Israele sta bombardando Gaza da oltre
13 mesi: la crisi umanitaria in tutta la Palestina, così come
nelle aree limitrofe del Medio Oriente, ha raggiunto livelli
critici come mai
prima d’ora. L’ONU stima che oltre 43.000 palestinesi siano
stati uccisi, tra cui circa 17.000 bambini, e che più di
102.000 siano
rimasti feriti, mentre 1,9 milioni siano sfollati, su un
totale di 2,2 milioni di abitanti nella Striscia di Gaza! [1].
Sebbene si registri una tendenza positiva nell’opinione pubblica e nella partecipazione alle iniziative che condannano sempre più apertamente queste atrocità – come i movimenti studenteschi della scorsa primavera, che hanno visto la più grande ondata mondiale di occupazioni universitarie dai tempi della guerra in Vietnam – permane una forte reazione repressiva verso le critiche a Israele, che vengono censurate o, più spesso, grottescamente bollate come forme di antisemitismo, o violentemente sedate [2].
Proprio a causa di questa forte polarizzazione nell’informazione normalmente reperibile, sembra spesso di percepire una reticenza, uno scetticismo verso le differenti narrazioni, considerate faziose e strumentali, specialmente quelle a favore di Gaza, che da sempre sono appannaggio dei nostri ambienti di sinistra internazionalista, antimperialista e antisistema. Credo pertanto che molti delle nostre narrazioni nell’interesse della verità e della pace vengano spesso etichettate come ideologiche, poco obiettive e iperboliche, e quindi largamente ignorate, quando non apertamente avversate.
Questo articolo è un tentativo di raccontare una storia proprio a quegli scettici, confusi, o coloro che volutamente si arroccano su posizioni “neutrali”. È un pezzo scritto specificamente per i moderati, come chi, ad esempio per i motivi appena elencati, si irrigidisce quando sente la parola ‘genocidio’.
Sebbene sia in generale impossibile fornire dati oggettivi completamente privi di interpretazione, e lo dico da scienziato, sarà inevitabile, a un certo punto, riconoscere la competenza e l’autorità di alcune fonti, nonché la pertinenza di alcune analisi.
Come ogni Venerdì, ecco il terzo dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo"
3- La questione
nazionale.
Prima parte
“Gli operai non hanno patria”: queste parole del Manifesto del Partito Comunista scritte da Marx ed Engels spesso vengono citate con superficialità per dimostrare un preteso carattere “antipatriottico” del pensiero marxista e la sua incompatibilità con qualsiasi forma di orgoglio nazionale. Tali ricostruzioni non solo sono superficiali, ma dimostrano una profonda ignoranza dell’attività rivoluzionaria dei due fondatori del socialismo scientifico. Contestualizzare le parole del Manifesto nell’insieme del testo da cui sono tratte ne permette un’interpretazione scevra da deformazioni.
“Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia”: gli operai “non hanno patria” in quanto ogni paese era all’epoca controllato politicamente dalle classi possidenti, le quali privano il proletariato di ogni “cittadinanza”, impedendogli di godere pienamente dei frutti del proprio lavoro e della totalità delle attività sociali. Il proletariato “non ha patria” nella stessa misura in cui potevano non averla i perieci e gli iloti sotto il dominio spartano: non si tratta di negarne la Storia, la cultura, il carattere nazionale, ma di sottolinearne l’estraneità alla gestione del potere.
“Non hanno patria” indica l’assenza di potere politico, non di nazionalità, come emerge chiaramente dalle frasi successive, con l’invito al proletariato a “elevarsi a classe nazionale” conquistando quel potere, uscendo da quello stato d’asservimento e alienazione in cui l’ordine borghese lo condannava. Il proletariato lottando per la conquista del potere scopre il proprio carattere nazionale, che ha un “senso diverso da quello borghese”, in quanto superamento dialettico di questo.
Come
titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato
nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è
orrenda: imprecisa,
disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi,
tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa
è appesantita
da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui,
nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio
editoriale, da
trent’anni non pubblica nulla. Però.
Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.
L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.
È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:
Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.
Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:
Il dibattito sulla manovra di bilancio per il 2025 presenta alcuni aspetti paradossali. Essendo impostato su una strategia del Governo consistente nel rappresentare una realtà che non esiste, la discussione oscilla fra il surreale e la confusione (voluta) nel trattare aspetti tecnici complessi.
Proviamo a sfatare almeno qualche elemento principale di mistificazione.
1) Prima bugia: dice il Governo che la manovra condurrà a una maggiore crescita. Ma affinché una manovra stimoli l’economia, è necessario che sia espansiva. L’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche in realtà viene ridotto dal 3,8% del PIL nel 2024 al 3,3% nel 2025, dunque la politica di bilancio non è espansiva, bensì recessiva, ovvero avrà l’effetto di deprimere la crescita. Per di più, il 2025 è solo il primo anno di un percorso quinquennale, già individuato nel Piano strutturale di bilancio (PSB), che attraverso tagli successivi porterà l’indebitamento netto all’1,8% del PIL nel 2029, per rispettare le nuove regole europee. Lo stesso PSB lamenta il rischio che l’applicazione di politiche di riduzione del deficit in diversi paesi europei possa rendere l’impostazione delle politiche di bilancio dell’UE complessivamente restrittiva, mentre altrove ci si preoccupa di rispondere alle sfide tecnologiche e ambientali utilizzando ampiamente le risorse pubbliche. E, a conferma di questo “rischio” è la stessa Commissione Europea in questi giorni a dire che le stime di crescita dei Governi (a partire dall’Italia) sono troppo ottimistiche.
Con tutta probabilità l’ampia diffusione che il libro di Emmanuel Todd “La sconfitta dell’Occidente” (Fazi Editore, pagg. 354, euro 20) sta riscontrando a livello mondiale è da rintracciare nella intrigante molteplicità delle questioni trattate, che però hanno come scaturigine sia il fallimento della guerra per procura condotta dagli Stati Uniti e dalla Nato fino all’ultimo ucraino contro la Russia, che quello riguardante il regime delle sanzioni imposte dal blocco occidentale (che rappresenta il 12% della popolazione mondiale) contro il rublo.
Emmanuel Todd, storico, sociologo e antropologo proveniente dalla scuola francese dell’Annales, non è certamente un filo-putiniano, ma avendo letto sia Marx che Weber è in grado di demistificare la narrazione dominante, poiché mediante il supporto di alcuni indicatori di rilievo (la mortalità infantile e quella degli adulti, il tasso di omicidi, dei suicidi e della scolarizzazione, il numero dei detenuti, ecc…) individua gli elementi strutturali e sovrastrutturali essenziali sul piano comparativo per cogliere l’avanzamento o il regresso degli stati nazionali.
Semmai Todd è ascrivibile a quel filone del realismo geo-politico, sulla falsariga della rivista Limes, che nelle sue scrupolose e impietose disamine perviene a giudizi e previsioni che, come nel caso della vicenda dell’Ucraina, contrastano con quanto veicola il bombardamento mediatico quotidiano all’opinione pubblica, cavalcando una odiosa e devastante russofobia.
Solo un mese fa il Comitato per l'intelligence Usa e il Pentagono avevano raccomandato di non dare luce verde a Kiev...
Venerdì la telefonata tra Scholz e Putin nella quale quest’ultimo ha ribadito la sua apertura ai negoziati (Antiwar), due giorni dopo i media Usa hanno riportato che la Casa Bianca avrebbe dato il placet all’Ucraina per l’impiego di missili a lungo raggio contro il territorio russo (notizia data per certa).
Secondo Axios il loro uso sarebbe limitato alla sola regione di Kursk, ma secondo il Washington Post tale limitazione sarebbe provvisoria, cioè la portata dei bersagli “potrebbe estendersi”. La luce verde sarebbe stata data in risposta all’arrivo dei soldati nordcoreani in Russia, pretesto talmente risibile che è inutile commentare.
Si gioca a carte scoperte: l’oligarchia iper-atlantista che ha gestito il mondo negli ultimi decenni sa che l’elezione di Trump può eroderne il potere e sta reagendo. Due, per ora, le direttrici di tale reazione: la prima è cercare di minare la sua vittoria impedendo che ai dicasteri della nuova amministrazione vadano le persone da lui nominate.
I nomi preannunciati, infatti, dovranno ricevere l’approvazione del Congresso e il sistema si sta organizzando in modo che ciò non avvenga. Ha già dimostrato la sua forza con la nomina del capogruppo dei repubblicani al Senato, di fatto il presidente dell’assise, carica alla quale è stato eletto John Thune, considerato dai sostenitori più stretti di Trump un RINO (repubblicano solo di nome), essendo stato per anni il vice del precedente capogruppo repubblicano Mitch McConnell, antagonista dichiarato del tycoon prestato alla politica.
Mentre la portavoce del Pentagono, Sabrina Singh, ha espresso “grande preoccupazione” per la risposta russa al primo lancio di missili Atacms, il 23 e il 25 novembre Kiev ne ha lanciati altri 13 sulla regione russa di Kursk (fonti non ufficiali russe riferiscono di vittime tra i militari e danni a un sistema antiaereo S400).
Mosca ha annunciato che sta preparando la risposta. Immagino che sarà più dolorosa di quella di cinque giorni fa.
Il problema è noto ed è grave: ammesso che fisicamente siano dei militari ucraini a spingere il bottone di lancio, gli attacchi coi missili Atacms sono comunque guidati dagli Stati Uniti. Ragion per cui gli USA e la Russia sono ora in guerra de facto anche se non de jure. Ce lo facciamo spiegare dall'analista dell'Intelligence militare statunitense Rebekah Koffler:
https://www.foxnews.com/video/6365135301112
Dunque «ci stiamo avvicinando a una guerra nucleare», secondo l'Intelligence Community statunitense.
Si noti che già precedentemente sono stati lanciati missili occidentali sul territorio russo, con le stesse modalità. Il fatto che ora il Cremlino decida di rispondere in modo duro sembra indicare la volontà sia di prevenire attacchi più pesanti sia di mettere la Nato con le spalle al muro.
Definire gli scenari futuri della
presidenza Trump è difficile perché le promesse e le
dichiarazioni della campagna elettorale dovranno misurarsi con
una realtà
che per gli Usa è molto complessa.
Per capire perché Trump ha vinto elezioni dobbiamo rifarci al quadro generale. Gli Usa stanno attraversando da tempo una fase di declino, che è sia economico sia di egemonia. La Russia e soprattutto la Cina stanno sfidando il dominio storico degli Usa. Ma sono molti gli Stati del Sud del mondo che mettono in discussione il vecchio ordine mondiale risalente agli Accordi di Bretton Woods del 1944, che sancirono il dominio degli Usa e del dollaro a livello mondiale.
Per frenare tale declino gli Usa, spinti soprattutto dalla corrente neoconservatrice, negli ultimi decenni hanno adottato una politica imperialista aggressiva che non ha risolto la situazione ma ha accelerato il loro declino. Questa strategia aggressiva è stata propugnata dal blocco dominante in modo bipartisan. Ma, di fronte agli insuccessi della strategia adottata fino a ora, è cresciuta all’interno dell’élite dominante una tendenza che è orientata a cambiare rotta.
Di fatto, si è prodotta, a causa della crisi degli Usa, una spaccatura all’interno della classe dominante, che ha rotto il tradizionale consenso bipartisan che era in vigore specialmente nella politica estera. La frazione dell’élite che è per il cambiamento è ricorsa a un outsider fuori dai partiti tradizionali, Trump, e al populismo politico, sfruttando le contraddizioni economiche che hanno impoverito milioni di americani. La virulenza della campagna elettorale, con i suoi toni particolarmente accesi, e i tentativi di eliminare Trump per via giudiziaria e finanche fisicamente, sono il riflesso di una forte tensione politica all’interno della classe dominante statunitense come non si osservava da molto tempo. Trump è appoggiato da diversi di settori del capitale, a partire da quelli più innovativi delle criptovalute e delle big tech, rappresentati da Elon Musk, ma anche da Jeff Bezos, il patron di Amazon, che ha impedito al quotidiano di sua proprietà, l’autorevole Washington Post, di dare il tradizionale appoggio ai democratici e a Kamala Harris, facendo poi i complimenti, per nulla scontati, a Trump una volta che questi è stato eletto.
La tragedia a cui sembra
essersi consegnato il Politico negli stati europei negli
ultimi trent’anni – tragedia egualmente composta tanto di impotenza
verso i problemi strutturali posti dalla vittoria
temporanea della globalizzazione, quanto afasia per
l’incapacità di
tematizzare, e persino di nominare, i suddetti problemi –
sembra avere origini ben precedenti al crollo del muro di
Berlino e
l’affermazione, apparentemente assoluta, di un capitalismo
anomico e di un individualismo sfrenato, entro cui sembra
confinata ogni risposta
possibile e ogni caduco tentativo di insorgenza. In effetti,
il nichilismo del postmoderno sembra trovare luogo
già in alcune figure
teoriche della modernità. È quindi impreteribile urgenza
capire che l’origine di questi mali è da identificare negli
strumenti della cattiva metafisica. E, senza che questo sia un
momento speculativo separato o consecutivo, pensare e nominare
quelle nuove categorie
che costituiranno non solo lo spazio teorico, ma anche, e
soprattutto, lo spazio di agibilità politica per la prassi del
XXI secolo.
Questo è il tentativo che prova a fare il prof. Carmelo Meazza, ordinario di filosofia morale a Sassari, in una delle sue ultime monografie: Il nichilismo della forma politica. Nell’eredità del comunismo im/possibile di Jean-Luc Nancy (Orthotes, Napoli 2024). Come dice il titolo, il saggio non è una monografia integralmente dedicata al filosofo francese, ma si rifà ad alcune sue intuizioni, portandole alle estreme conseguenze teoretiche.
Per capire cosa intenda Meazza con “nichilismo della forma”, dobbiamo ricostruire quello che, nei primi capitoli del saggio, viene individuato come vizio strutturale di ogni fondazione. Ogni ente, in quanto de-limitato, è già consegnato costitutivamente alla propria scomparsa, in quanto depositato nella possibilità della propria stessa negazione. La mela è fissata in ente perché in quanto ente è imminente la possibilità della sua negazione: che marcisca, germogli in melo, che venga mangiata et similia. Ma se io edifico qualcosa su un ente tutto quanto ciò che v’è sopra – il fondato – oscilla nella possibilità della nientificazione insieme al fondamento.
Leggere la mente grazie alle neuro-tecnologie e
alle neuro-scienze, manipolarla ben oltre quanto fatto dai
totalitarismi del ‘900 e della
pubblicità e dalla propaganda; e la libertà e la democrazia
messe a rischio da una oligarchia di imprenditori del Big
Tech, tra
anarco-capitalisti e transumanisti ed Elon Musk, che qualcuno
si ostina a chiamare visionari; e scienziati che
invece di lavorare per
accrescere e diffondere il sapere lo azzerano incorporandolo e
soprattutto centralizzandolo in
macchine/algoritmi/intelligenza artificiale, creando un
uomo sempre meno sapiens e sempre più macchina.
E su tutto, la tecnologia, che avanza a grandi passi, sempre
più
veloci, realizzando ben altro che il Grande Fratello
orwelliano.
A molti, tutto questo sembra fantascienza, ma è la realtà già di oggi. E dunque, è tempo di rivendicare un nuovo diritto, quello alla libertà cognitiva, come lo definisce Nita Farahany – che insegna Diritto e Filosofia alla Duke University – in questo suo libro da poco tradotto in italiano e dal titolo programmatico se non imperativo di Difendere il nostro cervello (Bollati Boringhieri, pag. 482, € 27.00). Ma come rivendicare questo diritto alla libertà cognitiva – concetto e diritto bellissimo e soprattutto urgente - se da tempo abbiamo già rinunciato (come richiesto dal capitale, che necessitava dei nostri dati) al diritto alla privacy e che era il presupposto per la libertà individuale; se ogni giorno produciamo appunto dati che servono a toglierci la libertà di pensare (e il lavoro prossimo venturo), delegando tutto alle macchine/algoritmi/i.a.? Forse per avere le risposte prima ancora di avere fatto le domande – nella neolingua aziendalistica dominante si chiama efficientare? Perché siamo feticisti della tecnica? Perché abbiamo paura della libertà? Forse stiamo entrando nel transumano, senza rendercene conto? O perché siamo governati da tecno-crazie e imprenditori e non più dalla politica e dal demos, realizzandosi in pieno il programma del positivismo ottocentesco? Ma su tutto: siamo capaci di fermare le macchine e i neuro-scienziati se i rischi per l’uomo e la libertà stanno diventando – e lo stanno diventando – troppo grandi?
Il gossip ha attribuito le sortite di Elon Musk contro i magistrati italiani alla sua infatuazione per Giorgia Meloni. Perché no? In fondo sono entrambi personaggi costruiti su archetipi fiabeschi. Lei è la Cenerentola della Garbatella, perseguitata dalla sorellastra invidiosa Elly Schlein, ma che riesce comunque a farsi invitare al Gran Ballo dove tocca il cuore dei potenti e magari trova pure il Principe Azzurro. Elon Musk può rivestire i panni del Principe Azzurro, ma vanta soprattutto una carriera da ibrido mitologico: come padrone di Tesla dà vita e forma a uno dei feticci preferiti dal politicamente corretto in vena di emergenzialismo climatico, cioè l’auto elettrica; come padrone di “X” cavalca il politicamente scorretto seminando battute impertinenti quanto irrilevanti, ma che sono comunque sufficienti a gratificare quella parte di opinione pubblica che crede di potersi opporre alle oligarchie facendo il tifo per qualche oligarca più scavezzacollo. Pur essendo un personaggio mediaticamente controverso, la miliardariolatria in versione Musk trionfa nel talk-show, riuscendo a mettere d’accordo il diavolo e l’acqua santa, infatti Marco Travaglio e Italo Bocchino concordano nel definire Musk un “genio”. Il concetto di genialità risulta piuttosto dilatabile, tanto che, volendo, potrebbe essere applicato persino ad Antonio Tajani.
In una cosa però Musk è sicuramente bravo, cioè nel percepire sussidi governativi, quindi a farsi assistere dal contribuente.
La decisione di Putin di firmare, e quindi rendere pienamente operativa, la revisione della “dottrina nucleare” russa, nelle stesse ore in cui l’Ucraina lanciava missili statunitensi Atacms nella regione di Bryansk, va analizzata sia dal punto di vista militare che da quello politico-diplomatico.
Una “dottrina”, infatti, non è un algoritmo che ne rende automatica l’applicazione nei casi lì indicati, ma delinea il quadro di condizioni in cui il responsabile ultimo (Putin, ovviamente) può decidere di utilizzare le atomiche e anche di quale tipo (strategiche o tattiche), e contro chi.
Sul piano puramente militare cambia parecchio, perché la “minaccia esistenziale per l’integrità e sovranità del paese” – necessaria per prendere in considerazione l’uso delle atomiche – si allarga ora anche all’eventualità che questa minaccia venga da un paese senza atomiche ma che viene sostenuto operativamente da altre potenze nucleari.
E’ evidente che l’Ucraina è il primo “sospettato”, visto che c’è una guerra in corso da quasi tre anni e che Kiev viene supportata da ben tre potenze nucleari: Usa, Gran Bretagna e Francia.
Fuori del linguaggio teorico, se qualcuno in Occidente pensa (ed è evidente che sia stato pensato) di utilizzare una media potenza “convenzionale” per logorare la Russia e poi, eventualmente, portare colpi direttamente, quel qualcuno deve sapere che prima di arrivare a quel punto le armi nucleari passeranno dalla pura “deterrenza” al lancio concreto. Sui “mandanti di Kiev”, oltre che sull’Ucraina…
Il gesto provocatorio è più simbolico che una minaccia sostanziale. La Russia dovrebbe ignorarlo e concentrarsi sulla demolizione del regime proxy della NATO a Kiev
Per quanto riguarda le provocazioni, l’ultima del Presidente Joe Biden, che autorizza l’uso di missili a lungo raggio contro la Russia, è certamente spregiudicata. Ma, alla fine, nella pratica, è un gesto patetico di un presidente zoppo che non avrà alcun impatto sulla prevista vittoria militare della Russia contro il regime di Kiev armato dalla NATO.
La decisione di Biden, secondo quanto riportato, è un ultimo tentativo disperato per provocare un’escalation con la Russia e sabotare i piani del Presidente eletto Trump di porre fine al conflitto in Ucraina. La mossa di Biden è sconsiderata, riprovevole e odiosa. Ma non dovrebbe essere considerata una minaccia seria.
La Russia farebbe meglio a ignorarla. Naturalmente, la Russia deve difendersi da ogni potenziale minaccia al suo territorio che tali armi potrebbero rappresentare. Tuttavia, Mosca dovrebbe continuare a esercitare la moderazione strategica per la quale il Presidente Putin è famoso, e non reagire alla provocazione.
Comprensibilmente, i politici e i media russi hanno reagito furiosamente alle notizie dei media statunitensi secondo cui Biden avrebbe dato il via libera all’esercito ucraino per schierare gli ATACMS di fabbricazione americana per colpire in profondità nel territorio russo. I missili supersonici Mach-3 lanciati da terra hanno una gittata fino a 300 chilometri.
Teatro e politica, come gli antichi sapevano, sono strettamente legati ed è improbabile che la scena teatrale sia viva quando quella politica muore o si eclissa. Eppure, in un paese in cui la politica sembra ormai fatta soltanto da mummie che pretendono di dirigere la loro esumazione, è stato possibile nei giorni scorsi assistere in un piccolo teatro veneziano a una rappresentazione così piena di vita e di intelligenza che gli spettatori – come dovrebbe sempre avvenire a teatro – ne sono usciti più consapevoli e quasi fisicamente rigenerati. Un simile miracolo non è avvenuto per caso. Piermario Vescovo, nella sua esemplare conoscenza della storia del teatro, è lucidamente ricorso a una tradizione apparentemente minore, ma in verità, soprattutto in Italia, certamente maggiore, quella dei burattini. Ma lo ha fatto – e qui è la novità – coniugando la presenza del corpo di sei attrici a quella dei burattini che esse impugnano e muovono, in modo che tra i vivi e i morti, tra i corpi imponenti delle attrici che recitano e quelli sparuti ma non meno presenti dei burattini avviene uno scambio incommensurabile, in cui la vita trascorre incessantemente nei due sensi e non è chiaro alla fine se siano le attrici a muovere i burattini o questi a scuotere e animare le attrici. Nunzio Zappella, uno degli ultimi grandi guaratellari napoletani, mostrando il suo piccolo, ormai logoro Pulcinella ha detto una volta: «è mio padre!».
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[Continua la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]
Se decliniamo, infatti,
il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale
avremo la netta sensazione di come le argomentazioni
lukácsiane abbiano ben
poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano
esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre
qualcosa di più che
un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le
affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei
nostri
mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una
disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità
radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi
posti in campo dall’ortodossia, abbia continuato a nutrire
verso tutto
ciò che continuava a essere in odor di eresia e, aspetto forse
ancora più significativo, verso quella teoria politica, come
nel caso di
Fanon, che nel marxismo ortodosso individuava un non
secondario tratto colonialista. Mentre l’oggettivismo
imperante dentro il mondo comunista
non poteva che essere un elemento di rafforzamento dello
status quo, tanto a ovest come a est, l’umanesimo marxiano di
Lukács apriva
verso quel mondo colonizzato il quale, proprio nei suoi
aspetti più radicali e rivoluzionari, si appropriava
interamente della sovversione
marxiana giovanile. Va da sé che, in un simile contesto,
l’attualità della rivoluzione non può che essere
l’attualità di una prassi. La riscoperta di Lukács coincide
con la riscoperta della attualità della rivoluzione
e
di quel passaggio dalla preistoria alla storia che
sempre fa da sfondo all’insorgenza dei subalterni. In fondo
quel tratto escatologico
che aveva contrassegnato la rivista eretica “Kommunismus” è
proprio di tutte le ere rivoluzionarie, il riscatto è sempre
alla fonte della lotta di classe. Ma torniamo al nostro
pamphlet.
Il testo su Lenin è tanto più stupefacente se teniamo a mente che, nel momento in cui viene scritto, l’autore è ben distante dal conoscere gran parte della produzione leniniana, della quale ha, però, una profonda conoscenza empirica. È un Lenin conosciuto nella prassi, dentro quel turbinio di fatti che il treno della rivoluzione scandiva a ogni suo passaggio. Un treno dove le fermate e le ripartenze e la stessa velocità di crociera non poteva essere predeterminata. Solo il fuoco della lotta di classe, di tutte le classi sociali in lotta, offriva il combustibile alla locomotiva.
Un’ipotesi plausibile, viste le condizioni
del lavoro in Italia ma, più che evocata, la rivolta sociale
andrebbe
praticata.
Il segretario della Cgil, Landini, l’ha evocata in relazione alla situazione che ha portato la Cgil e la Uil a proclamare lo sciopero generale per il 29 novembre.
In effetti, la condizione dei lavoratori italiani è tragica da tutti i punti di vista.
Gli stipendi, dal 1990 al 2020, in Italia sono diminuiti del 2,9%, in tutta Europa si è registrata una crescita, la più bassa, in Spagna, è stata del 10%.
Su 17 milioni di lavoratori del settore privato 7,9 milioni sono lavoratori discontinui, 2,2 milioni sono part-time, assieme sono il 60% dei lavoratori privati.
A questi lavoratori con redditi stabilmente bassi andrebbero aggiunti tutti quelli in cassa integrazione, che hanno uno stipendio ridotto tra il 50 e il 60% del normale.
Ma, come abbiamo già visto, anche ai lavoratori stabili non è andata bene, in questi ultimi 30 anni il loro stipendio non solo non è cresciuto ma si è ridotto del 3%.
Da anni, varie fonti, dai sindacati alla Caritas, ma anche l’Istat, registrano un aumento progressivo della povertà anche tra persone che hanno un lavoro.
Una progressiva povertà che i ceti popolari misurano ogni giorno quando fanno la spesa.
Sulla situazione già tragica dei salari si è innestata l’impennata inflazionistica di questi ultimi anni, impennata che, nonostante i dati ufficiali manipolati, continua; infatti, i rincari dei generi di prima necessità, in primo luogo gli alimentari, sono ancora attorno al 9/10%.
Ma a che serve separare concettualmente politica e guerra? In termini pratici, a nulla: questo non porrà termine alla guerra. Serve a un’igiene del pensiero, a non scambiare il disordine con l’ordine, l’abnorme con il normale, la morte con la vita
Il nesso forte,
sostanziale, tra guerra e politica è uno dei (pochi) punti
fermi del pensiero politico contemporaneo. Non esiste o quasi,
oggi, filosofo o
politologo che non dia per ovvio che la guerra sia un atto
politico, se non l’atto politico per eccellenza, uno dei
poteri che per antica
tradizione definiscono il sovrano, cioè, oggi, lo Stato: lo ius
gladii, il diritto di spada. Che non è solo il diritto
sovrano
di fare la guerra, ma il diritto sovrano di disporre della
vita dei sudditi; tanto di mandarli a rischiare la vita in
guerra, quanto di condannarli a
morte. E ne risulta, anche nelle attuali forme democratiche
dello Stato, il correlativo dovere dei cittadini di mettere la
propria vita a disposizione
dello Stato, o meglio, come più spesso si dice quando è
questione di sacrificare la vita, a disposizione della Patria.
Come fa anche la
nostra Costituzione all’art. 52, parlando, in quest’unico
caso, di “sacro dovere”.
Ripercorrere la teorizzazione di questo nesso, tanto dell’essere sovrano quanto dell’essere cittadini, con la guerra sarebbe contemporaneamente facilissimo e impossibile. Facilissimo perché basterebbe un poco di pazienza per accumulare una quantità indefinita di citazioni, a partire dalla Grecia antica, senza affatto escludere il cristianesimo; impossibile perché la sovrabbondanza sarebbe tale da impedire comunque di tracciare un quadro completo. Mi limiterò a tre rapidi sondaggi nel pensiero contemporaneo: ulteriori approfondimenti sarebbero tipici sfondamenti di porte aperte.
Hegel, Schmitt. La politica è guerra, la guerra è politica
Comincio da quello che è il massimo teorico dello Stato nel pensiero classico tedesco: Hegel. Nel § 324 dei Lineamenti di filosofia del diritto, citando una sua opera precedente, Hegel sostiene che la guerra è il momento di suprema unificazione etica dello Stato, perché è il momento in cui i diritti individuali dei cittadini, compresi quelli alla vita e alla proprietà, rivelano la propria accidentalità e vengono giustamente sacrificati al superiore bene dello Stato, che è l’universale oggettivo.
Stasera se n’è accorto tutto il mondo: Mosca non bluffa. Il missile balistico ipersonico di medio-lungo raggio a testate multiple indipendenti lanciato dalla Russia verso l’Ucraina chiarisce infatti molto bene le idee a un bel po’ di teste calde ma vuote che abbiamo da questo lato del mondo. A tutti gli irresponsabili che credono che Mosca si arrenderà davanti all’insistenza delle loro provocazioni, il lancio di risposta è arrivato assieme a un messaggio di Vladimir Putin. Il messaggio della sera del 21 novembre completa quel suo primo messaggio di qualche settimana fa, che i governanti sguatteri di Washington e il loro coro di giornalisti russofobi non avevano voluto prendere sul serio, nonostante non lasciasse margini a dubbi.
Tutto molto chiaro: il lancio dal suolo ucraino di una tipologia di missili a lungo raggio che può funzionare solo con l’assistenza tecnologica, satellitare e organizzativa di potenze esterne alle forze armate ucraine implica il coinvolgimento diretto in una guerra alla Russia di quelle stesse potenze, e a catena implica un adattamento della risposta russa. Dunque: un cambiamento della dottrina sull’uso dell’arma nucleare, un impiego di armamenti inediti che riequilibrino il nuovo livello della minaccia, la considerazione delle basi militari delle potenze che aggrediscono il territorio della Russia come obiettivi legittimi di una necessaria risposta.
L'Africa ha ora bisogno essenzialmente di volontà politica per combattere i problemi infrastrutturali, il deficit di capitale umano e il deficit istituzionale
Johannesburg – Al vertice annuale dell'APEC a Lima, il compagno Xi Jinping è stato praticamente incoronato Re del Perù, mentre un vivace banchetto mobile celebrava la nuova Via della Seta Marittima Chancay-Shanghai da 1,3 miliardi di dollari attraverso il Pacifico.
Non poteva esserci una controparte più propizia all'azione in Sud America che riunirsi in Sudafrica, membro dei BRICS, per discutere dell'unità africana in un Mondo Multipolare, nonché delle piaghe perenni del razzismo, del fascismo, della russofobia e di altre forme di discriminazione. Gli incontri sono stati coordinati dal Mouvement Russophile International (MIR), che non è solo russofilo ma soprattutto multi-nodalo-filo (corsivo mio).
È come se si trattasse di un'estensione del memorabile vertice BRICS 2024 di Kazan.
A Kazan, il BRICS si è di fatto espanso da 9 membri, aggiungendo 13 membri-partner e raggiungendo 22 nazioni (l'Arabia Saudita, un caso immensamente complesso, rimane in bilico). Il BRICS+ ora supera ampiamente l'influenza – in declino – del G20, il cui vertice annuale è in corso a Rio, almeno incentrato su questioni sociali e sulla lotta alla povertà e alla fame, e non sulla guerra. Tuttavia, il G7/NATOstan, in crisi, ha cercato di dirottare l'agenda.
È molto precisa e circostanziata la definizione che formula Gianluca Cuozzo dell’immondizia, della spazzatura o, detto in termini spregiativi e perciò richiamanti alla colpa, della munnezza. Il rifiuto è il «non-appropriabile per eccellenza», il «controcanto osceno della produzione e del consumo», esso «scardina l’immagine precostituita del mondo dato avanzando una riserva di senso – l’inadempiuto – che non aveva avuto spazio nell’orizzonte istituito dal progetto d’ordine» (G. Cuozzo, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamin a Wall-E, Moretti&Vitali, Bergamo 2013, p. 25). In questo senso, la spazzatura è portatrice sana e feconda di utopia, poiché intrinsecamente alla sua essenza giace una carica di senso eversiva in grado di scardinare il continuum storico del progresso, con la propria presenza scandalosa e peccaminosa, e di irrompere nelle strutture semantiche consolidate per prefigurare qualcosa d’altro, che poteva essere ma che non è più, che ha ancora qualcosa da significare ma che è strozzato, ridotto all’asfissia, peggio compattato e ridotto in poltiglia, mummificato nella terra stratificata e pressurizzato in discarica. È in quest’ultima che va trovata la chance della salvezza, va ricercata, diciamolo meglio, la ferita da rimarginare per il condono esistenziale dalla propria colpa, più esattamente dalla colpa della produzione e della scorificazione universale.
Il test di combattimento del nuovo missile balistico ipersonico russo “Oreshnik”, annunciato dal presidente Vladimir Putin, segna un’importante evoluzione tecnologica e strategica nel conflitto tra Russia e Ucraina. L’attacco, diretto contro un complesso industriale militare nella città ucraina di Dnepropetrovsk, è stato presentato come una risposta diretta agli attacchi ucraini su territori russi internazionalmente riconosciuti, effettuati con armamenti avanzati forniti da Stati Uniti e Regno Unito, come i missili a lunga gittata ATACMS e Storm Shadow.
Superiorità tecnologica russa
“Oreshnik” è un missile balistico a medio raggio con capacità ipersoniche, in grado di raggiungere velocità di Mach 10 (circa 3 km al secondo).
Con la sua tecnologia avanzata e la capacità di manovrare in modo imprevedibile, Oreshnik rappresenta una minaccia significativa per i sistemi di difesa statunitensi.
Uno dei principali vantaggi del missile ipersonico Oreshnik è la sua velocità. Viaggiando a velocità così elevate, può raggiungere il suo obiettivo in pochi minuti, rendendo inefficaci i tradizionali sistemi di difesa missilistica. Questa rapida velocità rende anche difficile per le forze nemiche rilevare e intercettare il missile prima che raggiunga la destinazione prevista. Ciò rende Oreshnik uno strumento inestimabile per la Russia in qualsiasi potenziale conflitto con gli Stati Uniti.
1. La
Palestina vista dall’Italia
Un’effervescenza di mobilitazioni, di assemblee, di manifesti, di dichiarazioni, accompagnati da tante, tante bandiere, in una coreografia spontanea e vivace di gesti e di discorsi nelle piazze: questa è la forma sociale in cui le lotte palestinesi attraversano l’Italia. La piazza non smentisce la rete attirando soltanto sparuti gruppetti, ma moltiplica gli effetti degli articoli, dei commenti e dei comunicati con cortei e raduni di massa trascinanti e combattivi. Sembra – e forse è ben più di un’impressione – che le resistenze sociali alle nuove discipline capitalistiche del lavoro, all’impoverimento sempre maggiore di ampi settori della società e alla militarizzazione della legislazione penale nel segno delle emergenze, abbiano finalmente trovato un collante capace di unificarne gli intenti e di concentrarne gli sforzi. Così, per quanto nessuna ricomposizione di classe possa essere intravista all’orizzonte, nelle fasce sociali dove il disagio e la sofferenza sono più acute e diffuse, ossia nelle fasce sociali più o meno proletarie o proletarizzate, l’avversione nei confronti dello “stato di cose presente” viene politicizzato attraverso differenti forme di coinvolgimento nelle azioni di massa costruite e animate dalle organizzazioni palestinesi.
Occorre dissipare un possibile malinteso: non siamo di fronte a una delega triste e obliqua, a una falsificazione equivoca di compiti e di ruoli e, meno che mai, può essere maliziosamente sospettato uno spostamento sostitutivo di scopi, ascrivibile a fantomatiche dinamiche inconsce; quanto avviene è piuttosto il “riconoscimento” di una dimensione storico-mondiale della lotta dei palestinesi, di una radicalità in essa racchiusa, di una radicalità determinata da un’inevitabile frattura delle linee di espansione, di accumulazione e di conquista dell’imperialismo occidentale. La lunghissima, rinascente e multiforme guerra di popolo dei palestinesi contro le strategie concentrazionarie, le pulizie etniche e il terrore militare di Israele, è stata, infatti, l’ostacolo che ha spesso spezzato la traiettoria del riassetto neocoloniale del Medio Oriente, rendendo avvertibile la possibilità di una Rivoluzione socialista araba.
Alcune settimane fa Alessandro
Visalli, il quale era giunto a conoscenza della sua esistenza
da un post su Internet, mi ha segnalato un libro del 1973: Filosofia
della rivolta.
Critica della sinistra radicale, del filosofo sovietico
Eduard Jakovlevič Batalov. Il libro, uscito in
edizione italiana qualche anno
fa per i tipi della Anteo Edizioni, benché infarcito di refusi
e tradotto malissimo (solo chi disponga di una buona
conoscenza degli argomenti
è in grado di afferrare il senso di certi passaggi al limite
della incomprensibilità) è di indiscutibile interesse storico
da
vari punti di vista.
In primo luogo, perché questa analisi di un intellettuale russo dell’era brezneviana sulle sinistre radicali degli anni Sessanta in Occidente, permette di comprendere meglio con quali occhiali teorici e ideologici la cultura sovietica di allora osservasse la società tardo capitalista e i suoi conflitti di classe, le lotte del Terzo Mondo, le prospettive del movimento comunista e della rivoluzione mondiale, il tutto non molto prima di andare incontro alla propria dissoluzione. Poi perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua stesura, il bilancio che Batalov traccia dei limiti della cosiddetta Nuova Sinistra e delle ragioni del suo fallimento (estendibile al fallimento dei “nuovi movimenti” che ne hanno raccolto l’eredità culturale e politica) anticipa una riflessione critica che, alle nostre latitudini, è maturata solo a partire dai primi del Duemila. Infine, perché è una lettura che aiuta a capire come i punti di vista dei soggetti criticati e il punto di vista di chi li critica, per quanto apparentemente opposti, condividessero una serie di elementi che hanno impedito a entrambi di prevedere e contrastare la controrivoluzione liberale che di lì a poco li avrebbe duramente sconfitti.
I bersagli critici di Batalov
Sul piano ideologico e filosofico, le critiche di Batalov puntano il dito in particolare contro il sociologo americano Wright Mills; contro i membri della scuola di Francoforte e il loro concetto di “dialettica negativa” (1),
Jonathan Haidt è uno
psicologo sociale che insegna alla Stern
School of Business della New York University. La sua ricerca
si concentra sugli aspetti
psicologici del comportamento morale.
Quest’ultimo è un campo d’indagine che riguarda quel che gli
individui
ritengono utile e di valore, e cosa essi fanno per vivere
all’altezza dei propri orientamenti morali, ovvero di quel che
gli individui ritengono
utile e di valore, e di cosa essi fanno per vivere all’altezza
dei propri orientamenti morali.
La generazione ansiosa del suo libro più recente, The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood is Causing an Epidemic of Mental Illness (Penguin, New York, 2024) – in italiano per Rizzoli con il titolo La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli – è quella di chi si è affacciato all’adolescenza nei primi anni 10 del ventunesimo secolo (la cosiddetta generazione Z). In quegli anni, i social si sono imposti come imprescindibile e privilegiato veicolo del rapporto con gli altri, plasmando sul proprio codice comunicativo la mente dei giovani utenti, il modo in cui essi fanno esperienza del mondo e degli affetti – ecco il great rewiring a cui fa riferimento il sottotitolo dell’edizione inglese del libro, dalla cui versione ebook citiamo nel seguito di questo articolo.
Essere bambini e poi adolescenti negli anni dei social, sostiene Haidt, è come «crescere su Marte» (pp. 1-16), ovvero in un mondo non solo completamente diverso da quello a cui si era abituati, ma anche pericolosamente incline a flirtare con l’irrealtà, e con ideali tossici di comportamento e bellezza. È vero che l’industria tech – a partire dalla TV negli anni 50 – ha sempre cambiato la vita tanto degli adulti quanto dei bambini. Già nel 1965, ad esempio, Antonio Pietrangeli aveva diretto Stefania Sandrelli in un film, Io la conoscevo bene, che in maniera riflessiva e quasi meta-cinematografica si soffermava sui possibili pericoli rappresentati dai role models veicolati dal cinema e dalla pubblicità.
Il corrispondente eterno da Bruxelles, una cariatide che ci diletta da decenni con articoli in cui si fa portavoce del politichese in grado di seppellire valori e ideali europei, sostenitore dell’austerità e dell’agenda Draghi, di tutti cioè i madornali errori commessi da una organizzazione internazionale piegata dalle logiche di potere, ci spiega ancora una volta quale sia il bene da perseguire. Il Commissario Fitto va votato anche se in questo modo si sdogana l’alleanza con la destra, si allarga il perimetro della Von der Leyen, perché il vero pericolo è costituito dalla Russia imperialista e dalla politica commerciale di Trump.
Naturalmente non offre ai lettori alcun dato e neanche un argomento per spiegare perché la Russia sia una minaccia imperiale. Sono dettagli questi! I progressisti non hanno bisogno di ragionare. Abboccano all’amo. Hanno bisogno di nemici per compattarsi nell’ottica di difendere la giusta via che va da Meloni alla Schlein.
La Russia in effetti ha un tasso demografico discendente, territori immensi e materie prime. Non ha alcun bisogno di conquiste territoriali. La guerra in Ucraina è stata provocata dall’espansionismo aggressivo della NATO, dal colpo di Stato di Piazza Maidan, dalla non applicazione degli accordi di Minsk, dalle provocazioni militari, con spedizioni punitive nel Donbass da parte dell’esercito ucraino che include il battaglione neo-nazista Azov.
Non si è fatta attendere la risposta russa agli attacchi missilistici effettuati nei giorni scorsi dalle forze ucraine con il supporto anglo-americano con missili ATACMS e Storm Shadow su obiettivi situati nelle regioni di Bryansk e Kursk.
Ieri Mosca ha attaccato il territorio ucraino con una salva di missili diretti contro l’area industriale di Dnipro impiegando 7 missili da crociera KH-101, un ipersonico Kh-47M2 Kinzhal e un missile balistico a medio raggio (IRBM) inizialmente identificato dagli ucraini come un missile balistico intercontinentale (ICBM) RS-26 Rubez.
Un vettore sviluppato negli ultimi 20 anni, derivato dall’ICBM RS-24 Yars (che è più grande) e che sarebbe entrato da poco in servizio. Al suo primo impiego in contesti reali è stato concepito per imbarcare testate atomiche multiple (MIRV – Multiple Independently targetable Reentry Vehicles) e manovrabili ma sarebbe stato impiegato a Dnipro equipaggiato con testate esplosive convenzionali o forse addirittura privo di testata bellica, quindi a puro scopo dimostrativo.
Il missile sarebbe quindi stato utilizzato per mostrare i muscoli e una deterrenza che evoca il possibile impiego di armi atomiche in risposta ai missili anglo-americani che cadono sul territorio russo, in ossequio all’ultima revisione della dottrina nucleare russa.
Dopo aver esalato l’ultimo sospiro in Ucraina, le spoglie della sovranità nazionale e costituzionale sono oggi trascinate nella polvere, private della sua anima e mercificate. Mentre assistiamo attoniti alla sua agonia e morte, i suoi carnefici, infatti, gonfi di “servo encomio”, la lodano e la utilizzano ad “usum delphini” in omaggio ai loro padroni. Cosa rappresenta infatti la levata di scudi del Presidente della Repubblica contro Elon Musk in difesa della nostra sovranità contro le ingerenze, più o meno inopportune, di un privato e ricco cittadino statunitense? Se non un omaggio del servo agli antichi padroni spodestati dal voto popolare negli USA? No. Questo non è un atto di coraggiosa difesa della nostra sovranità che ha ben altre minacce da cui difendersi e da cui non è difesa proprio dai suoi più illustri esponenti, garanti del vincolo esterno che ci rende succubi di istituzioni sovranazionali antidemocratiche e guerrafondaie come la NATO e la UE, e da trattati che hanno abrogato la nostra sovranità politica e nazionale, e in materia di sicurezza militare ed energetica.
E che dire degli esponenti del PD, vero “agente straniero”, al servizio dell’establishment euro-atlantico che riempe di vergogna la storia, pur con tutti i suoi limiti, del PCI di cui si dichiara erede? E che dire poi della sinistra psichiatrica che si strappa le vesti per la sconfitta di Kamala Harris e per la vittoria di Trump? Per non dire della sinistra pacifinta refrattaria al riconoscere le vere cause della guerra e delle ragioni della Russia, prigioniera della soviettofobia e russofobia non per difetto di comprendonio ma per pregiudizi ideologici?
Il punto di partenza del libro di Alberto Gabriele* è lo straordinario sviluppo economico della Cina. Alla fine degli anni Settanta il prodotto interno lordo cinese era simile a quello indiano e circa un ventesimo di quello degli Stati Uniti; nel 2022 era passato a essere quasi l’80% di quello degli Stati Uniti e più di cinque volte quello dell’India.
Questo successo è dovuto, dice Gabriele, al peculiare modello cinese – un inedito ed efficace sistema socioeconomico che fornisce un’alternativa al modello occidentale. Per Gabriele, la Cina rappresenta una “formazione socioeconomica mista”: sia il socialismo che il capitalismo coesistono insieme ad altri modi di produzione, in una combinazione complessa e in continua evoluzione, in cui il modo di produzione socialista è dominante, ma quello capitalista è presente e svolge una funzione indispensabile. La Cina è perciò il primo esempio – insieme al Vietnam – di una nuova classe di formazioni socioeconomiche in alternativa al capitalismo.
Il successo della Cina è dovuto, dice Gabriele, a due pilastri della sua economia che vengono esaminati in dettaglio: la struttura delle imprese produttive e il sistema nazionale di innovazione. La prima parte del libro analizza la natura e l'evoluzione delle imprese produttive, in particolare le trasformazioni della loro struttura proprietaria. La seconda esamina le principali caratteristiche del dinamico sistema di innovazione.
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‘Noi siamo’ egli disse ‘pensieri nichilisti, pensieri di
suicidio, che affiorano nella mente di Dio’ (Max Brod da
una conversazione con Kafka).
In una delle scene più spesso citate del film Night Moves (Bersaglio di notte, 1975) di Arthur Penn,troviamo Gene Hackman (l’investigatore privato Harry Moseby) seduto nel suo studio davanti a un piccolo televisore in bianco e nero, mentre guarda svogliatamente una partita di football americano. Quando la moglie entra e gli chiede “Chi sta vincendo?”, lui borbotta, “Nessuno. Una squadra perde più lentamente dell’altra”. Il merito di Night Moves, e di altri film della New Hollywood, è stato l’aver intuito che la crisi degli anni ’70 era integrale al crollo terminale del modello di socializzazione capitalista: una debacle insieme socioeconomica, culturale e psicologica che da qualche anno è entrata nella sua fase più calda (che questa volta Hollywood ha deciso di rimuovere).
Dopo un paio di decenni di collasso al rallentatore, la turbo-accelerata implosiva degli ultimi anni prevede ora una condizione di destabilizzazione permanente – le forever wars. Si tratta, innanzitutto, di un cambio di narrazione che assomiglia al disturbo delirante-paranoico di chi vede ovunque un “nemico alle porte” e un’“invasione imminente”. In realtà, è banale e vigliacca ideologia. Quando i burocrati della Fortezza Europa sostituiscono decenni di promesse di eterno benessere con il kit di sopravvivenza per giovani marmotte (il patetico invito a prepararsi a “72 ore di autosufficienza”), i sudditi dovrebbero ribellarsi, in primis, contro la solenne presa per i fondelli.
Ora che la pantomima elettorale USA è finalmente terminata (con la vittoria del candidato preselezionato da Wall Street) probabilmente cominceranno i fuochi d’artificio – magari innescati da qualche missile occidentale a lungo raggio fatto lanciare su territorio russo. Nel frattempo, continua l’estasi speculativa: i mercati USA stracciano record su record, trainando Bitcoin e tutto il cripto-spazio sponsorizzato da Trump; che, ricordiamolo, è l’uomo dei tassi negativi, e che dunque farà qualsiasi cosa pur di inondare le banche di easy money e spingere la ricchezza sempre più in alto, alla faccia di quella working class impoverita che lo ha votato al grido di MAGA.
Prima parte
Le ideologie possono essere analizzate facendo riferimento a tre livelli interfunzionali, che si chiariscono e si rafforzano a vicenda.
In primo luogo, tutte le ideologie hanno sempre avuto una vetrina attraente necessaria a compattare e aggregare attorno a sé, ingenerando persuasione. A questo livello esterno è affidato il compito di produrre e di diffondere le parole d’ordine.
Il livello più interno e profondo è formato dal nocciolo duro che costituisce la materia sulla quale le ideologie lavorano effettivamente, plasmando la coscienza degli individui e la loro rappresentazione della realtà.
La cintura esterna espone l’individuo-massa a contenuti palesi, mentre il nucleo interno ha carattere implicito, ma è proprio su questo che viene compiuto tutto il lavoro di modellizzazione dell’immaginario.
Il livello esterno, come ho detto, è popolato delle parole d’ordine dell’ideologia. È, in altri termini, il livello delle sfere discorsive, al quale sono affidati persuasione e reclutamento. Tra queste sfere discorsive, particolare importanza rivestono gli “incipit”, cioè punti di avvio che assolvono al compito fondamentale di incanalare il discorso pubblico sui binari lungo i quali proseguirà nella direzione e con il formato previsti, in modo quasi automatico, seguendo stilemi discorsivi replicabili. Il catechismo dell’ideologia ha un bisogno fondamentale di questi “attacchi” rigidi. Sono, per esempio, tipici incipit dell’ideologia liberal e politicamente corretta: “C’è ancora molta strada da fare”, “è un problema di mentalità/culturale” ecc. Proprio in quanto avviano il discorso secondo logiche preimpostate e linee argomentative univoche, gli incipit hanno anche la funzione precipua di escludere altre sfere discorsive che si aprirebbero verso narrazioni alternative, e che devono essere inabissate nel silenzio, sprofondate nella notte dell’invisibilità e della non-rappresentanza. Per esempio, l’incipit discorsivo “è una questione di mentalità” serve a prevenire e obliare la tesi alternativa che il problema sia, invece, economico e di classe – e, quindi, sostanzialmente non di genere. I diversi tasselli delle sfere discorsive si tengono evidentemente insieme.
Ogni tanto è indispensabile fermarsi e
ragionare. Viviamo in tempi di guerra, non esiste più alcuna
informazione
“neutrale”, l’”obiettività” latita, la professionalità –
tranne rare eccezioni cui proviamo a dar
riconoscimento – è un lontano ricordo o un alibi.
