogati. Invece, la gran parte delle nuove classi dominanti nazionali su tali dipendenze si sono adagiate.
Quello di sinistra è oggi un concetto talmente vago (“poroso” lo definì Massimo Cacciari) da poter acquisire un significato, agli occhi dei militanti meno intorpiditi, soltanto se declinato nei termini di un radicale antagonismo nei confronti di un sistema – l’attuale - che succhia il sangue delle masse a beneficio dell’èlite, spazzando via i diritti e blindando i privilegi.
Non possono essere quindi ascritti alla categoria partiti di regime come il PD e l’SPD tedesca, che si distinguono dai “conservatori” esclusivamente per la maggiore disponibilità a servire le lobby transnazionali, né – concentrando la nostra attenzione sull’Italia – una bizzarra creatura politica qual è il MDP (Mendicanti di Poltrone? Menestrelli del Potere finanziario? Mantenuti dal Popolo? No: Movimento dei Democratici e Progressisti: formula vuota che significa meno di niente, a parte una manifesta adesione al modello culturale statunitense), totalmente succube del liberalcapitalismo egemone e che si è distaccata dal Partito Democratico solo per difendere miserabili interessi di “ditta”. Una prova? Quando Renzi, bluffando, asserì di voler ridiscutere il devastante Fiscal Compact (ma non il pareggio di bilancio in Costituzione, attenti, che pure del trattato è una conseguenza), l’estroso Pierluigi Bersani lo rampognò, dichiarando la propria sempiterna fedeltà all’Europa dei mercati.
Le tensioni fra Corea del Nord e Stati Uniti, con il coinvolgimento di tutti gli attori dell’Estremo Oriente, non sembrano destinate a diminuire nel breve termine. Le azioni, le reazioni e le parole di Kim e Trump sembrano aver raggiunto il livello di guardia e, per certi versi, possono anche averlo superato, almeno a livello potenziale. Il test nucleare della notte fra sabato e domenica, che ha provocato una scossa di magnitudo 6.3, e che prova la capacità atomica del regime di Kim è soltanto l’ultimo atto di una lunga catena di provocazioni che non appare in grado di arrestarsi. Dalla Casa Bianca- al momento in cui scrive l’autore – non sono ancora arrivate risposte ufficiali, ma il Pentagomno ha già confermato l’invio di F-35 e F-22 insieme con i bombardieri stealth B-2 Spirith. Il mondo fa bene a essere preoccupato: perché mai si era raggiunto un tale livello di allerta e soprattutto un tale numero di minacce e di azioni militari fra le parti in causa.
Ma il problema fondamentale, a detta di molti, è che in realtà ci trovi di fronte a un equivoco nella lettura della crisi coreana. Un equivoco che i media hanno anche condiviso e alimentato e che serve in realtà non tanto per non far comprendere la realtà della crisi, quanto per evitare di rinnovare una narrativa che ha ormai trovato una sua stabilità, soprattutto nel mondo occidentale.
Parlare di annullamento del debito oggi significa affrontare quello che, con l’avvento della dottrina liberista, è diventato un vero e proprio tabù. Secondo la narrazione dominante, infatti, un mancato pagamento è qualcosa di eccezionale che bisogna evitare ad ogni costo. Peccato che la storia si incarichi di dimostrare l’esatto contrario. La prima proclamazione di annullamento del debito di cui si ha riscontro risale all’anno 2400 a.C. nella città di Lagash (Sumer), mentre il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750) fu contrassegnato da quattro annullamenti generali dei debiti dei cittadini con i poteri pubblici. In totale, gli storici hanno identificato con precisione una trentina di annullamenti generali del debito in Mesopotamia tra il 2400 e il 1400 a. C..
Venendo a tempi più recenti, nel periodo 1800-1945 si contano 127 cessazioni del pagamento, mentre negli ultimi sessanta anni (1946-2008) si sono avuti non meno di 169 sospensioni del pagamento di debiti sovrani, della durata media di tre anni. Per fare solo alcuni esempi, dalla propria indipendenza fino al 2006 l’Argentina ha dichiarato 7 cessazioni del pagamento, il Brasile nove ed il Messico otto; in Europa, la Spagna ha dichiarato una cessazione del pagamento 13 volte, mentre la Germania e la Francia 8 volte ciascuno.
La correlazione tra l’incremento del potere politico e l’aumento dei followers spiegata attraverso il filosofo Thomas Hobbes
Molti commentatori non riescono a comprendere fino in fondo il significato della spasmodica ricerca di followers da parte degli attori politici, e spesso ironizzano su un certo iper-presenzialismo virtuale. Dal più piccolo comune italiano agli Stati Uniti d’America, un nuovo dovere per ciascun candidato, ma anche per qualunque ruolo di governo, è definito dalla presenza capillare e costante sui social media. Dichiarazioni, battute, risposte e fotografie vanno molto oltre quello che una volta era costituito dall’ufficio stampa, e non si deve neanche ridurre il fenomeno all’idea di “cura della propria immagine pubblica”, a una forma sterile di narcisismo. Il punto è un altro. Si tratta di una questione di potere. Per comprendere secondo quale criterio l’aumento dei followers sia correlato all’incremento del potere politico, dobbiamo interrogare un filosofo del Seicento, che analizzò a fondo il tema. Mi riferisco a Thomas Hobbes.
Il capitolo 10 del Leviatano è probabilmente uno dei più belli e fruttuosi dal punto di vista filosofico, ed è dedicato al tema del potere. Hobbes lega questo concetto alla struttura aristotelica della potenza, e lo definisce come possibilità di ricercare il piacere, o meglio, di ridurre agevolmente la distanza tra il desiderio e la soddisfazione dello stesso, o anche di comprimere lo scarto tra la necessità di evitamento di un dolore, e l’effettiva elusione di quello.
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Quando, sul finire degli anni
ottanta, la crisi del movimento comunista divenne palese, il
gruppo di studio che poi si sarebbe trasformato
nell’Associazione per la
Redistribuzione del Lavoro decise di confrontarsi
criticamente con quanto stava succedendo. Ne scaturì un
testo, poi pubblicato dagli Editori
Riuniti nel 1993, col titolo Dalla crisi del comunismo
all’agire comunitario.
In quella ricerca si approfondirono le ragioni della crisi, cioè il processo negativo che era sfociato nella dissoluzione di quel movimento. Ma si gettarono anche le basi per avviare una riflessione su quello che avrebbe potuto essere il processo positivo in grado di garantire il superamento della crisi. Una riflessione che ovviamente richiese molti anni di lavoro. Riproponiamo qui, con aggiustamenti marginali, l’introduzione a quel testo, come preambolo alla prossima pubblicazione a puntate, nei prossimi quaderni, di un testo non ancora stampato, intitolato Alla scoperta della libertà che manca. Una bussola per orientarsi nella crisi e dar vita ad una politica alternativa.
Crediamo che quest’ultimo lavoro contenga un coerente svolgimento del progetto che ci eravamo dati nell’ormai lontano 1993, anche se le condizioni affinché esso trovi una rispondenza nella cultura contemporanea – anche in quella critica – sembrano ancora mancare.
Relazione all’incontro del 9 settembre a Roma “Unione europea, lavoro, democrazia, Contributi per il programma dell’alternativa”
Spesso le critiche all’Europa e le
proposte di uscita dall’euro sono accusate, prima ancora di
essere economicamente irrealizzabili, di favorire lo sviluppo
del nazionalismo.
Eppure, sono proprio i trattati europei e il sistema dell’euro
ad aver contribuito in modo determinante allo sviluppo del
nazionalismo e della
xenofobia a livello di massa per la prima volta dalla fine
della seconda guerra mondiale.
Quando parliamo di nazionalismo, però, non bisogna intendere esclusivamente il senso comune diffuso o l’ideologia nazionalistica dei partiti di estrema destra bensì un comportamento concreto – a livello politico e economico - dei singoli stati e dei singoli governi nazionali, che viene poco percepito, perché nascosto dietro una dichiarata ideologia cosmopolita e neoliberista.
Il nazionalismo è il prodotto dei vincoli alla spesa pubblica, dei cambi fissi, e dell’autonomia della banca centrale europea, che hanno non solo accentuato gli effetti negativi della crisi sistemica capitalistica, ma hanno soprattutto creato o aumentato i divari tra stati e economie nazionali. Si è creata una forbice, sempre più larga, tra la Germania, favorita dall’introduzione dell’euro, e la maggior parte dei Paesi Uem, compresi Italia, Spagna e Francia. A essere messi in difficoltà dall’euro sono stati anche paesi che non hanno aderito all’euro, tra i quali in primo luogo il Regno Unito.
... Ora, il consumo sfrenato e il godimento permettono invece la costituzione di un soggetto intero, compatto, non diviso, che prova a coincidere con se stesso nel divertimento continuo e nelle connessione virtuale senza sosta. Allora, non può che riscuotere successo una politica e dei politici anti-politici che affermano che non c'è più bisogno della mediazione - indicata anzi come il luogo della corruzione e della mancanza di trasparenza (o dell'inciucio per dirla in gergo giornalistico) - e dell'elaborazione di un'autorità simbolica, tanto che ogni istanza deve arrivare direttamente in Parlamento
Negli anni passati mi sono
occupato del
rapporto tra intellettuali e popolo, tema che non poteva
mancare nella riflessione di uno studioso formatosi nella
tradizione del comunismo italiano.
Ho ripensato a quei lavori in questi giorni, nel momento in
cui una parte della sinistra sta cominciando a teorizzare
l'idea che la crisi della stessa
sinistra si supera ascoltando il popolo, dal momento che
dietro ogni populismo ci sarebbe un popolo.
Provo qui a dare un piccolo contributo per dire cosa non mi convince della teoria che dietro ogni populismo ci sia un popolo e per ricordare che il PCI, nella sua storia, fu popolare e "immoralista" ma mai plebeo e sempre teso a pensare a un rapporto dialettico tra intellettuali e popolo, rimandando a due lavori degli anni scorsi: "Riconoscimento, libertà e Stato" (ETS 2012), "L'umanità ovunque" (Ediesse 2013).
Un’azione politica molto debole e poco incisiva sia per gli obiettivi che per i metodi impiegati
Sostanzialmente dalle proteste contro la famigerata Legge Gelmini (2010) il corpo accademico era rimasto silente, a parte qualche forma limitata di agitazione che non l’ha mai coinvolto nella totalità. Ora invece sembra che i docenti universitari si siano risvegliati da questo sonno acquiescente e certamente anche complice, anche se i protestatari sembrano essere sinora circa solo 5.500 su 49.000. Il Manifesto ci informa di questo evento con un articolo intitolato Università, sciopero degli esami a settembre, in cui viene intervistato Francesco Sinopoli, segretario della FLC-CGIL (1 settembre 2007) e in cui si paventa che la sessione d’esami di settembre non si farà. Ma andiamo a vedere come stanno effettivamente le cose.
Prima di tutto, mi preme ricordare che, durante il dibattito sulla Legge Gelmini, molte facoltà si rifiutarono di scioperare e alcune misero in piedi iniziative di carattere simbolico, per essere in sintonia con la società dell’immagine e dello spettacolo, come per esempio le lezioni all’aperto, gli esami notturni, il raduno sui tetti per protestare, la partecipazione alle sedute di laurea senza toga. La maggioranza dei docenti considera lo sciopero dannoso agli studenti e quindi ritiene scorretto non adempiere alla sua missione educatrice.
C’è una notizia che non trova spazio nei tg o nelle pagine dei giornali: il fatto che le truppe siriane, coordinate a reparti russi di terra e all’aviazione di Mosca stiano liberando dall’assedio dell’Isis Deir Ezzor, città di centomila abitanti circondata da tre anni dal Califfato che ha sacrificato migliaia di uomini nel tentativo di conquistarla e che ancora oggi fa il tentativo disperato di rimanere aggrappato alla zona. La ragione di tanto accanimento e di tanto silenzio occidentale sta nel fatto che la provincia di Deir Ezzor è ricca di petrolio e di gas ed è dunque strategica per il futuro di una Siria autonoma: quando la battaglia sarà conclusa non si potrà più parlare di Califfato e la frontiera liberata fra Siria e Irak renderà più saldo un asse strategico che va da Teheran a Beirut.
Dunque silenzio. Ma non del tutto: con una faccia tosta senza limiti il Washington Post in una serie di articoli riconosce, come se nulla fosse, che è stata Cia a reclutare, organizzare e armare i cosiddetti ribelli moderati, costituendo una forza di 45 mila uomini per sbarazzarsi di Assad. Il nome in codice dell’operazione era “legno di sicomoro” ma disgraziatamente una parte molto consistente di questa forza ha contribuito a creare il Califfato e ha combattuto per esso fino quando l’intervento russo ha cambiato il rapporto di forze in campo e molti “ribelli moderati” si sono riversati in Al Nusra ( particamente Al Qaeda) dando per finita questa esperienza, ma contando, grazie all’aiuto della Cia, delle forze Usa e del sostegno delle petromarchie, di poter tenere in vita l’operazione contro Assad.
Si “danno i numeri”: lavoro, occupazione, disoccupazione. Ma sono fake news, la ripresa non crea posti
La ripresa economica italiana, sbandierata in questi giorni, è un vero e proprio miracolo. Non può essere altrimenti visto che essa è presentata col seguente titolo: «Aumentano occupati e disoccupati». E qui la ragione umana si ferma per lasciar posto alla fede.
Ma veniamo ai dati i quali nascondono una verità un po’ diversa da quella narrata dai propagandisti del paradosso. Tutto ha inizio con la rilevazione del dato di luglio secondo il quale gli occupati sono aumentati dello 0,3% (59.000 in più) rispetto al mese precedente riportando la quota degli occupati a 23 milioni, quella del 2008, data d’inizio della crisi non ancora conclusa. Come fa ad aumentare l’occupazione in un periodo di crisi non ancora superato e con alle porte le prime avvisaglie dell’automazione robotica che promettono di sostituire centinaia di migliaia di posti di lavoro, secondo i dettami dell’industria 4.0?
Ebbene, i parametri statistici imposti dall’uniformazione europea dei dati, considerano occupata una persona che, nel breve arco in cui si effettua la rilevazione, abbia lavorato almeno un’ora. Se un lavoratore a tempo pieno, viene licenziato e al suo posto si assumono otto dipendenti per un’ora ciascuno, il tasso di occupazione risulta salito di sette punti.
L’attuale situazione della Corea del Nord fa venire in mente quel famoso aforisma di Bertolt Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”. Per citare anche Francesco Guccini, c’è da considerare “l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto”; in questo caso specifico l’ipocrisia di chi condanna il regime di Pyongyang facendo finta di non ricordare che l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 ha determinato un drammatico punto di non ritorno nelle relazioni internazionali.
Quando si chiede al governo nord-coreano di rinunciare al programma atomico e di sottoporsi ad ispezioni (cioè allo spionaggio istituzionalizzato), non si fa altro che prospettargli il calvario già imposto all’Iraq, cioè continue accuse da parte degli USA di continuare a detenere segretamente “armi di distruzione di massa”, accuse buone per giustificare altre ispezioni spionistiche che preparerebbero l’ennesima “guerra preventiva”. Da notare anche l’ipocrisia dei media che corrono ad informarci che la bomba all’idrogeno testata dalla Corea del Nord sarebbe cinque volte più potente dell’ordigno sganciato su Nagasaki, omettendo di ricordare chi l’abbia sganciato quell’ordigno, cioè gli USA.
Ma l’ipocrisia somma, in questo come in altri casi, è ancora una volta costituita dall’argomento auto-contraddittorio (un vero nonsenso) della sedicente “Comunità Internazionale”.
Pubblichiamo il mio intervento all'incontro
di cui ai due post precedenti qui
e qui.
La registrazione è qui
(gli interventi sono distinti
per nome, h/t a Radio radicale). Tutte le relazioni sono
state interessanti, di grande livello, e convergenti;
discussant e soprattutto dibattito
piuttosto deludenti (tranne Domenico
Moro); i due politici (a parte Fassina) molto
deludenti (a parte la presenza fuggitiva). Ciò che mi
colpisce è che fra il popolo
della sinistra del 2% e i politici che esprime da un lato, e
l'intellighenzia di sinistra dall'altro vi sia ora uno iato,
come testimonia per esempio
questa intervista a Streeck.
Anna Falcone ha fatto affermazioni del tipo: «Il capitalismo
globale non si può contrastare se non con un'operazione di
grande
democratizzazione globale» e poi «Tutto il mondo deve essere
aiutato a vivere laddove le popolazioni decidono liberamente
di
vivere». Pippo Civati che dopo la costituente italiana
(della sinistra) faremo la costituente europea. Dove si va
con questo cosmopolitismo?
Alcuni interventi hanno sollevato il problema ambientale,
che è certamente un'emergenza più che seria. Tuttavia,
affermazioni del tipo
"torniamo a una economia di sussistenza" o "blocchiamo gli
investimenti" non aiutano certo. Così come dare contro lo
Stato nazionale in nome di
un globalismo astratto. Certamente il problema ambientale è
globale, ma è al riguardo necessaria un'analisi geopolitica
sugli interessi
che si muovono in campo ambientale. Lo Stato nazionale
democratico è strumento di azione per costruire la
cooperazione azione e internazionale
sulla base del consenso del proprio popolo. La denuncia non
basta, serve più analisi, anche da parte degli economisti
naturalmente.
Questa storia non si chiude come dovrebbe. L’11
marzo del 1990 il dittatore cileno Pinochet lascia la carica
presidenziale dopo
17 anni da quell’11 settembre del 1973 in cui con un violento
colpo di stato militare aveva rovesciato il governo di
Allende, la prima
esperienza di socialismo democratico. Al contrario del suo
inizio, la fine della dittatura avvenne in maniera pacifica e
istituzionale, con un
referendum tenuto nel 1988, in cui l’opposizione democratica
impose il proprio NO alla continuazione del regime militare
con il 55% dei voti;
non propriamente una vittoria schiacciante della democrazia
sulla dittatura. Ma il lungo regime di Pinochet è in qualche
modo sopravvissuta
alla sua forma contingente di dittatura, riuscendo grazie a
questa uscita di scena “graduale” a mantenersi viva
nell’orizzonte
politico ed economico cileno. E non solo.
L’eredità che Pinochet ha lasciato al suo paese è il sistema economico lasciato grossomodo invariato. La fine della dittatura e le prime elezioni libere infatti non coincisero con una nuova fase repubblicana, né tantomeno con una fase costituente, ma venne trattate come un semplice cambio di governo all’interno di uno stato di diritto che non era necessario mettere in discussione.
Fratello,
siamo qui,
per darti il
cambio,
noi vinceremo,
ma da un altro
lato
Majakowskij, Lenin
Venivamo da una tradizione comunista e rivoluzionaria, rinnovatasi nella Resistenza antifascista, che ci era stata trasmessa dal Partito Comunista Italiano. Il culto di Lenin stava al centro di questa tradizione. Quando cominciammo a criticare o a rifiutare senz’altro la politica del PCI, non significò, negli anni ’60 e ’70, dimenticare Lenin. Anzi, se in quegli anni il marxismo resta l’asse di ogni presa di posizione critica dello stalinismo, il leninismo rimaneva centrale nella figura di un «autentico» marxismo nell’organizzazione operaia. E questo anche nel dibattito dei gruppi legati alle esperienze di intervento diretto sulle fabbriche – a quei gruppi operaisti che egemonizzano il movimento nel decennio successivo.
L’euforia per i risultati dell’economia, nasconde lo sfacelo e le ricadute su chi lavora
Il nostro paese, dalle posizioni di punta acquisite fino a qualche decennio fa, è rotolato nel castro dei maiali (PIIGS).
Avevamo un gioiello che era al passo con le allora pionieristiche tecnologie informatiche, l'Olivetti, ma il grande imprenditore, adorato a “sinistra”, il Cavaliere Carlo Debenedetti, l'ha distrutta. La Nuova Pignone, società pubblica che era ben posizionata nel mercato, venne privatizzata e si è dissolta. La Fiat non è più italiana grazie a un altro incensato e famoso manager e si chiama Fca. Altri casi della massima importanza sono Alitalia, Telecom, Indesit, Ansaldo Breda, Pirelli, Ilva. Tutte queste industrie, in gran parte pubbliche, o sono state cedute in mano straniera, o sono state smantellate, o ridotte ai minimi termini, o oggetto di esternalizzazioni che penalizzano i lavoratori. Così, in soli sei anni, l'Italia è scesa dal quinto all'ottavo posto fra i paesi industriali. Ma più ancora è stridente il divario fra la fase dinamica del cosiddetto “miracolo italiano” degli anni ‘60 in cui alcuni prodotti della nostra industria avevano acquisito fama in tutto il mondo, basti pensare alla Vespa Piaggio, alla Cinquecento Fiat, alle calcolatrici Olivetti, e il totale vuoto di produzioni industriali, specialmente quelle ad alta tecnologia, odierne.
Nella “guerra a spettro completo” (economica, finanziaria, militare, diplomatica, mediatica e cibernetica) a cui è sottoposto il Venezuela bolivariano, non c’è dubbio che il versante finanziario ha un aspetto rilevante.
E’ così che, dopo aver dichiarato di non scartare l’opzione militare, Donald Trump è passato alle vie di fatto e mostra i muscoli finanziari con nuove sanzioni economiche contro Caracas. The Wall Street Journal ha annunciato che Washington non comprerà più buoni del Tesoro venezuelani ed inoltre le sanzioni della Casabianca mirano al cuore dell’industria petrolifera. Sono illegali, in spregio totale del diritto internazionale, ed hanno diverse implicazioni:
A Cernobbio è andato in scena il ritorno all’ordine neoliberale? Di certo la conversione politica di Lega nord e Cinque stelle è un fenomeno che pone dei quesiti dirimenti. Partiamo da un dato di fatto spesso ignorato: partiti di queste dimensioni stipendiano professionisti delle dinamiche elettorali. Spostamenti così significativi non avvengono mai per caso, sono al contrario frutto di analisi accurate (molto più accurate delle nostre) delle sensazioni del corpo elettorale. Quale allora la ragione politica di un capovolgimento così evidente delle proprie retoriche? Siamo forse in presenza di un declino di quella traiettoria populista che ha avuto il suo apice con l’elezione di Trump? Da Trump in poi, valutando le diverse competizioni elettorali , i sondaggi dei principali movimenti anti-liberali in Europa, nonché il livello (piatto) di mobilitazione sociale, molti segnali indicano una costante flessione del cosiddetto populismo. Il caso italiano, in questo senso, è davvero interessante, per almeno due motivi. In primo luogo, perché da noi ci sono ben due forme di populismo, l’una apertamente reazionaria (la Lega), l’altra al contrario attenta a smarcarsi da qualsiasi posizionamento politico (M5S). L’altro motivo è che queste due forze rappresentano, elettoralmente, quasi il 50% dei voti potenzialmente espressi dagli italiani (secondo i sondaggi il M5S sta tra il 25 e il 30%, la Lega tra il 10 e il 15%). Il populismo in Italia è davvero un caso di studio.
Un video diffuso su Twitter nella scorsa domenica, quando in Italia erano circa le 22:00, riprendeva alcune strade buie attraversate da abitanti in festa ed aveva subito dato l’idea che qualcosa di importante nel profondo est della Siria stava accadendo; del resto, proprio domenica erano iniziate a rincorrersi sul web, così come nelle principali agenzie di stampa mediorientali, importanti notizie di una repentina avanzata dell’esercito fedele al presidente Assad nella periferia di Deir Ez Zour, capoluogo dell’omonima provincia assediato da più di quattro anni da Al Nusra prima e dall’ISIS poi. Quelle immagini infatti, mostravano proprio le strade di questa città con numerosi residenti con in mano le bandiere della Siria e le immagini del presidente Assad; tra conferme e smentite, in tutta la serata di domenica si è parlato incessantemente proprio della rottura dell’assedio ad opera delle Tiger Force, le truppe d’élite dell’esercito siriano, ma alla fine l’appuntamento con il tanto atteso lieto evento è stato rinviato in realtà di appena 48 ore.
L’ultima avanza decisiva che ha liberato la ‘città martire’
Nessuno si aspettava una così rapida evoluzione: dopo la presa di Sukhnah dello scorso 10 agosto, i più ottimisti parlavano di una Deir Ez Zour libera dall’assedio entro il mese di settembre;
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Silvia Federici: La crisi della riproduzione e la formazione di un nuovo “proletariato ex lege”
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La fusione organica tra medicina e comunismo nel crogiuolo ardente della passione internazionalista
1. Una vita breve e
straordinariamente
intensa
Norman Bethune: chi era costui? L’‘incipit’ di carattere interrogativo e di sapore manzoniano non è fuori luogo quando un nome ricompare dopo tanto tempo. La risposta è la seguente: Norman Bethune ha un posto nella storia per il contributo che ha dato, in qualità di medico, oltre che alla ricerca scientifica, alla causa dell’emancipazione dei popoli oppressi.Eppure, quando il Nostro nasce il 4 marzo 1890, figlio di un pastore protestante presbiteriano e nipote di un nonno medico, a Gravenhurst, tranquilla cittadina sulle rive di un bel lago a nord di Toronto, nulla fa presagire la sua futura carriera. Sennonché ciò che affascina il giovane Norman è la medicina come ricerca scientifica e impegno sociale: un binomio che è la chiave di lettura della sua personalità e di tutta la sua attività. Nel 1915 Bethune interrompe gli studi all’università di Toronto per partire volontario come portantino infermiere nella prima guerra mondiale. Nel 1917, a causa di una ferita, viene trasferito in Inghilterra; qui presterà servizio nella marina britannica come tenente medico sino al completamento degli studi e al conseguimento della laurea in medicina (1919).
Come
ho già avuto modo di spiegare in diverse occasioni, dopo il
crollo del muro di Berlino il sistema capitalista a trazione
americana ed europea
ha messo in panchina il vecchio apparato valoriale ideologico
sostanzialmente fondato sul matrimonio con la Chiesa e la
religione per assumere
l’ideologia politicamente corretta come sua ideologia di
riferimento.
Ho già ampiamente trattato le ragioni che hanno determinato questo processo e non ci torno.
Ora, cosa sta accadendo da alcuni anni a questa parte? Sta accadendo ciò che era inevitabile accadesse. E cioè che il bombardamento ideologico-mediatico sistematico politicamente corretto ha prodotto il suo (falso) “antagonista” o meglio la sua contraddizione, e cioè il neopopulismo di destra.
Che cos’è il neopopulismo di destra e perché è un falso antagonista del sistema capitalista? Facciamo un passo indietro, o meglio una premessa.
Il processo di globalizzazione capitalista ha visto prevalere il grande capitale, in particolare finanziario ma non solo, multi e transnazionale, rispetto ad alcuni settori delle vecchie borghesie nazionali, che hanno gradualmente perso la loro egemonia politica che si fondava sul controllo e appunto sulla capacità di essere egemoni all’interno dei vecchi “stati-nazione”.
A Greensboro, in North Carolina,
l’1
febbraio 1960, quattro studenti del primo anno della North
Carolina A&T State University – Joseph McNeil, Franklin
McCain, Ezell Blair Jr., e
David Richmond – entrano in un cosiddetto five and dime
store di Woolworth (un’azienda che oggi conosciamo
con il nome
di Footlocker), uno di quei negozi che vendevano vari prodotti
per la casa scontati a pochi centesimi. Comprano un
dentifricio e altre piccole cose,
vanno alla cassa, li pagano e poi si avvicinano al lunch
counter del negozio per ordinare un caffè. Quel caffè
però non
gli verrà mai servito perché contrariamente al resto del
negozio, i lunch counter di Woolworth, così come
accadeva in
molti altri negozi nel Sud degli Stati Uniti, erano “white
only”, rifiutavano cioè il servizio alle persone di colore. Il
manager
chiede allora ai quattro ragazzi di andarsene ma quelli che
poi verranno soprannominati come gli A&T Four
decidono invece di fare
un’azione eclatante: rimangono nel negozio fino alla chiusura.
Il giorno dopo accade lo stesso, questa volta però ai quattro
ragazzi si
uniscono decine di altri studenti di colore di altre
università della zona che danno vita a quella che diventò una
delle più
importanti iniziative politiche del Civil Rights Movement.
L’11 settembre l’opera di Karl Marx compirà i suoi primi 150 anni. La stesura del libro, iniziata nel 1862, venne funestata dalla povertà economica dell’autore e dalla sua precaria salute
L’opera che, forse più di qualunque altra, ha contribuito a cambiare il mondo, negli ultimi centocinquant’anni, ebbe una lunga e difficilissima gestazione. Marx cominciò a scrivere Il capitale solo molti anni dopo l’inizio dei suoi studi di economia politica. Se aveva criticato la proprietà privata e il lavoro alienato della società capitalistica già a partire dal 1844, fu solo in seguito al panico finanziario del 1857, iniziato negli Stati Uniti e poi diffusosi anche in Europa, che si sentì obbligato a mettere da parte le sue incessanti ricerche e iniziare a redigere quella che chiamava la sua «Economia».
CON L’INSORGERE della crisi, Marx presagì la nascita di una nuova stagione di rivolgimenti sociali e ritenne che la cosa più urgente da fare fosse quella di fornire al proletariato la critica del modo di produzione capitalistico, presupposto essenziale per il suo superamento. Nacquero così i Grundrisse, otto corposi quaderni nei quali, tra le altre tematiche, egli prese in esame le formazioni economiche precapitalistiche e descrisse alcune caratteristiche della società comunista, sottolineando l’importanza della libertà e dello sviluppo dei singoli individui.
Dal marxismo rivoluzionario di Rosa Luxemburg alla via riformista attraverso le lotte sociali dell’austro-marxismo
La rivoluzione sociale può evitare una nuova barbarie: il marxismo di Rosa Luxemburg
Tra i principali teorizzatori del marxismo rivoluzionario troviamo Rosa Luxemburg (1870-1919) – principale teorica dapprima della sinistra socialista, poi del cosiddetto comunismo di sinistra – che non a caso si era distinta per aver sviluppato la più radicale critica alle tesi revisioniste di Bernstein. Polacca, nata in una famiglia di ebrei, Luxemburg è divenuta prima – fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento – il principale punto di riferimento teorico dell’opposizione di sinistra alla deriva riformista della socialdemocrazia tedesca, poi della Lega spartachista (nucleo del Partito comunista tedesco), che fonda rompendo con il resto dei socialisti che avevano sostenuto l’Impero germanico durante la Prima guerra mondiale.
Critica inflessibile dell’apparato di partito della Spd – sempre più attendista e burocratizzato, responsabile di una prassi politica rivoluzionaria a parole e riformista nei fatti – Luxemburg nel 1914 è fra i pochissimi dirigenti della socialdemocrazia tedesca a opporsi inflessibilmente alla guerra. Dopo aver rotto con i socialdemocratici tedeschi, fonda insieme a Franz Mehring [1] e Karl Liebknecht la Lega spartachista nel 1916.
Proponiamo come contributo alla riflessione sulle ragioni della crisi attraversata attualmente dalle esperienze progressiste latinoamericane, un articolo di François Houtart , prestigiosa figura di intellettuale e vice-presidente del Forum mondiale delle alternative, deceduto il 6 giugno scorso
L’America Latina è stato l’unico continente dove delle opzioni neoliberali furono adottate da più paesi. Dopo una serie di dittature militari, appoggiate dagli Stati Uniti e portatrici del progetto neoliberale, le reazioni non si sono fatte attendere. Il punto più alto fu il rifiuto nel 2005 del Trattato di libero scambio con gli Stati Uniti e il Canada, frutto di un’azione congiunta tra movimenti sociali, partiti politici di sinistra, Ong e chiese cristiane.
I nuovi governi di Brasile, Argentina, Uruguay, Nicaragua, Venezuela, Ecuador, Paraguay e Bolivia, hanno messo in atto politiche di ripristino dello Stato nelle sue funzioni di ridistribuzione della ricchezza, di riorganizzazione dei servizi pubblici, soprattutto di accesso alla sanità, all’educazione, e di investimento in lavori pubblici. Una ripartizione più favorevole delle entrate delle materie prime tra multinazionali e Stato nazionale (petrolio, gas, minerali, prodotti agricoli di esportazione) è stato negoziato e la buona congiuntura, per più di un decennio, ha permesso delle entrate apprezzabili per le nazioni coinvolte.
Non ci provino nemmeno a fare i furbetti ipocriti. I governanti europei, che pagano i tagliagole perché fermino nel deserto i migranti, sanno benissimo ciò che quelli fanno per fermarli. Altrimenti non li fermerebbero. Hanno delocalizzato la strage come fanno con il lavoro le multinazionali. Anch’esse perfettamente consapevoli dell’orrore che alimenta i loro superprofitti. D’altra parte questo massacro ha il consenso della maggioranza dell’opinione pubblica, come è sempre stato per tutti i genocidi. Un’opinione pubblica a cui da decenni viene spiegato che lo stato sociale, i diritti, la dignità della vita, costano troppo. E perciò bisogna selezionare.
Da decenni le classi dirigenti con i loro mass media educano le persone ad odiarsi l’un l’altra. I giovani contro gli anziani, i disoccupati contro gli occupati, i precari contro i lavoratori più tutelati, i privati contro i pubblici, gli attivi contro i pensionati. Ogni volta che esplode una ingiustizia, subito si scova il colpevole in qualche sua vittima, che viene fatta apparire come privilegiata rispetto alle altre. Poi con la grande crisi si è definitivamente affermato che la coperta era troppo corta per coprire tutte e tutti. E per condurre il massacro sociale è stata usata l’Europa nella sua fisionomia più razzista. Lo vuole l’Europa – veniva affermato mentre si distruggevano lavoro, sicurezza sociale, beni comuni, salute – non vorrete finire tra i paesi del terzo mondo?
Premessa: gli studi regionali
Il libro di Samir Amin è del 1973, e si inquadra come frutto maturo nel contesto di quei dibattiti sullo sviluppo che si sono dispiegati in tutti gli anni sessanta come reazione alle tradizionali teorie quantitative neoclassiche, imperniate su una nozione di spazio economico completamente astratto e formale. Già Francois Perroux aveva smosso gli approcci che tentavano di spiegare gli assetti spaziali a partire dalla nozione di equilibrio grazie alla semplice osservazione che di fatto l’assetto spaziale economico è caratterizzato da squilibrio. Cioè è conformato dalla presenza di ‘centri’ e ‘periferie’ (come vedremo nozioni centrali nell’analisi di Amin). Le relazioni tra ‘centri’ e ‘periferie’, è il punto, sono definite da scambi di equilibrio in linea di principio eguali, o suppongono relazioni ineguali di sfruttamento? La questione che pone questa domanda è al centro delle cosiddette “scienze regionali”, avviate negli anni quaranta da Alfred Loesch, ma profondamente rinnovate negli anni sessanta sulla base di una rilettura che fa uso anche di categorie marxiste.
Al centro l’idea che lo sviluppo economico, a tutte le scale, non sia un processo lineare nel quale spontaneamente si realizza l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse economico degli attori, ma un processo discontinuo e squilibrante nel quale si producono diseguaglianze, e quindi potere.
Sono passati 150 anni dalla
pubblicazione della prima edizione de Il Capitale di Marx, ma
ancora quest’opera crea problemi e preoccupazioni ai padroni
di tutto il mondo,
che in tutti i modi cercano vanamente di dimostrarne
l’inutilità e la fallacia. Un ultimo esempio di questo vero e
proprio loro chiodo
fisso è la recente pubblicazione da parte dell’editore Aragno
dello scritto di Vilfredo Pareto sull’opera di Marx,
intitolato
anch’esso Il Capitale. In realtà si tratta della ristampa
dell’Introduzione che il Pareto fece in francese alla raccolta
di brani
del Libro I de Il Capitale curata dal genero di Marx, Paul
Lafargue e pubblicata dall’editore Guillaumin di Parigi nel
1893 [1],
opera che fu tradotta per
intero e pubblicata un anno dopo in Italia dalla casa editrice
Remo Sandron di Palermo [2].
Ma, addirittura prima di
questa edizione, questa Introduzione di Pareto fu pubblicata
in italiano in sei puntate sulla rivista L’Idea liberale dal
titolo Studio critico
della teoria marxista, dal giugno al settembre 1893 [3].
Contro l’attualità di Marx nella crisi i borghesi rispolverano il vecchio Pareto
La scelta dell’editore Aragno di ripubblicare questo scritto di Pareto[4] è chiaramente dettata da motivi ideologici, visto che è lo stesso Pareto a definirlo “un lavoretto che non ha nessuna importanza economica”[5], ma naturalmente ha destato l’immediato e compiaciuto entusiasmo della stampa.
Computer umani e il problema della computazione. Note attorno My Mother Was a Computer di Katherine N. Hayles
“I discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo
sensibile, e non sopra un mondo di carta”.
Galileo Galilei
Il saggio When Computer Were Human di David Alan Grier è probabilmente la fonte più esaustiva sulla nascita e l’uso del termine “computer”. “Prima che i computer fossero delle macchine, essi erano delle persone. Erano uomini e donne, giovani e vecchi, istruiti e gente comune. Il contributo di questi lavoratori convinse gli scienziati dell’importanza che poteva avere la capacità di eseguire calcoli molto lunghi e complessi. Molto tempo prima che Presper Eckert e John Mauchly costruissero alla Moore School of Electronics il calcolatore ENIAC e Maurice Wilkes progettasse EDSAC alla Manchester University, i computer umani avevano già creato la disciplina della computazione. Si trattava di un sistema di metodologie numeriche che avevano testato su problemi pratici. I computer umani non erano degli eruditi o dei geni matematici, molti di loro conoscevano poco più che i fondamenti della matematica. Solo alcuni potevano essere avvicinati agli scienziati per cui lavoravano, e in diverse epoche e situazioni avrebbero potuto diventare essi stessi degli scienziati se la carriera scientifica non gli fosse stata preclusa per motivi di classe, educazione, genere o etnia” (Grier, 2001).
La settimana scorsa mi è arrivato un messaggio dalla Siria sul mio cellulare: “Il generale Khadour ha mantenuto la sua promessa,” diceva. Sapevo che cosa significava.
Cinque anni fa ho incontrato Mohamed Khadour che comandava pochi soldati siriani in un piccolo sobborgo di Aleppo, sotto il fuoco di combattenti islamisti nella parte est della città. Mi fece vedere la sua mappa. Avrebbe ripreso il controllo di quelle strade in 11 giorni, mi disse.