La propaganda di guerra è una macchina potente, articolata, internazionale. Non è “geniale” – quelli che, “a sinistra”, piangono sulla presunta “scarsa capacità di comunicazione” dicono sciocchezze – ma è la potenza di fuoco a decidere, non la finezza dell’eloquio o dell’argomentazione. Se si controllano tutti i media principali (tv, quotidiani, ecc) il vantaggio strategico è evidente.
Consapevoli che anche queste nostre considerazioni saranno facilmente sommerse dal mare di merda che i media mainstream vomitano h24, proviamo comunque a fornire un piccolo contributo di chiarificazione che può essere utile a chi, nel discutere in mezzo alla classe, deve districarsi tra parole che sembrano aver un significato universale, ma in realtà sono sempre il contrassegno di un’ideologia posta a difesa di interessi e di un rapporto di forza che ha il terrore di esser rovesciato.
Non è la prima volta che lo facciamo, e i risultati in qualche misura ci confortano…
L’innovazione linguistica più usata in questi giorni è stata elaborata per minimizzare – se non rovesciare – l’impatto politico-mediatico dei mandati di cattura emessi calla Corte Penali Internazionale contro Netanyahu, Gallant e uno dei pochi capi militari di Hamas forse ancora in vita.
E’ fin troppo evidente che il dover considerare due “buoni” per definizione come “ricercati in tutto il mondo” costringe tutti i governanti e i gazzettieri occidentali a giri di parole molto simili alla lotta nel fango. anche perché viene a crollare tutto l’edificio narrativo eretto a garanzia della “superiorità morale” delle “democrazie occidentali”.
E quindi analizziamo la frase di moda, con le sue pochissime varianti.
“Antisemitismo” è l’escamotage con cui ipocritamente si prova a liberarsi in versione vittimistica di ogni responsabilità penale e politica, in un ritornello reiterato contro chiunque attenti all’arbitrio impunitario del proprio potere garantito dall’unico dio: il Denaro.
Se fosse l’unico semita sulla terra, è vero, Netanyahu avrebbe ragione ad accusare di antisemitismo tutti quelli che lo incolpano di crimini di guerra, e di molto altro. Purtroppo per lui non è il solo, e soprattutto è solo lui il responsabile del sentimento di solidarietà mondiale nei confronti di popolazioni palestinesi, ora anche libanesi, arabe in genere, massacrate senza sosta proprio dai suoi ordini interessati.
Che ciò induca al semplicistico sentimento di avversione all’“ebreo” vicino di casa, è poi frutto di una sottocultura che identifica un soggetto politico con la sua identità nazionale, di gruppo sociale o etnico che si voglia chiamare, di appartenenza religiosa, ecc. In tale miopia intellettuale non si arriva a comprendere che un criminale è un criminale, e solo in quanto tale va politicamente perseguito, per la sua intrinseca pericolosità sociale. Se poi per assurdo Netanyahu fosse l’unico semita, mai dovremmo sentirci di essere antisemiti – che tra l’altro non ha alcun significato identitario di appartenenza genomica o altro – ma coscientemente partigiani contro la corruzione, l’inganno e l’abuso di potere, l’assassinio legalizzato, la tortura occultata, la guerra legittimante la predazione, la vendetta che giustifica l’arbitrio, l’impunità del privilegio, ecc., tutti ingredienti necessari che caratterizzano questo sistema.
♦Guerra fatta capo ha
“CALEIDO”, Francesco Capo intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=DzhWSZtJpOI
♦Fulvio Grimaldi
“ARRESTATE NETANIAHU E GALLANT!”
Regia di Leonardo Rosi
https://www.youtube.com/watch?v=oKiDnQ9B8yo
♦Qui Radio Londra TV - https://www.quiradiolondra.tv/live/ “Mondocane e… punto!”
Martedì e Venerdì alle 20.00
Le forze che manovrano il vecchio rintronato guerrafondaio, demente fin da quando risultava sveglio e si agitava a favore di ogni guerra dal Golfo in poi, la guerra la vogliono fare a tutti i costi. Ne va della sopravvivenza dell’ultimo impero, del suo avamposto genocida in Medioriente, della sua Casa del Piacere a Bruxelles.
Nonostante la crescente resistenza nel paese, il Presidente francese Emmanuel Macron stringe un’alleanza di fatto con il partito di estrema destra di Marine Le Pen. Cosa spera di ottenere?
Appena insediato, il nuovo governo francese guidato dal primo ministro Michel Barnier ha già subito un primo voto di sfiducia l’8 ottobre. A chiederlo è stato il Partito Socialista, a nome dell’alleanza di sinistra del Nouveau Front Populaire. Si conclude così la turbolenta fase politica iniziata con le elezioni anticipate del 30 giugno e del 7 luglio 2024. Contrariamente a tutte le previsioni dei sondaggisti, che avevano indicato come vincitore il partito di estrema destra Rassemblement National, l’alleanza di sinistra ha sorprendentemente vinto le elezioni, ottenendo la maggioranza relativa dei deputati.
In qualsiasi democrazia parlamentare, il Presidente della Repubblica avrebbe incaricato la candidata del Nouveau Front Populaire alla carica di Primo Ministro, Lucie Castets, di formare un nuovo governo. Se non avesse superato il voto di fiducia, si sarebbero potute cercare altre soluzioni. Non così in Francia, il cui sistema presidenziale conferisce al presidente ampie prerogative e gli consente di nominare un governo, senza tenere conto del risultato elettorale. Così il presidente Macron ha inizialmente preso tempo fino alla fine dei Giochi Olimpici. Poi, nel corso di lunghe consultazioni, si è reso conto che il Rassemblement National non era contrario a tollerare un governo di minoranza composto dal suo partito: Ensemble pour la République e dai resti del partito gollista Les Républicains.
“Il signore delle macchine è il servo. La sua sottomissione è il suo dominio. Non per organizzarsi politicamente per diventare signore. Figuriamoci. Tutto ciò serve per continuare a dominare, da servo. Tutto ciò serve per far giungere alla sua corte un numero sempre più ampio di clienti, che esercitano costantemente la loro creatività da progettisti, che sono soddisfatti della continua riproduzione, con la massima precisione e senza errori, di tutte le loro idee, pronte per essere impacchettate e spedite da Taiwan a qualsiasi angolo del pianeta. “Il miglior fabbro”.”
Dove siamo? Nelle pagine di Hegel rilette da Kojève? In un romanzo di fantascienza tipo Dune? In margine a una dedica colta, come quella di T.S. Eliot a Ezra Pound?
Un po' in tutto ciò, e anche in altro. Siamo nell’ultimo libro sterminato, 560 pagine, di Alessandro Aresu. Il titolo, Geopolitica dell’intelligenza artificiale (Feltrinelli 2024) già colpisce perché mette insieme due mondi apparentemente distanti. Le potenze del capitalismo politico, USA e Cina, si scontrano per il dominio sui microprocessori, chiave di volta dell’industria moderna. Li faceva Intel, americana, li fa ora TSMC, taiwanese. I cinesi non stanno a guardare. Da quei microchips dipende il funzionamento di ogni macchina, anche delle macchine sapienti dell’Intelligenza Artificiale. Il libro ne traccia l’origine e il destino, l’approccio non è tecnologico ma filosofico. Allievo di Massimo Cacciari cui il libro è dedicato, Aresu ha lasciato la filosofia (anni fa un bel testo di filosofia della navigazione era stato il suo esordio) per la geopolitica, di cui è esperto consulente di Limes.
Morti, feriti e devastazione: cosa significherà a lungo termine? Un durissimo Rapporto dell’International Labour Organization fotografa l’annientamento dell’economia e del mercato del lavoro a Gaza, in Cisgiordania e nel Golan e mostra come la distruzione non sia iniziata il 7 ottobre 2023 e non finirà con il cessate il fuoco: sono terre nelle quali Israele si è strutturato per rendere sempre più difficile la sopravvivenza ai palestinesi e spingerli ad andarsene
45.000 palestinesi morti e 95.000
feriti a Gaza, al 10 settembre 2024. Un bollettino tenuto
costantemente aggiornato, insieme alla portata della
distruzione causata dai bombardamenti e
dalle incursioni via terra dell’esercito israeliano. Ciò su
cui ci si focalizza meno è cosa significherà tutto questo a
lungo termine. È quel che fa questo Rapporto
dell’International Labour Office, presentato a giugno 2024,
partendo dalla situazione del
lavoro e dei lavoratori non solo di Gaza, ma di tutti i
Territori Arabo/Palestinesi Occupati, ossia anche
Cisgiordania e Golan. È una
situazione di cui non si può avere contezza della portata se
non si analizzano i dettagli e i numeri, e questo documento
li contiene.
Veniamo così a sapere, per citare appena alcune realtà fotografate dal Report, che a Gaza il PIL è crollato dell’81% e la disoccupazione è all’89%; che l’80% degli stabilimenti commerciali, industriali e dei servizi è stato danneggiato o distrutto, causando la chiusura delle attività economiche; che la produzione agricola è cessata perché Israele sta “radendo al suolo tutte le strutture, compresi i campi agricoli e le serre, e creando una zona cuscinetto lungo la recinzione di confine tra Israele e Gaza che dovrebbe essere larga fino a un chilometro e occupare circa il 16% della superficie dell’enclave”, mentre anche pesca e acquacoltura sono crollate perché “nessuna imbarcazione nel porto di Gaza è rimasta utilizzabile e le gabbie per la piscicoltura, le attrezzature per la pesca e gli impianti per la produzione di ghiaccio per preservare il pescato sono stati distrutti durante i bombardamenti all’inizio della guerra”: una condizione che ha contribuito alla carestia e all’attuale crisi alimentare.
Anche in Cisgiordania l’economia e il lavoro sono franati. Prima della guerra, 140.000 palestinesi della Cisgiordania erano impiegati in Israele e altri 40.000 negli insediamenti israeliani: la maggior parte ha perso il lavoro a causa della chiusura dei valichi di frontiera operata da Israele.
La decisione del Ministero delle
Finanze cinese del 5 novembre scorso di emettere titoli di
Stato denominati in dollari proprio in Arabia Saudita avviene
in un momento storico
significativo. Non solo perché segue immediatamente il XVI
Summit BRICS di Kazan (22-24 ottobre) e coincide con le
elezioni americane (5
novembre), ma anche perché questa decisione rivela alcune
atipicità significative per il sistema internazionale nel suo
insieme.
Partiamo dal contesto: durante il Summit di Kazan si è discusso ampiamente dei deficit strutturali del sistema finanziario globale, sono state avanzate alcune possibili soluzioni e si è anche fatto riferimento alla necessità di superare la centralità del dollaro statunitense quale valuta di riferimento per la comunità internazionale. La de-dollarizzazione, cioè il progressivo abbandono del dollaro, è una delle sfide più significative per la comunità internazionale, e vede i BRICS in prima linea in questo processo.
Per capire perché questo evento sia così interessante, procederemo a ritroso. Dopo aver illustrato le ragioni della sua atipicità, presenteremo alcune ipotesi per il sistema internazionale e la posizione che potrà assumere, in questo contesto, la Cina. Dopodiché, confronteremo la posizione cinese con il ruolo effettivo giocato dagli Stati Uniti nel sistema finanziario internazionale, per poi affrontare il problema da un punto di vista strutturale, soffermandoci sul significato della centralità del dollaro e sugli squilibri che ciò comporta per l’intero sistema. Infine, tenteremo di delineare quali scenari futuri potrebbero aprirsi a partire da questo fatto passato, per lo più, inosservato.
Cosa c’è di atipico?
Con la sua operazione, la Cina ha raccolto 2 miliardi di dollari emettendo, in Arabia Saudita, titoli di Stato con scadenza a tre e cinque anni, rispettivamente a uno e tre punti base (cioè: 0.01-0.03%) in più rispetto ai titoli del Tesoro statunitense. Per questa prima emissione di obbligazioni in dollari dal 2021, la Cina ha ricevuto offerte per oltre 40 miliardi di dollari, venti volte l'importo emesso, indicando una domanda estremamente elevata per i suoi titoli.
Nel maggio del 1950, in un
articolo dal titolo emblematico, Difendiamoci dal
comunismo, don Luigi Sturzo aveva indicato alla Dc la
linea da seguire per stabilire le
modalità di nomina dei giudici della Corte costituzionale, la
cui legge istitutiva era allora in discussione. Il messaggio
era chiaro: «I
comunisti, finché stanno all’opposizione non hanno diritto di
partecipare all’amministrazione dello Stato e degli organi e
degli
enti» e, di conseguenza, non si potevano eleggere i cinque
giudici di nomina parlamentare col sistema del Regolamento
della Camera, che
prevedeva l’assegnazione di due posti alla minoranza.
L’iter della legge era stato sofferto, perché, come ricordava Calamandrei su questa rivista[nota 1], vi erano stati quattro «viaggi di andata e ritorno» tra Camera e Senato per via degli emendamenti introdotti in relazione alla nomina dei giudici che dovevano essere scelti dal Parlamento e dal capo dello Stato.
Sulla base dell’indicazione di Sturzo, l’on. Riccio (Dc) aveva proposto che per l’elezione dei giudici eletti dal Parlamento fosse sufficiente la maggioranza semplice, per cui, scavalcando il Regolamento, tutti i giudici sarebbero stati nominati dalla coalizione di governo; poi per la massiccia opposizione dei partiti di sinistra e l’insostenibilità manifesta di questa posizione radicale, era stato deciso che la maggioranza necessaria doveva essere “qualificata”, almeno nella misura dei 3/5. Con i numeri allora esistenti in Parlamento, il governo non aveva la possibilità di eleggere tutti i giudici, ma con la prevista vittoria alle elezioni questo non sarebbe stato più un problema, vista l’entità numerica del premio.
Com’è noto, infatti, la legge elettorale varata in vista delle elezioni del giugno del 1953 prevedeva una distorsione dei principi della rappresentanza, in quanto stabiliva che la coalizione che avesse ottenuto il 50% più 1 dei voti avrebbe ottenuto il 65% dei seggi e cioè 380, mentre alle altre liste ne sarebbero spettati solo 209: per una simile maggioranza e con il contributo di alcuni volonterosi “soccorritori”, sarebbe stato perciò agevole raggiungere i 3/5 necessari dei parlamentari per nominare tutti i giudici di suo gradimento.
La rivincita di Trump è
stata brutale, per le modalità con cui è stata conseguita e
per le sue dimensioni. C’è chi più cortesemente
l’ha definita eccezionale, riferendosi soprattutto al fatto
che solo un’altra volta un ex presidente americano è stato
rieletto. Ma
era accaduto più di cent’anni fa, precisamente nel 1893,
un’altra epoca storica, quando il democratico Grover Cleveland
ritornò nello studio ovale, dopo che per quattro anni vi si
era insediato il repubblicano Benjamin Harrison.
Questa volta abbiamo avuto un ex presidente che non solo non ha voluto mai riconoscere l’esito delle elezioni del 2020, ma ha incitato all’assalto del Campidoglio a Washington nel giorno in cui il Congresso si apprestava a registrare la vittoria di Biden, lasciando sul terreno cinque morti (un agente e quattro manifestanti), spavaldamente sicuro della sua impunità; ha capitalizzato in campagna elettorale gli effetti degli attentati subiti – o ritenuti tali – esponendo il suo corpo leggermente ferito come una promessa di vittoria e una minaccia per i perdenti; ha rovesciato un numero incredibile di insulti sui suoi antagonisti e persino su settori dell’elettorato a cui pure sarebbe andato a chiedere il voto.
Eppure tutto questo è stato spazzato via come d’incanto dalla vittoria elettorale, così come sono stati ridicolizzati i sondaggi che fino all’ultimo prevedevano un testa a testa fra i due candidati, che non c’è mai stato. Insieme a tutto ciò sono state affossate le illusioni dei democratici, che le elezioni di Mid-term dell’8 ottobre del 2022 avevano tutto sommato premiato, permettendo loro di guadagnare quel seggio che gli dava la maggioranza al Senato e contenendo la perdita alla Camera, solo nove eletti in meno. Tanto più che si trattava di una cosa insolita, visto che quelle elezioni hanno avuto perlopiù esiti in controtendenza rispetto al partito del presidente in carica.
Trump sembra voler dar seguito a quanto ha accennato in campagna elettorale, ricostruire la temibilità americana. Trump si è più volte lamentato del fatto che nessuno prendeva più sul serio l’America, tutti se ne approfittavano erodendone il potere. Da qui anche l’idea di non impelagarsi più direttamente in guerre e guerrette in prima persona, non un pacifismo isolazionista, semmai la consapevolezza che quando l’America va “boots on the ground” tutto fa meno che paura terrorizzante, oltre a costare un sacco di soldi.
La minaccia scava più a fondo in termini di paura poiché risuona nella mente dell’impaurito.
In questi giorni assistiamo alla classica ventata brividosa di “timore e tremore” con i missili a lunga gittata americani e Putin che sfoggia ipersonici, scandinavi che mandano avvisi alla popolazione di comprare ragù in scatola e pillole allo iodio e delirio pre-atomico a cui, tutti, un quarto d’ora credono tanto e un quarto d’ora dopo, meno.
Analizzando la questione con sangue raffreddato, pratica consigliata nel trattare le questioni internazionali, di Biden si poteva dire con certezza che: 1) aveva perso la Camera; 2) aveva perso il Senato; 3) aveva perso la Presidenza. Certo, la legge americana prevede più di due mesi di transizione in cui l’ex-Presidente ha i poteri di routine ma per tradizione di buonsenso e senso sostanziale politico, non dovrebbe certo prendere una decisione così grave e pesante come quella che ha preso (e che ha rimandato e non voluto prender per mesi quando ancora pienamente in carica) sui missili, sostanzialmente de-legittimato, sapendo benissimo come intendeva sviluppare la questione russo-ucraina il suo successore. Anche dopo le più di due ore di affettuoso colloquio tra i due alla Casa Bianca dopo le elezioni.
La vittoria di Donald Trump non dovrebbe essere letta come un evento isolato o eccezionale, ma come il prodotto di una trasformazione profonda che attraversa l’Occidente, una metamorfosi culturale, politica ed economica di cui bisogna comprendere i meccanismi e le implicazioni. Al centro di questa trasformazione si trova una nuova narrazione della destra, capace di raccogliere il consenso di chi si sente escluso dalle promesse del progresso e della globalizzazione, ma anche di proporre un mito alternativo che sfida le fondamenta delle democrazie liberali moderne.
In questo contesto, il libro Elegia Americana[1], di J.D. Vance, – vicepresidente della futura amministrazione Trump – assume un significato che va oltre il suo semplice contenuto autobiografico. Il libro, manifesto dell’America dimenticata, rappresenta uno strumento per comprendere l’ascesa di Trump e la direzione verso cui la nuova destra sta orientando il dibattito culturale. Ma la questione non si limita al racconto di Vance: è necessario analizzare anche il substrato intellettuale e strategico che alimenta questa destra, incarnato da figure come Peter Thiel, Curtis Yarvin (alias Mencius Moldbug) e Nick Land.
Solo così è possibile tracciare un quadro critico e delineare la necessità di una narrazione alternativa.
In risposta ai missili a lungo raggio, la Russia usa il missile ipersonico Oreshnik. Putin ha avvertito che la guerra ora è globale. Il Segretario della Nato Rutte vola da Trump
“Ci consideriamo nel diritto di usare le nostre armi contro le strutture militari di quei paesi che consentono l’uso delle loro armi contro le nostre strutture”. Questo il passaggio più importante del discorso con cui ieri Putin ha commentato il lancio del missile ipersonico Oreshnik contro un impianto industriale di Dnipro, che secondo i russi produceva missili. Un vettore che non può essere intercettato da nessun sistema difensivo del mondo, ha precisato lo zar per far comprendere meglio il messaggio.
Dopo l’utilizzo di missili a lungo raggio ATACMS e Storm Shadow contro il territorio russo, ha specificato Putin, “il conflitto regionale in Ucraina […] ha acquisito elementi di carattere globale”. Insomma, la guerra per procura dell’Ucraina sostenuta dalla Nato contro la Russia è finita ed è iniziato un conflitto diretto tra Mosca e la Nato.
D’altronde, Putin lo aveva detto chiaramente lo scorso settembre, mentre si stava decidendo di dare luce verde agli attacchi di Kiev in territorio russo con i missili a lungo raggio della Nato (richiesta allora negata).
Trump ha promesso di porre fine alle guerre. Ma volersi sottrarre a un conflitto non è sufficiente a evitarlo. L’America è paralizzata dall'incapacità di rinunciare al ruolo di potenza egemone
Sarebbe fin troppo facile sparare a zero contro l’entrante amministrazione Trump, accodandosi ai grandi giornali della stampa americana che già hanno lanciato l’allarme sui disastri che essa provocherà.
Far ciò significherebbe ignorare sia il fallimento dei democratici, e più in generale dell’establishment politico degli ultimi decenni (i primi responsabili dell’affermazione del magnate repubblicano), sia le grandi aspettative che circa metà della popolazione statunitense nutre a seguito della sua vittoria.
Piaccia o meno, una consistente fetta di americani ha vissuto il trionfo di Trump come una liberazione da un regime oppressivo sul fronte interno nei confronti di tutti coloro che non vi si riconoscevano, e impegnato in guerre inutili quanto costose e fallimentari all’estero.
Costoro vagheggiano una sorta di rinascita americana che dovrebbe essere frutto del reindirizzamento delle energie e delle risorse del paese verso la rifondazione interna, lontano da avventurismi e da ogni ossessione egemonica all’estero.
Eleggendo Trump, essi hanno votato forse l’unica alternativa possibile all’establishment consolidato che un sistema elettorale datato e colmo di imperfezioni consentiva loro di scegliere.
La legge di bilancio 2025 del Governo Meloni può essere descritta in maniera molto semplice: una serie di tagli feroci e politiche restrittive, mascherati da una fitta coltre di bugie e chiacchiere. Queste sforbiciate alla spesa pubblica, che superano gli 11 miliardi di euro nei prossimi anni, colpiranno direttamente servizi pubblici fondamentali come sanità, istruzione e welfare locale, compromettendo ulteriormente il benessere delle fasce più vulnerabili della popolazione.
Impatto sugli Enti Locali
I tagli previsti per gli enti locali sono particolarmente significativi e superano i 4 miliardi di euro nel triennio. Non stiamo parlando qui di cifre su un foglio di bilancio, ma di minori risorse per regioni e comuni, i principali fornitori di servizi ai cittadini. Il settore scolastico subirà drastiche riduzioni, con una perdita stimata di oltre 5.600 posti di lavoro per docenti e circa 2.174 per il personale ATA. Nonostante l’inizio dell’anno scolastico sia ancora cosa recente, il Governo pare essersi dimenticato delle condizioni pietose del sistema di istruzione pubblico che i giornali denunciano ogni volta che arriva settembre. A rendere le cose ancora più odiose, occorre ribadire che i tagli in questo settore non rappresentano solo un assalto ai posti di lavoro, ma sono anche un attacco diretto alla qualità dell’istruzione di chi muove i primi passi nel suo percorso di formazione.
Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
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Il testo
“Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale
della riforma”, edito in Italia da Marx XXI, è una
raccolta di saggi scritti dal professor Cheng Enfu e da alcuni
suoi collaboratori nell’arco di molti anni, dall’inizio degli
anni
‘90, fino alla fine degli anni ‘10 del 2000. Cheng Enfu fa
parte della prestigiosissima Accademia Cinese delle Scienze
Sociali, molto
ascoltata ai piani alti del Partito Comunista Cinese, ed è
membro dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
Il Volume, non sempre di facilissima lettura e fruizione, mira a dare una sistematizzazione teorica, basata sul marxismo, all’economia “socialista di mercato” inaugurata dal Partito Comunista Cinese con la politica di “Riforme e Apertura” del 1978, e proseguita successivamente con la “Nuova Era”, a partire dal 2012.
Quando si parla di marxismo, nel caso dei teorici cinesi, bisogna entrare nell’ottica di quella che loro chiamano “concezione olistica del marxismo”, ovvero una visione del corpus teorico marxista in termini di “sviluppo organico”, come si diceva da noi in Occidente, da Marx in poi. In pratica, fra Marx, Engels, Lenin e chi li ha seguiti, compresi i leader cinesi, non vi è distinzione fra coloro che hanno teorizzato il marxismo e coloro che lo hanno applicato, come siamo abituati a pensare in occidente negli ultimi 40 anni: fa parte tutto di un corpus unico in continuo sviluppo.
Così, ad esempio, s’invita a non considerare dogmaticamente le affermazioni di Marx secondo cui nuovi e più avanzati rapporti di produzione non emergono mai finché le condizioni non saranno maturate all’interno della vecchia società, altrimenti non si può concepire l’emergere e l’affermarsi della rivoluzione in Cina, avvenuta in un paese arretrato e che vede tutt’oggi la compresenza di forme di produzione e distribuzione diverse.
Inoltre, in luogo della classica definizione della contraddizione fra la natura privata della proprietà dei mezzi di produzione e la natura sociale dello delle forze produttive, viene data la seguente definizione della contraddizione che attanaglia i paesi a capitalismo maturo:
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Ho finalmente letto il libro di Sara
Wagenknecht e provo a esporre il più brevemente possibile le
mie critiche, argomentandole piuttosto sommariamente, dati i
limiti di tempo e di
spazio inevitabili in un articolo che è comunque diventato,
contro le mie intenzioni, fin troppo lungo; soprattutto ci
tengo a segnalare alcuni
aspetti importanti (e secondo me per lo più preoccupanti)
delle sue affermazioni, un po’ a mo’ di “sottolineature”,
cioè enfatizzandoli e sperando di contribuire alla riflessione
in corso su L’ Interferenza (e altrove).
Dalla lettura emerge immediatamente un atteggiamento sostanzialmente riformistico, socialdemocratico “vecchio stampo”, con grande enfasi e preoccupazione per la mobilità sociale in via di avanzato e vieppiù ingravescente impedimento e forte interesse per la possibilità di accesso individuale a buoni posti di lavoro ed elevate condizioni di “prestigio” sociale per i figli dei modesti lavoratori e della piccola borghesia (accesso che oggi destra e “””sinistra””” alla moda ostacolano); e invece sostanziale disinteresse per una lotta collettiva volta all’ indebolimento e auspicabile estromissione dal potere delle classi dominanti e smodatamente privilegiate. Ma a mio parere oggi di terreno per il riformismo non ne esiste più, essendo stato spazzato via da due fatti che hanno completamente eliminato le indispensabili conditiones sine qua non che consentivano di praticarlo, almeno in una certa misura, nella seconda metà del XX° secolo. E cioè la terribile sconfitta del “socialismo reale” e la correlata riduzione ai minimi termini dei Comunisti (per quanto molto limitatamente e incoerentemente tali siano stati) anche in quasi tutto il mondo occidentale capitalistico; e inoltre il tendenziale mutamento in corso nei rapporti di forza politici, economici e militari e fra “centri” e “periferie” del sistema imperialistico mondiale che tende a ostacolare oggettivamente sempre di più la possibile concessione ai lavoratori di elementi di relativo benessere, fino alla creazione di aristocrazie operaie e di “ceti medi benestanti”, nei centri del sistema stesso; sistema imperialistico mondiale che trova scarsissima attenzione, se non proprio nulla, da parte della Wagenknecht.
Byoblu, Arianna Graziato intervista
Fulvio Grimaldi
Avete presente quel pugile, Tyson, a 58 anni vecchio come il cucco, ma con una carriera di sfracelli alle spalle? Ci riprova, è chiuso all’angolo, mena colpi all’impazzata senza cogliere il bersaglio, barcolla, si aggrappa alle corde, crollerà. Qualcuno getta l’asciugamano, si chiama Amos Hochstein, israelo-americano dell’IDF.
E’ andata così a Beirut nei giorni scorsi, ma, a dispetto della complicità delle varie mafiosità predatrici dell’Occidente politico, neanche la tregua di 60 giorni salverà Israele dall’abominio universale con cui lo vede e tratta la parte migliore dell’umanità.
Contro il Libano, obiettivo da distruggere per far spazio alla Grande Israele, colpo fallito nel 2000 e nel 2006 col naso rotto da Hezbollah, Israele, che già non riesce a domare Hamas in una striscia di 60km x 10 bombardata e genocidata da 14 mesi, doveva:
Appare chiaro come ciò che sta accadendo ad Aleppo debba essere visto non solo alla luce delle operazioni sioniste, ma dal conflitto in corso tra le forze dell’unipolarismo statunitense e i promotori di un ordine multipolare e democratico nella sua globalità
Nemmeno un giorno dopo le minacce di Netanyahu[1] contro il presidente Assad, le milizie terroriste finanziate dall’Occidente da anni asseragliate a Idlib hanno attaccato in forze Aleppo, città già teatro di una violentissima battaglia terminata nel dicembre 2016 con la piena liberazione di essa da parte dell’Esercito Arabo Siriano. Le forze dei qaedisti di al-Nusra, del cosiddetto “Esercito Libero Siriano” e di Tahrir al-Sham, oltre a numerose milizie estremiste minori, hanno condotto un potente attacco a sorpresa contro le linee siriane, riuscendo, nonostante i grandi bombardamenti condotti dagli aerei militari di Mosca e Damasco, a giungere sino all’interno dei quartieri più occidentali della città. L’esercito siriano è stato preso alla sprovvista, e in attesa di rinforzi è stato costretto a cedere terreno. La situazione è tuttora confusa anche a causa del gran numero di notizie false diffuse in rete dai gruppi di miliziani filo-occidentali.
L’attacco avviene a seguito di un incremento dei bombardamenti russo-siriani sulla provincia di Idlib, occupata dai terroristi, ma soprattutto in un momento di crisi per Israele e per il potere statunitense nel Levante. L’insuccesso militare sionista sul fronte libanese ha evidentemente obbligato Tel Aviv ha cambiare strategia, passando dall’aggressione terroristica diretta del Libano a manovre indirette volte a mettere pressione sulle linee di comunicazione che collegano l’Iran a Hezbollah, passando per Iraq e Siria.
La scelta di andare al governo con la CDU e la SPD in Turingia e con la SPD in Brandeburgo da parte del BSW, il neonato partito fondato da Sahra Wagenknecht è, a mio parere, un grave errore sia tattico che strategico che, fra le altre cose, aprirà una vera e propria autostrada all’AFD, il partito di estrema destra tedesco con forti venature neonaziste.
Pur non essendo un partito marxista né rivoluzionario – del resto non credo ci siano le condizioni oggettive, al momento e a mio avviso, per un simile partito, in un paese capitalista europeo “avanzato” come la Germania – il BSW è comunque nato come una forza di radicale rottura rispetto all’attuale ordine politico, e proprio questo spiega il notevole successo che ha avuto alle scorse elezioni amministrative, le prime a cui partecipava data, appunto, la sua giovanissima età. Una rottura non solo politica ma anche e soprattutto ideologica e chi ha letto il libro di Sahra Wagenknecht – che è sostanzialmente un manifesto politico – lo sa perfettamente. Wagenknecht ha infatti scritto con molta chiarezza, nero su bianco, che per combattere efficacemente le destre, sia quelle liberal-liberiste (la CDU) che quelle radicali (l’AFD) e riconquistare i ceti popolari è innanzitutto necessario operare una cesura netta con l’attuale “sinistra” neoliberale (in Germania la SPD e i Verdi), da lei stessa definita “sinistra alla moda”.
Ora, scegliere di andare al governo, sia pure a livello locale, con quelle stesse forze politiche liberali e liberiste, di destra o di “sinistra”, (neo)conservatrici o “progressiste” per combattere le quali è stato meritoriamente costruito un partito, è un errore sia tattico che strategico, se non un vero e proprio suicidio.
Fotografia di un crollo C’è stata convergenza internazionale al ribasso, nel senso che i paesi dove in passato si tendeva a scioperare maggiormente hanno finito per somigliare sempre più a quelli in cui gli scioperi sono rari
Sugli scioperi il governo Meloni e i suoi cantori portano avanti una propaganda ben rodata: le astensioni dal lavoro sono troppe, condotte da una minoranza di sindacalisti irresponsabili contro una maggioranza di cittadini danneggiati, e vengono organizzate solo quando c’è la destra al potere. Come invocano le associazioni padronali, bisogna dunque disciplinare, irreggimentare, comprimere ulteriormente il già limitato esercizio del diritto costituzionale a scioperare.
Questa posizione, in effetti, non caratterizza solo l’attuale governo italiano. Anche all’estero, varie forze di governo hanno manifestato aperta ostilità verso le astensioni dal lavoro. Dalla Gran Bretagna alla Francia, dall’Austria all’Olanda, passando per vari stati americani, la tendenza degli esecutivi a ritenere che gli scioperi siano troppi e vadano repressi è un tratto distintivo dell’epoca in cui viviamo.
Eppure, per quanto diffusa, la tesi che gli scioperi siano «troppi» è smaccatamente falsa. Se prendiamo i dati ufficiali della International Labour Organization (ILO) sulle ore di mobilitazione per scioperi nei paesi relativamente “sviluppati” – dagli Stati uniti alla Corea del Sud, dai membri dell’Unione europea alla Turchia, e così via – scopriamo che dal 1992 ai giorni nostri si è verificata una mastodontica caduta delle astensioni dal lavoro: in media, gli scioperi sono crollati di oltre il 40 percento, con punte negative di oltre l’80 percento nel Regno unito.
I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali nella giornata di domenica in Romania hanno mandato letteralmente in corto circuito politici, stampa e commentatori indigeni e occidentali, tutti colti di sorpresa dal primo posto ottenuto dal candidato indipendente di estrema destra, Calin Georgescu. Già frequentatore ai margini della politica romena, quest’ultimo ha smentito completamente le previsioni della vigilia e i primi exit poll, accedendo comodamente al secondo turno di ballottaggio grazie a una serie di fattori, tra cui la decisione di impostare la sua campagna elettorale sulla denuncia delle politiche guerrafondaie e ultra-liberiste dettate da Bruxelles e sull’apertura alla possibile normalizzazione dei rapporti con la Russia.
La parola “shock” è senza dubbio la più ricorrente in queste ore sui media ufficiali per descrivere il successo di Georgescu. Lo shock riguarda però solo coloro che si illudevano in una facile affermazione dei candidati dell’establishment totalmente allineato alle posizioni NATO e UE sulle questioni economiche e, soprattutto, sulla guerra in Ucraina. Come in molte altre occasioni è accaduto in un anno con numerosi appuntamenti elettorali, a risultare vincente è stata invece l’opposizione alle politiche promosse da un’élites ultra-screditata e lontana anni luce dagli interessi dei singoli paesi europei e delle rispettive popolazioni.
1. Una
carenza della
cultura politica italiana
L’anno scorso ricorreva il centotrentesimo anniversario della nascita di Mao Zedong, noto alla mia generazione come Mao Tse-tung (1893-1976). Era facile prevedere che su quell’anniversario sarebbe calato, come infatti è calato, il totale silenzio non solo dei ‘mass media’ borghesi, ma anche, tranne poche eccezioni, delle stesse organizzazioni della sinistra comunista. Sennonché, tralasciando i primi che, in quanto ‘armi di distrazione di massa’, si limitano a fare il loro mestiere, sarebbe invece opportuno interrogarsi sul comportamento delle seconde per capire le ragioni della debolezza manifestata dalla cultura politica italiana (e dalla cultura ‘tout court’) nei confronti dell’esponente di una delle maggiori esperienze, sia politiche che filosofiche, del Novecento. In effetti, nonostante per alcuni versi la Cina sia ormai così vicina all’Italia da poter essere considerata (che si aderisca alla “Via della Seta” o che se ne esca) una delle componenti più rilevanti dell’economia del nostro paese, per altri versi, come dimostra la debolezza or ora menzionata, la Cina resta lontana.
Eppure, è difficile negare che se il pensiero di Mao non ha influito a sufficienza sulla cultura politica del nostro paese e non è stato a sufficienza assimilato e discusso dal fragile marxismo italiano, ciò si è risolto in un danno per quest’ultimo. È infatti sorprendente che le pagine, pur verbalmente celebrate, del magistrale saggio di Mao Sulla contraddizione 1 non abbiano trovato l’attenzione e l’approfondimento che ancor oggi esse attendono. Gli stessi comunisti di orientamento marxista avrebbero tutto l’interesse a condurre un’analisi delle classi della società italiana che fosse altrettanto rigorosa e perspicua quanto l’Analisi delle classi nella società cinese, che, quasi un secolo fa (e nello stesso anno in cui in Italia apparivano le Tesi di Lione del Partito comunista d’Italia), fu in grado di sviluppare Mao.2 Né serve come alibi, essendo un simile postulato del tutto falso, affermare, come spesso si sente dire da parte dei sociologi, che la nostra società è più complessa e articolata, poiché chi reitera questo ‘mantra’ adopera in realtà la complessità, cui si appella, non come un concetto teorico ma come una strategia politica, e quindi mente sapendo di mentire.
All'inizio ho prestato poca attenzione ai
Bitcoin, pensando che probabilmente ci fossero più imitatori
di Elvis Presley di quante persone al
mondo lo abbiano scambiato o posseduto. Ma visto che le banche
centrali hanno rilasciato dichiarazioni politiche sui Bitcoin,
che l'FBI ha sequestrato
asset Bitcoin utilizzati dagli spacciatori di droga e che le
autorità fiscali hanno fornito indicazioni sulle passività per
plusvalenze,
mentre i gruppi finanziari stanno progettando di offrire fondi
negoziati in borsa denominati in Bitcoin, ho deciso di dargli
una seconda occhiata.
Questo articolo fornisce la mia valutazione di questa valuta
digitale alternativa. Il Bitcoin è emerso dalle macerie del
sistema monetario
internazionale nel 2008, quando numerose banche hanno avuto
un'esperienza di pre-morte e alcune sono state effettivamente
sepolte. È stato
ideato da un team di specialisti del software, guidati da un
certo Satoshi Nakamoto. A marzo, Newsweek ha affermato di aver
smascherato questo
misterioso uomo internazionale come un modesto ingegnere
giapponese-americano in pensione, ma quest'ultimo lo nega e
sono in corso cause legali.
Tuttavia, è possibile analizzare i Bitcoin senza entrare nei
dettagli delle personalità coinvolte. Ci sono due aspetti
chiave dei
Bitcoin: un sistema di pagamenti basato su Internet e un'unità
di valuta speciale per il pagamento tra diversi account
Internet. Il primo
è ragionevolmente innovativo; il secondo è bizzarro. Sebbene
siano strettamente collegati, è utile considerarli
separatamente.
Il sistema
Con i Bitcoin puoi effettuare pagamenti tra singoli conti su Internet in un modo che non utilizza il sistema bancario. Ciò solleva una serie di domande sull'accesso all'account, l'identità e la sicurezza che gli sviluppatori di software hanno cercato di risolvere e, per lo più, hanno risolto (vedi Wikipedia su Bitcoin per una discussione estesa su aspetti tecnici, insidie e truffe).
Qualche appunto sul 30 novembre di questo 2024 e dintorni
Come
sempre cerchiamo di essere chiari a qualunque costo, e ci
riferiamo alla contraddizione palesatasi in piazza Vittorio su
chi avrebbe dovuto tenere la
testa del corteo. Che si sia trattato di una ingiustificabile
bagarre è fuori discussione, ma chi ragiona di cose sociali
non si può
accontentare di una presa d’atto e magari condannare, no,
perché si impone di ragionare sulle cause che generano certi
comportamenti sia
individuali che di gruppi.
Che vuol dire prendere la testa di un corteo come quello di sabato 30 novembre 2024 a Roma? Stabilire chi aveva per primo prenotato la piazza o la data? Suvvia, non scherziamo, non ci nascondiamo dietro i formalismi per nascondere le ragioni teoriche e politiche che marciano fin dal 7 ottobre 2023 all’interno delle formazioni politiche di sinistra italiane (più o meno estremiste) per un verso e dei gruppi dei palestinesi che in Italia, in Europa, negli Usa e nel mondo intero cercano faticosamente di far valere le loro ragioni.
Entriamo perciò nel merito della contraddizione che in Italia si va sempre di più aggrovigliando e sabato 30/11 ha rischiato qualcosa di molto sgradevole. Mettiamo senza pudore i piedi nel piatto e diciamo che è ragione di buon senso rispettare l’ospite, anzi in Italia (ma crediamo un po’ dappertutto) è abitudine ripetere che l’ospite è sacro, un principio di buona educazione, di civiltà, di galateo o di bon ton come si usa dire nei tempi moderni.
Se quel principio è valido in generale, a maggior ragione dovrebbe essere valido per un ospite di riguardo che sta subendo un genocidio da parte di un nemico cui il nostro paese, cioè il paese ospitante ha qualche responsabilità in maniera diretta e indiretta perché sta sostenendo senza condizione il genocidio sia attraverso il proprio governo che con gran parte dell’opposizione parlamentare democratica.
Quale occasione migliore per separare le nostre responsabilità genocide tanto del governo che della sua opposizione democratica se non quella di dimostrare in piazza il rispetto per chi sta subendo il genocidio e che a testa alta resiste? Dunque non c’è ragione che tenga che ci si dimeni a voler contendere la testa del corteo: andrebbe data senza nessuna esitazione ai palestinesi.
La finanza internazionale sembra giocare l’uno contro l’altro gli schieramenti politici che concorrono a un disegno non molto diverso. Le politiche neo-liberiste con la fine dello Stato sociale e della compromesso capitale-lavoro si affermano negli Stati Uniti come in Europa. Trump non è molto diverso dalla Harris. Famosa la frase del talento musicale Frank Zappa: la politica è la sezione intrattenimento dell’apparato militare-industriale. Oggi più che in precedenza. Non vi sono grandi sfumature tra il bellicismo nazionalista, affetto da suprematismo di varia natura, dell’Europa di destra come di quella del centro-sinistra.
I venture-capitalist della Silicon Valley, i petroliferi, i donatori cristiani e la lobby di Israele sono alla base dell’elezione di Trump.
La politica estera non mi sembra possa cambiare. Mark Rubio, Segretario di Stato e Michael Walts, Consigliere alla Sicurezza Nazionale, rappresentano la continuità con i neoconservatori. La politica del bastone contro la Cina sarà il cavallo di battaglia. Si potrebbe passare dal contenimento a una politica di confronto aggressivo che costringa la Cina a fare passi indietro. Protezionismo e tariffe non basteranno. La sfida relativa a Taiwan e le minacce militari nel pacifico aumenteranno. Si tratta di una strategia rischiosa ed essenzialmente controproducente. La potenza nucleare nemica al fine di proteggere il proprio sviluppo economico e la sovranità sarà infatti costretta a posizioni bellicose che oggi vorrebbe evitare.
Joe Biden potrebbe ridare a Kiev "le testate atomiche toltele nel 1991", scrive The New York Times. Come reagirebbe Mosca?
Pare ci sia un po' di apprensione, a Kiev, da quando, ieri, Donald Trump ha annunciato di aver nominato Keith Kellogg inviato speciale per l'Ucraina e la Russia, sapendo che l'ex generale, già in estate, aveva proposto un piano che prevede il congelamento del conflitto in Ucraina sulla linea del fronte, la revoca di alcune sanzioni alla Russia, ma, soprattutto, il blocco di qualsiasi tranche all'Ucraina finché Zelenskij non accetta di negoziare.
Ma, come si dice, “It's a Long, Long Way to” 20 gennaio, con l'entrata in carica a pieno titolo di Trump; e forse anche per questo Biden cerca di mandare, ora, quanto più possibile ai nazisti ucraini, sia in soldi che in armi.
E allora, ecco che tra Washington e Bruxelles c'è chi parla di fornire armi nucleari alla junta (forse “Tomahawk”) in risposta, dicono quei signori, al lancio del “Orešnik” su Dnepropetrovsk ed è insomma non solo dubbia e prematura la speranza in una deescalation del confronto politico-militare; no: c'è proprio qualche criminale che è al lavoro perché la situazione si faccia davvero drammatica. Joe Biden potrebbe ridare a Kiev le testate atomiche toltele nel 1991, scriveva il 21 novembre citando funzionari il The New York Times. Siamo insomma, come qualcuno ha già ricordato, alla terza “crisi dei missili”, dopo quella di inizi anni '60, quella dei Pershing e Cruise una ventina d'anni dopo e ora questa, in condizioni già di per sé incandescenti.
Uno dei mantra allegati all’elezione e alla rielezione di Trump è quello della perdita dell’influenza dei media mainstream sull’elettorato; in altri termini oggi gli elettori tenderebbero in maggioranza a votare in senso contrario a quanto indicato dai principali quotidiani e dai grandi network televisivi. La realtà però è più complicata; infatti, sebbene ostili a Trump, i media mainstream hanno contribuito ad alimentare il mito secondo il quale il suo politicamente scorretto costituirebbe una sfida ideologica all’establishment.
Il problema è che il politicamente scorretto non è altro che un sottoprodotto comunicativo del politicamente corretto e vive in funzione del gioco delle parti, cioè del battibecco che nasconde i veri problemi. Ad esempio: il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro aveva cercato goffamente di fregare il detenuto al 41bis Alfredo Cospito incaricando un parlamentare suo sodale di diffondere alcune intercettazioni effettuate in carcere. Purtroppo da quelle intercettazioni risultava con chiarezza che il regime carcerario del 41bis non comporta affatto l’isolamento dei detenuti; anzi, questi vengono regolarmente fatti incontrare a gruppi nelle ore d’aria. Ciò pone dei dubbi seri sul 41bis; se esso sia davvero un regime di “carcere duro” per il controllo dei boss, oppure sia uno strumento di gestione e manipolazione del crimine organizzato da parte di apparati non identificabili.
Un caro amico di pensiero, mi ha mandato questo articolo americano che porta avanti le tesi espresse nel mio ultimo post https://www.facebook.com/photo/?fbid=10233136375967101&set=a.1148876517679. Un articolo di chi?
Si tratta della prestigiosa rivista The National Interest, fondata nel 1985 da un seguace di Irving Kristol, ideologo fondatore del neoconservatorismo. In seguito, la rivista venne acquistata da un think tank repubblicano fondato da Richard Nixon e a seguire, la fazione neocon – tra cui F. Fukuyama- uscì per fondare un’altra rivista. Per poco meno di trenta anni, Henry Kissinger ne è stato presidente onorario. Appoggiano Trump ma non appartengono alla galassia del trumpismo, sono la versione “colta” di certo repubblicanesimo storico americano, specializzati in politica internazionale.
Ma la questione fondamentale è che sono di scuola realista. John Mearsheimer, le cui analisi sul conflitto russo-ucraino nonché sul peso della lobby israeliana sulla politica di Washington sono state molto condivise dall’area critica, è un realista sebbene ideologicamente probabilmente conservatore e certo non anti-imperialista o anti-capitalista di principio.
Personalmente, a livello ideologico, nulla ho a che spartire con repubblicani conservatori americani dediti alla coltivazione dell’interesse nazionale del loro Paese. Tuttavia condivido l’approccio realista. Può capitare che tra realisti si diano letture concordi pur avendo ideologie diverse (anche radicalmente diverse).
Come insegna la migliore strategia di guerra, per ottenere una vittoria, è necessario conoscere i tuoi nemici e dividerli, amplificando i punti di discordia e rendendo ininfluenti i punti di contatto
Da un po’ di tempo, sulla scia di certi fatti di cronaca nera, si assiste a un movimento di opinioni che vuole dipingere l’uomo (soprattutto quello europeo, caucasico e bianco) come soggetto tendenzialmente violento, meschino e possessivo nei confronti della donna. Una tendenza questa che viene impropriamente battezzata “pratriarcato”.
Impropriamente, perché il patriarcato è una struttura sociale di tipo famigliare nella quale il cosiddetto “patriarca” esercita la propria autorità sulla moglie, sui figli, sui nipoti, sulle nuore e persino sui pro-nipoti e le loro mogli. Ed è una struttura famigliare arcaica che, qui in Italia, è morta e sepolta da almeno cinquant’anni.
Definire, dunque, “patriarcale” l’atteggiamento violento, meschino e possessivo di un uomo nei confronti della propria moglie o della compagna, non ha senso alcuno, se non per rendere generalizzati certi fenomeni criminali e/o socialmente violenti di natura marginale, attribuendoli pregiudizialmente a una categoria generale: i maschi.
Ne consegue che se, nella generalità dei casi, il rapporto uomo-donna è un rapporto sano ed equilibrato (ben lontano dai fatti di cronaca nera), con la storia del patriarcato, il rapporto malato uomo-donna — l’eccezione appunto — diventa il caso generale dal quale trarre la regola secondo la quale l’uomo è intrinsecamente violento, e come tale necessita di essere (ri)educato.
Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
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Dopo
aver occupato in poche ore la città di Aleppo, la seconda più
grande del paese e aver travolto le difese dell’Esercito arabo
siriano, stanno cercando di arrivare all’altra grande città di
Hama. Ma qui hanno trovato una forte resistenza e risposta
militare,
dovendo abbandonare molte posizioni nelle aree circostanti. Ma
come è potuto accadere, cosa comporta e può cambiare negli
equilibri
geopolitici e militari dell’area.
Premetto che questa è una sintesi, da me curata, di documentazioni, analisi, letture, di istituti, esperti, analisti geopolitici e militari, mediorientali, arabi e dei paesi eurasiatici, oltre che contatti e testimonianze sul posto, che hanno una valenza e conoscenza strategica interne alle dinamiche in corso, che può contribuire a conoscere e appropriarsi di elementi di comprensione profondi e spesso non svelati, che vanno al di là di opinioni, valutazioni o previsioni soggettive.
Una tragica e dolorosa partita a scacchi geopolitica si è riaperta nella martoriata terra siriana.
I cosiddetti ribelli siriani hanno attaccato e conquistato in poche ore, quella che era la città più grande del Paese, Aleppo, L’attacco è stato il primo da parte delle forze ribelli, così potente dal 2016, quando furono cacciate dai quartieri orientali della città dopo un’estenuante campagna militare condotta dall’Esercito Arabo Siriano, dalle milizie locali lealiste e palestinesi, con il sostegno di Russia e Iran. Il 27 novembre migliaia di combattenti si sono diretti verso Aleppo con un attacco a sorpresa contro l’esercito governativo, sorprendendolo nettamente.
Nello stesso tempo, i terroristi di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), i gruppi filo-turchi e i loro alleati del cosiddetto Esercito Siriano Libero (ELS), hanno lanciato un’offensiva su larga scala nel nord della Siria, i terroristi hanno catturato dozzine di insediamenti e sono entrati ad Aleppo, una città che aveva una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti. Inoltre, i terroristi minacciano l’autostrada M-5, che collega Aleppo con la capitale Damasco e altre grandi città siriane.
Il punto
cieco
L’annuncio del governo Meloni di voler introdurre i voucher scolastici, permettendo alle famiglie di scegliere tra scuola pubblica e privata, si inserisce in una narrazione ben precisa: la destra sovranista e postfascista accusa le politiche scolastiche della sinistra di essere la causa del degrado della scuola pubblica. Rispetto ai classici temi neoliberisti sullo “spreco” delle risorse pubbliche, FdI ha seguito la linea populista introdotta da Ricolfi e Mastracola nel saggio Il danno scolastico. Secondo questa retorica, il modello progressista, centrato sull’inclusione, avrebbe sacrificato il merito e l’eccellenza, lasciando paradossalmente le classi lavoratrici intrappolate in un sistema scolastico inefficiente e incapace di offrire strumenti di mobilità sociale[1].
La pedagogia di sinistra, come noto, tende invece a negare l’idea stessa di un abbassamento del livello della scuola, interpretandolo come un attacco ideologico volto a giustificare modelli selettivi ed escludenti. Il problema, semmai, è che la scuola non è abbastanza inclusiva, confermando in modo speculare le chiacchiere interessate della destra sulla scuola e proponendo una falsa dicotomia tra nostalgici di Gentile e apostoli di Dewey. Questa negazione è infatti del tutto funzionale a una proposta moralistica di segno opposto: la scuola si riforma riformando l’insegnamento. È diventata quasi una barzelletta che la risposta a ogni problema della scuola si traduca sempre in “più formazione per i docenti!”.
È uno scontro tra ciechi. La crisi della scuola è profondamente legata alla natura iper-capitalistica della società in cui opera, una società segnata da conflitti di classe che determinano le sue istituzioni e ne modellano i limiti strutturali. La centralità delle dinamiche di mercato nelle scelte politiche degli ultimi decenni ha portato a un disinvestimento sistematico nella scuola pubblica, sia in termini di risorse economiche che di riconoscimento sociale. Il declino della scuola pubblica non è infatti un fenomeno contingente legato a cattive scelte pedagogiche o politiche.
La divisione sociale del
lavoro nell’industria automobilistica, a livello
internazionale, è in subbuglio, non solo per la questione
della transizione dal motore
endotermico a quello elettrico, ma è costellata dallo spettro
della sovra-capacità produttiva.
Se in Italia gli impianti produttivi del gruppo Stellantis lavorano, ormai da tempo, a singhiozzo (1), la situazione non è nemmeno tanto rosea in Germania: il colosso di Wolfsburg, per la prima volta nella sua storia, nel mese d’ottobre dell’anno corrente, ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti, con la conseguente perdita di miglia di posti di lavoro e la riduzione del salario del 10%.
Per chi ha scarsa memoria storica, vale la pena ricordargli che stiamo parlando del marchio Volkswagen che, nei primi anni 90 del secolo scorso, ha avuto il coraggio di adottare la soluzione che mirava a salvaguardare i posti di lavoro, con uno storico accordo che prevedeva la riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali, a parità di salario.
Le ripercussioni della crisi automobilistica tedesca creano un effetto domino su quella italiana, in quanto in questo comparto, l’Italia ha ridotto notevolmente la produzione di automobili (prodotti finiti), mentre ha incrementato le quote di mercato dei pezzi di automobili, i quali vengono assemblati in altri contesti produttivi. In altri termini, ci siamo specializzati nella componentistica per i marchi francesi e tedeschi.
Se in Europa si respira un’aria asfittica, negli USA, sebbene il settore sia in ripresa, non è stata ancora raggiunta la produzione del periodo prima della pandemia. Tuttavia, nonostante la produzione di auto elettriche non sia decollata, anche per la difficoltà di approvvigionamento dei semiconduttori, le rivendicazioni degli operai sono più frizzanti.
Il dibattito-conferenza organizzato dall’Interferenza sul testo di Sahra Wagenknecht è iniziativa di alto profilo politico. Nel silenzio generale segnato dalla rassegnazione alla sconfitta e dalla paura generalizzata che ha sostituito l’azione politica, l’iniziativa, non è la prima, ha il coraggio di rompere la cappa del “politicamente corretto”. La paura è il sentimento più inquietante del nostro tempo senza opposizione; l’assedio verso i dissenzienti conduce verso la diaspora del disimpegno e dell’adattamento. La parola paura ha la stessa radice di pavimento, essa spinge verso il basso e paralizza l’azione come il pensiero. Il dibattito organizzato da Fabrizio Marchi e gli interventi posti in rete dimostrano che il comunismo libertario “esiste”. Gli interventi hanno colto i nodi essenziali per la riorganizzazione del comunismo. Sono stati posti una serie di problemi teorici, a cui ciascun comunista libertario deve dare il proprio contributo. Il primo è “il coraggio” di denominarsi comunista e di uscire dalla voce generica “sinistra”. Il timore di essere impopolari e poco spendibili a livello elettorale a seguito del crollo del Muro di Berlino ha accelerato la disintegrazione del comunismo e il dibattito sulle cause reali. La scomparsa della parola “comunismo” è il mezzo più efficace che il sistema usa per eternizzarsi. Le sinistre che la rigettano sono le fedeli complici di tale azione di cancellazione della memoria politica e della progettualità.
Oggi esiste un unico grande fronte di guerra che passa dal Donbass si dirama in direzione di Tbilisi prosegue in Siria e Libano. Si tratta di una singola guerra composta da una pluralità di conflitti per procura. La geometria è variabile. Fino a qualche mese fa sul fronte sembravano stare anche la Serbia con il Kosovo e l'Armenia. Vedremo quali sorprese ci riserverà il futuro.
In nessuno di questi casi abbiamo mai a che fare con guerre ufficialmente dichiarate.
Il formato privilegiato è quello della militarizzazione di un conflitto politico interno attraverso il supporto e finanziamento estero (il modello "rivoluzioni colorate", i cui meccanismi Laura Ruggeri ha analizzato dettagliatamente).
Nel caso ucraino questo meccanismo ha semplicemente superato una soglia di guardia tale da renderlo una guerra ad alta intensità di tipo classico, ma gli antecedenti da Maidan al 2022 rientrano nel canone delle "rivoluzioni colorate" fomentate e finanziate dall'estero.
Questa modalità operativa dipende dalle caratteristiche peculiari di un ordinamento di tipo imperiale che convive con forme di democrazia formale.
Forme di impero più tradizionali, dove la concentrazione di potere è istituzionalmente più esplicita, possono gestire la politica estera e le tensioni esterne in forme altrettanto brutali, ma più dirette e meno ipocrite: si pongono richieste, un po' si minaccia, un po' si negozia, un po' si concede, talvolta si dà seguito alle minacce sul piano militare.
Gent. ma Senatrice Segre,
non se ne abbia a male se continuo a rivolgermi a lei e a ribattere ai suoi interventi pubblici.
Il dialogo è un segnale di rispetto. In una democrazia, un’ambasciatrice come una ordinaria cittadina può rispondere all’intervento pubblico di una senatrice dello Stato.
Mi costa emotivamente rivolgermi a lei che mi ha querelato per razzismo. Mai mi era stata rivolta un’accusa così infamante in 38 anni di carriera diplomatica.
Ma proprio per questo non cedo al risentimento e mi rivolgo a lei in un monologo (purtroppo non credo che lei mi risponderà e questo è invece un segnale di disprezzo) che spero possa andare a beneficio dei miei lettori.
Mi riferisco alle sue parole sul genocidio in Palestina. Sabato c’è stata una manifestazione per la Palestina ed è stato quindi un giorno ottimo per tentare di spiegare come e perché a Gaza c’è un genocidio.
Naturalmente, non starebbe a me e neanche a lei stabilire qualcosa di cui è incaricata la Corte Internazionale di Giustizia, organo delle Nazioni Unite. Eppure, dati i tempi inevitabilmente lunghi del giudizio della Corte, tante voci si esprimono in materia.
Lei afferma che non c’è genocidio perché non c’è una sistematica azione di sterminio di un gruppo etnico. Vi sono crimini di guerra legati alla guerra.
Lo sciopero generale è stato preceduto come d’abitudine da una serie di interviste del segretario generale della Cgil ai giornali di riferimento. Un format comunicativo che affonda le radici nei profondi anni ’80 e che, anche nei contenuti, sembra venire da quell’epoca tanto che le interviste sembrano concesse da Pizzinato piuttosto che da un sindacalista del 2024. Qui la fonte del problema non sta tanto nella mancanza di radicalità di contenuti quanto, piuttosto, nel contesto narrato da Landini che non esiste più dalla prima metà degli anni ’80: quello del maggiore sindacato italiano che parla a uno stato sovrano in grado, una volta costretto dalle lotte, a prendere decisioni nella direzione progressista voluta dal sindacato. Certo, se vogliamo interpretare tutto questo secondo la coppia oppositiva radicalità/riformismo si potrebbe dire, semplificando, che è saltata la base istituzionale per fare politiche di riforma ma veniamo, piuttosto, ai contenuti espressi da Landini:
L’offensiva scatenata nel nord della Siria il
27 novembre dalle milizie jihadiste guidate dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham
(HTS), un tempo noto come Fronte al-Nusra e inserito
nella rete di al-Qaeda, finora sostenute o protette dalla
Turchia nella provincia di Idlib,
non può essere valutata solo per il suo aspetto di conflitto
regionale.
La situazione in cui ha ripreso il via su vasta scala il conflitto siriano deve infatti venire collocato nel più ampio contesto conflittuale e di destabilizzazione che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria, da Israele all’Iran.
I miliziani raccolti intorno all’HTS con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un’offensiva-lampo contro le forze governative siriane, conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l’aeroporto militare di Abu Dhuhur (tra Hama e Aleppo), ed espugnando gran parte della città di Aleppo anche se in quella città sono ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde.
Le forze di autoprotezione curde (YPG – nella foto qui sopra), che con alcune milizie tribali sunnite costituirono le Forze Democratiche Siriane (FDS), sostenute dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di combattere l’ISIS e controllare i territori orientali, sono oggi impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori e dai quartieri della città caduti nelle mani dei jihadisti che hanno riconquistato anche Tal Rifaat, a nord di Aleppo, da anni in mano alle milizie curde.
Il comandante delle FDS, Mazloum Abdi ha detto il 1° dicembre che “gli eventi nella Siria nord-occidentale si sono sviluppati rapidamente e all’improvviso, mentre le nostre forze hanno dovuto affrontare attacchi intensi da più parti. Con il crollo e il ritiro dell’esercito siriano e dei suoi alleati, siamo intervenuti per aprire un corridoio umanitario tra le nostre regioni orientali, Aleppo e la regione di Tal Rifaat per proteggere la nostra gente dai massacri. Ma gli attacchi dei gruppi armati appoggiati dall’occupazione turca hanno interrotto questo corridoio”, ha affermato Abdi. “Continuiamo a resistere per proteggere la nostra gente nei quartieri curdi di Aleppo“, ha aggiunto.
L’11 settembre
2024 il Consiglio di Sicurezza ONU ha adottato la terza
risoluzione riguardante il Sudan dallo scoppio della guerra
civile, nell’aprile 2023.
Come per le due risoluzioni precedenti, tuttavia, anche questa
non ha prodotto alcun effetto significativo. La risoluzione ha
confermato sanzioni,
esteso l’embargo sulle armi e ricordato alle parti
belligeranti l’importanza di “assicurare la protezione dei
civili”. Nel
preambolo si richiamano numerose risoluzioni adottate in
precedenza sul Sudan, risalendo fino al 2005. Si nota,
tuttavia, l’assenza della
risoluzione 1706 del 2006, che molto avrebbe a che fare con la
situazione odierna. E non è la prima volta, tanto che questa
delibera si
è guadagnata il soprannome di “risoluzione dimenticata”.[1] Nonostante
alcuni difetti, la 1706 è stata la prima risoluzione country-specific
a contenere un riferimento alla dottrina di intervento
umanitario detta Responsibility to Protect (R2P),
adottata proprio per autorizzare una missione di pace nella
guerra civile di allora, in
Darfur (uno dei numerosi conflitti interni che hanno afflitto
il Sudan fin dall’indipendenza). Ma perché la R2P non compare
nei dibattiti
del Consiglio di Sicurezza sulla questione sudanese?
La R2P e la situazione sudanese
La R2P, approvata dal World Summit dell’ONU nel settembre 2005, legittima l’intervento del Consiglio di Sicurezza (se necessario, anche con la forza) per sopperire a un governo che abbia “manifestamente fallito” nella propria responsabilità di proteggere la popolazione da crimini atroci. La R2P era stata ideata alla fine degli anni ’90 per risolvere il dilemma tra difesa della sovranità e difesa dei diritti umani, permettendo alla comunità internazionale, in casi gravi, di intervenire a scopo umanitario negli affari interni di Stati sovrani.[2]
L’origine dell’attuale guerra civile in Sudan è da ricercarsi nei contrasti sorti tra le due fazioni militari che da cinque anni determinano le sorti del paese: le Sudan Armed Forces (SAF), esercito governativo guidato dal generale e attuale presidente Abdel Fattah al-Burhan; e le Rapid Support Forces (RSF), milizia collaterale dell’esercito, ma autonoma, con a capo il generale Mohamed Dagalo “Hemedti”.
4- La questione nazionale,
seconda parte
La sempre più profonda saldatura tra il movimento comunista internazionale e la lotta antimperialista dei popoli oppressi diede un intenso sviluppo alla riflessione sulla questione nazionale e sul patriottismo all’interno del mondo comunista, e anche in relazione al diffondersi del fascismo, che proprio sul recupero retorico dei temi patriottici e nazionali costruiva i propri progetti imperiali ed egemonici.
Come sottolineato dal dirigente comunista bulgaro Georgi Dimitrov in occasione del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, l’avvento al potere di partiti e formazioni fasciste era stato reso possibile anche da errori dei locali partiti comunisti, che non erano efficacemente riusciti a opporsi ai fascisti, permettendo a questi di egemonizzare i temi patriottici e nazionali, facendo riferimento in particolare alla Germania: “I nostri compagni in Germania, per molto tempo non tennero nella dovuta considerazione il sentimento nazionale offeso e l'indignazione delle masse contro Versailles”[1]. Il riferimento è ai tentativi del KPD sotto la dirigenza di Ernst Thälmann di riportare il partito su una linea leninista rifiutando il compromesso con le forze socialdemocratiche, accusate di essere “socialfasciste” e di “tradire il paese”, e attaccando il crescente partito nazista mettendo in risalto le sue ipocrisie e la sua vuota demagogia sul terreno della questione nazionale.
Sotto Thälmann il partito si oppose al Piano Young e al Trattato di Versailles, al pagamento delle riparazioni di guerra e del debito internazionale, mentre aprì alla volontaria unione di tutte le popolazioni di lingua tedesca in un solo Stato, nella consapevolezza che “[s]olo il martello della dittatura del proletariato può spezzare le catene del Piano Young e dell’oppressione nazionale”, e che “[s]olo la rivoluzione sociale della classe operaia può risolvere la questione nazionale della Germania”[2].
Smaltita la fatica di questi ultimi giorni torniamo a mente fredda sul corteo, anzi, sui due cortei nazionali che sabato hanno attraversato Roma, iniziando con il constatare che le polemiche e le difficoltà che hanno accompagnato la costruzione di questa giornata di lotta non hanno (incredibilmente) disincentivato almeno 30mila compagne e compagni dallo scendere in piazza per la Palestina. Da oltre un anno centinaia di manifestazioni più o meno grandi e azioni di protesta combattive si susseguono con cadenza settimanale, riuscendo spesso anche a intercettare la rabbia delle cosiddette seconde generazioni arabo discendenti, e questo senza che il movimento di solidarietà con la lotta di liberazione dei palestinesi mostri segni di stanchezza. In un paese in cui il conflitto sociale da anni è ridotto ai minimi termini e in cui la sinistra di classe lamenta un’estrema difficoltà anche solo nel parlare con le nuove soggettività razzializzate e subordinate. Si tratta di un dato politico di cui non si può non tener conto e di un patrimonio politico essenziale che va preservato, anche dai tentativi di strumentalizzazione e cooptazione che arrivano da più parti.
Le note positive “congiunte” della giornata che accomunano entrambe i cortei, quantitativamente più o meno simili, però finiscono qui. Perché alla fine l’accordo faticosamente raggiunto dalle diverse anime della diaspora per un corteo unitario con una testa palestinese è stato fatto saltare all’ultimo minuto (e non dai palestinesi), imponendo nei fatti quella divisione che a parole e a mezzo social tutti dicevano di voler di scongiurare.
https://www.youtube.com/watch?v=YqyZn-bORJc
“Eve of Destruction” (Era della distruzione, 1965) di Barry McGuire, nella versione di Lotta Continua del 1970: “Tutto il mondo sta esplodendo”. https://youtu.be/qQ0VPHdtcHA
Ho sbraitato alcune frasi sconnesse, come suole, dal soundsystem mobile della Resistenza palestinese, sul quale alcuni compagni generosi avevano voluto issarmi. Per questo mi permetto di integrare e dare un po’ di senso a quanto da lissù mi è stato concesso l’onore di gridare.
La manifestazione dei 30.000 per la Palestina – e non solo - sulla quale i soliti burloni da strapazzo del baraccone fascistoide hanno voluto inventarsi che sono stati inquinati da episodi di “cretini violenti” (copyright del solito cretino dei Trasporti), ha avuto un significato di una portata enorme. Non so in che misura tutti noi e chi ci ha osservato da vicino e ci ha sentito e letto da lontano, abbiamo saputo accorgercene. Vorrei darne una veloce lettura.
Ma prima voglio, pur nella felice leggerezza e nel ricco stimolo alla riflessione regalatici dal formidabile corteo, precisare una cosa. Mi aggiro dalle parti della Palestina da 60 anni. Ne ho conosciuto gli eroi e le vittime di un genocidio che dura dal 1947.
A quanto si legge ieri è stata chiusa una bozza di accordo tra la Spd, la Cdu e la Bsw (la formazione di Sahra Wagenknecht) in Turingia, per guidare insieme il Land. Chiaramente è solo una bozza e dovrà essere approvata dagli iscritti della Sdp (tutt’altro che scontata) e dalle segreterie di Cdu e Bsw.
Sul nodo principale del nostro tempo, l’arresto dell’offensiva imperialista occidentale contro l’insorgente mondo multipolare, ci si è limitati a un “preambolo per la pace” che promosso da un Land appare come mera questione cosmetica per totale assenza di competenze. Un simbolo (se pure, talvolta, i simboli contano, ma quando sono sostenuti dalla forza). Sulle questioni materiali si vedrà.
E’ davvero difficile prendere posizione in corso d’opera su vicende così complesse, e per le quali la distanza priva di informazioni dettagliate e chiavi di lettura necessarie. Tuttavia, qualcosa rischierei a dirlo.
Ci sono due primi livelli, ai quali si può dire qualcosa, e uno molto più profondo al quale bisognerebbe dire molto.
Partiamo dai primi. Nei Quaderni (6°, 1930-32, 97) c’è un piccolo e prezioso frammento nel quale Gramsci si chiede in modo fulmineo se “può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione?”.
Questa è la radice delle cose.
La National Academy Of Sciences è tra l'altro l'editore di PNAS (Proceedings Of The National Academy Of Sciences), quindi a tutti gli effetti "comunità scientifica".
La presidente dell'Accademia, Marcia Mutt, si è prodotta in un editoriale non su PNAS ma su Science dove affronta il problema dei rapporti tra politica e scienza alla luce della presente situazione.
Molto prima delle elezioni presidenziali del 5 novembre, è creciuta la mia preccupazione riguardo alla scienza caduta vittima delle stessa divisione politica che lacera, a quanto pare, la società americana...
Dalla fondazione della National Academy of Sciences (NAS) durante la Guerra Civile. il periodo più divisivo della storia americana, la scienza e NAS (di cui sono attualmente presdidente) hanno servito la nazione indipendentemente dal partito politico al potere, Continuando la comunità scientifica a farlo, occore puntare una sguardo critico su quale responsabilità la scienza si prenda partecipando al contenzioso politico, e su come gli scienziati possano ricostruire la fiducia del pubblico verso di loro...
La National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine deve esaminare il modo in cui gli scienziati possano aver contribuito alla polarizzazione dell'uso della scienza... (gli scienziati) devono evitare la tendenza a ritenere che la scienza debba dettare le politiche.
In Parlamento è scontro aperto sulle novità normative in merito ai poteri attribuiti ai Servizi segreti italiani dal controverso “Pacchetto Sicurezza”, che ha ottenuto l’ok della Camera dei Deputati e ora è al vaglio del Senato. Le opposizioni puntano il dito contro l’art.31 del disegno di legge, attraverso cui vengono ampliati in maniera significativa i poteri dei membri dell’intelligence, esprimendo preoccupazioni sulla tenuta democratica del Paese.
Il nuovo dettato, in vista della tutela della sicurezza e degli interessi della Repubblica, autorizza infatti gli operatori di AISE e AISI non solo a infiltrarsi in organizzazioni criminali e terroristiche, ma addirittura a dirigerle, legittimando gravissimi reati quali associazione sovversiva, terrorismo interno e banda armata.
La norma obbliga inoltre enti pubblici, università, aziende statali e concessionarie di servizi pubblici a un ruolo di collaborazione e assistenza verso i Servizi. Se il provvedimento diventasse legge, esse potranno essere chiamate a fornire informazioni in deroga alle normative sulla privacy.
L’art. 31 del nuovo DDL Sicurezza introduce nuove disposizioni inerenti all’attività dei Servizi, prevedendo non solo che gli operatori di AISI e AISE possano partecipare con un ruolo defilato a organizzazioni illegali, ma perfino arrivare a guidarle.
Kiev sta perdendo la guerra. Il lancio russo del missile Oreshnik è un “game changer”. Ma, in attesa di Trump, USA e Gran Bretagna sembrano non voler cogliere gli ammonimenti di Mosca
A partire dalla fine di
ottobre, e ancor più dopo la vittoria di Donald Trump alle
presidenziali americane, l’amministrazione Biden ha cominciato
ad alzare la
posta in gioco in Ucraina.
Il 22 ottobre ha approvato un finanziamento di 800 milioni di dollari a favore dell’industria bellica di Kiev per la costruzione di droni a lungo raggio in grado di colpire in profondità il territorio russo.
L’8 novembre ha autorizzato il Pentagono a schierare ufficialmente contractor USA in Ucraina per mantenere in efficienza i sistemi d’arma americani in dotazione all’esercito di Kiev.
Nove giorni dopo, ha autorizzato l’impiego di missili USA a lungo raggio per colpire obiettivi in territorio russo.
E il 19 novembre ha annunciato che avrebbe fornito all’esercito ucraino mine antiuomo per rallentare l’avanzata delle truppe di Mosca, sebbene nel 2022 si fosse impegnata a limitarne l’impiego.
Biden ha anche cancellato 5 miliardi di debito al governo di Kiev, ed in generale sta compiendo ogni sforzo per rafforzare il più possibile l’Ucraina prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
L’episodio che ha fatto più scalpore, in ogni caso, è costituito dall’autorizzazione a colpire il territorio russo con missili americani a lunga gittata.
Due giorni dopo, sei missili ATACMS sono stati lanciati contro un deposito di armi nella regione russa di Bryansk (cinque sarebbero stati intercettati).
A stretto giro di posta, è arrivato l’annuncio che Gran Bretagna e (seppur con meno convinzione) Francia avrebbero seguito l’esempio americano mettendo a disposizione i propri missili cruise (Storm Shadow e Scalp, rispettivamente) per colpire obiettivi in territorio russo.
Riceviamo dai compagni Tiziano L. e Paolo B., e volentieri pubblichiamo questi due interventi contro il genocidio sionista in corso in Palestina che hanno un loro valore e una loro forza in sé, al di là della nostra concordanza o meno con le posizioni prese da questi due studiosi su altre questioni. (Red.)
Dichiarazione di Amos Goldberg,
storico israeliano, Professore di Storia dell’Olocausto al
Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica di
Gerusalemme:
“Sì, è un genocidio. È difficile e doloroso ammetterlo, ma non possiamo più evitare questa conclusione. La storia ebraica sarà d’ora in poi macchiata dal marchio di Caino per il “più orribile dei crimini”, che non potrà essere cancellato. È così che sarà considerata nel giudizio della Storia per le generazioni a venire. Gli obiettivi militari sono quasi obiettivi incidentali mentre uccidono civili, e ogni palestinese a Gaza è un obiettivo da uccidere. Questa è la logica del genocidio. Sì, lo so, quelli che lo dicono «Sono tutti antisemiti o ebrei che odiano se stessi». Solo noi israeliani, con la mente alimentata dagli annunci del portavoce dell’IDF ed esposta solo alle immagini selezionate per noi dai media israeliani, vediamo la realtà com’è. Come se non ci fosse una letteratura interminabile sui meccanismi di negazione sociale e culturale delle società che commettono gravi crimini di guerra. Israele è davvero un caso paradigmatico di tali società. Ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio perché livello e ritmo di uccisioni indiscriminate, distruzione, espulsioni di massa, sfollamenti, carestia, esecuzioni, cancellazione delle istituzioni culturali e religiose, disumanizzazione generalizzata dei palestinesi creano un quadro complessivo di genocidio, di un deliberato e consapevole annientamento dell’esistenza palestinese a Gaza.
La Gaza palestinese come complesso geografico-politico-culturale-umano non esiste più.
Il genocidio è l’annientamento deliberato di una collettività o di una parte di essa, non di tutti i suoi individui. Ed è ciò che sta accadendo a Gaza. Il risultato è senza dubbio un genocidio. Le numerose dichiarazioni di sterminio da parte di alti funzionari del Governo israeliano e il tono generale di sterminio del discorso pubblico indicano che questa era anche l’intenzione”.
* * * *
23 Novembre 2024 – https://comune-info.net/sviluppo-capitalistico-e-guerra-alla-riproduzione-sociale/
Ciò che è chiaro è che Israele sta conducendo una guerra totale contro tutto ciò di cui i palestinesi hanno bisogno per la loro riproduzione.
Illustre Kaja Kallas,
provo un senso di assoluto disgusto nei confronti della sua nomina a Commissario UE per la politica estera: perché mi pare evidente che si tratta di una decisione programmatica, dunque piena di significati e di esiti pensati e vissuti come esistenziali. Ora comprendo meglio il senso profondo della foto che la ritrae mentre imbraccia un lanciamissili Javelin; se gli incarichi si assegnano per affinità politica, in quella foto è racchiuso il futuro dell’Europa, e onestamente ne ho paura.
Perché questo è, ai miei occhi, lo sfoggio di tanta virilità militarista: una vera e propria débâcle dell’essenza aperta e pacifica dell’Europa. Lei, infatti, probabilmente senza neppure avvedersene, in quella foto lo ribadisce in una forma che è già il contenuto: il machismo come orizzonte culturale e la politica europea appiattita sulle armi.
Vorrei solo obiettarle che il militarismo è la secca sulla quale si arena la democrazia, ma temo che sia inutile; lei ha ormai adottato una sorta di “metafisica della guerra” e dubito possa modificare la sua attitudine bellica.
Io sono un ignorante, e non ho certo le sue competenze, però il senso stesso della democrazia esclude il godimento che viene dalle armi. Ci pensi un attimo, cosa rimanda quell’immagine? L’appagamento della potenza, l’autorevolezza della violenza; in sintesi, la delizia del “fallo”. Sì, il suo gesto è davvero “pornografico”, ossia distorce il desiderio di pace insito nella democrazia, poiché rappresenta in maniera esplicita quella cosa che ne è la negazione, la tendenza alla guerra.
Che all’orizzonte ci sia una deflagrazione è certo. Se questa possa avere natura limitata o non invece il carattere proverbiale di Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei (e ogni cenno alla vicenda mediorientale è puramente intenzionale), questo è tutto da vedere
Del tramonto dell'Occidente si parla da più di un secolo, e da ben prima della pubblicazione del fortunato volume di Oswald Spengler. Quando ne parlava Spengler si era all'indomani della grande distruzione della Prima Guerra Mondiale, e, paradossalmente, si era alle soglie di una possibile svolta nel processo di decadenza: l'Europa scossa profondamente da cinque anni di guerra e undici milioni di morti sembrava prendere coscienza della necessità di un cambiamento di paradigma.
Ma i tentativi che emersero in quel periodo, dapprima all'insegna della Rivoluzione d'Ottobre (i tentativi di rivoluzione degli spartachisti in Germania, il biennio rosso 1919-1920, ecc.) e poi sotto l'egida delle dittature degli anni '20, non riuscirono a creare condizioni stabili per una ricostruzione alternativa. I “fascismi” cedettero molto rapidamente le pretese di rivoluzione popolare a favore di un patto strutturale con la grande borghesia liberale, mantenendo l’impianto aggressivo e “darwiniano” che era stato proprio dell’imperialismo prebellico.
Nel loro stimolante saggio filosofico, intitolato Logica dialettica e l’essere del nulla (l’AD edizioni, introduzione di Giulia Bertotto), Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli contribuiscono indirettamente a riportare alla luce della teoria marxista due misconosciute leggi generali della dialettica materialista: e cioè la legge della trasformazione ininterrotta del cosmo e quella dell’interconnessione universale (la “rete di Indra”) tra i diversi enti e processi naturali.
Si tratta di una materia teoretica di notevole rilevanza anche ai nostri giorni e che era già stata sottoposta alle acute osservazioni – passate purtroppo sotto un clamoroso e quasi secolare silenzio – prodotte in precedenza da J. V. Stalin nel suo celebre scritto Materialismo dialettico e materialismo storico del 1938, il quarto capitolo del libro collettivo Storia del partito comunista (b) dell’Unione Sovietica. Breve corso.[1]
È noto che, seguendo le orme analitiche di Hegel, il grande rivoluzionario Friedrich Engels individuò tre leggi generali della dialettica, e cioè:
Più che una pericolosa provocazione rivolta alla Russia, gli attacchi ATACM e Storm Shadow rappresentano un tentativo di ribaltare la politica estera
“Il Deep State ha sussurrato a Trump: 'Non puoi resistere alla tempesta'. Trump ha risposto sottovoce: 'Io sono la tempesta'. La guerra è iniziata.
Il Deep State ha lanciato una guerra di disturbo per disattivare la “tempesta” di Trump. L'attacco ATACM di questa settimana è stato solo una parte di una contro-insurrezione inter-agenzie - un attacco politico diretto a Trump; così come tutte le false narrazioni inter-agenzie attribuite al campo di Trump; e così anche l'escalation di provocazioni dirette all'Iran.
Siate certi che i Cinque Occhi partecipano a pieno titolo alla contro-insurrezione. Macron e Starmer hanno apertamente cospirato insieme a Parigi prima dell'annuncio statunitense per promuovere l'attacco ATACMS. I grandi dell'inter-agenzia sono chiaramente molto timorosi. Devono temere che Trump possa svelare la “bufala del Russiagate” (che Trump nel 2016 fosse una “risorsa” russa) e metterli in pericolo.
Ma Trump capisce cosa sta succedendo:
“Abbiamo bisogno di pace senza indugi... L'establishment della politica estera continua a cercare di trascinare il mondo in un conflitto. La più grande minaccia alla civiltà occidentale oggi non è la Russia.
Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
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Tanto spesso, in questi ultimi anni,
abbiamo affermato di essere di fronte a una nuova fase
storica, nella quale le contraddizioni sistemiche sono in
rapido sviluppo e in costante
accrescimento: crisi del modo di produzione capitalistico,
costante innalzamento della tensione bellica, genocidio del
popolo palestinese, crisi
ambientale, violenza sistemica (dallo sfruttamento di classe
senza quartiere alla violenza di genere).
Davanti a questi processi, nei quali svolge un ruolo regressivo, un Occidente in crisi di egemonia cerca disperatamente di rilanciarsi a livello ideologico, rappresentando sé stesso come la civiltà più avanzata, un armonico «giardino» posto sotto assedio da parte della «giungla» (la barbarie, le autocrazie, i popoli passivi e arretrati).
In questo contesto, e proprio per la necessità di dare sostanza a un’ipotesi di fuoriuscita da questa crisi così grave e profonda e di combattere efficacemente le armi ideologiche dell’avversario, assumono una rinnovata centralità teorica e politica lo studio e l’elaborazione del marxismo, ossia di una visione del mondo ancora capace di spiegare i processi in atto e indicare una prospettiva alternativa di società.
Giunge dunque particolarmente opportuna la nuova edizione del testo fondativo, del pilastro fondamentale del marxismo, il primo libro de Il Capitale di Karl Marx, curata per Einaudi (nella prestigiosa collana I millenni) da Roberto Fineschi, che ha coordinato una squadra di traduttori composta da, oltre a sé stesso, anche da Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’.
Questa edizione è frutto del lavoro aperto da decenni intorno ai testi marxiani nell’ambito del progetto della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx e di Engels, la MEGA2 di cui Fineschi, studioso e compagno con cui abbiamo il piacere di collaborare da anni, è uno dei protagonisti.
Sulla fisionomia e sulle acquisizioni di questo lavoro filologico, che sta consentendo di portare alla luce nuovi testi e soprattutto di chiarire alcuni snodi fondamentali della riflessione di Marx, rimandiamo ai lavori di Roberto e intanto all’intervento di Francesco Ravelli, più sotto pubblicato, alla presentazione del Capitale tenuta il 21 novembre presso il circolo OST Barriera a Torino.
Kohei Saito individua la battaglia ecologista e quella egualitaria come necessarie a rendere l’ambientalismo socialmente sostenibile, ma fatica a individuare nella decrescita una prospettiva credibile
La crisi climatica
è tema indubbiamente complesso, ma come suggerisce John Maeda
occorre trovare un equilibrio tra complessità e semplicità
attraverso una graduale riduzione della prima pur senza
avere
l’obiettivo di liberarsene. Se semplificare rischia di
condurre alla semplificazione, l’eccesso di complessità, al
contrario, fa
scivolare verso l’inconcludenza, il disorientamento e di
conseguenza l’inazione. Da qui la necessità di trovare un
equilibrio tra
le due polarità.
Fatta questa un po’ pedante precisazione provo a misurarmi con il tema a partire dall’ultimo testo del filosofo marxista giapponese Kohei Saito [Il Capitale nell’antropocene, Einaudi, 2024]. Un testo di un autore che, come dice Salvatore Cannavò in un’intervista [Saito Kohei: quell’ecologista di Marx, in «Millennium», novembre 2024], ha «il dono della chiarezza» e forse anche per questo sta diventando un fenomeno editoriale mondiale a partire dalle 500 mila copie vendute proprio in Giappone. Un numero esorbitante, un fenomeno editoriale che non è detto possa tradursi in cambiamenti concreti. Questo successo tuttavia suggerisce come i contenuti del testo abbiano intercettato un sentire comune grazie a un modo parzialmente inedito di fare critica alla contemporaneità, nonostante si parli di Marx, anticapitalismo, comunismo coniugato alla decrescita. Temi che se presi uno a uno non sono certo nuovi e che vengono considerati spinosi e controversi, anche in campo democratico-progressista e persino alternativo. Ma nel loro esser messi in relazione in modo eclettico recuperano una forza epistemologica.
Il cambiamento climatico, come affermava Ulrich Beck già dieci anni fa [Come il cambiamento climatico potrebbe cambiare il mondo, Castelvecchi, 2024], attraverso la forse infelice formula del «catastrofismo emancipatorio», potenzialmente contiene una spinta per porre «fine alla fine della politica», dando vita a una svolta cosmopolita che di fronte alle sfide globali metta al centro nuove «preoccupazioni pubbliche transnazionali».
Sembra passato un secolo, vero? I
virologi onnipresenti a reti unificate. I grafici con
l’andamento della mortalità. Le mascherine, gli elicotteri
in spiaggia e i droni
sui tetti dei palazzi. Il divieto di uscire di casa, ma
l’obbligo sostanziale di andare a lavorare. Un tizio con
aria solenne che si affaccia
sulle reti tv e fa un elenco di cosa “è consentito”. Un paio
d’anni di follia, ma anche di ardite sperimentazioni sociali
e
inedite tecniche di governance. In quella stagione Milano
conobbe il più alto numero di manifestazioni consecutive,
mai viste dopo il
’77. Quasi in tutta Italia si coagularono aggregati sociali
(e social) nel cui caos poteva nuotare di tutto: nazisti e
anarchici, fautori della
Costituzione e complottisti estremi. Tutti uniti non da una
visione comune – sui vaccini o sul mondo – ma da una
diffidenza ostile e
irredimibile verso “il potere” o una qualche sua
rappresentazione immaginaria.
L’unica cosa che teneva davvero insieme quei mondi, era lo stigma – potentissimo e unanime – che veniva riversato su di essi dai media mainstream e dalle forze politiche. Come se una parte del paese fosse stata dichiarata fuori dal consesso civile. Non c’era programmino tv, dalla satira ai tg e perfino le trasmissioni sportive, in cui quelle persone non venissero impunemente insultate da giornalisti, esperti, soubrette e sottosegretari: terrapiattisti era l’epiteto più gentile. Chi di noi non aveva un parente o un collega o un vicino di casa “renitente” al vaccino o semplicemente ostile al green pass? Questa normale condizione critica venne trasformata in ostracismo civile. La massa informe e anonima dei renitenti non aveva diritto di replica. Solo con i “putiniani” si sarebbe riprodotto lo stesso scenario di conformismo di regime: chi non si fida, chi mostra dubbi, chi è riottoso – in quel caso rispetto alle politiche Nato – va bastonato e censurato. Perché la post-modernità (o quel che diavolo siamo) si fonda essenzialmente sulla fede, proprio come il Medioevo. Cambiano solo gli idoli e i profeti.
Che tutto quel travaglio sociale che spaccò le opinioni pubbliche occidentali, potesse semplicemente dissolversi senza lasciare tracce, era una pia illusione.
Guardando alle conseguenze della caduta di Assad e della rapidissima conquista di Damasco da parte delle milizie jihadiste filo-turche (e non solo filo-turche), è evidente che a trarne vantaggio saranno soprattutto Israele, Turchia, Stati Uniti e le petromonarchie del Golfo.
Le organizzazioni curde continuano a oscillare tra alleanze spregiudicate nella speranza – o illusione – di guadagnare qualcosa di più di quello che stanno perdendo.
A perderne saranno sicuramente le organizzazioni palestinesi, Hezbollah, Iran, in pratica quello che insieme al movimento Ansarallah in Yemen si definisce “Asse della Resistenza”. Adesso i corridoi di rifornimento terrestri dall’Iran verso il Libano attraverso la Siria sono interrotti.
A vedere indebolita la sua presenza in Medio Oriente potrebbe essere anche la Russia, se non riuscirà a manovrare bene le sue relazioni con la Turchia. Gli jihadisti a Damasco hanno attaccato e saccheggiato l’ambasciata iraniana, mentre al momento le basi militari russe non sono state attaccate.
Il giornale statunitense Politico sottolinea come “la rapidità fulminea e la facilità dell’offensiva e lo scioglimento delle forze governative sollevano interrogativi, così come il fallimento degli alleati di Assad, Russia e Iran, nel fare molto per distruggere i ribelli e salvarlo.
La dissoluzione della Siria di Assad è l’effetto finale di un progetto imperiale di lungo periodo che ha voluto a tutti i costi questo risultato per riorganizzare il Levante – un crogiolo di popoli, etnie, religioni – demolendo un baricentro sovrano.
Il sistema politico e statale della Siria, così come plasmato dagli Assad, sta attraversando con un’accelerazione vertiginosa la sua fase terminale di dissoluzione.
È l’effetto finale di un progetto imperiale di lungo periodo che ha voluto a tutti i costi questo risultato per riorganizzare il Levante – un crogiolo di popoli, etnie, religioni – demolendo un baricentro sovrano con un nucleo cesaristico particolarmente duro come la Repubblica Araba Siriana.
Ogni mezzo è stato usato negli ultimi 14 anni dall’Occidente, dalla Turchia e dalle petromonarchie arabe in accordo con Israele: una guerra per procura che ha fatto da palestra per i taglia gole jihadisti di mezzo mondo (inclusa la funesta orda dell’ISIS) e che ha devastato – con costi umani spaventosi e in modi irrimediabili – tutti gli equilibri sociali, etnici e demografici della Repubblica; sanzioni applicate in modo feroce per destrutturare le basi economiche con inevitabili effetti di logoramento di medio e lungo periodo; pezzi di territorio invasi dagli Stati Uniti e tuttora in mano loro per rubare quasi tutte le ingenti risorse petrolifere (ne avete mai sentito parlare dal coro dei presunti difensori degli invasi rispetto agli invasori?); altri pezzi di territorio invasi dalla Turchia e da Israele per crearsi arbitrarie fasce di sicurezza, usate come base avanzata di incursioni e attacchi; costanti e quotidiane azioni militari di Israele volte a degradare la tenuta del sistema militare dello stato siriano. Per i siriani non doveva valere la formula per cui quella nazione “ha il diritto di difendersi” per non andare in malora.
Limiti e contraddizioni del femminismo contemporaneo “aclassista”. Una lettura critica sul nodo del “patriarcato” e sul dominio del sistema capitalisico.
Lo scorso 25 novembre si è celebrata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Molti sono stati i cortei promossi dalle associazioni femministe al grido “disarmiamo il patriarcato” e violente sono state le polemiche nel mondo politico. Sotto accusa “l’ideologia tossica dell’italiano maschio ed etero”, come amano dire le femministe fucsia, e la “cultura patriarcale” cui è attribuita la responsabilità morale dei femminicidi.
Occorre premettere che qui non si vuol certo negare il maschilismo ancora presente nella nostra società ma – considerato che il pensiero femminista contemporaneo non è evidentemente in grado di contrastarlo essendo mancante di una analisi critica della società capitalistica che riduce uomo e donna a pedine indifferenziate di un sistema che, in nome della produttività e dei profitti cancella, anziché preservare, le differenze che innegabilmente scaturiscono dalla diversità di uomo e donna – quel che si vuole contestare è che parlare di patriarcato nel 2024 è anacronistico e oggettivamente scorretto. La società patriarcale, infatti, è tramontata 200 anni or sono, come dice anche il professor Cacciari.
I rituali di intrattenimento della fintocrazia prevedono che un governo di destra tenga un atteggiamento sprezzante e insofferente verso i sindacati, in modo da indurli a mobilitarsi per difendersi il loro angolino di interlocuzione con l’establishment. Seguendo il copione i leader sindacali usano toni verbali accesi e coloriti (“rivolta sociale”) per sollecitare una partecipazione di massa alle manifestazioni; cosa che farà da sponda al governo di destra consentendogli di interpretare a pieno titolo la parte della vittima dell’odio e delle “violenze di piazza” (cioè i soliti tafferugli che si verificano tra polizia e confidenti della polizia). I leader della destra possono così eccitare i propri supporter, prospettando loro pornografici scenari di repressione sempre più draconiana. Crosetto e Salvini propongono infatti di punire i violenti con multe pesanti oltre che con la galera. Visto che il segretario CGIL, Maurizio Landini, viene additato come il mandante quantomeno morale delle violenze, si potrebbe arrestare e multare pure lui. Tra i porno-sogni della destra forse soltanto quello di deportare i migranti potrebbe eguagliare la libidine di umiliare i sindacalisti. Del resto il mantra della destra è che i sindacati hanno rovinato l’Italia, perciò sarebbe ora che l’Italia rovinasse i sindacati reclamando da loro un risarcimento in denaro.
Sarebbe però riduttivo supporre che la fintocrazia esaurisca i suoi rituali e le sue risorse filodrammatiche soltanto con il derby tra destra e sinistra e con lo scontro tra ultras delle rispettive tifoserie.
Ambrogio, nome acquisito dal presidente coreano nel suo battesimo cristiano, è passato da “impongo la legge marziale” a “tolgo la legge marziale”, nel giro di poche ore. Uno spettacolo politico e geopolitico davvero sconcertante e per un Paese strategico per gli americani nel quadrante asiatico, 12a economia nel mondo, prossimo candidato al G7, con un recente accordo commerciale speciale con l’UE.
L’opposizione aveva già annusato qualcosa pochi mesi fa e del resto, via gerarchie militari, impossibile tenere ermeticamente chiusa l’intenzione preparatoria. The Guardian riferisce che “il parlamentare del partito democratico Kim Min-seok aveva avvertito negli ultimi mesi che Yoon si stava preparando a dichiarare la legge marziale”. Ancora nel vivo degli eventi ieri, dopo che il parlamento era riuscito comunque a riunirsi e votare la bocciatura del dettato presidenziale (come prevede la Costituzione coreana riguardo le dichiarazioni di stato d’emergenza), i militari ribadivano che loro prendevano ordini solo dal presidente e fino a che questo non revocava l’ordine, loro rimanevano lì a imporre la legge marziale.
Come tutti i militari di paesi subordinati militarmente agli USA, impossibile che ciò che sapevano gli alti vertici militari non fosse noto a Washington. Forse non era noto all’amministrazione Biden in smobilitazione operativa, molto dubbio sul fatto che il coreano pazzo non avesse avvertito l’amministrazione entrante anche se sarebbe da verificare in che termini.
In attesa dello sbarco alla Casa Bianca del tycoon e del suo entourage, ecco quali disastri si profilano all'orizzonte. In campo economico, ambientale, nei diritti umani e, non ultima, c'è pure l'incognita dell'uso dell'intelligenza artificiale generale
Molti interrogativi sulla presidenza Trump saranno sciolti solo a posteriori. Troppe le variabili in gioco, troppo alta l’imprevedibilità del personaggio, troppo oscura la struttura di potere che lo sostiene e che condiziona la politica del Paese. Alcuni dati di fondo è comunque utile richiamarli.
In primo luogo, certamente, la vittoria di Trump costituisce un passaggio decisivo che vede l’ordine neoliberale evolversi nel peggiore dei modi. Possiamo individuare un passaggio essenziale per quest’evoluzione nella grande crisi degli anni 2008-2011, quando i veli sono caduti. Mentre le fasce sociali più disagiate pagavano i costi della crisi in termini di posti di lavoro e di politiche di austerità, fiumi di danaro a bassissimo costo sono stati indirizzati al salvataggio di un sistema finanziario fallito, generando, nella sostanza, il socialismo per i ricchi e l’ordine di mercato per i poveri. Gli squilibri nella distribuzione della ricchezza hanno assunto dimensioni ancor più spropositate.
In quegli anni la cosiddetta sinistra, dall’amministrazione Obama ai socialisti e socialdemocratici europei, ha mancato di sottrarsi all’abbraccio con il neoliberismo morente, facendosi invece paladina di quell’ordine.
Il lungo governo laico e semi-socialista siriano è finito.
Al Assad è a Mosca. Con la famiglia ha ottenuto asilo per ragioni umanitarie.
Innanzitutto voglio ricordare che Bashar al-Assad era stato eletto in elezioni regolari 10 anni fa quando anche un sondaggio del Pentagono riconosceva che era sostenuto da quasi il 70% della popolazione siriana. Poi dopo la fine dei grandi combattimenti della Siria ci siamo un po' dimenticati.
Cosa è successo?
Di tutto. Possiamo iniziare coi quadri dell'Esercito Arabo Siriano che hanno in molte occasioni ordinato alle loro forze di non combattere e ritirarsi. Tradimento? Corruzione? Incapacità? Si ricordi che nel 2013 i jihadisti erano a pochi chilometri da Damasco che fu salvata dall'intervento di Russia, Iran ed Hezbollah. Varie risposte sono possibili e possono coesistere.
Sono punti importanti per cercare di comprendere le scelte della Russia, che non poteva sostituirsi all'intero esercito siriano.
E poi, giusto per registrare ancora ciò che è evidente, oltre al disimpegno della Russia c'è stato quello dell'Iran.
Ma sull'evidenza occorre ragionare perché da sola non spiega nulla o può spiegare malamente.
Abū Muḥammad al-Jawlānī, nome di battaglia di Aḥmad Ḥusayn al-Sharʿa, divenuto moderato sulla via di Damasco, l’ha conquistata senza combattere. La sua biografia e segnata dal terrorismo e dall’integralismo islamico.
L’esercito siriano si è arreso quasi senza combattere e Assad è fuggito in Russia. L’Occidente delle plutocrazie esultano per la sconfitta russa e, già accarezza, il sogno guerriero di un improbabile cambio delle sorti in Ucraina. La Siria è stata presa da un composito esercito costituito da 17 organizzazioni in gran parte non siriane. Tra di loro innumerevoli integralisti. Al-jolani ha rassicurato l’Occidente sui suoi rapporti con Israele, pertanto ancora una volta, nei fatti assistiamo a un colpo di stato dinamico e veloce. Il regime di Assad cade, e nel contempo, si descrive il regine assediato da lotte e conflitti internazionali come “regime sanguinario”. Si omette che Assad ha introdotto nella tormentatissima Siria una serie di riforme sociali ed economiche. La condizione femminile, mantra dell’Occidente, sotto il governo Assad è notevolmente migliorata. Non poche donne hanno potuto occupare posizioni ragguardevoli in economia e nell’amministrazione. Assad, fra tante contraddizione, ha permesso la tolleranza religiosa, egli stesso un alawita ha sposato una sunnita, dimostrando che la tolleranza è possibile, pur in un paese stretto tra ambizioni ottomane turche, basi russe e assedio israeliano-statunitense.
Allora dobbiamo chiedercelo: perché l’Occidente collettivo ha scommesso così tanto – praticamente tutto – su un cavallo palesemente zoppo? Qualcuno risponda. Mainstream e gran parte dei governanti offrono sempre due risposte, per forza false
Nella guerra ucraina, finora combattuta con armi non nucleari, i rapporti di forza sul campo ci rivelavano fin dall’inizio un forte divario di mezzi e tecnologie in favore della Federazione Russa. Quella disparità non poteva che portare all’inevitabile sconfitta di Kiev, anche ipotizzando, come in effetti poi c’è stato, un enorme dispendio di mezzi economici e militari delle potenze occidentali per tenere in piedi il blocco ipernazionalista che aveva preso il potere nel 2014.
Per avere un ordine di idee, le spese di Washington e dei suoi vassalli (europei e non solo) in favore di Zelensky & C. sono largamente superiori alle spese militari dell’intera Federazione Russa (che sono dedicate solo in quota minoritaria all’operazione militare in Ucraina). Aggiungiamo che le decine di tornate di nuove sanzioni, presentate come un mezzo per strangolare Mosca, si sono scontrate con una realtà opposta in cui la Russia ha riassorbito il colpo (al netto di certi inevitabili squilibri finanziari) e ha un’economia in espansione, laddove l’Europa soffre un repentino processo di deindustrializzazione, particolarmente drammatico e sconcertante in Germania.