E poi nel luglio di quest’anno, ho incontrato di nuovo Khadour, lontano, nella parte orientale del deserto siriano. Mi ha detto che sarebbe entrato nella città assediata di Deir ez-Zour prima della fine di agosto. Gli ho ricordato, un po’crudelmente, che l’ultima volta che mi aveva detto che avrebbe ripreso parte di Aleppo in 11 giorni, all’esercito siriano ci erano voluti 4 anni per ricatturarla. E’ stato tanto tempo fa, mi ha detto. In quei giorni l’esercito non aveva imparato a combattere una guerriglia.
L’esercito era addestrato a riprendere il Golan e a difendere Damasco. Ora però aveva imparato.
In effetti era vero.
La grave e dolorosa vicenda di Rimini potrebbe essere occasione per fare una riflessione seria su migranti, politica delle popolazioni, devianza e stato sociale. Ma non accadrà
La vicenda di Rimini, ormai nota nel suo contorno di pestaggi e stupri, potrebbe aiutare la costruzione di qualche riflessione seria su migranti, politica delle popolazioni, devianza e stato sociale. Una riflessione, diciamolo con parole terra terra, di quelle cambiano le politiche reali. Non accadrà, perlomeno nell’immediato. Perchè i fatti, finché sono caldi, sono ostaggio dei toni forti dei media, tutti giocati nella logica dell’audience, e dell’abituale delirio da social. Dove l’impotenza, di una buona parte di paese ancora dentro la crisi, trova un riscatto simbolico nelle richieste di punizione o espulsione di qualsiasi soggetto definito, a vario titolo, come extracomunitario.
Nelle società dell’1% l’inclusione è infatti una pratica delle classi agiate. Il denaro, elemento simbolico dell’accettazione nelle classi sociali, è notoriamente apolide e richiede naturalmente l’accettazione del diverso. Soggetto che viene accettato nelle classi agiate, quelle che fanno vita globale, qualunque sia la sua provenienza purché dotato di una robusta linea di credito.
Lo scorso 30 agosto tale Pamela Pistis, ambiguo personaggio del quartiere Tiburtino III, ha aggredito un eritreo che passeggiava vicino al centro di accoglienza per migranti sito in via del Frantoio. L’uomo prima si è rifugiato nel centro, poi ha chiamato la polizia per denunciare l’aggressione. Nel mentre che l’edificante capovolgimento dei ruoli prestabiliti andava avanti (la donna italiana che picchia l’uomo straniero), si presentava davanti al centro il compagno della Pamela, prendendola a schiaffi. Questi i fatti. La polizia, accertati gli eventi, iscriveva nel registro degli indagati (per aggressione) l’unica responsabile dell’avvenimento, per l’appunto tale Pamela Pistis. Storie di ordinaria follia metropolitana, non fosse che immediatamente tali fatti subivano un stravolgimento comico dalle penose conseguenze.
Il giorno stesso qualche individuo, complice o solamente vittima del raggiro mediatico, accorso davanti al centro d’accoglienza ne chiedeva la chiusura. Per quale motivo non si capisce, e infatti non lo sa ancora nessuno. Ma il frame della guerra tra poveri marciava spedito: giornalisti assetati di scontro etnico indagavano sui particolari dell’aggressione dell’eritreo all’italiana, alimentando non solo il fraintendimento intenzionale, ma declinando la disperazione degli abitanti del quartiere in chiave razzista. Tutti i problemi sociali del quartiere trovavano finalmente l’efficace sintesi mediatico-popolare: colpa dei negri!
Nella guerra delle parole che si combatte quotidianamente è stata segnata una nuova tappa. Qualcuno ha proposto un «colonialismo solidale» come «utopia per l'Africa». Cancellando così milioni di morti e decine di anni di furti e violenze, semplicemente accostando due parole
L’oppressione è una questione di lingua. Da dove partire per raccontare la storia di quello che si può o non si può dire? Dal fatto che la lingua di un impero, per esempio, è di gran lunga più importante di quella degli Stati e dei cittadini sudditi? La parola è problematica perché appartiene al genere umano ed è lo spazio più difficile da controllare: è punto di accesso alle intenzioni, rivelazione involontaria, programma di azione, prima forma del mondo, necessario campo di battaglia. L’oppressore dà per scontato che l’oppresso non sappia usarla o non capisca il ruolo della stessa nella creazione e riscrittura della realtà. Come fosse una legge naturale, che sancisce il più forte e il più debole e di cui ogni eventuale crisi va esorcizzata. Il diritto di solito elabora formule adeguate a farlo! È per questo George Walker Bush trasecolò nel sentire gli immigrati cantare l’inno americano in spagnolo, nelle proteste californiane del 2006. Gli illegali davano l’impressione di potere riscrivere il concetto di nazione, ma in realtà stavano soltanto smontando un dispositivo violento che governava escludendo: fu dichiarato illegale cantare in un'altra lingua che non fosse l’inglese.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Qui la prima parte
1. Le elezioni
politiche del 2013 non
hanno fatto vincere il PD che, pur risultando il primo
partito, per formare un nuovo governo in sostituzione di
quello dimissionario di Mario Monti si
dovrebbe accordare col PdL oppure col Movimento5Stelle. Ma con
quale dei due? E’ una situazione inedita che Jim O’Neill della
Goldman
Sachs si azzarda ad interpretare a pro’ del “partito” di
Grillo, il che potrebbe anche essere «l’inizio di qualcosa di
nuovo» (R., 2.3.2013). Però, a gelar subito l’entusiasmo,
provvede Mediobanca in un rapporto ai suoi investitori, dal
titolo
esemplare La tempesta perfetta, invitandoli a non
trasformare «la commedia all’italiana in una tragedia greca».
Forse
è meglio stare alla finestra in attesa che se la sbrogliasse
il Capo dello Stato, dando una probabilità del 15% all’accordo
PD-M5S, del 10% al ritorno alle urne e del 70% all’alleanza
PD-PdL (R., 27.2.2013).
Contemporaneamente va in scadenza il settennato di Giorgio Napolitano e si apre un vuoto di presenza al Quirinale. Si decide che dapprima si sostituisca il Presidente della Repubblica e poi sia lui a indicare il successore di Monti, il cui governo nel frattempo viene congelato. Però non è una cosa facile far salire al Colle il candidato prescelto dal PD se il primo, Franco Marini, viene “impallinato” il 18 aprile al primo scrutinio dal suo stesso partito.
Nei giorni
scorsi,
Alberto Asor Rosa ha scritto un breve, ma denso elzeviro sullo
stato presente del sistema scolastico, il cui titolo è
inequivoco: “La
scuola nelle mani dei
barbari”.
Dopo aver stigmatizzato nel merito e nelle motivazioni la sperimentazione del “liceo breve” che prende l’avvio in questi giorni – «la riprova che siamo nelle mani dei barbari. Anzi, più esattamente, di barbari incolti» –, ricordato che «la spesa d’investimento nella cultura e nella formazione è drammaticamente sempre più bassa in Italia», e sottolineato come sia incongruo il presupposto che l’accorciamento del percorso scolastico troverebbe giustificazione in un raccordo col mercato del lavoro, Asor Rosa va al cuore del problema, chiedendosi a cosa serve la scuola media superiore.
Dopo anni nei quali prima si ridimensionava la scuola, e poi la si accusava di non riuscire a svolgere il proprio compito – ragione per ulteriori ridimensionamenti punitivi, in un circolo vizioso nel quale non distingui più ministro e governo “di destra” e “di sinistra” – è rinfrescante, quantomeno per la mente, vedere che qualcuno è ancora capace di rimettere il problema sui propri piedi, e questi su un suolo saldo.
Era l’agosto del 2016 quando, poco più ad est della città di Aleppo ancora in piena battaglia ed ancora contesa tra governativi ed islamisti, a Mambiji facevano il loro ingresso trionfale le truppe dell’SDF, ossia della coalizione che raggruppa i curdi assieme ad altre forze arabe e delle tribù delle zone orientali della Siria; la conquista della città è stata importante allora visto che essa era di fatto l’ultimo avamposto dell’ISIS nel nord del paese e l’avvento dell’SDF nel suo centro urbano è arrivato al culmine di una repentina quanto veloce avanzata ai danni del califfato il quale, al contrario di quanto visto nella vicina Kobane due anni prima, non ha offerto una grande resistenza. In quell’occasione, un’immagine ha ben rappresentato la situazione: in essa, erano raffigurate intere colonne dell’ISIS indietreggiare con ordine e ritirarsi dalla periferia di Mambiji, segno di un accordo e di una resa difficilmente riscontrabile in altri contesti bellici siriani. Oggi quella scena in parte si ripete nelle zone a nord di Deir Ez Zour.
L’offensiva SDF nella provincia orientale della Siria
A poche ore dall’annuncio ufficiale del governo siriano della fine dell’assedio di Deir Ez Zour, gli alti comandi dell’SDF hanno subito dichiarato da parte loro l’imminente offensiva dei filocurdi proprio verso il capoluogo più orientale del paese;
Le istruttive confessioni di Giuliano Amato sull'interessante settembre 1992
Millenovecentonovantadue. Sebbene possa sembrare ieri, non è esattamente così. L'Urss si era sciolta solo l'anno precedente e l'Europa di Maastricht muoveva i primi passi. Si manifestava ancora per la scala mobile, che i vertici sindacali avevano svenduto a luglio per beccarsi le bullonate dei lavoratori a settembre. Tangentopoli cuoceva a fuoco rapido la Prima Repubblica, con le stragi di mafia per contorno.
Intanto lui se ne stava a Palazzo Chigi a preparare la più dura Finanziaria di sempre (lo supererà solo Monti nel 2011). Nel frattempo, però, gli eventi precipitarono e - giusto a metà settembre - si arrivò alla svalutazione della lira. E' di questo che ci parla Giuliano Amato, in un'intervista a Federico Fubini, sulle pagine dell'inserto economico del Corriere della Sera.
Intervista interessante per diversi motivi. Perché rivela le dinamiche politiche e finanziarie di quei mesi, perché parlando di ieri ci dice molte cose sull'oggi e sul domani. Oddio, "rivela" è un po' troppo, visto che ci svela dei "segreti" già noti nell'essenziale a chiunque non abbia gli occhi foderati di prosciutto. E, tuttavia, la confessione del nemico ha pur sempre un grande valore: quello di confermare in maniera inconfutabile ciò che già sapevamo, ma che tanti fanno ancora oggi finta di non sapere.
Subire o contrattaccare cercando di aprire nuove strade? Anche questa volta, il socialismo bolivariano sceglie la seconda via, rilanciando il proposito di Chavez: “Aqui no se rinde nadie”, qui nessuno si arrende. Certo, la partita è difficile e il terreno su cui resistere impervio, ma il gioco vale, per loro e per noi. D'altro canto, le ultime mosse effettuate sembrano aver sortito l'effetto sperato. Dopo quattro mesi di attacchi violenti portati dalle grandi consorterie internazionali con tutta l'artiglieria pesante dei media di guerra, all'interno e all'esterno del paese, la tanto vituperata proposta dell'Assemblea Nazionale Costituente (Anc) ha disinnescato la sovversione, smascherandone l'inconsistenza politica.
Dopo tanti strepiti e schiamazzi e 121 morti - una trentina dei quali bruciati vivi dai “pacifici manifestanti” - gran parte dell'opposizione ha deciso di presentarsi alle elezioni regionali. Si è chiamata fuori solo la pasdaran Maria Corina Machado con il suo gruppo Vente Venezuela, alla quale va senz'altro il merito di una coerente monomania: fare di Caracas una succursale di Miami, cacciando con la forza Maduro come già tentato con Chavez. Per i “puputoviani” - inventori della “bomba di escrementi”, lanciata durante i recenti scontri – la coerenza non è mai stata determinante. I loro sostenitori sono abituati alle piroette, portate al diapason dopo la vittoria di Maduro su Capriles nell'aprile del 2013.
Appena arrivate in Parlamento, le destre hanno promesso di “cacciare Maduro in sei mesi” e hanno dato la guazza ai loro committenti.
Su L’Antidiplomatico troviamo un articolo-intervista all’economista ed attivista egiziano, Samir Amin, di cui abbiamo già letto l’importante saggio del 1973 “Lo sviluppo ineguale”. Nell’intervista, Raffaele Morgantini chiede al teorico dei processi di dominazione nord-sud e del concetto di “sviluppo ineguale” (perché schiacciato dalla forza di dominio della logica intrinseca della competizione e del capitale) quale ritenga sia la natura dell’attuale fase. In linea con la sua essenziale interpretazione, già presentata nei primi anni settanta, Amin risponde di ritenere l’attuale “crisi” come una nuova fase di tendenziale stagnazione (una “L”, anziché una “U”) la cui logica non consente una stabile ripresa. Come vedremo nella lettura del suo libro del 2009 “Crisi”, la sua risposta è dunque di avviarsi nella lunga marcia che possa portare oltre il capitalismo stesso.
Si tratterebbe, in sintesi, del segnale di un esaurimento storico. Ma non di un pacifico declinare, tutt’altro. L’osservatore che instancabilmente ha visto il mondo dal lato della sua parte più debole vede, al contrario, un incattivirsi. Un esasperare la capacità estrattiva (come illustra anche l’ultima Saskia Sassen in “Espulsioni”) che produce da una parte sempre più stagnazione, dall’altra ancora più polarizzazione.
La fine del compromesso socialdemocratico e il mercato globalizzato mettono in discussione uguaglianza e democrazia. La crisi aperta dal 2008 svela i limiti del modello, ma non emerge ancora un'alternativa di sistema. Le diverse analisi critiche e le proposte di intervento elaborate da Picketty, Stiglitz, Rosanvallon, Streeck, Dardot e Laval
Quali sono gli elementi che caratterizzano questa epoca detta della globalizzazione neoliberista?[1].
A me sembra che si possano riassumere in questo modo: a) il dominio del mercato; b) l'eclissi della uguaglianza; c) la crisi della democrazia; d) la scomparsa di un disegno alternativo allo stato di cose presente.
Come evidente i quattro elementi non possono essere presi singolarmente, ma sono profondamente intrecciati fra loro e tutti concorrono al dominio del neoliberismo che si presenta non solo come la potenza, dominante, ma come la struttura naturale del mondo, o meglio, la ragione[2] del mondo.
Marx nella Ideologia tedesca nel 1845 scrive con qualche capacità previsionale e come se parlasse a questo secolo: "Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto Spirito del mondo, Weltgeist, etc.) a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale".[3]
Dopo aver incubato per
alcuni anni,
nei giorni scorsi
la maggioranza
indipendentista del Parlament – i liberal-conservatori
del PDeCat, i socialdemocratici di Erc e la sinistra radicale
della Cup – ha
dato avvio ad un processo di ‘disconnessione’ politica ed
istituzionale da Madrid e dalla sua legalità attraverso
l’approvazione di due importanti leggi.
La prima convoca il Referendum per il 1 Ottobre, istituisce una commissione elettorale catalana, formula il quesito (che sarà in tre lingue: catalano, castigliano e aranese) e chiarisce i criteri di selezione degli aventi diritto al voto. Il secondo provvedimento stabilisce invece i caratteri e le forme della fase di transizione che seguirebbe ad una eventuale affermazione dei Sì: la proclamazione di una Repubblica Catalana e poi l’entrata in vigore di una Costituzione provvisoria improntata ad una sostanziale continuità con quanto stabilito dall’attuale Statuto di Autonomia, prima che un’Assemblea Costituente ne approvi una versione definitiva.
Ovviamente i partiti nazionalisti spagnoli – popolari, socialisti e Ciudadanos – e gli apparati dello Stato non hanno alcuna intenzione di permettere la celebrazione del voto popolare, non riconoscono ai catalani il diritto all’autodeterminazione.
Nussbaum critica le visioni fondate solo sulla matematica: «La filosofia stimola la giustizia»
Anticipiamo una parte dell’articolo della studiosa americana Martha C. Nussbaum pubblicato nel nuovo numero di “Vita e Pensiero”, il bimestrale di cultura e dibattito promosso dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fra gli altri temi, il rilancio dell’Europa, la scommessa della teologia, la storia della massoneria.
Perché abbiamo bisogno della filosofia? Gran parte del mondo va avanti facendone a meno. Solo le teorie filosofiche della giustizia hanno ricevuto una certa attenzione rispettosa da parte di politici ed economisti. La teoria della giustizia di John Rawls, per esempio, è nota, per lo meno nelle sue linee essenziali, ai leader di molti Paesi occidentali, e le idee di Jürgen Habermas sul discorso democratico sono conosciute in Europa e hanno influenzato in qualche modo il dibattito pubblico. Inoltre, le visioni utilitariste dei pensatori ottocenteschi Jeremy Bentham e John Stuart Mill, benché perlopiù fraintese dagli economisti di oggi, sono ancora influenti in tutto il mondo. Volgendoci all’arena mondiale, comunque – alle discussioni sul welfare, i diritti umani, e su come paragonare i risultati e la qualità della vita di diverse nazioni –, le cose sono diverse.
Un martello è uno strumento utile. A tante cose: piantare chiodi o sfondare il cranio di un cristiano.
Anche i minibot, o qualsiasi altra moneta parallela (i ccf, per esempio), sono uno strumento utile a liberarsi dalla morsa dell’euro franco-tedesco, ma come un martello, questa recuperata libertà può essere utilizzata in tanti modi.
Sui minibot così scrive Claudio Borghi Aquilini:
se la Lega dovesse andare al governo lo Stato emetterà buoni del Tesoro in forma cartacea in tagli del tutto simili a quelli delle attuali banconote pagando (fino a una certa somma) immediatamente e senza alcuna lungaggine tutti i suoi debiti nei confronti dei cittadini e delle imprese. A scelta del creditore verrebbero saldati con minibot: i debiti della Pubblica Amministrazione, i crediti di imposta inclusi quelli pluriennali (ad esempio: chi ha effettuato una ristrutturazione si vedrebbe riconosciuto immediatamente il credito irpef che normalmente incasserebbe in dieci anni), i risarcimenti degli obbligazionisti azzerati ecc. ecc. ecc.
Questa operazione metterebbe in circolo dai 70 ai 100 miliardi di minibot che non rappresentano debito aggiuntivo perché sono già debiti dello stato che verrebbero semplicemente (e finalmente!) onorati.
È giunto il momento di parlare del cambiamento climatico che rende disastri come Harvey catastrofi umane. In tv dicono che questo tipo di precipitazioni non ha precedenti. Che nessuno l’avesse previsto, e come quindi nessuno potesse prepararsi adeguatamente. Quel che non sentirete è il motivo per cui eventi climatici del genere stiano avvenendo con tale regolarità.
Ci è stato detto che non si vuole “politicizzare” una tragedia umana, il che è comprensibile. Ma ogni volta che fingono che un disastro meteo sia una punizione divina, i giornalisti prendono una decisione altamente politica. Si vuole evitare controversie e non dire una scomoda verità. Perché la verità è che questi eventi sono stati previsti da tempo dagli scienziati del clima. Oceani più caldi provocano tempeste più forti. Livelli del mare più alti significa che le tempeste si riversano in luoghi mai raggiunti prima. Temperature più alte portano a precipitazioni estreme: lunghi periodi secchi interrotti da precipitazioni di neve o pioggia. Il tempo non si comporta più come una volta.
I record che vengono rotti anno dopo anno – per siccità, ondate di tempesta, incendi o caldo – stanno accadendo perché il pianeta è notevolmente più caldo di quanto non lo fosse all’inizio delle registrazioni.
Un vasto arco di tensioni e conflitti si estende dall’Asia orientale a quella centrale, dal Medioriente all’Europa, dall’Africa all’America latina.
I «punti caldi» lungo questo arco intercontinentale – Penisola coreana, Mar Cinese Meridionale, Afghanistan, Siria, Iraq, Iran, Ucraina, Libia, Venezuela e altri – hanno storie e caratteristiche geopolitiche diverse, ma sono allo stesso tempo collegati a un unico fattore: la strategia con cui «l’impero americano d’Occidente», in declino, cerca di impedire l’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.
Che cosa Washington tema lo si capisce dal Summit dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) svoltosi il 3-5 settembre a Xiamen in Cina. Esprimendo «le preoccupazioni dei Brics sull’ingiusta architettura economica e finanziaria globale, che non tiene in considerazione il crescente peso delle economie emergenti», il presidente russo Putin ha sottolineato la necessità di «superare l’eccessivo dominio del limitato numero di valute di riserva». Chiaro il riferimento al dollaro Usa, che costituisce quasi i due terzi delle riserve valutarie mondiali e la valuta con cui si determina il prezzo del petrolio, dell’oro e di altre materie prime strategiche. Ciò permette agli Usa di mantenere un ruolo dominante, stampando dollari il cui valore si basa non sulla reale capacità economica statunitense ma sul fatto che vengono usati quale valuta globale.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Il processo indotto dalla trasformazione di Industria 4.0 è bidirezionale e non unidirezionale. La robotica è solo un pezzo del paradigma. E la politica economica e industriale giocheranno un ruolo fondamentale
Industria 4.0 e la
Storia
Il capitalismo è una particolare organizzazione della società; questa (società) evolve e cambia nel tempo perché con il passare “del tempo” muta la domanda, il salario di sussistenza, la tecnica e, infine, il contenuto del capitale e del lavoro. Sebbene Industria 4.0 possa sembrare qualcosa di inedito e paradigmatico, la storia del capitale e dello sviluppo ci ricordano che “Non è quello che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non servono soltanto a misurare i gradi dello sviluppo della forza lavoro umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro vien compiuto il lavoro”(Marx[1]). Più in particolare, “La borghesia non potrebbe sopravvivere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque i rapporti sociali”.
Sebbene l’elenco delle potenziali innovazioni afferenti a Industria 4.0 sembrino rivoluzionarie, queste lo sono nella misura in cui adottano tecniche che nella classificazione (aggiornata[3]) di Freeman e Soete (1997) precedono il paradigma della Green Economy che, nel silenzio più assordante, sembra scomparsa dal dibattito economico e politico.
Ritratto della classe aspirazionale, tra meccanismi di compensazione, negazione e lotta di classe anagrafica
Quando mia figlia ha
finito la prima
elementare, un genitore della classe ha proposto di fare la
cena di fine anno in un all you can eat: che bella idea, ho
risposto, non avendo io mai
messo piedi in un all you can eat. Poi, però, giunta al
ristorante, mi sono bastati pochi minuti per sentirmi fuori
posto: tutto mi sembrava
triste e pacchiano e insensato. Abbiamo mangiato del pessimo
sushi e ogni adulto ha sborsato trenta euro, più o meno la
stessa cifra che spendo
per mangiare decentemente. Prima, quando uscivamo con qualche
compagno di classe, andavamo in qualche hamburgheria
nobilitata (nella nostra zona ce ne
sono tre, di cui due in aree pedonali dove si possono
sguinzagliare i bambini) oppure a farci un brunch domenicale,
tutte operazioni altrettanto
economiche e meno alienanti. Il fatto è che nell’ultimo anno
abbiamo cambiato scuola, spostandoci molto più lontano dal
centro di
Milano, ed è stato un cambiamento antropologico prima ancora
che geografico.
Nella materna all’interno della cerchia dei navigli che frequentavamo, le mamme giovani vestivano Muji e Petit Bateau, le tate dispensavano gallette di riso e frutta biologica, e all’uscita si affollavano curatissime nonne in bicicletta. Nella nuova scuola il tasso di babysitter è calato, i bambini fanno merenda con le Camille del Mulino Bianco, le mamme più curate sfoggiano fondotinta opachi e bauletti firmati. È cambiato il contesto socio-economico, ma non è soltanto una questione di reddito: certo, le famiglie del centro tendono a essere più benestanti, però non è sempre così.
Ieri a Roma il senatore Nicola Morra (M5S) ha organizzato un convegno sulle Fake News, dal titolo “Ricerca della verità tra social media e strumenti educativi“. Tra i relatori, Laura Bononcini, responsabile per Facebook delle relazioni istituzionali (qui il suo intervento), Gianluigi Paragone, Gianluigi Nuzzi, Enrico Mentana, Sergio Rizzo, Gherardo Colombo ed altri.
Il convegno si inserisce in un momento storico determinante, che vede i social network dibattersi tra due fuochi: da una parte l’esigenza di non far fuggire i creatori di contenuti, ovvero gli utenti, che rappresentano la loro ricchezza, e dall’altra la necessità di rispondere alle pressioni della politica, che non riuscendo più a controllare il flusso delle informazioni attraverso il mero controllo delle televisioni, aggredisce la rete cercando di costringere i grossi player a rispondere alle sue richieste di rimozione di post e video, saltando una magistratura i cui tempi di intervento (insieme alle limitazioni giurisdizionali che portano le rogatorie internazionali ad infrangersi contro la normativa degli Stati Uniti d’America) non sembrano stare al passo con i tempi della tecnologia.
Ad aprire le danze era stata Hillary Clinton, reduce dalla cocente sconfitta contro Donald Trump: “le elezioni USA sono state taroccate dalla rete e bisogna fare qualcosa“. Specialmente dopo il successo inaspettato (per loro) della Brexit.
«Oltre il capitale», di István Mészáros per Edizioni Punto Rosso
István Mészáros, classe 1930, è forse il solo allievo diretto di Lukács che non abbia ricusato la lezione del maestro, con l’ovvia ambizione di riformularla e renderla attuale. Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione (Edizioni Punto Rosso, pp. 908, euro 40) è un lavoro monumentale, una sorta di compendio sistematico per l’analisi del capitalismo contemporaneo, un’opera, per certi aspetti, straniante, perché legata a una tradizione di analisi e di proposta filosofico-politica distante dall’impressionismo teorico dei nostri tempi.
Per questo, la scelta coraggiosa dei curatori (Nunzia Augeri e Roberto Mapelli) di presentarla nella sua completezza marmorea dev’essere apprezzata e sottolineata: del resto, se il marxismo ha l’ambizione di porsi come visione alternativa al dominio del capitale, la sua validità, in un momento che sembra decretarne la scomparsa o l’integrazione, passa da una verifica concettuale permanente, che di certo costa tempo e fatica.
MÉSZÁROS è uno hegelo-marxista, ha acquisito da Lukács la necessità di un pensiero della totalità, e questo concetto ha reso più dinamico attraverso lo studio di Sartre.
George
Souvlis: Potresti
presentarti descrivendo le esperienze formative (accademiche
e politiche) che più ti hanno influenzato?
Sara Farris: Sono cresciuta in un piccolo paese di 12.000 persone in Sardegna. Lì mi sono politicizzata ed è sicuramente in quel periodo – tra i 12 e i 18 anni di età – che ho vissuto alcune delle più importanti esperienze politiche ed accademiche della mia vita. Vengo da una famiglia di operai; come molti della loro generazione, i miei genitori hanno investito molto nell’educazione per assicurare mobilità sociale alle loro figlie. Inoltre, sono cresciuta in una famiglia in cui il dibattito politico – o meglio – i monologhi di mio padre su avvenimenti di politica interna ed internazionale erano di routine durante la cena. Mio padre era in qualche modo socialista, credeva fermamente nella giustizia sociale ma era molto scettico circa la possibilità che i lavoratori – per come li conosceva lui – sarebbero stati in grado di apportare qualche tipo di cambiamento sociale.
Ad ogni modo, quel che cerco di dire è che l’ambiente familiare mi ha sicuramente esposto all’importanza dello studio e alle idee di sinistra. Successivamente ho frequentato il liceo classico nel mio paese.
Giorgio Stamboulis, Filosofia precaria, il Vicolo, Cesena 2017
Il saggio di Giorgio Stamboulis
introduce subito un quesito
stringente, che richiede un ingresso ex abrupto del
cogito:«cos’è oggi la filosofia?» (p. 13). E altrettanto
violentemente si
scarica la risposta: «una grande assenza» (ibid.). Infatti
sembra che eminentemente ‘contemporaneo’ sia il problema della
filosofia, ovvero il fatto che la filosofia stessa costituisca
una grande problematica.
Seguendo l’autore, è evidente che lo status proprio della filosofia versi in una condizione critica. Essa, oggigiorno, si presenterebbe quasi del tutto schiacciata dall’immane peso del suo aulico passato e pronta a soccombere dinnanzi all’orizzonte futuro. Forse perché d’altronde un sapere troppo vasto annienta con la stessa naturalità con cui una tradizione troppo venerabile finisce per immobilizzare ogni intento. In una tale situazione non resta che il naufragio. O meglio: di fronte alla grandezza vincolante del trascorso, risulta – per parafrasare un celebre verso di G. Leopardi – «dolce il naufragar» nel mare magnum dell’avvenire, nel quale però si penetra senza alcuna guida capace di indicare la via nel nuovo stato di cose. E la perdizione della coscienza filosofica non può che avvenire nella persona del filosofo.
È in atto una nuova rivoluzione industriale che ci sta riportando indietro, dall’età della borghesia al sistema feudale. La mutazione di paradigma dell’alfabeto del capitalismo estrattivo è impressionante. Quella che per Lacan era la struttura dell’inconscio, unità di produzione del desiderio, è oggi trasformata in valore dalle Big Tech, che prosperano monetizzando l’inconscio e i suoi desideri. Il dominio nella raccolta pubblicitaria – Facebook 9,3 miliardi di dollari nel primo trimestre 2017, +45% sullo scorso anno, Alphabet 26 miliardi, + 21% – è solo la cornice di quest’opera seriale alla Damien Hirst.
The only thing worse than “fake news” is “fake consensus” to be algorithmically enforced by a bunch of tech platforms, foundations, and NGOs
L’unica cosa peggiore delle “false notizie” è il “falso consenso” imposto tramite algoritmi da un manipolo di piattaforme tecnologiche, fondazioni e organizzazioni non governative.
Evgeny Morozov
Un giovanissimo David Lynch, nell’anno dell’assalto al cielo, gira il suo secondo cortometraggio. Lo fa dopo avere assistito agli incubi notturni della nipote. Alphabet (1968) è un video allucinato, dove si alternano grafica e stop motion, in cui le lettere dell’alfabeto urlate dalla bambina nella notte si trasformano in una spettrale catena di produzione messa al lavoro contro l’umano.
C’è un modo migliore per togliere ai ragazzi il peso della scuola: dichiarare bancarotta e chiuderla. Inutile e ridicolo proseguire a rendergliela più appetibile, ciurlando nel manico o occhieggiando ai loro presunti bisogni (di meno compiti a casa, di poter usare lo smart phone in classe, di linguaggi più moderni e alla moda, etc etc).
La confusissima ministra che propone la riduzione sperimentale delle ore di scuola media inferiore e superiore e la fine dei compiti a casa per la primaria è la stessa che straparla dell’ennesimo innalzamento dell’obbligo scolastico a diciotto anni. Ministro, lascia perdere, lascia stare. Non ne sai e non ne capisci. La formazione dei giovani ormai passa solo casualmente nelle aule, e solo per obbligo. Se fosse volontario andare a scuola, non ci andrebbero neppure gli insegnanti. Si fanno gli amiconi sulla pelle dei ragazzi, educandoli all’accondiscendenza e alla facilità di poter ottenere tutto quel che vogliono, mentre si accrescono le richieste di competizione, le lotte e la spinta alle gerarchie, e ritorna l’autoritarismo in politica.
Si confonde la democrazia e la libertà con la facilitazione e la riduzione dei conflitti di superficie, mentre si accentuano quelli di classe e tra generazioni, nella loro più terribile e bieca sostanzialità.
Altro giro, altro regalo. Con la notizia, anticipata dal New York Times (e poi vedremo perché vale la pena di notare la fonte), che la Wada (l’Agenzia mondiale antidoping) si appresta ad assolvere 95 atleti russi sui 96 che erano accusati di doping sistematico, sprofonda nel ridicolo anche il famoso Rapporto McLaren, presentato nel 2016 dal giurista canadese e servito appunto a mettere alla berlina lo sport russo. Bisogna ovviamente aspettare le motivazioni, che forse emergeranno dopo la riunione a porte chiuse che il consiglio della Wada terrà il prossimo 24 settembre. Pare che i campioni raccolti per incriminare gli atleti diano risultati non affidabili o contrastanti, il che vorrebbe dire che gli sportivi russi sono stati condannati (con le squalifiche, il ritiro delle medaglie e con il bando dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro) senza prove.
Nella realtà, il Rapporto McLaren era servito per l’ennesima campagna politica contro la Russia di Vladimir Putin. All’origine dello scandalo, infatti, c’erano le rivelazioni di Grigorij Rodcenkov, che dal 2006 era stato capo del laboratorio anti-doping di Mosca. Nel 2015 Rodchenkov era scappato negli Stati Uniti e lì, confidandosi appunto al New York Times, aveva fatto lunghi discorsi sulle droghe preparate per migliorare le prestazioni degli atleti russi e sui metodi usati durante le Olimpiadi invernali di Sochi 2014 per far sparire le prove i campioni di urina necessari per gli esami post-gara con l’aiuto dei servizi segreti.
Pubblichiamo questa lunga
intervista di Pablo Iglesias, portavoce di Podemos, con il
Vicepresidente della Bolivia,
Alvaro García Linera nella nota trasmissione “Otra vuelta de
tuerka”. Un’intervista con molte idee e contributi per chi
osa
guardare, vedere e modificare la realtà. Un viaggio tra
esperienze rivoluzionarie concrete e formazione delle idee
necessarie per cambiare le
cose, senza schematismi ma tenendo la barra dritta sul
progetto rivoluzionario. Una intervista-conversazione che
aiuta a comprendere come si sono
formati i gruppi dirigenti rivoluzionari in America Latina
negli anni ’90 e che oggi, in Bolivia come in Venezuela,
sono uomini alla guida di
governi popolari.
* * * *
Pablo Iglesias: Il nostro ospite di oggi è matematico, è stato guerrigliero, è stato in carcere ed è uno dei pensatori marxisti più dotati dell’America Latina. È anche vicepresidente della Bolivia. A “Otra Vuelta de Tuerka” : Álvaro García Linera. Álvaro García Linera, grazie per essere venuto a “Otra Vuelta de Tuerka”, compagno.
Álvaro García Linera: Pablo, grazie per l’invito. Per me è un gran piacere partecipare al tuo programma.
“Immagino
l’economia mondiale come
qualcosa
di simile a un’auto in corsa senza
conducente e bloccata su una corsia lenta.”
(David Stockton, ex burocrate della FED)
Stando alle considerazioni di Stockton è giocoforza ritenere come la narrazione propinata a suo tempo al mondo tutto non abbia retto alla verifica dei fatti; dal che consegue che la mitica spinta propulsiva della globalizzazione pare essersi già esaurita. Destino infame quello delle “spinte propulsive” destinate – come ogni cosa terrena, d’altronde – all’usura del tempo.
Erano di tutt’altro avviso tuttavia, a suo tempo, gli apologeti della New Economy per i quali la progressiva abolizione delle barriere commerciali, la crescente mobilità internazionale dei capitali, la liberalizzazione del mercato del lavoro, in una: le politiche di deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazione si sarebbero tradotte in una progressiva integrazione economica tra paesi, unitamente all’ineludibile corollario di una crescita senza fine a livello globale . Una visione ottimistica e semplificante prendeva il posto della complessità irriducibile delle cose.
Recensione a: Massimo Amato e Luca Fantacci, Per un pugno di Bitcoin. Rischi e opportunità delle monete virtuali, Università Bocconi Editore, Milano 2016, pp. 190, 16,50 euro (scheda libro)
Nel 2017 Bitcoin è diventato un protagonista nello scenario economico facendosi notare sia in senso positivo che negativo. Il suo valore ha raggiunto ad agosto 4100 dollari partendo da una quotazione iniziale di 0,000763 dollari nell’ottobre del 2009. Soltanto nell’anno corrente il suo valore è triplicato, ma questa rapidità nell’apprezzamento della criptovaluta stessa ha portato all’insorgenza di criticità che hanno sollevato timori speculativi e dibattiti concettuali.
Un esempio significativo è rappresentato dalla Cina e dalla scelta di vietare le ICO (Initial Coin Offerig, l’equivalente delle IPO, le offerte pubbliche iniziali) dal momento che esse rappresentano uno strumento utilizzato dalle start up per aggirare le regolamentazioni sulla raccolta fondi. Ufficialmente sono state definite come “una forma di finanziamento pubblico illegale non approvato” e la presa di posizione delle autorità cinesi è volta a evitare la creazione di una bolla finanziaria.
In generale, Bitcoin, la criptovaluta che avrebbe dovuto sconvolgere il sistema bancario, sta affrontando una crisi esistenziale, nonostante si fosse presentato come un sistema di pagamenti inviolabile che avrebbe potuto risolvere i problemi del sistema tradizionale.
Non è un caso che di una questione di competenza delle istituzioni sanitarie come le vaccinazioni sia stata investita invece la Scuola, che non c’entrava nulla. Non è un caso neppure il fatto che il governo abbia adottato la linea della drammatizzazione artificiosa e della conseguente emergenza, determinando pasticci giuridici come quello di un “obbligo” scolastico condizionato alla presentazione di autocertificazioni o di certificazioni di vaccinazioni da parte dei genitori. E, ancora, non è un caso che la risoluzione dei conflitti derivanti da una normativa contraddittoria e caotica sia stata demandata a figure come i Dirigenti Scolastici, fabbricate appositamente in base ad una antropologia “manageriale” del diniego insolente e pregiudiziale, dell’ottusità e della rissosità.
La Scuola infatti non è più concepita come un’istituzione che debba svolgere una propria e specifica funzione, bensì come un laboratorio sociale del lobbying multinazionale. La scelta di usare la Scuola come veicolo di un terrorismo contro le famiglie non abbastanza sollecite a vaccinare i bambini, rientra appunto in un’operazione di lobbying a favore delle multinazionali farmaceutiche.
Nel laboratorio sociale i governi hanno finito per testare soprattutto la propria malafede: se Gentiloni e soci avessero davvero creduto nella necessità dei vaccini per tutelare la sanità pubblica, avrebbero pianificato e disciplinato l’obbligo della vaccinazione
Alla fine, l’ennesimo libro di memorie di Hillary Clinton è uscito. Dopo Hard Choices, arriva in libreria What happened, un volume in cui l’ex candidata democratica spiega la debacle contro Donald Trump. Nel libro ci sono alcuni passaggi interessanti, soprattutto uno, che riguarda l’ormai arcinoto tema delle fake news, un’espressione che abbiamo imparato a conoscere durante l’ultima campagna elettorale americana. Fake news, ovvero notizie false, inventate, ma anche tendenziose, che avrebbero fatto vincere – almeno secondo alcuni media e la stessa Hillary – il candidato repubblicano.