Allora dobbiamo chiedercelo: perché l’Occidente collettivo ha scommesso così tanto – praticamente tutto – su un cavallo palesemente zoppo? Qualcuno risponda.
La corrente principale dei media e gran parte dei governanti in proposito offre sempre due risposte. Per come abbiamo imparato a conoscere i loro comportamenti, sono per forza risposte false.
La prima risposta è che si vuole difendere a tutti i costi la “democrazia ucraina” contro “l’autocrazia che attacca un paese sovrano”.
Prosegue il nostro dibattito
sulla
gestione sanitaria durante la pandemia da SARS-CoV-2,
utile a riflettere sulla più generale situazione della
sanità nel nostro paese. In
questo terzo articolo, si evidenzia alla luce dei fatti
l’inconsistenza e la contraddittorietà di alcune delle
indicazioni terapeutiche
“ufficiali”, molte delle quali si sono rivelate
successivamente infondate.
L’occasione per tornare a parlare di un grande tormentone pandemico ce la fornisce proprio il presidente della FNOMCeO (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) Filippo Anelli che, accompagnato dal segretario generale Roberto Monaco, ha dichiarato alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dal SARS-CoV-2 che, per quanto riguarda la gestione domiciliare dei pazienti, “la federazione non è mai intervenuta per limitare la libertà prescrittiva del medico. Anche perché, in quel periodo, il ministero più della Tachipirina poteva dire ben poco perché non c’erano linee guida, quindi non c’erano evidenze che potessero sostenere indicazioni di carattere diverso”. Per capire la portata orwelliana di tali affermazioni ripercorriamo quei tragici giorni.
Tutto comincia il 25 marzo 2020, quando il ministero della Salute emette la circolare n. 7865 nella quale si stabilisce che, “per individuare possibili opzioni terapeutiche efficaci nei confronti dell’infezione da COVID-19 è necessario condurre studi clinici in grado di dimostrare che i benefici superino i rischi. Per questa ragione, tenuto conto della straordinarietà della situazione, la Commissione tecnico scientifica dell’AIFA ha il compito di valutare tutti i possibili protocolli di studio con la massima rapidità (entro pochissimi giorni dal momento della sottomissione). La stessa tempestività è garantita per la successiva valutazione condotta dal Comitato Etico Unico a livello nazionale che ha sede presso l’INMI Lazzaro Spallanzani.
1. Fare il punto su
Industria
4.0
Industria 4.0 è un termine che viene dalla Germania e nasce all’interno dei progetti sviluppati da questo paese per mantenere e rafforzare la competitività del suo sistema produttivo. Queste iniziative sono state adottate inizialmente nel novembre 2011 con il Piano di Azione della strategia High Tech 2020. Tuttavia è dal 2006 che la Germania prova a costruire e portare avanti una strategia sull’High Tech per difendere la competitività della sua industria. Il progetto si regge, dice Matteo Gaddi nel suo Sfruttamento 4.0. Nuove tecnologie e lavoro, su una strategia duale, ovvero, da una parte l’utilizzo delle nuove tecnologie nelle fabbriche tedesche per rafforzare l’efficienza della produzione domestica e dall’altra la produzione per la vendita e l’esportazione di queste nuove tecnologie. Il primo obiettivo è raggiungibile unicamente mettendo a rete le diverse fasi della stessa catena produttiva per mezzo dell’integrazione digitale. Questo spiega le strategie di ingegnerizzazione digitale dell’intera catena del valore, di sviluppo di catene e reti tra diverse aziende attraverso l’integrazione in maniera orizzontale e l’integrazione verticale di sistemi manifatturieri flessibili e riconfigurabili. Il secondo obiettivo riguarda il tentativo tedesco di diventare leader mondiale nella fornitura di soluzioni Industria 4.0 attraverso gli sforzi dei costruttori di macchinari e impiantistica che dovranno combinare le nuove tecnologie ICT con le tradizionali strategie nell’high tech. Le tecnologie ICT svelano nuove dettagli su cos’è Industria 4.0. Si tratta di un’organizzazione dei processi produttivi a partire da tecnologie e dispositivi che comunicano gli uni con gli altri tramite computer o modelli virtuali lungo tutta la catena del valore. Emerge, quindi, una fabbrica “intelligente” con sistemi guidati da computer capaci di monitorare i processi produttivi con cui creare riproduzioni virtuali del mondo reale e decentrare le decisioni sulla base di meccanismi di autoregolazione. Tutto ciò è pensabile perché nell’industria gli oggetti fisici sono sempre più integrati con le reti di informazione e comunicazione, dice Matteo Gaddi. Nelle fabbriche troviamo tre modalità di integrazione.
Fino a poco tempo fa, una seria ipotesi di lavoro geopolitico era che l'Asia occidentale e l'Ucraina fossero due vettori del modus operandi standard dell'Egemone, che consiste nell'incitare e scatenare Guerre Eterne. Ora entrambe le guerre sono unite in una Onni-Guerra.
Una coalizione di neoconservatori straussiani negli Stati Uniti, di sionisti revisionisti di Tel Aviv e di neonazisti ucraini dalle sfumature grigie sta ora scommettendo su uno Scontro Finale – con diverse sfumature che vanno dall'espansione del Lebensraum alla provocazione dell'Apocalisse.
A ostacolarli sono essenzialmente due dei principali BRICS: Russia e Iran.
La Cina, autoprotetta dal suo nobile sogno collettivo di “comunità di un futuro condiviso per l'umanità”, osserva prudentemente in disparte, sapendo che alla fine del percorso la vera guerra “esistenziale” dell'Egemone sarà contro di lei.
Nel frattempo, Russia e Iran devono mobilitarsi per il Totalen Krieg. Perché è questo che il nemico sta lanciando.
Minare i BRICS e l'INSTC
La destabilizzazione totale della Siria, con il pesante contributo della CIA e dell'MI6, che ora procede in tempo reale, è un stratagemma attentamente studiato per minare i BRICS e non solo.
La guerra ha moltiplicato i prezzi dell’energia, provocato deindustrializzazione, inflazione e perdita di posti di lavoro
Se lo scopo della guerra, nel cuore dell’Europa, era quello di alzare una barriera tra la Federazione Russa e l’Europa occidentale e tra quest’ultima e la Cina, si può affermare che gli Stati Uniti hanno vinto la loro guerra contro l’Europa (vedi il mio Le condizioni economiche della guerra da Biden a Trump). Le hanno imposto, tra l’altro, l’importazione dei loro sistemi d’arma e del loro gas di scisto liquefatto che gli permette di riequilibrare la loro bilancia commerciale e la loro posizione finanziaria netta nei confronti del resto del mondo.
I prezzi del gas in Europa superano attualmente i 100 €/MWh superando di cinque volte i prezzi del 2022. Il conflitto, come ciascuno sa iniziò nel febbraio del 2022. Chi ricorda l’invito di Draghi a scegliere la sua pace rinunciando all’aria condizionata?
Qualche sacrificio pur di poter infliggere le sanzioni energetiche alla Federazione Russa descritta come colpevole di aggressione militare nei confronti dell’Ucraina. Una narrazione propagandistica del tutto falsa.
Il sabotaggio USA/NATO del North Stream è stato l’evento più paradigmatico di questo processo di rinuncia coatta da parte dell’Europa al supporto energetico russo che aveva grandemente contribuito al suo sviluppo economico. Oggi secondo Gas Infrastructure Europe, i prelievi di gas dagli stoccaggi stanno subendo un’accelerazione in tutta l’Unione Europea.
Pur di rovesciare il governo di Assad, alleato della Russia e sostenitore della causa palestinese e libanese, il cosiddetto “Occidente collettivo”, in primis USA, Israele e GB (più satelliti al seguito) non ha esitato a sostenere, riorganizzare, riarmare e finanziare la peggiore feccia jahadista dell’ISIS e di Al Nusra creata dall’Arabia Saudita wahabita, composta da mercenari tagliagole criminali e prezzolati che nulla hanno a che vedere con l’autentica cultura islamica. La stessa feccia che alcuni anni fa era stata respinta sul campo dall’esercito siriano e dalle milizie di Hezbollah con il supporto dell’aviazione russa.
Ricordiamocele queste cose ogniqualvolta ci torneranno a parlare di diritti civili, di femminismo, di “questioni di genere”, di “liberazione delle donne e delle persone lgbtq” e della missione civilizzatrice dell’Occidente nel mondo.
La Siria di Assad, erede della tradizione baathista, nonostante le fesserie raccontate da tutti i media, di destra o di “sinistra”, è, anzi, era, un paese laico dove convivevano pacificamente più di venti differenti confessioni religiose (non è una questioncella da nulla, in quello specifico contesto) e dove le donne (dal momento che si riempiono la bocca dalla mattina alla sera con la solita retorica politicamente corretta) erano pienamente inserite nella vita sociale e pubblica. Ora, con la feccia criminale integralista al potere, non credo proprio che rimarrà tale.
Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
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I maggiorenti occidentali commentano giulivi la fine della Repubblica Araba Siriana, sostituita da una coalizione jihadista guidata da Abu Muhammad al-Jawlani, che nel curriculum ha una lunga militanza in ISIS e al-Qa'ida
È molto interessante leggere la parata di brevi dichiarazioni di tanti maggiorenti occidentali sulla fine della Repubblica Araba Siriana, oggi conquistata e sostituita da una coalizione jihadista guidata da Abu Muhammad al-Jawlani, che nel curriculum ha una lunga militanza nell’ISIS e in Al-Qa’ida e che come primo provvedimento libera dalle carceri siriane tutti i capi dell’ISIS.
Le dichiarazioni dei pezzi grossi dell’Ovest sono interessanti anche per l’uniformità dello stile e degli argomenti, esposti tutti con lo stesso cliché: 1) esultanza per il rovesciamento di Assad, additato come “dittatore”; 2) generico e blandissimo richiamo ai rischi associati ai nuovi capi per via del loro passato, quasi mai menzionato esplicitamente; 3) fiducia nella buona opportunità di fare buoni accordi con i nuovi capi; 4) letizia bellicosa per una sconfitta strategica di Putin. Cercate in rete le dichiarazioni di Biden, Scholz, Von Der Leyen, Macron, Metsola, Starmer, Kallas: i vertici di istituzioni che in certe fasi hanno fatto di tutto per impaurirci con il pericolo del fondamentalismo terrorista oggi festeggiano il primo vero grande trionfo del jihadismo che si fa Stato, e lo fanno leggendo e diffondendo la medesima velina, come pappagalli, come meri ripetitori di idee ricevute, come zelanti esecutori di uno schema predefinito.
Spiegare la crisi francese è facile, se non si parte dall’ars combinatoria politichese che appassiona tanto i nostri commentatori professionali. Mai come in questo caso, infatti, le mille combinazioni possibili che possono portare – oppure no – alla formazione di un governo a Parigi sono solo l’aspetto “tattico” del problema che ha segato le gambe alla macronie: realizzare anche in Francia quelle “riforme” che hanno distrutto la vita sociale in Grecia, in Italia e – con meno potenza, almeno per ora – in tutti i paesi europei.
Contro questa spinta neoliberista, che punta esplicitamente a concentrare tutte le risorse e tutta la ricchezza nelle mani di pochissimi supermen titolari delle grandi concentrazioni private, lavoratori e studenti e popolo francesi hanno lottato per anni. Ricevendo cariche di polizia e flashball sparate in faccia (un numero imprecisato ma altissimo di manifestanti ha perso un occhio…), arresti e processi.
Una resistenza fortissima fin dai tempi dei gilet jaunes, innescata dagli aumenti di prezzo dei carburanti, politicamente capitalizzata dalla sinistra non servile, nettamente ostile all’”austerità europea” (La France Insoumise di Jean-Luc Mélénchon) e dall’estrema destra neofascista sedicente “euroscettica”, ma pronta a farsi “concava e convessa”.
Una resistenza cresciuta nelle mobilitazioni sindacali (la Cgt sembra una forza rivoluzionaria, se uno è abituato alla Cgil) contro atti di forza reazionari e violenti, che è però riuscita fin qui solo a “limitare i danni” per quanto riguarda l’età pensionabile (arrivata comunque a 64 anni, ma con 43 anni di contributi), i tagli alla sanità, all’istruzione, all’edilizia residenziale pubblica.
La guerra civile siriana sulla quale si è proiettata un più ampio conflitto geopolitico generale, è iniziata 13 anni fa. Tra 2019 e 2020 giunge a un punto di stallo. Le forze nemiche del potere in carica (Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, USA e coalizione occidentale con appoggio silenzioso di Israele) che operavano sul campo indirettamente con milizie jihadiste e sanzioni, direttamente con aviazione, fornitura armi e logistica, trovano insuperabile resistenza da parte delle forze governative a loro volta supportate da Iran, Hezbollah e soprattutto Russia.
L’azione decisiva per il recente stallo fu il massiccio intervento dell’aviazione russa contro le varie fazioni jihadiste eterodirette. Il che non solo provocò un problema militare ma in senso più ampio narrativo-geopolitico. Infatti, nominalmente, gli occidentali dicevano di esser lì per combattere proprio i jihadisti. Dal 2004, infatti, per ben 15 anni, si erano manifestati ben 28 attentati jihadisti in Europa da parte della oscura e complicatissima galassia che aveva poli in al Qaida ed ISIS.
La decisa azione russa dimostrò che se effettivamente si voleva colpire gli ineffabili uomini neri, lo si poteva fare con una certa facilità (visto che quelli a terra non avevano né aerei, né contraerea consistente), cosa allora facevano USA ed europei lì da anni e con una capacità operativa volendo anche ben maggiore di quella russa?
In una guerra l'informazione verificata disponibile per il pubblico è scarsa: è la propaganda che deve avere il sopravvento. E di fatto abbiamo a che fare con guerre da più di dieci anni, se si considera che la crisi pandemica è stata trattata né più che meno come una guerra. Quindi veniamo da più di dieci anni di propaganda e ancora non è finita. Se è vero, come diceva qualcuno, che la qualità di una democrazia è determinata dalla qualità dell'informazione, la prognosi riguardo la democrazia italiana è pessima.
Le democrazie hanno perduto di fatto la consapevolezza della propria origine e della propria complessità e vulnerabilità, fino a risultare deficitarie per eccessi opposti: a causa di conformismi e automatismi da una parte, e di esasperazioni polemiche dall’altra.
Queste parole (Galli, Carlo. Democrazia, ultimo atto?, 2023) potevano benissimo essere state scritte sette anni prima, Le aporie delle gestioni emergenziali insieme con quelle di un dibattito trasformato in puro conflitto mediatico erano già tutte presenti e perfettamente configurate nel 2016 e forse anche prima, quando sugli scudi dei poteri costituiti non c'erano gli scienziati, ma gli economisti, o prima ancora. Viene da pensare che non per caso Isabelle Stengers sentì il bisogno di far uscire In catastrophic times nel 2015.
Il repentino crollo, quasi senza combattere,
dell’esercito Arabo Siriano e l’altrettanti rapido collasso
delle strutture di governo
siriane, subito dichiaratesi pronte a cooperare con gli
insorti, impongono di porsi molti interrogativi circa le
origini, le cause e i mandanti del
blitz che in una dozzina di giorni ha portato alla caduta del
regime di Bashar Assad a Damasco.
Mancano molti elementi necessari a compiere analisi e valutazioni esaustive, altri sono vagamente intuibili dalle prime dichiarazioni e prese di posizione mentre alcuni aspetti sono palesemente evidenti in un contesto siriano in cui oggi non è possibile dare nulla per scontato.
Quello che è accaduto tra il 27 novembre e l’8 dicembre in Siria assomiglia molto a quanto accadde in Afghanistan nell’estate 2021, quando le milizie talebane avanzarono repentinamente in tutta il territorio nazionale mentre i reparti governativi gettavano le armi e i governatori regionali aprivano le sedi governative ai capi talebani. Solo in seguito emerse che dopo gli accordi di Doha e l’inizio del ritiro statunitense e degli altri alleati occidentali emissari talebani ben supportati, anche finanziariamente, dall’intelligence pakistana si assicurarono il supporto di tutte le autorità civili e militari solo teoricamente fedeli al presidente Ashraf Ghani.
Il sistema di potere caratterizzato da forte corruzione e la fuga di Ghani da Kabul negli Emirati Arabi Uniti, il 15 agosto 2021, aggiungono un ulteriore parallelismo tra le vicende afghane di tre anni or sono e quelle siriane di oggi, non ultimo le congratulazioni dei talebani al popolo e ai ribelli siriani con l’auspicio di “una transizione condotta secondo le aspirazioni del popolo siriano” oltre che nella fine delle ingerenze straniere.
Ghani fuggì ad Abu Dhabi, Bashar Assad ha raggiunto prima la base area russa di Hmeymin (Latakya) a bordo di un cargo russo Il-76 (che con ogni probabilità ha imbarcato anche familiari e i più stretti collaboratori) e successivamente la Russia dove sarebbero stati trasferiti la moglie e i figli già la scorsa settimana.
C’è un passaggio,
nell’intervista rilasciata da Lavrov a Tucker Carlson, che mi
ha colpito [1], ed è quando dice che gli Stati Uniti creano il
caos e poi
vedono come utilizzarlo. Effettivamente, e soprattutto a
partire dalla caduta dell’URSS, la politica estera
statunitense sembra assolutamente
uniformata a questo principio base, creare il caos (nella più
assoluta indifferenza per ciò che poi significa per milioni di
persone), e
solo successivamente porsi il problema di come trarne
concretamente vantaggio. Naturalmente si potrebbe aprire
un’ampia riflessione su
ciò, sulle ragioni profonde che lo determinano, ma non è
ovviamente questa la sede opportuna. Vale qui semplicemente il
tenere a mente
questa caratteristica della politica imperiale americana,
poiché spesso si tende ad attribuirvi una progettualità strategica
che semplicemente non c’è, laddove – appunto – c’è invece la
convinzione che il caos sia sempre e comunque
foriero di opportunità, e che in linea di massima avvantaggi
sempre gli USA più che i suoi avversari.
Se guardiamo adesso a quanto sta accadendo in Siria, tenendo
presente questo assunto, possiamo provare – in linea puramente
teorica e
astratta – a ordinare il caos, ovvero a cercare di
identificare il senso degli avvenimenti.
La premessa necessaria (ma che
non implica alcuna spiegazione complottista) è che
negli accadimenti di questi giorni c’è, sotto molti aspetti,
un
margine di inspiegabile – o meglio, di non spiegato, non
chiarito.
Guardando ai fatti in ordine cronologico, il primo gap
è: come è stato possibile che l’intelligence di
tre paesi (Russia, Iran e Siria) non abbia avuto alcuna
contezza di
ciò che si stava preparando nella provincia di Idlib? O ancora
meglio, come è stato possibile che siano stati sottovalutati a
tal punto
i segnali che, sicuramente, erano stati rilevati? In questo –
e sottolineo ancora una volta, senza alcun suggerimento complottista
– c’è in fondo una certa similitudine con il 7 ottobre e
l’operazione Al Aqsa Flood. Probabilmente un mix di
sottovalutazione del nemico e sopravvalutazione di sé stessi.
“CALEIDO, il mondo da angolazioni diverse”. Francesco Capo intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=nD8CVPxnlHU
E su questo e altri temi QTV - https://www.quiradiolondra.tv/live/ e sul digitale terrestre 244, alle 20.00, martedì e venerdì.
Ha cominciato Goffredo da Buglione, nel 1099, prima crociata, col massacro dei musulmani a Gerusalemme. Ha proseguito Riccardo Cuor di Leone, nel 1189, Terza Crociata, con la strage di 3000 musulmani, uomini, donne, bambini (Saladino non aveva toccato capello alla popolazione cristiana). E poi, via via, altre crociate, fino a Lepanto, fino al Kosovo, alla Bosnia. Fino alla Palestina, al Libano, all’Iraq, alla Libia. Fino a Damasco.
Non so se l’Occidente cristiano abbia potuto avvalersi, nelle sue millenarie crociate, di una quinta colonna araba, accreditatasi tra gli eterni aggrediti grazie alla comune religione. Fede consistente, al pari di gran parte delle religioni, in una paccottiglia di superstizioni finalizzate al potere, ai massacri di genti da eliminare e di terre e risorse da predare.
Stavolta, però, di una simile quinta colonna abbiamo l’evidenza addirittura autoproclamata e dagli aggressori riconosciuta e celebrata: i Fratelli Musulmani.
Damasco è caduta e, come il resto del Paese, lo ha fatto senza combattere, ritirandosi di fronte all’avanzata delle truppe jihadiste a comando occidentale ma guidate sul campo da uno dei suoi funzionari prediletti: Al-Jodani, ex appartenente ad Al queda, poi membro dell’Isis e oggi, miracolosamente, insignito dai media occidentali della qualifica romantica di “Ribelle”. Il rapido arretramento delle forze armate governative davanti all’avanzata dei militanti jihadisti, rende credibili le ipotesi occidentali riguardo i limiti delle intelligence siriana e iraniana, che non si sono rese conto di ciò che da mesi si preparava, pur se l’attacco da più direzioni lanciato a metà della scorsa settimana, secondo alcune fonti, fosse allo studio da tempo e, in base a quanto scritto dal quotidiano russo Izvestia, fosse stato coordinato tra le intelligence di Turchia, Ucraina, Francia e Israele.
Ma nonostante ciò nessuno immaginava la presa della Siria in tempi rapidi e senza colpo ferire. Si teneva conto di come Iran, Hezbollah e Russia avevano difeso la Siria per ben 13 anni e di come avevano vinto sul terreno, obbligando l’Isis e i suoi seguaci, ma anche l’Occidente con i suoi amici i kurdi e i turchi a indietreggiare. Questa volta invece, Mosca è intervenuta nei giorni scorsi con raid aerei per sostenere una controffensiva, poi null’altro.
Le elezioni vanno bene solo se vincono i “nostri”, altrimenti le trucchiamo (Moldavia), le raggiriamo (Francia), le contestiamo violentemente (Georgia), le annulliamo (Romania).
La sequenza di atti brutalmente antidemocratici si allunga ogni giorno di più. Non sempre si può fare come in Moldavia. Qui, nel piccolo paese racchiuso tra la Romania e l’Ucraina, sono bastati i brogli a rovesciare di misura (50,3%) l’esito del referendum del 20 ottobre per l’adesione all’Ue. Ma i brogli dei filo-occidentali vanno bene alla nostra stampa, a differenza di quelli immaginari attribuiti alle forze filo-russe. A volte il mondo va davvero al contrario.
Altrove le cose sono andate peggio per il blocco neoliberista, globalista, europeista e antirusso. Questo blocco, raccolto attorno all’Ue e alla Nato, è il nocciolo duro del sistema. Quello che controlla l’informazione mainstream, sempre pronta a gridare al complotto russo. Piccola digressione: ma non avevano detto che la Russia era ormai alle corde, incapace perfino di badare a sé stessa! E com’è che oggi sarebbe così potente da poter influenzare gli elettori di buona parte del Vecchio Continente? Misteri del complottismo di regime.
Ma veniamo ai fatti. Il 26 ottobre scorso (quasi in contemporanea con le vicende moldave), si svolgevano le elezioni politiche in Georgia.
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Ottoliner, avrei voluto
dirvi ben ritrovati; ma ben ritrovati una sega… Dopo
aver passato 4 mesi ininterrotti incollato a quella seggiolina
lì dietro,
come diceva Vasco Rossi mi son distratto un attimo
e, nell’arco di appena 5 giorni, nell’ordine avete dichiarato
la legge
marziale in una delle democrazie più vitali e dinamiche
dell’Asia per provare a salvare il culo a un presidente
zerbino che ha il 15% dei
consensi, annullato con un golpe giudiziario il voto regolare
in un Paese dell’Unione europea per salvare il culo a un altro
presidente pupazzo
che, a consensi, non arriva manco al 10 e, infine, nell’arco
di 3 giorni, rovesciato definitivamente il governo siriano che
era sopravvissuto a
una guerra mondiale per procura, durata oltre 13 anni,
attraverso il sostegno incondizionato a un tagliagole
di Al Qaida che
è magicamente diventato una popstar democratica
nonostante continui a pendere sulla sua testa una taglia da 10
milioni di dollari
emessa direttamente da Washington. Se mi volevate comunicare
che vi stavo mancando, bastava anche meno… Nel caso della
celebre canzone
dell’intramontabile Vasco, la questione era piuttosto
semplice: era tutta colpa d’Alfredo. Nel nostro
caso, però, le cose
potrebbero essere leggermente più complesse e articolate e se
vi dovessi dire che ho un’idea chiara di come si siano svolte
queste
vicende mentirei spudoratamente, come sinceramente credo stia
facendo chiunque in queste ore, invece di porsi una lunga
serie di domande, millanti
qualche tesi di facile comprensione buona per acchiappare
qualche like (compresi, forse, gli stessi protagonisti). Una
cosa che però, ormai, mi
sembra non possa più essere messa in discussione da chiunque
abbia un minimo di onestà intellettuale è che non si tratta di
casi
isolati: la guerra totale dell’impero contro
il resto del mondo per rallentare il declino e ostacolare la
transizione a un
nuovo ordine multipolare è in pieno svolgimento, riguarda
tutto il pianeta e prevede il ricorso a ogni mezzo necessario;
e quel poco che ancora
rimaneva in piedi del vecchio ordine liberale – se mai è
esistito – è stato definitivamente spazzato via dagli eventi.
Siamo in gran parte spettatori
passivi di uno spettacolo imbarazzante. Lo spettacolo di
un'oligarchia indecente che ha perso il
contatto con la realtà e che conosce solo la lealtà al padrone
che li mantiene sul palcoscenico del potere e che li
rappresenta come
clown arroganti.
In tutto l’Occidente è lo stesso. Si parla di “democrazia liberale”, mentre si procede a un progressivo smantellamento del Welfare State. Il “Welfare”, un tempo esisteva e corrispondeva all’offerta pubblica di alcuni servizi sostenuti dall’erario, al fine di difendere “il capitalismo” dal pericolo rivoluzionario.
La ricostruzione dell’Europa occidentale dopo il 1945, cioè quella in cui i russi accettarono di fermarsi sulla “cortina di ferro”, comprendeva qualcosa di più del famoso “Piano Marshall”: nello stesso pacchetto rientrava l’ americanizzazione intensiva dell’Europa, cioè la sua conversione in un cretino. Le rovine, le montagne di cadaveri e macerie, furono ripulite dalla tempestiva pioggia di dollari. I dollari sono serviti affinché le élite “denazificate” del nostro continente diventassero lacchè dipendenti dagli yankee. Sono diventati tirapiedi incapaci di agire con la minima autonomia di fronte alla CIA e al Pentagono, che tiravano tutte le fila. Ancora oggi questi burattini vengono pagati direttamente dalle grandi multinazionali e dalle multinazionali, dai fondi spazzini e dagli scantinati dello Zio Sam. Tutto ciò che le élite europee guadagnano, sia legalmente occupando posizioni di grande reddito e generose indennità, sia con le tangenti illegali inerenti alla loro situazione privilegiata, è denaro che scorre direttamente dalle tasche dei cittadini ai paradisi fiscali, dove i soldi sono segretamente criptati, ma i conti non sono segreti per la CIA e per le altre entità terroristiche dell'Impero Yankee. Poiché l’informazione è potere, allo scagnozzo che forma l’élite o la casta europeista e demoliberale è consentito il suo arricchimento sporco e illegale. Ma purché non rappresenti un pericolo per l’Impero. In caso contrario, attenzione! Il segreto non è più un segreto. Tutta l’élite occidentale, da Macron e Sánchez, a Meloni o Scholz, è sostenuta e minacciata allo stesso tempo dal potere atlantista-capitalista.
Il sociologo Franco Ferrarotti analizza la scomparsa dolorosa e tragica della democrazia dalla scena sociale, addebitandone le responsabilità al disamore verso la politica, alla sfiducia verso i rappresentanti, alla perdita dei valori solidi che abbandonano la scena per lasciare lo spazio alla società liquida, (ndr, definizione il cui interprete massimo è stato il sociologo Zygmunt Bauman con la sua produzione saggistica sul tema).
* * * *
Democrazia -Demos /Kratos: il potere risiede nel popolo che lo esprime tramite i suoi rappresentanti eletti a tal fine. Ѐ l’idea perfetta della democrazia, nata nel 461 a.c dalla concezione che ne aveva Pericle che nel suo discorso agli Ateniesi definì il concetto della democrazia e come dovesse applicarsi nelle leggi che regolavano la vita dei cittadini.
Dal ‘Discorso agli ateniesi, 461 a.c.’(Pericle)
“Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito e la povertà non costituisce un impedimento. Qui ad Atene noi facciamo così.
La Corte costituzionale della Romania ha annullato il primo turno delle presidenziali. Il candidato Călin Georgescu è accusato di essere filorusso, in quanto nella campagna elettorale ha promesso di sospendere gli aiuti militari all’Ucraina. Questa è l’Europa democratica al guinzaglio atlantista. Si è in democrazia fin quando si eleggono rappresentanti schierati con le politiche della plutocrazia transnazionale. Il primo dato incontrovertibile è che la democrazia borghese in Europa è ormai un retaggio del passato. Siamo ormai nella postdemocrazia, una nuova forma di totalitarismo da capire e definire.
Il volere dei popoli, lo sapevamo, non conta nulla. I popoli sono solo pedine da usare nella lotta tra le oligarchie capitaliste. Il mezzi mediatici e sovrastrutturali sono usati per manipolare e per inoculare l’oppio con cui dominare le coscienze. La mostruosizzazione dei russi con annesse paure e terrori è un mezzo efficace con cui dividere i popoli, frammentarli e condurli al macello. La Romania limitrofa all’Ucraina e alla Russia sembra duplicare, in modo diverso, quanto vissuto dall’Ucraina. Rovesciare le elezioni per porre al potere un candidato favorevole alla NATO significa porre le condizioni per una potenziale guerra civile e, nel contempo, aprire potenzialmente un nuovo fronte di guerra per “scacciare i russi penetrati in Romania con Tiktok”. Si tace il fatto che la Romania ospita una delle basi NATO più grandi e rilevanti al mondo, per cui la presenza di tale base NATO non può che condizionare la politica della Romania, inoltre rappresentare il popolo rumeno come condizionabile mediante Tiktok denota un sottile razzismo.
Nell’attuale clima politico-culturale è sicuramente un atto di coraggio da parte di Luciano Canfora pubblicare un pamphlet intitolato Il fascismo in Italia non è mai morto (Dedalo, Bari, 2024, pp 96, 13,00 euro).
Che il fascismo non sia mai morto non ci dice molto di nuovo. Ma ribadirlo è importante per almeno due motivi: 1) perché il fascismo e il nazismo non nascono dal nulla, ma sono il risultato di un processo storico; 2) perché hanno continuato a vivere e persino svilupparsi nel mondo già all’indomani della Seconda guerra mondiale.E tuttavia un elemento di cambiamento c’è: oggi i fascisti non si nascondono più come un tempo. In Italia organizzazioni dichiaratamente fasciste sono presenti in Rete e nelle scuole, mentre esponenti politici provenienti da quel mondo governano città, regioni e da qualche tempo guidano il Paese.
Per verificare la normalizzazione del fascismo e persino il suo fare tendenza, (si veda in proposito L. Ghiglione, V. Isoppo, Se il fascismo va di moda. L’estremismo di destra e i giovani, Futura Editrice, Roma, 2022) è sufficiente spigolare tra le discussioni sui social network per imbattersi in aperte apologie del Ventennio. Apologie considerate come un diritto che una democrazia non può negare: ognuno ha le sue opinioni.
Compito di un intellettuale è capire i fenomeni storico-sociali e Canfora ha dedicato il suo pamphlet alla permanenza del fascismo in Italia individuandone le caratteristiche principali.
Sulla
repentina caduta della Siria in mano ai terroristi jihadisti,
cala il sipario. Così come sulla Repubblica Araba Siriana, e
sulla dinastia
Assad. Ci sono ancora non pochi punti oscuri, o non ancora
definiti, che probabilmente si chiariranno nei giorni e nelle
settimane a venire.
Ovviamente, su tutti, il comportamento di Assad durante la
crisi e sino al suo epilogo, e forse ancor più quello
dell’Esercito Arabo
Siriano, che non solo non ha praticamente combattuto una sola
battaglia per contrastare l’avanzata jihadista, ma ha anche
inscenato una
pantomima mistificatoria al fine di coprire la sua decisione
di consegnare il paese a Hay’at Tahrir al-Sham. Restano ancora
avvolte dalla nebbia
emotiva di questi giorni anche le evidenti leggerezze e gli
evidenti errori commessi da Russia e Iran. Ma, appunto, molte
di queste cose si
chiariranno in seguito. A questo punto, in ogni caso, si
tratta di tirare una linea, e guardare oltre.
La prima cosa da mettere in chiaro è che la vittoria jihadista – tanto più per i tempi e i modi in cui si è realizzata – è ben lungi dal porre fine al caos siriano; anzi, al contrario è foriera di un ulteriore rinfocolamento. L’esempio che viene immediatamente è quello della Libia. Tanto per cominciare, c’è la questione curda, che Ankara sta cercando di risolvere scatenando le sue milizie del Syrian National Army (e anche intervenendo direttamente), anche approfittando di questa fase transitoria, ma che è ben lungi dal trovare una soluzione pacifica. Oltretutto, le forze curde (che almeno per ora continuano a contare sull’appoggio statunitense) controllano una bella fetta di territorio, da nord a sud, e soprattutto parte del confine con la Turchia. Anche la questione dei rapporti (di forza) tra HTS e SNA è tutta da verificare. Probabile che si arrivi a una qualche forma di accordo [1], ma non sarà una convivenza facile; e comunque, a mio avviso, l’HTS non accetterà un ruolo subalterno alla Turchia, né una significativa influenza di Ankara in Siria, e man mano che consoliderà il suo potere ciò si accentuerà.
1- 1983
Correva l’anno 1983, e in Marzo Ronald Reagan, il presidente più amato della storia degli Stati Uniti, definisce l’Unione Sovietica ‘L’impero del male’; due settimane dopo lancia il progetto dello Scudo Missilistico, SDI, subito soprannominato dai giornali Guerre Stellari.
L’idea era di creare un sistema missilistico a più livelli che rendesse impossibile a un missile nemico colpire gli Stati Uniti.
Reagan gioca sulla impressione di sicurezza e tranquillità che lo Scudo avrebbe creato negli americani, senza mettere in conto, o perlomeno senza dirlo, che questo veniva a rompere l’equilibrio dinamico di ‘mutua distruzione garantita’ che aveva garantito la pace fino ad allora.
Mentre l’URSS era arrivato a ritenere l’arsenale nucleare, pur fondamentale per la sopravvivenza del paese, un mero strumento politico, negli USA erano in ballo molte opzioni militari; le principali 8 erano:
attacco preventivo per decapitare il nemico
lancio di missili (nucleari) dopo avvertimento
lancio sotto attacco mentre le testate nemiche esplodevano
inasprire ‘orizzontalmente’ spostando una guerra in Europa fino all’Asia
creare una guerra su due fronti facendo in modo che la Cina attaccasse l’URSS
preposizionare testate nucleari nello spazio
invadere l’Europa dell’Est con eserciti Nato,
e, il nuovo piano, eseguire un inasprimento progressivo delle minacce nucleari con lo scopo di controllare e vincere una guerra nucleare limitata.
I decantati valori democratici, la moralità e il rispetto dei diritti umani, rivendicati da Israele e dagli USA, sono sempre stati una bugia. Il vero credo è questo: abbiamo tutto e se provi a togliercelo ti uccideremo
Quello che segue è il discorso principale che ho tenuto il 1° novembre alla conferenza, La fine dell’impero, presso l’Università della California di Santa Barbara [prima delle elezioni negli Stati Uniti]. La conferenza è stata organizzata dal professor Butch Ware, che era anche il candidato vicepresidente del Partito Verde. Gli amministratori dell’università hanno vietato la pubblicità anticipata del discorso sugli account dei social media dell’università.
* * * *
Lo sterminio funziona. All’inizio. Questa è la terribile lezione della storia. Se Israele non viene fermato, e nessuna potenza esterna sembra disposta a fermare il genocidio a Gaza o la distruzione del Libano, raggiungerà i suoi obiettivi di spopolamento e annessione della parte settentrionale di Gaza.
Ermak, l'uomo forte di Kiev, vola negli Usa per incontrare i membri dell'amministrazione Trump. Carlson intervista Lavrov. La telefonata Gerasimov-Brown
Il Segretario di Stato Usa Tony Blinken ha ribadito pubblicamente ed esplicitamente la richiesta che Kiev arruoli i diciottenni, già tema di pressioni da parte di Washington, ma la dirigenza ucraina ha rigettato nuovamente la richiesta.
Un niet politico nel senso ampio del termine: da una parte la leadership ucraina sa che la misura susciterebbe malcontento in patria, dall’altra è cosciente che l’attuale amministrazione è in via di smantellamento e si può disobbedire, soprattutto perché il futuro presidente americano ha tutt’altre idee sul conflitto.
Lo sa bene la leadership ucraina, che ha avviato frenetici contatti con la futura amministrazione. Infatti, Andriy Ermak, capo dello staff presidenziale e uomo forte di Kiev, accompagnato dal ministro della Difesa Rustem Umerov, questa settimana si è recato negli Stati Uniti dove ha incontrato il Consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan – dal momento che non poteva esimersi dall’interloquire con l’ufficialità – ma in parallelo ha avuto una serie di incontri con gli esponenti della nuova amministrazione.
Alcuni media internazionali alternativi e sotto attacco danno informazioni interessanti sul progetto Alchimia, elaborato da esperti e consiglieri legati al servizio segreto britannico, che si prefigge lo scopo di creare un’organizzazione simile alla famigerata Gladio, allo scopo di rendere indefinita la guerra tra la Russia e la Nato in Ucraina.
Da un rapido controllo risulta che solo Nicolai Lilin nel suo sito ha dato notizia in Italia del cosiddetto progetto Alchimia, mentre i media più importanti lo hanno finora ignorato. Questo progetto, che farebbe pensare a prima vista a misteriosi esperimenti da cui ricavare la celebre pietra filosofale, costituisce uno dei tanti documenti elaborati da esperti e consiglieri, che descrivono le future attività mantenute segrete dei governi occidentali. Ogni tanto ne viene filtrato uno come quello ormai famoso della Rand Corporation stilato nel 2019 e dedicato ai mezzi da utilizzare per indebolire e squilibrare la Russia. Obiettivo già individuato durante la cosiddetta guerra civile (1917-1921), nella quale le potenze occidentali intervennero, attribuendosi parti dell’immenso territorio russo, dando di fatto vita a un conflitto internazionale.
Inevitabilmente dobbiamo soffermarci su di essi, perché svelano il lavoro ideativo e organizzativo che sta dietro la strategia militare e politica delle grandi potenze e che ci fanno conoscere i veri responsabili di azioni violatrici del diritto internazionale o di veri e propri crimini.
Ci ha pensato Il Sole 24Ore, riprendendo un sondaggio Censis, a farci presente quanto ormai è evidente sotto gli occhi di tutti: gli italiani sono sempre più ostili all’Occidente e vedono con crescente distanza le sue istituzioni.
Stando al sondaggio citato, più del 70% degli intervistati si rende conto dell’arroganza dell’Occidente, che pretende di imporre il libero mercato e la “democrazia” liberale al resto del mondo. Una percentuale analoga è convinta del prossimo sfasciarsi dell’Unione Europea. Più del 66% degli intervistati attribuisce agli USA e all’Occidente la gran parte della responsabilità per i conflitti in Ucraina e Medio Oriente e poco più della metà è convinta dell’ascesa dei paesi del Sud del Mondo.
Si tratta di un dato statistico probabilmente non esaustivo, ma sicuramente coerente con il malcontento che cresce a vista d’occhio e che non è più rassicurabile con qualche operazione propagandistica.
Il clima sociale è costantemente teso: la paura della guerra, seguita da quella per i problemi economici nazionali, è costantemente diffusa e alimentata in tutti gli ambiti. La retorica giornalistica assieme a quella politica non cessano di inneggiare alla necessità di una partecipazione diretta ai conflitti o, altra opzione, a un sostegno economico a fondo cieco, ma non vi è contatto con la realtà, non c’è ascolto dei cittadini.
Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
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Per chi da sempre
è impegnato idealmente in una lotta politica capita, un giorno
sì e l’altro pure, commemorare morti sul lavoro oppure martiri
che
difendevano la causa degli oppressi e sfruttati, quando non
addirittura giustiziati dalle forze di polizia di Stati
democratici. Lo continueremo a
fare con una certa sofferenza anche se lo abbiamo messo da
sempre in conto.
In queste scarne note invece vogliamo spendere qualche parola e richiamare l’attenzione su Luigi Mangione in vita che ha compiuto un gesto “eclatante” negli Usa, che ha buttato e continua a buttare scompiglio fra i ben pensanti. Il perché è presto detto: sta riscuotendo non solo comprensione, che sarebbe, per così dire, nell’ordine delle cose in modo particolare se parte in causa in modo diretto, ovvero parente di un malcapitato che ha dovuto subire un torto da parte dell’ucciso, in questo caso tal Brian Thompson Ceo della divisione assicurativa di United Healthcare. Ma non in questi termini stanno i fatti, perché Luigi Mangione sta riscuotendo uno sconfinato plauso, forse anche inaspettato in modo particolare sempre dai benpensanti, che pone più di un interrogativo, in modo particolare perché il “killer di New York”, come viene definito dalla grande stampa assoldata dai vari establishment, non è un clochard, un barbone, un nero, un alcolizzato in preda ai fumi dell’alcool, un terrorista islamico, uno jihadista, o qualcuno sotto cura di qualche centro di igiene mentale e via di questo passo. No, ma si tratta di un giovane bianco di 26 anni, bello, ricco, laureato niente di meno che in ingegneria elettronica, che ha frequentato scuole di altissimo prestigio e di una famiglia di alto rango. Non solo, ma – chiosano i pennivendoli - «con un manifesto politico anticapitalista» dicono lor signori «nel quale rivendica il suo atto violento scrivendo: “Mi scuso per i traumi creati ma andava fatto, bisognava eliminare questo parassita”».
Lo scompiglio fra i ben pensanti non sta tanto nel gesto, figurarsi poi negli Usa dove si succedono stragi di chi spara all’impazzata “nel mucchio” proprio perché la società vive di rapporti economico-sociali capitalistici totalmente impersonali, dove perciò, è difficile se non impossibile arrivare al reo.
Che cosa cambierà per l’Europa con l’elezione
di Donald Trump alla Casa
Bianca? Predire il futuro, e in particolare prevedere quello
che farà Trump – noto, per la sua imprevedibilità e per i suoi
umori
discontinui – è assolutamente impossibile. Tuttavia occorre
fare uno sforzo per tentare di comprendere le conseguenze
della nuova
situazione americana sapendo che bisognerà di volta in volta
modificare le previsioni in base alle dinamiche della realtà.
E’ noto
che Trump non ama la UE e che appoggia tutti i politici
europei nazionalisti di destra che, in una maniera o
nell’altra, contrastano
l’Unione, da Nigel Farage in Gran Bretagna a Viktor Orban in
Ungheria a Matteo Salvini in Italia e Aleksandar Vučić in
Serbia. Trump
formerà con loro e con altri una sorta di “Internazionale
illiberale” che condizionerà pesantemente la politica europea
a
partire dalla questione dei migranti. Oltre a Orbán, il primo
ministro italiano Giorgia Meloni e il Cancelliere austriaco
Karl Nehammer sono
entrambi ideologicamente vicini a Trump, sebbene Meloni, amica
del capitalista libertario e pazzoide Elon Musk, partner
stretto di Trump, non
condivida la posizione filo-russa di Orbán. Anche il governo
olandese sostenuto da Geert Wilders, un politico anti-Islam,
anti-immigrazione e
populista, può diventare un alleato di Trump. Il neo eletto
presidente americano favorirà con forza la disintegrazione
nazionalistica
della UE.
Nello scontro tra il liberalismo della UE e i nazionalismo fascistoidi interni alla UE, favorirà i regimi illiberali di destra e gli “uomini forti” (o le “donne forti”) che intendono scardinare le democrazie in Europa e svuotare dall’interno la UE. L’ideologia della destra europea più o meno estrema è in generale conforme a quella della tradizione reazionaria: Dio, Patria e Famiglia. In realtà la religione viene invocata non nel suo aspetto trascendente e liberatorio ma perché impone una disciplina superiore, intima e ferrea, l’obbedienza a una entità superiore. Anche l’amore di Patria obbliga all’obbedienza al Capo e a guardare con sospetto gli oppositori critici, le minoranze (e soprattutto gli “alieni” gli immigrati, che per definizione non hanno patria, e che quindi per definizione portano indisciplina, scompiglio, e perfino terrorismo).
Carlo Rovelli
è intervenuto domenica 8 dicembre a Più Libri Più Liberi per
celebrare il decimo anniversario del suo libro più famoso e
diffuso, Sette piccole lezioni di fisica. Il
Professore, interrogato da Marco Motta, giornalista di Radio 3
Scienza, in merito alla crisi di
fiducia nei confronti della scienza e delle competenze ha così
illustrato la problematica.
“La reazione contro le competenze non è caduta dal cielo, ha dei motivi legittimi, fortemente legittimi. Fammi fare un esempio, a cui tengo moltissimo anche se piccolo ma da cui dipende il resto. Quando c’è stato il Covid, molte persone hanno reagito contro gli esperti che imponevano di fare qualcosa spesso in maniera scomposta e non sempre efficace per la società. In questo contesto la politica si è arroccata dietro delle decisioni giustificate dal fatto che “così dice la scienza”. Ma la scienza non ha mai detto che bisogna fare questo o quest’altro, la scienza al più dice che se tu chiudi le scuole forse muoiono meno persone. Se tu fai stare tutti a casa forse diminuisci un po’ il numero di persone morte. Questo non vuol dire che bisogna stare a casa, che bisogna chiudere le scuole. Vuol dire che questo è quello che sappiamo, poi le decisioni sono quelle politiche che coinvolgono interessi di tante persone da una parte e dall’altra.
Io non avrei voluto essere Giuseppe Conte in quella situazione lì, un momento in cui ha dovuto prendere delle decisioni difficilissime: scegliere tra una soluzione che avrebbe ucciso 50.000 italiani e una che avrebbe reso più poveri 5 milioni di famiglie. Che fare? Non è facile, è difficile. Invece di assumersi le responsabilità delle decisioni, la politica, in Italia così come in Inghilterra e altrove, ha detto: “ah gli scienziati dicono questo” e ha rinunciato alla propria funzione. Chiunque non era d’accordo con quelle decisioni, sulle quali pesano differenze di valore, differenze di interessi, complessità della società, ovviamente ha reagito: “va bene io non mi fido della scienza allora”. Questo è nello specifico quello che è successo col Covid, ma molto più in generale, secondo me, l’origine del problema è nell’atteggiamento del potere di nascondersi dietro le competenze per giustificare quelli che alla fine sono interessi di pochi.
La rivolta sociale invocata da Maurizio Landini è contro le due destre descritte da Marco Revelli. Quelle due destre ci hanno condotto alla situazione attuale. Lo ha sintetizzato bene Melenchon: “Questa propaganda secondo cui la sinistra deve scendere a patti con la destra è pericolosa. Il risultato lo conosciamo tutti: Meloni. Noi rifiutiamo di tradire i nostri elettori in cambio di poltrone.”1. Occorrerebbe definire Destra chi vara politiche di Destra. Il segretario della CGIL2 ha giustamente osservato come “Non si è liberi quando c’è la guerra, quando si è precari, se non arrivi a fine mese, se non sei in grado di curarti o se addirittura muori sul lavoro. Quindi lo sciopero, la rivolta sociale e la lotta per la pace sono la stessa cosa”. Landini ha aggiunto: “… se non ti rivolti di fronte alle ingiustizie, che persona sei? Che vita fai?”. Marco Revelli, intervistato sulle parole di Landini su La Stampa3, ricorda come “la rivolta, oggi, e non solo oggi, sia un gesto salvifico. Una società priva di segnali di rivolta è bloccata, morente…Se non ci fosse quel vento di rivolta ciò vorrebbe dire che la nostra società è non solo sorda, ma morta”. Citando Albert Camus, nel mondo dell’assurdo, l’unica possibilità di restare vivi è rivoltarsi. La rivolta ha l’effetto di generare solidarietà. La rivolta “è tutta nel presente dove dall’io si diventa noi, un gesto istintivo che implica al più una forma di contagio: mi rivolto dunque siamo.”. L’Italia non è la Francia: perchè contro la riforma Fornero o il Jobs Act nessun io è diventato noi? Perché Giorgia Meloni vince le elezioni nel 2022 e nel 2024? Perché un italiano su due non vota?
A distanza di 23 anni viene riproposta
l’unica monografia pubblicata in vita da Alessandro Mazzone.
Il titolo, Questioni di teoria dell’ideologia, è
significativamente seguito da “I”1: una seconda parte, di
cui a fine libro l’Autore stesso riporta la struttura, avrebbe
dovuto far seguito. Nel suo percorso intellettuale il testo fa
da spartiacque tra
gli inizi dellavolpiani, lo studio di Gramsci e il profondo
ripensamento di temi hegeliani che, negli anni Settanta, aveva
dato il suo primo
corposo frutto nel complesso saggio sul feticismo del capitale2. Lo studio analitico
della teoria marxiana del capitale3 - basato sulla
pubblicazione della nuova edizione storico critica delle sue
opere4 -,
l’approfondimento delle strutture logiche portanti della
teoria hegeliana porteranno a una sospensione di giudizio che
non si
risolverà mai pienamente, lasciando in sostanza allo stato di
torso lo sviluppo di una teoria marxista dell’ideologia. Nella
speranza di rintracciare nel lascito la seconda parte (che
l’Autore dichiarava essere sostanzialmente pronta), per
agevolare il lettore
cerchiamo di ricostruire le linee portanti del suo
ragionamento5.
Elaborando una “teoria dell’ideologia” Mazzone è forse uno degli autori che più seriamente ha ripreso l’impostazione gramsciana del problema del rapporto fra struttura e sovrastruttura, indagando le modalità di riflessione in se stesso del corpus storico-materiale, quindi la possibilità di una azione storica razionale. Lasciando da parte le frasi fatte sulla generica fondazione strutturale della sovrastruttura, Mazzone cerca di ricostruire i processi di mediazione che, a partire dalle determinazioni formali della riproduzione sociale, permettono di sviluppare categorie “fenomeniche” che saranno poi i soggetti agenti alla superficie della società; essi si formeranno delle ideologie e degli orientamenti sulla base della loro prassi sociale. Ciò produce delle “parvenze oggettive”, vale a dire delle ideologie in senso forte: non mero inganno, ma strutture della percezione e dell’autopercezione che sono tali in quanto socialmente praticate da soggetti storicamente determinati.
La struttura fondamentale dell’ideologia borghese è secondo Mazzone la “persona”. Il mondo capovolto non è l’oggetto alienato di una coscienza presupposta che deve riappropriasi della propria essenza; questa è anzi la tipica impostazione ideologica del problema che presuppone la sostanzialità della “persona”.
Mentre dagli USA all’Europa
politici e media accolgono i nuovi padroni di Damasco come
eroi democratici, “ex terroristi e “jihadisti moderati”, il
leader di
Hayat Tahrir al Sham (HTS) Abu Mohammad al-Jolani, ha
pronunciato il primo discorso da “uomo forte” di Damasco
all’antica grande
Moschea degli Omayyaddi, dinastia il cui Califfato fece da
“modello” per l’ISIS.
Al-Jolani del resto si muove bene tra i simboli e i dogmi jihadisti di al-Qaeda e ISIS, organizzazioni presso le quali ha militari fin da dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq in cui combatteva gli statunitensi al fianco di Abu Musaib al-Zarqawi, leader di al-Qaeda in Mesopotamia.
Catturato dagli statunitensi venne detenuto a Camp Bucca dove conobbe Abu Bakr al-Baghdadi, insieme al quale venne liberato per poi recarsi in Siria a combattere sotto le bandiere dell’ISIS le forze di Bashar Assad.
“Questa vittoria, fratelli miei, è’ una vittoria dell’intera nazione islamica e segna un nuovo capitolo nella storia della religione, una storia irta di pericoli che ha reso la Siria un’arena per le ambizioni dell’Iran, diffuso il settarismo e alimentato la corruzione”, ha detto al-Jolani. Parole che non lasciano intendere che la Siria resterà uno stato laico anche se HTS si è impegnato per ora a garantire libertà di culto e a non imporre restrizione alle donne.
Da terroristi a paladini della libertà
Tra i più sfegatati fans degli ex qaedisti c’è la CNN e i media vicini all’Amministrazione Biden, tra i quali l’entusiasmo per la caduta di Bashar Assad, alleato di Russia e Iran, sembra cancellare anche il ricordo degli attentati di al-Qaeda negli Stati Uniti e della lunga guerra contro Osama bin Laden e i suoi seguaci. Non a caso, fonti citate dai media statunitensi valutano che presto HTS verrà rimosso dalla lista dei gruppi terroristici (l’immagine qui sotto è del 2017).
E adesso? Il futuro, si sa, è impredicibile vieppiù si affollano variabili incidenti e nel caso della Siria, di variabili ce ne sono a volontà. Molti provano a calcolare il gioco delle variabili partendo dalla contemporaneità, ma Paesi e popoli hanno una storia, anzi una geostoria, non sono materia vergine che può prendere qualsiasi forma. E nel caso siriano di geostoria ce ne è parecchia.
La Siria dovrebbe avere circa 18 milioni di abitanti, ma c’è chi ne ipotizza 24 milioni più altrettanti all’estero tra cui 3,5 milioni in Turchia che ora Erdogan vorrebbe rimpatriare. Più quelli in Libano ora destabilizzato anche lui. Geostoricamente è incastonata tra Turchia, Levante mediterraneo, deserto arabo (Giordania, Arabia Saudita, Iraq). Come paese in sé per sé, la Siria esiste da solo un secolo circa, prima e per secoli, è stata una regione dei vari imperi musulmani.
La sua breve storia recente è legata alle spartizioni coloniali dell’Impero ottomano operate tra Francia e Regno Unito, la Siria andò alla Francia. Nel 1946 si emancipa dal mandato francese e diventa una repubblica presto attratta dal progetto dell’egiziano Nasser di una repubblica araba unita (R.A.U.), con un pezzo di Yemen (Egitto, Siria, Yemen del nord) che durerà solo tre anni prima che proprio i siriani defezionassero. A seguire il colpo di stato del partito socialista-nazionalista Ba’th nel vicino Iraq (altro stato inventato dai colonialisti europei ma sotto egida britannica), la sezione siriana del Ba’th fa un colpo di stato e s’instaura al potere anche a Damasco. Tale assetto durerà sessantuno anni fino all’altro ieri.
Ci ha pensato Il Sole 24Ore, riprendendo un sondaggio Censis, a farci presente quanto ormai è evidente sotto gli occhi di tutti: gli italiani sono sempre più ostili all’Occidente e vedono con crescente distanza le sue istituzioni.
Stando al sondaggio citato, più del 70% degli intervistati si rende conto dell’arroganza dell’Occidente, che pretende di imporre il libero mercato e la “democrazia” liberale al resto del mondo. Una percentuale analoga è convinta del prossimo sfasciarsi dell’Unione Europea. Più del 66% degli intervistati attribuisce agli USA e all’Occidente la gran parte della responsabilità per i conflitti in Ucraina e Medio Oriente e poco più della metà è convinta dell’ascesa dei paesi del Sud del Mondo.
Si tratta di un dato statistico probabilmente non esaustivo, ma sicuramente coerente con il malcontento che cresce a vista d’occhio e che non è più rassicurabile con qualche operazione propagandistica.
Il clima sociale è costantemente teso: la paura della guerra, seguita da quella per i problemi economici nazionali, è costantemente diffusa e alimentata in tutti gli ambiti. La retorica giornalistica assieme a quella politica non cessano di inneggiare alla necessità di una partecipazione diretta ai conflitti o, altra opzione, a un sostegno economico a fondo cieco, ma non vi è contatto con la realtà, non c’è ascolto dei cittadini.
I maggiorenti occidentali commentano giulivi la fine della Repubblica Araba Siriana, sostituita da una coalizione jihadista guidata da Abu Muhammad al-Jawlani, che nel curriculum ha una lunga militanza in ISIS e al-Qa'ida
È molto interessante leggere la parata di brevi dichiarazioni di tanti maggiorenti occidentali sulla fine della Repubblica Araba Siriana, oggi conquistata e sostituita da una coalizione jihadista guidata da Abu Muhammad al-Jawlani, che nel curriculum ha una lunga militanza nell’ISIS e in Al-Qa’ida e che come primo provvedimento libera dalle carceri siriane tutti i capi dell’ISIS.
Le dichiarazioni dei pezzi grossi dell’Ovest sono interessanti anche per l’uniformità dello stile e degli argomenti, esposti tutti con lo stesso cliché: 1) esultanza per il rovesciamento di Assad, additato come “dittatore”; 2) generico e blandissimo richiamo ai rischi associati ai nuovi capi per via del loro passato, quasi mai menzionato esplicitamente; 3) fiducia nella buona opportunità di fare buoni accordi con i nuovi capi; 4) letizia bellicosa per una sconfitta strategica di Putin. Cercate in rete le dichiarazioni di Biden, Scholz, Von Der Leyen, Macron, Metsola, Starmer, Kallas: i vertici di istituzioni che in certe fasi hanno fatto di tutto per impaurirci con il pericolo del fondamentalismo terrorista oggi festeggiano il primo vero grande trionfo del jihadismo che si fa Stato, e lo fanno leggendo e diffondendo la medesima velina, come pappagalli, come meri ripetitori di idee ricevute, come zelanti esecutori di uno schema predefinito.
La guerra civile siriana sulla quale si è proiettata un più ampio conflitto geopolitico generale, è iniziata 13 anni fa. Tra 2019 e 2020 giunge a un punto di stallo. Le forze nemiche del potere in carica (Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, USA e coalizione occidentale con appoggio silenzioso di Israele) che operavano sul campo indirettamente con milizie jihadiste e sanzioni, direttamente con aviazione, fornitura armi e logistica, trovano insuperabile resistenza da parte delle forze governative a loro volta supportate da Iran, Hezbollah e soprattutto Russia.
L’azione decisiva per il recente stallo fu il massiccio intervento dell’aviazione russa contro le varie fazioni jihadiste eterodirette. Il che non solo provocò un problema militare ma in senso più ampio narrativo-geopolitico. Infatti, nominalmente, gli occidentali dicevano di esser lì per combattere proprio i jihadisti. Dal 2004, infatti, per ben 15 anni, si erano manifestati ben 28 attentati jihadisti in Europa da parte della oscura e complicatissima galassia che aveva poli in al Qaida ed ISIS.
La decisa azione russa dimostrò che se effettivamente si voleva colpire gli ineffabili uomini neri, lo si poteva fare con una certa facilità (visto che quelli a terra non avevano né aerei, né contraerea consistente), cosa allora facevano USA ed europei lì da anni e con una capacità operativa volendo anche ben maggiore di quella russa?
Il repentino crollo, quasi senza combattere,
dell’esercito Arabo Siriano e l’altrettanti rapido collasso
delle strutture di governo
siriane, subito dichiaratesi pronte a cooperare con gli
insorti, impongono di porsi molti interrogativi circa le
origini, le cause e i mandanti del
blitz che in una dozzina di giorni ha portato alla caduta del
regime di Bashar Assad a Damasco.
Mancano molti elementi necessari a compiere analisi e valutazioni esaustive, altri sono vagamente intuibili dalle prime dichiarazioni e prese di posizione mentre alcuni aspetti sono palesemente evidenti in un contesto siriano in cui oggi non è possibile dare nulla per scontato.
Quello che è accaduto tra il 27 novembre e l’8 dicembre in Siria assomiglia molto a quanto accadde in Afghanistan nell’estate 2021, quando le milizie talebane avanzarono repentinamente in tutta il territorio nazionale mentre i reparti governativi gettavano le armi e i governatori regionali aprivano le sedi governative ai capi talebani. Solo in seguito emerse che dopo gli accordi di Doha e l’inizio del ritiro statunitense e degli altri alleati occidentali emissari talebani ben supportati, anche finanziariamente, dall’intelligence pakistana si assicurarono il supporto di tutte le autorità civili e militari solo teoricamente fedeli al presidente Ashraf Ghani.
Il sistema di potere caratterizzato da forte corruzione e la fuga di Ghani da Kabul negli Emirati Arabi Uniti, il 15 agosto 2021, aggiungono un ulteriore parallelismo tra le vicende afghane di tre anni or sono e quelle siriane di oggi, non ultimo le congratulazioni dei talebani al popolo e ai ribelli siriani con l’auspicio di “una transizione condotta secondo le aspirazioni del popolo siriano” oltre che nella fine delle ingerenze straniere.
Ghani fuggì ad Abu Dhabi, Bashar Assad ha raggiunto prima la base area russa di Hmeymin (Latakya) a bordo di un cargo russo Il-76 (che con ogni probabilità ha imbarcato anche familiari e i più stretti collaboratori) e successivamente la Russia dove sarebbero stati trasferiti la moglie e i figli già la scorsa settimana.
C’è un passaggio,
nell’intervista rilasciata da Lavrov a Tucker Carlson, che mi
ha colpito [1], ed è quando dice che gli Stati Uniti creano il
caos e poi
vedono come utilizzarlo. Effettivamente, e soprattutto a
partire dalla caduta dell’URSS, la politica estera
statunitense sembra assolutamente
uniformata a questo principio base, creare il caos (nella più
assoluta indifferenza per ciò che poi significa per milioni di
persone), e
solo successivamente porsi il problema di come trarne
concretamente vantaggio. Naturalmente si potrebbe aprire
un’ampia riflessione su
ciò, sulle ragioni profonde che lo determinano, ma non è
ovviamente questa la sede opportuna. Vale qui semplicemente il
tenere a mente
questa caratteristica della politica imperiale americana,
poiché spesso si tende ad attribuirvi una progettualità strategica
che semplicemente non c’è, laddove – appunto – c’è invece la
convinzione che il caos sia sempre e comunque
foriero di opportunità, e che in linea di massima avvantaggi
sempre gli USA più che i suoi avversari.
Se guardiamo adesso a quanto sta accadendo in Siria, tenendo
presente questo assunto, possiamo provare – in linea puramente
teorica e
astratta – a ordinare il caos, ovvero a cercare di
identificare il senso degli avvenimenti.
La premessa necessaria (ma che
non implica alcuna spiegazione complottista) è che
negli accadimenti di questi giorni c’è, sotto molti aspetti,
un
margine di inspiegabile – o meglio, di non spiegato, non
chiarito.
Guardando ai fatti in ordine cronologico, il primo gap
è: come è stato possibile che l’intelligence di
tre paesi (Russia, Iran e Siria) non abbia avuto alcuna
contezza di
ciò che si stava preparando nella provincia di Idlib? O ancora
meglio, come è stato possibile che siano stati sottovalutati a
tal punto
i segnali che, sicuramente, erano stati rilevati? In questo –
e sottolineo ancora una volta, senza alcun suggerimento complottista
– c’è in fondo una certa similitudine con il 7 ottobre e
l’operazione Al Aqsa Flood. Probabilmente un mix di
sottovalutazione del nemico e sopravvalutazione di sé stessi.
Antonella Tennenini: Il governo della pandemia. Uno sguardo critico
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L’impoverimento e
la precarizzazione delle condizioni lavorative e di vita
provocate dal capitalismo finanziario e digitale impongono un
cambio di paradigma, una vera e
propria transizione sistemica. Transizione sistemica che in
Occidente assuma come obiettivi di fondo la proprietà e l’uso
comune dei
mezzi di produzione e riproduzione, una distribuzione
egualitaria della ricchezza sociale, differenti finalità cui
ispirare le attività
produttive e riproduttive, la cura di sé, degli altri e della
natura, una nuova ripartizione dei tempi di vita e di lavoro.
Una transizione
sistemica immaginabile a partire dalla centralità della
pianificazione, intesa come strumento di politica economica in
grado di controllare il
mercato ed esprimere al massimo grado la supervisione politica
e pubblica sui fattori di produzione e riproduzione. Attorno
alla pianificazione, si
delineano quattro temi: redistribuzione della ricchezza e del
tempo di lavoro, proprietà e uso collettivo dei Big data,
reddito di base,
socializzazione del lavoro riproduttivo.
Nel saggio vengono discussi quattro temi: la finanziarizzazione, la sua variante digitale, la svalorizzazione del lavoro e il tempo della cura.
Il principale filo rosso de La grande rapina è l’imponente trasformazione operata dal capitale collettivo negli ultimi decenni in Occidente, e i suoi effetti sulle condizioni di lavoro e di vita della classe lavoratrice e delle classi subalterne. Più precisamente, si è cercato di ricostruire le logiche che caratterizzano la genesi e lo sviluppo della finanziarizzazione e del capitalismo digitale.
L’egemonia della finanza e l’uso capitalistico delle tecnologie digitali fondano i nuovi regimi di accumulazione del capitale, che si caratterizzano per la messa a valore delle facoltà riproduttive della forza-lavoro e per la privatizzazione dei Big data. Questa metamorfosi del capitale è analizzata a partire dai presupposti teorici e dai concetti fondamentali che la qualificano.
Il paese potrebbe avviarsi verso uno “scenario libico”, aggravato da un contesto regionale caratterizzato da una crescente disgregazione, sul quale continuano a soffiare minacciosi venti di guerra
Il presente articolo,
sebbene possa essere letto in maniera indipendente,
costituisce la seconda parte del pezzo “Dal fragile cessate
il fuoco in Libano alla guerra
in Siria – parte I”, consultabile al seguente link.
Vittima di un’offensiva partita dal nordovest della Siria, Damasco è caduta incredibilmente a poco più di dieci giorni dall’inizio di tale campagna. Gli eventi che hanno portato a questa svolta epocale presentano tuttora punti oscuri, ma se ne può tentare una parziale ricostruzione sulla base dei dati fin qui a disposizione.
Un pericoloso vuoto geopolitico si era aperto nel paese a causa di un governo fiaccato da anni di guerra e di sanzioni, privato delle risorse energetiche delle regioni orientali (sotto il controllo curdo e americano), e logorato da corruzione e lacerazioni interne.
Questo vuoto era stato ulteriormente accentuato dal conflitto regionale scatenato dalla crisi di Gaza, che ha messo in difficoltà i principali alleati di Damasco: l’Iran, le cui forze erano state ripetutamente colpite da Israele proprio in Siria, e Hezbollah, alle prese con la violentissima campagna militare israeliana in Libano.
La Russia, che aveva salvato il governo del presidente Bashar al-Assad intervenendo militarmente nel paese nel 2015, era a sua volta impegnata nella guerra contro Kiev, il cui esercito è sostenuto dall’intera NATO.
Di questo vuoto hanno approfittato gli avversari locali di Assad, a loro volta appoggiati da alcuni attori internazionali, fra i quali spicca la Turchia.
Alla guida di una galassia di gruppi ribelli il cui orientamento va dall’islamismo militante al jihadismo, Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), formazione in precedenza affiliata ad al-Qaeda e apparentemente riconvertitasi a una forma di Islam nazionalista, ha lanciato un’offensiva il 27 novembre in direzione di Aleppo, seconda città del paese, dalla limitrofa provincia di Idlib.
HTS stava preparando quest’offensiva forse da un paio d’anni, ed ha approfittato delle propizie condizioni regionali e della luce verde concessa dal “patrono” turco dopo il fallimento dei negoziati di riconciliazione fra Ankara e Damasco.
Nel numero di
Crisis & Critique su “Future of Europe” avevo
sostenuto che l’attuale “governo dell’euro” è il
risultato della crisi dei partiti del Novecento.ii Si può dire che la
“Nuova destra” sia un fenomeno dello stesso ordine?
In parte lo è, ma rispetto a quattro anni fa, quando già si
poteva prevedere un futuro oscuro dell’Europa, la situazione è
peggiorata.
Al momento della creazione dell’euro, i partiti parlamentari europei, quelli di sinistra in testa, si subordinarono unanimemente alla nuova autorità per ricevere in cambio una legittimazione che avevano perduto, cantando in coro “ce lo chiede l’Europa”. L’euro è stato per oltre trent’anni il vero governo dell’Europa. Oggi i resti di quei partiti si inginocchiano tutti davanti all’autorità di ciò che possiamo chiamare il “governo della guerra”, e lo fanno in nome di slogan ancora più vacui come “in difesa dell’Occidente”, o “democrazia contro autocrazia”. Negli ultimi due anni gli Stati europei sono stati trascinati nei prodromi di una nuova guerra mondiale, in cui emerge in modo ancora più nefasto la decomposizione del sistema dei partiti del Novecento. L’unificazione monetaria dell’Europa, che aveva rimpiazzato la perdita di autorità dei partiti parlamentari, è stata a sua volta rimpiazzata da un’unificazione militare in preparazione della prossima guerra mondiale.
Non si tratta però soltanto della subordinazione alla supremazia militare USA, che è l’aspetto più evidente della politica estera degli Stati europei. Ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi è un profondo mutamento della natura stessa della guerra. Non è più la “continuazione della politica con altri mezzi”, come nella formula classica di Clausewitz, e neppure dell’inversione foucaultiana della politica come continuazione della guerra. È iniziata l’epoca della guerra come continuazione della guerra stessa, o della “guerra senza limiti”, come la chiamano i teorici militari.iii
È in atto un cambiamento epocale della guerra, così come si è costituita dal Neolitico con le prime organizzazioni statali e con i primi apparati militari specializzati.
Sulla scorta dell'omicidio del Ceo di United Healthcare, Brian Thompson, da parte del 26enne Luigi Mangione si è sviluppato l'ennesimo finto dibattito, la cui funzione reale è di seppellire le dinamiche essenziali sotto una coltre sterile. Le linee del finto dibattito contrappongono quelli che chiedono "10, 100, 1000 Mangione" per raddrizzare i torti perpetrati dal sistema delle assicurazioni sanitarie americane a quelli che "signora mia dove andremo a finire con tutta questa violenza".
Ora, nel momento in cui il dibattito finisce nell’opposizione binaria tra la santificazione o la condanna di una "violenza illegale", si perde di vista un fatto fondamentale.
A essere rimossa è la natura della violenza. In un mondo come quello moderno, enormemente complesso, intessuto di interdipendenze, in cui nessun individuo è in grado di procurarsi da vivere in un "rapporto individuale diretto con la natura", la violenza si esercita in molti modi. Non necessariamente quelli dove partono pistolettate in strada sono i casi peggiori.
Qual è l’essenza della violenza in un contesto sociale? L'essenza della violenza non sta nella percossa, non sta nello scorrere del sangue, non sta nel livido, nella frattura, nella ferita, nel precipitare concitato degli eventi. L'essenza della violenza sta nella DISTRUZIONE COATTIVA DELLA VITA E DELLA SALUTE, FISICA E MENTALE.
L'interferenza statunitense, per volere dell'estrema destra israeliana Netanyahu, ha lasciato il Medio Oriente in rovina, con oltre un milione di morti e guerre aperte in Libia, Sudan, Somalia, Libano, Siria e Palestina, e con l'Iran sull'orlo di un arsenale nucleare
Lo storico romano Tacito scrisse: "Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto, lo chiamano pace".
Nella nostra epoca, sono Israele e gli Stati Uniti a creare un deserto e a chiamarlo pace.
La storia è semplice. In netta violazione del diritto internazionale, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi ministri rivendicano il diritto di governare su sette milioni di arabi palestinesi. Quando l'occupazione israeliana delle terre palestinesi porta alla resistenza armata, Israele etichetta la resistenza come “terrorismo” e chiede agli Stati Uniti di rovesciare i governi mediorientali che sostengono i “terroristi”.
Gli Stati Uniti, sotto l'influenza della Lobby israeliana, entrano in guerra per conto di Israele.
La caduta della Siria questa settimana è il culmine di una campagna iniziata nel 1996 con l'arrivo di Netanyahu come Primo Ministro. La guerra israelo-statunitense alla Siria si è intensificata nel 2011 e nel 2012, quando Barack Obama ha incaricato segretamente la CIA di rovesciare il governo siriano con l'operazione Timber Sycamore. Questo sforzo è finalmente giunto a “compimento” questa settimana, dopo oltre 300.000 morti.
Due brevi letture di due miei amici e compagni, mi hanno fatto molto pensare, con angoscia. Parlo della bella e drammatica poesia di Aristide ("insieme a tutti gli altri" - Aristide Bellacicco) e dell'interessante articolo di Alessandra su futurasocieta (La guerra in Ucraina deve continuare a tutti i costi - Alessandra Ciattini).
Andrebbero meglio divulgati...
Mi sembra, temo, che il capitalismo, nel corso dell'ultimo cinquantennio, abbia minato, a oggi, le basi ideologiche e morali che rendono possibile la costruzione di una alternativa. Quest'ultima, qualunque possa essere la strada per perseguirla - superamento o abbattimento del sistema capitalistico - richiede una visione e dei valori in opposizione a quelli dominanti del pragmatismo individualista e della competizione tra individui in un gioco a somma zero (in realtà a somma negativa!). Richiede una prospettiva di lungo respiro, una visione collettiva dell'umanità mondiale. Richiede una morale di fratellanza e non di scontro tra interessi economici particolaristici, una collaborazione fiduciosa tra i popoli. Non l'ambizione a diventare dei piccoli Elon Musk, di raggiungere "il successo" a qualsiasi costo, di apparire dei "vincenti", né la rassegnazione a essere dei "falliti", magari ammiratori dei "grandi", dei "fortunati", dei più "capaci" a valorizzare il "dio capitale".
Mentre l’ormai ex Amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, ha da poco rassegnato le sue dimissioni, denunciando la crisi del settore, e il colosso automobilistico ha cominciato a ricorrere ai licenziamenti, pochi media hanno messo in risalto l’eccezionale risultato in termini di utili ottenuto dalla società e l’ampia distribuzione dei dividendi tra gli azionisti. In quattro anni, infatti, Tavares ha distribuito ai soci ben 23 miliardi di euro di dividendi, a scapito però degli investimenti in ricerca e sviluppo e nonostante un drastico calo dei volumi di vendita, compensati con un aumento dei prezzi delle auto compreso tra il 30% e il 40% in più. In sintesi, la gestione Tavares ha sacrificato posti di lavoro e volumi di produzione per aumentare i profitti e i dividendi, favorito in questo anche dalle crescenti delocalizzazioni che hanno permesso di trasferire la produzione in Paesi dove il costo della manodopera è più bassa. Il tutto è avvenuto mentre la società degli Elkann ha ottenuto ingenti aiuti di Stato e continua a pretendere sovvenzioni pubbliche per non licenziare i lavoratori.
La strategia di Stellantis degli ultimi anni è consistita nel ridurre al minimo la produzione negli impianti, facendo leva, allo stesso tempo, sui picchi di domanda per alzare i prezzi delle auto. Grazie a questo espediente, il gruppo ha aumentato i profitti e la distribuzione degli utili, diminuendo al contempo rapidamente la capitalizzazione della società: un modus operandi che stride con il massiccio ricorso della società alla cassa integrazione e i suoi avvertimenti sulla crisi del settore.
Quindici giorni a
cospetto del Dragone. Quindici giorni attraverso il pianeta
Cina. Una lunga marcia tra tradizione e contemporaneitá,
tecnologia high-tech e
quartieri popolari, musei e luoghi della Storia.
Osservando, riflettendo, dialogando dove possibile con i cittadini di quella Cina Popolare sul cui sistema politico, economico e sociale tanti sono i cliché che l’Occidente liberista e la sua stampa sono capaci di assommare, tra propaganda e ideologia.
E allora sgomberiano subito il campo dai luoghi comuni. A partire dalla rete e da internet.
Non esiste nessuna regia occulta o dittatura repressiva che vieta ai cinesi di usare Google o qualsivoglia social. Semplicemente loro non li usano.
Esistono decine di offerte per l’utilizzo di smartphone con la VPN. Già in aeroporto, ad esempio, vendono le Sim con le impostazioni per poter postare su instagram “la tua vacanza“. Tutti i cinesi potrebbero averne accesso. Alcuni hotel hanno persino la Wi-Fi “sbloccata”. Ma niente.
Sarà che i cinesi di Facebook, Instagram, X e degli altri social non sanno che farsene; o forse sarà anche che i loro dati non vogliono regalarli a Google e Meta.
Oppure sarà che le loro app sono utili per fare qualsiasi cosa: dal chattare al fare pagamenti; dal prenotare un museo o vedere la programmazione dei cinema; fino a prendere metro e bus. Funzionando tutte in modo impeccabile, perfino per noi che non parliamo né leggiamo il cinese.
Sta di fatto che la rete non incontra lo stesso successo che riscuote nel nostro Occidente.
Il secondo mito da sfatare riguarda invece il cosiddetto controllo oppressivo, sia esso individuale o sociale – dalla circolazione e la mobilità interna al pericolo terrorismo, per intenderci – in merito al quale ci sono due elementi da considerare.
[E’ uscito da poco per Pacini Editore Preparando il Sessantotto. Saggisti e scrittori nelle riviste della Nuova Sinistra (1956-1967), di Luca Mozzachiodi. Ne presentiamo l’introduzione]
Di
fatto, lo storico non esce mai dal tempo
della storia: il tempo si avvinghia al suo pensiero come la
terra alla zappa del giardiniere”.
(F. Braudel)
I
Questo libro è una storia intellettuale, culturale e letteraria di due generazioni di autori attive durante il periodo tra gli eventi del 1956 e quelli del 1968, vale a dire tra i due tornanti che hanno drasticamente segnato la mutazione di ruolo e funzione degli intellettuali e degli scrittori in Italia, ma non solo naturalmente in Italia. L’oggetto specifico è la discussione e ricostruzione dell’insieme di teorie, proposte critiche ed elaborazioni estetico-letterarie, ma anche pratiche e di intervento politico, di un insieme di esperienze all’origine di ciò che si suole chiamare Nuova Sinistra in campo culturale.
Ne consegue, date le specifiche forme in cui questa elaborazione è avvenuta, che è anche, se non principalmente, una storia di saggisti e di riviste politico-letterarie sviluppatesi in quei dodici anni.
Probabilmente l’impostazione storiografico-ricostruttiva di largo respiro non è (o non è ancora) il modello prevalente per gli studi sulla letteratura del secondo Novecento: si privilegia infatti la tendenza, negli studi di letteratura italiana contemporanea, ma (anche se in misura considerevolmente minore mano a mano che queste ricerche si avvicinano alla pratica) anche in quelli che coinvolgono le sfere disciplinari affini come la filosofia, la sociologia, la teoria politica, a non affrontare direttamente il problema della storicità dei testi. Spessissimo si considera il testo unicamente dal punto di vista estetico, stilistico, formale, strutturale o al limite in un insieme il cui riferimento cronologico immediato è costituito da altre opere letterarie o dalle opere del corpus dello stesso autore; qualche volta, soprattutto in quegli autori che, come quelli di cui la mia ricerca si occupa, sono stati anche o principalmente saggisti, stabilendo nessi interni arbitrari e ricavando sistematicità di pensiero più solide di quanto furono in realtà.
Rileggere K. Marx è un “compito politico ed
etico” per i dissenzienti, ovvero coloro che non accettano
passivamente e fatalmente
il capitalismo con le sue tragedie e con i suoi processi di
reificazione. Le merci continuano a dominarci e a dissanguare
l’umanità e
dietro di esse le oligarchie transnazionali perpetuano la loro
strategia di dominio. Il capitalismo continua a infuriare a
Ovest e a Est con le merci
che signoreggiano l’immaginario al punto che l’essere umano
non solo le serve, ma specialmente, si percepisce come “merce
tra le
merci”. Il valore di scambio è l’ordinaria normalità
relazionale nell’inferno in terra sotto la cappa del capitale.
Il
capitalismo è dunque una visione del mondo, non è esterno agli
esseri umani, ma come una tossina e un veleno penetra nel
corpo e nella
mente. Soggioga con l’oppressione “esterna e interna”, alla
fine di tale processo di aziendalizzazione-mercificazione
l’umanità è solo un ente insignificante che si misura col
paradigma del denaro. Rileggere K. Marx è percorso di
emancipazione dalle violenze del nostro tempo. Essa necessita
di parole e concetti che svelano la verità della condizione
storica. La
liberazione comincia col dolore/contraddizione dell’essere
umano, ma la condizione di disagio senza il concetto e la
comprensione
dell’intero è solo una lunga agonia adattiva o ribellione
sterile e improduttiva. La prassi senza la chiarezza del
concetto non conduce
alla libertà ma a una impotente e astiosa impotenza
generalizzata. L’essere umano, il creatore senza titanismo,
deve riappropriarsi della
sua essenza storica e tale “cominciamento” non può che
avvenire, in primis, in coloro che soffrono
l’umiliazione del
dominio e dell’alienazione. Gli ultimi sono il motore della
storia. Non si è “ultimi” solo per condizione sociale, ma lo
si
è per disancorarsi dalle logiche del capitalismo. Gli ultimi
sono il “motore della storia”:
“Sinora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell'uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall'immaginazione, sotto il cui giogo essi languiscono.
La democrazia non esiste, è solo l’etichetta mitologica per quel costoso apparato di pubbliche relazioni che è l’elettoralismo. Viviamo in un sistema dove non sei tu che fai i soldi, ma sono i soldi che fanno te; e ciò vale anche per le candidature elettorali. Il “golpettino” compiuto dalla Corte Costituzionale romena contro un candidato “putiniano” non va quindi a colpire l’evanescente “democrazia” ma appunto il costoso apparato di pubbliche relazioni, il che non è affatto un evento da poco. L’elettoralismo può a volte erroneamente intercettare motivazioni meschine, come l’istinto di conservazione dei romeni, e sortire momentaneamente effetti indesiderati per le oligarchie locali e internazionali; ma il sistema elettorale è concepito appunto per ammortizzare e fuorviare l’eventuale dissenso. Si può ricorrere anche ai brogli, o al boicottaggio da parte delle burocrazie ministeriali; in casi particolari, si può arrivare persino all’eliminazione fisica. Di solito però è sufficiente fornire agli eletti dal popolo un alibi emergenziale per consentirgli una comoda scappatoia dalle proprie promesse elettorali. Invece il fatto di annullare un risultato elettorale con motivazioni fumose come l’uso di Tik Tok, denota una totale mancanza di lucidità, cioè si tratta di un tipico caso di auto-intossicazione con la propria stessa propaganda, prendendo sul serio i propri stessi fantasmi.
A precisa domanda, ieri, il ministro turco per le risorse naturali, ha risposto così a chi riportava in attualità il vecchio progetto del gasdotto Qatar-Turchia (via Siria): “Per una Siria che ha raggiunto unità e stabilità, perché no?” Ha aggiunto: “Se ciò accade, la rotta deve essere sicura. Speriamo che lo sia, perché è questo il nostro desiderio”. Di cosa si tratta?
Alcuni analisti avevano tempo fa indicato questo progetto, rifiutato ai tempi da Assad, come il vero sottostante l’intero sviluppo di questi sanguinosi anni di conflitto in Siria operato con le milizie jihadiste. L’anno scorso, dopo 12 anni, la Lega araba aveva riammesso Assad nel proprio consesso a maggioranza, in deciso dissenso e contrarietà proprio il Qatar. Altresì, vengono segnalati diversi tentativi recenti di Erdogan di provare a chiudere un accordo con Assad, sempre rispediti al mittente.
Terzo indizio (incerto) non è chiaro se l’aggregazione HTS di al-Jolani, dopo le numerose giravolte che l’hanno portata dall’area al Qaida a qualcosa che ancora non è chiaro, possa o meno essere iscritta alla Fratellanza musulmana -secondo alcuni analisti sì-, notoriamente sponsorizzata proprio da Qatar-Turchia. L’intero conflitto siriano inteso come “guerra civile” (quindi come logica del suo versante interno) risale proprio alla totale contrapposizione tra partito baathista al potere con colpo di stato militare e la FM (strage di Hama, tra 10.000 e 25.000 morti).
Un’opera quasi irrappresentabile, un testo quasi inconcepibile nella stratificazione dei nomi, delle epoche, degli eventi e soprattutto delle maschere. A Dürrenmatt l’idea di scrivere Achterloo. Commedia venne quando il 13 dicembre 1981 il generale polacco Jaruzelski proclamò la legge marziale, anche con l’intento di scongiurare una possibile invasione da parte dell’Unione Sovietica. Ma è soltanto uno spunto iniziale, a partire dal quale Dürrenmatt fa interagire in un esplicito gioco di ruoli personaggi storici di varie epoche, mentre il drammaturgo Georg Büchner, o qualcuno che si crede lui, sta scrivendo per loro il copione che dei folli interpretano sulla scena, a volte rispettando il testo ma più spesso inventando. Appaiono così, nell’ordinato caos della vicenda europea, Napoleone, Giovanna D’Arco, Fouché, Robespierre, Giovanni Hus, due Karl Marx, Richelieu, Woyzeck, vari papi, Benjamin Franklin, Cambronne…
Tutti nomi di potenti e di ribelli che confermano come «l’individuo non [sia] che la schiuma di un’onda» (in Teatro, a cura di Eugenio Bernardi, Einaudi-Gallimard, Torino 2002, p. 1107) poiché a condurre la storia umana sono le grandi strutture culturali, politiche ed economiche che un individuo può solo cercare di comprendere per accoglierle o per rifiutarle. Ma nessuno può astrarsi dalla propria Umwelt.
I riferimenti ai fatti polacchi del 1981, a ciò che li precede e che li segue, sono oggi in buona parte o poco perspicui o caduti ma, come sempre in uno scrittore di grandissima intelligenza come Dürrenmatt, è la dimensione visionaria che rende anche questo testo coinvolgente.
Il rifiuto di riconoscere il genocidio perpetrato contro i palestinesi, soprattutto quando l'esitazione proviene da figure di ebrei con un importante ruolo civile (sopravvissuti all'Olocausto o intellettuali), smuove emozioni forti e contraddittorie. La senatrice a vita Liliana Segre viene, a questo proposito, interpellata spesso e "pressata" da una certa parte dell'opinione pubblica affinché rompa gli indugi. Non basta affermare che Netanyahu e il suo governo si stanno macchiando di crimini atroci. Qui manca l'ammissione di essere dinnanzi a un altro genocidio, diverso da quello portato avanti dai nazisti, ma pur sempre orribile. Nel mondo ebraico (e non parlo di quello apertamente sionista) è difficilissimo avvicinare un tema del genere, è troppo disturbante. Questo per alcuni motivi: il trauma subìto dagli ebrei il secolo scorso (dopo mille altre persecuzioni patite nel corso dei secoli) ha prodotto dissociazione psichica. Inoltre è quasi impossibile fare i conti con il meccanismo perverso dell'identificazione con l'aggressore (per cui, chi è stato vittima di violenza può finire con l'esercitarla a sua volta in qualità di aguzzino). Tuttavia, se il versante psicologico e clinico richiede un certo tatto, quello della verità pubblica esige - senza perdere il rispetto per l'altro (si veda il tono della lettera aperta di Angelo D'Orsi ripresa recentemente da Il Fatto Quotidiano) - che coloro che hanno testimoniato l'orrore della violenza antisemita possano farlo, con pari rigore, per il male subìto dai palestinesi.
Algamica: Il necrologio di Federico Rampini
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L’evoluzione
della situazione siriana è inevitabilmente destinata a
introdurre elementi di novità, non necessariamente previsti –
e che,
probabilmente, possono aiutare a comprendere alcune posizioni
attualmente assunte da parte di soggetti coinvolti.
Le questioni fondamentali sono essenzialmente due. La prima, è la partizione in atto nel paese, in almeno tre macro aree cantonali: quella occidentale, sotto il controllo dell’HTS, quella orientale, sotto il controllo delle forze curde, e quella meridionale, sotto controllo israeliano. Questa cantonizzazione della Siria fa ovviamente gioco sia agli USA che a Israele, perché non solo mina l’unità del paese arabo, ma rafforza la presenza politica e militare di entrambe nella regione. Ma taglia fuori dai giochi la Turchia, che si ritrova ad avere la stabilizzazione di un Kurdistan siriano ai propri confini, e per di più come protettorato statunitense.
Come risulta evidente dai primi passi, Al-Julani risponde chiaramente assai più agli interessi anglo-americani (suoi veri sponsor) che non a quelli turchi; i segnali pacificatori verso Israele da un lato (nonostante la massiccia campagna di bombardamenti in atto, che non accenna a finire), e l’apertura alla collaborazione, anche governativa, con le SDF, indicano chiaramente l’allineamento del potere islamista con i disegni americani.
Del resto, e per più di una ragione, Washington intende esercitare la sua influenza sul nuovo governo siriano, ma il suo alleato di riferimento restano (almeno per il momento) i curdi. I nodi da risolvere, in questo quadro, sono ovviamente i margini di autonomia che le SDF riusciranno a ritagliarsi, anche considerando che otterranno dei ministri nel governo nazionale (altra cosa destinata a irritare non poco Ankara…), e – parallelamente – come verrà risolta la questione del disarmo delle milizie (pretesa da Al-Julani). Considerato il prevalere degli interessi statunitensi, è probabile che entrambe le questioni siano risolte nel quadro di una qualche autonomia regionale, nell’ambito della quale le milizie curde diventano le forze armate territoriali.
Con l'avvento del globalismo neoliberista, la
democrazia, come mezzo per l'intervento politico egualitario
nell'economia, è caduta in
discredito. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, sono state
le élite ad aprire la strada a questo processo. Vedevano la
democrazia,
tecnocraticamente, come "poco complessa"
a fronte della "accresciuta complessità"
del
mondo; propensa com'era a sovraccaricare lo Stato e
l'economia, oltre a essere politicamente corrotta a causa
della sua riluttanza a insegnare ai
cittadini "le leggi dell'economia".
Secondo tale linea di pensiero, la crescita non proviene dalla
redistribuzione dall'alto
verso il basso: da incentivi più forti al lavoro, ma dal basso
verso l'alto: in quella che è l'estremità inferiore della
distribuzione del reddito, attraverso l'abolizione dei salari
minimi e la riduzione delle prestazioni di sicurezza sociale;
e nella fascia più
alta, per contro, attraverso migliori opportunità di profitto
e di guadagno, sostenute da una minore tassazione. Il processo
che sottendeva a
tutto questo era una transizione verso un nuovo modello di
crescita, hayekiano, destinato a sostituire
il suo predecessore
keynesiano, nell'ambito della rivoluzione neoliberista. Come
avviene per ogni dottrina economica, queste idee devono essere
intese come
rappresentazioni camuffate di vincoli e opportunità politiche
derivanti da una distribuzione storicamente contingente del
potere, travestite da
manifestazioni di leggi "naturali".
La differenza è che nel mondo hayekiano la democrazia non
appare più come
una forza produttiva, ma come una macina al collo del
progresso economico. Per questo motivo, l'attività
distributiva spontanea del mercato
deve essere protetta dall'interferenza democratica di ogni
tipo di muraglia cinese o, meglio ancora, sostituendo la
democrazia con la
"governance globale". La
disintegrazione del modello standard del capitalismo
democratico nel bel mezzo dell'avanzare della
globalizzazione, è stata molto analizzata. Nel corso di circa
due decenni, dalla scomparsa del comunismo sovietico, il
neoliberismo ha fatto un
ritorno sorprendente: Hayek, a lungo ridicolizzato e deriso in
quanto leader di un culto settario, ha eclissato figure
importanti degli affari
mondiali, come Keynes e Lenin.
Nelle prossime settimane
c’è chi avrà un po’ di tempo da passare per sé. Per questo ho
pensato di consigliarvi alcune letture che spaziano
dalla narrativa alla saggistica. Quattro opere non troppo
impegnative, ma che squarciano il velo della narrazione
mainstream su una serie di argomenti
che sono d’attualità da decenni.
Iniziamo con un libro che è stato presentato a Villa Paradiso la scorsa settimana e che racconta delle torture che dei compagni del collettivo politico autonomo della Barona, un quartiere di Milano hanno subito dalla polizia, dell’ignavia complice della magistratura, a seguito delle indagini sull’uccisione del gioiellere Torreggiani, di cui come chi co segue sa bene è stato incolpato Cesare Battisti, che oggi sconta l’ergastolo nelle carceri italiane dopo essere stato catturato in modo illegale in Bolivia e deportato in Italia, mostrato come un trofeo da un ministro pentastellato e sotto il ludibrio dei media e di una politica bipartisan forcaiola.
Il titolo è: Sei giorni troppo lunghi, autore Umberto Lucarelli, edizioni Milieu 2024, 112 pagine, € 13,50.
Qualcuno penserà che la tortura e le esecuzioni sommarie come quelle dei brigatisti in via Fracchia a Genova, siano retaggio di quel passato. In realtà questo sistema di potere rimetterà in campo le stesse dinamiche repressive se la situazione lo richiederà. Questo è bene saperlo. Ma anche la pratica ordinaria di repressione della “devianza” è da sempre parte del dna di polizia e carabinieri. Nella prefazione di copertina si legge: “I fatti risalgono a quaratacinque anni fa, ma da allora nulla è cambiato. Si continua tranquillamente a torturare e a uccidere, sia nelle carceri sia nelle questure, come confermano le cronache recenti da Cucchi ad Aldrovandi” Aldo Bianzino, Riccardo Rasman e altri aggiungo io, in un rosario di pestaggi e abusi violenti da parte di secondini e poliziotti. L’ultimo episodio, proprio a Milano, riguarda l’inseguimento di due ragazzi e la strana morte per strada in scooter di uno di questi: Ramy Elgami, e di cui sono stati poi incriminati i carabinieri di una gazzella. Episodio che ha dato vita a una vera e propria rivolta popolare, spacciata dalla stampa come criminalità dello spaccio e il Corvetto alla stregua di una “pericolosissima” banlieu.
Dal Data Room di Gabanelli – Battistini del 9 dicembre sulla TV 7, abbiamo appreso che esponenti destrorsi di varie nazionalità e caratteristiche si ergono a paladini della “libertà” - sans phrase si può aggiungere - contro “comunisti progressisti e sinistra che ucciderebbero le libertà individuali” (M. Le Pen a Pontida).
Dal florilegio raccolto riportiamo: le “toghe e zecche rosse” di Salvini; l’estrema destra austriaca che punta al cancellierato ritiene di dover “uccidere il comunismo climatico” (kill climate communist”); Orban che afferma che “non ci sono liberali, solo comunisti col diploma” (There are no liberals, only communists with university degrees); l’olandese Wilders, dopo l’abbraccio a Netanyahu, sostiene che “bisogna tutelare la libertà di parola di coloro che dicono la verità e sono odiati per questo”; ancora Salvini “In Europa siamo ormai alla censura, alla puzza di regime, viva la libertà di parola e di pensiero. Chi sarà il prossimo a essere imbavagliato?” (riferito all’arresto di Pavel Durov, fondatore di Telegram, su cui gravano accuse di transazioni illecite, l’app di messaggistica sarebbe facilitatore di attività criminali!). Di rinforzo Meloni “In questi anni l’Europa ha messo in atto una limitazione di libertà degli stati nazionali da cui si deve tornare indietro”; Trump dalla Pennsylvania “Forze oscure vogliono toglierci la libertà e io sono l’unico ostacolo”. Tutte posizioni di leaders che poi altrove condividono espulsione di masse immigrate, negazione del cambiamento climatico, lotta al green deal, alla Ue, al “politicamente corretto”, al sistema giustizia, all’autonomia della stampa, attuando una variegata repressione nei confronti degli oppositori.
L’Europa è alla frutta. Potrebbe essere questa la sintesi dell’intervento di Mario Draghi al Simposio annuale del Centre for economic policy research (Cepr). A Parigi. E come sempre bisogna constatare che non modifica il suo tono oracolare nonostante che, del modello economico fin qui adottato, proprio lui sia stato un pilastro autorevole anche sul piano operativo (otto anni alla presidenza della Bce, nonché un passaggio rilevante da primo ministro italiano.
L’analisi è presto fatta: “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari come strumento per aumentare la competitività esterna, aggravando la debolezza del ciclo reddito-consumo. Tutti i governi disponevano di uno spazio fiscale per contrastare la debolezza della domanda interna, ma almeno fino alla pandemia hanno scelto deliberatamente di non utilizzare questo spazio. Complessivamente, la politica ha rivelato una preferenza per una particolare costellazione economica, basata sull’utilizzo della domanda estera e sull’esportazione di capitali con livelli salariali bassi. Una costellazione che non sembra più sostenibile“.
Inutile soffermarsi sull’uso eufemistico del linguaggio, tipo “Le politiche europee hanno tollerato una bassa crescita dei salari”, quando basta sfogliare a ritroso il web per trovate decine di migliaia di interventi – europei e nazionali – in cui “si impone” il congelamento dei salari in tutto il Vecchio Continente. Altro che “tollerare”…
In una videointervista di qualche mese fa il filosofo Vincenzo Costa, con aria un po’ amareggiata, annotava come la classe medio-colta o pseudo tale, non fosse mai stata tanto lontana come oggi da una verosimile percezione della realtà e da una lettura vagamente sensata del mondo. Con una certa necessaria crudeltà intellettuale Costa entrava nel dettaglio e raccontava come, in un qualsiasi bar, uno di quelli in cui la gente che lavora passa a bere un caffè, si potessero ascoltare discorsi di maggiore buon senso e più vicini alla realtà della vita e della società rispetto alle conversazioni con un istruito lettore di quotidiani. È una cosa che da qualche anno colpisce anche chi scrive e la stesura e pubblicazione, nel 2024, di due libri rispettivamente sulla fine del pensiero nella società e sull’ignoranza, forse giustifica il tentativo di una spiegazione di questo strano fenomeno.
L’idea in verità non è del tutto nuova. Il dimenticato Rodolfo Quadrelli (che celebra quest’anno il quarantennale dalla morte) parlava spesso della mezza cultura (riferendosi a gente impastata di nozioni di sociologia e psicologia) che era la più lontana dalla comprensione della realtà. È il tema occhieggia da sempre nella cultura russa. Ma in entrambi i casi la constatazione seguiva o preludeva a una svalutazione della cultura “contemporanea” a fronte della grande cultura occidentale filosofica greca e cattolica oppure, nel secondo caso, a una svalutazione di una cultura occidentalizzata e razionalista a fronte della tradizione del popolo.
A mo' d’introduzione
Nei miei ultimi lavori – sia nei libri che in vari articoli pubblicati su questa pagina (1) – ho speso molte energie per contrastare il luogo comune – che accomuna destre e “sinistre” occidentali – secondo cui la Cina sarebbe un Paese capitalista, se non addirittura imperialista, la cui unica ragione di conflitto con gli Stati Uniti e l’Europa è la competizione per il dominio globale.
Nel caso delle destre, tale giudizio funge da argomento propagandistico, buono per scoraggiare qualsiasi simpatia nei confronti di una possibile alternativa nei confronti di un’economia, un sistema politico, una cultura e un modo di vivere che settori sempre più larghi delle popolazioni occidentali considerano intollerabile, come dimostrano il successo dei movimenti cosiddetti “populisti” e le altissime percentuali di astensione.
Nel caso delle sinistre occorre distinguere fra l’ala “progressista” neoliberale, di fatto allineata alle destre (fatta eccezione per l’impegno nei confronti dei diritti civili di individui e minoranze appartenenti alle classi urbane medio-alte), e l’ala radicale, che dedica ancora qualche attenzione agli interessi delle classi lavoratrici. La sinistra neo liberale ha definitivamente gettato la maschera votando nel Parlamento europeo l’infame delibera che equipara nazismo e comunismo. L’ala radicale, ormai priva di strumenti teorici per analizzare la realtà (l’ignoranza dei suoi quadri in materia di filosofia, storia ed economia, per tacere del pressoché totale oblio della teoria marxista, è disarmante), si limita ad annunciare che “un altro mondo è possibile” ma, non avendo la minima idea su cosa fare e come farlo per mettere in pratica tale slogan, disprezza i progetti politici che ci provano.
Rebus sic stantibus, non mi stanco di insistere sulla necessità di studiare l’unico esperimento (in verità non è il solo, ma è di gran lunga il più significativo, se non altro per le sterminate dimensioni geografiche e demografiche della nazione che lo sta attuando) che offra un esempio concreto del fatto che lo slogan della Tatcher (there is no alternative) è falso.
1. La vecchia critica della statualità propria
di un certo pensiero marxiano e radical-libertario del
Novecento non ha in gran parte
più senso nell’evo della globalizzazione dei grandi oligopoli
del capitale transnazionale in assetto di guerra permanente.