In What happened, la Clinton scrive che “la guerra alla verità” di Trump è paragonabile a quanto accadeva in Unione Sovietica o in 1984 di George Orwell. Per chi non lo sapesse, “1984” è un romanzo distopico in cui si immagina un modo controllato completamente dal Grande Fratello e in cui la verità è osteggiata con ogni mezzo: “Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale propria nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l’unico suo garante”.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Il documento di Jean-Claude Juncker propone 5 scenari alternativi per l’Unione Europea. Ma ora più che mai è necessario mettere in campo un altro scenario, radicalmente diverso, in cui l’autoriforma delle istituzioni europee sia volta a sostenere lo sviluppo e la stabilità sociale all’interno e tra i paesi membri
Il primo
marzo di
quest’anno, il presidente della Commissione Europea
Jean-Claude Juncker ha presentato il “Libro
bianco sul futuro
dell’Europa: le strade per l’unità nell’UE a 27”.
Di fronte a un passaggio incerto dell’istituzione
europea dopo la Brexit, ma soprattutto in presenza della
crescente ostilità popolare nei confronti delle politiche
europee, il documento veniva
presentato come la base di discussione delle linee di sviluppo
dell’Unione e fissava le possibili alternative cui sarebbero
soggetti i paesi
nello scegliere il loro percorso verso la futura Europa. È lo
sfondo sul quale si regge anche il suo recente discorso sullo
Stato
dell’Unione 2017.
Il documento prospetta cinque scenari alternativi con i quali i paesi dell’Unione dovranno confrontarsi prossimamente, superate le ormai prossime elezioni tedesche. Appare quindi tempestivo e di grande interesse il contributo di Alessandro Somma – Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione Europea, Imprimatur 2017 – che offre una ampia e ragionata esposizione del significato e delle implicazioni dei cinque scenari che – secondo la Commissione – delineano «quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025 ». Merito di Somma è interpretare una tale proposta istituzionale in connessione con le altre deliberazioni della Commissione in merito alla difesa, alle finanze, all’inclusione sociale e qualificare così il senso delle diverse alternative in maniera più precisa di quanto non indicasse la rapida presentazione di marzo.
Due tematiche parallele sono, ad intervalli
regolari, al centro delle polemiche sui media quando si tratta
di essere scettici riguardo
all’assetto socio-politico dell’Unione Europea. La prima è
l’approccio intrinsecamente neo-liberista codificato in
maniera
definitiva nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea:
i pilastri su cui si fonda la costruzione comunitaria
sarebbero la libera
circolazione di merci e capitali e gli stretti parametri
sulla gestione del bilancio pubblico. Ha causato
diatribe, poi, il recente
tweet della Bce secondo la quale il compito che
spetta ad essa, in quanto indipendente dalle finalità
politiche, sarebbe semplicemente
la stabilità dei prezzi e non la “crescita” o
la “creazione di occupazione”. La seconda tematica
è il così detto deficit democratico dell’Ue,
la nota tesi secondo cui il potere legislativo comunitario
sarebbe
nelle mani di enti e persone non “direttamente elette dal
popolo” e, perciò, mancante di legittimità.
In questo articolo cercheremo di spiegare le ragioni e le sfaccettature della seconda tematica tramite un’interpretazione filosofica delle problematiche di cui il primo tema si occupa.
Cosa impedisce alla sinistra europea di fare il suo mestiere quando va al governo? Non la globalizzazione: è solo economia di mercato (internazionale). Non gli Stati Uniti: sono con noi (come i mercati globali) da almeno due secoli, durante i quali la sinistra è cresciuta e ha cambiato il mondo. L’URSS non c’è più? D’accordo, ma non c’era neppure nel 1820-1920. Né il successivo progresso sociale è stato determinato solo dal comunismo: non in Germania, ad esempio, dove han fatto tutto sinistra cattolica e socialisti; non negli USA, dove ha fatto tutto la sinistra liberale. No! L’elefante nella stanza è l’euro di Maastricht: moneta fondata su istituzioni e regole non soltanto disfunzionali, ma anche ostili ai ceti deboli e ai lavoratori. Un problema gigantesco che i leader fingono di non vedere.
Non è possibile “rilanciare la sinistra” senza fare i conti con i meccanismi che – a furor di popolo – provocano la deriva liberista. Il primo di questi, che introduco in questo articolo, è la competitività.
In: “Le false partenze della sinistra: la globalizzazione è una scusa” ho sostenuto che la competizione commerciale fra nazioni è un falso problema, che non obbliga affatto i governi a ‘svalutare il lavoro’ (salari, diritti, welfare, sicurezza sul lavoro, ecc.), relativamente ad altri fattori produttivi.
Il 15 settembre 2008 la banca d’investimento Lehman Brothers annuncia di volersi avvalere delle procedure del Bankrupty Code, dichiarando debiti bancari per 613 miliardi di dollari e debiti obbligazionari per 155 miliardi e dando inizio alla più vistosa bancarotta del capitalismo moderno e ai giorni che portarono, negli Stati Uniti dapprima e in tutto l’occidente successivamente, alla più grande operazione di salvataggio della storia.
Quegli avvenimenti, sia pure con notazioni critiche e accentuazioni diverse, sono stati ricostruiti nella loro drammatica completezza da una letteratura oramai sterminata che dell’accaduto ha approfondito responsabili, il sistema bancario e finanziario, espedienti, l’universo dei derivati finanziari, condotte, l’opacità e l’assenza di trasparenza nella gestione aziendale. A distanza di dieci anni, al sentimento di indignazione pubblica e alla minuziosità delle indagini rivelatrici pare subentrare un mesto ritorno dell’indagine economica a canoni tradizionali: sarebbe necessario, tuttavia, che le indagini che nell’ultimo decennio sono state condotte ci aiutino a capire quanto da quelle vicende è mutato e quanto, invece, ha mantenuto caratteri di continuità.
Sono passati quasi quarant’anni dalla pubblicazione di La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, un libro che si muoveva con uno sguardo sulla società così profondo e lungo da funzionare alla perfezione ancora oggi, e forse ancora di più oggi, come mezzo utile di lettura del mondo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive è il sottotitolo del libro di Lasch ed esplica in maniera assai precisa il movimento del pensiero del suo autore, che rintraccia in un individualismo esasperato e in un solipsismo irrefrenabile il motivo di fondo dei comportamenti umani. Contemporaneo all’altrettanto importante Il declino dell’uomo pubblico di Richard Sennett, le riflessioni di Lasch indussero il sociologo Touraine a parlare di “fine del sociale”, cioè di quel processo di disgregazione dei cardini su cui poggiava il vivere comune a favore dell’imposizione di criteri esclusivamente economici che non hanno potuto che portare al trionfo di un “individualismo disgregatore”.
Nel mezzo di tanta seriosa, ma giustificata, speculazione, sta poi un piccolo libro aureo, il divertente Il decennio dell’io di Tom Wolfe, capace di descrivere le mutazioni di un secolo che ha segnato il passaggio da “militanti in narcisi” e ha portato al culto esclusivo di sé, della propria immagine e, sopratutto, delle proprie ambizioni.
Massimo Di Matteo riflette sulle idee eterodosse di Alessandro Vercelli contenute in un suo recente volume. Dopo aver sottolineato l’importanza della distinzione tra libertà positiva e libertà negativa nella lettura di Vercelli, Di Matteo si sofferma sulla critica che egli muove alle riforme neoliberiste, sul nesso fra di esse e la crisi economica e sui limiti che le regole dell’Unione Europea pongono all’adozione delle misure più adeguate di politica economica per affrontare gli effetti deteriori della globalizzazione e della finanziarizzazione
“Crisis and
Sustainability.
The Delusion of Free Markets”, pubblicato da Palgrave, è una summa
del lavoro di Alessandro Vercelli, studioso originale ed
eterodosso. Il libro – che ripropone,collocate in maniera
appropriata, alcune delle sue idee elaborate precedentemente
in contesti diversi
– è ampio (329 pagine) e complesso ma la sua architettura è
lineare e la ricchezza delle argomentazioni non fa perdere di
vista il
filo conduttore dell’analisi. E’ un libro impegnativo che
spazia da argomenti filosofici e metodologici a quelli
economici e ambientali e
propone una visione sulla cui base è possibile costruire una
teoria economica alternativa a quella dominante. Tale visione
si incentra sulla
piena valorizzazione del concetto di libertà positiva in tutti
i suoi aspetti. Quest’ultima si può definire come la libertà
di un soggetto di agire per conseguire i propri scopi, mentre
la libertà negativa è semplicemente la libertà da specifici
vincoli
che gravano sulle azioni di un individuo. Vercelli solleva
altresì in questo lavoro alcuni cruciali nodi interpretativi
che aggiungono
ricchezza al volume. Lo scopo principale del lavoro è quello
di dar conto del grande cambiamento intervenuto nella politica
economica a seguito
dell’avvento del neoliberalismo e delle sue conseguenze.
Il volume è articolato in tre parti. Nella prima, composta sua volta da tre capitoli, si esaminano criticamente alcune tesi fondanti del paradigma dominante che Vercelli definisce neoliberalismo. Successivamente viene criticata la fiducia che la maggior parte degli economisti ripone negli effetti benefici del libero commercio.
Gira da sempre nella
sinistra,
specie in quella che cerca di restare autentica,
rivoluzionaria, la tendenza che Mao esemplificò con la
definizione della “tigre di
carta”. Quanto fossero di carta capitalismo e imperialismo s’è
visto da allora ad oggi, con il capitalismo che, a parte
l’URSS, s’è addirittura mangiato il paese di Mao, Cuba, il
Vietnam e con il socialismo che, per vederlo ancora sognato e
auspicato,
tocca aggirarsi per El Alto di La Paz, o in qualche quartiere
proletario di Caracas, tipo il “23 De Enero”.
Nell’attualità questa realtà travisata in prodotto del desiderio si manifesta con grande evidenza in Siria e in Venezuela. Una storicamente incrollabile fiducia nella Russia, URSS o Federazione che sia, trascura completamente la realtà sul terreno in Siria e anche davanti alle evidenze di compromessi al ribasso, rispetto alla riconquista della sovranità e integrità territoriale da parte di Damasco, formula ardite e volontaristiche teorie che lascino intendere scaltre manovre di Putin di aggiramento del nemico. Si torna a sentire l’antico mantra: tempo al tempo. Intanto Netaniahu bombarda impunemente siti strategici e trasporti cruciali, senza che entrino in funzione i celebrati S300 o S400 russi o siriani, vaste zone di confine e nel cuore del paese sono affidate (pro tempore, ad perpetuum?) a coloro che hanno eseguito il mandato di sgozzare o espellere il maggior numero di siriani e di frantumarne l’unità,
Nelle ultime settimane siamo stati subissati da buone notizie sull’andamento del’economia italiana. Il Pil cresce sopra le aspettative. L’Istat ci dice che il numero degli occupati è tornato a superare la quota di 23 milioni di persone, cioè al livello precrisi (2008) e che la disoccupazione scende (- 154.000 nell’ultimo anno). Nel luglio 2017 la produzione industriale è aumentata del 4,4% su base annua (ma solo del + 0,1% su base mensile). Il primo ministro Gentiloni twitta che un risultato del genere era impensabile soltanto due anni fa (dimenticandosi di ricordare che nel giugno 2017 la produzione industriale era aumentata su base annua del 5,3%: il che significa che, nell’ultimo mese, abbiamo avuto una riduzione della crescita). E aggiunge, sempre su Twitter: “Disoccupazione ai minimi dal 2012. Buoni risultati da jobs act e ripresa”. Calici di spumante (lo champagne sarebbe eccessivo) brindano al risultato. La stampa di regime si unisce a celebrare l’uscita dalla crisi. Tutto vero?
Apparentemente sì. Il Pil ha visto una crescita annua tendenziale dell’1,5% nel II trimestre 2017, contro le previsioni del governo di crescita dell’1,2%. Tale risultato potrebbe consentire al governo italiano di avere maggiori gradi di flessibilità nella formulazione della legge di stabilità per il prossimo anno. Tale risultato è soprattutto dovuto ad un aumento dell’export verso i paesi arabi e in particolar modo verso l’Egitto (+ 13%), grazie al coinvolgimento della politica italiana negli affari del petrolio (vedi l’investimento Eni di 7 miliardi in tre anni giacimento di gas di Zohr a dispetto del caso Regeni.
Luigi Di Maio sarà il candidato premier del M5S. Era scontato ma ora è ufficiale.
La sua candidatura è la conferma della svolta moderata del M5S. Sia chiaro, non che sia mai stato un movimento rivoluzionario. Del resto abbiamo prodotto molte analisi sul M5S. Ne riportiamo alcune, per chi volesse approfondire:
http://www.linterferenza.info/editoriali/luigi-maio-pensiero/
http://www.linterferenza.info/attpol/qualche-breve-considerazione-sul-m5s/
Tuttavia non si deve pensare che la nostra posizione sia stata aprioristica o condizionata da pregiudizi ideologici. Al contrario, abbiamo seguito fin dalle origini la nascita e la crescita del movimento, lo abbiamo osservato e studiato con attenzione nel tempo e in taluni casi, pur non condividendo il suo orizzonte ideale, lo abbiamo anche individuato come un grimaldello, sia pure da un punto di vista squisitamente tattico, per scardinare l’attuale assetto politico (che al momento vede ancora il PD come baricentro), per “muovere la classifica”, come si suol dire in gergo calcistico.
Ora che la vicenda Consip entra nel vivo, il Pdrb, ossia il Pd di Renzi & Babbo, scopre che i carabinieri stanno preparando un golpe contro la sua augusta personcina e la sua banda di orrendi maneggioni, ma assieme a lui lo scoprono proprio quei giornaloni usi a obbedir parlando i quali si fanno beffe di qualsivoglia golpe invocato da politici di bassa Lega, privi di intelligenza e fantasia, per giustificare inchieste e ruberie. In questo caso invece alzano la voce contro il pericolo che la democrazia e la libertà, del resto ridotte al lumicino, siano messe in forse dall’ inchiesta su un modesto intrallazzatore di provincia la cui colpa maggiore è l’aver generato tanto inutile Matteo che vola nei cieli della politica alla stessa altezza degli asini: se questi fogli non fossero già abituati al ridicolo cui li costringe la “linea editoriale”, se non fossero ormai mitridatizzati, si scompiscerebbero invece di fingere dubbio e inquietudine.
Del resto lo spettacolo di figlio Renzi, Orfini, Zanda, Pinotti, Franceschini, Boschi che temono il colpo di stato giudiziario da parte dei carabinieri e di Woodcock nel momento in cui vengono messi sotto la lente d’ingrandimento le vicende del primo Babbo d’Italia, del maggiordomo di merende Carlo Russo e il ruolo del Giglio Magico alla Consip, è qualcosa per cui bisognerebbe pagare un biglietto.
Questa intervista, rilasciata prima delle recenti elezioni presidenziali francesi, è stata pubblicata sul numero 3 della rivista Ballast, che ringraziamo per avere concesso l’autorizzazione a tradurre.
Con la consueta radicalità, Il filosofo francese affronta qui i temi del popolo e della democrazia già discussi in libri come La Haine de la démocratie o il più recente En quel temps vivons-nous. Rancière sostiene qui che “il popolo non è la massa della popolazione”, ma “una costruzione”. Il popolo “non esiste, è costruito da discorsi e atti. Occupy, le Primavere arabe, gli Indignati, piazza Syntagma a Atene, i movimenti dei sans-papiers – continua l’autore de La Mésentente -, tutto ciò fabbrica un certo popolo di anonimi. E questo popolo è quello della democrazia: un popolo che manifesta il potere di non importa chi”. (Traduzione di Alessandro Simoncini).
La
nozione
di democrazia è onnipresente nel suo lavoro. Blanqui
pensava tuttavia che democrazia fosse una parola “di
gomma”, estremamente vaga
e recuperabile. Perché lei tiene tanto a questo termine?
Perché esista politica, bisogna che ci sia un soggetto specifico della politica. Questa è la mia idea fondamentale. Non bastano persone che governano e altre che obbediscono. È la grande separazione iniziale tra l’arte dell’allevamento e la politica: quest’ultima presuppone che la stessa persona che governa sia governata. È questo che mi è sembrato importante per definire il rapporto tra democrazia e politica. Perché ci sia politica bisogna che ci sia qualcosa che si chiama popolo: il popolo deve essere l’oggetto su cui verte l’attività politica e, al contempo, il soggetto di questa stessa attività. In tutti i modelli ordinari dell’“arte di governare” si presuppone una certa asimmetria: c’è una massa da gestire e coloro i quali hanno la capacità di gestirla – la legittimazione del potere funziona così. All’origine, “Democrazia” non è il nome di un regime politico ma un insulto: è il governo delle nullità, della canaglia.
Il recente volume “Pensare
altrimenti” di Diego Fusaro va letto, discusso
collettivamente, soprattutto con i giovani, interpretato e
commentato. Perché, in questo
contesto storico e sociale turbolento e gravido di serie
minacce che possono ulteriormente far regredire verso forme
tecnocratiche neo-autoritarie
l’ordine capitalistico mondiale, esprimere questa necessità?
Prioritariamente, perché è un libro chiaro
nell’esposizione; è un testo didascalico.
Non è da trascurare lo stile con il quale l’autore argomenta
«l’annullamento del dissenso, con annessa uniformazione
integrale del sentire e del pensare» (op. cit. pag. 29),
mentre «sotto
il cielo domina graniticamente il pensiero unico del consenso
di massa [ … ]» il quale «predica in maniera compulsiva
l’intrasformabilità del mondo [ … ]» (op. cit. pag. 46); la
foggia della scrittura è tale da rendere comprensibile a
tutti il ragionamento, anche a chi è in fase
evolutiva e necessita d’apprendere (in questo caso, il target
ideale della
comunicazione culturale veicolata da “Pensare
altrimenti” è costituito dagli studenti delle
scuole secondarie di
secondo grado ed universitari – guidati filologicamente nella
lettura – che necessitano di imparare a guardare in modo
critico e fondato
alla condizione umana ed al mondo attuale) ed incrementare
l’abilità che consente d’analizzare in modo oggettivo le
informazioni
disponibili, valutare e interpretare dati e esperienze al fine
di giungere a conclusioni chiare e solide.
Dunkirk di Christopher Nolan è film molto discusso. Sul nostro sito ne ha già parlato Nunzio La Fauci qualche giorno fa. Questo articolo di Mario Pezzella prosegue la discussione
Salvate il soldato Ryan (film di Spielberg del 1998) –sovrastando nel favore del pubblico il tentativo eccentrico de La sottile linea rossa, il film coevo di T. Malick- ha fissato con successo i codici aggiornati del film-spettacolo di guerra, la sua nuova retorica: la regola del genere che si è ora tenuti a osservare è l’inversione del negativo, l’assorbimento graduale della critica della guerra all’interno della sublimità celebrativa. Ormai nessun autore di un certo livello si sentirebbe di proporre un’apologia immediata dell’eroe, dell’onore, del coraggio, della maturazione soggettiva che avviene nell’esperienza bellica: per buona parte del film di Spielberg si vede piuttosto la sua crudeltà e mancanza di senso, che si riverbera sullo stile. Il montaggio organico narrativo salta per aria, diviene sincopato e spezzato, i punti di vista si alternano rapidamente e caoticamente per sottolineare l’impossibilità di una visione d’insieme di quanto sta accadendo sul campo, i corpi sono lacerati e smembrati.
La guerra moderna non richiede tanto iniziativa o spirito eroico, quanto l’adesione più fedele alla macchina astratta della tecnica: non la maturazione di una coscienza eroica distinta, quanto la maggiore assimilazione possibile alla funzionalità indisturbata del suo processo automatico.
Sempre più concreto il pericolo di una invasione statunitense
Il 15 settembre 2017 Venezuela ha cominciato a segnalare il prezzo di vendita del proprio petrolio in Yuan cinese, la cui sigla internazionale è CNY. Il Ministero dell’Energia e Petrolio del Venezuela nella sua pagina web ha riportato il prezzo medio di vendita settimanale del proprio petrolio in 306,26 Yuan, in aumento rispetto alla settimana scorsa quando era stato in media 300,91 Yuan.
Prezzi del petrolio nella pagina web del Ministero dell’Energia e Petrolio del Venezuela
Per la prima volta nella sua storia il prezzo del petrolio venezuelano non è più indicato in dollari. Nella stessa pagina web, però si riporta anche il cambio Dollaro/Yuan. Per un dollaro la settimana scorsa (all’8 settembre) occorrevano 6,52 yuan, alla data odierna per un dollaro occorrono 6,55 yuan.
«Rivolta e Malinconia» di Michael Löwy e Robert Sayre per Neri Pozza. La modernità vista come dissoluzione dei legami sociali e dominio dell’astrazione razionalista. Le comunità omogenee con le loro gerarchie sono le stelle polari della critica romantica del capitalismo
Gli studi volti a definire il romanticismo, a elencare i requisiti che ricadono sotto questa definizione, a delimitarne l’arco temporale e la sfera di azione, a metterne in luce le contraddizioni e le metamorfosi sono innumerevoli e vari. Anche i moventi che li sottendono sono molteplici: dall’affezione estetica all’interesse storico, dal purismo accademico al furore ideologico, dall’interpretazione filosofica all’afflato mistico. Di certo sotto il cappello della cultura romantica incontreremo nostalgia del passato e proiezione verso il futuro, comunitarismo e individualismo estremo, sete di libertà ed esaltazione della tradizione, passione e rassegnazione, utopie egualitarie e concezioni gerarchiche, reazione e rivoluzione.
Singoli autori e perfino singole opere attraversano ripetutamente queste linee di confine che qualsiasi principio d’ordine e di coerenza tenderebbe a ritenere invalicabili. C’è chi sulle tracce del romanticismo si spinge fino a Orazio e Virgilio, chi si arresta alle soglie del XVIII secolo, chi lo insegue fino ai giorni nostri e chi ne constata il definitivo naufragio nell’orrore nazifascista cui i romantici avrebbero aperto la strada.
Il
dibattito cui non avete potuto assistere a Maratea, per il
quale ringrazio ancora la MADEurope Summer
School e in particolare Riccardo Realfonzo, ha toccato
in relativamente poco tempo (nonostante fosse quasi il doppio
di quello inizialmente
previsto: ma il pubblico non si è annoiato) una serie di temi
cruciali. Io ho poca memoria, ma due osservazioni di Roberto
Pizzuti mi sono
rimaste particolarmente vivide in testa, se non altro perché
le aveva già fatte in occasione della presentazione del mio
primo libro a Roma.
La prima non merita una discussione molto ampia (anche se ovviamente sono disposto a confrontarmi con Roberto su questo laddove lui lo desideri): è l'idea che siccome "fuori" ci sono i mercatoni cattivi (per definizione), abbiamo bisogno di uno Statone buono che ci protegga, che li contenga, e questo Statone sarebbe l'Europa (in attesa di essere, si presume, il Mondo). In questo blog abbiamo dato spazio alle riflessioni di scienziati politici e ai dati di fatto. Il dato di fatto è che concentrare a Bruxelles poteri politici facilita i compiti delle lobby, e che nulla ci garantisce che lo "Statone" che creiamo operi nel nostro interesse, piuttosto che nell'interesse delle diverse decine di burocrati tedeschi che lo infestano.
Introduzione
Nel corso dei quattro incontri
dedicati alla
presentazione del secondo numero de «Il Lato Cattivo», abbiamo
tentato di delineare a larghi tratti i contenuti della
rivista,
nonché l'orientamento generale da cui questi discendono, nel
modo il più possibile sintetico e adeguato all'esposizione
orale. La forma
stessa dell'incontro pubblico ha imposto un lavoro di
scrematura sui materiali di partenza; ne è risultato un digest
sicuramente
schematico e alquanto impoverito: per dire tutto ciò che
avremmo voluto, sarebbe occorso un giorno intero; e per dirlo
nella maniera più
soddisfacente, avremmo dovuto ricorrere ancora una volta alla
parola scritta, che avrà pur tanti difetti, ma permette un
margine di riflessione
e una ricerca della giusta formulazione, che la parola parlata
non concede. L'esercizio si è rivelato comunque stimolante.
Sicuramente lo
è stato per chi ha preparato ed esposto, e – si spera – anche
per chi ha avuto la pazienza di ascoltare. Ad ogni modo, la
traccia
iniziale è stata ulteriormente rielaborata tenendo conto, da
un lato, delle evoluzioni più recenti avvenute a vari livelli
e,
dall'altro, degli interventi fatti da alcuni compagni nel
corso degli incontri – domande e osservazioni per le quali ci
è parso di dover
apportare ulteriori chiarimenti e precisazioni, o
semplicemente ribadire per iscritto le risposte già date in
sede di presentazione. Ciò
che segue è quindi un piccolo condensato degli incontri di
novembre 2016 (Torino e Milano) e marzo 2017 (Roma e Viterbo),
di ciò che vi
è stato detto e delle reazioni suscitate. In definitiva, ci
auguriamo che risulti fruibile tanto per chi c'era, quanto per
chi non c'era.
L’Italia è un paese disperato dove “le istituzioni” credibili si riducono a ben poco. Di questo poco, fin qui, e in modo ampiamente immeritato, “la benemerita” ha rappresentato la parte più ampia, strombazzata, incensata, protetta.
In poche settimane i carabinieri sono diventati “come tutti gli altri”. Non solo nella percezione popolare – che da sempre li conosce come nemici e guardiani degli interessi dei potenti – ma persino in quella della “classe dirigente”, del sistema mediatico-padronale, di ministri ed ex premier.
Fin qui quasi tutte le malefatte dei membri dell’Arma – di qualunque grado e funzione – erano state coperte e silenziate, con un gesto di fastidio e l’evocazione implicita o esplicita dell’antico mantra sulle “poche mele marce che non devono offuscare il grande lavoro di centomila uomini in divisa”.
L’immagine mediatica della benemerita aveva superato senza troppi scossoni prove che avrebbero dovuto o potuto essere letali. Citiamo a memoria solo alcuni casi clamorosi:
a) il colonnello Michele Riccio – uomo di punta del generale Dalla Chiesa, capo del commando autore dell’eccidio di via Fracchia, a Genova – che aveva trasformato la caserma sotto il suo comando in una raffineria di droga, da cui coordinava sia “indagini” che la gestione del mercato;
Chi porta il mondo sull'orlo della catastrofe? Donald Trump
Repubblica Popolare Cinese, Corea del Nord, Corea del Sud, Stati Uniti d'America.
Quale paese ha invaso altri paesi? Quale paese ha bombardato nuclearmente altri paesi?
La guerra guerreggiata
Come nota giustamente Deirdre Griswold del Workers World Party statunitense – nell'articolo che pubblichiamo in questo stesso numero – l'idea che i nord-coreani siano semplicemente pazzi, è risibile. Aldilà di ogni possibile retorica roboante, a Pyongyang sono ormai convinti che sia meglio avere le armi di distruzione di massa e affrontare l'isolamento internazionale piuttosto che essere accusati di avere le armi di distruzione di massa ed essere rasi al suolo come l'Iraq.
La questione nucleare in Corea non avviene nel vuoto assoluto. Gli Stati Uniti hanno sempre rifiutato di porre formalmente fine alla Guerra di Corea, hanno sempre rifiutato un trattato di pace. Secondo fonti apparse sui giornali sudcoreani – che di solito diffondono ogni forma di propaganda anti-nord – questo rifiuto sarebbe stato ripetuto nelle ultime settimane.
Il sistema economico-finanziario riparte da dove si era inceppato. L’inondazione monetaria ha stabilizzato la finanza mentre i debiti sovrani, pur continuando a costituire un’entità di primaria grandezza, appaiono sotto controllo e con un costo decisamente diminuito.
L’enorme liquidità in circolazione è alla ricerca di nuovi ed elevati rendimenti, tenuto conto che dall’Ocse arriva il dato che il 40% delle obbligazioni (cioè titoli emessi da società o istituzioni pubbliche) sono con rendimenti negativi.
Ecco dunque che uno dei motori della ripartenza torna a essere il debito, o meglio, l’indebitamento privato.
Un recente rapporto a cura del servizio studi di Bnl, dal significativo titolo «Un sorvegliato speciale: il debito del settore privato», afferma come il rapporto tra debito privato (cioè quello detenuto da cittadini e imprese) e Pil sia uno degli indicatori da tenere sotto controllo in quanto fornisce la misura della capacità di rimborsare il debito nel medio e lungo termine. Tale indicatore nell’eurozona era passato dal 110 al 147% tra il 1999 e il 2009. Nel 2016 si era comunque attestato al 140%.
Il debito privato nell’area euro è il risultato di situazioni molto diversificate, andando dal 56% della Lituania fino al 350% di Cipro.
In paesi come Belgio, Francia, Slovacchia e Finlandia tale rapporto è in costante aumento.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Introduzione
Ciò che Mao-Tse-Tung affermò con un certo gusto del paradosso a proposito della Rivoluzione francese può valere, e a maggior ragione, per le vicende del ’68: a quasi mezzo secolo da quel periodo la distanza storica non è ancora sufficiente per formulare un giudizio definitivo. Malgrado tutto però è innegabile che la grande contestazione sociale degli anni Sessanta – un fenomeno pressoché inaspettato, che non lasciò indenne nessun paese industrializzato dell’Occidente (USA, Messico, Giappone, Francia, Germania Occidentale, Italia, Inghilterra, etc. perfino la Spagna franchista) nonostante la diversità dei contesti politici e sociali, il cui riflesso nel blocco socialista fu l’impulso per la liberalizzazione politica in Cecoslovacchia e, più in generale, una nuova stagione della dissidenza intellettuale – rappresentò una cesura epocale. Ma quale ne fu il significato? E, in particolare, che rapporto c’è tra la dimensione soggettiva e la funzione oggettiva di quel movimento? Astraendo dall’interpretazione manichea di chi vede nelle vicende del 1968 il vaso di Pandora che ha scatenato tutti i mali della post-modernità, l’assassinio della civiltà e del decoro borghese e di chi invece, all’opposto, liquida la contestazione di quegli anni come l’ennesima occasione rivoluzionaria mancata, da addebitare a una «coscienza di classe» deficitaria o all’«opportunismo» dei suoi dirigenti, possiamo distinguere essenzialmente due posizioni divergenti:
Il partito
della
Cancelliera vince ma viene ridimensionato (33%), i
Socialdemocratici crollano (20,5%), mentre la destra xenofoba
diventa il terzo partito (12,6%):
è questo l’esito delle elezioni tedesche, che probabilmente
porteranno al governo una coalizione di Cristianodemocratici,
Liberali
(10,7%) e Verdi (8,9%). Per i primi commentatori si tratta di
un risultato inatteso, addirittura di una cesura storica,
preludio di un periodo di
incertezze e instabilità. Con il rischio concreto di scenari
inediti e potenzialmente drammatici per la Germania e
l’Europa, che perde la
sua ancora di salvezza, così come per la il Socialismo
europeo, a questo punto avviato verso l’estinzione.
Così i principali commenti. Ma a bene vedere quanto è successo era ampiamente prevedibile, e non porterà nessuna particolare novità negli scenari politici né a Berlino, né a Bruxelles.
Non è un risultato imprevedibile
Erano innanzi tutto prevedibili i risultati elettorali delle forze politiche in campo, a partire da quelli di Alternativa per la Germania (AfD): la formazione nata nel 2013 su posizioni euroscettiche, poi cresciuta durante la crisi dei migranti sulla scia di parole d’ordine xenofobe.
Per la prima volta in 72 anni, martedì un capo di stato intervenuto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha minacciato apertamente di distruggere un intero paese e i suoi abitanti. Il primo discorso del presidente americano Trump al Palazzo di Vetro è stato infatti segnato da un delirio di militarismo e aggressività, diretto contro i soliti presunti nemici degli Stati Uniti, a cominciare dal regime nordcoreano di Kim Jong-un.
Nel passaggio più agghiacciante del suo intervento, Trump ha affermato che gli USA, “se costretti a difendere se stessi e i propri alleati”, non avranno altra scelta che “distruggere completamente” la Corea del Nord” e, inevitabilmente, i suoi 25 milioni di abitanti.
La ragione delle minacce sarebbe dovuta al fatto che “nessuna nazione sulla terra ha interesse a vedere questa banda di criminali dotarsi di armi e missili nucleari”. Trump ha poi ripreso la definizione di “Rocket Man” – “uomo dei missili” – per definire Kim, come già aveva fatto qualche giorno fa in un tweet, definendo le sue “provocazioni” come una “missione suicida”.
I toni pesantissimi del presidente americano nei confronti della Corea del Nord erano ampiamente previsti, ma la minaccia diretta di spazzare via un interno paese ha alzato decisamente il livello di criminalità del governo e dell’apparato militare degli Stati Uniti.
Se prestiamo fiducia ai manifesti elettorali attaccati dai silenziosi iscritti dei partiti su ogni superficie libera da Greifswald sino giù a Berchtesgaden, la prossima settimana si dovrebbero tenere nella Repubblica Federale le elezioni per il nuovo Parlamento di Berlino. Una data di cui ci si ricorderà con qualche tecnica mnemonica, dato che nulla lascia presagire che ci attendano elezioni significative o che gettino la politica tedesca, la cancelleria o le prossime coalizioni di governo in acque più agitate. Persino il termine "campagna elettorale" suona come una citazione d'altri tempi. E la parola "decisione" come un ghirigoro su una vecchia carta da parati.
Certo, la televisione, affiancata dagli altri media, fa quel che può per alimentare una certa tensione, e i soliti sospetti si danno il cambio davanti alle telecamere declamando i loro copioni. Ma nel pubblico non c'è nessuno che abbia il sentimento che alle elezioni del 24 settembre vi siano in gioco differenze essenziali. Tutti i segnali danno invece via libera alla continuità. A parte alcuni radicalismi verbali della sinistra estrema o dei Verdi, i portavoce dei partiti fanno a gara per strapparsi di bocca gli argomenti più razionali. E mentre in Francia la politica si ringiovanisce in modo drammatico, negli Stati Uniti ci si concede una stagione nel Caos, in Italia - come al solito - ci si dà all'improvvisazione, in Polonia e Ungheria ci si avventura più a fondo nel tunnel dell'isolamento nazionale, la Germania resta quel che è stata nei decenni scorsi: una Potenza tranquilla.
Da mesi a Roma siamo dentro una trasformazione del rapporto tra fascismo e antifascismo. Un mutamento che costringe alla riflessione perché cambia non solo gli attori in campo, ma anche le modalità politiche con cui si combatte il fascismo in città. L’autunno sarà sempre più attraversato da scontri come quelli avvenuti la scorsa settimana al Tiburtino III o in estate a Tor Bella Monaca, motivo in più per attrezzarci rapidamente alla mutazione genetica in corso. Ma cosa sta cambiando in concreto? E’ la periferia metropolitana il nuovo contesto che costringe al salto di paradigma. Per alcuni le periferie si starebbero drammaticamente “spostando a destra”. Per altri sono definitivamente serbatoio di elettori e militanti neofascisti. Il nostro lavoro quotidiano nelle periferie ci racconta altro: è la politica che è stata espunta completamente dalla periferia, sia essa di destra o di sinistra. Lontani dalle rappresentazioni mediatiche, le difficoltà che incontriamo noi, come sinistra, a rientrare nei quartieri (veramente) popolari, le incontra anche la destra neofascista. Le vicende di Tor Bella Monaca e di Tiburtino III confermano questa lettura: nonostante gli strepiti, alla prova dei fatti i fascisti erano soli e nei fatti isolati dai compagni e dal resto del quartiere. La periferia è un territorio completamente de-politicizzato, che rifiuta qualsiasi forma di aggregazione politica distante dai comportamenti della periferia stessa.
“Sarebbe una
consolazione per la
nostra debolezza
e per i nostri beni se tutto andasse in rovina con
la stessa lentezza
con cui si produce e, invece, l’incremento
è graduale, la rovina precipitosa.”
Lucio Anneo Seneca, Lettera a Lucilio, n. 91
Qualche anno fa, Ugo Bardi, docente di chimica all’Università di Firenze, assieme ad alcuni collaboratori, lanciò una di quelle idee geniali che gettano luce su una vasta quantità di fenomeni.
Ugo è uno scienziato di quelli seri, che però ha una vasta conoscenza del mondo classico e dei testi latini e greci, non ha i paralizzanti pregiudizi politici che rendono banali le menti migliori, è decisamente toscano (è nato in Oltrarno) ma anche un poliglotta che scrive in perfetto inglese, peraltro con un sano senso dell’umorismo, e possiede una notevole capacità di divulgazione.
L’Effetto, Curva o Dirupo di Seneca è un concetto semplice:
Non vi capita mai, di tanto in tanto, di trovare qualcosa che sembra avere molto senso ma non sapete dire esattamente perché? Per lungo tempo ho avuto in mente l’idea che quando le cose cominciano ad andar male, vanno male alla svelta. Potremmo chiamare questa tendenza “Effetto Seneca” o il “dirupo di Seneca”, dallo scritto di Lucio Anneo Seneca che scrisse che “l’incremento è graduale, la rovina precipitosa”.
L’applicazione primaria è al rapporto tra risorse, economia e inquinamento, ma il meccanismo va molto oltre.
Sul
fascismo e sulla polemica sui recenti provvedimenti di legge
credo sia necessaria qualche precisazione. Ogni provvedimento
formale di legge che vada
contro simboli e organizzazioni fasciste, più o meno
espliciti, va accolto con favore e anzi caldeggiato. È in atto
una rinascita di
questo tipo di organizzazioni, che rappresentano, comunque e
sempre, un grave pericolo. Queste organizzazioni, anche se
hanno, almeno per il momento,
prospettive limitate, possono prosperare nel clima di crisi e
di peggioramento delle condizioni sociali che si sta
affermando. Di fatto, esse non
rappresentano agli occhi di chi ha il potere vero, quello
economico, una opzione credibile di gestione complessiva del
sistema, ma sono sempre un
pedone della scacchiera che si può usare, e si usa già oggi
strumentalmente, per distrarre l’attenzione delle masse verso
pericoli
fittizi, creare confusione e accentuare le contraddizioni
presenti all’interno delle classi subalterne. Premesso questo,
il termine fascismo
è usato da tempo estensivamente, per definire varie forme di
autoritarismo e/o violenza politica. Se questo è più o meno
comprensibile sul piano della polemica politica, tuttavia non
mi sembra molto utile ai fini della comprensione della realtà,
delle sue
specificità attuali e quindi della capacità di sviluppare una
lotta efficace sulla distanza.