Nella fase di disgregazione culturale, politica, economica e sociale in cui siamo immersi lo Stato nazionale e in special modo i suoi territori, in primis le autonomie locali, sono il luogo della convivenza civile reale tra le persone e tra queste e gli enti locali di riferimento, dove la democrazia è il modo in cui si vive la vita di ogni giorno. Non appare pertanto praticabile né opportuno scindere in locali e nazionali le diverse, e talvolta eroiche, istanze aspiranti alla ripubblicizzazione di molte attività, funzioni, beni che sono germogliati in alcuni Stati e territori, tra cui il nostro paese.
La scelta di fondo comune alle diverse istanze, più o meno esplicita, è quella per il rilancio del pubblico in tutte le sue articolazioni e declinazioni (statuale, locale, non statuale-sociale) in luogo dell’onnipervasivo privato, unico totem del liberal-capitalismo che si impone dall’alto del sovrastatuale fin nei più piccoli villaggi periferici: dopodiché è giusto verificare, volta per volta, quale sia la dimensione soggettiva e territoriale ottimale al fine di tutelare e valorizzare il bene della vita in questione (per esempio acqua, beni pubblici-comuni, lavoro, ambiente, energia, infrastrutture, opere pubbliche).
Si tratta, in sostanza, di porre in essere una strategia consapevole di difesa e rilancio della sovranità popolare e delle prerogative democratico-sociali all’interno degli Stati nazionali (lo Stato sociale di diritto, o lo Stato pluriclasse con una significativa tutela del lavoro secondo Costantino Mortati).
Mentre i salafiti
“liberatori” si stanno dedicando a saccheggi, massacri e
vendette, così, tanto per mostrare il loro volto “moderato”,
Ankara punta a conquistare le zone oggi occupate dal
cosiddetto “Rojava” curdo sostenuto dagli Usa. Il ministro
degli Esteri turco, Hakan
Fidan, ha dichiarato che o il Pkk e l'Ypg in Siria si
dissolvono o la Turchia li distruggerà.
Questo il commento di Larry Johnson, ex analista Cia ed ex funzionario dell'Antiterrorismo al Dipartimento di Stato:
«Resta da vedere se gli USA, che sono posizionati in territorio curdo, forniranno aiuti ai curdi, incluso il supporto militare, o si faranno da parte e lasceranno che i turchi li finiscano.
Credo che i russi in questo momento siano seduti davanti a un bel fuoco scoppiettante, sgranocchiando un sacchetto di popcorn e osservando il caos che si dispiega» ([1] enfasi mia).
Sono d'accordo. In questo momento Mosca sta alla finestra a vedere come si evolve la complicatissima e drammatica situazione siriana da cui si è tirata fuori. La ragione dichiarata è, come ebbe modo di dire Putin già nel 2015, che “i russi non possono essere più siriani dei siriani”. Ovverosia la volontà di combattere doveva partire dalla Siria. Così non è stato e Damasco forte di 170.000 soldati e 100.000 territoriali, con carri armati, artiglieria e aviazione, si è arresa in soli 11 giorni a meno di 30.000 guerriglieri in pick-up e qualche blindato, in modo sorprendente e inaspettato perché aveva tenuto testa da sola per 4 anni fino all'intervento russo a una coalizione di eserciti proxy di mercenari, di bande di fuori di testa e di consiglieri militari provenienti da tutto il mondo, armati, finanziati e sostenuti da UE, Nato, Usa, Australia, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Israele.
Le ragioni non sono del tutto chiare, almeno a me. La corruzione, spesso citata, è un fattore. Ma non penso che basti (specialmente in un esercito complesso), occorrono ordini precisi. Ecco allora chi accusa al-Assad di essersi fidato troppo della Lega Araba, in cui la Siria era stata riammessa, e addirittura delle profferte di Washington di togliere le sanzioni in cambio di un mutamento di campo.
La dissoluzione della Siria rientra nel vecchio progetto statunitense di distruggere sette Paesi islamici e ora sarebbe venuto il turno dell’Iran, che forse poteva fare di più per difendere il suo alleato.
Secondo quando viene riportato da Al Jazeera, nel settembre 2003 l’ex comandante delle forze Nato in Europa, Wesley Clark, dichiarò che un suo collega gli aveva comunicato nel novembre 2001 a Washington, dopo il controverso attentato alle Torri gemelle, che l’amministrazione Bush aveva intenzione di attaccare e distruggere sette Paesi musulmani: Iraq, Syria, Libano, Libia, Iran, Somalia e Sudan. Ricordo che, con la scusa priva di fondamento di catturare i responsabili del tragico evento, nell’ottobre del 2001 gli Usa avevano invaso l’Afghanistan, coinvolgendolo in una guerra disastrosa che sarebbe durata fino al 2021 e terminata con l’ignominiosa fuga dell’esercito americano. Allo stesso tempo, sottolineò che i principali alleati degli Usa in quella regione strategica sono ed erano Egitto, Pakistan e Arabia Saudita, i quali sarebbero stati anche i principali finanziatori dei gruppi terroristici di matrice islamistica. Tenendo presente quanto aveva affermato, a suo tempo, la spietata Hillary Clinton, che probabilmente ancora si rode il fegato per non essere diventata presidente degli Usa, in realtà il finanziamento a questi gruppi, oggi presentati semplicemente come ribelli, proveniva anche direttamente da questi ultimi, che colsero al balzo l’attentato (o lo organizzarono) per portare avanti la politica del cosiddetto caos creativo in quella regione strategica.
Chi ricorda le leggi speciali antiterrorismo italiane o il più recente decreto sicurezza, ddl 1660, che mira a colpire ogni tipo di protesta pubblica, criminalizzando la lotta per le rivendicazioni sociali o contro la partecipazione dell’Italia alle guerre? Si può fare di peggio.
La Knesset ha approvato una legge che consente ai giudici dei tribunali distrettuali di imporre restrizioni alla libertà di movimento ed espressione dei cittadini sulla base di prove segrete fornite dalla polizia, autorizzata a utilizzare nuove tecnologie di sorveglianza, senza controllo dell’autorità giudiziaria. In pratica, detenzione amministrativa senza processo
La legge, proposta dal deputato Zvika Fogel del partito di estrema destra Otzma Yehudit, è intesa come una misura temporanea di due anni per consentire alle forze dell’ordine di affrontare “un aumento significativo dell’attività della criminalità organizzata in Israele”, in particolare nelle comunità arabe. Sulla base della legge, i tribunali saranno ora autorizzati a imporre misure basate su note informative dell’intelligence della polizia che includono “materiale di intelligence riservato, prove visibili e qualsiasi altro materiale relativo alla valutazione che una persona sia attiva in un’organizzazione criminale”, insieme al livello di minaccia rappresentato dall’individuo. Il tribunale distrettuale può concedere alla polizia di introdursi nel computer personale o nel telefono cellulare di qualsiasi cittadino ritenuto sospetto.
La fulminea caduta del regime di Assad ha consegnato alla Turchia e agli USA una vittoria tattica che potrebbe trasformarsi in un complesso rompicapo strategico. Gli Stati Uniti sono esposti al rischio di un “catastrofico successo”, come quello profilatosi dieci anni fa e non ottenuto durante la guerra civile per via dell’intervento di Russia e Iran a sostegno di Assad. Mentre Erdogan si trova nella delicata posizione di dover gestire il successo in modo da non compromettere i faticosi equilibri regionali costruiti negli ultimi anni, in particolare il recente asse Ankara-Mosca-Teheran.
Questo triangolo strategico, emerso negli ultimi anni come contrappeso all'influenza occidentale in Medio Oriente, si è consolidato attorno a interessi convergenti: la comune opposizione all'egemonia americana nella regione, la gestione coordinata delle risorse energetiche, e la condivisa preoccupazione per i movimenti separatisti. La partnership, pur non priva di tensioni, ha permesso ai tre attori di coordinare le proprie politiche su questioni chiave, dalla gestione dei flussi commerciali alle risposte alle sanzioni occidentali.
La questione curda emerge come il solito nodo spinoso. Il crollo del regime di Damasco ha creato un vuoto di potere nelle regioni settentrionali della Siria, dove le forze curde tenteranno di consolidare la propria autonomia. Una prospettiva inaccettabile per Ankara. Ma un intervento militare turco troppo aggressivo in queste aree rischierebbe di compromettere il delicato rapporto con Russia e Iran.
Da quanto tempo soffriamo le sorti del nostro Paese? Direi, come minimo, da decenni. Ci trasciniamo stanchi e senza forma fisica in un cammino privo di mete e di speranze. Per le persone cresciute in Italia negli ultimi settant’anni, questa situazione di logoramento dell’intera struttura politica, antropologica e culturale è diventata la norma, l’habitat naturale a cui doversi adattare. Nel 1960 un grande uomo politico-spirituale di nome Ernesto Balducci, scriveva che: “I giovani sono soli, perfino la scuola, per lo più, è vuota di attrazioni, perché troppo distante dalla vita vera. Il costume che sopravvive è stanco: chi ci sta dentro non ci crede più, e i giovani se ne accorgono. E ne fanno a meno con cinismo”[1]. Il dramma di questa sfiducia ha origini antiche, e non riguarda solo i “giovani”. Il cinismo, diceva Balducci: non è forse questo il grande orientamento emotivo che caratterizza il nostro tempo, dove noi tutti siamo in qualche misura sottomessi alla legge del più forte, incoscienti devoti del motto machiavellico “il fine giustifica i mezzi”? Non ci sembra anche a noi, oggi più di ieri, di dover fare a meno dell’idea di morale, del buonsenso comune, delle regole di convivenza civile, della civiltà dei diritti, degli ideali rivoluzionari e del senso religioso della vita interiore? Non è forse proprio il “fine” a non essere più così chiaro, e dunque ciò che rimane in superficie e soltanto il mero “mezzo”, che si traduce fatalmente in opportunismo politico?
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Occupazione israeliana del Golan e silenzio jihadista. I palestinesi nella vecchia e nuova Siria. Fuga dalla Siria occidental-sionista-jihadista
Una delle prime
preoccupazioni di Abu Muhamad al-Julani, capo dei jihadisti di
Hayat Tahrir al-Sham (Organizzazione per la
liberazione del Levante, Hts),
nella prima importante intervista concessa a Sky News,
era, all’indomani di quella che definiva la “liberazione”
della
Siria da Assad e dagli ex colonizzatori russi e iraniani,
tranquillizzare l’imperialismo occidentale chiarendo una volta
per tutte quali fossero
i veri nemici: «La fonte delle nostre paure proveniva dalle
milizie iraniane, da Hizballah e dal regime che ha commesso i
massacri a cui stiamo
assistendo oggi. La loro rimozione è la soluzione per la
Siria»[1]. Posizione del resto coerente
da parte di chi era stato incaricato di organizzare la
sovversione jihadista della Siria da Abu Bakr al-Baghdadi,
primo califfo dell’Isis
(2014-2019) e che proprio in Hizballah e nei pasdaran
iraniani, i primi ad accorrere in aiuto della Repubblica araba
siriana e a combattere
contro l’Isis e le altre formazioni jihadiste, ha trovato un
ostacolo insuperabile. Altra preoccupazione quella di
rassicurare Israele nei
confronti del quale il capo jihadista, in un’intervista al Times,
ha promesso che non permetterà che la Siria venga utilizzata
come rampa di lancio per attacchi contro Israele o qualsiasi
altro stato[2]. È dai tempi del
cambio di marchio in Hts nel 2017 che i qaidisti cercano di
presentarsi quali referenti ideali per l’Occidente, insistendo
sul comune obiettivo
di abbattere il governo siriano ed espellere le forze iraniane
dalla Siria, ponendosi come alternativa “moderata” all’Isis
nel
tentativo di farsi finanziare meglio dall’imperialismo
occidentale[3].
Ma a offrire collaborazione con Tel Aviv non c’è solo Hts ma anche quelli che potremmo definire “jihadisti laici” o secondo la dicitura usata dall’imperialismo occidentale fin dall’inizio dell’aggressione alla Siria “ribelli moderati”, un escamotage per fornire armamenti a formazioni che hanno compiuto molteplici operazioni in sinergia con al-Qaida e Isis e che ospitavano nelle loro file gli stessi jihadisti che transitavano fra i gruppi di miliziani del Califfato, qaidisti e i cosiddetti “ribelli moderati”[4].
Il dibattito politico profondo latita e ci si scanna per lo più su ciò che intimamente si desidera, invece che su ciò che concretamente succede. Per sbrogliare questa matassa forse dobbiamo fare un passo indietro e porci alcune domande su dove sta andando il capitalismo. In questo caso lo faremo con un occhio di riguardo al nostro paese.
Purtroppo è
necessario fare alcune premesse: noi siamo ancora tra quelli
che ritengono che tra guerra, politica ed economia vi sia
un’intima e inscindibile
relazione che va oltre la semplice acquisizione che il mercato
delle armi sia un business importante o che “La guerra
non è che la
continuazione della politica con altri mezzi”. Allo
stesso tempo non crediamo che ci si possa sedere su una
visione meccanicistica in cui
è l’economia che rigidamente determina gli altri campi del
ragionamento, si tratta di un “movimento” in cui
questi
tre fattori si influenzano a vicenda, ma all’interno del quale
il capitale ha un ruolo speciale che struttura e sostanzia la
natura
contemporanea degli altri due (guerra e politica esistevano
prima della nascita del capitalismo ovviamente, ma la loro
natura attuale è
inspiegabile senza comprendere il funzionamento di
quest’ultimo). Ecco dunque che la guerra in Ucraina, vista
molto da vicino sembra
“solo” un conflitto geopolitico per alcuni,
un’invasione di una tra le potenze mondiali nei confronti di
un paese
più debole per altri. Allo stesso modo il genocidio di Gaza
può apparire per alcuni “solo” come un conflitto
etnico-religioso, per altri come uno scontro tra interessi
regionali, per altri ancora come una pura atrocità. Tutte
queste letture hanno dei
tratti di verità, ma prese da sole, senza inserirle dentro il
“movimento” ci fanno perdere la bussola. Questa
piccola
digressione è necessaria per far comprendere il presupposto da
cui partiamo, sebbene in questo articolo si parlerà in
particolar modo
del nostro paese.
Dunque dove sta andando l’economia che possiede questo “ruolo speciale”? Cosa ci dicono le catene del valore?
Iniziamo da ciò che salta all’occhio immediatamente sfogliando qualsiasi giornale: l’Italia è immersa in un nuovo ciclo di crisi industriali che è appena al suo inizio. Il caso più noto, ma non per forza quello più esemplificativo è quello di Stellantis. La vicenda dell’ex-FIAT è certamente paradigmatica, ma a differenza del passato non rappresenta che parzialmente la natura del capitale industriale contemporaneo in Italia, fatto di medie e piccole imprese, spesso associate in distretti, a loro volta inserite in catene del valore internazionale.
Il libro collettivo del gruppo di ricerca Into The Black Box dal titolo Futuro presente. Il dominio globale del mondo secondo Amazon è una formidabile cassetta degli attrezzi, frutto di un seminario svoltosi presso l’Università di Bologna tra il 2021 e il 2022, per analizzare quello che viene definito Amazon Capitalism. L’impresa di Bezos, infatti, non è solo un negozio online in cui poter acquistare quasi ogni tipologia di merce o il principale rappresentante di servizi di consegna basati sullo slogan logistico just-in-time and to-the-point. Amazon contiene al suo interno molti più servizi. Si passa da Prime Video e Twitch a prodotti come Alexa e servizi informatici come Amazon Web Services. Senza contare gli altri investimenti di Bezos come il Washington Post nell’editoria o Blue Origin nell’industria aerospaziale. Amazon è quindi un attore economico ramificato in molte attività produttive che, sostengono i ricercatori di Into The Black Box, non si limita all’economia ma finisce per condizionare anche altre sfere come quella sociale e politica. Per questo motivo si parla di Amazon Capitalism di cui occorre indagare le caratteristiche. Infatti una simile società è capace di condizionare l’evoluzione del capitalismo esattamente come fanno imprese simili ad Amazon in altre parti del mondo, pensiamo ad Alibaba in Cina o MercadoLibre in America Latina. C’è una sorta di egemonia di questi attori economici che consente di parlare di amazonizzazione della società. Questa tesi viene supportata da tre ipotesi. La prima riguarda la capacità delle aziende Big Tech di essere il punto di sintesi delle operazioni del capitale, concetto coniato da Sandro Mezzadra e Brett Neilson su cui torneremo meglio in futuri lavori. Si tratta di tesi che dimostrano come all’interno della teoria critica si siano sedimentate analisi secondo cui non è possibile concettualizzare in termini univoci il capitalismo contemporaneo e sono focalizzate sulla molteplicità dei processi di valorizzazione contemporanei. La diversità nei processi capitalistici ha sempre fatto parte del modo di produzione capitalistico.
I media occidentali hanno portato a termine con successo un’operazione di grande importanza politica. La maggioranza silenziosa, il ceto medio e le classi lavoratrici sono stati plasmati: l’Occidente libero e democratico è sotto attacco; le autocrazie come Cina e Russia, le teocrazie come l’Iran, il terrorismo, ci minacciano; e la guerra è l’unica risposta salvifica. Come afferma Ori Goldberg, nella storia i genocidi hanno avuto come motivazione essenziale l’autodifesa.
L’impero Usa in declino, costretto alla militarizzazione del dollaro, muove le sue pedine negli scacchieri internazionali, indifferente al diritto internazionale. Con linguaggio orwelliano uccide la democrazia in nome di essa. L’esempio simbolico è stata la dichiarazione del presidente della Corea del Sud che ha promosso la legge marziale per difendere i propri cittadini dall’autocratica Corea del Nord. In Europa, mentre Blinken incita Zelensky ad abbassare la leva militare dai 25 ai 18 anni, la distruzione di un paese e di centinaia di migliaia di ragazzi è giustificata dalla necessaria difesa da Mosca. In Georgia e in Romania il risultato delle elezioni democratiche non è accettato. Vincono candidati che non vogliono svendere il loro Paese a interessi statunitensi ed europei.
Si parla di brogli elettorali senza fornire prove. Le interferenze russe avverrebbero attraverso TikTok. Sappiamo bene che il soft power è monopolio occidentale. Le quattro agenzie di stampa internazionali che governano i media sono asservite ai poteri nostrani e specializzate, con modulazioni differenti, in un copia e incolla di veline dei servizi.
Dal
precipitare degli eventi in Siria a oggi ho meticolosamente
scandagliato la stampa turca e curda, presente e passata, per
ricostruire perlomeno un
pezzo della verità, perlomeno fonti alla mano, ricostruendo
come il crollo di Assad sia percepito da questo lato della
faccenda.
Questione quanto più sotto i riflettori dal momento che moltissimi analisti hanno da subito messo la Turchia sul banco degli imputati, riconoscendola mandante di questo improvviso epilogo del governo siriano.
Tuttavia tutto ciò non trova riscontri oggettivi ed è piuttosto la facile suggestione per colmare quell’inevitabile vuoto di comprensione che si crea in ciascuno di noi. Insomma, se qualcosa non torna, è colpa dei Turchi.
Questo mio intervento è motivato dall’unico obiettivo di vederci meglio e di diradare qualche fumo. Ho vissuto anni in Turchia, paese al quale sono legato, e leggo il turco. Faccio questa premessa per scoraggiare chi voglia leggere queste righe come quelle di un difensore della politica turca, che in passato (vedi con l’Urlo a Tripoli) non ho avuto problemi a denunciare.
Piuttosto credo che un processo sommario alla posizione turca, per altro non suffragato quanto piuttosto frutto di suggestione, in questo momento favorisca quegli obiettivi secondari del conflitto in corso, ma non meno importanti, quali la rottura diplomatica tra i soggetti firmatari gli accordi di Astana (Turchia, Russia e Iran) e l’allontanamento della Turchia dai Brics.
E non voglio favorire senza motivo il raggiungimento di questo obiettivo.
Gli Stati uniti si preparano
all’insediamento di Donald Trump. Quella cerimonia, dice
Chris Carlsson, certificherà molte cose. La prima: il
neoliberismo e la
democrazia liberale, non solo negli Usa, sono morti. La
seconda: Trump e i suoi accoliti si preparano al grande
teatro della crudeltà per
umiliare e mettere “al loro posto” prima di tutto donne e
neri. La terza: dalla crisi delle democrazie emerge ovunque
un capitalismo
clientelare con un vasto apparato di sorveglianza
tecnologico per controllare il dissenso. La quarta: non
dobbiamo essere affranti e sentirci
impotenti, questo sistema che prende forma non funzionerà,
entrerà in crisi, probabilmente a partire dalle conseguenze
delle crisi
ambientale e climatica. “La sorveglianza ad alta tecnologia,
il mercato e la manipolazione delle menti possono arrivare
solo fino a un certo
punto. Alla fine la capacità umana di autonomia e resistenza
(e noia) sconfiggerà gli sforzi di autocrati imbranati che
non comprendono
la complessità sociale e pensano di poter imporre
l’obbedienza alla società attraverso la repressione e la
punizione. Questa roba
non funziona…”. Forse ha ragione Bifo: la democrazia borghese
è stata una trappola, aggiunge Carlsson, per chi pensava di
cambiare il mondo. Adesso non sappiamo quando, dove e come
emergeranno non solo una
resistenza efficace ma soprattutto una visione del mondo e
della vita che entusiasmerà tante persone, “abbastanza da
spingerle a
rovesciare il dominio di questa élite così platealmente
folle…”. “Alla stregua di quanto fa John Holloway io dico che
è la nostra umanità di fondo la base dei nostri desideri e
della capacità di trasformare radicalmente il nostro modo di
vivere e
di ripensare il modo in cui produciamo la nostra vita
insieme…”
Il politico
conservatore Enoch Powell, in un discorso all’autorevole Royal
Society il 23 aprile 1961 pronunciò queste parole:
“La vita ininterrotta della nazione inglese nell’arco di mille e più anni è un fenomeno unico nella storia: il prodotto di un insieme specifico di circostanze come quelle che in biologia si suppone diano inizio per caso a una nuova linea evolutiva. […] Da questa vita ininterrotta di un popolo unito nella sua patria insulare scaturisce, come se emergesse dal suolo d’Inghilterra, tutto ciò che appare così straordinario nelle doti e nei successi della nazione inglese. Tutto il suo impatto sul mondo esterno – con le prime colonie, la successiva Pax Britannica, il governo e la legislazione, il commercio e il pensiero – è scaturito da impulsi generati qui. Questa vita ininterrotta dell’Inghilterra è simboleggiata ed espressa da null’altro se non dalla sovranità inglese […] Il pericolo non è sempre la violenza e la forza: a esse abbiamo resistito prima e possiamo resistere ancora. Il pericolo può essere anche l’indifferenza e l’ipocrisia, capaci di dilapidare la grande ricchezza della tradizione e svilire il nostro simbolismo sacro solo per raggiungere qualche compromesso a buon mercato o qualche risultato evanescente”.[1]
Queste parole, che articolano in modo sintetico e mirabile, il ‘razzismo popolare’ così diffuso in Inghilterra è al fondamento del “nazionalismo imperiale” che connette in un unico inestricabile insieme idee sulla razza, senso di appartenenza ed ambizione di dominio. Si tratta di quello che l’autrice chiama “imperialismo liberale”, o che Tony Blair chiamò “Nuovo imperialismo liberale”, per giustificare nel 2003 la guerra in Iraq. Quella unione indissolubile, nutrita di ‘bipensiero’ alla Orwell, di ‘totalità disumana’ e ‘promessa di riforme’ che caratterizza l’universalismo liberale nella sua stessa costituzione.
Confrontarsi con questa storia di pratiche e idee, è oggi particolarmente importante, quando la mai scomparsa postura di legittimazione del diritto (ed il fardello) di portare al mondo l’emancipazione e la ‘libertà’ riprende il suo posto centrale alla vigilia della nuova Grande Guerra che si prepara e, per intanto, nelle “guerre locali” che proliferano.
Gli accadimenti in Siria sono stati così inaspettati e veloci che, diciamolo, probabilmente non stiamo affatto riuscendo a comprenderli bene – e oltretutto cerchiamo tutti, comprensibilmente, di coglierne il senso altrettanto velocemente, senza darci il giusto tempo per far sedimentare ciò che sappiamo, e per far emergere quel che ancora non sappiamo. Certo, ci sono degli elementi che difficilmente possono cambiare di segno, e sicuramente alcune macro-tendenze si confermeranno quali appaiono già adesso. È però probabile – o quanto meno assai possibile – che ve ne siano altri, rispetto ai quali stiamo forse traendo conclusioni affrettate, e applicando chiavi di letture inesatte.
Questo, pertanto, vuole essere un esercizio assolutamente ipotetico, un ulteriore tentativo di interpretazione a mente tiepida (ancora troppo presto per poter dire a mente fredda…), ma tutto sommato non meno di tanti altri che stiamo facendo negli ultimi giorni.
Partirò da un presupposto, sul quale mi sono spesso soffermato, ovviamente in termini generali, ovvero che non necessariamente ciò che accade deve essere letto in una chiave deterministica, in cui cioè ogni cosa accade in quanto prodotta dalla specifica volontà di qualcuno. Questo genere di chiave di lettura, che ovviamente si basa anche sul riconoscimento che vi sono precisi interessi (di questo o quel soggetto) affinché una determinata cosa si verifichi, resta comunque basato su un processo deduttivo, logico ma non necessariamente vero. Se A desiderava che B cadesse, e B cade, è stato A a spingerlo.
I vincoli di bilancio violati da tutti i Paesi europei e la nuova disciplina fiscale dell’Unione è già in crisi. E ora arrivano i pannicelli caldi della Bce e i diktat per il riarmo di Trump
Sono in vigore solo da pochi mesi, eppure le nuove regole di bilancio europee scricchiolano già come un vecchio rudere. Le precedenti regole fiscali dell’Ue erano state criticate e poi sospese anche perché a molti risultava pressoché impossibile rispettarle.
Dal 1998, hanno violato i vincoli di bilancio europei: la Slovenia nel 57% dei casi, l’Austria, il Belgio e la Spagna nel 61%, il Portogallo e la Grecia nel 70%, l’Italia nel 74%, la Francia nel 78%. Persino la Germania ha dovuto mettere in conto un 47% di violazioni di quei vincoli che i suoi governi hanno comunque accanitamente difeso in sede europea.
Come osservato anche dal Fondo Monetario Internazionale, un sistema di norme che viene così frequentemente disatteso rischia di perdere credibilità fino a implodere. Le nuove regole fiscali europee, approvate ad aprile, avrebbero dovuto ripulire questa macchia. Il problema è che, stando alle prime verifiche, le violazioni sembrano addirittura in aumento rispetto al passato. Non solo Italia, Francia, Belgio, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia e Romania sono già state sottoposte alla procedura per deficit eccessivo.
L’evoluzione
della situazione siriana è inevitabilmente destinata a
introdurre elementi di novità, non necessariamente previsti –
e che,
probabilmente, possono aiutare a comprendere alcune posizioni
attualmente assunte da parte di soggetti coinvolti.
Le questioni fondamentali sono essenzialmente due. La prima, è la partizione in atto nel paese, in almeno tre macro aree cantonali: quella occidentale, sotto il controllo dell’HTS, quella orientale, sotto il controllo delle forze curde, e quella meridionale, sotto controllo israeliano. Questa cantonizzazione della Siria fa ovviamente gioco sia agli USA che a Israele, perché non solo mina l’unità del paese arabo, ma rafforza la presenza politica e militare di entrambe nella regione. Ma taglia fuori dai giochi la Turchia, che si ritrova ad avere la stabilizzazione di un Kurdistan siriano ai propri confini, e per di più come protettorato statunitense.
Come risulta evidente dai primi passi, Al-Julani risponde chiaramente assai più agli interessi anglo-americani (suoi veri sponsor) che non a quelli turchi; i segnali pacificatori verso Israele da un lato (nonostante la massiccia campagna di bombardamenti in atto, che non accenna a finire), e l’apertura alla collaborazione, anche governativa, con le SDF, indicano chiaramente l’allineamento del potere islamista con i disegni americani.
Del resto, e per più di una ragione, Washington intende esercitare la sua influenza sul nuovo governo siriano, ma il suo alleato di riferimento restano (almeno per il momento) i curdi. I nodi da risolvere, in questo quadro, sono ovviamente i margini di autonomia che le SDF riusciranno a ritagliarsi, anche considerando che otterranno dei ministri nel governo nazionale (altra cosa destinata a irritare non poco Ankara…), e – parallelamente – come verrà risolta la questione del disarmo delle milizie (pretesa da Al-Julani). Considerato il prevalere degli interessi statunitensi, è probabile che entrambe le questioni siano risolte nel quadro di una qualche autonomia regionale, nell’ambito della quale le milizie curde diventano le forze armate territoriali.
Con l'avvento del globalismo neoliberista, la
democrazia, come mezzo per l'intervento politico egualitario
nell'economia, è caduta in
discredito. Su entrambe le sponde dell'Atlantico, sono state
le élite ad aprire la strada a questo processo. Vedevano la
democrazia,
tecnocraticamente, come "poco complessa"
a fronte della "accresciuta complessità"
del
mondo; propensa com'era a sovraccaricare lo Stato e
l'economia, oltre a essere politicamente corrotta a causa
della sua riluttanza a insegnare ai
cittadini "le leggi dell'economia".
Secondo tale linea di pensiero, la crescita non proviene dalla
redistribuzione dall'alto
verso il basso: da incentivi più forti al lavoro, ma dal basso
verso l'alto: in quella che è l'estremità inferiore della
distribuzione del reddito, attraverso l'abolizione dei salari
minimi e la riduzione delle prestazioni di sicurezza sociale;
e nella fascia più
alta, per contro, attraverso migliori opportunità di profitto
e di guadagno, sostenute da una minore tassazione. Il processo
che sottendeva a
tutto questo era una transizione verso un nuovo modello di
crescita, hayekiano, destinato a sostituire
il suo predecessore
keynesiano, nell'ambito della rivoluzione neoliberista. Come
avviene per ogni dottrina economica, queste idee devono essere
intese come
rappresentazioni camuffate di vincoli e opportunità politiche
derivanti da una distribuzione storicamente contingente del
potere, travestite da
manifestazioni di leggi "naturali".
La differenza è che nel mondo hayekiano la democrazia non
appare più come
una forza produttiva, ma come una macina al collo del
progresso economico. Per questo motivo, l'attività
distributiva spontanea del mercato
deve essere protetta dall'interferenza democratica di ogni
tipo di muraglia cinese o, meglio ancora, sostituendo la
democrazia con la
"governance globale". La
disintegrazione del modello standard del capitalismo
democratico nel bel mezzo dell'avanzare della
globalizzazione, è stata molto analizzata. Nel corso di circa
due decenni, dalla scomparsa del comunismo sovietico, il
neoliberismo ha fatto un
ritorno sorprendente: Hayek, a lungo ridicolizzato e deriso in
quanto leader di un culto settario, ha eclissato figure
importanti degli affari
mondiali, come Keynes e Lenin.
Nelle prossime settimane
c’è chi avrà un po’ di tempo da passare per sé. Per questo ho
pensato di consigliarvi alcune letture che spaziano
dalla narrativa alla saggistica. Quattro opere non troppo
impegnative, ma che squarciano il velo della narrazione
mainstream su una serie di argomenti
che sono d’attualità da decenni.
Iniziamo con un libro che è stato presentato a Villa Paradiso la scorsa settimana e che racconta delle torture che dei compagni del collettivo politico autonomo della Barona, un quartiere di Milano hanno subito dalla polizia, dell’ignavia complice della magistratura, a seguito delle indagini sull’uccisione del gioiellere Torreggiani, di cui come chi co segue sa bene è stato incolpato Cesare Battisti, che oggi sconta l’ergastolo nelle carceri italiane dopo essere stato catturato in modo illegale in Bolivia e deportato in Italia, mostrato come un trofeo da un ministro pentastellato e sotto il ludibrio dei media e di una politica bipartisan forcaiola.
Il titolo è: Sei giorni troppo lunghi, autore Umberto Lucarelli, edizioni Milieu 2024, 112 pagine, € 13,50.
Qualcuno penserà che la tortura e le esecuzioni sommarie come quelle dei brigatisti in via Fracchia a Genova, siano retaggio di quel passato. In realtà questo sistema di potere rimetterà in campo le stesse dinamiche repressive se la situazione lo richiederà. Questo è bene saperlo. Ma anche la pratica ordinaria di repressione della “devianza” è da sempre parte del dna di polizia e carabinieri. Nella prefazione di copertina si legge: “I fatti risalgono a quaratacinque anni fa, ma da allora nulla è cambiato. Si continua tranquillamente a torturare e a uccidere, sia nelle carceri sia nelle questure, come confermano le cronache recenti da Cucchi ad Aldrovandi” Aldo Bianzino, Riccardo Rasman e altri aggiungo io, in un rosario di pestaggi e abusi violenti da parte di secondini e poliziotti. L’ultimo episodio, proprio a Milano, riguarda l’inseguimento di due ragazzi e la strana morte per strada in scooter di uno di questi: Ramy Elgami, e di cui sono stati poi incriminati i carabinieri di una gazzella. Episodio che ha dato vita a una vera e propria rivolta popolare, spacciata dalla stampa come criminalità dello spaccio e il Corvetto alla stregua di una “pericolosissima” banlieu.
La fulminea caduta del regime di Assad ha consegnato alla Turchia e agli USA una vittoria tattica che potrebbe trasformarsi in un complesso rompicapo strategico. Gli Stati Uniti sono esposti al rischio di un “catastrofico successo”, come quello profilatosi dieci anni fa e non ottenuto durante la guerra civile per via dell’intervento di Russia e Iran a sostegno di Assad. Mentre Erdogan si trova nella delicata posizione di dover gestire il successo in modo da non compromettere i faticosi equilibri regionali costruiti negli ultimi anni, in particolare il recente asse Ankara-Mosca-Teheran.
Questo triangolo strategico, emerso negli ultimi anni come contrappeso all'influenza occidentale in Medio Oriente, si è consolidato attorno a interessi convergenti: la comune opposizione all'egemonia americana nella regione, la gestione coordinata delle risorse energetiche, e la condivisa preoccupazione per i movimenti separatisti. La partnership, pur non priva di tensioni, ha permesso ai tre attori di coordinare le proprie politiche su questioni chiave, dalla gestione dei flussi commerciali alle risposte alle sanzioni occidentali.
La questione curda emerge come il solito nodo spinoso. Il crollo del regime di Damasco ha creato un vuoto di potere nelle regioni settentrionali della Siria, dove le forze curde tenteranno di consolidare la propria autonomia. Una prospettiva inaccettabile per Ankara. Ma un intervento militare turco troppo aggressivo in queste aree rischierebbe di compromettere il delicato rapporto con Russia e Iran.
A precisa domanda, ieri, il ministro turco per le risorse naturali, ha risposto così a chi riportava in attualità il vecchio progetto del gasdotto Qatar-Turchia (via Siria): “Per una Siria che ha raggiunto unità e stabilità, perché no?” Ha aggiunto: “Se ciò accade, la rotta deve essere sicura. Speriamo che lo sia, perché è questo il nostro desiderio”. Di cosa si tratta?
Alcuni analisti avevano tempo fa indicato questo progetto, rifiutato ai tempi da Assad, come il vero sottostante l’intero sviluppo di questi sanguinosi anni di conflitto in Siria operato con le milizie jihadiste. L’anno scorso, dopo 12 anni, la Lega araba aveva riammesso Assad nel proprio consesso a maggioranza, in deciso dissenso e contrarietà proprio il Qatar. Altresì, vengono segnalati diversi tentativi recenti di Erdogan di provare a chiudere un accordo con Assad, sempre rispediti al mittente.
Terzo indizio (incerto) non è chiaro se l’aggregazione HTS di al-Jolani, dopo le numerose giravolte che l’hanno portata dall’area al Qaida a qualcosa che ancora non è chiaro, possa o meno essere iscritta alla Fratellanza musulmana -secondo alcuni analisti sì-, notoriamente sponsorizzata proprio da Qatar-Turchia. L’intero conflitto siriano inteso come “guerra civile” (quindi come logica del suo versante interno) risale proprio alla totale contrapposizione tra partito baathista al potere con colpo di stato militare e la FM (strage di Hama, tra 10.000 e 25.000 morti).
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Jeremy Kuzmarov: Sette ottobre, è chiaro che non ci è stata detta la verità
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Se i margini di profitto delle grandi imprese si riducono mentre si alzano i rendimenti finanziari l’economia si finanziarizza a discapito della capacità produttiva reale. La finanza parassitizza l’economia reale. Ovviamente non potrà continuare per molto. La guerra è allo stesso tempo effetto e causa di questo stato di cose
Stellantis è nata il 16 gennaio
2021 dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles (FCA) e
Groupe PSA. La nuova entità era diventata uno dei principali
produttori
automobilistici al mondo, con un portafoglio di 15 marchi in
tutto il mondo, tra cui Fiat, Peugeot, Jeep, Alfa Romeo, e
Maserati, 250.000 dipendenti e
un fatturato di 190 miliardi di euro.
È scoppiato il bubbone della profonda crisi che sta attraversando il colosso automobilistico, in termini di calo delle vendite e aumento ingestibile delle scorte che ha portato alle dimissioni di Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis. Il valore delle azioni è crollato di oltre il 50% rispetto al picco del 2024. Il licenziamento coatto dell’amministratore delegato ha fatto seguito a uno scontro interno con il consiglio di amministrazione che gli ha comunque garantito una buon’uscita da 120 milioni di dollari e il mantenimento nel consiglio di amministrazione.
È di oggi l’annuncio di un piano ambizioso per rilanciare la produzione automobilistica in Italia, che dovrebbe vedere la nuova Fiat 500 presso lo stabilimento di Mirafiori, a Torino, la produzione della Panda nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, in Campania, e una triplicazione dei volumi di produzione a Melfi, in Basilicata. A Cassino, nel Lazio, il gruppo promette l’avvio le linee per tre nuovi modelli di Alfa Romeo. Per sostenere questo piano, Stellantis ha stanziato 2 miliardi di euro di investimenti, dichiarando di non aver richiesto alcun supporto economico da parte dello Stato italiano.
A contribuire alla crisi del gruppo c’è sicuramente stata la minore attenzione verso i segmenti produttivi più tradizionali che in passato avevano decretato il successo del gruppo, a favore della transizione troppo veloce verso l’elettrico che ha causato prezzi troppo elevati delle auto elettriche e standard di qualità, sicurezza e sostenibilità ambientale assai discutibili.
Nelle
guerre in corso l’orrore, giorno dopo giorno, è addomesticato,
reso tollerabile perché evocato come notizia tra le notizie,
come
accadimento quotidiano e usuale: la stessa parola guerra
finirà con essere rubricata accanto a voci come borsa, sport,
cronaca nera e di
costume. Le tante testimonianze di reporter e giornalisti
esposti al pericolo ci trascorrono dinanzi agli occhi, con la
loro immensa gravità,
senza che l’indignazione dal singolo si estenda alla
moltitudine, senza che il sapere del dolore sconfinato si
trasformi in un grido, senza che
la conoscenza diventi denuncia assidua e corale delle
responsabilità.
E anche laddove alcune parole potrebbero avere in sé una più adeguata corrispondenza alla sconfinata violenza messa in atto, si ricorre ad attenuazioni, a distinzioni, a rassicuranti comparazioni storiche: la parola genocidio, usata per indicare quel che accade a Gaza, è apparsa e continua ad apparire a molti impropria (anche se il Papa e alcune inchieste delle Nazioni unite l’hanno adoperata). Un’anestesia del tragico permette di non introdurre il turbamento e l’angoscia nel ritmo delle giornate e nelle quotidiane occupazioni.
Se nei decenni trascorsi alcune guerre provocavano tra intellettuali, scrittori, artisti, forti prese di posizione, appelli condivisi, analisi – penso a quel che accadde con la prima guerra del Golfo – ora l’indignazione non trova le vie di una sua rappresentazione diffusa. E persino le condanne emesse, su certificata e incontestabile documentazione, da una Corte internazionale di giustizia suscitano riserve, distinzioni, tentativi di neutralizzazione.
Eppure quel che accade continua a mostrare un’abiezione dell’umano propria dei tempi più tragici della storia. Sui vari fronti della guerra in Ucraina in tre anni ci sono state migliaia e migliaia di vittime, da una parte e dall’altra, e la distruzione di strutture non solo militari ha portato una devastazione di regioni e di paesaggi e di relazioni tra comunità della stessa lingua difficilmente ricomponibili.
Cambia il regista, cambia il copione, l’attore si adegua. Se ne va Biden, sta per arrivare Trump (che ha figli sistemati in altri business, senza stipendi ucraini) e Zelenskij finalmente “scopre” quel che tutto il mondo ha capito da un pezzo: non può vincere la guerra, non può neanche recuperare un pezzetto del Donbass o della Crimea e – siccome non può pubblicamente dire che rinuncia ai territori che sono costati centinaia di migliaia di morti – si affida alla diplomazia futura.
A rendere decisamente meno “teatrale” il passaggio c’è sicuramente la situazione sul terreno, con l’esercito russo che avanza a velocità di crociera negli oblast russofoni e altrettanto fa nel Kursk, il pezzetto di territorio “invaso” dagli ucraini alla ricerca di un “contrappeso” da mettere sul tavolo dell’inevitabile trattativa.
Meglio fermarsi il prima possibile, insomma, piuttosto che attendere una situazione ancora peggiore. Come accade in tutte le guerre ormai perdute.
Cambia il copione, ma il nuovo testo non è ancora stato distribuito a tutta la troupe, sembra. E quindi c’è chi va avanti come prima, come gli ultimi soldati giapponesi nelle isole sperdute…
Certamente non è ancora arrivato ai media italiani, che da un lato ci ammanniscono la rivendicazione dell’attentato di Mosca contro il generale Kirillov come una “grande azione” contro un “obiettivo legittimo” (definizione del sedicente laburista Starmer, sempre più in bilico sulla poltrona da primo ministro britannico, ma patetico “guerriero indomabile” quando parla di Ucraina), dall’altro non sanno più che inventarsi per “condire” quel che avviene sul fronte militare, dove non c’è una buona notizia che sia una.
Il crollo delle forze armate di Bashar al-Assad in Siria e la presa di potere da parte di un’alleanza di varie milizie islamiche presenta molte analogie e per certi versi supera gli eventi del 2021 in Afghanistan, con l’offensiva finale dei talebani e l’umiliante ritiro americano.
In un articolo pubblicato in maniera non richiesta, il 23 febbraio 2016, sul noto sito Politico, dopo l’intervento della Russia in Siria dell’anno precedente, Robert Kennedy Jr. rivela che la CIA ha iniziato il suo coinvolgimento negli affari siriani nel 1949, quasi subito dopo la dichiarazione di indipendenza del Paese.
Nel saggio “ Perché gli arabi non ci vogliono in Siria”, l’ex senatore democratico e futuro segretario del gabinetto di Donald Trump spiega come il presidente eletto siriano Shukri-al-Quwatli sia riluttante ad approvare il progetto dell’oleodotto transarabo, che prevede di collegare i giacimenti petroliferi dell’Arabia Saudita alle strutture portuali libanesi attraverso la Siria. In occasione della sconfitta del Paese nel conflitto con Israele, gli americani stanno organizzando un colpo di Stato per sostituire al-Quwatli con il colonnello Husni al-Za’im.
Ma, come descrive lo storico della CIA Tim Weiner nella sua opera Legacy of Ashes, prima ancora che al-Za’im abbia il tempo di sciogliere il parlamento e ratificare il progetto dell’oleodotto, viene rovesciato dal colonnello Sami al-Hinnawi, che viene presto rovesciato anche dal colonnello Adib Shishakli.
La questione cruciale nella crisi russo-ucraina in queste ultime settimane del mandato di Joe Biden sembra avere a che fare con quanto in là Washington e Kiev intendono andare nel superamento delle “linee rosse” poste da Mosca e, dall’altro lato, dove arriverà la pazienza strategica della Russia per non fare esplodere il conflitto con la NATO in attesa di comunque difficili sviluppi diplomatici una volta che Trump si sarà reinsediato alla Casa Bianca. Anche se l’apertura di un qualche dialogo non dovesse essere boicottata interamente da qui al 20 gennaio prossimo, le prospettive di pace restano complicate e il percorso appare molto stretto per mettere d’accordo le legittime richieste del Cremlino con i tentativi di evitare una sconfitta catastrofica da parte dell’Occidente e del regime di Zelensky.
L’assassinio di martedì mattina del generale russo Igor Kirillov e di un suo aiutante a Mosca si inserisce in questo scenario, essendo stato con ogni probabilità pianificato dall’intelligence ucraina (SBU). Proprio da Kiev era arrivata peraltro una sorta di rivendicazione preventiva il giorno prima dell’operazione, quando Kirillov era stato accusato pubblicamente di essere un criminale di guerra, attribuendogli, senza nessuna prova, la responsabilità di una serie di attacchi in Ucraina con armi chimiche.
Ucciso il generale russo che presiedeva alla difesa dalle armi chimiche. I biolab ucraini e le funeste prospettive del partito della guerra
L’assassinio del comandante russo che sovraintendeva la difesa dalle armi chimiche, Igor Kirillov, avvenuto nel cuore di Mosca, è di fatto la risposta del partito della guerra alle insistite dichiarazioni di Trump sulla necessità di aprire negoziati sulla guerra ucraina.
I servizi segreti ucraini si sono affrettati a rivendicare l’omicidio, evitando così che i russi potessero addebitarla ad altri. Resta che è davvero difficile credere che “l’operazione in stile Mossad” (Dagospia) sia opera di Kiev, ma tant’è (gli americani hanno dichiarato, al solito, di non saperne nulla).
“Non si può dire che questo leader militare russo abbia avuto un’influenza significativa sulla guerra in Ucraina – scrive, infatti, Strana – E la sua eliminazione, molto probabilmente, ha scopi diversi dalla ‘vendetta’”.
Ancora da Strana: “Si tratta di una provocazione delle autorità ucraine e del ‘partito della guerra’ occidentale con l’obiettivo di spingere la Russia a intensificare il conflitto per rendere impossibile l’avvio del processo di pace sotto Trump e addossarne la colpa a Mosca, dal momento che Kiev non può contraddire apertamente Trump”.
Il libro di Pierpaolo Ascari Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino è una scanzonata, irriverente e, al tempo stesso, erudita e sagace ricostruzione di un pezzo di storia americana del Secondo Novecento. Una lettura e una interpretazione dell’American Way of Life attraverso un fitto intermondo fatto di film, fumetti, pop culture e apocalissi sempre annunciate ma mai effettivamente accadute. Un racconto fatto di raggi gamma, virili padri di famiglia che costruiscono rifugi anti-atomici come se fossero mobili Ikea, salvifiche massaie che hanno cura a che tutto sia in ordine per il giorno del giudizio e tanti altri baluardi piccolo-borghesi del “ricorso millenaristico all’ultimo consumo” (p. 36), in una sorta di teologia politica in salsa yankee popolata da leviatani d’ogni genere e specie (Godzilla su tutti) per “pensare l’impensabile” (p. 49), la fine di mondo appunto.
Ma dire “pezzo di storia americana del secondo Novecento” vuole anche dire “pezzo di storia europea al di qua della cortina di ferro”, e raccontarla significa, come in un negativo fotografico, narrare un “pezzo della nostra storia”. Ed è questa, tra le molte, una chiave di lettura possibile del libro di Ascari: perché i livelli che lo attraversano, e che l’autore intreccia, sono molteplici, e tutto un rizoma semantico-narrativo lo attraversa, lo fora e lo pervade.
La
volontà libera – sapersi nell’assoluto – può volere solo in
quanto partecipa di quella verità, è
sussunta sotto di essa, e ne consegue.
L’eticità è lo spirito divino in quanto dimorante
nell’autocoscienza, nella sua presenza
effettiva. Se la volontà è pensata come il contenuto della
libertà, e si parla
pertanto di volontà libera, questa volontà non può essere
considerata come esterna, come proveniente da fuori. Se così
fosse, e il volere venisse dall’esterno, la volontà non
potrebbe pensarsi come volontà libera, ma sempre e soltanto
dipendente da
questo fuori. Dunque, tra il contenuto e la forma deve
esserci comunione, identità – auto-coscienza. Questa comunione,
dice Hegel (Enciclopedia, Spirito oggettivo §552), si
riscontra nel seno stesso della religione cristiana, nella
quale non è l’elemento
naturale a costituire il contenuto di Dio, o a entrare in
tale contenuto come suo momento: il contenuto è Dio, saputo
in spirito e
verità.
Nella religione cristiana è Dio che si fa uomo. È Dio stesso che si conosce come uomo – o è l’uomo che, in Gesù, si conosce come Dio stesso, che si fa Universale Concreto (concreto, cioè cresciuto insieme, unito nello stesso). Il Finito – l’uomo empirico – è unito (è la stessa identica cosa) dell’Infinito – l’uomo logico. In Gesù la libertà – ovvero l’essere sciolto da ogni dipendenza, l’assoluto, l’infinito, la sovranità – proviene da sé stesso, perché è egli stesso a essere Dio.
Non è un oggetto esterno, un feticcio, un’immagine, un totem a dettare la legge, a dire cosa è vero e giusto. La verità sgorga direttamente dal cuore – la verità è la verità del cuore, e al centro del cuore c’è Dio.
L’uomo può ora specchiarsi in Gesù, in quanto Gesù è Dio che si fa uomo, vive, si fa esperienza. Ognuno può esperire l’assoluto, specchiarsi in Gesù e apprendere di essere anche lui figlio di Dio, di avere un cuore e di avere al centro del cuore questa verità, la verità di essere, come tutti gli altri uomini, figlio di Dio. Non ha bisogno di ricevere dal di fuori, dal padre, dalla natura, delle condizioni economiche e sociali esterne, dal feudatario, dalla corporazione, dalla famiglia, dal re, dal principe, eccetera; non ha bisogno che un potere esterno gli dica chi è veramente e quale è il suo rapporto rispetto agli altri, in quale struttura è collocato e può agire.
Presentazione del libro “Lessico del neoliberalismo. Le parole del nemico”, Rogas Edizioni, 2024
Prima di entrare
nel merito dei contenuti del libro, devo dare una
indicazione preliminare, importante quando si presenta un
libro. I libri si possono dividere in due
categorie: i Libri (con la elle maiuscola) e i libroidi (con
la elle minuscola). Quindi comincio col dire che questo è un
Libro. La
classificazione non è mia. È di Carlo Galli. Mi è piaciuta e
la faccio mia.