Il saggio di Guido Liguori che pubblichiamo è tratto dall’ultimo numero della rivista Critica Marxista. Chi desideri acquistare la rivista o abbonarsi, può chiedere informazioni alle Edizioni Ediesse (06.44870283, edi...@cgil.it)
La
peculiare formazione di Gramsci gli fece scorgere nelle due
rivoluzioni russe del 1917 l’inveramento delle sue
concezioni
soggettivistiche.
La successiva comprensione della differenza tra “Oriente” e “Occidente” lo portò a una rivoluzione del concetto di rivoluzione, senza fargli rinnegare l’importanza storica dell’Ottobre né la solidarietà di fondo con il primo Stato socialista della storia.
A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e a ottant’anni dalla morte di Gramsci non è inutile tornare sulla lettura che nel 1917 l’allora ventiseienne socialista sardo diede dei fatti di Russia e anche su cosa poi rimase di tale interpretazione nel suo bagaglio teorico-politico più maturo. La rivoluzione guidata da Lenin, infatti, costituì per il giovane sardo trapiantato a Torino un punto di svolta politico, teorico ed esistenziale a partire dal quale iniziò la maturazione del suo pensiero e la sua vicenda di comunista. Per comprendere come Gramsci si rapportò alla Rivoluzione d’Ottobre occorre dunque partire in primo luogo dalla consapevolezza che Gramsci fu sempre, dagli anni torinesi alle opere del carcere, non solo un teorico della rivoluzione, ma un rivoluzionario.
È quanto ebbe a sottolineare Palmiro Togliatti, nell’ambito del primo dei convegni decennali dedicati al pensiero di Gramsci, che ebbe luogo a Roma nel gennaio 1958, affermando: «G. fu un teorico della politica, ma soprattutto fu un politico pratico, cioè un combattente [...]. Nella politica è da ricercarsi la unità della vita di A.G.: il punto di partenza e il punto di arrivo»1.
Per raccontare la politica nazionale attuale ci vorrebbe un comico. E in effetti le tre correnti principali in lizza sono rappresentate da protagonisti dell’avanspettacolo: un comico vero in pensione (Beppe Grillo), un impresario in disarmo (Berlusconi) e un guitto precocemente esaurito alla testa del Pd. Si potrebbe obiettare che a rappresentare i Cinque stelle non sarà Grillo ma Luigi Di Maio, attor giovane tagliato per la parte dello studente modello. Ma per l’appunto stiamo parlando di uno studente che non riesce a laurearsi, non lascia segno sul lavoro, ma viene egualmente elevato al cielo. In fondo non è il solo. Le brillanti carriere di Giuliano Poletti, Beatrice Lorenzin, Valeria Fedeli, ecc, stanno lì a dimostrare che una laurea può essere solo d’impiccio per la carriera politica d’oggi…
Se uno volesse prendere sul serio quel che i giornali riportano in queste ore dovremmo pensare a una lotta all’ultimo sangue per arrivare a vincere le elezioni e formare un governo “con un programma chiaro”. Addirittura sarebbe obbligato a intravedere l’intervento di altri poteri dello Stato per impedire che “i rivoluzionari” si avvicinino alle stanze del potere. Esempio: “Tribunale sospende le primarie dei 5 Stelle: in bilico la candidatura di Cancelleri in Sicilia”.
Fermo restando il mio – più volte ribadito (anche su questo blog) – favore scontato per la profilassi delle malattie, ho sempre pensato e continuo a pensare che la legge fatta dal governo sui vaccini sia brutta, sbagliata, incivile e per certi versi assurda. Ma perché? A parte le ragioni di merito su cui abbiamo discusso tanto, quali sono le motivazioni vere che spiegano questa apparente assurdità?
Continuo a credere, considerando tutto, che al governo non interessava fare una buona legge per gli italiani ma solo ottemperare a degli accordi internazionali in ragione dei quali l’Italia è diventata paese capofila per la vaccinazione del mondo. Mi riferisco all’accordo di Washington del 29 settembre 2014 raggiunto tra il nostro paese, l’industria farmaceutica e il Global health security agenda.
Nessuno si è mai chiesto ma perché proprio l’Italia? E la risposta più plausibile non è perché abbiamo degli igienisti e degli epidemiologi famosi nel mondo, o perché l’Istituto superiore di sanità è davvero superiore, o perché noi siamo più bravi degli altri, ma è ragionevolmente geopolitica: noi siamo al centro del Mediterraneo e quindi siamo la porta di ingresso per l’Europa degli immigrati.
Per comprendere certe forzature quindi dovremmo vedere la nostra legge come qualcosa di straordinario cioè quasi come una misura eccezionale che va ben oltre il calo della copertura vaccinale e ben oltre l’ambito strettamente nazionale. Vediamo le forzature, quelle più importanti.
Bernie Sanders è tornato. E scende nuovamente in campo su un tema a lui particolarmente caro: quello della sanità. Dopo la sconfitta del Partito Democratico alle ultime elezioni, il vecchio senatore ha continuato a battersi tra le sue file, cercando di portare l’asinello verso una prospettiva politica maggiormente sinistrorsa e lontana dal fallimentare centrismo clintoniano.
A capo di una fazione agguerrita, ha tentato all’inizio del 2017 di scalare il Partito, appoggiando la candidatura a presidente di Keith Ellison: ma non c’è riuscito. Mentre, nei mesi successivi, i democratici hanno continuato a dividersi tra radicali e moderati, non riuscendo a trovare una linea coesiva che andasse al di là del mero ostruzionismo anti-Trump. D’altronde, il nuovo presidente dell’asinello, Tom Perez, non sembra ancora oggi troppo in grado di elaborare una sintesi: molto vicino all’establishment, guarda con una certa diffidenza la corrente sandersiana, di cui teme un’impostazione troppo settaria e fondamentalmente inadatta verso l’arte governativa. Un dato che ha gettato il Partito Democratico in uno stallo pericolosissimo: uno stallo che ha lasciato l’iniziativa politica quasi completamente nelle mani dei rivali repubblicani. Uno stallo tanto più grave se si considerano le divisioni fratricide attualmente in seno al Grand Old Party.
Intervista al prof. Matteo Vegetti sul suo saggio 'L’invenzione del globo. Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria' (2017)
1) Prof.
Vegetti, nel Suo
recente volume “L’invenzione del globo.
Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria”
(Einaudi,
2017) ha scelto di trattare il tema della globalizzazione
utilizzando una prospettiva molto interessante. Il passaggio
dalla dialettica Terra-Mare
(studiata in modo accurato da Carl Schmitt) alla dinamica
tripartita Terra-Mare-Aria segna, dal punto di vista
geostorico e antropologico, una vera e
propria rivoluzione spaziale. In che senso il terzo
elemento, quello dell’aria, è diventato decisivo per
comprendere
l’ipermodernità e i suoi nodi critici?
Vi sono vari modi per rispondere a questa domanda, e in fondo l'intero volume è l'esplorazione di questi modi. In ogni caso, cominciando proprio da Schmitt, l'aria presenta alcune caratteristiche tipiche della spazialità globale: è un spazio liscio e illimitato, che estremizza alcune caratteristiche del mare (velocità, connettività, isotropia, anomia, utopia) e che porta con sé specifiche potenzialità trasgressive dei limiti del moderno Nomos della terra. Alcune di queste caratteristiche hanno effettivamente forgiato lo spazio ipermoderno delle telecomunicazioni e dell'aeronautica, generando una nuova condizione storica nei campi dell'economia, dell'informazione, della politica.
La tragedia umanitaria che si
sta consumando sotto i nostri occhi, acuita dall‘inarrestabilità
dei processi
migratori, è resa tanto più drammatica quanto più
viene utilizzata a fini politici e sociali, in Italia e in
Europa. La questione della fuga di milioni di uomini, donne,
bambini dai loro paesi d’origine e l’approdo di molte migliaia
di essi
sul territorio europeo viene presentata come la conseguenza
del sottosviluppo, legato ad economie non industrializzate,
rurali, primitive, imputabili
ad arretratezza, o a regimi dittatoriali, a guerre intestine e
fratricide. Insomma imputabili a storie e responsabilità loro.
Viene messa in scena una sorta di concezione della storia, fondata su una dialettica contrappositiva tra civili/civilizzati/sviluppati/benestanti/capaci/meritevoli e incivili/sottosviluppati/incapaci/poveri/immeritevoli: l’assalto di questi ultimi alla nostra ricchezza, prosperità, sicurezza, civiltà si configurerebbe come una minaccia gravida di insidie e pericoli, causa della disoccupazione, della precarizzazione delle vite, della crisi economica, dell’imbarbarimento sociale.
Lo scorso 4 settembre Severino Salvemini (su L’Economia del Corsera) ci introduceva ai caratteri di una nuova classe sociale, definita dalla sociologa americana Elizabeth Currid-Halkett come classe “aspirazionale”. Una classe sociale al tempo stesso elitaria e popolare, distante tanto dagli eccessi materialistici dei nuovi ricchi quanto dall’esibizionismo consumistico della vecchia borghesia: «La nuova élite è unita dall’uso dello stesso linguaggio, da letture di giornali con medesimi osizionamenti (l’abbonamento al “New York Times” o al “New Yorker” è un passaggio quasi obbligato, così come lo è quello a Netflix), dal consumo di cibo organico e naturale, dal prodotto che esprime autenticità e trasparenza, dalle pratiche ambientalistiche, dalle medesime logiche di educazione parentale (viva l’allattamento al seno prolungato e le pappe della nonna), dal supporto alle organizzazioni non governative e di giustizia sociale, e così via». Bontà dell’articolista averla definita “élite”, perché altrimenti avrebbe descritto i tratti antropologici della sinistra, almeno quella che va per la maggiore in Occidente. Siamo in presenza di un doppio involontario paradosso. Mentre Salvemini riporta i caratteri di un ceto correttamente indicato come elitario, poco oltre chiamato addirittura aristocratico, totalmente sovrapposto ai valori (e ai redditi) dell’upper class statunitense, in Europa (ma anche negli Usa) una descrizione di questo tipo disegna antropologicamente il “tipo” della sinistra,
Lunedì 11 settembre alcuni più grandi giornali europei, tra gli altri The Guardian (Regno Unito), Süddeutsche Zeitung (Germania) e Le Monde (Francia), hanno pubblicato l’inchiesta della rete di giornalismo investigativo OCCRP Azerbaijani Laundromat. Il reportage racconta delle 16mila operazioni bancarie realizzate da quattro società registrate nel Regno Unito, ma controllate da offshore anonime, che hanno fatto transitare in Europa circa 2,5 miliardi di euro che secondo i giornalisti sarebbero riconducibili a businessman e al governo dell’Azerbaigian.
Le operazioni bancarie – il database completo è scaricabile qui – sono avvenute tra il 2012 e il 2014. Oltre all’acquisto di beni di lusso – immobili, gioielli, automobili, vestiti di alta moda, al pagamento di tasse universitarie e spese dentistiche – comprendono anche il pagamento di parcelle da centinaia di migliaia di euro a giornalisti e politici europei.
Tra questi, il tedesco Eduard Lintner, ex parlamentare e sottosegretario di Stato della CSU (alleato della CDU di Angela Merkel). Fino al 2010, Lintner è stato vice-presidente del Comitato per i diritti umani e membro del Comitato monitoraggio dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.
«A partire da questa settimana si indica il prezzo medio del petrolio in yuan cinesi»: lo ha annunciato il 15 settembre il Ministero venezuelano del petrolio. Per la prima volta il prezzo di vendita del petrolio venezuelano non è più indicato in dollari.
È la risposta di Caracas alle sanzioni emanate dall’amministrazione Trump il 25 agosto, più dure di quelle attuate nel 2014 dall’amministrazione Obama: esse impediscono al Venezuela di incassare i dollari ricavati dalla vendita di petrolio agli Stati uniti, oltre un milione di barili al giorno, dollari finora utilizzati per importare beni di consumo come prodotti alimentari e medicinali. Le sanzioni impediscono anche la compravendita di titoli emessi dalla Pdvsa, la compagnia petrolifera statale venezuelana.
Washington mira a un duplice obiettivo: accrescere in Venezuela la penuria di beni di prima necessità e quindi il malcontento popolare, su cui fa leva l’opposizione interna (foraggiata e sostenuta dagli Usa) per abbattere il governo Maduro; mandare lo Stato venezuelano in default, ossia in fallimento, impedendogli di pagare le rate del debito estero, ossia far fallire lo Stato con le maggiori riserve petrolifere del mondo, quasi dieci volte quelle statunitensi.
Caracas cerca di sottrarsi alla stretta soffocante delle sanzioni, quotando il prezzo di vendita del petrolio non più in dollari Usa ma in yuan cinesi.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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In un’intervista il
capo
economista della Bank of England[1] ha fatto
pubblica ammenda per le previsioni “errate” rispetto ai
possibili effetti della Brexit,
attribuendo questi errori al
diverso comportamento degli operatori rispetto alle ipotesi
del modello. Cosa accadrà realmente con la Brexit nessuno può
dirlo,
dipenderà dall’esito degli accordi che necessariamente
dovranno essere presi. Se gli accordi dovessero
modificare le
libertà fondamentali, la libera circolazione di persone,
merci e capitali, le conseguenze non possono che essere
negative,
perché non ci sono ragioni economicamente sostenibili a
supporto del contrario. Nel caso della “hard Brexit”
ci
sarà una perdita di benessere per tutti, ma i rischi maggiori
li correrà proprio la Gran Bretagna.
Aspettative e Brexit
In primo luogo la Brexit vera e propria non c’è stata, questa constatazione ovvia non è stata sufficientemente considerata nel dibattito attuale, allora cosa avrebbero stimato gli esperti della Banca d’Inghilterra? Essi hanno considerato i possibili effetti reali che “l’annuncio” della Brexit avrebbe determinato.
L’intolleranza
verso il
dissenso costituisce una delle principali manifestazioni della
crisi della politica di oggi, che ostacola la possibilità di
azione collettiva,
nega lo spazio per la mediazione tra le istituzioni e il
popolo e impedisce poi ai settori sociali di rappresentarsi
come agenti della propria storia
(Balibar, 2016 ). In questo senso, la stessa nozione di
cittadinanza è “sotto attacco e ridotta all’impotenza”, mentre
i
sistemi democratici assumono una forma “pura”, cioè diventano
capaci di affrontare esclusivamente la propria logica e i
meccanismi
della propria riproduzione (ibid : 12). individui e gruppi,
di conseguenza, vengono espulsi dal loro posto nel mondo
(Sassen, 2014).
Mentre riducono le opportunità di forme di azione partecipativa, le democrazie contemporanee espandono allo stesso tempo la sfera della delegazione. Così, il processo elettorale diventa sempre più influenzato da interessi privati espressi attraverso l’iniziativa di donatori e di lobbisti. Sollecitare delle tangenti si dice ora “raccolta fondi” e la corruzione stessa è “il lobbismo”, mentre i lobbisti delle banche determinano o addirittura scrivono la legislazione che dovrebbe andare a regolamentare loro stesse banche”(Graeber, 2013: 114).
Solo la dialettica ci
salverà.
J. Gabel, La falsa coscienza.
1. Darwinismo vs lamarckismo
Trofim Denisoviĉ Lysenko (1898-1976) è stato ed è tuttora un classico bersaglio della polemica anticomunista che, prendendo spunto dall’assunzione imperativa delle sue teorie biologiche da parte del potere sovietico nel periodo che va dal 1948 al 1964, ne ha fatto il prototipo, a caso invertito, del processo intentato dal potere ecclesiastico contro le teorie astronomiche di Galileo. Come è noto, Lysenko, ispirandosi al progetto di una nuova genetica elaborato dall’agronomo Ivan Mičurin (1855-1935) con l’intento di superare le posizioni dei «nipotini» di Mendel, respingeva la genetica classica basata sul principio secondo cui tutte le caratteristiche degli organismi sono il risultato di geni ereditari, sostenendo l’idea secondo cui è invece l’ambiente che conduce allo sviluppo di caratteristiche adattative (come, ad esempio, la cecità nelle talpe che vivono costantemente al buio), caratteristiche le quali possono essere trasmesse alle generazioni successive. Questa teoria dell’evoluzione, originariamente propugnata dal celebre naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck agli inizi del XIX secolo, collimava perfettamente con la concezione filosofica del materialismo dialettico incentrata sulla priorità dell’influenza esercitata dall’ambiente sulla costituzione e sul comportamento dell’individuo.
La disputa tra gli assertori delle conquiste della teoria genetica e i seguaci dell’ipotesi di Lamarck aveva, del resto, in Unione Sovietica origini lontane.
Durante la seconda repubblica spagnola (1931-1939) l’approvazione degli statuti autonomi della Catalogna e del Paese Basco aveva rappresentato il primo passo verso la costruzione di uno Stato di tipo federale, ma la vittoria del franchismo aveva portato alla repressione della cultura catalana e basca.
La Spagna nata dopo la morte di Franco ha scartato qualsiasi ipotesi di messa sotto accusa di coloro che avevano partecipato alla dittatura e alla sua violenza, tanto da promulgare nel 1977 un’amnistia di tutti i crimini del franchismo conosciuta come “patto dell’oblio” nome che rende in maniera impressionante quale ne sia stata la volontà politica. Dopo quasi quarant’anni di oppressione nel corso dei quali migliaia di persone sono state torturate, incarcerate e decine di migliaia di prigionieri politici sono stati uccisi, nessuno ha dovuto rispondere di tanta violenza, dolore e morte.
Le forze più reazionarie operanti sotto il franchismo hanno poi continuato a far parte dell’esercito, della polizia e della magistratura. La transizione dal ’75 all’82 si è tradotta in una rinuncia della speranza di vedere un giorno i responsabili dei loro crimini renderne conto. E’ qui, in questo diniego della realtà storica, l’origine dell’attuale crisi politica della Spagna.
Il giorno dopo che il presidente Trump prospettava alle Nazioni Unite uno scenario di guerra nucleare, minacciando di «distruggere totalmente la Corea del Nord», si è aperta alle Nazioni Unite, il 20 settembre, la firma del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari.
Votato da una maggioranza di 122 stati, esso impegna a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale eliminazione.
Il primo giorno il Trattato è stato firmato da 50 stati, tra cui Venezuela, Cuba, Brasile, Messico, Indonesia, Thailandia, Bangladesh, Filippine, Stato di Palestina, Sudafrica, Nigeria, Congo, Algeria, Austria, Irlanda e Santa Sede (che l’ha ratificato il giorno stesso). Il Trattato entrerà in vigore se verrà ratificato da 50 stati.
Ma il giorno stesso in cui è stato aperto alla firma, la Nato lo ha sonoramente bocciato. Il Consiglio nord-atlantico (formato dai rappresentanti dei 29 stati membri), nella dichiarazione del 20 settembre, sostiene che «un trattato che non impegna nessuno degli stati in possesso di armi nucleari non sarà effettivo, non accrescerà la sicurezza né la pace internazionali, ma rischia di fare l’opposto creando divisioni e divergenze». Chiarisce quindi senza mezzi termini che «non accetteremo nessun argomento contenuto nel trattato».
Il sistema politico tedesco è così efficiente che si sa il vincitore la sera delle elezioni, quelle di quattro anni prima però. Nessuno infatti, a parte inguaribili romantici socialdemocratici o ossessionati dalla comunicazione politica, negli ultimi quattro anni ha mai messo veramente in discussione la certezza della rielezione della Merkel al suo quarto cancellierato.
La prima analisi, la più semplice è: la Germania regge, è economicamente forte, mantiene agli occhi di tutti la sua egemonia nel progetto UE, la disoccupazione è ai minimi storici e lo stato sociale garantisce una vita degna; perché dunque mai l’elettorato tedesco non avrebbe dovuto riconfermare Angela per garantirsi altri quattro (e chissà quanti altri) di sicurezze e crescita?
La verità che esce dai dati, e che sarà oggetto di riflessioni per l’immediato futuro, è però ben più complessa, e suggerisce che qualcosa abbia smosso diverse sicurezze tedesche. Questo il quadro: la CDU-CSU in “leggero” calo, dal 41,5% al 33, un tracollo di quasi 9 punti percentuali che però non riesce a spostarla dal primo posto; l’SPD guidato dall’uomo della “speranza” Martin Schulz, che secondo i sopracitati romantici avrebbe rinvigorito tutta la socialdemocrazia europea, fa il suo peggiore risultato di sempre (20,5%); l’ovviamente preoccupante ascesa dell’Alternative fuer Deutschland (AfD) che è riuscita a riunire tutti i vosti dell’estrema destra, e evidentemente di molti disaffezionati della CDU, e portarle per la prima volta al 12,6%; seguono i Liberali, la Linke e i Verdi.
«Ritengo che la fortuna dei movimenti d’opinione che chiamiamo populismi sia in gran parte dovuta alla diffusione della comunicazione digitale e quindi al prevalere dei soggetti digitali sugli esseri umani reali. Proprio per il fatto di essere attivo soprattutto nella dimensione virtuale questo tipo di attore ha caratteristiche uniformi, modulari, che integrano quelle eterogenee degli esseri sociali reali. Così, indipendentemente dalla professione, dalla posizione sociale, dall’educazione e così via, i soggetti digitali tenderanno a provare le stesse paure, a manifestare le stesse ossessioni, a essere sensibili agli stessi messaggi politici. Le differenze degli attori sociali reali sono integrate nell’uniformità delle loro versioni o estensioni digitali» (A. Dal Lago, Populismo digitale, pp. 73-74).
«La ‘post-truth politics’ appare come un processo di deterioramento degli spazi di discussione della sfera pubblica in cui, soprattutto quelli online, sembrano luogo valido solo per il rafforzamento delle proprie credenze pregresse. [Si tratta di una] degenerazione che va tutto a vantaggio delle forze populiste [che] hanno saputo trasformare il web in un luogo utile per il consolidamento del loro macroframe, che ha bisogno di massicce dosi di sfiducia e di una dinamica fortemente conflittuale per poter crescere e affermarsi» (G. A. Veltri, G. Di Caterino, Fuori dalla bolla, p. 11).
Pochi giorni fa era stato lo stesso primo
ministro spagnolo ad annunciare l’incrudimento della
repressione con una frase alla quale pochi media
internazionali hanno dato risalto:
“Non costringeteci a fare ciò che non vogliamo fare”.
Il governo di Madrid avrebbe potuto tentare di bloccare la road map indipendentista proponendo una via d’uscita di tipo politico. Rajoy avrebbe trovato una sponda entusiasta nei socialisti e nella stessa Podemos se avesse proposto a Barcellona una riforma del grado di autonomia della Comunità Autonoma Catalana (quella stessa negata solo pochi anni fa). Così facendo i nazionalisti spagnoli avrebbero aperto delle consistenti crepe nello schieramento indipendentista catalano, agganciando quella parte del PDeCAT che farebbe volentieri a meno del muro contro muro e preferirebbe continuare a galleggiare in una situazione – l’autonomia all’interno dello Stato Spagnolo – che ha fatto a lungo le fortune dei liberalconservatori di Barcellona.
Una parte consistente, anche se forse non maggioritaria, dello schieramento nazionalista catalano è stato infatti condotto ad abbracciare la rivendicazione del distacco da Madrid da anni di mobilitazione popolare e dalla pressione di una sinistra indipendentista e radicale che ha vissuto una forte crescita negli ultimi anni.
In Germania i bruni dell'ADF sono triplicati e sono adesso il terzo partito; per forza, visto che di rossi non se ne vedono e la sinistra si limita a contrastare il fascismo (anzi, la memoria storica del fascismo) e tutt'al più a sostenere i diritti dei migranti illegali, lasciando alla destra il monopolio della difesa dello Stato e della resistenza contro le multinazionali
Ogni tanto vengo accusato di essere un rossobruno. Non so bene cosa significhi perché l'insulto (suppongo che nelle intenzioni di chi lo usa sia tale) è sempre secco, ossia non conclude o accompagna un ragionamento sulla mia presunta ideologia. Dai contesti mi pare però di capire che il riferimento sia da un lato ai rossi, ossia i comunisti non pentiti (e politically incorrect, quelli che privilegiavano la dimensione collettiva sull'individualismo e il pubblico sul privato), e dall'altro ai bruni, i nazisti, e anche qui la frangia più populista, le SA.
Retorica vecchia, da democristiani. Che la teoria degli opposti estremismi cominciarono a farla circolare ai tempi del tentativo di De Gasperi di imporre la legge truffa, alla quale oltre al PCI e al PSI si oppose anche il MSI. E che la ripresero e amplificarono negli anni sessanta e settanta per fronteggiare le proteste operaie e studentesche e fermare le richieste di maggiore eguaglianza e giustizia.
Le forze dell’esercito siriano, con il sostegno delle forze speciali e dell’aeronautica della Russia, continuano senza sosta l’offensiva per distruggere le ultime postazioni dello Stato islamico nei pressi della città di Deir Ezzor. La liberazione del governatorato è essenziale: qui si annida l’ultima vera roccaforte dell’Isis e qui i terroristi hanno imposto la loro ultima linea di difesa. Per le forze siriane, russe e iraniane, la presa di Deir Ezzor non solo rappresenta la fine di un incubo, ovvero dello Stato islamico come forza militare sul campo, ma anche una chiave strategica per il futuro della Siria e dell’Iraq. Conquistare la città non significa infatti soltanto riconsegnarla alla Siria liberata, ma soprattutto costruire un ponte terrestre fra l’Iraq e la Siria, ma, invia generale, fra Teheran e il Mediterraneo. Proprio per questo motivo, la corsa per arrivare primi alla liberazione della città e della provincia diventa fondamentale: chi la conquista può avere il lasciapassare sul futuro del Paese e soprattutto la chiave della fine della guerra che da sei lunghissimi anni devasta Iraq e Siria. Russi, iraniani e s siriani lo sanno, ma lo sanno anche statunitensi, curdi e forze ribelli. Proprio per questo motivo, Deir Ezzor ha attratto non soltanto i maggiori sforzi delle truppe alleate di Assad, ma anche di quelle della coalizione internazionale, che cercano di rimediare al fatto che l’esercito siriano stia infliggendo al Califfato la sconfitta finale.
Per manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero «Ottobre 1917 - la rivoluzione pacifista di Lenin». Sull’argomento, poi, nelle giornate del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Un’anticipazione dell’intervento al simposio del filosofo a Villa Mirafiori
Ricostruendo i passi sempre ponderati che i bolscevichi seguirono tra il febbraio e l’ottobre del 1917 viene confermata l’immagine che Lenin aveva della politica come «matematica superiore». La strategia era in lui chiara sin da febbraio. Se i liberali hanno la forza per compiere una loro rivoluzione, che se la sbrighino pure da soli calandosi nell’arte così poco poetica della critica delle armi. Non possono pretendere che ai proletari, ai soldati fuggiaschi, alle plebi contadine spetti il compito di indossare le maschere del costituzionalismo, pressoché ignoto vocabolo nella tradizione russa.
Le fabbriche che sono insorte, la diserzione in massa dei contadini in divisa suggerirono a Lenin che era comparso un protagonista nuovo, che all’inizio marciava in forme del tutto spontanee. Il problema era di offrire al moto disordinato di piazza un’organizzazione per fare della folla irregolare un vero soggetto. Ci voleva per questo una politica organizzata.
Fateci caso: dopo mesi di battaglie contro Trump il fascista, la distruzione di statue confederate, la balla delle manipolazioni russe sulle elezioni, le polemiche astiose e continue su qualsiasi cosa facesse il neo presidente, quando quest’ultimo è andato all’Onu a fare apertamente il nazista e a minacciare la Corea del Nord di genocidio, non c’è stata alcuna reazione, non si è alzato un fiato, anzi questa manifestazione di estremismo e di imperialismo assoluto deve essere sembrata quasi ovvia alle tante anime belle che ogni giorno, dopo ogni guerra ingiusta e ogni massacro tentano di riverginare gli Usa agli occhi del mondo. Del resto si tratta in gran parte di quell’ “america di sinistra” che avrebbe votato la Clinton la quale a sua volta aveva espresso l’intenzione di “annientare totalmente” l’Iran, quindi non stiamo parlando in un presidente rozzo e al limite della caricatura, di un presidente di destra, ma di un’anima americana di fondo che valica ogni distinzione politica, tanto che proprio sotto Obama, premio Nobel per la pace e nello stesso tempo detentore del record assoluto di sette guerre contemporanee, si è assistito allo sdoganamento nel governo istituzionale del Paese del Pentagono e dei servizi.
Cosa possa significare questo ingresso nel basso impero lo diranno gli anni a venire, sta di fatto che la teoria dell’eccezionalità mischiata al neoliberismo ha formato una miscela esplosiva che adesso non risparmia nemmeno il passato.
A dieci anni dall’esplosione della Grande Crisi quali sono gli spazi possibili per un intervento pubblico. Un volume collettivo appena uscito per Asterios analizza i vari scenari
Federico Caffè,
trent’anni fa, individuò le tendenze della trasformazione
neoliberale, ma non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo
e in
profondità, essa sarebbe andata. Solo in seguito si è dovuto
prendere atto che il “pensiero unico” (Ramonet 1995) aveva
tolto l’ossigeno all’auspicabile controtendenza basata sulla “public
cognizance”.
Le vicende finanziarie – della finanza privata, ma anche di quella pubblica (dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà) – hanno continuato a provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria. Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, piuttosto come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali che come metodo efficiente di finanziamento delle imprese (Caffè 1971, p. 671). Questo atteggiamento ha reso, in seguito, più acuta e radicale la sua critica del dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Egli sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito.
Sei
in volo verso Berlino o per la precisione verso Neukolln, che
come tutti sanno è il quartiere dove le cose succedono. O
forse stai andando a
Peckham? Magari Ménilmontant? Poble Sec? Miera Iela?
Mariahilf, Exarchia, Bairro Alto? Comunque: è uno squallido
volo Ryanair con
partenza da Ciampino, ma tuo nonno si poteva permettere al
massimo un biglietto del tram per la gita fuori porta della
domenica, quindi lo sai bene
che quel tuo low cost da pezzenti vale tanto quanto un posto
in prima classe. Ti aspetta un mondo di cocktail esotici
miscelati da estrosi bartender
tatuati, dotte disquisizioni sul rapporto tra Captain
America: Civil War e guerra al Terrore, concerti indie
per elettronichetta innocua e
chitarrine intimiste, apericenacoli con focus su affinità
& divergenze tra Lena Dunham e l’adattamento tv del Racconto
dell’ancella, e pettegolezzi di quarta mano su
Semiotext(e) che chi se ne frega che pubblica Paolo Virno
(anche perché chi cazzo
è costui?), l’importante è sapere chi scopa con chi perché hai
visto I Love Dick? ecc ecc. Ti aspettano giorni di
arte, di stile, di IPA, di spunti per sei o sette longform e
di tanta, tanta Cultura.
Solo che a un certo punto ti viene in mente che altro che business class: il volo da Ciampino partiva alle 5 del mattino, per poco non sei dovuto restare in piedi per quanto era affollato, e quando è arrivato a destinazione ti ha lasciato a un aeroporto a dodici ore dal centro.
Se c’è un dato positivo da evidenziare nella stolida mossa fatta da Mariano Rajoy nel mandare la Guardia Civil ad arrestare esponenti del governo catalano e sequestrare le schede per il referendum, è l’aver rotto lo specchio deformante che ha ingabbiato il dibattito pubblico nell’ultimo quarto di secolo.
Uno specchio fatto di parole che non corrispondevano mai ai processi reali che dovevano descrivere, normare, mettere in relazione. Ossimori, spesso, a rivelazione di una contraddizione insolubile che si voleva occultare.
In primo luogo, dimostra che la “democrazia” non è un sistema politico vigente, ma un insieme di frasi con cui si giustificano gli interventi armati contro qualcun altro. Anche a prescindere dal merito della questione catalana – si può essere indipendenti rompendo i vincoli con uno Stato nazionale più grande, che a sua volta sta cedendo sovranità a una struttura sovranazionale svincolata dal consenso come la Ue? – è addirittura dichiarata l’intenzione di impedire militarmente una consultazione popolare liberamente decisa da organi rappresentativi regolarmente eletti.
Renzi prima e Gentiloni poi insistono con il sostegno all’offerta, politica reaganiana
Centro-sinistra sì, centro-sinistra no, alleanza con il Pd, alternativi al Pd, coalizione con Renzi, mai con l’ex presidente del consiglio, e cosi continuando. La discussione a sinistra, come al solito, è desolatamente appiattita sugli schieramenti.
E naturalmente sulle schermaglie tattiche, sui posizionamenti in vista della campagna elettorale. La vita delle formazioni politiche – chiamiamole così – gira esclusivamente intorno a questo torneo, come squadre di calcio il cui unico compito è di affrontare il campionato. Eppure, basterebbe guardare ai contenuti, alle scelte programmatiche per rendere più chiare e dirimenti le scelte di schieramento.
Consideriamo il programma della manovra economica del governo Gentiloni. A detta dello stesso presidente del consiglio essa è «in linea con quelle che l’hanno preceduta». Ce n’eravamo accorti. Dopo i 18 miliardi e passa di euro generosamente elargiti alle imprese in tre anni dal governo Renzi, ora ci si prepara a replicare un fallimento lungamente sperimentato. Di nuovo agevolazioni fiscali e incentivi a chi assume, di nuovo si pompa l’economia dal lato dell’offerta a suon di denaro sottratto alla fiscalità generale e dunque agli investimenti pubblici.
Se M5S ha deciso di trasfigurare la sua originaria carica anti-sistemica nel volto senza idee di Di Maio l'insipido, qual è la proposta della sinistra sinistrata?
Piemme si è occupato ieri l'altro della farsa pentastellata, quella che ci ha portato dalla "democrazia della rete" alle primarie senza avversari. Quelle fatte solo per incoronare Di Maio l'insipido. Non solo una scelta neo-democristiana, ma pure una scelta perdente. Ieri sera, un ex M5S - una categoria in costante aumento - mi ha detto: «secondo me i vertici del movimento hanno deciso di perdere». Non sono sicuro che questa sia la diagnosi corretta, ma la prognosi mi pare certa.
Aggettivare come "bulgara" la farsesca votazione dei Cinque Stelle è ormai un luogo comune di cui abusano tutti, i piddini in primo luogo. E, tuttavia, come dargli torto in questo caso, vista la figuraccia che i pentastellati si sono confezionati da soli? E poi, come non vedere che è tutto il loro sistema di selezione dei candidati che fa acqua da tutte le parti? Ieri è arrivata la notizia della "sospensione" delle primarie siciliane di M5S da parte del tribunale di Palermo. Sia chiaro, chi scrive detesta e condanna questa continua intromissione della magistratura in vicende interne di partiti e movimenti, ma non è forse sempre stato M5S a benedire e santificare ogni rutto tribunalizio? Bene, chi è causa del suo mal pianga se stesso.
È iniziata la crisi del low cost? C’è solo da sperarlo. La RyanAir ha lasciato a terra centinaia di migliaia di passeggeri con la motivazione ufficiale che piloti e personale di volo sono in arretrato di ferie e ora devono farle. Secondo molti commenti questa è una piccola parte della verità, ma già di per sé essa è indice di una situazione gravissima. Per bloccare in forma cosi ampia le attività della compagnia irlandese è necessario che le ferie tra il suo personale siano praticamente sconosciute, cioè che si facciano volare gli aerei con equipaggi che non hanno riposato a sufficienza.
Immaginatevi cosa vuol dire questo per il loro rischio e quello dei passeggeri. Se RyanAir ha fermato i voli vuol dire che la condizione del personale era al limite del consentito dai regolamenti internazionali. Cioè che la RyanAir non ha organici sufficienti per far fare ai propri dipendenti riposi e ferie quando essi siano previsti e che quindi accumula ritardi alla fine insostenibili.
Ma pare non sia solo questo a fermare la compagnia, ma anche la fuga dei piloti, che appena possono vanno dove sono pagati di più, condizione che pare non sia difficile trovare. Così quelli che restano devono garantire turni ancora più folli, rinunciare ad altre ferie, fino al crac.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Non lo
definisce
“vento populista”, preferisce chiamarlo più semplicemente
“vento della protesta” anche quando si tratta di commentare
le elezioni tedesche e il grande exploit dei nazionalisti
dell'AfD. Vladimiro Giacché, economista e presidente del
centro Europa Ricerche, ne
è convinto: “Se l'Europa vira a destra è per precise
responsabilità della sinistra che è stata in buona parte
corresponsabile delle politiche neoliberali (mi riferisco in
particolare ai partiti socialisti/socialdemocratici) e dove
non lo è stata, non ha
saputo affrontare le radici della crisi e mettere davvero in
discussione l’assetto dell’Europa di Maastricht”.
* * * *
Il crollo (annunciato) della Spd e la vittoria dell'estrema destra dell'AfD, sono questi i due aspetti predominanti del voto tedesco?
Aggiungo il crollo della CDU e della CSU, le due forze che sostenevano Angela Merkel. Non si tratta di un dettaglio: la frana riguarda entrambi i partiti che un tempo determinavano la politica tedesca.
C’era una volta il
Movimento 5
Stelle. Fatto di cittadini che prendevano decisioni tutti
insieme, dopo avere scartato migliaia di scelte alternative,
valutate attentamente una per
una. Tutte le decisioni, non solamente alcune. La televisione
era considerata complice del sistema e artefice del
decadimento civico e culturale. I
sondaggi erano l’antitesi della buona politica, perché la
democrazia diretta, da cui le proposte politiche nascono, è
già
il migliore sondaggio che si possa sperare di avere. La
demagogia ripugnava tutti. I protagonismi erano il Peccato
originale, da cui era
necessario pentirsi e da sublimare nella retorica del
portavoce. Per l’esattezza: “cittadino portavoce” (e
che i conduttori
non si sbagliassero). Tutto era trasmesso in streaming. Due
mandati erano “due legislature” (e non dieci anni). Le cariche interne
ruotavano ogni tre mesi, tutte, così nessuno avrebbe potuto
impadronirsi di una poltrona e
diventare inamovibile. Tanto un portavoce era solo un
segnaposto della volontà degli attivisti certificati: era
sostituibile. Le riunioni a
porte chiuse erano un’eresia blasfema, perché contrarie alla
trasparenza e perché per definizione ponevano nelle mani di
pochi il
potere di elaborare strategie nascoste, che viceversa dovevano
restare competenza dei molti. Democrazia diretta e strategie
di palazzo sono infatti
incompatibili a priori. Il titolo di “onorevole” era una
macchia indelebile da cancellare con lunghi pellegrinaggi nei
MeetUp di
origine.
La
vecchia Scuola fa acqua da tutte
le parti. E’ lontana dal mondo dell’impresa, ha gli
insegnanti più vecchi d’Europa, è fondata su saperi teorici
e
astratti, è sostanzialmente “analogica e cartacea”. Per
fortuna, le competenze, il digitale e l’innovazione la
salveranno.
Attorno alle competenze e alla necessità di innovare si è
costruito un vero e proprio racconto. Bisogna garantire un
set di
“saperi utili per la vita” (competenze di cittadinanza), che
assicurino flessibilità ed employability. Ciò che conta
è imparare ad imparare, saper apprendere sempre, per
risultare vincitori nello struggle for life. Cosa e come si
insegnerà nella scuola
del XXI secolo? Le distinzioni disciplinari perderanno
significato. Basterà fornire i saperi essenziali e
sviluppare le giuste skills per
ricercare e selezionare informazioni in rete. Eppure,
problem solving and finding, Inquiry based learning, sono
maquillages anglofili su pratiche che
risalgono all’Accademia di Atene e che qualsiasi insegnante
consapevole utilizza con gli obiettivi e i linguaggi
specifici della propria
disciplina. La pedagogia “del successo” è quella che crea
ambienti, attività, metodi di apprendimento focalizzati su
competenze utili per la vita. Da questa visione fluida e
protesa al futuro scompare l’orizzonte di senso. Perché, a
quale scopo tutto
questo, qual è la nostra destinazione. L’educazione è
innanzitutto una pratica morale e politica. E come tale
necessita di una
definizione delle sue finalità, prima che della sua
efficacia. Efficace per cosa?
* * * *
Il tema del tempo-scuola e quello delle pratiche didattiche “innovative” sono tornati al centro del dibattito pubblico in occasione della recente firma del decreto che dà il via alla sperimentazione di diplomi quadriennali, da parte del MIUR.
Sul caso dello stupro delle studentesse americane da parte di due carabinieri si sono versati fiumi di inchiostro e interminabili servizi televisivi. Nel coro unanime delle condanne e delle esecrazioni si distingue tuttavia una voce solista che - sulle pagine del Corriere della Sera di giovedì 14 settembre – ha espresso un punto di vista decisamente originale sulla vicenda. Mi riferisco a un articolo dal titolo “Quella violenza a Firenze e il nuovo volto delle città”, firmato da Federico Fubini, che offre una lettura per dir così “economica” della vicenda.
Doverosamente espresse le condanne di rito, Fubini indirizza infatti la sua riflessione in tutt’altra direzione: non è forse vero, si e ci chiede, che le ragazze hanno dovuto accettare il passaggio perché non avevano altro modo di rientrare a casa? E ciò è dovuto al fatto: 1) che a Firenze (città che in alta stagione ospita centinaia di migliaia di turisti al giorno), in ogni momento circolano al massimo quattrocento taxi; 2) che per quanto pochi i taxisti (spalleggiati dai sindacati – che, si sa, per il Corriere sono “corporativi” per definizione) sono riusciti a far sì che la città cacciasse Uber, penalizzando questo servizio innovativo con multe, balzelli e vincoli burocratici di ogni genere (per il Corriere anche le pubbliche amministrazioni, soprattutto se di sinistra, sono per definizione contro l’innovazione tecnologica e il libero mercato). “Avesse funzionato, commenta il nostro, alle due americane sarebbe bastato un tocco dello smartphone per andare a dormire sane e salve”.
La progressiva liquidazione del sistema della grande impresa italiana, con la chiusura di alcuni gruppi e il ridimensionamento di altri, si arricchisce di un nuovo capitolo, con gli ultimi sviluppi della vicenda Fiat
La progressiva liquidazione del sistema della grande impresa italiana, con la chiusura di alcuni gruppi, il ridimensionamento di altri, l’acquisizione infine di gran parte di quelli residui da parte del capitale straniero, senza che almeno quello nazionale riesca a impostare una qualche dignitosa e parallela risposta con acquisizioni nei paesi esteri, appare ormai quasi giunta al suo stadio finale. Siamo arrivati al punto che quando qualche impresa nostrana (ma sono sempre meno) ci prova, viene pesantemente ripresa, come mostra il recente caso Fincantieri-STX, affare i cui risvolti finali temiamo si riveleranno per noi come molto negativi.
Il libro che il professor Giuseppe Berta ha pubblicato di recente sul tema della scomparsa delle nostre grandi strutture (Che fine ha fatto il capitalismo italiano?, Il Mulino, 2016) sembra apportare una parola definitiva in proposito. Possiamo solo sperare con l’autore che le imprese di minori dimensioni riescano ancora a tenere la rotta, in un quadro mondiale che si fa per noi sempre più complicato.
Torna il nazismo in Germania, a sentire i più sinistri maître a penseer democratici. Eppure lo spauracchio nazista appare la più classica delle bufale storiche. Non perché il previsto exploit del partito neonazista Alternative für Deutschland non rappresenti effettivamente un problema politico, ma per l’alone di eccezionalità che circonda l’evento elettorale: «La prima volta dopo 72 anni!» si legge in giro, soprattutto a “sinistra”, laddove dimora ancora l’insaziabile perversione del “fronte popolare contro il fascismo”. Eppure, la lettura di qualche libro di storia contemporanea tedesca dovrebbe favorire più cautela storica, meno allarmismo liberale. Consigliamo, su tutti, la decisiva ricerca di Alfred Wahl: La seconda vita del nazismo, ripubblicato recentemente da Lindau. Scopriremmo, absit iniuria!, che i nazisti – quelli veri peraltro – rinominati opportunamente Deutsche Partei, erano nel primo governo Adenauer formato nel 1949, occupando i ministeri dei Trasporti e degli Affari federali; nel secondo governo Adenauer, formato nel 1953, dove amministrarono niente meno che la Giustizia, i Trasporti, gli Affari regionali e, tramite il BHE (Blocco dei rifugiati), il Ministero degli Affari dei rifugiati; nel terzo governo Adenauer, formato nel 1957, dove occuparono i ministeri dei Traporti e degli Affari regionali.
A quasi un anno di distanza dal nostro post che metteva in guardia contro i pericoli di un’eventuale approvazione del CETA per i cittadini europei, il trattato è entrato in vigore, nel pressoché totale silenzio dei media nazionali, lo scorso 21 settembre. Jacques Sapir fa il punto su ciò che adesso ci aspetta, e il quadro è purtroppo tutt’altro che rassicurante: oltre ai rischi per la salute e per l’ambiente, il CETA rappresenta un grave vulnus alla sovranità nazionale e ai principi democratici
Il CETA, trattato di libero scambio con il Canada, è infine entrato in vigore giovedì 21 settembre, ad eclatante dimostrazione di come gli Stati abbiano rinunciato alla loro sovranità, lasciando spazio ad un nuovo diritto, indipendente dal diritto degli stessi Stati e non soggetto ad alcun controllo democratico.
Il CETA sarebbe, sulla carta, un “trattato di libero scambio”. In realtà però prende di mira le normative non-tariffarie che alcuni Stati potrebbero adottare, in particolare in materia di protezione ambientale. A questo riguardo, c’è da temere che il CETA possa dare l’avvio a una corsa a smantellare le norme di protezione. A ciò si aggiungono i pericoli che scaturiscono dal meccanismo di protezione degli investimenti contenuto nel trattato.
Bruna Ingrao riflette sugli effetti della drastica riduzione dello spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla storia economica all’interno dei corsi universitari in economia. Ingrao sottolinea, in particolare, l’impoverimento che ne deriva per la capacità degli economisti di interpretare la complessità dei fenomeni economici e sociali e richiama l’attenzione sulla necessità di tornare urgentemente a valorizzare le due discipline e la loro capacità di sollecitare la curiosità attraverso la narrazione di uomini, eventi ed idee
Nelle
università si è drasticamente ridotto, nei corsi di economia,
lo spazio dedicato alla storia del pensiero economico e alla
storia economica. In Italia, come a livello internazionale, si
assiste alla progressiva scomparsa della storia nella
formazione dell’economista.
Scompare dai requisiti della formazione perfino l’introduzione
alla storia delle idee economiche; si diluisce la conoscenza
degli eventi
economici nel tempo: i regimi monetari, le fasi dello
sviluppo, le crisi finanziarie, l’innovazione tecnologica,
l’evoluzione delle
politiche economiche. Le due discipline, marginali o assenti
nelle lauree triennali, sono quasi scomparse nella formazione
magistrale e dottorale,
quasi fossero un ornamento per l’arricchimento culturale degli
studenti, non un pilastro della formazione cognitiva.
Un laureato in economia può uscire dal percorso formativo ignorando Smith, Walras o Schumpeter, senza nozione del dibattito passato su liberismo ed economia pianificata, senza saper distinguere tra liberismo e liberalismo, senza conoscere la prima rivoluzione industriale, la grande depressione, l’evoluzione dei regimi monetari, e così via. Ciò porta in prospettiva all’impoverimento culturale della figura dell’economista. Dobbiamo preoccuparcene? E perché? Intendo argomentare che è urgente ripristinare il ruolo della storia economica e della storia delle idee nella cassetta degli strumenti dell’economista, non solo per l’ovvia ragione di evitare l’ignoranza.
La classe creativa non è più
il motore della civiltà democratica, e la concentrazione di
hipster, nerd e omosessuali in ameni quartieri urbani non è
più il
segno di una prosperità in procinto di espandersi a macchia
d’olio, ma un epifenomeno della crescente diseguaglianza e
della segregazione
che ha investito la popolazione globale.
Ma chi poteva ancora sostenere delle idiozie del genere, viene da chiedersi?
La risposta è Richard Florida, il più grande divulgatore di questi e altri (pochi) concetti simili, e insieme a lui migliaia di politici, amministratori urbani dei cinque continenti, l’intero arco della stampa mainstream globale, e un numero più grande di quanto non si voglia ammettere di accademici e studiosi nel campo dell’urbanistica e dell’economia urbana. Perciò, se all’indomani dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca appare un libro intitolato The New Urban Crisis, sottotitolato How Our Cities Are Increasing Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class – and What We Can Do About It, e firmato Richard Florida, author of The Rise of The Creative Class, non bisogna prendere la cosa sotto gamba.
Ci sono stati molti commenti, anche sanamente critici, ai concetti che ho espresso nel post sull‘Effetto Seneca e le prostitute a Firenze. Come spesso capita, i commenti sono anche trasbordati altrove, comunque mi hanno aiutato a chiarire meglio i concetti.
Esistono due linee: quella della risorse e quella delle regole per gestire le risorse e il loro utilizzo.
La linea delle risorse è definita anche dal rapporto tra fonti disponibili, costi di estrazione e scarti, e fin qui stiamo parlando di temi che altri hanno sviluppato con molta più competenza di me: è quello che si vede comunque nella Piana di Firenze, dove l’ultima risorsa territoriale viene consumata contemporaneamente da un inceneritore, da un nuovo aeroporto e dall’espansione dell’autostrada, poi ci si strozza.
Limitiamoci a parlare comunque delle risorse disponibili per le istituzioni. In Italia oggi abbiamo superato il picco e sta iniziando la discesa. E per quanto siano immensi gli sprechi e la corruzione, non è vero – come sostengono alcuni militanti politici – che “i soldi ci sono, basta ridistribuirli”.
Quando le risorse diminuiscono, si inizia a tagliare sempre dal basso: ad esempio sul numero di custodi che tengono aperto un museo di secondaria importanza o su una linea di autobus poco frequentata.
Diciamocela tutta, da un governo disposto ad imporre coercitivamente nonostante le proteste, l'inoculazione di dieci vaccini nel corpicino di un bimbo di 6 mesi, ci si aspetterebbe come minimo un'attenzione maniacale a 360 gradi per la salute dei cittadini. Invece al contrario laddove finisce la parola vaccino, con tutto il suo corollario di giri di affari miliardari nelle mani delle case farmaceutiche, sembra finire assai miseramente anche l'interesse del Ministero della Sanità per la salute degli italiani.
In Veneto in modo particolare, ma anche in Piemonte, Lombardia e Toscana, le falde acquifere di zone vastissime sono pesantemente inquinate dai Pfas, sostanze chimiche usate per l'impermeabilizzazione, la cui presenza nel sangue dei ragazzini di 14 anni raggiunge livelli preoccupanti, nonostante il Ministero di cui sopra, impegnato con il morbillo e la scarlattina non si sia mai preoccupato d'individuare una soglia di pericolo per la concentrazione nel sangue di questi veleni....
Il Pfas, composto chimico originato dalla fusione di solfuro di carbonio e acido floridico creato nel 1938, viene usato industrialmente per impermeabilizzare di tutto, dai giacconi agli smartphone, alle padelle, alla carta da pizza, agli sci e le aziende che lo utilizzano sono concentrate nelle regioni summenzionate dove gli scarichi degli impianti chimici vengono riversati nei fiumi ed entarno così nel circolo alimentare.
Dopo mesi di annunci a vuoto da parte di CialTrump, finalmente è arrivata la promessa svalutazione del dollaro. A salutare con la maggiore preoccupazione l’evento è stato il Super-Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi. Il presidente della BCE ha paventato gli effetti negativi che la corrispondente rivalutazione dell’euro rispetto al dollaro comporterà sulla esitante ripresina economica europea. In tal modo Draghi ha confermato quanto gli osservatori marginalizzati dai grossi media dicevano da tempo, cioè che il mitico “bazooka” di Draghi, il Quantitative Easing, non ha rilanciato l’economia europea per le sue iniezioni di liquidità in se stesse, ma per l’effetto di svalutazione dell’euro che ha reso più competitive le esportazioni.
Di questa realtà il dibattito economico ufficiale in Italia non tiene minimamente conto. Il ministro dell’Economia Padoan sin da aprile ha dichiarato che intende negoziare con Bruxelles nuovi margini di “flessibilità” sui vincoli di bilancio, offrendo “in cambio” le privatizzazioni. Padoan vuol quindi spacciare l’ennesima operazione di lobbying a favore delle multinazionali come una manovra di risanamento finanziario.
Stavolta la notizia non ha riempito di gioia i vertici del PD, i quali vedono così messe in forse le loro residue fonti di finanziamento, ma Padoan evidentemente si deve sentire forte delle protezioni sovranazionali, poiché ha riconfermato di voler procedere sulla strada di quelle che lui, con somma faccia tosta, chiama “riforme”.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Lelio Demichelis: Cose degli altri mondi. Saperi e pratiche del divenire umani
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Riccardo Bellofiore: Karl Korsch
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L’Italia si avvia
alle elezioni politiche senza che alcuna formazione politica
avanzi un progetto per il Paese, un’idea di dove esso debba
dirigersi. Si va dalla
continuità del “io speriamo che me la cavo” del PD al governo
al vuoto programmatico del M5S, passando per l’incubo del
ritorno berlusconiano. La sinistra vaga fra il cosmopolitismo
e le trivelle. Lo scarso spessore politico e culturale dei
gruppi dirigenti delle varie
compagini è palese. Per esplicitare l’ordine di problemi che
una politica all’altezza dovrebbe affrontare, torna assai
utile la
lettura del volume “Ricchi per caso” curato da Paolo Di
Martino e Michelangelo Vasta (il mulino, 2017, 319 pp. 19€),
due affermati
storici economici. Il volume intraprende una sorta di percorso
psicoanalitico delle ragioni profonde del drammatico passaggio
storico, fra benessere e
declino, che l’Italia sta da anni attraversando. Al centro
dell’analisi vi sono infatti le istituzioni socio-politiche
che costituiscono
l’ossatura del Paese, la sua costituzione reale – spesso vero
ostacolo alla realizzazione dei nobili intenti della
Costituzione formale.
In questo gli autori - sette nel complesso [1] - si rifanno a
un importate filone della letteratura economica che vede nella
qualità e
appropriatezza storica delle istituzioni l’anima dello
sviluppo economico.
Politico,
com’è noto, si riferisce alle questioni relative alla comunità
o società che nell’Antica Grecia si chiamava
polis e che oggi si chiama Stato. Non ha cambiato
solo il nome, la polis greca era una città (o al più
un’isola), la
più grande e famosa, Atene, contava al suo massimo forse
130.000 abitanti ma non tutti erano soggetti politici di
diritto. Oggi, uno Stato
medio, secondo una brutale operazione che divide la
popolazione terrestre per i poco più di 200 stati accreditati,
conta poco più
di 35 milioni di abitanti. Chiaramente, se la dimensione di
Atene sosteneva ancora il concetto di comunità, lo Stato
moderno contemporaneo
verte sul concetto di società che, a sua volta, può basarsi o
meno su una rete di comunità. Queste, possono a volte
coincidere con etnie che i greci ritenevano una istituzione
barbara, una istituzione imposta perché subita alla nascita[1].
Lo spazio del politico nel mondo, sembra attraversato da due correnti potenti. Da una parte, la popolazione mondiale è cresciuta di due volte dal 1950 e fra trenta anni, ad un secolo dalla data posta, risulterà cresciuta di tre volte. Fatte le debite proporzioni, per dare una approssimata idea della vistosità del fenomeno, è come se l’Italia, nel prossimo secolo, diventasse una nazione di 240 milioni di persone dai 60 che ne conta oggi.
La storia con le sue
vicende, le sue
guerre, le sue rivoluzioni e controrivoluzioni, con le sue
sconfitte e vittorie nazionali nonché con la lotta di classe
affascina e ispira i
cittadini tutti, ed è non solo un faro che illumina
l’esistenza umana ma un riflettore intorno a cui ruota
l’esistenza umana tutta
e rende visibile anche quelle cose che possono sembrare
nascoste o invisibili. Comprendere il carattere dialettico
della storia significa leggerla
come processo. La dialettica come processo storico ci permette
di conoscere nel corso della storia stessa nuovi contenuti,
nuovi oggetti. Nel momento
in cui leggiamo la storia come processo dialettico ci
appropriamo di questa come parte del processo dello sviluppo
sociale e perciò questa
stessa ci permette di capire che il cosa, il come e il
fino a che punto della nostra conoscenza è determinato
dagli stadi di sviluppo
del processo della società.
La legge dell’identità mediata di soggetto e oggetto, forma e contenuto, essere e divenire è la forma razionale, per altri versi l’unica forma possibile, di realizzazione della storia.
Il metodo storico non è qualche cosa di formale e preliminare, ma si identifica con l’unità tra teoria e prassi, e richiede di schierarsi dalla parte del soggetto che non rinuncia a fare coscientemente la propria storia.
Se i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici vengono messi in discussione, il movimento di contestazione sociale che denuncia ciò si trova di fronte ad un problema di ordine teorico e strategico.
Vale a dire che leggi come la "loi travail 2" sono soprattutto ricche di insegnamenti.
Un sistema che mette al primo posto delle finalità quali la "crescita", la "produttività", la "competitività", se da un lato assicura una legalità la quale permette che il suo funzionamento non esclude affatto che vengano negati gli interessi vitali della classe lavoratrice (rendendo pertanto possibile la creazione del valore, nel senso stretto del termine), in quello stesso momento fa una confessione esplicita.
In un certo qual modo, ed in maniera paradossale, questo sistema si auto-denuncia. Proclama spudoratamente che ciò che per lui è "virtuoso" corrisponde, nei fatti, ad un oscuramento della qualità del vissuto concreto di coloro che fanno "funzionare" la macchina, vale a dire corrisponde a ciò che è in sé scandaloso.
Questa confessione è una manna dal cielo: la classe che detiene il capitale, e lo Stato che difende i suoi interessi, ci forniscono così la mazza con cui picchiarli. Un simile cinismo, talmente evidente, ci mostra in maniera definitiva che il sistema non ha assolutamente niente di "sano" (cosa che il mito dei "gloriosi trent'anni" tende a farci dimenticare).
Macron aveva scelto proprio la giornata di oggi per parlare del rilancio dell’Europa in senso neo liberista, sicuro che la Merkel avrebbe vinto e che avrebbe trovato al di là del Reno spalle abbastanza forti da reggere il suo gioco di prestigio volto al proprio e agli altri elettorati: dare l’illusione di cambiare in qualche modo le regole ferree della Ue, ma con l’intenzione di dare un’ultima spallata al residuo potere degli stati eliminando il “paralizzante unanimismo” di Bruxelles e invocando un ministero europeo delle finanze che di fatto toglierebbe ai vari Paesi anche i residui di autonomia fiscale e di bilancio. Insomma l’ennesima sniffata di neoliberismo fingendo che sia zucchero, ma anche una buona dose di micragnosa grandeur visto che il tutto darebbe una rilevanza assoluta all’ensemble Germania – Francia
Non so adesso cosa dirà, probabilmente farà qualche cambiamento di circostanza visto che le alleanze a cui la Merkel sarà probabilmente costretta, i liberali in primo luogo, non vedono di buon’occhio questa centralizzazione della finanza continentale temendo che essa sottragga risorse dei cittadini tedeschi per portarli altrove. Del resto questa è la logica che sta alla base del trattato di Maastricht e dell’euro, di quell’Europa che giorno dopo giorno si sta rivelando un pasticcio senza fine, un riserva di caccia per ambizioni nazionali che forniscono energia al cosmopolitismo finanziario con buona pace dei miopi che lo scambiano per internazionalismo, di disuguaglianze sempre più vistose,
Come i nobili hanno preservato il loro potere in una società rigidamente divisa in classi e in una terra - il Regno Unito - che si regge ancora sulla proprietà privata del Medioevo. Oltre un terzo del territorio è di proprietà di milleduecento appartenenti all’aristocrazia feudale. Meno dello 0,1% della popolazione
Quando, pochi giorni fa, la Duchessa di Cambridge ha annunciato di aspettare un terzo figlio, che andrà a fare compagnia al Principe George e alla Principessa Charlotte, il portavoce della casa reale britannica ha comunicato che “la Regina e i membri di entrambe le famiglie sono molto lieti della notizia”.
Siamo lieti anche noi. A differenza delle sue concittadine prive di titoli nobiliari, la Duchessa non dovrà infatti compilare l’umiliante questionario di otto pagine, comunemente detto “valutazione dello stupro”, per dimostrare che il terzo figlio è frutto di una violenza subita. E potere così accedere agli aiuti di stato per l’infanzia.
Da luglio di quest’anno, nel Regno Unito è infatti entrata in vigore la riforma proposta due anni fa dall’ex Cancelliere conservatore George Osborne, per cui gli aiuti economici alle famiglie in difficoltà si fermano dopo il secondo figlio. A meno che non si tratti di un parto multiplo, di un’adozione. O di una gravidanza avvenuta in seguito a uno stupro. Che va però dimostrata dalla donna.
Nel paese diventato leader indiscusso dell’Europa, con il bilancio pubblico in pareggio e un surplus stratosferico dei conti esteri, con una crescita soddisfacente e il tasso di disoccupazione mai così basso, gli elettori hanno dato una bastonata da 14 punti percentuali ai due partiti di governo: quasi oltre l’8,5 alla Cdu-Csu di Angela Merkel e oltre il 5 alla Spd di Martin Schulz, crollata al 20,6%, quasi esattamente la metà del 40,9 ottenuto nel 1998 da Gerhard Schröder all’inizio del suo mandato.
I tedeschi sono impazziti? Oppure c’è qualche altra spiegazione? Forse sì, visto che una cosa simile era accaduta per esempio anche in Irlanda, dove nonostante i numeri da economia con il turbo il governo in carica aveva ricevuto una legnata del tutto simile. Magari la spiegazione sta nel fatto che i numeri delle grandi variabili dicono poco su come viva la maggioranza dei cittadini, cioè su come sia distribuita quella ricchezza, e ancora meno su quali siano le condizioni di chi lavora o cerca di lavorare. Il welfare tedesco è molto esteso (neanche paragonabile con il nostro), ma chi deve ricorrere alla sua assistenza si trova spesso in condizioni al limite della vessazione, come racconta un bell’articolo di Le Monde Diplomatique, tradotto in italiano da questo sito.
Coalizioni o car pooling? A proposito della nuova proposta di legge elettorale targata Renzi-Berlusconi
Andrà davvero in porto
l'ennesimo raggiro sulla legge elettorale congegnato dalla
collaudata coppia formata dal Buffone di Arcore e
dal Bomba di
Rignano?
Al momento non lo sappiamo. A giudicare dallo schieramento che si è pronunciato a favore del Rosatellum 2 (Pd, Forza Italia, Ap e Lega) non dovrebbero esserci incertezze. A leggere invece le cronache di questi giorni qualche dubbio appare assai fondato. Non solo Renzi è più prudente del solito, ma i gruppi parlamentari del Pd sembrano divisi sia per motivi politici che per i diversi interessi di tanti deputati e senatori.
Certo, se il quartetto di cui sopra fallisse, a dispetto dei numeri di cui dispone, saremmo di fronte all'ennesimo sputtanamento di una classe dirigente che in materia detiene già molti record. Ma questo lo sapremo solo nelle prossime settimane.
Intanto cerchiamo di capire tre cose: come funzionerebbe la nuova legge qualora venisse approvata, quali scenari disegna, quale accordo politico la sostiene.
Rosatellum 2: al peggio non c'è limite
Da anni ormai, ogni nuova proposta di legge elettorale ha l'indubitabile pregio di far rimpiangere quella precedente.
Che
cos’è il contemporaneo? Con questo titolo circa una
decina di anni fa Giorgio Agamben pubblicava il testo della
sua lezione
inaugurale del corso di Filosofia teoretica 2006-2007 allo
IUAV di Venezia. La risposta a una domanda tanto complessa può
essere sintetizzata
in questo modo: secondo Agamben, «contemporaneità» significa
dislocamento, sfasatura, frattura. Pensare la contemporaneità
significa scinderla in più tempi, introdurre nel tempo «una
essenziale disomogeneità»1 in quanto «il
contemporaneo mette in opera una relazione speciale fra i
tempi»2. In questo
senso, il concetto di «contemporaneità» non
solo si discosta, ma si oppone a quello di «presente».
Quest’ultimo, infatti, si configura solo in relazione alla
successione
determinata nella triade passato-presente-futuro, come un
momento liscio e aconflittuale di questi passaggi diretti
verso un avvenire; il
«contemporaneo», al contrario, si mostra come divenire in
grado di rompere questa continua transizione triadica.
La domanda con cui Agamben ha deciso di intitolare il suo intervento è parte di una questione ben più ampia: quella del tempo, del suo significato e delle conseguenze politiche che questo significato assume. Il «governo del tempo»3 è fondamentale nei meccanismi di produzione e riproduzione capitalistica fin dalla nascita del capitalismo stesso.
Su “La Repubblica” si
è discusso di recente se sarebbe possibile, e se gioverebbe,
diminuire di un anno gli studi della Scuola secondaria
superiore. Fra i problemi
affrontati, quello di riuscire, nel caso, a contenere in soli
quattro anni un programma di Italiano che si è fatto sempre
più folto e
che giunga realmente fino ai nostri giorni.
Alberto Asor Rosa, che ha dato inizio alla discussione, ha giustamente respinto la riduzione del corso a quattro anni e ha sostenuto altrettanto giustamente che, per quanto riguarda la letteratura italiana, è necessario estendere la trattazione fino ad affrontare la condizione attuale delle Lettere.
Molto discutibile, invece, e quindi da non accogliere in silenzio, la proposta di Guido Baldi, già docente nei licei e nell’Università di Torino. Dice in sostanza Baldi, proponendo un esempio: se ,dalla trattazione del Petrarca, eliminassimo tutto tranne alcuni sonetti, la canzone “Chiare, fresche e dolci acque”, e un testo dell’umanista, riusciremmo a trattare non solo alcuni narratori nostri contemporanei, come Tabucchi e Del Giudice, ma perfino il vincitore del Premio Strega 2017.
Il giornale online Contropiano pubblica una lunga conversazione fra il segretario di Podemos Pablo Iglesias e il vicepresidente boliviano Alvaro Garcia Linera (la versione video, realizzata per la trasmissione “Otra vuelta de tuerka”, è consultabile qui). Si tratta di un testo di quindici pagine con passaggi di grande interesse sulla biografia personale e politica di Linera, sulla storia della rivoluzione boliviana, sul dibattito teorico fra i marxisti latinoamericani e sugli spunti di riflessione che esso offre alle sinistre radicali europee. Provo a estrarne qui di seguito i nodi essenziali, rinviando il lettore interessato al testo originale (o al video) per approfondimenti.
Linera racconta in primo luogo il suo complesso percorso formativo: l’infanzia in un Paese dove le rivolte proletarie si alternano ai golpe militari, gli studi in Messico, dove ha l’occasione di misurarsi con i testi classici del marxismo e con le migliori menti della sinistra rivoluzionaria del Sud America (in un momento storico che vede convergere in Messico militanti, intellettuali ed esuli politici da tutto il subcontinente), infine il ritorno in Bolivia dove, prendendo le distanze dalla sinistra ortodossa, avvia il suo percorso di riflessione teorica sul ruolo strategico che le masse contadine di etnia india potrebbero svolgere nel processo rivoluzionario – riflessione che si converte in partecipazione alla guerriglia Aymara, il che gli costerà cinque anni di carcere.
Di Maio e non solo. Con la scelta di un capo con il volto cattolico e moderato, il M5S corre il concreto rischio di assorbimento della sua forza eversiva e di attrazione a sinistra
Grandi movimenti in casa cinque stelle. Tra gli osservatori prevalgono le facili ironie. Le allusioni sui trucchi della piattaforma Rousseau o i rimbrotti sul ricorso molto risicato al clic non servono per comprendere un processo politico in corso.
Il punto vero, da cogliere nella evoluzione del M5S, non è la sceneggiata di primarie che si presentano con un vincitore annunciato e senza che in lizza compaiano veri contendenti. Rispetto all’incoronazione, sin dall’inizio data per scontata di Di Maio, che tanto fa discutere, va rammentato che gli altri partiti “normali” non si erano certo comportati diversamente nelle grandi finzioni delle primarie.
Fu con Prodi che si celebrarono le primarie per l’acclamazione nei gazebo del leader unificatore che intendeva, con un plebiscito sulla persona, liberarsi dal condizionamento dei capi di una coalizione assai larga. Nessun rischio contemplava quel rito di investitura, con candidati che erano ostili solo per un gioco di ruolo e con la recita di personaggi calibrati a posta per non danneggiare il gradimento del candidato premier già designato dagli stessi capi partito da cui intendeva affrancarsi.
Nella trattazione ormai quotidiana della cosiddetta “innovazione tecnologica”, due questioni collegano saldamente le opinioni con cui capita, salvo rare eccezioni, di confrontarsi: l’irreversibilità e il carattere intrinsecamente neutrale del “progresso” tecnico, con relative ricadute che i due fattori generano nella società in cui viviamo.
Se non stupisce che opinionisti e commentatori conformati al pensiero dominante fondino la propria trattazione sui due presupposti poc’anzi citati, più inconsueto è verificare che anche a sinistra quei fondamenti siano assunti acriticamente per buoni e dibattuti collettivamente soltanto in forma marginale, nella speranza o convinzione di poterli, al massimo, governare nella loro “inarrestabile” avanzata.
Nel caso della sinistra liberal-democratica questa “tara” è spiegabile con l’assimilazione del pensiero borghese operato a partire dal secondo dopo guerra (nel caso italiano sarebbe fondamentale riflettere sulle storture interpretative del pensiero gramsciano in seno al PCI, che ha scambiato il concetto di egemonia con quello di compatibilità).
Per quel che riguarda, invece, la galassia dei vari antagonismi, quell’interpretazione è riconducibile alla diffusione delle teorie operaiste, con particolare accento alle successive elaborazioni negriane che, penso si possa affermarlo a distanza di molti anni dalla loro enunciazione,
Maduro risponde alle sanzioni di Trump de-dollerizzando il suo petrolio. Un colpo allo strapotere del dollaro nei pagamenti internazionali e all'egemonia americana
Secoli di predazioni prima e colonizzazioni poi da parte dell'Occidente, annientamento dei nativi, deportazione degli schiavi dall'Africa, subordinazione agli interessi dei dominanti del momento, imposizione di regimi sanguinari, colpi di stato teleguidati, aggressioni militari ed economiche agli insubordinati, questa è la storia dei paesi dell'America latina.
Sull'onda della rivoluzione cubana e nonostante l'attività più o meno palese degli Usa (vedi l'Operazione Condor), le cose sono profondamente cambiate negli ultimissimi decenni in Venezuela, Bolivia, Brasile, Argentina, Uruguay, Ecuador, Paraguay, Nicaragua, Panama, Guatemala, Honduras, Salvador. Tanto che si sta assistendo negli ultimi anni a un pericoloso colpo di coda degli Stati Uniti che mira a restaurare quella sorta di ancien régime, e che purtroppo ha conseguito alcuni successi.
La situazione venezuelana è inseribile in questo contesto. Il “cortile di casa” degli Usa, in cui i due maggiori partiti avevano pattuito la possibilità della loro alternanza al potere purché si salvaguardassero comunque gli interessi delle oligarchie e si assicurasse petrolio a buon mercato alla vicina superpotenza,
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Otto note sintetiche sul referendum per l'indipendenza
Ci
sarà tempo per riflettere più a fondo sui possibili sviluppi
della crisi catalana. Intanto però il referendum è alle
nostre spalle e alcune cose già le possiamo dire.
1. L'autoritarismo centralista del governo di Madrid ha finito per rafforzare l'indipendentismo filo-eurista di quello di Barcellona.
Non era un esito difficile da prevedere. Aver mandato la polizia a disturbare il referendum, senza peraltro riuscire ad impedirlo, è stato un segno di grande debolezza, un atto repressivo figlio di una concezione parafranchista. Fondamentalmente un atto stupido, sia in considerazione del fatto che i sondaggi davano gli indipendentisti in minoranza, sia perché la contestazione della legalità del voto avrebbe potuto essere comunque sostenuta politicamente senza bisogno di ricorrere alla magistratura ed alla polizia. Ma la stupidità ha da sempre un certo ruolo nella storia. Vedremo alla fine quale sarà stato il suo peso stavolta. Intanto, però, la gestione della vicenda da parte di Rajoy ha regalato agli indipendentisti catalani un indubbio successo propagandistico.
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Chi non è leghista o grillino o
piddino si trova oggi nella condizione (facile e comoda!) di
sostenere che snobbare il referendum astenendosi sia il
modo migliore per non legittimare un referendum consultivo
inutile. I sostenitori dell’astensione ritengono il
referendum inutile
perché consultivo e ritengono la
partecipazione con un NO dannosa perché la sconfitta del NO
sarebbe inevitabile e
legittimerebbe l’inesorabile vittoria del SI. Ma
davvero possiamo pensare che tutti i partiti più forti in
Italia e Lombardia
abbiano deciso di sostenere un referendum se questo fosse
davvero inutile? Davvero possiamo accontentarci di considerare
tali partiti così
sciocchi? Scusate, cari compagni (perché gli astensionisti
sono spesso cari compagni!), ma non è credibile questa
posizione. Credo
invece che le valutazioni fatte dalle segreterie di tali
partiti siano purtroppo opportunistiche. Assumersi la
responsabilità di dire NO significherebbe
confrontarsi con una bruciante ed inevitabile sconfitta
determinata dalle diverse forze
in campo in questa difficile fase storica. Ma la
pochezza delle forze comuniste dipende, a sua volta, da anni
di opportunismo elettorale e
istituzionale che hanno determinato uno scollamento
dalla classe di riferimento e, quindi, se consideriamo da
leninisti la classe come
l’elemento più avanzato, dalla possibilità di uno scientifico
approccio alla realtà.
Nel mio articolo
pubblicato a febbraio 2017
su questa rivista affermo esplicitamente che l’ipotesi di un
eccesso non temporaneo di risparmio sul volume degli
investimenti privati,
adottata da molti economisti per spiegare la persistente fase
di debolezza dell’economia mondiale[1], sia
teoricamente insostenibile nella realtà dei sistemi di
produzione moderni. Per comprensibili ragioni di spazio, la
dimostrazione formale
dell’argomento era relegata nell’appendice dell’articolo
stesso. Lo scopo di questo scritto è chiarire meglio i leciti
interrogativi lasciati aperti da quella rapida trattazione (si
vedano ad esempio alcuni dei commenti dei lettori alla fine
del paper).
Come noto, la relazione tra risparmio, produzione e investimento è uno dei fondamenti della macroeconomia. In un’economia chiusa con risparmio pubblico nullo (ossia con tasse uguali alla spesa pubblica) il risparmio (S) è la parte del prodotto totale (reddito) non destinata ai consumi privati (famiglie e imprese). Gli investimenti privati (ossia la variazione netta dello stock di capitale fisico a disposizione delle imprese, indicata con I) sono invece, insieme ai consumi privati, una componente della domanda totale del prodotto.
Dopo la débâcle di Ryanair, costretta a cancellare centinaia di voli con gravi perdite economiche e di immagine, la verità è sotto gli occhi di tutti: il re (cioè quell’economia low cost coccolata da media, economisti e politici) è nudo. Com’è noto, a provocare il collasso sono state le conseguenze della politica di supersfruttamento della forza lavoro (niente ferie, turni massacranti, bassi salari, personale viaggiante costretto a svolgere umilianti compiti da piazzista, ecc.) che hanno causato la fuga di molti piloti e una serie di sentenze che impongono alla compagnia di rispettare le regole del diritto del lavoro.