Galli però non ha dato una definizione di libro e di libroide. Io la vedo così: leggere un Libro è come indossare un paio di occhiali speciali che ti fanno vedere qualcosa che senza quegli occhiali non avresti visto, vedi qualcosa di nuovo e di interessante, qualcosa che ti arricchisce. Un libroide invece non ti fa vedere niente di nuovo, niente che non fosse già visibile e già visto. Ricordo la recensione che fece un autorevole barone accademico che voleva stroncare una monografia di un giovane ricercatore. In realtà voleva stroncare i maestri di quel ricercatore e la loro scuola: voleva colpire il ricercatore per colpire i suoi maestri. Disse il barone: il libro propone idee nuove e idee interessanti; purtroppo però le idee interessanti non sono nuove e le idee nuove non sono interessanti. Parole come pietre: libroide colpito e affondato.
Detto che “Lessico del neoliberalismo” è un Libro e non è un libroide, devo evidenziare cosa si vede di nuovo e di interessante attraverso questo libro; cosa consentono di vedere gli occhiali speciali offerti dal libro. Per arrivarci devo fare una premessa.
Un anno fa Marco Baldassari e Marco Adorni mi parlarono del progetto editoriale che poi ha dato vita a questo libro. Il progetto di cui mi parlarono consisteva nell’elaborazione di un glossario del neoliberalismo. Mi invitarono a portare un contributo e mi affidarono il lemma “concorrenza”. Mi è parsa subito un’idea originale e molto interessante.
Perché ci stiamo
avvicinando al baratro di un conflitto senza ritorno
nell’indifferenza generale? Perché la guerra in Ucraina e il
massacro in Palestina
hanno prodotto reazioni neppure minimamente paragonabili a
quelle che abbiamo visto in altre simili circostanze? Perché
il movimento per la
pace vive di rare e piccole manifestazioni e non scuote le
coscienze?
Questi interrogativi non sono all’ordine del giorno di alcuna forza politica, di alcun sindacato, di alcuna istituzione, di alcuna chiesa, sfiorano appena il mondo degli intellettuali, sembrano poco presenti persino tra le forze che meritoriamente quanto stentatamente provano a fare qualcosa.
Eppure è solo dalla risposta a queste domande che può nascere una lotta che abbia qualche possibilità di successo.
In prima battuta viene da pensare che l’assenza di partecipazione, emotiva oltre che politica, a eventi tanto tragici sia dovuta in gran parte al fatto che nel sentire comune vengono viste come guerre a noi vicine, ma non così tanto, che si tratta di due porzioni di mondo che non ci toccano direttamente, che sono destinate a restare in quegli ambiti, che non è facile farsi un’idea precisa di dove stanno le ragioni e dove i torti, perché ognuno dei contendenti almeno una piccola parte di ragione in fondo ce l’ha. E poi, comunque, finiranno là dove sono iniziate, perché nell’era nucleare non è immaginabile una guerra più grande, non è pensabile che ci sia qualcuno così folle da innescare un conflitto che metta a rischio l’intera umanità.
Considerazioni apparentemente ragionevoli come queste erano diffuse anche in un passato non molto lontano quando, però, di fronte a guerre più vicine, come quella nell’ex Jugoslavia, o più lontane, come quella in Iraq, la voglia e la capacità di reagire furono ben diverse. Dunque la risposta va cercata altrove.
Va cercata partendo da una premessa che è la sola che possa dare un senso alla battaglia per la pace contro i costruttori di guerre.
Difficilmente un omicidio poteva suscitare una più vasta approvazione sociale di quello attribuito a Luigi Mangione. Analizzando l’impressionante fenomeno di vera e propria acclamazione in corso negli Stati Uniti (decine di migliaia di messaggi di sostegno, magliette, cappellini, spille, canzoni con le parole “deny, defend, depose” e “Free Mangione”, raccolte di fondi per le spese legali dell’accusato, boicottaggio del McDonald’s in cui è stato arrestato…), un consulente del “Network Contagion Resarch Institute” ha scritto queste righe gustose: «L’uccisione di Thompson viene accolta come una specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe».
Per comprendere un tale fenomeno bisogna capire innanzitutto chi era l’ammazzato.
Solo l’anno scorso, UnitedHealthcare, di cui Brian Thompson era l’amministratore delegato, ha fatturato 22 miliardi di dollari di profitti fatti letteralmente sulla pelle di milioni di persone. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%, seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%). Le tre formule standard – rese celebri dai proiettili con cui Thompson è stato tirato giù dalle spese – attraverso le quali la società nega la copertura assicurativa per le cure mediche non valgono soltanto per interventi chirurgici particolarmente costosi.
La nomina del Segretario del Consiglio dei Ministri, su decisione del capo terrorista Ahmed Sharaa (già al Joliani), è avvenuta nell’Hotel Quattro Stagioni di proprietà del Qatar e in presenza delle di esso autorità diplomatiche festanti.
La Repubblica Araba Siriana aveva un sistema presidenziale che non prevedeva un Primo Ministro, titolo ora assegnato a Mohammed al Bashir. Lo vedete qui all’ombra della nuova bandiera siriana. Che è quella che i francesi imposero alla nazione (che a suo tempo comprendeva Libano, Giordania, Siria e Palestina) quando era una propria colonia.
Mohammed al Bashir, alto dirigente della Fratellanza Musulmana, di cui sono membri il Qatar e la Turchia e che dalla sua fondazione è collegata al governo e ai Servizi britannici e, dunque, a quelli USA, condivideva con Al Jolani la direzione dell’organizzazione jihadista Hayat Tahrir al Sham (HTS) fin da quando, nel 2011, si chiamava Al Qaida e poi Al Nusra e, in altre aree, ISIS-Stato Islamico. La sua prima apparizione pubblica è avvenuta in una presentazione allestita dal MI6, il Servizio Segreto Regno Unito
Da autoproclamato governatore della provincia siriana di Idlib, strappata al controllo di Damasco grazie al soccorso dell’esercito turco, al Bashir aveva imposto ai 3 milioni di abitanti della provincia una dittatura jihadista. Si è trattato di un regime terrorista, brutale, vessatorio e che ha espropriato la popolazione e le sue autorità elette di ogni diritto e potere. Tutte le attività economiche della provincia venivano sequestrata dagli occupanti e gestite da miliziani jihadisti e soldati neo-ottomani nell’interesse loro e della Turchia.
Aggiornati i dati dell’Atlante che monitora flussi finanziari e patrimoni che sfuggono al fisco. Un’iniziativa che ha raccolto interesse ad alti livelli
Come stanno nel mondo l’evasione, l’elusione fiscale, la ricchezza nascosta al fisco, che impoveriscono gli Stati e fanno i ricchi sempre più ricchi? Purtroppo bene. Almeno a giudicare dai dati di “Atlas of the Offshore World”, l’Atlante dei capitali offshore.
L’Atlante del mondo offshore è l’iniziativa promossa congiuntamente circa un anno fa da Eu Tax Observatory, l’istituto di ricerca diretto dall’economista francese Gabriel Zucman (una delle voci più ascoltate al mondo in fatto di rapporti tra tassazione e disuguaglianze), con lo Skatteforsk-Centre for Tax Research dell’università norvegese NMBU.
L’Atlante è composto da quattro insiemi di dati. Il primo monitora a livello globale il fenomeno cosiddetto del profit shifting (spostamento degli utili). È il modo in cui le multinazionali pongono in essere l’“ottimizzazione fiscale”, per usare il loro gergo. Cioè attraverso cui cercano di pagare meno tasse possibile, giostrando utili e perdite fra le loro sedi distribuite ai quattro angoli del pianeta in base alla convenienza dei regimi fiscali. Il secondo riguarda la ricchezza finanziaria offshore, cioè quella “occultata” nei paradisi fiscali.
Rita El Khayat: Lo schiaffo. La memoria di una donna araba tra colonialismo e resistenza, Mediter Italia Edizioni, Palermo, 2024
Queste mie riflessioni non vogliono essere una recensione dell’ultimo lavoro della El Khayat - Lo schiaffo - ma il mettere in evidenza alcuni concetti espressi nel libro, che aiutano a comprendere pagine di storia passata che continuano a creare il presente, ma soprattutto farla conoscere meglio al pubblico italiano. Far conoscere una grande intellettuale, versatile e molto coraggiosa, che pensa e scrive da un’altra cultura, da un altro punto di vista. Rita El Khayat non è una donna che vive e lavora negli Stati Uniti o in Europa e da lì pensa e scrive. Lei pensa, vive e lavora in un paese del Nord Africa, il Marocco.
La El Khayat con questo nuovo lavoro cerca far comprendere il colonialismo in Marocco, e lo fa partendo da una sua esperienza personale, quando era una piccola scolara, era l’unica araba della classe. Un giorno viene tirata fuori da una fila di bambini e viene presa a schiaffi dall’insegnante. Non aveva fatto nulla, “ero un’araba o, meglio, ero solo un’araba che poteva essere ingiustamente punita, senza che nessuno battesse ciglio o senza il rischio di provocare una ribellione, per quello che, peraltro non avevo commesso. Potevo solo piangere”. Era stata punita lei al posto di chi era agitato e urlante. L’insegnante voleva calmare la classe.
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1. Il
deprimente riflesso dei media occidentali – ai quali ci
sforziamo di sfuggire quanto possibile – ci condurrebbe alla
più profonda
depressione, se non fossimo soccorsi dalla fede nell’avanzare
dell’autocoscienza dell’uomo nella storia, poiché nel tempo
breve non v’è alcuna speranza di intravedere nemmeno l’ombra
di un orizzonte più sereno. Più vivo –
affermava G. B. Shaw – più sono convinto che questo
pianeta sia usato da altri pianeti come manicomio
dell’universo. Ed
è difficile dargli torto. Eppure, se occorre dar senso al
tempo che rimane da vivere, esso è quello di distruggere con
l’arma
della verità tutto ciò che può essere distrutto.
Non passa giorno che Israele non uccida intenzionalmente giornalisti palestinesi a Gaza[1] (196 negli ultimi 14 mesi, tra i 45.000 palestinesi uccisi e 150.000 feriti!), mentre impedisce a chi è fuori di entrare nella Striscia per nascondere i disumani massacri di cui si rende colpevole davanti all’umanità, alla giustizia internazionale, all’etica delle nazioni e alla storia, protetto e armato dai loro complici occulti, gli Stati Uniti d’America.
In Siria, in contemporanea, l’esercito d’Israele, che insieme ai conniventi americani e turchi, ha dato il via libera ai tagliagole jihadisti, si espande oltre il Golan – che occupava illegalmente dal 1967 – e invade altre terre siriane (che B. Netanyahu dichiara non verranno restituite mai più!) nel garbato silenzio di Usa ed Europa, vocianti propugnatori del Diritto Internazionale. Non solo, mentre sulla carta firma il cessate il fuoco con Hezbollah, lo Stato Ebraico non smette di bombardare villaggi libanesi già martoriati, facendo ogni santo giorno decine di vittime. Tutto ciò sotto lo sguardo appagato della presidente della Commissione Ue, la tossica von der Leyen, caporal maggiore del cupo esercito Nato e la cui unica caratteristica degna di nota è l’obbedienza al globalismo atlantico. Nella Nato, si pensava di aver toccato il fondo con il tramonto di Jens Stoltenberg, dal nome altamente evocativo, ma non è così! Al suo posto quale Segretario Generale abbiamo ora tale Marc Rutte, anch’egli con un nome onomatopeico, che dispone per nostro conto di ridurre gli stanziamenti a pensioni e sanità per produrre armi destinate, secondo cotanta testa, a sconfiggere la Russia!
Negli
anni Settanta del secolo scorso due eventi di notevole
importanza nella cultura italiana furono l’approdo di Ludovico
Geymonat al materialismo
dialettico e il costituirsi attorno al filosofo torinese, il
quale da tempo insegnava presso l’Università Statale di
Milano, di una
scuola che sostenne un nuovo approccio alla filosofia
marxista, rilanciando un tema tradizionalmente poco
frequentato in Italia.
1 Riflettere sul significato, sul valore
e anche sui limiti di questa esperienza culturale è necessario
non solo per
tornare a dipanare, nell’attuale congiuntura ideologica e
teorica, il filo rosso del materialismo dialettico engelsiano
e leniniano, ma anche
per dimostrare, in primo luogo, che il marxismo ha un nucleo
filosofico proprio e indipendente che si sviluppa in relazione
alla lotta teorica, quindi
in ultima istanza in relazione alla lotta di classe, e, in
secondo luogo, che esso è in grado di conservare la sua
autonomia nella misura in
cui si sviluppa sulle proprie basi.
Questa specificità e originalità del modo di concepire e di
praticare la
filosofia è un tratto saliente del marxismo, che non può
venire meno senza che venga meno la sua stessa esistenza come
filosofia: da qui
nasce la necessità di riprendere in esame la concezione
geymonatiana del materialismo dialettico a partire dalla
individuazione della
centralità di due testi quali Materialismo ed
empiriocriticismo e i Quaderni
filosofici
che si possono considerare terreni elettivi
per saggiare il significato e il valore di quella concezione.
In effetti, il primo di essi, come è ben noto, ha conosciuto nel ‘marxismo occidentale’ una tale ‘sfortuna’ (peraltro simmetrica alla ‘fortuna’ dei Quaderni filosofici) che, già per questo solo motivo, una simile sorte richiederebbe una specifica e approfondita riflessione (per converso, come è altrettanto noto, ha conosciuto la massima auge nel marxismo orientale): comprendere e spiegare quale precisa funzione teorica abbia svolto il suo rifiuto, parziale o totale, significherebbe scrivere un capitolo non secondario della storia del marxismo. Sennonché il problema di fondo, che sottostà all’uno come all’altro caso, è lo stesso: il problema cioè della concezione leniniana della scienza, che si sdoppia nei due distinti problemi del rapporto tra scienza e filosofia, da una parte, e del rapporto tra scienza e politica, dall’altra.
Non fosse che Israele si è presa, per tenersela in vista del Grande Israele, una bella fetta della Siria e che ne ha distrutto l’intero dispositivo militare, il protagonista assoluto del nuovo assetto della regione dovrebbe essere individuato in Erdogan e nei suoi propositi geopolitici.
Per questi è innegabile che, al di là del volatile e transitorio utilizzo che gli USA (ora presenti in Siria con migliaia di militari e tre grandi basi) hanno fatto dei curdi per consolidare occupazione e sfruttamento delle risorse economiche strategiche della Siria, condizionandone in tal modo ricostruzione e ogni futura mossa di chiunque se la mastichi, l’intesa operativa tra Washington e Ankara è solida e strategica.
Conta ormai poco, il mercenariato curdo e sono del tutto strumentali gli accordi che gli USA ci hanno stretto quando si trattava di preparare il terreno alla frammentazione della Siria e alla conquista delle sue regioni economicamente determinanti. Mercenariato sacrificabile alla prima occasione, come succede presto o tardi a tutti i portavivande dell’operazione unipolare globalista. Non hanno potere e tanto meno potere di ricatto. Sono serviti a contribuire alla destabilizzazione della Siria, a fare da sponda ai jihadisti e ai loro sponsor dall’altro lato del campo di battaglia, Israele. Ne sanno qualcosa i curdi del tempo di Saddam.
Ultimo sfregio a Kiev - La catena di comando dell’Alleanza atlantica pianifica la continuazione della guerra assegnando ai vari Paesi membri i compiti e fissando quante e quali risorse ognuno di essi deve dedicare alla difesa
Con l’intervista al quotidiano Le Parisien, il presidente Zelensky ha dichiarato la capitolazione militare dell’Ucraina. Nel nostro piccolo, l’avevamo annunciata tre anni fa, durante l’invasione, senza palla di vetro ma con un filo di ragionamento. Sarebbe bastato quello a evitare all’Ucraina mezzo milione di soldati eliminati e 10 milioni di cittadini scappati all’estero. La media di 14 mila soldati e 280 mila cittadini perduti, al mese, per anni. Ed è questo dato nudo e crudo che oggi dovrebbe far ragionare chi sta decidendo la continuazione a oltranza della guerra. Ma in quei giorni Zelensky e chi lo appoggiava dandogli armi e idee fantasiose e disastrose, ma comunque criminali, non volevano ragionare. Per questo siamo stati imbottiti di stupidaggini a tutti i livelli, mentre si tenevano opportunamente nascoste tutte le vulnerabilità di una nazione approntata e addestrata per la guerra nei venti anni precedenti, una guerra impari contro i suoi stessi cittadini. Una guerra militare e paramilitare, di polizia e bande armate contro i cittadini autonomisti e una guerra civile contro tutti i russofoni, ma anche i romeni, gli ungheresi e i carpatici: vale a dire buona parte dei cittadini ucraini e la quasi totalità di quelli del Donbas e della Crimea.
Persone abili nell'avvocatura possono smontare tutte le argomentazioni degli “esperti". Per estinguere non il valore dell'esperienza, bensì l'asimmetria di potere di chi si pretende esperto. Servono tutte le capacità, e mescolarle fra loro, con la letizia del dilettantismo
È da poco in libreria una raccolta di brevi saggi di Paul K. Feyerabend (1924-1994), Conoscenza e libertà. Scritti anarco-dadaisti.
Non nascondo la mia ammirazione per Feyerabend, filosofo della scienza inviso all’accademia e la cui eredità è andata dispersa, infranta sugli scogli del dogmatismo, delle politiche identitarie, delle “verità” urlate perché “oggettive”.
Feyerabend è stato un libero pensatore. Ho cercato più volte di imitare il suo stile, ad esempio il suo ricorso a brevissimi riassunti in calce ai capitoli della sua opera più nota, Contro il metodo (Against the method, 1975), una sorta di “TL; DR” (Too Long; Didn’t Read) che mi risuona molto: offrire a chi legge una panoramica svelta, ma non grossolana, di quel che troverà nel capitolo. Soprattutto, trovo magnifico il fatto che fa ridere, è molto divertente, è intriso di un umorismo affilato ma solidale, non sarcastico e non ironico: umoristico.
Non sono un grande fruitore del mezzo televisivo. Mi rendo conto tuttavia che a volte questo mio atteggiamento un po’ supponente, ma anche autodifensivo, mi porta mio malgrado a perdermi alcuni dei sintomi della malattia che ci colpisce tutti qui nella colonia: la propaganda di regime. Non vedere i TG generalisti, per esempio, mi illude di potermi tenere fuori da un mondo travisato e manipolatorio, falso e ricattato, che invece è, sussiste, ci condiziona e che deve essere invece conosciuto e stigmatizzato.
E così qualche giorno fa mi sono imbattuto nel nuovo siparietto pubblicitario di Trenitalia e sono trasalito. Vi riporto il testo:
“I veri ribelli oggi rispettano le regole, non si muovono soli contro tutti, ma uniti, per il bene di tutti. Cambiare il mondo per loro significa pensare al pianeta; sono giovani di tutte le età e i pregiudizi li abbattono ancora. […] i veri ribelli oggi scelgono di muoversi in sintonia con i tempi.”
Colonna sonora: “Rebel rebel” di David Bowie.
I messaggi veicolati da questo capolavoro mediatico sono molti: il primo è la semplice pubblicità ai treni regionali di Trenitalia, e va bene; gli altri sono tutti messaggi di pura manipolazione dell’opinione pubblica: l’attenzione all’ecologia (di per se cosa lodevole, ma che si incarna inevitabilmente nella farsa green di matrice liberal e tecnocratica, tanto cara al disegno complessivo di revisione economica e sociale angloamericano), poi il contrasto ai “pregiudizi” (anche qui con una declinazione ipocrita e strumentale); ma la parte più importante, il cuore della missiva è l’insegnamento intorno al postulato ossimorico della Fine della ribellione, ovvero che oggi non è più dato ribellarsi, che lo spazio per la ribellione è controllato ed è solo quello che viene deciso altrove.
In “Lessico
del neoliberalismo. Le parole del nemico” (Autori vari
de La Fionda, Rogas, 2024) sono commentati i termini e le
espressioni che la cultura neoliberale ha coniato o di cui si
è appropriata, risemantizzandoli, per costruire un senso
comune trasversale al
tessuto sociale e perciò atto a negare la pensabilità di
un’opposizione all’ordine neoliberale o comunque di una
trascendenza di quest’ordine.
Questi termini ed espressioni corrispondono a concetti che Herbert Marcuse riterrebbe operativi, cioè la cui descrizione si esaurisce in una serie di operazioni e, tramite queste, in una o più funzioni. I concetti operativi designano quindi la cosa nella sua funzione, realizzando un’identificazione tra cosa e funzione, per cui attributo precipuo della prima è il suo ruolo servente l’ordine esistente. Così, per esempio, l’economia sociale di mercato dovrebbe soddisfare i bisogni sociali e le tecnologie smart dovrebbero risultare sempre e comunque intelligenti e pertanto profittevoli all’uomo.
L’operazionismo – cioè la definizione dei concetti in senso operativo – astrae dalla cosa in sé, dal complesso delle sue potenzialità che, se estrinsecate, la porrebbero in una relazione rinnovata con l’insieme di altre cose che compongono l’ordine esistente: una relazione che potrebbe anche assumere tratti conflittuali. Il concetto operativo rimuove dunque dalla cosa qualsiasi portata negatoria dello status quo o anche solo ostativa alla direzione indicata dal progresso. Così, per esempio, il concetto di concorrenza, se consideriamo l’etimologia del termine, indica l’azione di correre insieme e dunque dovrebbe escludere la competizione senza scrupoli tra gli operatori economici, dando piuttosto adito o a una regolamentazione statale che detti loro i tempi e i modi di realizzazione del bene comune o, addirittura, a una collaborazione orizzontale tra di essi.
Letteratura e filosofia greca
Vi sono opere eterne, il cui significato polisemico cela la verità della condizione umana che si presta a una molteplicità di letture condizionate dalle circostanze storiche. La verità è nella storia e si svela in essa, pertanto vi sono nuclei veritativi filtrati mediante l’orizzonte storico-mondano in cui l’essere umano è situato.
La letteratura greca è fonte di verità come la filosofia, si utilizzano linguaggi differenti ma in esse si colgono verità intramontabili. La verità non brilla al di là dello spazio e del tempo, essa è nel mondano, quindi pone problemi interpretativi, e nei differenti periodi storici un particolare aspetto della verità prevale sugli altri. La verità è prismatica e dinamica, è unità che contiene e relaziona una pluralità di aspetti tra di loro razionalmente congiunti in una fitta rete di relazioni. La letteratura e la filosofia greca sono creazioni politiche, in esse sono iscritte le progettualità politiche nelle quali il processo che conduce dal particolare al generale si rende reale e razionale mediante il confronto dialettico. La tragedia è processo di superamento concettuale delle scissioni che conducono a una conflittualità nichilistica e irrazionale.
La letteratura e la filosofia greca, dunque, non possono essere spiegate con il semplice rapporto struttura-sovrastruttura, tale consapevolezza vi era anche in Marx. La verità eccede la storia pur vivendo in essa. L’eterno si materializza nella storia. Marx è autore di stampo idealistico, egli è un hegeliano in tale prospettiva, poiché l’eterno si svela nella storia. Ogni semplicismo rischia di introdurre l’irrazionale il quale comporta una contrazione della capacità di decodificare la verità nel suo disvelamento storico.
Il mondo greco è per Marx un problema, poiché sfugge alle categorie del materialismo, vi è in esso un’eccedenza che esige altre categorie per poter essere interpretato e compreso. La verità della condizione umana ha un nucleo profondo che sfugge all’applicazione meccanica di taluni schemi preordinati:
Lo spettacolo ispirato a Orwell al Politeama Rossetti
È nozione comune che abbia formulato profezie, immaginato distopici scenari futuri e prefigurato tecnologie di controllo estremo. Ma con 1984, George Orwell ha solo descritto una realtà che già era sotto i suoi occhi. Le ha dato una veste letteraria piena di suggestioni, certo, ma quando si ha la capacità di osservare con distacco le persone, sia come individui sia come massa, è facile essere scambiati per preveggenti.
Non è invece affatto facile trasporre in versione teatrale un romanzo come 1984. Se però non si ha la pretesa di restare fedeli al testo originale e si introducono piccoli espedienti narrativi per agevolare lo spettatore che non lo ha mai letto, allora l’operazione può funzionare.
Per la regia di Giancarlo Nicoletti e con i protagonisti Ninni Bruschetta, Woody Neri e Violante Placido, il palcoscenico del Politeama Rossetti di Trieste è lo specchio dove ritroviamo il nostro presente e il nostro destino nell’adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan. Gli altri interpreti dello spettacolo sono Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore, Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues, Chiara Sacco.
Abbiamo sempre meno parole per esprimere quello che proviamo, e delle parole che restano ci siamo abituati a confondere o addirittura capovolgere il significato. Chiamiamo operazioni di pace gli interventi militari.
Larry Johnson: "Erdogan ha liberato i demoni dell'eccezionalismo turco/ottomano in tacita complicità con l'ambizione escatologica israeliana. Sarà un disastro"
Una delegazione americana si è recata a Damasco per incontrare al Jolani, il leader di Tahrir al Sham (HTS), già al Qaeda, nel primo contatto ufficiale dopo la sua presa del potere (nel segreto, gli Usa lo sostenevano da tempo). Non è il primo incontro tra i nuovi padroni della Siria e i Paesi Nato, dal momento che gli americani sono stati preceduti da turchi e inglesi, che si sono precipitati a portare le loro felicitazioni al loro terrorista di fiducia e a discettare sul futuro del Paese.
Futuro che appare incerto, dal momento che la Turchia non ha deposto l’ascia di guerra contro i curdi, inquadrati nelle Forze democratiche siriane (SDF), che controllano per conto degli Stati Uniti la parte Nord orientale del Paese. E ciò nonostante il fatto che gli Usa si prodighino nell’opera di mediazione, dichiarando che il cessate il fuoco raggiunto tra SDF e le milizie filo-turche, che scadeva lunedì, sia stato prolungato. Tale dilazione è stata negata da Ankara.
Né si sa bene come i jihadisti che hanno preso il potere si comporteranno nei confronti delle minoranze, che già vengono prese di mira con esecuzioni sommarie e altre forme di violenza nel silenzio della stampa occidentale, ancora troppo concentrata a gioire per i nuovi padroni della Siria e a raccontare gli asseriti crimini di Assad.
Dietro le mosse di Unicredit sullo scacchiere bancario ci sono gli interessi di BlackRock nel risparmio e nel credito privato in Europa
L’assalto di Unicredit al sistema bancario europeo non ha davvero nulla di “italiano”, ma rappresenta l’ennesima offensiva dei grandi fondi statunitensi. L’azionista principale di Unicredit è infatti con oltre il 7% BlackRock, a cui sono legati altri fondi presenti nella compagine sociale di UniCredit. Peraltro, nel complesso, il capitale “italiano” della banca arriva a malapena al 6%. La scalata fatta in larga prevalenza con strumenti derivati a Commerzbank – di cui UniCredit ha in mano ora quasi il 30%, ovvero la soglia per il lancio di un’Opa, e che ha provocato l’irritazione del governo tedesco – è quindi l’espressione di una volontà delle Big Three di impossessarsi del risparmio europeo.
Nella stessa logica si è posta l’Offerta pubblica di scambio operata sempre da UniCredit verso Bpm. Evitare che si formi un altro “colosso” bancario con la presenza del grande avversario dei fondi statunitensi, costituito da Credit Agricole.
La fintocrazia ha i suoi risvolti truci e trucidi, come nel caso del DDL Sicurezza del governo Meloni, nel cui testo ci sono dettagli veramente spassosi. Ad esempio, nell’articolo 28 si autorizzano gli agenti delle varie polizie a portare armi private oltre a quelle di ordinanza. Agli elettori della Meloni vien fatto credere che ciò indurrà gli agenti a farsi giustizieri sommari del crimine; mentre, al contrario, si tratta di un’oggettiva licenza rilasciata agli agenti per consentirgli di arrotondare il magro stipendio facendo rapine, estorsioni od omicidi su commissione, anche in orario di servizio; cosa che peraltro già avviene, ma sinora il fatto di portare armi private poteva risultare sospetto e rappresentare un indizio a carico, mentre per il futuro si prospetta una totale impunità.
Il DDL propone al pubblico una visione idealizzata delle forze dell’ordine, facendo finta di ignorare che nella società attuale gli agenti di polizia sono centinaia di migliaia. In Italia se ne calcolano più di duecentotrentaquattromila, considerando le tre principali forze; ma il numero probabilmente è sottostimato. La gestione di tanti “tutori dell’ordine”, cioè di tante persone armate che hanno a disposizione illimitate occasioni di delinquere impunemente, rappresenta di per sé un grave problema di ordine pubblico, ma è imperativo far finta di dimenticarselo, sia per la destra, sia per la “sinistra”. Tutto il DDL non fa che ammiccare alle presunte “forze dell’ordine”, facendo loro intendere che gli si aprono infiniti spazi di abuso e impunità.
Nella Repubblica Democratica Tedesca esisteva un’agenzia stampa che stampava opuscoli atti a raccontare nel dettaglio cos’era la DDR. Tutti gli opuscoli venivano scritti in più lingue e pubblicati in più paesi, soprattutto in Europa. In uno di questi, intitolato “La Vita nella DDR” c’è un intero capitolo dedicato al concetto di famiglia che vigeva nella Germania Socialista. Per ogni argomento si spiega quali leggi e diritti concorrono alla formazione e alla sicurezza delle famiglie tedesche. Nella prima pagina del capitolo la frase iniziale dice già molto: “La famiglia media non esiste”. Perché i comunisti sono “contro” la famiglia? No, sono contrari solo a quella borghese. Il libro continua infatti la frase con: “poiché ogni famiglia vive in maniera diversa dalle altre, in modo del tutto individuale, secondo la propria concezione della felicità e dell’armonia.”
È importante partire dal presupposto che il femminismo rivoluzionario è parte fondamentale nella concezione di famiglia e di conseguenza anche nella sua strutturazione. Nella DDR la parificazione legale, cioè dinanzi alla legge, di uomini e donne non era il punto di arrivo del socialismo, bensì il presupposto per l’avvio di un percorso di emancipazione e decostruzione che comprendeva entrambi i sessi. Seguendo l’idea marxista per la quale cambiando le condizioni materiali si potrà cambiare la coscienza delle persone, nella DDR l’intervento dello stato era concentrato non nel decidere quale “modello” di famiglia imporre, ma nel garantire materialmente la più ampia libertà di scelta agli individui, fornendo a tutti una consolidata sicurezza sociale.
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La democrazia americana è stata distrutta dai due partiti al potere che ci hanno svenduti alle multinazionali, ai militaristi e ai miliardari. Ora ne paghiamo il prezzo
Per oltre
due decenni, io e una manciata di altri — Sheldon Wolin, Noam Chomsky, Chalmers Johnson, Barbara Ehrenreich e Ralph Nader— abbiamo
avvertito che la crescente disuguaglianza sociale e la
costante erosione delle nostre istituzioni democratiche, tra
cui i media, il Congresso, il lavoro organizzato, il mondo accademico e i tribunali, avrebbero
inevitabilmente portato a uno stato autoritario o fascista
cristiano. I miei libri — “American Fascists: The Christian
Right and the War on America” (2007), “Empire of Illusion: The End of
Literacy and the Triumph of Spectacle” (2009), “Death of the Liberal Class”
(2010), “Days of
Destruction, Days of Revolt” (2012), scritto con Joe
Sacco, “Wages of Rebellion” (2015)
e “America: The Farewell
Tour” (2018) sono stati una serie di appelli
appassionati a prendere sul serio il decadimento. Non provo
alcun piacere nell’avere
ragione.
“La rabbia di coloro che sono stati abbandonati dall’economia, le paure e le preoccupazioni di una classe media assediata e insicura e l’isolamento paralizzante che deriva dalla perdita di una comunità, sarebbero stati la base l’innesco per un pericoloso movimento di massa”, ho scritto in “American Fascists” nel 2007. “Se questi diseredati non venissero reintegrati nella società tradizionale, se alla fine perdessero ogni speranza di trovare un buon lavoro stabile e opportunità per sé e per i propri figli – in breve, la promessa di un futuro più luminoso – lo spettro del fascismo americano assalterebbe la nazione. Questa disperazione, questa perdita di speranza, questa negazione di un futuro, hanno portato i disperati tra le braccia di coloro che promettevano miracoli e sogni di gloria apocalittici”.
Il presidente eletto Donald Trump non annuncia l’avvento del fascismo. Annuncia il crollo della patina che mascherava la corruzione della classe dirigente e la loro pretesa di democrazia. È il sintomo, non la malattia. La perdita delle norme democratiche di base è iniziata molto prima di Trump, è ha aperto la strada al totalitarismo americano.
Dal trionfo elettorale di Trump
all’allargamento dei BRICS che, per la prima volta,
ha reso un’organizzazione
multilaterale che non è emanazione diretta di potenze ex
coloniali la più importante del pianeta; dal ritorno
nell’Occidente
libero e democratico del golpe come strumento per la
risoluzione delle tensioni politiche interne al boom di droni
e intelligenza artificiale che ha
cambiato per sempre il modo di fare la guerra; dal trionfo di
Israele contro l’asse della resistenza che ha sdoganato il
ricorso al genocidio
come strumento di risoluzione delle controversie
internazionali al collasso definitivo dell’economia e delle
classi dirigenti europee che ha
definitivamente reso il vecchio continente un soggetto del
tutto marginale della politica internazionale: e meno male che
la storia era finita. Il
2024 è stato probabilmente l’anno più ricco di eventi di
portata storica dalla fine della seconda guerra mondiale a
oggi; in
questo video abbiamo provato a stilare la nostra top10. Il
2024 è stato l’anno dove è diventato chiaro anche ai muri che
ormai siamo in guerra; e quindi non potevamo che iniziare da
una notizia su come si fa oggi la guerra.
Iniziamo quindi con la nostra decima notizia più importante dell’anno: l’affermazione definitiva dei droni come l’arma per eccellenza nelle guerre del ventunesimo secolo
A partire dallo spettacolare attacco contro Israele dell’aprile scorso durante il quale l’Iran ha impiegato in un colpo solo oltre 300 droni, è diventato chiaro che la capacità di impiegare il più ampio numero possibile di velivoli aerei senza equipaggio a basso costo sarebbe diventata, a stretto giro, la variabile fondamentale per determinare i rapporti di forza in un conflitto: nonostante i limiti del singolo veicolo, infatti, il loro impiego in numero massiccio è comunque in grado di saturare rapidamente sistemi di difesa pensati e sviluppati per altri sistemi d’arma e con costi unitari di diversi ordini di grandezza superiori; inoltre, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale permette da un lato di coordinare sempre di più l’azione congiunta di un numero sempre più ampio di velivoli e, dall’altro, di renderli autonomi nell’individuazione e nel raggiungimento dell’obiettivo, rendendo così sempre meno efficaci strumenti di difesa basati sull’interferenza elettronica.
L'intervista a Roberto Fineschi, attento studioso di Marx, prosegue con la serie di interviste a personaggi non direttamente legati alla Wertkritik ma che in qualche modo si pongono, o possono farlo, in un rapporto costruttivo con questa. In precedenza era stato intervistato Wolf Bukowski
Afshin Kaveh: Potrebbe
tracciare una breve storia della seconda
Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA 2) – annesse le
differenze, per esempio con la MEW, Marx-Engels-Werke
– e quali sono le
prospettive aperte sinora dall’operazione di questa nuova
edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels?
Roberto Fineschi: L’edizione è detta seconda perché ci fu un primo tentativo di realizzare una Gesamtausgabe tra gli anni Venti e Trenta del Novecento a opera prima di Rjazanov e poi di Adoratsky. Questo secondo tentativo è tuttavia un progetto completamente nuovo, basato su criteri filologici e struttura diversi. Inizialmente a cura degli Istituti per il Marxismo-Leninismo rispettivamente di Mosca e Berlino est, con la fine della guerra fredda è adesso curata dalla Fondazione Internazionale Marx-Engels, con sede ad Amsterdam e principale centro operativo presso l’Accademia delle Scienze di Berlino e del Brandeburgo. A differenze della prima che prevedeva solo tre sezioni, la seconda ne presenta quattro: I) le opere e gli abbozzi (escluso Il capitale), II) Il capitale e i lavori preparatori (a partire dal 1857), III) il carteggio, IV) gli estratti/annotazioni. L’ultima sezione è una novità assoluta. Un’edizione critica si differenzia da una normale edizione di opere perché presenta tutti i testi editi e inediti, a tutti i livelli di lavorazione, nella loro forma/lingua originale. Una tale precisione e complessità è in genere impossibile in un’edizione di Opere che adotta criteri che mirano a una maggiore leggibilità e schematizzazione. Marx ha pubblicato in vita molto poco rispetto a quanto ha scritto; soprattutto alcune delle sue opere fondamentali sono state edite dopo la sua morte in maniera non sempre adeguata: per es. i Manoscritti economico-filosofici, L’ideologia tedesca, il secondo e il terzo libro de Il capitale li abbiamo conosciuti in forme pesantemente editate. L’edizione storico-critica mette a disposizione dei lettori e degli studiosi sia i testi editati (oramai diventati essi stessi dei classici, in particolare i libri de Il capitale), ma anche tutti i manoscritti preparatori in forma filologica, ovvero per quanto possibile neutrale. Si può dunque procedere a un confronto tra quanto fatto da Marx in persona e il lavoro dei suoi editori.
Penso valga la pena ricordare, sia
pure per brevi cenni, una delle iniziative di Toni Negri che
ha lasciato un segno nella storia dei movimenti rivoluzionari
degli anni 70 e in
particolare nell’evoluzione del pensiero “operaista”. In
questa iniziativa Toni volle coinvolgermi in un momento in cui
i nostri
rapporti erano diventati complicati a causa della mia uscita
da Potere Operaio avvenuta proprio nel momento in cui, grazie
a Toni, ottenevo un
incarico di insegnamento presso l’Istituto di Dottrina dello
Stato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di
Padova, novembre 1970.
Il bisogno di riprendere una produzione teorica dopo la fase Quaderni Rossi-Classe Operaia si era fatto impellente una volta che il ciclo di lotte operaie, iniziato a Milano con lo sciopero dei 70 mila elettromeccanici del 1960-61, si era concluso alla fine del 1969. La costituzione materiale del Paese era cambiata ed erano cambiate con la strage di Piazza Fontana le regole non scritte del gioco politico. Le previsioni dell’operaismo di un’offensiva operaia di rottura si erano avverate del tutto, il soggetto protagonista di quella fase conflittuale era stato ben individuato nell’operaio massa, il lessico operaista ormai veniva utilizzato anche dai detrattori dell’operaismo. Era necessario riorganizzare l’intero bagaglio concettuale che aveva consentito di ottenere quei risultati ma al tempo stesso era necessario, preso atto che la costituzione materiale del paese era cambiata, aggiornare i dispositivi culturali e teorici che ci avrebbero permesso di affrontare la nuova fase. Dovevamo esplicitare il percorso che ci aveva portati al 68/69 e tracciare in anticipo quello che avremmo dovuto e voluto intraprendere.
Per Toni c’era un’esigenza in più, l’esigenza molto banale di trovare una sede dove mettere a disposizione di tutti i risultati del lavoro di ricerca che il Collettivo di Scienze Politiche aveva iniziato, una volta che l’organico dell’istituto era stato completato e che consisteva in una cattedra, quella di Toni, in quattro incarichi d’insegnamento e in una serie di figure di ricercatori-tecnici. I nomi dei titolari erano Luciano Ferrari Bravo, Ferruccio Gambino, Mariarosa Dalla Costa, Alisa Del Re, Guido Bianchini, Sandro Serafini, Sergio Bologna.
Recensione l libro di D. Burgio, M. Leoni e R. Sidoli "Logica dialettica e l'essere del nulla" (L.A.D. GRUPPO EDITORIALE, 2024)
“Questo è acuto e giusto. Ogni cosa concreta, ogni qualcosa
concreto sta in rapporti diversi e spesso contraddittori con
tutto
il rimanente, ergo è sé stesso e un altro.”[1]
Dopo aver letto e riletto le “noiosissime pagine” della Logica dialettica e l’essere del nulla[2], l’ultima impresa di Burgio, Leoni e Sidoli, mi è girata la testa in un vortice di pensieri per giorni. Una tempesta creativa, perché le tesi di questo breve saggio sono così dense di significato da riuscire a far dimenticare la pesantezza. Questo testo è da studiare, analizzare, studiare e rianalizzare. Tanti sono gli spunti che può costruire, una serie di ponti per approfondire la realtà in cui viviamo e per tentare di cambiarla. Buttiamoci dunque nell’abisso ontologico illuminato tre secoli fa da Leibnitz: “Perché esiste qualcosa, e non il nulla?”. I fatti testardi della scienza sono corde che ci aiuteranno a calarci in questo oscuro meandro della vita. Il moschettone Hendrik Casimir ci permetterà di non cadere e perderci nel vuoto quantistico. Vari esperimenti hanno dimostrato appunto l’effetto Casimir: il vuoto quantistico è allo stesso tempo nulla ma anche qualcosa.[3] Non esiste soltanto la materia, ma la grandissima maggioranza “dell’oceano cosmico” finora conosciuto è composto dall’energia e dalla materia oscura. Come può tutto ciò non avere effetti sul nostro mondo? Come possono non esserci conseguenze sulla logica del pensiero e su tutta la filosofia? Siamo di fronte alla rinascita della dialettica, alla rivalsa del materialismo dialettico e di quello storico?
Principio fondamentale della logica aristotelica è quello di non contraddizione, quindi di conseguenza anche quello d’identità.[4] Sul solco tracciato da Hegel, Marx ed Engels, Lenin e mi permetto di aggiungere anche Mao[5], la logica dialettica ha svoltato bruscamente rispetto a questa tradizione.
La polemica sull’esclusione di Tony Effe dal Concerto al Circo Massimo e i finanziamenti pubblici a eventi di bassa qualità culturale. Trap, simbolo di intrattenimento commerciale, è declino del gusto pubblico e normalizzazione di disvalori sociali
In questi giorni è impossibile evitare di imbattersi nella vicenda dell’esclusione dal Concerto al Circo Massimo da parte dell’amministrazione Gualtieri del trapper Tony Effe.
Si è scomodato Mozart come “compagno in musica” del trapper.
Si è richiamata l’idea di “censura delle idee”.
Si sono levati alti lai sulla “libertà dell’arte”, sul ruolo delle “provocazioni che fanno pensare”, sulla funzione di “opposizione” della produzione artistica.
Ecco, lo so che a Natale si suppone siamo tutti più buoni, però anche basta.
1) Primo problema: perché un’amministrazione pubblica deve spendere soldi pubblici (gli stessi soldi di cui c’è maledetto bisogno in settori chiave e salvavita) per produrre “eventi” in cui viene invitata della mediocrità nazionalpopolare, pompata dalle case discografiche, roba che sta già benissimo “sul mercato” senza supporti pubblici? Perché il pubblico deve mettersi a finanziare quel tipo di “arte” che è nata e prodotta già al massimo ribasso di gusto per poter venire incontro alle famose “esigenze di mercato”?
1. Il
deprimente riflesso dei media occidentali – ai quali ci
sforziamo di sfuggire quanto possibile – ci condurrebbe alla
più profonda
depressione, se non fossimo soccorsi dalla fede nell’avanzare
dell’autocoscienza dell’uomo nella storia, poiché nel tempo
breve non v’è alcuna speranza di intravedere nemmeno l’ombra
di un orizzonte più sereno. Più vivo –
affermava G. B. Shaw – più sono convinto che questo
pianeta sia usato da altri pianeti come manicomio
dell’universo. Ed
è difficile dargli torto. Eppure, se occorre dar senso al
tempo che rimane da vivere, esso è quello di distruggere con
l’arma
della verità tutto ciò che può essere distrutto.
Non passa giorno che Israele non uccida intenzionalmente giornalisti palestinesi a Gaza[1] (196 negli ultimi 14 mesi, tra i 45.000 palestinesi uccisi e 150.000 feriti!), mentre impedisce a chi è fuori di entrare nella Striscia per nascondere i disumani massacri di cui si rende colpevole davanti all’umanità, alla giustizia internazionale, all’etica delle nazioni e alla storia, protetto e armato dai loro complici occulti, gli Stati Uniti d’America.
In Siria, in contemporanea, l’esercito d’Israele, che insieme ai conniventi americani e turchi, ha dato il via libera ai tagliagole jihadisti, si espande oltre il Golan – che occupava illegalmente dal 1967 – e invade altre terre siriane (che B. Netanyahu dichiara non verranno restituite mai più!) nel garbato silenzio di Usa ed Europa, vocianti propugnatori del Diritto Internazionale. Non solo, mentre sulla carta firma il cessate il fuoco con Hezbollah, lo Stato Ebraico non smette di bombardare villaggi libanesi già martoriati, facendo ogni santo giorno decine di vittime. Tutto ciò sotto lo sguardo appagato della presidente della Commissione Ue, la tossica von der Leyen, caporal maggiore del cupo esercito Nato e la cui unica caratteristica degna di nota è l’obbedienza al globalismo atlantico. Nella Nato, si pensava di aver toccato il fondo con il tramonto di Jens Stoltenberg, dal nome altamente evocativo, ma non è così! Al suo posto quale Segretario Generale abbiamo ora tale Marc Rutte, anch’egli con un nome onomatopeico, che dispone per nostro conto di ridurre gli stanziamenti a pensioni e sanità per produrre armi destinate, secondo cotanta testa, a sconfiggere la Russia!
Negli
anni Settanta del secolo scorso due eventi di notevole
importanza nella cultura italiana furono l’approdo di Ludovico
Geymonat al materialismo
dialettico e il costituirsi attorno al filosofo torinese, il
quale da tempo insegnava presso l’Università Statale di
Milano, di una
scuola che sostenne un nuovo approccio alla filosofia
marxista, rilanciando un tema tradizionalmente poco
frequentato in Italia.
1 Riflettere sul significato, sul valore
e anche sui limiti di questa esperienza culturale è necessario
non solo per
tornare a dipanare, nell’attuale congiuntura ideologica e
teorica, il filo rosso del materialismo dialettico engelsiano
e leniniano, ma anche
per dimostrare, in primo luogo, che il marxismo ha un nucleo
filosofico proprio e indipendente che si sviluppa in relazione
alla lotta teorica, quindi
in ultima istanza in relazione alla lotta di classe, e, in
secondo luogo, che esso è in grado di conservare la sua
autonomia nella misura in
cui si sviluppa sulle proprie basi.
Questa specificità e originalità del modo di concepire e di
praticare la
filosofia è un tratto saliente del marxismo, che non può
venire meno senza che venga meno la sua stessa esistenza come
filosofia: da qui
nasce la necessità di riprendere in esame la concezione
geymonatiana del materialismo dialettico a partire dalla
individuazione della
centralità di due testi quali Materialismo ed
empiriocriticismo e i Quaderni
filosofici
che si possono considerare terreni elettivi
per saggiare il significato e il valore di quella concezione.
In effetti, il primo di essi, come è ben noto, ha conosciuto nel ‘marxismo occidentale’ una tale ‘sfortuna’ (peraltro simmetrica alla ‘fortuna’ dei Quaderni filosofici) che, già per questo solo motivo, una simile sorte richiederebbe una specifica e approfondita riflessione (per converso, come è altrettanto noto, ha conosciuto la massima auge nel marxismo orientale): comprendere e spiegare quale precisa funzione teorica abbia svolto il suo rifiuto, parziale o totale, significherebbe scrivere un capitolo non secondario della storia del marxismo. Sennonché il problema di fondo, che sottostà all’uno come all’altro caso, è lo stesso: il problema cioè della concezione leniniana della scienza, che si sdoppia nei due distinti problemi del rapporto tra scienza e filosofia, da una parte, e del rapporto tra scienza e politica, dall’altra.
Ultimo sfregio a Kiev - La catena di comando dell’Alleanza atlantica pianifica la continuazione della guerra assegnando ai vari Paesi membri i compiti e fissando quante e quali risorse ognuno di essi deve dedicare alla difesa
Con l’intervista al quotidiano Le Parisien, il presidente Zelensky ha dichiarato la capitolazione militare dell’Ucraina. Nel nostro piccolo, l’avevamo annunciata tre anni fa, durante l’invasione, senza palla di vetro ma con un filo di ragionamento. Sarebbe bastato quello a evitare all’Ucraina mezzo milione di soldati eliminati e 10 milioni di cittadini scappati all’estero. La media di 14 mila soldati e 280 mila cittadini perduti, al mese, per anni. Ed è questo dato nudo e crudo che oggi dovrebbe far ragionare chi sta decidendo la continuazione a oltranza della guerra. Ma in quei giorni Zelensky e chi lo appoggiava dandogli armi e idee fantasiose e disastrose, ma comunque criminali, non volevano ragionare. Per questo siamo stati imbottiti di stupidaggini a tutti i livelli, mentre si tenevano opportunamente nascoste tutte le vulnerabilità di una nazione approntata e addestrata per la guerra nei venti anni precedenti, una guerra impari contro i suoi stessi cittadini. Una guerra militare e paramilitare, di polizia e bande armate contro i cittadini autonomisti e una guerra civile contro tutti i russofoni, ma anche i romeni, gli ungheresi e i carpatici: vale a dire buona parte dei cittadini ucraini e la quasi totalità di quelli del Donbas e della Crimea.
In “Lessico
del neoliberalismo. Le parole del nemico” (Autori vari
de La Fionda, Rogas, 2024) sono commentati i termini e le
espressioni che la cultura neoliberale ha coniato o di cui si
è appropriata, risemantizzandoli, per costruire un senso
comune trasversale al
tessuto sociale e perciò atto a negare la pensabilità di
un’opposizione all’ordine neoliberale o comunque di una
trascendenza di quest’ordine.
Questi termini ed espressioni corrispondono a concetti che Herbert Marcuse riterrebbe operativi, cioè la cui descrizione si esaurisce in una serie di operazioni e, tramite queste, in una o più funzioni. I concetti operativi designano quindi la cosa nella sua funzione, realizzando un’identificazione tra cosa e funzione, per cui attributo precipuo della prima è il suo ruolo servente l’ordine esistente. Così, per esempio, l’economia sociale di mercato dovrebbe soddisfare i bisogni sociali e le tecnologie smart dovrebbero risultare sempre e comunque intelligenti e pertanto profittevoli all’uomo.
L’operazionismo – cioè la definizione dei concetti in senso operativo – astrae dalla cosa in sé, dal complesso delle sue potenzialità che, se estrinsecate, la porrebbero in una relazione rinnovata con l’insieme di altre cose che compongono l’ordine esistente: una relazione che potrebbe anche assumere tratti conflittuali. Il concetto operativo rimuove dunque dalla cosa qualsiasi portata negatoria dello status quo o anche solo ostativa alla direzione indicata dal progresso. Così, per esempio, il concetto di concorrenza, se consideriamo l’etimologia del termine, indica l’azione di correre insieme e dunque dovrebbe escludere la competizione senza scrupoli tra gli operatori economici, dando piuttosto adito o a una regolamentazione statale che detti loro i tempi e i modi di realizzazione del bene comune o, addirittura, a una collaborazione orizzontale tra di essi.