Ma il caso Ryanair non è isolato: altri campioni dell’economia low cost sono al centro di disavventure provocate dalle loro pratiche ai margini della legalità: dalla “espulsione” che Uber, il controverso servizio alternativo di taxi, ha recentemente subito da parte dell’amministrazione cittadina di Londra (dovuto alla violazione delle regole per la sicurezza dei clienti) alle sempre più frequenti grane giuridiche cui va incontro Airbnb, la piattaforma online che gestisce il mercato degli affitti a breve/brevissimo termine.
I corifei dell’ideologia liberista difendono a spada tratta queste imprese, presentandole come vittime della mentalità arretrata - nemica delle innovazioni tecnologiche - di amministrazioni pubbliche che (per biechi motivi elettorali)
Mentre si annuncia il diluvio, i polli continuano a beccarsi: Renzi inchioda Bersani al tradimento della “ditta”, Fico “gela” Di Maio. L’unico a suo modo razionale è Salvini, che esulta, nella speranza di diventare il Gauleiter della Padania. Anche Macron, va detto, ha preso atto del crollo dell’asse europeista con Merkel e dei suoi sogni egemonici. A Trump ancora non gli hanno spiegato bene la notizia, mentre Putin intasca il premio dei suoi finanziamenti occulti. Renzi addirittura affermava con sicumera alla festa dell’Unità che c’era ragione di credere che i populisti avrebbero perso in Germania.
Ci vorrà tempo prima che i nuovi cortei nazisti con fiaccole sfilino a Berlino (che anzi ha risposto molto bene alle provocazioni di AfD), purtroppo quello che avviene in Germania pesa oggettivamente molto di più delle beghe italiane, sia la campagna paranoica anti-M5s del Pd sia l’incoronazione floppata di Di Maio, e la prima vittima sarà il Quantitative Easing di Draghi e tutte le manovre che ne dipendevano. Infatti nell’immediato il contraccolpo più rilevante dell’ascesa dell’estrema destra sarà il tentativo della Cdu di recuperare i voti persi a destra mediante uno spostamento a destra, tanto più che anche l’ala bavarese, la Csu, minaccia di non formare un gruppo parlamentare unico.
Riceviamo da Paolo di Remigio e volentieri pubblichiamo questo articolo, che appare anche su "Appello al Popolo". M.B.
La scuola pubblica continua a subire lo smantellamento avviato dall’alto sotto il vessillo dell’innovazione didattica. Che questa innovazione copra un piano distruttivo programmato a freddo è implicito nel fatto che la si intende come fine assoluto: nella scuola pubblica attuale non si innova per migliorare, si innova per innovare; dunque l’innovazione la peggiora; e questo peggioramento non è una conseguenza imprevista, ma parte dello sforzo neoliberale di distruzione del settore pubblico.
La persona normale, abituata alla docilità e che preferisce fare da sola anziché dare ordini, non concepisce che esista un’élite abituata a comandare e preoccupata di conservarsi al comando. Questa preoccupazione è però la chiave per comprendere ciò che accade nel mondo e che infine si riflette anche nella scuola: l’impero anglosassone annaspa sotto il peso di un’economia allo sfacelo e delle conseguenze di una geopolitica delirante; i suoi movimenti scomposti con cui si sforza di non essere risucchiata nelle retrovie della storia suscitano inaridimento culturale, miseria materiale, migrazioni, guerre, mentre il suo apparato propagandistico – non solo i media: tutto l’attuale ceto politico europeo è ridotto a questo ruolo – è mobilitato per imprimere nella mente di tutti che la guerra è attuazione di democrazia, la migrazione esercizio di diritti, la miseria materiale è razionalità economica, l’inaridimento culturale creatività.
Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terranno due referendum promossi dai presidenti (pardon, governatori) leghisti Maroni e Zaia al fine di avere l’avallo per chiedere al Governo e al Parlamento una maggiore autonomia. E già qui si vede che si tratta di referendum farlocchi: una tale richiesta Maroni e Zaia potrebbero tranquillamente farla già da oggi, quindi quello che si vuole è un plebiscito, pura propaganda.
A questi referendum si affiancano le mozioni presentate nelle regioni del sud dall’ormai ineffabile M5S per l’istituzione della giornata della memoria delle vittime dell’Unità d’Italia. Così. Di colpo. Senza nessun preliminare ragionamento sulla complessità del processo unitario e dei suoi effetti, sulla natura di classe dell’unificazione. Aria di elezioni, insomma.
Si tratta sì delle ennesime armi di distrazioni di massa. Ma, in realtà, creano confusione e, per questo, sono cose importanti e pericolose. Sono importanti per la prospettiva del paese e delle classi popolari che lo abitano. Sono pericolose perché coincidono con gli interessi dell’imperialismo statunitense e di quello tedesco (per ora – e ancora per poco? – subordinato al primo, ma per noi non meno letale).
L’Italia vive da tempo una situazione di stallo. Più o meno dall’entrata nell’Unione Europea e dalla firma del trattato di Maastricht: 7 gennaio ’92. Come si vede il periodo coincide con il sorgere della cosiddetta seconda repubblica e degli equivoci ideologici che l’hanno generata ed accompagnata.
Le immagini della nuova, ennesima, gazzarra razzista in periferia spostano sempre un po’ più avanti i confini del degrado umano in cui siamo costretti a vivere. Sempre più difficile resistere alla tentazione di incattivirci sopraffatti da questo disfacimento sociale che porta dei pezzenti a cacciare altri poveracci. Il riflesso di liquidare la questione attraverso le lenti ideologiche del razzismo diffuso, del neofascismo strisciante, è forte e, a volte, insormontabile. Eppure bisogna continuare a resistere alla tentazione: a smarrirsi sarebbe il cuore della questione, la gestione politica di questa guerra tra poveri. Al Trullo ieri mattina a una famiglia italiana è stato impedito l’accesso all’alloggio Erp a cui aveva diritto. Il motivo è squisitamente razziale: il colore della pelle svelava le origini eritree della famiglia. Tanto è bastato per inscenare il pogrom razziale. Per comprendere meglio la vicenda va però allargato il quadro di questa fotografia desolante, disumana. L’alloggio era precedentemente occupato da un’altra famiglia italiana, cacciata perché appunto senza requisiti. Il corto circuito razzista è partito così in automatico: si caccia una famiglia italiana in difficoltà per inserire una famiglia “di negri”. Qualche indizio che questi scontri rispondano a una volontà, gestiti in tal senso dai dipartimenti competenti, lo possiamo ritrovare nella sequela di accadimenti simili avvenuti negli ultimi tempi.
Col termine ideologia si
era
soliti indicare, nel XX secolo, una congerie di credenze
fasciate insieme, provenienti da campi eterogenei del sapere e
del sentire e volte ad
orientare un gruppo sociale o la società in toto.
Eppure nella fase che stiamo vivendo, dove ormai appare
inappropriato attribuire il
termine «congiunturale» alla depressione economica e la crisi
sembra diventata una caratteristica del nostro modo di vivere
(ancor prima
della crisi economica giungeva alle nostre orecchie, in elegie
meste o marce trionfali, la formula di «fine della storia»), è
presente un’ideologia? Difficile credere che aspetti
caratteristici di questo frangente temporale ci orientino
verso qualcos’altro: la
tendenza a rivolgersi al passato si accompagna per la prima
volta ad un’immaginazione futura che è sempre la stessa (il
futuro che ci
aspettiamo messianicamente è mutatis mutandis quello
dell’evoluzione tecnologica sognato già nel dopoguerra e nel
boom
economico degli anni ’60). Sicuramente, e questo lo vedremo
accompagnandoci alle riflessioni del filosofo sloveno Slavoj
Žižek, emerge
una nuova visione, un codice mentale che ci permette di
adattarci sia nell’interpretazione della realtà socio-politica
sia nella nostra
stessa sopravvivenza in questo orizzonte. Ma è, l’adattamento,
il modo migliore d’affrontare una simile condizione?
Il programma economico della Costituzione: un confronto con Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro. I problemi che nascono dallo svuotamento dello Stato nazionale e dalla possibilità reale di incidere dei lavoratori nella vita pubblica. La questione centrale della proprietà. Dall'impianto costituzionale emerge una visione culturale e politica che va al di là delle ricette di Keynes
Cosa vuol dire, nelle condizioni del mondo di oggi, lottare per l'applicazione della Costituzione del 1948, che fonda sul lavoro la nostra Repubblica democratica? Il tema, ignorato per anni e colpevolmente messo in sonno dai partiti subito dopo il clamoroso risultato del referendum del 4 dicembre 2016, che ha respinto la controriforma renziana orientata a deformare l'assetto costituzionale secondo gli interessi del capitale finanziario e di un'oligarchia di comando, è stato con efficacia riproposto all'attenzione del dibattito pubblico dall'Assemblea per la democrazia e l'uguaglianza, organizzata da Anna Falcone e Tomaso Montanari al teatro Brancaccio di Roma il 18 giugno scorso.
In questo nuovo contesto indubbiamente suscita interesse il saggio di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro dal titolo La Costituzione come programma economico, pubblicato sul numero 4/2017 di Micromega in un almanacco di economia che esplicitamente propone di «tornare a Keynes». Una visione che, sebbene gli autori non lo dichiarino in modo esplicito, sul terreno politico inevitabilmente ci riconduce al compromesso socialdemocratico, e dunque alla pratica politica del riformismo.
Diamo qui inizio a un nuovo
«feuilleton»1, dedicato
alla classe media nella lotta di classe. La classe media è
l'oggetto di
una sovrabbondante produzione nell'ambito della letteratura
politica e sociologica borghese, ma è ampiamente trascurata
dalla teoria comunista
attuale. Cercheremo di rimediarvi. Dato che la questione è
proteiforme, ci limiteremo al campo della classe media salariata
(CMS) nel
capitalismo odierno. Le sue lotte sono numerose, talvolta
spettacolari e violente, e scoppiano ovunque nel mondo. Ma non
è questa la ragione
principale per cui pensiamo sia necessario affrontare la
questione. La nostra preoccupazione centrale non è in effetti
la quantità, ma
la natura di queste lotte e il loro rapporto con quelle del
proletariato. In definitiva, dalle numerose analisi parziali
che dovremo sviluppare,
speriamo di trarre una visione d'insieme del problema della
CMS nel contesto di una rivoluzione comunizzatrice. I
risultati ai quali perverremo devono
essere considerati come provvisori e aperti alla discussione.
In un primo tempo, cercheremo di definire il campo e l'oggetto delle nostre investigazioni (episodio 1), di porre le basi per una teoria della classe media (episodio 2), e di servirci di questi risultati per analizzare il caso del movimento francese del 2016 contro la riforma El Khomri (episodio 3).
La “questione Catalogna” fa emergere le contraddizioni analitiche e teoriche della variegata realtà della sinistra italiana cosiddetta radicale e dei comunisti.
Ovviamente è quasi un riflesso condizionato condannare l’intervento della polizia. Scontato è parteggiare per il popolo catalano che vuole un referendum: un referendum non si nega a nessuno. La sinistra in tutte le sue versioni è stata sempre favorevole a tutte le lotte di liberazione nazionale, anche perché, quelle lotte erano quasi sempre orientate alla costruzione del socialismo e vedevano il movimento operaio e contadino protagonista. Ma da tempo la lotta per il socialismo è stata abbandonata dalla sinistra e i comunisti stessi il socialismo non lo sanno più declinare. Ed è per questo che le cose scontate finiscono qui. Tanto più che siamo in una fase politica completamente nuova.
Da una parte la globalizzazione liberista occidentale ha incontrato una forte resistenza. Viviamo in un mondo multipolare, anche se le conseguenze di questo fatto non si sono ancora pienamente manifestate. Dall’altra c’è l’Unione Europea, la crisi del super-stato federale e il passaggio ad un modello a velocità tedesca, col forte protagonismo di due nazioni (l’altra è la Francia), ben superiore a quello degli asfittici organismi comunitari.
Le ultime elezioni tedesche hanno riconfermato il tracollo del quadro politico tradizionale in Europa. È l’esito scontato della “politica unica” imposta dal Trattato di Maastricht, che delegittima preventivamente ogni mediazione sociale in nome della “libera concorrenza” e della “stabilità dei prezzi”, cioè privatizzazioni da un lato e deflazione, disoccupazione e pauperismo dall’altro.
In Francia la dissoluzione di un Partito Socialista percepito come nemico del lavoro, ha addirittura anticipato la scadenza elettorale, consentendo all’oligarchia bancaria francese di confezionare un candidato come Macron, al quale probabilmente è stata aperta la strada anche intimidendo e ricattando la principale avversaria, Marine Le Pen, costretta con qualche scheletro nell’armadio ad annacquare il suo messaggio antieuropeista a ridosso delle elezioni.
L’Europa che faceva la voce grossa e assumeva toni sprezzanti nei confronti del transfuga Regno Unito sembra ritornare a tremare di fronte al pericolo dei “populismi”. D’altra parte bisogna domandarsi se questi “populismi” non costituiscano il terreno principale di una manipolazione di consensi e dissensi forse non gestita direttamente dall’oligarchia UE ma dall’azione di forze esterne. L’Eurocrazia ha creato in Europa un laboratorio social-lobbistico-finanziario che può rappresentare un terreno di sperimentazione anche per altri soggetti gestori di obiettivi del tutto propri.
Le elezioni per il rinnovo del Bundestag hanno inflitto un durissimo colpo alla Grande Coalizione di governo: mai CDU-CSU e SPD avevano ottenuto un risultato così magro negli ultimi 70 anni. Pesano la politica delle “porte aperte all’immigrazione” che ha caratterizzato la legislatura, ma anche il malessere economico delle fasce più deboli, ingabbiate tra “mini-job” e redditi stagnanti: due fattori che hanno gonfiato il voto anti-sistema e sancito l’exploit di Alternativa per la Germania, soprattutto nella ex-DDR. L’inamovibile Angela Merkel resta alla Cancelleria, ma la formazione del nuovo governo sarà tutt’altro che facile: pessima notizia per la “riforma dell’eurozona” che avrebbe dovuto essere lanciata a breve dalla coppia Macron-Merkel. Il tempo, infatti, sta scadendo per tutti.
I grandi sconfitti delle elezioni tedesche: il presidente Emmanuel Macron e l’eurozona
Domenica 24 settembre si è svolto il secondo ed ultimo appuntamento elettorale del 2017 di rilevanza strategica: 61 milioni di tedeschi sono stati chiamati alle urne per il rinnovo del Bundestag e per decidere chi guiderà la Germania nella prossima (decisiva) legislatura. L’attesa attorno all’appuntamento era grande, per due motivi: primo, si trattava del primo voto nazionale dopo l’ondata migratoria record del 2015/2016, secondo, si sarebbero decise le sorti del “leader del mondo libero”1, Angela Merkel, promossa a beniamina dell’establishment liberal dopo la debacle di Hillary Clinton.
Con il mutare delle sorti della guerra in Siria, il rischio di un confronto militare diretto tra le forze russe e americane impegnate su fronti opposti nel paese mediorientale è cresciuto pericolosamente nelle ultime settimane. Soprattutto nella provincia orientale di Deir Ezzor è sempre più chiaro il tentativo degli Stati Uniti di ostacolare, tramite i gruppi armati che essi appoggiano più o meno apertamente, l’avanzata delle forze governative siriane sostenute da Russia, Iran e Hezbollah.
Gli sviluppi dei giorni scorsi sono sembrati particolarmente preoccupanti, con Mosca che ha denunciato più di un attacco contro le proprie postazioni e quelle dell’esercito di Damasco, puntando il dito direttamente contro le forze speciali americane presenti illegalmente sul territorio siriano. Lunedì, poi, il vice-ministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, ha accusato la “politica ambigua” degli USA in Siria per la morte del generale Valery Asapov e di due colonnelli in un attacco contro il quartier generale dell’esercito siriano nella città di Deir Ezzor.
Asapov è l’ufficiale russo più alto in grado a essere ucciso in Siria dall’inizio del conflitto e, secondo molti osservatori, la sua morte corrisponde a una sorta di dichiarazione di guerra non ufficiale di Washington contro Mosca.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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Jason W. Moore: Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell'era della crisi planetaria, Ombre Corte, 2017
L’uomo del XX secolo si è emancipato dalla natura come quello del XVIII dalla storia. Storia e natura ci sono diventate altrettanto estranee, nel senso che l’essenza dell’uomo non può più essere compresa con le loro categorie.D’altronde, l’umanità che per il XVIII secolo non era, in termini kantiani, più che un ideale regolativo, è oggi diventata un fatto inevitabile. [Nel]la nuova situazione […] l’umanità ha effettivamente assunto il ruolo precedentemente attribuito alla natura o alla storia. Hannah Arendt (2004: 413)
Il libro che avete tra le mani rappresenta uno degli interventi più significativi all’interno del dibattito sul concetto di Antropocene, coniato dal microbiologo Eugene Stoermer negli anni Ottanta del XX secolo e reso celebre dal Nobel per la chimica Paul Crutzen a partire dal 2000 (Crutzen e Stoermer 2000). Ultimamente il termine è divenuto una sorta di moda, una parola accattivante, in particolare nell’ambito delle scienze sociali – come dimostra il lancio di tre influenti riviste internazionali esclusivamente dedicate: Anthropocene, The Anthropocene Review ed Elementa. Anche il mondo della stampa generalista ha reagito con entusiasmo: Guardian, New York Times ed Economist hanno frequentemente trattato del tema, rimbalzato di tanto in tanto anche in Italia sulle pagine di manifesto, Repubblica e Corriere della sera.
Ci sono buone ragioni per prevedere che l’irregolarità, la flessibilità, l’incertezza e l’imprevedibilità saranno la nuova ‘condizione normale’ del mondo del lavoro nell’era imminente del capitalismo digitale globale
Siamo
circondati
da entusiasti che pubblicizzano un meraviglioso nuovo mondo di
“fabbriche intelligenti”. Tra questi vi sono rappresentanti
dei governi
come i ministri dell’industria del G7, le associazioni di
imprenditori e datori di lavoro e gli amministratori delegati
di grandi aziende, ma
anche molte personalità del mondo accademico e addirittura
sindacalisti. Cercano di convincerci che in un prossimo futuro
una digitalizzazione
del settore manifatturiero e persino dell’economia in generale
accresceranno, in primo luogo, l’efficienza e la flessibilità
di
tutto il processo produttivo; in secondo luogo, cambieranno la
catena del valore nella misura in cui le specifiche richieste
del cliente potranno
essere incorporate in tutte le fasi del processo di produzione
unitamente ai relativi servizi. In terzo luogo, la
digitalizzazione
dell’industria dovrebbe offrire metodi di produzione
supplementari alle piccole e medie imprese e, in quarto luogo,
creare nuove
opportunità di lavoro qualificato. Alla fine, tutti questi
sviluppi contribuiranno a stimolare una nuova ondata di
consumo di massa che
porterà crescita economica ma anche uno sviluppo sostenibile.
In Germania sia le agenzie governative che le organizzazioni imprenditoriali sono molto favorevoli a ciò che chiamano “Industria 4.0”, ma anche i sindacati concordano con questa visione.
Il commentatore Moi, gran
collezionista di
bizzarrie, ci segnala un episodio avvenuto l’altro giorno a
Londra.
I media di destra italiani, molto compiaciuti, parlano in sostanza di una rissa tra femministe “militanti del movimenti TERF” e transessuali/transgender, a proposito dell’uso dei bagni delle donne.
Cerco di approfondire, e trovo che la faccenda ha risvolti interessanti.
Innanzitutto, non esiste alcun “movimento TERF”, che è semplicemente un insulto (trans-exclusionary radical feminists, oppure più retoricamente, trans-exterminationist radical feminists).
Poi scopro che non c’è stata una rissa, c’è stata un’aggressione da parte di un militante trans (uso l’abbreviazione per non dover scegliere tra “transessuale” e “transgender”) contro una signora sessantenne.
Cerco la signora in rete, e scopro che non si tratta di una persona con fissazioni ideologiche: Maria MacLachlan è una donna lucida, colta, molto anglosassone che sa ragionare e si è fatta un sacco di nemici criticando l’omeopatia.
La
sera del 15 aprile 2015 il ministro delle finanze greco Yanis
Varoufakis ha un incontro riservato con Lawrence Summers.
Nella penombra del
bar di un albergo di Washington, davanti a un bicchiere di
whisky, l’ex consigliere economico di Obama pone a Varoufakis
la seguente
alternativa: deve decidere se essere un insider, oppure un
outsider. Se sceglie la prima strada, oltre all’accesso alle
informazioni rilevanti
ha la possibilità di partecipare a importanti decisioni sulle
sorti dei popoli. Deve però rispettare una regola
fondamentale: non
ribellarsi agli altri insider, né denunciare agli outsider
quello che gli insider dicono e fanno. Se invece sceglie di
essere un outsider,
mantiene la libertà di esprimere le proprie opinioni, ma paga
questa libertà con l’essere ignorato dagli insider, dunque con
l’irrilevanza delle sue posizioni. L’apertura del libro di
Varoufakis Adults in the Room, è illuminante. Quello
che molti
intuiscono, fin dalle prime pagine del volume è raccontato con
precisione: il meccanismo di costruzione del potere è
costituito da reti
e canali d’informazione all’interno dei quali politici ed
economisti, ma anche opinionisti e mezzi di comunicazione,
sono costretti a
coprire la verità, oppure, se scelgono di dirla, pagano questa
scelta con l’esclusione dai circuiti informativi e dal potere.
L’opacità e la copertura delle informazioni rilevanti, o più
semplicemente l’attitudine alla menzogna, sono in sostanza la
naturale condizione di ogni insider.
Le politiche di stimolo della domanda del secondo dopoguerra avevano portato a una crescita senza precedenti nel mondo occidentale, a una forte riduzione delle disuguaglianze, e a un aumento importante degli scambi commerciali. La crisi petrolifera dei primi anni settanta segnò un punto di svolta: a uno shock dal lato dell’offerta (impennata del prezzo delle materie prime) si rispose con un ulteriore stimolo della domanda, del resto si era “tutti keynesiani” in quel periodo. L’ovvia conseguenza fu una pressione sul livello dei prezzi; l’alta inflazione generalizzata fu l’occasione propizia per la contro-rivoluzione neo-liberista, che anziché correggere l’errore di politica macroeconomica commesso in quel frangente, promosse un rovesciamento radicale del sistema di governo dell’economia.
Al pragmatismo economico del secondo dopo guerra si sostituì l’ortodossia monetarista. Le politiche di stimolo della domanda dovevano essere bandite, indipendentemente dal contesto congiunturale. La politica di bilancio dei governi doveva essere disciplinata dal mercato, spezzando il coordinamento con la politica monetaria; ancora meglio se quest’ultima fosse stata ulteriormente limitata dal vincolo esterno di un’unione monetaria. L’inflazione, tradizionale spauracchio del capitale, venne invece presentata come il peggior nemico del lavoratore, del piccolo imprenditore, del pensionato.
Se cerchiamo “Cina” nella Wikipedia italiana, comparirà sullo schermo un lungo testo ricco di dati e – almeno in apparenza – asettico e neutrale, come ci si attende da una voce d'enciclopedia. Ma se diamo un'occhiata alla nota 3 e alla nota 28, scopriamo che la fonte ufficiale del tasso di crescita della popolazione cinese è un dato della CIA che risale al 2013. Qua e là troviamo anche altri siti governativi, come www.dandc.eu, riconducibile al governo tedesco. Il punto di vista del governo cinese, contraddistinto da indirizzi “gov.cn”, è presente con sole 4 citazioni: due in riferimento al sistema sanitario, due alla questione dei diritti. Sorprendentemente poche, in una voce che conta ben 234 note.
Come verificare le fonti
La critica delle fonti è qualcosa che un ricercatore in discipline umanistiche è abituato a fare; non così il grande pubblico dei lettori di Wikipedia, legati al sito da un contratto di fiducia. Qualche volta la fonte di una notizia è palese, talvolta implica una ricerca più faticosa e approfondita. Il modo migliore per lavorarci è effettuare ricerche nella pagina “modifica wikitesto”: compare allora il codice sorgente della pagina e diviene più semplice effettuare ricerche sulle parole che ricorrono nei link.
Due movimenti guidano la nostra società: da un lato, la promessa si vivere una condizione post-mortale, priva di doveri e confini; dall’altro, l’assoluta impotenza di quella promessa, che cade davanti alla complessità del reale. I giovani sono le prime vittime del sogno fallito dell’Occidente: irrisi nella loro ricerca di fede, derisi quando chiedono ordine e forma, si vedono negare il conflitto, unica, vera risorsa per uscire dalla brutalità dei nostri tempi tristi. Ne parliamo con lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag.
* * * *
Abbiamo negato il conflitto ma non abbiamo eliminato brutalità e violenza…
Penso che ogni compressione innaturale della conflittualità ogni ricerca di cancellare i conflitti conduce inevitabilmente allo scontro. Viviamo nel mezzo di due culture che hanno una struttura speculare. In Occidente e nella sua banlieue, siamo circondati da un movimento che tende a dire “tutto è possibile, tutto è lecito, ogni frontiera va abolita, bisogna godere senza limiti, l’immortalità è qui, l’uomo biologico è superato”. A questo sogno -o incubo – di superare ogni limite o frontiera, si accompagna una realtà di impotenza assoluta. Questo è il paradosso di ciò che chiamiamo “Occidente”
Come se le promesse venissero fatte al solo fine di non vederle realizzate…
Noi che viviamo in un sogno fatto di promesse di potenza assoluta, viviamo al contempo in una realtà fatta di assolute impotenze.
Il governo spagnolo doveva fare - in maniera intelligente, però, e in modo da evitare vittimismi - ciò che da comunisti avremmo chiesto a qualunque governo italiano, in caso di imminente pericolo di secessione ovvero di attentato verso la democrazia moderna.
Il colore politico contingente delle forze in campo (che comunque non è univoco) non conta nulla, come nulla conta a legittimare quanto accade oggi ciò che accadde quasi un secolo fa. Contano soltanto la situazione concreta e le tendenze storico-politiche reali in atto.
All'estremo della reazione si collocano le forze secessioniste, e anche per quelle per le quali è più facile, il richiamo alla Guerra civile spagnola rimane solo un orpello retorico che rovescia il significato di quegli accadimenti. Un ruolo oggettivo di progresso incarnano invece le forze che difendono lo Stato nazionale, con tutti i limiti e le contraddizioni di questo Stato, persino al di là della loro consapevolezza e volontà.
La frantumazione regionale (che cavalca le forme ideologiche più varie) e la formazione di assetti geo-economici a geometria variabile sono parte integrante della distruzione delle istituzioni democratiche. Essi non conducono affatto a una riproposizione del processo democratico su scala continentale ma impediscono semmai di pensare ad un processo di costruzione del Grande Spazio europeo che salvaguardi l'equilibrio nei rapporti di forza politico-sociali e costruisca nuove forme di redistribuzione del potere e della ricchezza.
Nel 1917 la Russia contava 165 milioni di
cittadini, dei quali solamente 2 milioni e 700 mila vivevano a
Pietrogrado. Nella capitale
abitavano 390.000 operai – un terzo erano donne –, tra i
215.000 e i 300.000 soldati di guarnigione e circa 30.000
marinai e soldati di
stanza nella base navale di Kronstadt.
Dopo la Rivoluzione di Febbraio e l’abdicazione dello zar Nicola II, i Soviet, guidati dai Menscevichi e dai Socialisti Rivoluzionari, cedettero il potere a un governo provvisorio non eletto che era deciso a mantenere la Russia belligerante nella Prima Guerra Mondiale e a ritardare la riforma agraria fino all’elezione dell’Assemblea Costituente, rimandata a data da destinarsi.
Inoltre i Soviet avevano richiesto la creazione di commissioni di soldati e avevano dato istruzioni di disubbidire a ogni ordine ufficiale che andasse contro gli ordini e i decreti del Soviet dei Deputati, degli Operai e dei Soldati.
Queste decisioni contraddittorie provocarono una duplice e precaria struttura di potere, caratterizzata da crisi di governo ricorrenti.
Oltre l’escalation militare, c’è un Paese in movimento, oggettivamente lontano dal nostro sentire ma non per questo meno normale
Il
risalire della
tensione lungo il 38° parallelo ha riacceso i riflettori
dei media internazionali sulla Corea del Nord. Salvo qualche
eccezione, tuttavia, a
prevalere sono gli argomenti di sempre: minaccia
nucleare e (presunte) bizzarrie del regime.
Beninteso: la corsa agli armamenti di
Pyongyang è un dato reale, così come non mancano aspetti della
società e del sistema politico nordcoreano che si prestano a
sguardi sbalorditi ed a letture sensazionalistiche. Niente a
che vedere, però, con bufale del tipo: tutti i coreani
sono costretti a
portare i capelli come Kim Jong Un. Ad ogni modo,
quando si osservano determinati fenomeni, che siano di natura
politico-sociale o culturale,
religiosa o di costume, riconducibili a specifiche (e
differenti) forme di civilizzazione o di modernizzazione di un
paese, sarebbe buona regola
togliere dagli occhi le lenti dei propri - altrettanto
specifici e differenti - statuti identitari. Così, forse, si
riuscirebbe a cogliere
perfino quanto c’è di normale
in una società oggettivamente lontana dai propri
luoghi e dal proprio sentire.
Una “via nazionale” al socialismo
Quante volte abbiamo sentito parlare di “regime stalinista”, ovvero di “ultimo bastione marxista-leninista” a proposito della Corea del Nord? Sempre. Cosa c’è di vero? Poco.
Mi ero sempre chiesto cosa fosse
quell'"hypothèses"
che compariva nell'URL del blog di Jacques Sapir: http://russeurope.hypotheses.org/,
ma questo dubbio non era esattamente in testa alla lista delle
mie priorità, e quindi non avevo mai approfondito.
Hypothèses, con Calenda, Revues.org, OpenEdition Books, è una piattaforma informatica inserita nel portale francese Open Edition, un progetto il cui scopo è quello di promuovere la pubblicazione e la discussione di risultati scientifici nell'ambito delle scienze umane e sociali secondo i criteri dell'open access. Tanto per placare subito i lettori fallaciati, chiarisco che qui Soros non c'entra molto: anch'io ho pubblicato in open access, tant'è vero che se cliccate qui potete leggere uno dei miei ultimi articoli. Quindi placate i vostri riflessi pavloviani: la open society è un'altra cosa, e andiamo avanti.
Il portale si articola su quattro assi: pubblicazione di riviste on line (Revues.org), pubblicazione di ebook (OpenEdition), una bacheca di eventi scientifici (Calenda), e un aggregatore di blog, appunto, Hypothèses. Quest'ultimo comprende 2408 blog, fra cui anche LEO (L'Edition électronique ouverte), blog di Open Edition che informa sugli sviluppi del progetto. Il 28 settembre questo blog annunciava che il Comitato scientifico di Hypothèses e quello di Open Edition sospendevano il blog di Sapir, aperto cinque anni or sono, a causa della pubblicazione di post privi di attinenza con il contesto scientifico e accademico del blog.
A fine settembre uno dei principali dirigenti di Podemos, Manolo Monereo, dopo aver parlato del tema dell’alleanza tra Unidos Podemos e i socialisti del PSOE (che potrebbe tornare di attualità in relazione all’avvitamento della crisi), si sofferma sulla questione catalana, che era già presente con forza al momento della formazione del movimento. Nell’intervista ricorda che al momento del 15M (Movimiento degli indignados, nel 2011) le forze di destra in Catalogna reagirono “con una fuga verso l’indipendentismo”. Quel che chiama il “pujolismo” (l’unione di settori della alta e piccola borghesia e di componenti della chiesa che cercano di mobilitare più ampi settori intorno al tema della ‘nazione catalana’) si sarebbe costituito, insomma, con l’espresso progetto di trasformare i disordini sociali, che ponevano la questione della ineguaglianza, in disordini nazionali.
La formazione di Unidos Podemos nasce in questo contesto, preso tra la forbice del PP e degli opposti nazionalismi spagnolo e catalano. E tenta di “giocare dialetticamente con due elementi che erano strettamente correlati: la difesa dei diritti nazionali e la questione sociale come elemento fondamentale”.
In altre parole il tentativo era di connettere le rivendicazioni di maggiore autonomia dal nazionalismo spagnolo con la questione sociale, ovvero, come dice “la questione di classe”.
«Tra i gravi impedimenti che il marxismo volgare frappone alla diffusione e all’influsso del marxismo si annovera proprio questo illecito e fallace irrigidimento dei rapporti reali. Non basta, in risposta, appellarsi a Lenin, che dimostra a più riprese e in varie occasioni come ogni verità si trasformi in errore non appena la si esageri oltre misura»
György Lukacs, Il marxismo e la critica letteraria – premessa all’edizione italiana, Einaudi, 1964
La questione catalana ha fatto chiarezza almeno su di un punto: ha indicato la distanza incolmabile tra chi fa politica e chi parla di politica. In assenza di lotte di classe, la confusione ha portato spesso alla sovrapposizione dei due aspetti. I social network, dal canto loro, hanno acuito drammaticamente tale disordine. Eppure è bastata l’irruzione di un movimento reale per rimettere le cose al loro posto. I commentatori della politica, sovente marxisti dei più duri, ancora si attardano, breviario alla mano, alla ricerca della giusta citazione, della frase granitica, che dovrebbe sgomberare il campo delle facili infatuazioni regionalistiche. La Storia ha parlato, inutile discorrere altrimenti: lo Stato va salvaguardato, anzi, più grande esso diventa migliori le potenzialità delle classi subalterne. Con ciò, fine di ogni illusione piccolo borghese di ritorno al tempo che fu. Le piccole patrie trovano il loro posto nella raccolta differenziata dello spirito dei tempi. Amen. Chi, al contrario, rimane nonostante l’orrore post-moderno un militante politico, nella questione catalana vede un’occasione. Vaglielo a spiegare, ai profeti della logica, l’alchimia della circostanza nella storia. Tempo perso.
«La ricerca unitaria a sinistra procede con imbarazzante difficoltà», cosi qualche mese fa («il manifesto», 28 luglio) Aldo Tortorella prendeva atto di una realtà che da allora non è diventata certo meno difficile. Tortorella, sulla base della sua lunga esperienza di dirigente di primo piano del Pci, suggeriva un’ipotesi di lavoro capace di coniugare la dimensione strategica di lungo periodo della costruzione del nuovo soggetto, con le necessità contingenti della prossima prova elettorale.
Si doveva (si deve) introdurre una salutare distinzione tra i partiti, i movimenti impegnati nella suddetta prospettiva e la rappresentanza parlamentare frutto della necessaria ed auspicabile lista unitaria.
Tale distinzione rende possibile salvaguardare l’ampio e diversificato panorama di elaborazioni ed iniziative politiche dei partiti e movimenti, e l’impegno concreto nell’immediato per una rappresentanza istituzionale non ridotta ai minimi termini.
Certo perché tra le due dimensioni vi sia positiva corrispondenza e non un rapporto improntato a deteriore tatticismo, occorre partire da un nodo analitico comune che sia alla base di un «sentimento comune»: la «critica del mondo costruito sotto l’egemonia del capitale finanziario» (ibidem).
Poche note sugli ultimi avvenimenti in Europa: elezioni in Francia, in Germania, richiesta referendaria per la secessione in Spagna, l’approssimarsi delle elezioni regionali e politiche in Italia e così via.
Nel commentare i fatti di questo periodo mi sono posto questa domanda: a chi parlare? Mi sono dato questa risposta: al vento, si, al vento che nonostante le apparenze si presenta come una novità storica dagli esiti sconvolgenti. Un vento nuovo, complicato, scoraggiante e incoraggiante al tempo stesso, da leggere con metodo materialistico, duro da digerire per i palati ideologici e per chi è appiattito sul presente senza capire la messa in discussione di un intero equilibrio sin qui consolidato da quello che Marx definì modo di produzione capitalistico. Si tratta di scossoni che destabilizzano il cuore di questo modo di produzione, cioè l’Occidente e tutte le classi sociali che si erano sin qui consolidate vanno perdendo il loro equilibrio e perciò sono messe in discussione.
In Germania e in tutta Europa s’alzano i muri e avanzano le destre forcaiole, xenofobe e razziste! Il populismo sembra essere diventato il pericolo numero uno.
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Relazione di Carlo Formenti alla Scuola Estiva “Crisi della democrazia? Lessico politico per il XXI secolo” dell'Università di Trieste
In
un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” nel novembre
del 2016 il direttore del “Wall Street Journal”, Gerard
Baker ha detto che, in futuro, lo scontro politico non sarà
più fra progressisti e conservatori, ma fra globalisti e
populisti. Riletta
oggi, l’affermazione suona come una dichiarazione di guerra.
Eventi come la Brexit, l’elezione di Trump, la disfatta di
Renzi nel
referendum sulle riforme costituzionali, e le preoccupazioni
suscitate dall’ascesa di leader politici come Tsipras (prima
della resa ai diktat
della Troika), Bernie Sanders, James Corbyn, Pablo Iglesias,
Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen , hanno fatto sì che si
costituisse un
poderoso fronte mondiale antipopulista. I media hanno
orchestrato una massiccia campagna propagandistica in sostegno
dei governi guidati dalle forze
politiche tradizionali (conservatori, liberali e
socialdemocratici), invitandole a coalizzarsi contro la
minaccia di forze genericamente definite
populiste – senza distinguere fra le radicali differenze
reciproche - in quanto sovraniste, protezioniste, stataliste e
antiglobaliste,
contrarie cioè alla libera circolazione di merci e capitali e
dunque nemiche del sistema democratico, identificato
tout court con il
mercato. La sostanziale adesione delle sinistre europee – non
di rado anche le radicali – a questo appello antipopulista
delle
élite politiche ed economiche liberiste e dei media
mainstream, introduce uno dei temi di fondo che intendo
affrontare: l’appello ha
funzionato perché le sinistre considerano il sovranismo come
un’ideologia ancora più pericolosa del neoliberismo. Prima di
esaminare questo atteggiamento, occorre però decostruire il
senso del termine populismo.
Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1/2017, dal titolo "L'egemonia dopo Gramsci: una riconsiderazione" a cura di Fabio Frosini, pp. 435-442. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1045/971
Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.
István Mészáros:
Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione,
a cura di R. Mapelli, Punto Rosso, Milano 2016, pp. 1000,
ISBN 9788883511967 (ed.
orig. Beyond Capital: Toward a Theory of Transition,
Merlin Press, London 1995).
È stato da poco pubblicata da Punto Rosso un’opera molto importante di István Mészáros, uno dei principali seguaci di Lukács ancora in vita, edita per la prima volta nel 1995.
Fin dall’introduzione l’autore afferma che il mondo è ormai pienamente globalizzato e l’espansione del capitale può dirsi conclusa. Le alternative sembrano dunque essere tutte interne ad esso, che esercita ormai il proprio dominio attraverso una piena subordinazione del lavoro. Essendo l’opzione socialdemocratica destinata al fallimento, visto che riconosce il dominio del capitale ma anche quello delle società post-rivoluzionarie nelle quali i mezzi di produzione non sono stati socializzati e si sono imposte sia una gerarchizzazione del lavoro che un’aspra repressione interna (l’autore non concepisce la categoria di capitalismo di Stato né quella di socialismo di mercato), queste alternative possono però giungere solo da movimenti extra- parlamentari dei lavoratori.
Si capisce allora il triplice significato del titolo: andare oltre il Capitale di Marx, andare oltre il capitale come sistema di dominio (e non come sistema economico), andare oltre l’originario progetto marxiano.
Con
l’età il fiato si perde. Mi sembra inverosimile essermi
inerpicato per anni sulle le ripide piole di Urbino o, ancora
poco fa, sbrigato
un’ascensione a freccia dall’alberata riva del Darro alla
spoglia sommità del Sacromonte, per non sfigurare davanti al
nipote
erasmiano cui nel frattempo somministravo, in vista di un
esame, sintetiche nozioni sul secolo breve. Allo stesso modo,
diventa faticoso misurarsi con
romanzi e poesie contemporanee e uno ripiega a rileggere i
classici, cercando di scovare quanto gli era sfuggito nelle
frenetiche incursioni
dell’adolescenza. Così, usando i tempi vuoti dell’estate, mi
sono rivolto a due notevoli scrittori d’appendice, scrocconi e
prolifici a cottimo, perennemente indebitati e pure
controrivoluzionari: il legittimista Balzac e il calunniatore
dei naròdniki Dostoevskij.
Qualche piccola sorpresa, magari è ignoranza mia della copiosa
letteratura critica che di certo mi avrà preceduto.
Balzac, un visionario post-industriale
Non è proprio una novità scoprire che sotto il policromo affresco dell’aristocrazia e del sottobosco parigino il «realista» Balzac abbia delineato i rapporti di classe della Francia e l’ascesa irresistibile della borghesia nella prima metà dell’Ottocento – inutile ricordare Marx, Engels, Lukács.
La Catalogna ci darà molto da discutere e da pensare nei prossimi giorni e mesi, e inevitabilmente, in un caso così complicato (che, colpevolmente, negli ultimi tempi, quasi nessuno ha qui in Italia seguito con cura) un giudizio complessivo potrà maturare solo per gradi. Per ora ci limitiamo a fare qualche breve precisazione, anche in risposta ad alcuni commenti ad un nostro recente articolo che ci sono parsi troppo influenzati da “schieramenti preliminari” che in questa vicenda non aiutano molto. Chi sostiene, da sempre o da ieri, la centralità attuale dello stato nazionale come migliore risposta al dominio capitalista è generalmente contrario all’indipendentismo catalano. Chi appoggia le “piccole patrie” è entusiasticamente favorevole. E il ragionamento troppo spesso finisce lì. Per noi la cosa è invece molto meno lineare.
Facciamo una premessa: noi pensiamo che la lotta di classe e popolare debba prendere per concretezza le mosse dallo stato nazionale e rivendicarne l’autonomia e la sovranità, come condizione necessaria ad iniziare un mutamento politico all’interno ed un nuovo patto cooperativo fra stati all’esterno. E pensiamo che le secessioni localistiche o regionalistiche siano più un sintomo che una cura del male: derivano dall’indebolimento degli stati voluto dal capitalismo globalista, ed aggravano questo indebolimento aumentando la disgregazione.
Nel paese dell’emerganza-lavoro solenne e costante, di lavoro si parla poco, e soprattutto male. Ognuno di noi è abituato al balletto delle cifre ogni volta che esce un dato Istat, una sberla Ocse, una previsione sballata. Sotto – sotto la coltre fumosa dello snocciolamento quotidiano di parole e propaganda – c’è il baratro, cioè la condizione del lavoro oggi in Italia. Marta Fana, giovane dottore di ricerca in economia a Science Po, a Parigi (la leggete ogni tanto anche su questo giornale) si mette a scavare lì dentro. L’avevamo conosciuta come puntuta scrutatrice di cifre, allorché – col Jobs act operativo da pochi mesi – il ministro del lavoro Poletti aveva sparato cifre paradossali, lei le aveva pubblicamente smentite, e dal ministero arrivarono balbettanti richieste di perdono.
Ma qui Fana fa un’altra cosa, ci racconta quel che del lavoro non si dice quasi mai: non solo i suoi numeri, già deprimenti, ma la sua qualità, anzi la sua perdita di qualità. Esce in questi giorni Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza), e il titolo dice la tesi. Ma è la sua dimostrazione che lascia basiti. Perché Fana mette in fila tutti i vagoni di un trenino che corre velocissimo – da decenni – verso l’impoverimento del lavoro: un preciso, costante e lucidissimo disegno di proletarizzazione dei lavoratori italiani. Deregolamentazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni di servizi, perfetta aderenza del lavoro precario alle esigenze contingenti delle imprese, ricatti, rimodulazioni al ribasso dei contratti.
Il re dell’Arabia Saudita, Salman bin Abdulaziz Al Saud, si recherà a Mosca giovedì e vi resterà fino al 7 ottobre. Una visita più che significativa, dal momento che è la prima volta che un re saudita visita la Russia.
La visita servirà a trovare accordi sulle fonti energetiche, dato che i due Paesi sono i più importanti esportatori del mondo nel settore. E a siglare accordi riguardanti infrastrutture e altro. Questa la parte commerciale, che ha la sua importanza.
Ma il re saudita non si recherà a Mosca solo per siglare accordi di natura energetica e commerciale. Ben altre sono le questioni che sottendono la visita.
Anzitutto il nodo Siria: la guerra ha visto l’Arabia Saudita sostenere in maniera massiccia le milizie jihadiste anti-Assad, a sua volta sostenuto dalla Russia.
La visita di Putin ad Ankara, avvenuta il 28 settembre scorso, ha segnato la conclusione di un lungo processo negoziale che ha visto impegnate Russia, Turchia e Iran per mettere ordine nel conflitto siriano.
Una serie di negoziati avvenuti ad Astana, capitale del Kazakistan, hanno definito delle zone di de-escalation che hanno congelato il conflitto in vaste aree della Siria.
Stati, secessioni, sovranità. Partire da due esigenze apparentemente divergenti, ma complementari: partecipazione e cooperazione. Una riflessione di Fabio Marcelli sul saggio di Pierluigi Fagan
Il saggio di Pierluigi Fagan “Lo spazio del politico nel mondo multipolare. Nuovi Stati, secessioni, sovranità”, pubblicato sul suo blog e su Megachip, mi sembra affronti alcuni argomenti di fondamentale importanza nell’attuale congiuntura storica.
Dobbiamo partire, a mio avviso, da due esigenze apparentemente divergenti, ma in realtà complementari, che sono da un lato quella della partecipazione e dall’altro quella della cooperazione.
La prima richiede spazi di riferimento territoriali adeguati a consentire ai cittadini di esprimere la loro volontà sui problemi e le scelte da compiere, che non possono ovviamente essere enormi.
La seconda invece richiede il coordinamento delle scelte e delle risposte da dare ai problemi comuni, che oggi sono, in misura crescente, anche dei problemi globali, nel senso che interessano tendenzialmente l’insieme dell’umanità.
In un certo senso, quindi, si tratta di rendere compatibili e sinergici tra loro localismo e universalismo.
Quella
che segue, è la trascrizione di un nastro registrato di
nascosto durante
un'assemblea nazionale di centri sociali occupati.
Ovviamente, non posso rivelare la fonte che mi ha inviato la
registrazione.
L'assemblea in questione si è svolta in un centro sociale
del Nord Italia nel marzo del
2012, ovvero un anno dopo l'inizio della Guerra Civile
Siriana.
Antagonista 1: Compagni, dobbiamo prendere posizione sulla
Siria.
Antagonista 2: E perché?
Antagonista 1: Perché
sarà una faccenda lunga che avrà grosse ripercussioni quindi -
anche se abbiamo ben altro a cui pensare, come per esempio
Salvini - una
posizione la dobbiamo prendere per forza.
Antagonista 3: Beh, la guerra civile è stata fomentata dagli
Stati Uniti...
Antagonista
1: No, questa è la lettura di fascisti, eurasiatisti e
rossobruni.
Antagonista 2: Giusto! La lettura corretta è che il governo
siriano è nazista e poi è sostenuto da Putin che è omofobo!
Antagonista 1: Esatto. Solo che neppure possiamo schierarci
così apertamente con gli Stati Uniti.
Non dobbiamo accettare un’organizzazione della società in cui il futuro per la maggior parte degli individui costituisce inesorabilmente una minaccia
Come riportato nell’articolo sul Corriere della Sera del 22 agosto 2017, che riprende L’Avvenire, ci troviamo di fronte ad un cambiamento epocale: è iniziata, già rilevata dall’ISTAT, una brusca inversione di tendenza della prospettiva di sopravvivenza della popolazione italiana. Ciò è drammatico non solo in sé, ma anche in quanto è il risultato, come ipotizzato dallo stesso Avvenire, giornale cattolico, della riduzione delle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale e dell’assistenza agli anziani.
E’ da rilevare che una riduzione della prospettiva di vita di una popolazione è un evento doloroso che storicamente ricorre in coincidenza di guerre o crisi sociali, politiche ed economiche di proporzioni e durata gigantesca. Un esempio per tutti, in tempi recenti: il crollo di quasi venti anni della prospettiva di vita della popolazione russa maschile nel periodo compreso, all’incirca, tra il 1980 e il 2000 -in seguito parzialmente recuperato- conseguente ai processi di disfacimento dell’URSS.
La cosa più paradossale è che, pur di fronte a questa drammatica ed avvilente riduzione della prospettiva di vita della nostra popolazione (ma dove è il progresso?), prosegue sfacciatamente l’aumento dell’età pensionabile.
Nei giorni scorsi una
fotografa
naturalista negli Stati Uniti ha fotografato un enorme pesce
spiaggiato su un litorale. Si trattava di una grossa anguilla
marina che vive nelle
profondità dell’Oceano Atlantico. Comprensibilmente
incuriosita dalle dimensioni dell’animale, la fotografa non ha
consultato
nessuna enciclopedia o atlante naturalistico (ve ne sono anche
online fruibili gratuitamente). Ha semplicemente postato la
foto su un social network
chiedendo agli amici di rispondere al quesito su che tipo di
animale fosse. Dopo poco rispondeva un biologo marino del
Smithsonian Institute degli USA
svelando l’arcano. Questa notizia, curiosa ma decisamente
minore, ha fatto però il giro delle agenzie internazionali e
ha campeggiato a
lungo sulla home page del principale quotidiano online
italiano. Ovviamente, era ben specificato il nome del social
network in questione. Che otteneva
quindi un bel po’ di pubblicità.
Lo stesso social network è poco sviluppato in Italia, battuto da un suo concorrente con molti più utenti. Nonostante questo, la maggior parte dei politici, dei giornalisti e degli opinion maker ci scrive sopra. Questo fa sì che, negli articoli di informazione, il nome del social network continui a essere presente. Eppure, la logica imporrebbe di far circolare il più possibile le proprie opinioni e quindi sarebbe apparentemente più logico utilizzare altre piattaforme.
Il libro
del 2006 di Samir Amin indica
una prospettiva che porta ad un maggior livello di chiarezza
la sua interpretazione dell’internazionalismo socialista da
lungo tempo elaborata e
che abbiamo ritrovato, dopo dieci anni, espressa
nell’intervista “La
sovranità popolare unico
antidoto all’offensiva del capitale”. In quel
recente intervento l’economista egiziano propone
un’interpretazione
della crisi aperta nel 2007-8 e giunta al suo decimo anno,
come esaurimento e insieme radicalizzazione del modello
monopolista ed estrattivo,
intrinsecamente imperialista e insieme completamente
impersonale, che prende strada a partire dalla crisi di
valorizzazione nella quale incappa il
capitalismo del dopoguerra a partire dagli anni sessanta.
Nel 2016 Amin dirà che immaginare che “di fronte ad una crisi del capitalismo globale la risposta debba essere egualmente globale” è solo una “tentazione”, ed sorta di ingenuità, causa di sicura sconfitta. Questo libro si chiuderà sulla stessa questione: il superamento deve avvenire punto per punto, e partendo, come è sempre avvenuto, dai luoghi in cui il controllo è più debole, o da quelli in cui le contraddizioni e le conseguenze inaccettabili sono più forti. Per superare, in ogni singolo luogo (ovvero nazione) la tendenza del capitalismo a schiacciare le periferie ed estrarre da esse le risorse, bisognerà fare politica e prendere il potere. Bisognerà costringerlo a fare i conti con le forze popolari, i progressi si potranno poi propagare.
Come avevamo scritto nel commento del bel libro di Carlo Formenti “La variante populista”, bisogna “riconquistare la sovranità popolare”, cosa che passa anche per il tentativo di articolare “un’idea postnazionalistica di nazione”.
Un’altra
tipologia di critiche nei confronti del liberalismo e del
capitalismo è quella propria di quegli autori i quali, con
strategie e punti di
riferimento diversi, hanno provato a rovesciare la logica
liberale dominante in favore di una critica sociale che parta
dal basso e che valorizza
l’attivismo, la creatività, l’autenticità dei “popoli” o delle
“moltitudini” in ordine alla rottura
o, meglio, alla resistenza nei confronti del paradigma
liberale dominante. Nel corso del Novecento è possibile
distinguere, per linee generali
due varianti di questa sensibilità antiliberale, una di destra
e una di sinistra. Inoltre, è giusto ricordare che vari regimi
politici
antiliberali hanno talvolta trovato un alleato in settori
interni al mondo cristiano i quali, seppur con finalità e
motivazioni diverse,
nutrivano un’analoga ostilità nei confronti dei nuovi valori
capitalistici e liberali.
Pertanto, nei prossimi sottoparagrafi proverò a fornire un quadro sintetico, ma spero esaustivo sul piano concettuale, di queste varie forme di critiche “dal basso” della tradizione liberale e capitalistica.
1. Fascismi, populismi di destra e cattolicesimo antiliberale
L’esperienza storica del nazismo e del fascismo rappresenta una lotta radicale, dagli esiti tragici, contro l’affermazione dei valori liberal-democratici.
Una nuova crisi in Europa orientale? Probabilmente nel 2019. È questo che prevede l’analisi del think-tank americano The National Interest, che rivela come tra un anno e mezzo la Russia potrebbe chiudere definitivamente il passaggio di idrocarburi attraverso l’Ucraina, attivando una crisi senza precedenti sia a livello economico che politico nel sistema euro-atlantico. La frattura fra Ucraina e Russia esplosa simbolicamente in piazza Maidan è stata per troppo tempo considerata una frattura politica e non economica. In sostanza, si è superficialmente ritenuto che il fatto che Kiev abbandonasse Mosca sul piano politico aprendosi all’Occidente, non avrebbe comportato un problema fondamentale di ordine economico nella rottura delle relazioni bilaterali fra i due Stati. Il tutto si fonda sostanzialmente su una lettura ormai datata delle necessità economiche russe, che fino agli anni Novanta del secolo scorso si basavano effettivamente sul mantenimento della precedente rete infrastrutturale sovietica. Era dunque ritenuto abbastanza ragionevole ritenere che la neonata Federazione Russa dovesse in qualche modo forzatamente mantenere i legami economici con gli Stati satellite, a prescindere dal loro orientamento politico in campo internazionale. L’Ucraina, per esempio, comprava a prezzi molto più bassi di quelli di mercato il gas russo, consapevole che la Russia avesse necessità di mantenere il blocco dell’ex-Urss anche per garantirsi una certa forza.
«Kim è chiaramente un matto, un pazzo (Madman), che verrà messo alla prova come mai prima» (Donald Trump, all’Assemblea Onu, contro il capo nord-coreano Kim Jong-un). Pronta la risposta di Kim: «Trump è un folle rimbambito che pagherà caro la minaccia di totale distruzione del nostro paese». Trump a Kim: «Sei un piccolo uomo-razzo (Rocket Man)» - Trump a Kim: «E tu una canaglia e un bandito, desideroso di giocare con il fuoco». Ma col fuoco, col fuoco atomico, stanno giocando in due.
Chi è il matto? Nessuno, l’uno, l’altro o tutti e due?
Siamo al teatro dell’assurdo: un crescendo di minacce militari e insulti personali senza freno. Non si sa se ridere o piangere, data la stramberia dei due personaggi e la causa del contendere: la questione nucleare. Come può, mi chiedo, il moscerino Kim, col suo piccolo arsenale di missili e armi nucleari, illudersi di spaventare il pachiderma Usa, tuttora la più grande potenza atomica del mondo, seguita da vicino solo dalla Russia di Putin? Ma poi, perché il lillipuziano nordcoreano insiste deliberatamente a sfidare il gigante rivale, in un ineguale e forsennato braccio di ferro? A che gioco giocano i due novelli Davide e Golia? E tuttavia, con le armi atomiche non si scherza, dato il loro immane potere di distruzione.
Madrid. Liberista, eurista, europeista, austeritario, alfiere delle politiche deflattive basate sulla precarizzazione del lavoro. Autoritario sino all’ottusità e alfiere di una politica centralizzatrice. Come tutti i governi, in Europa. Del resto, che altra opzione rimane a un governo che ritiene naturale (anzi, progressivo (nel lungo termine, naturalmente, quando saremo tutti morti)) governare un paese con il 17% di disoccupazione, e dove il 40% di quelli che il lavoro ce l’ha sono precari (qui), se non quella di concentrare il potere nelle mani del governo centrale?
Da qui l’accettazione dell’opzione repressiva violenta. È perfettamente nella logica di questa impostazione. Solo che usare la violenza contro i migranti che tentano di entrare illegalmente in Spagna è un conto, usarla contro propri cittadini che, tra l’altro, ti vedono come uno stato straniero è un conto totalmente diverso. Ma probabilmente aspettarsi che la classe dirigente conservatrice e semifranchista di Madrid operi queste troppo sottili (per loro) differenze è eccessivo.
Barcellona. Anche loro liberisti, euristi, europeisti, austeritari, e quindi anche loro, per forza di cose, tendenzialmente autoritari.
Il debito pubblico italiano è diminuito? Questo hanno lasciato intendere la gran parte dei mezzi di comunicazione e così è stata ripresa la notizia da molti commentatori. Tutto nasce dalla rivisitazione statistica operata dall’Istat rispetto agli ultimi due anni di vita economica, secondo cui una ricalibratura nel misurare la crescita del Prodotto interno nazionale avrebbe dato come risultato una contrazione del rapporto tra debito e ricchezza prodotta.
Questa notizia rientra nella narrazione che esalta le politiche degli ultimi governi, capaci di condurre, attraverso una sapiente modulazione di oculate scelte di bilancio e di manovre non eccessivamente austeritarie, a un aggiustamento dei conti pubblici grazie al ritrovato sviluppo.
In realtà l’Istat nel rivedere i propri calcoli ha scoperto che nel 2016 il Pil è cresciuto dell’1% anziché dello 0,8% e che in considerazione di tale aumento il rapporto debito/Pil sarebbe sceso dal 132,6% al 132%. Da qui i titoloni su questa inversione di tendenza, che è ancora tutta da raggiungere. Tale rapporto, infatti, è sceso solo sul piano delle previsioni, che fino a ieri risultavano eccessivamente pessimiste, ma non in termini reali, dato che il rapporto debito/Pil nel 2015 era pari al 131,5%.
Ciò significa che nel 2016 è comunque salito dello 0,5% rispetto all’anno precedente.
Jacques Sapir scrive un equilibrato articolo sulla questione del referendum catalano tenuto questa domenica 1° ottobre. La violenza che è stata inflitta dalla polizia ai manifestanti e l’arroganza del governo di Rajoy, che si è rifiutato di considerare in qualsiasi modo la consultazione referendaria, sono stati gravissimi errori del governo centrale, in un paese la cui fragile unità era stata consolidata nel 20° secolo con difficili compromessi. Dopo ciò che è avvenuto, la questione di un referendum legittimato dal governo non è più eludibile, almeno da un punto di vista politico.
Approfittiamo dell’occasione per esprimere la nostra solidarietà a Jacques Sapir, il cui blog Russeurope, di cui avevamo frequentemente tradotto i post, è stato recentemente censurato da Hypothèses.
Gli incidenti che hanno segnato la giornata del “referendum” sull’indipendenza della Catalogna sono di pessimo augurio. Non si può restare indifferenti e senza legittima rabbia a guardare manifestanti pacifici aggrediti dalle forze di polizia, che hanno causato decine di feriti. Non si può restare insensibili alla vista delle urne elettorali confiscate e gettate per terra da quegli stessi poliziotti. Questi incidenti non potranno far altro che radicalizzare ulteriormente la rivendicazione di indipendenza, e testimoniano la perdita di legittimità del governo di Madrid. Perché la Storia, e specialmente la Storia del 20° secolo, ha il suo peso nelle relazioni tra Madrid e Barcellona.
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Nobel 2017 per le scienze economiche assegnato a Richard Thaler dell’Università di Chicago, per i suoi contributi allo sviluppo dell’economia comportamentale. Una branca di ricerca promettente che tuttavia Thaler non sgancia dall’ideale normativo della teoria neoclassica, generando alcune aporie anche sul terreno delle sue proposte di politica economica. A cominciare dalla “spinta gentile” dei governi per indurre i lavoratori a risparmiare di più e a investire nel mercato azionario, della cui razionalità egli stesso ha dubitato
Gli appassionati di cinema lo ricorderanno per
un fugace cameo ne “La grande scommessa”,
discreta
pellicola con velleità pedagogiche dedicata alla crisi
del 2008. Intorno a un tavolo
del blackjack, in un improbabile duetto con l’ex stellina
della Disney Selena Gomez, un novello attore dalla chioma
candida, un po’ in
carne, molto rilassato, descrive con cadenza professorale un
tipico esempio di comportamento irrazionale: la gente è
indotta a puntare molto su
quei giocatori che vincono da diverse mani, sebbene non vi sia
alcun motivo di prevedere che siano destinati a spuntarla
anche in futuro.
Un’illusione che si riscontra sui tavoli da gioco come sui mercati
finanziari,
e che può creare le premesse per un tracollo economico [1].
L’attore improvvisato si chiama Richard Thaler, che per “i suoi contributi nel campo dell’economia comportamentale” è stato insignito ieri del Nobel per l’Economia 2017 [2]. Ispirato dalle ricerche di due precedenti vincitori del premio, Herbert Simon e Daniel Kahneman, Thaler è stato uno dei pionieri della ricerca psicologica applicata allo studio delle decisioni economiche.
Nell’Università di Chicago, dove insegna da anni, Thaler ha vestito per lungo tempo i panni dell’outsider: mentre Eugene Fama e gli altri suoi colleghi celebravano le teorie neoclassiche del comportamento razionale ed egoistico, lui accumulava prove che tendevano a confutarle.
L’ultima fatica di Parag Khanna è questo
libricino leggero ma denso di argomenti . Khanna sostiene con
innocente
leggerezza un modello politico che chiama demo-tecnocrazia,
richiamandosi alla Repubblica di Platone, dove i Guardiani
sarebbero squadre di tecnocrati
strategico-amministrativi, i quali consultano con una certa
frequenza il popolo-cliente, per sapere se questo è contento
dell’amministrazione e di cosa altro ha bisogno. Il modello è
una fusione concettuale tra Singapore e Svizzera.
Ne parlo, sia perché Khanna “piace alla gente che piace” e leggendo quello che ha da dire si prende nota delle prossime tendenze e mode concettuali nel globalismo, sia perché il nostro è comunque indiano, è cresciuto nel Golfo, poi in America, risiede a Singapore oltre a partecipare a numerosi think tank americo-britannici mondialisti[1], sia per un altro motivo. Khanna infatti assume come scenario la complessità del mondo ed ha molte informazioni che sceglie ed elabora poi a modo suo ma comunque applica il ragionamento a cose e problemi che esistono nel mondo reale e non a cose che s’inventa alla tastiera raccontandoci un mondo che è solo nella sua testa. Khanna quindi, a suo modo, si occupa pragmaticamente di complessità del mondo il che è meritorio e propone soluzioni e queste soluzioni, che ovviamente sono in favore della prorogabilità, adattabilità, salute del Sistema, le trova in un originale miscuglio di una certa occidentalità con una certa orientalità.
Le lotte della logistica stanno scoprendo la zona franca che il padronato sta costruendo. Occorre un nuovo approccio strategico di lotta a partire dalla logistica
“Zitto
e lavora!”
“Mandateli a casa sti asini!”, “Io giuro che vi darei tante di quelle legnate”; “se per caso per colpa degli scioperi l'appalto in sda và a puttane e mi ritrovo per strada io tiro fuori il 357magnum dalla cassaforte e vi vengo a prendere a uno a uno”. Sono alcuni commenti che si possono leggere sui social nei post che raccontano la vertenza in corso alla SDA di Carpiano, in provincia di Milano. Una avversione alimentata anche dai giornali nazionali e dalle posizioni politiche che nascondendosi dietro un finto buon senso, manifestano ostilità nei confronti dello sciopero del sindacato di base.
Il quotidiano Libero, lo scorso 24 settembre titolava “Oddio, adesso scioperano anche gli immigrati”. Con quel titolo, Libero, sintesi della peggiore destra liberista e della peggiore destra reazionaria, si scagliava contro lo sciopero dei lavoratori SDA che non accettano l'imposizione di cambi d'appalto utilizzati per azzerare i diritti dei lavoratori e fare maggiori profitti sul peggioramento delle condizioni di lavoro.
Il 3 ottobre il canale Youtube di Scenari Economici, il blog che Antonio Rinaldi anima insieme ad altri amici/colleghi, è stato chiuso da Google fornendo come motivazione “ripetute gravi violazioni delle norme della community“. Rinaldi ha presentato un reclamo, che è stato respinto senza ulteriori precisazioni. L’oscuramento del canale di Scenari Economici arriva a poca distanza dalla chiusura del blog di Jacques Sapir, l’economista francese critico sull’euro, esattamente come critica sull’euro è la posizione di “Scenari Economici“.
Raggiunto da Eugenio Miccoli per conto di Byoblu, Rinaldi (che potete vedere nel video) spiega che sul canale non erano presenti contenuti protetti da copyright e respinge al mittente le accuse secondo le quali il canale avrebbe potuto fare spam o violare in qualche modo le norme della community (elencate qui). Si trattava, continua l’animatore di Scenari Economici, di video di convegni cui egli stesso aveva partecipato, così come di incontri avvenuti nelle sedi istituzionali, al Parlamento italiano e a quello europeo.
Pochi giorni prima, sul sito, era apparso un post in cui Scenari Economici garantiva a Sapir pieno supporto e si dichiarava disponibile ad ospitare gli articoli dell’economista francese.
Di tutta la galassia di gruppi e gruppetti che sorgevano come funghi negli interstizi delle metropoli italiane negli anni ‘70 e che hanno praticato la lotta armata, quello dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo) di cui faceva parte Cesare Battisti, era sicuramente uno dei più scalcinati.
Un gruppo senza una vera strategia, “spontaneista”, come sarebbe stato definito una volta, che operava ai margini e senza alcun rapporto con organizzazioni ben più strutturate come le Brigate Rosse. Le loro azioni e la loro “pratica” erano rivolte soprattutto contro le strutture carcerarie (medici e agenti di custodia) con l’obiettivo di raccogliere consensi soprattutto nelle fasce marginali e sottoproletarie delle periferie urbane.
Cesare Battisti era uno dei militanti di quel gruppo. Un giovane che, come tanti altri in quegli anni, scelse di ribellarsi ma lo fece nel modo sbagliato, come peraltro lui stesso ha riconosciuto, optando per una scelta, quella della lotta armata e del terrorismo, che avrebbe portato migliaia di giovani in un tragico vicolo cieco.
E’ bene chiarire alcuni punti. La lotta armata e il terrorismo in questo paese non sono nati dal nulla, non sono piovuti dal cielo o dal delirio (che pure c’è stato…) di qualche intellettuale.
Era passato poco più di un anno dalla fine del regime quando Togliatti amnistiò i criminali fascisti. Quasi quarant’anni dopo qui ancora si parla di mandare in galera Cesare Battisti.
La risposta è nel seguente articolo di Giorgio Agamben, uscito sul manifesto del 23 dicembre 1997.
La classe politica italiana rifiutando l’ipotesi dell’amnistia per i reati degli anni di piombo si condanna al risentimento: ciò che dovrebbe essere oggetto di indagine storica viene trattato come un problema politico di oggi.
Come molte categorie e istituzioni delle democrazie moderne, anche l’amnistia risale alla democrazia ateniese. Nel 403 avanti Cristo, infatti, dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a “deporre il risentimento” (me mnesikakein, letteralmente “non ricordare i mali, non aver cattivi ricordi”) nei confronti dei suoi avversari. Così facendo, i democratici riconoscevano che vi era stata una stasis, una guerra civile e che era ora necessario un momento di non-memoria, di “amnistia” per riconciliare la città. Malgrado l’opposizione dei più faziosi, che, come Lisia, esigevano la punizione dei Trenta, il giuramento fu efficace e gli ateniesi non dimenticarono l’accaduto, ma sospesero i loro “cattivi ricordi”, lasciarono cadere il risentimento.
L’intervista ad Anna Falcone di alcuni giorni fa su il manifesto (29/9/17) suscita alcune perplessità relative a una concezione della politica che sta prendendo piede anche a sinistra. Per cominciare rende perplessi il metodo scelto per arrivare a un programma: oltre cento assemblee ciascuna su “uno o più temi” che produce un “report con le soluzioni ai problemi scelti” fra i quali “la tutela del lavoro, la riconversione energetica, l’intervento dello stato nell’economia, la pace, l’immigrazione, la lotta al terrorismo”. A quel punto “gli utenti registrati sceglieranno, quelle che avranno maggiore consenso entreranno nel programma”. In sintesi assemblee magari di poche ore dovrebbero produrre “soluzioni” a problemi epocali successivamente selezionate on line da una platea più ampia. Un ironico compagno l’ha definita su FB più una ricerca di mercato consona alla Casaleggio & associati che un percorso politico. Il percorso annunciato è infatti l’abdicazione della politica intesa come selezione degli obiettivi e orientamento di lotte e progettualità. La politica consulta dialetticamente la piazza e gli intellettuali, ma non scaturisce né dall'una né dagli altri. Peraltro nel disegno che emerge dall'intervista gli intellettuali non sono neppure contemplati, e difficilmente un loro ruolo è prefigurabile nella cacofonia di “cento assemblee”.
Alcuni dati di fatto per non parlare in maniera astratta dell'indipendentismo catalano
L'indipendentismo catalano è un fenomeno reazionario? Alcuni compagni ne sono convinti, considerandolo un progetto egemonizzato dalla borghesia catalana, indirizzato a creare una “Piccola Patria”, che creerà un'ondata di indipendentismo in giro per l'Europa orientata a separare le regioni ricche.
Non sarà questo articolo a risolvere il dibattito se l'indipendentismo catalano sia progressivo o reazionario, vanno però messi dei punti fermi, per non continuare a discutere usando dei luoghi comuni.
La Catalogna è la regione più ricca della Spagna: VERO! La Catalogna è la regione spagnola più ricca in termini di PIL assoluto.
I catalani sono i più ricchi della Spagna: FALSO! In termini di PIL pro capite, la Catalogna è “solo” la quarta regione, dietro al Paese Basco, la Navarra e la capitale Madrid. Certo, rimane più ricca della media del paese, molto più ricca delle regioni più arretrate come l'Andalusia e l'Extremadura.
La disoccupazione in Catalogna è più bassa di quella (altissima) media spagnola, ma rimane nel 2017 attorno a un notevole 17%.
Ricardo Antunes, Addio al lavoro? Le trasformazioni e la centralità del lavoro nella globalizzazione, Venezia, Edizioni Cá Foscari, 2015
“Un cataclisma, e il suo lucido
narratore” si intitola la bella introduzione di Pietro Basso
alla nuova edizione del volume del brasiliano Ricardo Antunes.
La prima uscì
nel 1992 per le edizioni BFS (Biblioteca Franco Serantini) di
Pisa. Rispetto a quella, la recente edizione è notevolmente
arricchita e gode di
una traduzione completamente rivista, e di una nuova, densa
Prefazione dell’autore. Ordinario di Sociologia presso
l’Università di
Campinas, non molto conosciuto e tradotto in Italia, Antunes è
ben noto, a livello internazionale, a quanti abbiano seguito
il dibattito, ormai
pluridecennale, intorno al lavoro e alla marxiana legge del
valore nel contesto della globalizzazione.
Il cataclisma in questione è, appunto, quello che – con l’affermarsi del “neoliberismo” o del “post-fordismo” che dir si voglia – ha violentemente investito la condizione dei proletari; d’un lato mutandone radicalmente lo “statuto” nei paesi fino al secolo scorso patria quasi esclusiva del capitalismo, dall’altro estendendone e allargandone la presenza a livello internazionale, nell’area asiatica soprattutto.
I due sviluppi, nel libro di Antunes, già tradotto in molte lingue, sono posti sotto il comune orizzonte teorico della globalizzazione, giacché, giustamente, essi sono complementari e si spiegano e sostengono a vicenda.
L'idea
della
rivoluzione sembra essersi dissolta nell'aria, insieme ad ogni
critica radicale del capitalismo. Di certo, in generale viene
ammesso che ci sarebbero
da cambiare molti dettagli nell'ordine del mondo. Ma uscire
semplicemente dal capitalismo? E per poi sostituirlo con cosa?
Chiunque ponga questa
domanda rischia di passare sia per un nostalgico dei
totalitarismi del passato, sia per un ingenuo sognatore.
Tuttavia, non mancano delle teorie
critiche che si propongono di mettere a nudo il carattere
distruttivo, e storicamente delimitato, del capitalismo, e
tutto ciò fin nelle sue
strutture di base. Una simile impresa di critica fondamentale
viene portata avanti dal 1987 dalla tendenza internazionale
della «critica del
valore», e soprattutto dalle riviste tedesche "Krisis" ed
"Exit!" e dall'autore principale Robert Kurz (1943-1912). Il
loro approccio è
stato parallelo, sotto molti aspetti, al lavoro svolto da
Moishe Postone, di cui recentemente sono stati pubblicati
molti libri in Francia.
Il punto di partenza della critica del valore consiste in una rilettura dell'opera di Marx. Tale rilettura non pretende di ristabilire il "vero" Marx ma - piuttosto che supporre una tensione fra la parte economica e la parte politica della sua opera, o fra una parte giovanile che mira alla rivoluzione immediata ed un "evoluzionismo" tardivo che si rivolge alla scienza, oppure tra un idealismo hegeliano iniziale ed una analisi scientifica successiva dei rapporti di classe - assegna un peso alla distinzione fra un Marx "essoterico" ed un Marx "esoterico". Il Marx "esoterico" può essere trovato in una parte piuttosto ristretta dei suoi lavori della maturità e, nella sua forma più concentrata, nel primo capitolo del primo volume del Capitale: Marx esamina le forme di base del modo di produzione capitalista, vale a dire la merce, il valore, il denaro ed il lavoro astratto.
Sebbene
Giorgio
Agamben abbia dichiarato chiuso, nel 2014, il suo progetto
ventennale di un’archeologia della politica e del diritto, che
ha preso il nome di
Homo sacer, con la pubblicazione del volume l’Uso
dei corpi, la sua produttività non è affatto diminuita,
e il
nuovo testo dell’autore romano, Karman. Breve trattato
sull’azione, la colpa e il gesto, uscito recentemente
per i tipi Bollati
Boringhieri, ne è – non lo fossero stati abbastanza i testi
usciti in precedenza, dedicati, tra gli altri, a Majorana, a
Pulcinella, e
alle proprie vicende biografiche – l’ulteriore riprova.
Se si volesse speculare, si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che questo volume potrebbe occupare il posto vuoto lasciato enigmaticamente da Agamben nella posizione II.4 del suo progetto.
In Karman Agamben presenta al contempo una summa dei motivi portanti del suo pensiero e una loro evoluzione in una direzione inedita. Come il sottotitolo indica, l’azione, la colpa e il gesto sono le tre grandi categorie oggetto dell’analisi agambeniana.
Nonostante il trionfo di immagini socializzate, a sinistra la questione catalana continua a mietere dissensi trasversali. Un trentennio abbondante di demonizzazione dello Stato nazionale ha impedito un aggiornamento del dibattito politico, ritrovandoci oggi afoni rispetto alle insorgenze (popolari, conflittuali o solo elettorali) che da più parti in Europa rivendicano – da sinistra – un’attenzione alla questione nazionale. Che non ha più i caratteri ottocenteschi della “liberazione dei popoli” o quelli novecenteschi della lotta al colonialismo, ma che merita indagini meno vincolate ideologicamente. Il cosmopolitismo ordoliberale, nella sua pervasiva capacità di insinuarsi tra le pieghe del pensiero comune, costruendo un’egemonia di senso apparentemente inscalfibile, ha fatto il resto: la questione nazionale è per definizione appaltata alla destra, alla reazione, al revanscismo. Questo è però un fatto relativamente nuovo, databile più o meno con la fine degli anni Settanta. Prima il marxismo era riuscito ad esprimere non tanto una sintesi, ma un dibattito originale, capace di legare l’aspetto sociale e quello nazionale, smascherando il nazionalismo ma salvaguardando quel tanto di progressivo che lo Stato nazionale portava con sé in termini di diritti di cittadinanza, di inclusione pubblica delle masse subalterne, di riconoscimento formale delle classi in lotta. Non è il “bel tempo che fu”, ma sarebbe anche l’ora di riconoscere nel progressivo smantellamento dello Stato nazionale un passo indietro generale delle condizioni di classe.
Un commentatore politico (forse Antonio Polito) ha parlato di «rivoluzione dall’alto» a proposito del processo secessionista in atto in Catalogna; io toglierei la «rivoluzione», che non c’entra assolutamente niente con la cosa di cui parliamo, e lascerei senz’altro «dall’alto», anche se è un “alto” ben nascosto dalla fenomenologia di massa dell’evento qui rapidamente analizzato. D’altra parte nel XXI secolo il marketing – commerciale e politico – ci ha abituati ad associare la parola “rivoluzione” alle cose più stupide e banali di questo mondo.
Qualche giorno fa un intellettuale di “destra” (forse Pietrangelo Buttafuoco) ha scritto da qualche parte che «la secessione è un lusso che possono permettersi solo i ricchi». Pensava naturalmente alla Catalogna, ma anche alle regioni “leghiste” dell’Italia del Nord, Veneto e Lombardia in primis. Se prendiamo in considerazione l’Europa occidentale, le cose stanno proprio così, e anche nell’ex Yugoslavia furono soprattutto le ragioni più ricche (o meno povere) e socialmente più dinamiche (Croazia e Slovenia) a spingere l’acceleratore dell’indipendentismo nazionale che mandò in frantumi la creatura geopolitica assemblata da Tito alla fine della Seconda guerra mondiale, come esito di quella carneficina. Io stesso nel precedente post dedicato alla Catalogna sottolineavo l’aspetto “leghista” della vicenda.
“Colui
che attende una rivoluzione
sociale pura non la vedrà mai; egli è un rivoluzionario a
parole che non capisce la vera rivoluzione.”
Vladimir
Il’ič Ul’janov “Lenin”
La Catalogna che vuole essere indipendente ha stravolto molte consolidate convinzioni anche nella sinistra comunista (spesso sedicente, ma stendiamo un velo pietoso…). E improvvisamente ci siamo trovati a leggere considerazioni di compagni che sembrano ignorare, o aver dimenticato, la complessa relazione tra internazionalismo e indipendenza nazionale. Una relazione, diciamolo subito, che è stata un’architrave del movimento comunista storico, permettendo di sposare la spinta alle rivoluzioni (inevitabilmente limitate a singoli territori nazionali, anche se ovviamente internazionaliste come visione generale) con l’unità sovranazionale del movimento (almeno fin quando Urss e Cina non hanno seguito strade diverse).
Una relazione così ben congegnata da essere riconosciuta – a fatica, obtorto collo, sotto la pressione di un rapporto di forza quasi paritario – anche dall’imperialismo occidentale. Il “principio di non ingerenza negli affari interni di un altro Stato” era ovviamente più formale che effettivo, e sono sempre stati in atto i tentativi di spostare questo o quel paese dalla propria parte utilizzando malcontento popolare, rivendicazioni nazionali.
Mentre i “suicidi” delle persone sono troppo spesso la conclusione di indagini non svolte, i suicidi politici costituiscono un dato costante della Storia. Una discreta parte della classe dirigente della cosiddetta “Prima Repubblica” (i Cagliari, i Gardini, i Mensorio, i Bisaglia) fu “suicidata”, o “incidentata”, per favorire il passaggio di consegne, dato che le inchieste giudiziarie sembravano non bastare. Sta di fatto che quei “suicidi” di persone furono preceduti da un vero suicidio politico del regime di allora.
A partire dalla fine degli anni ’70 la Democrazia Cristiana, il mitico "Partito-Stato” dei documenti delle BR, compì una serie di scelte che avrebbero ben presto posto fine al suo regime: l’adesione al Sistema Monetario Europeo, l’affidamento della politica economica ad un mistico-liberista invasato come Beniamino Andreatta, la delega ai negoziati per il Trattato di Maastricht ad un lobbista della finanza sovranazionale come Guido Carli. Tra le scelte che contribuirono a tagliare il ramo su cui il regime era appollaiato, vi fu anche quella di umiliare a tutti i costi quello che costituiva uno dei principali puntelli sociali del regime stesso, cioè i sindacati.
Umiliare i sindacati è diventato da allora uno dei passaggi obbligati di chiunque detenesse il potere o vi aspirasse. A questo rituale non si è sottratto neppure il candidato “premier” dei 5 Stelle, Luigi Di Maio.
Il Re spagnolo ha preso la parola per legittimare la repressione dei manifestanti catalani da parte della Guardia Civil. Non c'è da stupirsi. In Spagna il franchismo non è stato abbattuto da una rivoluzione o da una resistenza antifascista. La guerra civile, i fascisti, l'hanno vinta.
Il fanchismo ha consegnato il potere al proprio erede, la Monarchia, in modo pacifico. Dunque, stupirsi del fatto che il Re spagnolo si comporta da erede del fascismo è stupirsi di una ovvietà.
Detto questo, la Spagna non è un paese fascista - come scrivono certi buontemponi in stato confusionario -; se lo fosse, lo sarebbe anche un paese come l'Italia; se lo fosse gli spagnoli tutti (perché solo i catalani?) dovrebbero rivoltarsi e magari "andare in montagna" senza perdere tempo a votare fac-simili; se lo fosse non si dovrebbero deporre le armi, come hanno fatto unilateralmente i baschi (che evidentemente hanno fatto altre valutazioni e non intendono, immaginiamo, consegnarsi disarmati al neo-fascismo di Madrid).
Quando si usano le parole a casaccio finisce che si hanno idee a casaccio e si fanno proposte a casaccio.
Il Governo PP-PSOE non è fascista: è un normale governo "democratico" come "democratico" è il governo di Trump, di Angela Merkel o di Paolo Gentiloni;
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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I conflitti politici e ideologici della contemporaneità vengono esorcizzati da un'ampia categoria di intellettuali-pubblicisti, gli “autorevoli pugilatori”, i quali sono studiosi che dovrebbero conoscere i testi di cui parlano e i contesti culturali in cui sono inseriti, ma abitualmente ne fanno astrazione
1) Nel Poscritto alla
seconda edizione del I libro de Il Capitale, Marx
usa l’espressione «pugilatori a pagamento» in riferimento a
quegli
economisti che avevano abbandonato la lezione di
spregiudicatezza analitica che era stata la caratteristica di
Smith, Ricardo, dei ricardiani in
genere, per abbracciare le ragioni della «apologetica». La
causa stava nel fatto che l’«indagine scientifica
spregiudicata» tipica dei fondatori della moderna economia
politica, dimostrava il carattere intrinsecamente conflittuale
della società
permeata dal modo di produzione capitalistico ormai in via di
definitiva affermazione. Ed in particolare da una
conflittualità che, allo
scorcio della prima metà del secolo XIX, con il manifestarsi
del cartismo ed il radicarsi delle Unions operaie,
non rimaneva
più nell’ambito della «critica», ma tracimava nel campo della
lotta politica e sociale. In tale contesto, dove «non si
trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no,
ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo…», emergevano
facilmente, senza trovare particolari ostacoli, i «pugilatori
a pagamento»i
.
Il 19 marzo sono
andato al Casale Alba
due per un incontro dal titolo eloquente, che forse
ricorderete:
Fra il pubblico c'era un simpatico giovine friulano, che poi mi contattò per un'intervista da pubblicare su questo interessante blog. Qualcuno di voi ha saputo, e qualcun altro intuito, che anno io abbia passato. Fatto sta che sono riuscito a rispondere alle sue domande (corrette e moderatamente stimolanti) solo qualche giorno fa. Non ho avuto alcuna risposta. A questo punto, visto che ho perso tempo a rispondere, l'intervista la pubblico qui (dove avrà molte più opportunità di essere letta). Fatemi sapere se vi interessa, e magari anche perché il mio parere oggi non viene più ritenuto interessante dal blog dei montanari (a proposito: fra pochi minuti sono su Radio Onda Rossa: Bagnaiextraparlamentaredisinistraaaaaaaa...).
* * * *
1° Prof. Bagnai, l'Italia entrando nell'UEM ha adottato un cambio sopravvalutato - una delle cause principali della perdita di produttività delle aziende medio-piccolo - che, in assenza dello strumento della svalutazione esterna, impone sostanzialmente due vie per incrementare la competitività delle imprese: la deflazione salariale e la precarizzazione del lavoro.
Ma in ogni tempo il progresso
della totalità è ostacolato dai
pregiudizi e dagli interessi dei
singoli. Gli ignoranti
hanno i pregiudizi, i delinquenti i
propri interessi da
difendere. Ed oggi il principale
ostacolo
all’unificazione
del mondo (non dico alla felicità degli uomini) non è
certo
l’ignoranza: sono gli interessi e
le ambizioni dei singoli,
dei delinquenti.
Questi (o quelli fra questi che già hanno un
bottino da
conservare) son sempre contrari ad ogni forma
di progresso:
quando nazione significava civiltà erano
i peggiori
nemici dei patrioti; ora che nazione significa regresso
sono i più validi sostenitori della nazione.
Dal
Diario di Giacomo Buranello, 19 ottobre 1938.
Se nella storia delle forze antifasciste il 1938 fu l’anno della passione per la Spagna repubblicana, della Cecoslovacchia, della conferenza di Monaco e della fine del Fronte Popolare di Léon Blum, nonché della promulgazione, in Italia, della legislazione razziale, nella storia dell’amicizia tra quattro giovani, che si chiamavano Giacomo Buranello, Walter Fillak, Ottavio Galeazzo e Orfeo Lazzaretti, il 1938 fu l’anno dei libri e della nascita delle rispettive biblioteche.
Buranello cominciò a scrivere il suo “Diario” nello stesso anno, facendone lo specchio fedele, da un lato, del confronto con gli amici e con la madre e, dall’altro, delle sue personali riflessioni sui libri che leggeva. Al centro di tali riflessioni vi era il problema delle scelte con cui si proponeva di dare un senso alla propria vita.
A seguito del
movimento contro la «loi travail e il
suo mondo», esploso nella primavera del 2016, nella
metropoli parigina sono fioriti una serie di spazi di
approfondimento e di elaborazione
teorica, immanenti alle lotte ed espressione di
un’effervescenza intellettuale che fa del sapere un’arma
di rilancio del conflitto
sociale. Il ripensamento di una serie di categorie,
necessarie per l’analisi dell’attuale fase capitalistica e
per ponderare le
alternative strategiche dei movimenti, è andato di pari
passo al confronto con la storia dei conflitti sociali e
delle iniziative autonome del
recente passato. In questo solco si inserisce l’intervento
di Alain Badiou nel quadro del seminario «Conséquences»,
svoltosi
nella primavera scorsa tra l’École des Beaux Arts e
l’École Normale Supérieure di Pargi. Il testo esce nei
prossimi
giorni in Francia per l’editore Fayard, qui ne
pubblichiamo una versione trascritta e tradotta in
italiano.
* * * *
Tesi 1: La congiuntura mondiale consiste nell’egemonia territoriale e ideologica del capitalismo liberale.
Commento: l’evidenza, la banalità di questa tesi mi dispensano da ogni commento.
Cosa lega la legge elettorale italiana con i mercati finanziari, l'isolamento del M5S, la crisi catalana e quella franco-tedesca sul futuro UE? Cerchiamo di spiegarlo in questo nostro articolo
In attesa degli sviluppi della mano
di poker tra Rajoy e Puigdemont, questi giorni
offrono la
possibilità di mettere a confronto dei fenomeni che solo una
stampa strapaesana, come quella delle principali testate
nazionali, può
tenere separati. Stiamo parlando del tentativo di far
approvare una nuova legge elettorale, che ha
come primo firmatario
Ettore Rosato capogruppo PD alla camera, da parte
di una maggioranza composta da Pd, Forza Italia, Lega più
altre forze minori. E del
suo rapporto con quanto sta avvenendo sul piano finanziario e,
entro il dibattito, per non parlare di spaccatura
franco-tedesca, sul futuro
dell’eurozona.
La legge elettorale: fra politica e finanza
Sgombriamo quindi subito ogni dubbio, la legge elettorale, quella che sembrerebbe (condizionale d’obbligo) prendere forma è proprio quella che volevano i mitici “mercati” finanziari. “Mercati”, rigorosamente tra virgolette perché si tratta di qualcosa di molto diverso da un luogo di negoziazione e scambio di servizi finanziari, che in questo caso contano, e premono, molto di più di Renzi, Berlusconi o Alfano anche in materia di legge elettorale. Cosa volevano i “mercati”? Per investire in un porto sicuro, senza fare guerre finanziarie, in Italia, e nel continente, volevano un risultato elettorale predeterminato, che permettesse di fare previsioni di investimento nei prossimi mesi.
La UE
non è un blocco unitario, il mitico imperialismo europeo. La
conflittualità interna e in politica estera è sempre più
evidente. Non è neppure un'alleanza tra imperialismi nazionali
per essere in grado di competere con grandi stati come USA,
Cina, Russia. Quando
il federalismo europeo era ancora soltanto un progetto,
Bordiga ne descriveva i caratteri fondamentali:
«una maschera di un'organizzazione di guerra a comando USA, che consolidava il dominio del capitale finanziario statunitense sull'Europa e sul proletariato americano, e che rendeva impossibile la nascita di comuni rivoluzionarie a Parigi, Bruxelles, Milano, Monaco ...»1
C'è un fondamentale parallelismo tra NATO e UE, e i cosiddetti europei neutrali sono nell'orbita americana più ancora di vecchi atlantici come la Turchia. Basterebbe una cartina delle basi Nato e di quelle gestite direttamente solo dagli USA, per dimostrare la sudditanza europea. Il rapporto tra gli imperialismi europei e gli USA ricorda quello tra gangster e capobanda, colui che in ultima istanza decide. Il primo segretario generale della Nato, Hastings Lionel Ismay, disse che l’Alleanza era stata creata per «tenere gli Usa dentro (l’Europa ndr), la Russia fuori e la Germania sotto». L'enorme peso economico della Germania alla fine ha reso impossibile mantenere questa direttiva.
Nei giorni scorsi una
fotografa
naturalista negli Stati Uniti ha fotografato un enorme pesce
spiaggiato su un litorale. Si trattava di una grossa anguilla
marina che vive nelle
profondità dell’Oceano Atlantico. Comprensibilmente
incuriosita dalle dimensioni dell’animale, la fotografa non ha
consultato
nessuna enciclopedia o atlante naturalistico (ve ne sono anche
online fruibili gratuitamente). Ha semplicemente postato la
foto su un social network
chiedendo agli amici di rispondere al quesito su che tipo di
animale fosse. Dopo poco rispondeva un biologo marino del
Smithsonian Institute degli USA
svelando l’arcano. Questa notizia, curiosa ma decisamente
minore, ha fatto però il giro delle agenzie internazionali e
ha campeggiato a
lungo sulla home page del principale quotidiano online
italiano. Ovviamente, era ben specificato il nome del social
network in questione. Che otteneva
quindi un bel po’ di pubblicità.
Lo stesso social network è poco sviluppato in Italia, battuto da un suo concorrente con molti più utenti. Nonostante questo, la maggior parte dei politici, dei giornalisti e degli opinion maker ci scrive sopra. Questo fa sì che, negli articoli di informazione, il nome del social network continui a essere presente. Eppure, la logica imporrebbe di far circolare il più possibile le proprie opinioni e quindi sarebbe apparentemente più logico utilizzare altre piattaforme.
Il libro
del 2006 di Samir Amin indica
una prospettiva che porta ad un maggior livello di chiarezza
la sua interpretazione dell’internazionalismo socialista da
lungo tempo elaborata e
che abbiamo ritrovato, dopo dieci anni, espressa
nell’intervista “La
sovranità popolare unico
antidoto all’offensiva del capitale”. In quel
recente intervento l’economista egiziano propone
un’interpretazione
della crisi aperta nel 2007-8 e giunta al suo decimo anno,
come esaurimento e insieme radicalizzazione del modello
monopolista ed estrattivo,
intrinsecamente imperialista e insieme completamente
impersonale, che prende strada a partire dalla crisi di
valorizzazione nella quale incappa il
capitalismo del dopoguerra a partire dagli anni sessanta.
Nel 2016 Amin dirà che immaginare che “di fronte ad una crisi del capitalismo globale la risposta debba essere egualmente globale” è solo una “tentazione”, ed sorta di ingenuità, causa di sicura sconfitta. Questo libro si chiuderà sulla stessa questione: il superamento deve avvenire punto per punto, e partendo, come è sempre avvenuto, dai luoghi in cui il controllo è più debole, o da quelli in cui le contraddizioni e le conseguenze inaccettabili sono più forti. Per superare, in ogni singolo luogo (ovvero nazione) la tendenza del capitalismo a schiacciare le periferie ed estrarre da esse le risorse, bisognerà fare politica e prendere il potere. Bisognerà costringerlo a fare i conti con le forze popolari, i progressi si potranno poi propagare.
Come avevamo scritto nel commento del bel libro di Carlo Formenti “La variante populista”, bisogna “riconquistare la sovranità popolare”, cosa che passa anche per il tentativo di articolare “un’idea postnazionalistica di nazione”.
Un’altra
tipologia di critiche nei confronti del liberalismo e del
capitalismo è quella propria di quegli autori i quali, con
strategie e punti di
riferimento diversi, hanno provato a rovesciare la logica
liberale dominante in favore di una critica sociale che parta
dal basso e che valorizza
l’attivismo, la creatività, l’autenticità dei “popoli” o delle
“moltitudini” in ordine alla rottura
o, meglio, alla resistenza nei confronti del paradigma
liberale dominante. Nel corso del Novecento è possibile
distinguere, per linee generali
due varianti di questa sensibilità antiliberale, una di destra
e una di sinistra. Inoltre, è giusto ricordare che vari regimi
politici
antiliberali hanno talvolta trovato un alleato in settori
interni al mondo cristiano i quali, seppur con finalità e
motivazioni diverse,
nutrivano un’analoga ostilità nei confronti dei nuovi valori
capitalistici e liberali.
Pertanto, nei prossimi sottoparagrafi proverò a fornire un quadro sintetico, ma spero esaustivo sul piano concettuale, di queste varie forme di critiche “dal basso” della tradizione liberale e capitalistica.
1. Fascismi, populismi di destra e cattolicesimo antiliberale
L’esperienza storica del nazismo e del fascismo rappresenta una lotta radicale, dagli esiti tragici, contro l’affermazione dei valori liberal-democratici.
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1. Il
risultato
più duraturo della rivoluzione d’Ottobre è il riemergere dei
popoli oppressi
Il centenario della Rivoluzione d’Ottobre consente oggi, con il vantaggio della distanza storica, di trarre un bilancio dei suoi effetti duraturi in tutta la storia del mondo.
La rivoluzione d’Ottobre segna un momento fondamentale nella storia, non solo del movimento operaio, ma dell’intera umanità. Dopo la Comune di Parigi (1871), schiacciata nel sangue dalla repressione della borghesia, la Rivoluzione d’Ottobre è il primo tentativo vittorioso del proletariato e delle classi subalterne di rovesciare i rapporti sociali dominanti e costruire una società socialista. Segna anche l’inizio di un potente processo di emancipazione dei popoli oppressi e lo sviluppo di lotte anti-coloniali e antimperialiste. Le rivoluzioni russa, cinese, vietnamita e cubana – per limitarsi ad alcuni dei più importanti movimenti comunisti – hanno permesso la liberazione di centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria e dalla fame e rappresentano il tentativo di costruire società alternative al capitalismo e orientate verso il socialismo.
1. Provo a
fare un post "di scenario" ed utilizzo l'ultimo Bollettino EIR
versione italiana.
Questi bollettini, che gentilmente mi sono inviati ogni settimana, hanno un duplice pregio:
a) anzitutto, sono un punto di vista statunitense (e di lungo corso). Certo, sono solo "uno" dei possibili punti di vista di provenienza USA, ma il solo fatto che ancora esistano, è un valore indicativo in sè;
b) sono comunque volti a fornire una visione di scenario mondiale e, a prescindere dalla condivisibilità delle spiegazioni causali prescelte e dalle priorità che appaiono suggerire, si fondano su una buona capacità di dare notizie su fatti e dati che, altrimenti, il sistema mediatico mainstream priverebbe di ogni risalto (privando quindi le opinioni pubbliche occidentali di ogni chance di comprendere cosa realmente stia accadendo nel mondo).
2. Fatta questa dovuta premessa, proviamo a mettere insieme alcune notizie e analisi contenute nei due ultimi bollettini (n.40 e 41), esponendoli secondo la priorità che risulta oggettivamente attribuita dal sistema mediatico mainstream, in modo da realizzare un (ormai inconsueto) contraddittorio tra visioni diverse comunque legittimamente formulate. Le varie tematiche selezionate saranno integrate da alcuni links da me apportati secondo l'usanza di ricerca documentata che caratterizza questo blog.
Dopo aver dato alle stampe nel 2012
Vita e
pensieri di Antonio Gramsci, prima biografia sul leader
comunista ad avvalersi delle lettere tra Gramsci e i suoi
interlocutori nel periodo
carcerario raccolte nel corso degli ultimi anni dalla
Fondazione Gramsci di Roma, Giuseppe Vacca torna ancora una
volta sul politico sardo, esaminando
però questa volta soprattutto la formazione e l’articolazione
del suo pensiero politico.
Il suo ultimo saggio, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, apparso quest’anno, sempre per la casa editrice Einaudi, è infatti una riflessione sulle categorie di analisi ed intervento politico elaborate dal dirigente comunista, dalla sua ascesa alla guida del Pcd’I sino alla riflessione elaborata all’interno del carcere fascista. Riflessione che il dirigente comunista portò avanti nonostante le condizioni di grandi difficoltà materiali prima, e poi, progressivamente, anche di salute, via via più gravi, in cui si trovò ad operare, essendo sottoposto ad un duro regime carcerario impostogli dal fascismo. Si tratta di un dato da non dimenticare, che complicò non di poco lo stesso lavoro di stesura delle riflessioni e note raccolte nei Quaderni e che si attenuò soltanto nell’ultima fase della sua vita dinanzi ad un evidente peggioramento delle condizioni di salute che portarono di lì a poco Gramsci alla morte.
Vista da fuori, e senza alcuna intenzione di “dare consigli”, la vicenda catalana assume l’importanza strategica di un esperimento dal vivo che illumina e risolve problemi piuttosto complicati, al limite dell’incomprensibile se si usano le categorie concettuali in modo libresco e ripetitivo.
Non stiamo guardando un film già visto. Nonostante tutte le somiglianze possibili, infatti, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Figuriamoci poi se il fiume è un altro…
Nelle scorse settimane molta della discussione “comunista” sulla Catalogna si è affannosamente concentrata sulla falsa contrapposizione tra internazionalismo e autodeterminazione nazionale, partorendo posizioni politiche spesso imbarazzanti o, all’opposto, semplice tifo da stadio (come ai tempi dello “zapaturismo”).
La lotta catalana, invece, parla di noi. Rivela meccanismi oppressivi e di sfruttamento che agiscono quotidianamente ma sfuggono all’attenzione dei più (soprattutto se per “farsi un’opinione” ci si abbevera alle fonti del mainstream mediatico).
Al di là delle diverse specificità di paesi comunque accomunati nella qualifica di Pigs, il contesto è spaventosamente simile. La differenza principale è però eclatante perché riguarda la soggettività politica:
Pubblichiamo un estratto della relazione di apertura di «Socialismo: un’idea (in)finita?», un seminario di studi che si svolgerà a Cortona il 13 e 14 ottobre
La proposta contenuta nel recente libro di Axel Honneth, L’idea di socialismo, è quella di presentare il socialismo come un’idea normativa, un’ideale forma di vita, fondata tuttavia – e questo è l’elemento di novità di questa proposta – non sul valore dell’uguaglianza ma su quello della libertà. La solidarietà e i reciproci rapporti di riconoscimento che dovrebbero caratterizzare questa forma di vita avrebbero come finalità immanente non tanto l’uguaglianza sociale quanto l’implementazione dell’autonomia individuale.
NEL PROPORRE la relazionalità sociale come condizione per la libertà Honneth mostra il suo debito nei confronti della teoria hegeliana dell’eticità e della sua idea fondamentale, secondo cui negli esistenti rapporti «etici» fra gli individui andrebbe individuata la radice e le possibilità della loro libertà. Rispetto a Hegel tuttavia Honneth opera una significativa «rotazione della prospettiva», considerando quelle strutture relazionali e solidaristiche non come già esistenti e operanti bensì come ideali futuri. In tal modo la stessa eticità (ovvero le relazioni solidali del socialismo) diventa un ideale morale, un «dover essere».
«Coloro che fanno una rivoluzione a metà non hanno fatto altro che scavarsi una tomba», ammoniva Louis de Saint-Just. Ieri sera è purtroppo avvenuto il mezzo passo indietro che smentisce la volontà della maggioranza di governo nonché i risultati del referendum. Un tradimento del mandato popolare, chiaro, inequivocabile, persistente, che si è espresso in ogni elezione degli ultimi due anni, a livello nazionale e municipale, e che ha costruito il processo indipendentista nella società catalana, nelle strade, nei posti di lavoro, nei dibattiti pubblici. Nonostante ciò, ieri è comunque avvenuto un passaggio storico. La dichiarazione di indipendenza, sebbene “sospesa”, è avvenuta. La sospensione, inoltre, toglie ogni alibi al governo di Madrid che, come volevasi dimostrare, ha risposto all’apertura di credito di Puigdemont con la chiusura totale di ogni riconoscimento della questione catalana. Le immagini dei proletari-deputati della Cup che, al grido di viva la Repubblica, firmavano il risultato di anni di lavoro politico e sociale, riflettono un rapporto di forze sconosciuto nel resto d’Occidente. Vendicano, certo parzialmente e simbolicamente, una Repubblica repressa nel sangue di una guerra civile durata quarant’anni. Il problema è che dal referendum del 1 ottobre non si può tornare allo status quo ante. Davanti alla mobilitazione popolare c’è la proclamazione della Repubblica o la repressione spagnolista.
La manovra a tenaglia per ingabbiare la Russia di Putin non è solo militare. L’economia gioca un ruolo di primaria importanza in questo conflitto. Se il recente insprimento delle sanzioni USA contro la Russia aveva ribadito il gelo tra le due potenze, ora il nuovo attacco arriva dall’Europa.
Bloccare il circuito bancario alla Russia
Riportava Sputnik News come sia giunta dal Regno Unito una proposta molto aggressiva contro Putin, che rischia di scombussolare la struttura finanziaria che lega l’Occidente alla Russia. La nuova sanzione, chiamata “mossa dello SWIFT”, consisterebbe proprio nell’esclusione del gigante euroasiatico dalle transazioni finanziarie legate allo SWIFT. Cos’è lo SWIFT? Si tratta della Società per la telecomunicazione finanziaria interbancaria mondiale, che ha sede in Belgio. È il famoso codice SWIFT usato per i bonifici bancari nazionali ed internazionali.
La proposta è stata temporaneamente messa da parte in Europa, considerata troppo estrema dalla stessa Cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia l’intenzione è stata percepita dalla Russia con notevole preoccupazione per il futuro. Un’eventuale blocco del circuito SWIFT rappresenterebbe per Mosca un probabile collasso del sistema bancario nazionale.
Il libro appena edito di Marta Fana va dedicato alla classe operaia, perché legga se stessa in quelle pagine, esca dal senso di colpa in cui l’hanno relegata e tiri di nuovo su la testa
Non è lavoro, è sfruttamento è il libro di una giovane ricercatrice militante, Marta Fana, recentemente uscito in libreria per Laterza. Il libro è una sorta di viaggio oltre la frontiera dei diritti, lì dove si sperimentano le nuove e più radicali forme di sfruttamento, dai voucher al cottimo fino al lavoro gratuito, passando dall'alternanza scuola lavoro. Un viaggio dentro il reality del nuovo mercato del lavoro, dove non ci sono diritti, non c'è orario e non c'è luogo di lavoro, non c'è malattia e non ci sono ferie, a volte non c'è nemmeno salario. Insomma, lì dove il concetto di lavoro si dissolve in quello di sfruttamento.
Il libro è da leggere, scorre via veloce, scritto in una prosa semplice e gradevole. Mi permetto quindi una riflessione che va un po’ oltre. E un passo indietro. Cosa è lavoro e cosa è sfruttamento? Nel 1978 nel suo Dizionario di Sociologia, Luciano Gallino li definiva così. Lavoro: attività intenzionalmente diretta, mediante un certo dispendio di tempo e di energia, a modificare in un determinato modo le proprietà di una qualsiasi risorsa materiale o simbolica, onde accrescerne l’utilità per sé o per altri, con il fine ultimo di trarre da ciò, in via mediata o immediata, dei mezzi di sussistenza. Sfruttamento: vedi Capitale.
I reali
scopi dei
promotori
Il 22 ottobre in Veneto e in Lombardia si terrà il referendum per l’autonomia. Finalmente – sostengono i due presidenti Zaia e Maroni – le regioni più virtuose d’Italia potranno tenersi i proventi delle tassazioni che sono oggi drenati da Roma (ladrona) e incrementare la loro efficienza, non solo nel campo dove eccellono, la sanità, ma in parecchi altri. Tutto talmente semplice e così vantaggioso che praticamente non esiste un fronte del NO, essendo la quasi totalità dei partiti schierati per una “responsabile autonomia”.
Fine del discorso? Non proprio.
Anzitutto, c’è un primo falso: non si potrà toccare il sistema tributario e contabile dello stato trattenendo l’80% dei proventi della tassazione raccolta dalle regioni, come spacciato dai promotori, in quanto è vietatissimo dalla Costituzione. Due anni fa la Corte costituzionale ha categoricamente escluso la possibilità di tenere un referendum su questa materia, bocciando anche la ipotetica consultazione sulla trasformazione del Veneto in regione a statuto speciale e, tanto più, quella sulla indipendenza del Veneto.
L'homme moderne, au lieu de chercher à s'élever à la vérité, prétend la faire descendre à son niveau.
René Guénon
Lebensborn A/R
È certo una buffa coincidenza che a tirar fuori dalla scatola degli orrori storici l'eugenetica, pseudoscienza che postula un nesso tra selezione genetica e progresso sociale, sia un signore che di nome fa Eugenio. Così scriveva su L'Espresso il 7 agosto scorso:
Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana.
Il tema non gli è nuovo. A sentir lui, di «meticciato» avrebbe già discusso l'anno scorso nientemeno che con il Santo Padre, ricevendone la seguente previsione: «dopo due, tre, quattro generazioni, quei popoli si integrano e la loro diversità tende a scomparire del tutto». Dopo una seconda udienza nell'estate di quest'anno, ci assicurava che:
La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall'Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l'integrazione delle razze, delle religioni, della cultura.
Manca giusto dire che rende il pelo più lucido.
Nazionalismi, seccessioni, biopotere. Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?
L’articolo di Pierluigi
Fagan, ripreso da Megachip è una sintesi
perfetta dei problemi che affliggono questa nuova crisi di
quella lunghissima
modernità che ci accompagna dalla rivoluzione
scientifica e soprattutto dalla prima rivoluzione industriale
e dal tradimento
ottocentesco della rivoluzione francese - quando nascono
l’individuo moderno e il liberalismo ma anche, con Foucault,
la società
disciplinare/biopolitica e del controllo.
Ma allora, che fare? - davanti a questa crisi che nuovamente produce l’esplosione delle identità collettive, lo svuotamento delle identità individuali, la rinascita di autoritarismi nazionalismi e populismi, mentre illude di nuove soggettività/diritti individuali cancellando allo stesso tempo quei diritti sociali che ne sono la premessa e la sostanza?
Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?
Servono risposte che siano davvero altre rispetto a quelle inventate fin qui dalla modernità per gestire il suo potere e le sue crisi (lo Stato, la sovranità, l’individuo, i totalitarismi, il fordismo, il consumismo, l’industria culturale, oggi la rete).
Non sono un amante dei cellulari, ma essendo ormai inevitabili qualche settimana fa ho dovuto sostituire il vecchio e naturalmente l’ho fatto cercando nei limiti del possibile di evitare i profitti della filiera che vanno dal 1000 al 1200 per cento e nello stesso tempo di prendere un prodotto aggiornato. Quindi anche con il lettore di impronte digitali per sbloccare l’apparecchio: solo uno dei tanti sistemi del dispositivo per evitare che qualcuno vada a leggere nella nostra anima di silicio: pin, password, particolari movenze sullo schermo, insomma una panoplia di sistemi a usbergo della nostra privatezza.
Senonché appena configurato l’apparecchio per scaricare e utilizzare una qualsiasi app dobbiamo concedere l’accesso a tutti i nostri dati, foto, scritti, contatti e quant’altro così da fare il nostro trionfale ingresso in un mondo grottesco nel quale possiamo negare qualsiasi informazione a mogli, mariti, fidanzati, amanti, amici, colleghi, parenti, magari ladri, insomma alle persone in carne ed ossa con le quali abbiamo un contatto reale, ma diciamo tutto di noi a grandi fratelli che poi faranno fruttare in senso commerciale i nostri gusti, le nostre curiosità, i nostri interessi, i nostri acquisti e viaggi, le nostre vite, ammesso che esse già non consistano nel consumo di qualcosa. E poi all’occasione le svenderanno ai servizi e al potere di cui essi stessi del resto fanno parte.
Non è dato sapere se Zygmunt Bauman volesse correggere, modificare il manoscritto pubblicato con il titolo Retrotopia dall’inglese Polity Press, in Italia, da Laterza, la casa editrice che ha curato e tradotto gran parte della sua prolifica produzione teorica (pp. 181, euro 15).
È però un testo che può essere letto come un «testamento» del sociologo polacco e in cui è evidente un cambiamento radicale nel disegno del mosaico sulla società contemporanea, costruito in oltre trentanni. Alla fine degli anni Ottanta del Novecento, lo studioso ha voluto chiamare tale occorrenza «modernità liquida».
Per Bauman, è noto, sono evaporate come neve al sole le solide istituzioni del vivere in società emerse in secoli di conflitti sociali, guerre tra stati, ambiziosi progetti di plasmare l’«uomo nuovo» facendo leva sullo stato nazionale.
Dissolte certo, tuttavia per essere sostituite da un flusso più o meno tumultuoso di soggettivià, stili di vita, consuetudini. Un fiume che può essere certo incanalato – questo compito Bauman lo assegna al consumo – senza mai dare vita a istituzioni stabili nel tempo e nello spazio. Tutto è cioè transitorio e, come dettagliava, ambivalente. Il sociale della modernità liquida è cioè aperto a un esito di liberazione e di libertà, ma anche di oppressione e di conferma a una condizione di subalternità.
Marx parla poco del comunismo: quando lo fa sembra riferirsi allo stesso tempo ad un processo (o movimento), che porta al cambiamento radicale dell’attuale forma d’organizzazione sociale, con l’abbattimento decisivo della struttura capitalistica dei rapporti sociali di produzione, e a una nuova condizione umana di libertà in cui possono essere soddisfatti i bisogni reali di ciascuno e di tutti e in cui tutti e ciascuno partecipino alla costruzione consapevole e cosciente di un futuro razionalmente concepito. Quindi, progresso e trasformazione. Lo scopo della società futura è la massima felicità per tutti gli uomini. Vale il famoso slogan da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni con la premessa che ad ogni uomo deve essere assicurato il pieno sviluppo delle sue capacità innate e/o apprese. Il comunismo costituisce la negazione del capitalismo, dato che la sua realizzazione si basa sull’eliminazione della proprietà privata e quindi del lavoro alienato. Tuttavia, pensare al comunismo in termini di progresso significa ereditare il patrimonio intellettuale lasciato dalle conquiste “progressive” del capitalismo, dall’abolizione degli antichi privilegi, delle credenze fideistiche, allo sviluppo della scienza e della tecnica (ovviamente nessuna nostalgia per i “buoni selvaggi” o per le comunità ascetiche). E quindi le condizioni necessarie per l’affermazione del comunismo sono poste dallo sviluppo capitalistico pienamente dispiegato.
Nel 1970 e per poco più di 10 anni Feltrinelli pubblicò una collana dal titolo “Franchi Narratori”, in cui comparvero testi “eterodossi” rispetto sia alla saggistica che alla narrativa, cioè di fatto resoconti di storie e punti di vista non comuni, poco televisivi o poco presenti nel discorso pubblico, su temi anche scabrosi. La conversazione con questa ragazza, di 20 anni, di cui rispettiamo l’anonimato, potrebbe stare forse in quella collana, per la radicalità del suo punto di vista, così profondamente insoddisfatto del mondo, ma in costante ascolto delle grandi questioni che lo attraversano, alla ricerca della verità. Forse non rappresenta un posizione comune nella sua generazione ma certamente testimonia una lucidità di analisi e una capacità critica di cui molti adulti non si sono accorti, rispetto alle ragazze che hanno di fronte.
* * * *
Quando nasce in te una spinta politica, o una sensibilità spiccata verso le faccende del mondo?
Ero piuttosto piccola. Mi sono sempre interessata a tematiche non comuni fra i miei coetanei, già alle elementari ero molto concentrata su questioni ambientali, seguivo un po’ Greeenpeace, nella misura in cui potevo, ero molto sensibile su questi argomenti, lo sentivo anche in maniera emotiva, mi veniva da commuovermi e da piangere per situazioni ambientali, per i problemi dell’inquinamento.
Con la nuova legge elettorale, come già con l'Italicum, il Porcellum e il Mattarellum, il liberismo cerca di indebolire la democrazia
Al liberismo importa solo la deregulation morale, culturale e politica, perché è nel vuoto di valori e di solidarietà che i ricchi possono continuare ad arricchirsi. Il modello di Renzi e già prima di lui di Veltroni e buona parte del Pd (ancor più che di Berlusconi o di Forza Italia), sono gli Stati Uniti.
“Il Rosatellum non conviene a nessuno e non ci saranno maggioranze neanche con gli inciuci”, intitola il Fatto quotidiano riprendendo con linguaggio scandalistico una più sobria inchiesta del Corriere della sera secondo la quale con la nuova legge i risultati elettorali non porterebbero a significative variazioni o a una maggiore governabilità. È proprio un giornale liberista, il Fatto, e come tale del tutto incapace non solo di criticare ma anche di comprendere le strategie e i propositi del liberismo. Al liberismo non importa nulla della governabilità e tanto meno dell’efficienza, che infatti vengono istantaneamente sacrificate quando in qualsiasi modo possano nuocere ai ricchi, alle loro multinazionali e alla casta di servi sciocchi e privilegiati che li circondano.
Wolfgang Streeck: Solo all’interno degli stati nazionali può esserci vera democrazia
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