Letteratura e filosofia greca
Vi sono opere eterne, il cui significato polisemico cela la verità della condizione umana che si presta a una molteplicità di letture condizionate dalle circostanze storiche. La verità è nella storia e si svela in essa, pertanto vi sono nuclei veritativi filtrati mediante l’orizzonte storico-mondano in cui l’essere umano è situato.
La letteratura greca è fonte di verità come la filosofia, si utilizzano linguaggi differenti ma in esse si colgono verità intramontabili. La verità non brilla al di là dello spazio e del tempo, essa è nel mondano, quindi pone problemi interpretativi, e nei differenti periodi storici un particolare aspetto della verità prevale sugli altri. La verità è prismatica e dinamica, è unità che contiene e relaziona una pluralità di aspetti tra di loro razionalmente congiunti in una fitta rete di relazioni. La letteratura e la filosofia greca sono creazioni politiche, in esse sono iscritte le progettualità politiche nelle quali il processo che conduce dal particolare al generale si rende reale e razionale mediante il confronto dialettico. La tragedia è processo di superamento concettuale delle scissioni che conducono a una conflittualità nichilistica e irrazionale.
La letteratura e la filosofia greca, dunque, non possono essere spiegate con il semplice rapporto struttura-sovrastruttura, tale consapevolezza vi era anche in Marx. La verità eccede la storia pur vivendo in essa. L’eterno si materializza nella storia. Marx è autore di stampo idealistico, egli è un hegeliano in tale prospettiva, poiché l’eterno si svela nella storia. Ogni semplicismo rischia di introdurre l’irrazionale il quale comporta una contrazione della capacità di decodificare la verità nel suo disvelamento storico.
Il mondo greco è per Marx un problema, poiché sfugge alle categorie del materialismo, vi è in esso un’eccedenza che esige altre categorie per poter essere interpretato e compreso. La verità della condizione umana ha un nucleo profondo che sfugge all’applicazione meccanica di taluni schemi preordinati:
Larry Johnson: "Erdogan ha liberato i demoni dell'eccezionalismo turco/ottomano in tacita complicità con l'ambizione escatologica israeliana. Sarà un disastro"
Una delegazione americana si è recata a Damasco per incontrare al Jolani, il leader di Tahrir al Sham (HTS), già al Qaeda, nel primo contatto ufficiale dopo la sua presa del potere (nel segreto, gli Usa lo sostenevano da tempo). Non è il primo incontro tra i nuovi padroni della Siria e i Paesi Nato, dal momento che gli americani sono stati preceduti da turchi e inglesi, che si sono precipitati a portare le loro felicitazioni al loro terrorista di fiducia e a discettare sul futuro del Paese.
Futuro che appare incerto, dal momento che la Turchia non ha deposto l’ascia di guerra contro i curdi, inquadrati nelle Forze democratiche siriane (SDF), che controllano per conto degli Stati Uniti la parte Nord orientale del Paese. E ciò nonostante il fatto che gli Usa si prodighino nell’opera di mediazione, dichiarando che il cessate il fuoco raggiunto tra SDF e le milizie filo-turche, che scadeva lunedì, sia stato prolungato. Tale dilazione è stata negata da Ankara.
Né si sa bene come i jihadisti che hanno preso il potere si comporteranno nei confronti delle minoranze, che già vengono prese di mira con esecuzioni sommarie e altre forme di violenza nel silenzio della stampa occidentale, ancora troppo concentrata a gioire per i nuovi padroni della Siria e a raccontare gli asseriti crimini di Assad.
Dietro le mosse di Unicredit sullo scacchiere bancario ci sono gli interessi di BlackRock nel risparmio e nel credito privato in Europa
L’assalto di Unicredit al sistema bancario europeo non ha davvero nulla di “italiano”, ma rappresenta l’ennesima offensiva dei grandi fondi statunitensi. L’azionista principale di Unicredit è infatti con oltre il 7% BlackRock, a cui sono legati altri fondi presenti nella compagine sociale di UniCredit. Peraltro, nel complesso, il capitale “italiano” della banca arriva a malapena al 6%. La scalata fatta in larga prevalenza con strumenti derivati a Commerzbank – di cui UniCredit ha in mano ora quasi il 30%, ovvero la soglia per il lancio di un’Opa, e che ha provocato l’irritazione del governo tedesco – è quindi l’espressione di una volontà delle Big Three di impossessarsi del risparmio europeo.
Nella stessa logica si è posta l’Offerta pubblica di scambio operata sempre da UniCredit verso Bpm. Evitare che si formi un altro “colosso” bancario con la presenza del grande avversario dei fondi statunitensi, costituito da Credit Agricole.
La
volontà libera – sapersi nell’assoluto – può volere solo in
quanto partecipa di quella verità, è
sussunta sotto di essa, e ne consegue.
L’eticità è lo spirito divino in quanto dimorante
nell’autocoscienza, nella sua presenza
effettiva. Se la volontà è pensata come il contenuto della
libertà, e si parla
pertanto di volontà libera, questa volontà non può essere
considerata come esterna, come proveniente da fuori. Se così
fosse, e il volere venisse dall’esterno, la volontà non
potrebbe pensarsi come volontà libera, ma sempre e soltanto
dipendente da
questo fuori. Dunque, tra il contenuto e la forma deve
esserci comunione, identità – auto-coscienza. Questa comunione,
dice Hegel (Enciclopedia, Spirito oggettivo §552), si
riscontra nel seno stesso della religione cristiana, nella
quale non è l’elemento
naturale a costituire il contenuto di Dio, o a entrare in
tale contenuto come suo momento: il contenuto è Dio, saputo
in spirito e
verità.
Nella religione cristiana è Dio che si fa uomo. È Dio stesso che si conosce come uomo – o è l’uomo che, in Gesù, si conosce come Dio stesso, che si fa Universale Concreto (concreto, cioè cresciuto insieme, unito nello stesso). Il Finito – l’uomo empirico – è unito (è la stessa identica cosa) dell’Infinito – l’uomo logico. In Gesù la libertà – ovvero l’essere sciolto da ogni dipendenza, l’assoluto, l’infinito, la sovranità – proviene da sé stesso, perché è egli stesso a essere Dio.
Non è un oggetto esterno, un feticcio, un’immagine, un totem a dettare la legge, a dire cosa è vero e giusto. La verità sgorga direttamente dal cuore – la verità è la verità del cuore, e al centro del cuore c’è Dio.
L’uomo può ora specchiarsi in Gesù, in quanto Gesù è Dio che si fa uomo, vive, si fa esperienza. Ognuno può esperire l’assoluto, specchiarsi in Gesù e apprendere di essere anche lui figlio di Dio, di avere un cuore e di avere al centro del cuore questa verità, la verità di essere, come tutti gli altri uomini, figlio di Dio. Non ha bisogno di ricevere dal di fuori, dal padre, dalla natura, delle condizioni economiche e sociali esterne, dal feudatario, dalla corporazione, dalla famiglia, dal re, dal principe, eccetera; non ha bisogno che un potere esterno gli dica chi è veramente e quale è il suo rapporto rispetto agli altri, in quale struttura è collocato e può agire.
Presentazione del libro “Lessico del neoliberalismo. Le parole del nemico”, Rogas Edizioni, 2024
Prima di entrare
nel merito dei contenuti del libro, devo dare una
indicazione preliminare, importante quando si presenta un
libro. I libri si possono dividere in due
categorie: i Libri (con la elle maiuscola) e i libroidi (con
la elle minuscola). Quindi comincio col dire che questo è un
Libro. La
classificazione non è mia. È di Carlo Galli. Mi è piaciuta e
la faccio mia.
Galli però non ha dato una definizione di libro e di libroide. Io la vedo così: leggere un Libro è come indossare un paio di occhiali speciali che ti fanno vedere qualcosa che senza quegli occhiali non avresti visto, vedi qualcosa di nuovo e di interessante, qualcosa che ti arricchisce. Un libroide invece non ti fa vedere niente di nuovo, niente che non fosse già visibile e già visto. Ricordo la recensione che fece un autorevole barone accademico che voleva stroncare una monografia di un giovane ricercatore. In realtà voleva stroncare i maestri di quel ricercatore e la loro scuola: voleva colpire il ricercatore per colpire i suoi maestri. Disse il barone: il libro propone idee nuove e idee interessanti; purtroppo però le idee interessanti non sono nuove e le idee nuove non sono interessanti. Parole come pietre: libroide colpito e affondato.
Detto che “Lessico del neoliberalismo” è un Libro e non è un libroide, devo evidenziare cosa si vede di nuovo e di interessante attraverso questo libro; cosa consentono di vedere gli occhiali speciali offerti dal libro. Per arrivarci devo fare una premessa.
Un anno fa Marco Baldassari e Marco Adorni mi parlarono del progetto editoriale che poi ha dato vita a questo libro. Il progetto di cui mi parlarono consisteva nell’elaborazione di un glossario del neoliberalismo. Mi invitarono a portare un contributo e mi affidarono il lemma “concorrenza”. Mi è parsa subito un’idea originale e molto interessante.
Difficilmente un omicidio poteva suscitare una più vasta approvazione sociale di quello attribuito a Luigi Mangione. Analizzando l’impressionante fenomeno di vera e propria acclamazione in corso negli Stati Uniti (decine di migliaia di messaggi di sostegno, magliette, cappellini, spille, canzoni con le parole “deny, defend, depose” e “Free Mangione”, raccolte di fondi per le spese legali dell’accusato, boicottaggio del McDonald’s in cui è stato arrestato…), un consulente del “Network Contagion Resarch Institute” ha scritto queste righe gustose: «L’uccisione di Thompson viene accolta come una specie di segnale d’inizio di una più ampia guerra di classe».
Per comprendere un tale fenomeno bisogna capire innanzitutto chi era l’ammazzato.
Solo l’anno scorso, UnitedHealthcare, di cui Brian Thompson era l’amministratore delegato, ha fatturato 22 miliardi di dollari di profitti fatti letteralmente sulla pelle di milioni di persone. I maggiori azionisti di UnitedHealth sono il gigante della gestione patrimoniale Vanguard, che detiene una quota del 9%, seguito da BlackRock (8%) e Fidelity (5,2%). Le tre formule standard – rese celebri dai proiettili con cui Thompson è stato tirato giù dalle spese – attraverso le quali la società nega la copertura assicurativa per le cure mediche non valgono soltanto per interventi chirurgici particolarmente costosi.
Giorgio Agamben: La fine del Giudaismo
2024-09-30 - Hits 5507
2024-10-07 - Hits 5505
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2024-11-30 - Hits 4391
2024-10-25 - Hits 4278
2024-10-08 - Hits 4166
Il 2024 sembra chiudersi in una condizione
generalmente
sfavorevole alle forze ad ai paesi che si oppongono
all’egemonismo occidentale, che a sua volta sembra preludere a
un 2025 all’insegna di
una rinnovata offensiva globale dell’egemone. Il tracollo
della Siria, l’ostentata sicumera di Trump e di Netanyahu, la
difficile
situazione in Iran, il moltiplicarsi di situazioni in cui
l’esercizio della democrazia viene sempre più ridotto a mero aut-aut
(Georgia, Romania, Moldavia)… tutto insomma sembra indurre al
pessimismo, almeno per chi auspica un passaggio verso un nuovo
ordine mondiale
basato sul multipolarismo.
Ma anche se molti elementi sono effettivamente negativi, si tratta però sostanzialmente di una distorsione percettiva, in larga misura indotta dalla propaganda occidentale – in cui del resto siamo pienamente immersi. Volendo quindi tracciare una sorta di bilancio, e soprattutto puntare lo sguardo sull’anno che verrà, è bene farlo a partire dai dati di fatto, piuttosto che dalle sensazioni.
Il 2025 vedrà con ogni probabilità la fine del conflitto cinetico in Ucraina – e questo, già di per sé, è un fatto positivo – e ciò rappresenterà un passaggio cardine, destinato a pesare pesantemente sugli anni successivi, perché quale che sia il modo in cui si concluderà non potrà mutare la sostanza di tale evento, ovvero la sconfitta politico-militare della NATO, e quindi dell’egemonismo occidentale. La portata di tale sconfitta, che è inevitabile, ancora non appare pienamente – e di sicuro saranno fatti sforzi enormi per occultarla – ma non solo una volta avvenuta risulterà evidente, i suoi effetti si propagheranno come onde sismiche, scuotendo l’intera architettura politica occidentale.
Nonostante quanto si possa pensare, difficilmente il conflitto si potrà chiudere in virtù dell’azione messa in campo dalla nuova amministrazione americana, e ciò per due fondamentali ragioni: innanzitutto, l’assoluta incapacità (e mancanza di volontà), da parte statunitense, di riconoscere e comprendere le ragioni e gli interessi della Russia, e poi (cosa forse ancor più significativa) perché a muovere il blocco di potere coagulato intorno alla figura di Trump è una rinnovata fiducia nell’egemonia degli Stati Uniti e nel loro diritto-dovere di esercitarla globalmente.
John Bellamy Foster torna alle pietre miliari del pensiero marxista antimperialista – presenti nelle opere di V. I. Lenin, Samir Amin e altri – per affrontare la crescente negazione dell’imperialismo da parte della sinistra. Questa visione del mondo e le sue conseguenze, scrive Foster, ha implicazioni preoccupanti non solo per i lavoratori supersfruttati delle periferie, ma per tutti i lavoratori del mondo e per il carattere internazionalista del marxismo contemporaneo
È
dall’inizio della Prima Guerra mondiale – durante la quale
quasi tutti i partiti socialdemocratici europei parteciparono
alla guerra
interimperialista a fianco dei rispettivi Stati nazionali – e
dalla dissoluzione della Seconda Internazionale, che la
divisione sulla questione
dell’imperialismo non assumeva, a sinistra, dimensioni così
serie, manifestandosi come un segno della profondità della
crisi
strutturale del capitale nel nostro tempo.[1] Sebbene le
sezioni più eurocentriche del marxismo occidentale abbiano
cercato a lungo, in vari
modi, di attenuare la teoria dell’imperialismo, l’opera
classica di V. I. Lenin, Imperialismo, fase suprema del
capitalismo
(scritta nel gennaio-giugno 1916), ha mantenuto per oltre un
secolo la sua posizione centrale all’interno di tutte le
discussioni
sull’imperialismo, non solo per la sua accuratezza nel rendere
conto della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, ma anche
per la sua
utilità nello spiegare l’ordine imperiale del secondo
dopoguerra.[2] Tuttavia, lungi dall’essere isolata, l’analisi
complessiva di Lenin è stata integrata e aggiornata in vari
momenti dalla teoria della dipendenza, dalla teoria dello
scambio ineguale, dalla
teoria dei sistemi-mondo e dall’analisi della catena del
valore globale, tenendo conto dei nuovi sviluppi storici. In
tutto questo, la teoria
marxista dell’imperialismo ha mantenuto un’unità di base che
ha ispirato le lotte rivoluzionarie globali.
Oggi, tuttavia, questa teoria marxista dell’imperialismo viene comunemente rifiutata in gran parte, se non nella sua interezza, da sedicenti socialisti occidentali con baricentro eurocentrico. Di conseguenza, il divario tra la visione dell’imperialismo della sinistra occidentale e quella dei movimenti rivoluzionari del Sud globale è più ampio che in qualsiasi altro momento del secolo scorso. Le basi storiche di questa frattura risiedono nel declino dell’egemonia statunitense e nel relativo indebolimento dell’intero ordine imperialista mondiale, incentrato sulla triade Stati Uniti, Europa e Giappone, di fronte all’ascesa economica delle ex colonie e semicolonie del Sud globale. Il tramonto dell’egemonia statunitense, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, è stato accompagnato dal tentativo degli Stati Uniti/NATO, di creare un ordine mondiale unipolare dominato da Washington.
Le difficoltà di Stellantis si iscrivono in un quadro europeo dove le industrie automobilistiche perdono terreno commerciale a favore della Cina e rimangono indietro nello sviluppo tecnologico anche rispetto agli USA. È indispensabile maggiore lungimiranza circa i temi ambientali e il rapporto col Sud globale
Chi si aspettava dall’incontro del 17
dicembre fra Stellantis e il Governo una vera svolta, la può
trovare solo nei titoli di qualche giornale compiacente. Si
può certamente
dire che l’occasione sia servita per togliere qualche ruggine
accumulatasi nelle relazioni tra il Ministero del Made in
Italy (una denominazione
quanto mai insincera) e i manager dell’industria
automobilistica, approfittando anche della dipartita di
Tavares, ma nulla più di questo.
D’altro canto le tradizioni non si smentiscono. Gianni
Agnelli, parlando del gruppo Fiat, diceva “Noi siamo
governativi per
definizione”1.
La Fiat non c’è più, ma quello che resta si aggrappa a una
postura che in qualche modo vuole
riattivare. Non stupisce perciò l’entusiasmo del ministro
Adolfo Urso, che si è permesso persino di nascondere sotto il
tappeto il
definanziamento di 4,6 miliardi dal Fondo automotive operato
dalla manovra economica e di sbandierare l’inserimento nella
medesima, tramite
emendamento alla Camera, di soli 400 milioni come un atto di
generosa riparazione. Urso ha parlato anche di 1,6 miliardi di
euro disponibili per la
filiera auto. Ma a tale cifra si arriva sommando diverse voci,
che riguardano una pluralità di settori, quindi non tutte
facenti riferimento
all’automotive, fra cui, oltre ai già citati milioni di euro
tra nuovi e residui del Fondo specifico, vi sarebbero quelli
per i contratti
di sviluppo (500 milioni) già esistenti, perché stanziati dal
PNRR e destinati a più filiere strategiche, di cui l’auto
è solo una di queste. Sommando queste cifre più altre
frattaglie, il Governo promette di giungere alla poco mirabile
quota di 1,6
miliardi nel triennio, subito giudicata del tutto
insufficiente da Anfia (l’Associazione nazionale della filiera
industria automobilistica).
Tutto ciò in cambio di che? Il nuovo numero uno di Stellantis in Europa, Jean Philippe Imparato, ha chiarito che il target di un milione di veicoli prodotti in Italia, vagheggiato solo un anno e mezzo fa, resta un sogno – per usare un eufemismo – dal momento che il volume del prodotto si è ridotto rispetto al 2023 d quasi il 30% e che si prevede che tra veicoli industriali leggeri e vetture auto il bilancio del 2024 raggiungerà a stento le 500.000 unità.
Riflettere su tutte quelle parole diffusesi durante il quadriennio pandemico-bellico è fondamentale, proprio quelle che fingono di essere descrittive ma sono schiettamente valutative: negazionista climatico, no vax, filorusso, omofobo, patriarcale, populista, eccetera. Sono parole molto importanti per formare gli abitanti del nostro mondo nuovo in costruzione. Il loro uso è una sorta di cicalino d’avvertimento: ti dice che ti sei spinto oltre le colonne d’Ercole di ciò che deve essere detto o persino pensato. Il rapporto sociale mediato dai giudizi morali si potrebbe dire, parafrasando Debord.
Nella mente di chi ascolta mentre qualcuno viene così appellato appaiono e si solidificano divieti di accesso e direzioni obbligate. Si capisce che “là” non si deve mai andare. In tal senso, nei talk show i rituali accerchiamenti e le aggressioni verbali in molti contro uno di chi veramente dice l’indicibile (che non è mai la destra per la sinistra e la sinistra per la destra che simul stabunt con ciò che ne consegue) servono proprio a questo indispensabile imperativo amorale: “resta nel recinto di ciò che è opportuno dire”. In caso contrario, qualunque sia la tua statura scientifica o professionale, verrai considerato persona non grata da ogni agenzia culturale. Così si formano individui addestrati a non “esagerare”.
Ciò che mi sembra estremamente preoccupante è però l’assenza di “luddista” tra le “parole che squadrino da ogni lato”, le parole che ci dicono ciò che mai dobbiamo essere. Capita di rado di essere apostrofati così, non lo si usa e si conosce poco questo termine e ciò merita una riflessione.
Fine anno un po’ insolita. Altro che feste natalizie, qui siamo ormai alla fiera dell’irrealtà. Volessimo prendere sul serio i giornali, finiremmo per non capirci più nulla. Ma stavolta la colpa non è solo del circo mediatico. E’ che un’intera società vive ormai di illusioni e fantasie. Il che non sposta di un millimetro la realtà, ma la cela, la confonde, la inquina fino a renderla inintelligibile.
Il fenomeno è generalizzato, rilevabile e sempre più manifesto in ogni ambito della vita sociale. Ma c’è un caso che dovrebbe esser visibile anche ai ciechi: la guerra d’Ucraina.
Qui siamo di fronte al tentativo, maldestro quanto ossessivo, di mettere il carro davanti ai buoi. Senza dire come provare a fare la pace, si discute di come gestire il “dopoguerra”. E lo si fa a senso unico. Autisticamente, parlando solo con e per sé stessi. Un lusso che, al massimo, possono concedersi i vincitori quando sono davvero tali. Questa volta, però, l’Occidente non si troverà da quella parte del tavolo…
Da quel che si dice i governanti europei starebbero dibattendo su quanti soldati mandare in Ucraina. Ma a differenza della primavera scorsa, quando Macron aprì la discussione sull’invio delle truppe per combattere a fianco di Zelensky, adesso il tema è quello dell’invio dei cosiddetti “peacekeeper”. Quanti non si sa, ma le cifre vanno da 50 a 200mila. Ed è su quest’ultima cifra che insistono i più.
Mentre gli eredi di quei pennivendoli che nel 1940, con la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, inneggiavano al “Folgorante annunzio del duce” (Corriere della sera), oggi ghignano col ritornello dei fantomatici «12mila fantaccini mandati allo sbaraglio», di cui «almeno 1.100 soldati di Pyongyang» morti, coi «volti bruciati per evitarne il riconoscimento», il tutto rigorosamente “testimoniato” da fonti “attendibilissime” quali Seoul e Kiev, a Mosca si bada piuttosto ai fatti concreti.
E questi indicano una quasi sicura riattivazione delle azioni belliche a breve scadenza, sia con attacchi terroristici lontani dal fronte guerreggiato (la mano che ha minato e affondato la “Ursa Major” è la stessa dell'attentato al North stream?), sia con la preparazione di attentati (finora sventati dal FSB) contro funzionari del Ministero della difesa russo direttamente a Mosca, sia ancora con Kiev che accumula riserve da spedire al fronte, per cercare di guadagnare un po' di terreno in coincidenza con l'insediamento di Donald Trump e l'ormai quasi inevitabile monito della Casa Bianca a Zelenskij a sedersi al tavolo negoziale.
Pare anzi che i reparti ucraini al fronte siano stati avvertiti sul prossimo arrivo di discrete quantità di reclute e si ipotizza che ciò possa esser collegato al passaggio da 25 a 18 anni dell'età di richiamo, come ormai da mesi i padrini occidentali stanno chiedendo alla junta nazigolpista di Kiev: il progetto di legge sull'età di arruolamento è già tra le carte della Rada e potrebbe entrare all'OdG del parlamento agli inizi del nuovo anno, mentre Kiev insiste coi paesi UE perché riducano aiuti e sussidi ai rifugiati ucraini in età di leva per convincerli a tornare in patria.
La tendenza a etichettare come teoria del complotto qualsiasi perplessità venga espressa nei confronti delle versioni ufficiali non è l’effetto di superficialità o di casuali fraintendimenti, bensì rappresenta l’esigenza di difendere a oltranza il mito secondo cui gli apparati del cosiddetto Stato potrebbero derogare dalla legalità soltanto attraverso preventive quanto complesse cospirazioni. In realtà la stessa nozione di Stato è molto labile e incerta, dato che nei fatti il potere scavalca le distinzioni giuridiche e risulta trasversale tra il pubblico e il privato, e soprattutto tra la legalità e l’illegalità. La mistificazione è talmente strutturale al sistema che non c’è nulla di necessariamente pianificato nel fatto che un potere in difficoltà ricorra pretestuosamente alle emergenze in generale e all’emergenza terrorismo in particolare, poiché quest’ultima è la più facile da attuare e gestire. Il terrorismo è così salutare per il potere in ogni suo grado e in ciascuna sua articolazione, che gli attentati possono essere il risultato di iniziative di singoli funzionari, perciò tutto può procedere per fatti compiuti e successivi adattamenti degli apparati a un familiare e rassicurante meccanismo emergenziale.
Nel finale di questo 2024 il governo tedesco ha dovuto ammettere ufficialmente che l’economia è in recessione, e per un paese come la Germania ciò comporta effetti traumatici sul piano del prestigio interno e internazionale. Era meglio evitare di parlare di fallimenti industriali e dare invece al governo altri argomenti su cui creare pathos.
Quasi esattamente un secolo fa gli Stati Uniti, consolidata la propria sovranità sui territori strappati al controllo dell’impero britannico, annunciavano al mondo che la totalità del continente americano sarebbe stata considerata da quel momento in avanti una zona d’esclusiva competenza di Washington. Ciò inizialmente si manifestò nel sostegno dato ai paesi latinoamericani nelle loro lotte d’indipendenza, ma l’apparenza “libertaria” dell’azione statunitense cedette presto il passo a un chiaro disegno egemonico. Quella che è passata alla Storia come “Dottrina Monroe” venne in realtà codificata più di due decenni dopo la presidenza dell’omonimo statista, esponente del Partito Democratico-Repubblicano, antenato dell’attuale GOP, che ne pose materialmente le basi. Fu durante la presidenza di James Knox Polk, democratico, che essa venne sistematizzata per mano dell’allora Segretario di Stato John Quincy Adams. Il discorso inaugurale della presidenza Polk del 1845 ben rappresenta la nuova ottica egemonica con cui la giovanissima federazione si approcciava a quello che riteneva essere di diritto il “suo” emisfero: “L'occasione è stata ritenuta opportuna per affermare, come principio in cui sono coinvolti i diritti e gli interessi degli Stati Uniti, che i continenti americani, per la condizione di libertà e indipendenza che hanno assunto e mantengono, d'ora in poi non devono essere considerati come soggetti per una futura colonizzazione da parte di alcuna potenza europea. [...].
Le
vostre concezioni borghesi della
libertà, della cultura, del diritto ecc., sono anch’esse
un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di
proprietà,
così come il vostro diritto non è che la volontà della
vostra classe innalzata a legge.
K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista.
“Negare, ritardare, difendere"
Il 4 dicembre scorso, il cinquantenne Brian Thompson, amministratore delegato della compagnia di assicurazioni UnitedHealthcare, è stato ucciso a colpi di pistola fuori dall’hotel Hilton Midtown di New York, dove alloggiava per partecipare alla riunione annuale degli investitori. L'uomo, che già in passato aveva ricevuto minacce di morte, è stato ucciso da un’arma da fuoco e sui proiettili utilizzati per l’agguato sono state scritte con un pennarello le parole “Negare, Ritardare, Difendere”, un chiaro riferimento alla strategia operativa delle compagnie di assicurazioni che mirano a ritardare i pagamenti, a negare i rimborsi dovuti e a difendere queste azioni dando inizio a lunghe battaglie legali. Un uomo è stato arrestato per aver presumibilmente ucciso il suddetto dirigente della multinazionale statunitense UnitedHealthcare.
Il sospettato, Luigi Mangione, è stato arrestato il 9 dicembre in Pennsylvania e la polizia ritiene che si sia trattato di un omicidio premeditato. Al momento dell’arresto, Mangione aveva con sé un “manifesto” in cui l’impresa assicurativa sanitaria viene condannata per aver ricavato i suoi enormi profitti speculando in vario modo sulle malattie dei pazienti. Nel “manifesto” si afferma a chiare lettere che «questi parassiti se l’erano cercata». 1
Sono molte le persone che, negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo, hanno espresso comprensione per la rabbia di Luigi Mangione nei confronti di questa multinazionale della sanità privata. Il consenso di vaste masse di cittadini, che sulla Rete hanno approvato l’omicidio, ha rivelato una verità scomoda, e cioè che nel loro intimo milioni di Americani hanno sognato una simile vendetta. Fra tutte le anonime e incontrollabili forze che governano la vita quotidiana dei cittadini, la sanità commerciale è infatti quella che infligge le maggiori sofferenze e le più crudeli ingiustizie ai cittadini inermi.
Il 2025 non sarà un buon anno. I
tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori
politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza
l’entità dei
problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili
soluzioni.
Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.
Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee.
Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.
Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.
I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali a esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).
Contrariamente alle errate interpretazioni liberali, Marx era un feroce critico del colonialismo, afferma lo studioso marxista Marcello Musto
C.J. Polychroniou - Nell'ultimo decennio,
tra gli intellettuali di
sinistra, c'è stato un rinnovato interesse per la critica di
Karl Marx al capitalismo.Tuttavia, il capitalismo è cambiato
drasticamente
dai tempi di Marx, e l'idea che sia condannato
all'autodistruzione a causa delle contraddizioni che sorgono
dal funzionamento della sua stessa logica
non sembra più meritare credibilità intellettuale. La classe
operaia di oggi è molto più complessa e diversificata di
quella dei tempi della rivoluzione industriale. Inoltre, la
classe operaia non ha adempiuto alla missione storica
mondiale immaginata da Marx.
Infatti, sono state proprio simili considerazioni a dare
origine al post-marxismo; una posizione intellettuale in
voga tra gli anni '70 e '90, che
attacca la nozione marxista di analisi di classe e
sottovaluta le cause materiali dell'azione politica
radicale. Ma ora, a quanto pare, sembra che ci
sia ancora una volta un ritorno alle idee fondamentali di
Marx. Come spiegarlo? In effetti, Marx è ancora attuale
oggi?
Marcello Musto: «La caduta del muro di Berlino è stata seguita da due decenni di omertà sull'opera di Marx. Negli anni '90 e 2000, l'attenzione rivolta a Marx era estremamente scarsa e lo stesso si può dire della pubblicazione, e della discussione, dei suoi scritti. L'opera di Marx – non più identificata con l'odiosa funzione svolta dall'Unione Sovietica in quanto instrumentum regni – si è ritrovata al centro di un rinnovato interesse globale, nel 2008, dopo una delle più grandi crisi economiche nella storia del capitalismo. Giornali prestigiosi, così come periodici con un vasto pubblico, hanno descritto l'autore del Capitale come un teorico lungimirante, la cui rilevanza è stata ancora una volta confermata. Marx è diventato quasi ovunque oggetto di corsi universitari e conferenze internazionali. I suoi scritti allora riapparvero sugli scaffali delle librerie e la sua interpretazione del capitalismo acquisì un rinnovato slancio. Negli ultimi anni c'è stata anche una riconsiderazione di Marx come teorico politico, inducendo molti autori con una visione progressista a sostenere che le sue idee continuano a essere indispensabili per coloro che credono sia necessario costruire un'alternativa alla società in cui viviamo.
I colossi economici Usa hanno complottato per impoverire il regime di Erdogan. Così il “Sultano” ha deciso di mischiare le carte e cambiare le alleanze: ne vediamo gli effetti in Siria
La grandezza di una civiltà si misura dalla sua capacità egemonica, dall’attrazione che esercita in primo luogo sulle entità politiche più vicine.
Queste finiscono con l’entrare nella sua orbita fino al punto di esserne, in certi casi, assorbite. La perdita di egemonia, al contrario, innesca prese di distanza che possono sfociare in avversione, ostilità e guerre.
Questo è quanto accaduto negli ultimi anni nei rapporti tra la Turchia e l’Occidente. A una fase di ravvicinamento e di intesa così ampi da arrivare fino alla soglia dell’inclusione del maggiore paese del Medioriente nell’Unione europea, è seguito un rapido distacco che ha portato Ankara, nell’ultimo decennio, a diventare una vera e propria alterità rispetto a Bruxelles e a Washington. I due principali legami rimasti sembrano ancora consistenti, ma il cuore della Turchia batte ormai verso l’altra parte del continente eurasiatico.
I rapporti commerciali con l’Europa e l’appartenenza alla Nato contano ancora molto per Ankara, ma la sua politica estera si dirige sempre più verso i lidi non occidentali: Brics, Cina e Russia per intenderci.
Quando si parla di Autonomia Differenziata il rischio è quello di credere che dietro questa formulazione si nasconda nient’altro che il secessionismo leghista della prima ora agghindato in chiave “riformista”. In realtà quanto abbiamo di fronte è ben più complesso e attuale.
Ancora una volta se ci si ferma alla discussione sui concetti astratti, come federalismo, autonomia, patria e stato non si può capire come possano stare insieme nel disegno del governo due riforme apparentemente in contraddizione come il presidenzialismo e l’autonomia differenziata. L’una in termini ideali dovrebbe portare a un maggiore centralismo, l’altra invece in un decentramento dei poteri. A prima vista questo può sembrare uno strano pasticcio, ma se si inserisce la questione dello Stato nel quadro del capitalismo contemporaneo tutto diventa più nitido.
Ciò che sottolineano tutti giustamente è che questa riforma genererà ulteriore disuguaglianza su base geografica nel campo delle cure, dell’istruzione, del reddito più in generale, ma la riflessione spesso si ferma ai sintomi di qualcosa di più profondo.
Proviamo a entrare nel merito. Il nodo della questione, aggirando le retoriche che si sono formate sul tema dell’autonomia differenziata, è che le regioni del Nord agganciate maggiormente alle catene del valore internazionali vogliono trattenere più risorse per investimenti senza dover disperdere questa concentrazione a favore della solidarietà nazionale.
L’Unione Europea è stata sconfitta nella guerra in Ucraina. Lo ha detto domenica sera il premier ungherese Victor Orban parlando al canale televisivo M1. “Nonostante i tentativi di negarlo” la situazione è chiara: la Russia avanza in prima linea e l’UE dovrà adeguarsi alla nuova realtà.
Orban fa l’adulto nella stanza. Se gli europei entrassero in guerra, la sconfitta sarebbe ancora maggiore. “E’ necessario che il conflitto resti circoscritto”. È necessario che l’UE stabilisca degli “obiettivi realistici”.
La sconfitta dell’Europa
A poche ore dal suo insediamento come Alto Rappresentante per gli Affari esteri, Kaja Kallas ribadiva ai giornalisti dell’ANSA che l’UE sostiene una vittoria dell’Ucraina e lavora per ottenerla. La questione è cosa si debba intendere per “vittoria”.
Kiev sembra essersi rassegnata alla rinuncia dei territori sotto controllo russo. Dopo l’apertura a temporanee concessioni territoriali, adesso Zelensky (che Mosca reputa illegittimo come presidente) ammette che l’Ucraina non ha la forza per riconquistare Donbass e Crimea. E naturalmente chiede ai suoi partner di avere più armi, più soldi e un invito alla NATO per poter sedersi al tavolo di futuri negoziati “da una posizione di forza”, sperando di riottenerli via diplomatica.
Si sente spesso elogiare la Costituzione italiana perché ha posto a suo fondamento il lavoro. Eppure non soltanto l’etimologia del termine (labor designa in latino una pena angosciosa e una sofferenza), ma anche la sua assunzione a insegna dei campi di concentramento («Il lavoro rende liberi» era scritto sul cancello di Auschwitz) avrebbero dovuto mettere in guardia contro una sua accezione così incautamente positiva. Dalle pagine della Genesi, che presentano il lavoro come una punizione per il peccato di Adamo, al brano tanto spesso citato dell’Ideologia tedesca in cui Marx annunciava che nella società comunista sarebbe stato possibile, invece di lavorare, «fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come ne viene voglia», una sana diffidenza verso il lavoro è parte integrante della nostra tradizione culturale.
C’è, però, una ragione più seria e profonda, che dovrebbe sconsigliare di mettere il lavoro a fondamento di una società. Essa proviene dalla scienza, e in particolare dalla fisica, che definisce il lavoro attraverso la forza che occorre applicare a un corpo per spostarlo. Al lavoro così definito si applica necessariamente il secondo principio della termodinamica. Secondo questo principio, che è forse l’espressione suprema del sublime pessimismo cui giunge la vera scienza, l’energia tende fatalmente a degradarsi e l’entropia, che esprime il disordine di un sistema energetico, altrettanto fatalmente ad aumentare. Quanto più produciamo lavoro, tanto più disordine ed entropia cresceranno irreversibilmente nell’universo.
Se il libro di Mimmo Cangiano (“Guerre culturali e neoliberismo”, nottetempo) è prezioso – e lo è sicuramente – lo dobbiamo all’equilibrio e alla fermezza della tesi centrale. Parlare di woke culture e di battaglie identitarie implica una riflessione preliminare sull'uso che il potere capitalista può fare di esse. L’errore più grande è separare oppressione e sfruttamento, senza riconoscere che il tecno-capitalismo gioca su più tavoli. In alcune parti del mondo si avvale del patriarcato più retrivo, in altre flirta felicemente con la retorica del “fluido”, con il nomadismo identitario e altri concetti strappati alla cosiddetta French Theory (in auge nelle università americane). In sintesi possiamo dire questo: per una certa corrente di pensiero affermatasi negli ultimi decenni del Novecento, il conflitto principale non sarebbe tra capitale e lavoro, ma tra l’universalismo occidentale, eteronormativo e coloniale, e tutti coloro che recalcitrano a essere assorbiti in seno all'Uno dei moderni. Ne consegue che, in linea di massima, ci si illuda di mettere in crisi il potere semplicemente rivendicando un’identità non conforme a quelle maggioritarie. Sfuggire ai binarismi, moltiplicare la richiesta di diritti civili, elogiare le identità fluide che non si fanno catturare dal discorso dominante (sessista, maschio ed euro-centrico) sarebbe già l’inizio della rivoluzione. Chi rifiuta la reductio ad unum, insomma, si ritiene in quanto tale un pericolo per il potere.
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Giacomo Gabellini: La traiettoria insostenibile del debito Usa
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“Contro la sinistra
liberale” di Sahra Wagenknecht è senza dubbio uno dei più
importanti libri di critica delle società del capitalismo
cosiddetto avanzato, specialmente di quelle dell’Europa
occidentale, usciti negli ultimi anni. Non è un caso se in
Germania il libro, il
cui titolo originale è Die Selbstgerechten, ossia i
Presuntuosi, è stato in cima alle classifiche di vendita per
molto
tempo.
Il testo è scritto, infatti, in modo molto semplice, in grado di essere recepito da parte di un vasto pubblico anche se i temi trattati sono complessi. L’interesse principale del libro consiste nel fatto che l’autrice svolge una critica alla sinistra oggi dominante, sviluppando una analisi delle società a capitalismo avanzato, della ideologia di sinistra e soprattutto della composizione sociale delle classi sociali derivata dalle modificazioni dovute alla modernizzazione capitalistica degli ultimi decenni.
A incuriosire alla lettura di questo libro è, però, anche il fatto che l’autrice non è una semplice intellettuale, bensì una politica molto nota in Germania, che ha raccolto risultati positivi con la sua forza politica di recente costituzione. BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht – Vernunft und Gerechtigkeit, in italiano Alleanza Sahra Wagenknecht – Ragione e Giustizia) è una scissione dal partito Die Linke ed è stata fondata il 26 settembre 2023 come associazione e l’8 gennaio 2024 come partito. Nel giro di soli sei mesi BSW ha dimostrato inaspettatamente di essere un partito capace di raggiungere risultati lusinghieri. Alle elezioni europee di giugno 2024 è risultato essere il quinto partito con il 6,2% dei voti, mentre Die Linke scivolava al 2,7%. Le roccaforti di BSW sono nella ex Germania est, la zona più povera del Paese, dove alle europee era il terzo partito con il 13,8%. Il risultato positivo nella ex Germania est si è ripetuto alle regionali tenutesi a settembre in Turingia (15,8%) e in Sassonia (11,8%), dove BSW si è confermata la terza forza politica.
Nei racconti di
Tolkien i Palantir sono le pietre veggenti e vedenti presenti
nel Signore degli Anelli il cui nome significa
“coloro che vedono
lontano”. In linea con il testo “Magical Capitalism”, di
Moeran e De Waal Malefyt, che vede il magico delle narrazioni
come un
potente strumento di valorizzazione del brand delle
piattaforme, a inizio anni 2000 i Palantir hanno dato il nome
all’omonima azienda.
Palantir Technologies si occupa di analisi dei big
data e di piattaforme di gestione dell’intelligenza
artificiale. Palantir
opera su diverse piattaforme di gestione della AI di cui qui
ne segnaliamo tre per capire il tipo di azienda di cui stiamo
parlando: Gotham,
Foundry e MetaConstellation.
Gotham è utilizzata principalmente da agenzie governative, forze dell’ordine e intelligence ed è progettata per integrare, gestire, proteggere e analizzare enormi quantità di dati eterogenei provenienti da diverse fonti (come database, fogli di calcolo, e-mail, immagini, dati geospaziali). Permette agli utenti di identificare schemi, collegamenti nascosti e trend all’interno dei dati, facilitando indagini complesse e l’analisi di intelligence i suoi casi tipici di uso sono contrasto alla Jihad, prevenzione di frodi finanziarie, cybersecurity, gestione di emergenze e catastrofi naturali, intelligence militare.
Foundry è utilizzata da imprese commerciali e organizzazioni di vario tipo, in diversi settori (finanza, sanità, produzione, logistica, ecc.) . Si tratta di una piattaforma più versatile, progettata per aiutare le organizzazioni a integrare dati da diverse fonti, trasformarli, analizzarli e costruire applicazioni operative basate su di essi. Permette di creare un “digital twin” dell’organizzazione, facilitando l’ottimizzazione dei processi, la presa di decisioni basate sui dati e l’innovazione. Ha come uso principale la ottimizzazione della supply chain, gestione del rischio, manutenzione predittiva, ricerca e sviluppo, customer relationship management, compliance. In breve, si tratta di una potente piattaforma per la gestione e l’analisi di dati aziendali, per migliorare l’efficienza e la presa di decisioni.
Con una inchiesta pubblicata venerdì scorso, il Wall Street Journal ha reso noto di aver scoperto come negli ultimi 4 anni alla Casa Bianca non governasse più Biden, assolutamente incapace di intendere e di volere. Il presidente statunitense, che per altri 30 giorni governerà gli Stati Uniti e, per consunzione, l’intero Occidente Collettivo, è vittima da anni di uno stato di demenza senile che lo rende assolutamente incompatibile con un ottimale stato psico-fisico necessario per l’esercizio del mandato. Anzi, ne sarebbe una fondamentale pre-condizione per svolgerlo.
C’è da trarre conclusioni inquietanti sotto diversi aspetti: il primo dei quali ha a che vedere con la reiterata menzogna che la Casa Bianca ha diramato sulle condizioni di salute del Presidente. Quindi di come la stampa occidentale, dai mezzi praticamente illimitati, abbia scelto, pur di fronte all’evidenza di un deficit cognitivo palese da parte di Biden, di ignorare il fatto e le sue gravissime implicazioni. Anzi, si buttava con sprezzo del ridicolo alla ricerca dei tumori di Putin, che veniva dato un giorno per gravemente malato, un giorno per morto e un giorno per vittima di un golpe al Cremlino. E gode invece di ottima salute.
Un altro aspetto, ancor più inquietante, se possibile, riguarda la scontata ma inevitabile domanda: chi ha governato gli Stati Uniti in questi anni? Chi ha deciso il proseguimento della guerra via Ucraina degli USA contro la Russia? Chi ha stabilito le linee di politica economica interne e chi ha deciso la messe di sanzioni commerciali elargite con automatica quanto stupida meccanicità?
Sanzioni energetiche alla Russia e politiche climatiche favoriscono deindustrializzazione e inflazione da costi e da offerta contro gli interessi dell’Ue a favore degli USA
L’Unione Europea sta utilizzando le riserve di gas più velocemente che negli ultimi tre anni a causa del clima freddo, della riduzione delle importazioni via mare e della maggiore concorrenza per il GNL da parte dei paesi asiatici. Il GNL ha costi da 4 a 5 volte superiori al gas da tubo russo.
Da settembre le riserve di gas sono diminuite del 19%, un dato significativamente superiore rispetto ai due anni precedenti.
L’Europa è costretta a fare maggiore affidamento sui propri impianti di stoccaggio per compensare il calo delle importazioni di GNL e soddisfare la crescente domanda. Ora i depositi di stoccaggio sono riempiti al 75%, mentre un anno fa erano al 90%.
A complicare la condizione già assai precaria, l’Ue, mentre intende fare a meno del gas russo pretende pure il rispetto delle politiche climatiche (*).
Indebolire Mosca e ottenere allo stesso tempo emissioni zero rischierà di avere come effetto nuovi incrementi del prezzo del gas e dell’energia elettrica, inflazione e deindustrializzazione (In Italia siamo al ventiduesimo mese consecutivo di calo della produzione industriale).
E’ bastato un semplice discorso di Putin per capire che anche “fare la pace” in Ucraina non sarà una cosa lineare.
Andiamo con ordine.
Intanto si è capito di cosa hanno parlato nei giorni scorsi il presidente russo e il premier slovacco, il socialdemocratico Fico, sotto la coltre scandalizzata di parole di condanna del resto dell’Unione Europea. Le trattative per una pace potrebbero partire, e Bratislava si offre come sede.
Lo scandalo – e l’imbarazzo occidentale – sta tutto nel fatto che la Slovacchia è un paese aderente alla Nato e, nonostante questo, la Russia lo considera abbastanza indipendente da costituire quasi una “sede neutrale”.
Del resto, se si guarda al mondo con gli occhiali del bipolarismo guerrafondaio, di paesi “terzi” veri e propri non ce ne sono, a meno di non andare in Asia a cercare di risolvere un problema euro-atlantico…
Il secondo problema posto da Putin è invece di merito: “Vogliamo chiudere la guerra, non congelarla“. Ovvero raggiungere un trattato complessivo non tanto con Kiev – palesemente ormai solo un suicida combattente per conto terzi – quanto con l’intera Nato, a cominciare ovviamente dagli Stati Uniti.
Niente “soluzione coreana” insomma – le due Coree, dal 1953, sono di fatto divise sul 38° parallelo senza che sia mai stato stipulato un trattato di pace con obblighi riconoscibili – come traspariva dalle roboanti dichiarazioni occasionali di Donald Trump (i “democratici” sono invece per la prosecuzione della guerra fino alla “vittoria”).
Contro la retorica, la propaganda dominante e la menzogna, è la verità, sempre rivoluzionaria, a ergersi come baluardo.
Invitato ad Atreju, la festa politica della destra italiana, il presidente argentino Javier Milei ha condotto una sorta di lezione circa carattere e futuro della destra. Un manifesto ideologico condensato, nel suo orizzonte, in alcune affermazioni tanto lapidarie quanto discutibili. Per capire l’orientamento ideologico di questa destra e decodificare l’idea di società che vi è dietro, è opportuno addentrarsi in alcune delle più significative di queste espressioni, così come la stampa ce le ha restituite: la premessa consiste nel fatto che “la destra deve lottare unita come una falange di opliti o come una legione romana, dove nessuno rompe la formazione”, e quindi la visione della destra come visione di battaglia, di scontro, come visione militarista, cameratesca, da caserma. I contenuti programmatici, i cosiddetti “principi innegoziabili” sarebbero invece quelli per cui “il mercato libero produce prosperità per tutti”; “il governo deve essere limitato, le persone sanno meglio di un burocrate come produrre, chi impiegare e con chi commerciare”; “chi le fa, le paga”. In sintesi, “riassumendo, difendiamo la vita, la libertà e la proprietà privata”.
Nel paragrafo
“Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre
tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento
rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato
come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia
di quanto argomentato
in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin
combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per
costruire
l’autonomia politica del proletariato in quanto classe
dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che
ciò non avviene
nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto
meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni
apparentemente cupi come quelli
che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento
russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo
industriale e agrario
del capitalismo all’interno del sistema feudale russo,
dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di
un movimento
borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia
del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla
nascita delle prime
forme di organizzazione operaia.
Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.
C’è un
calendario dei popoli e uno di chi li opprime, compilato in
base agli interessi inconciliabili che muovono la lotta di
classe, e confusi solo nei
paesi in chi la borghesia ha vinto la partita nel secolo
scorso, riuscendo a imporre la “verità” dei vincitori: “Per
ora”, come disse il comandante Chávez consegnando con quella
frase una promessa. Che quella promessa si sia compiuta con la
rivoluzione
bolivariana, e che questa continui a incamminarsi verso una
transizione al socialismo vantando un anno in più di
resistenza, è una forte
spina nel fianco di un capitalismo in crisi sistemica, che sta
portando il mondo alla catastrofe.
Per imporre la strategia del “caos controllato” anche in America latina – un continente ancora esente da un conflitto armato e che, il 28 e 29 gennaio del 2014, un vertice della Celac ha dichiarato “zona di pace” – l’imperialismo a guida Nato deve strapparsi a ogni costo quella spina dal fianco: sommergendola sotto un manto di menzogne, per preparare un attacco in più grande stile dagli esiti incerti.
Se, infatti, il primo governo di Donald Trump ha inasprito e moltiplicato il sistema di misure coercitive unilaterali illegali messo in moto con il decreto Obama (che definì il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti”), il secondo, che inizierà formalmente il 20 gennaio, non si annuncia di segno diverso. Dopo aver vinto le elezioni, il 5 novembre, il tycoon ha infatti annunciato che a far parte del suo staff saranno alcuni dei rappresentanti più incarogniti nel perseguire i governi socialisti dell'America latina, come Marco Rubio ed Elon Musk. E come il cubano-statunitense, Mauricio Claver-Carone, ex presidente del Bid e da sempre all'attacco di Cuba e del Venezuela, ora inviato speciale del Dipartimento di Stato per l'America latina.
A Rubio, senatore della Florida, noto per le posizioni da falco contro la Cina, contro Cuba (da cui è scappata la sua famiglia), contro il Venezuela e il Nicaragua, toccherà il ruolo di Segretario di Stato. Per aver mobilitato a favore di Trump il voto dei “latinos”, sarà il primo capo della diplomazia di origine ispanica.
Cinque giornalisti della testata al Quds uccisi a Gaza nella loro macchina contrassegnata “PRESS” portano a 200 i giornalisti sterminati nella Striscia, in aggiunta ai propri famigliari, colpiti con loro nelle rispettive abitazioni, e a quelli abbattuti in Cisgiordania. E’ democrazia.
Un cittadino iraniano arrestato a Fiumicino su richiesta degli USA perché avrebbe a che fare con la produzione dei droni iraniani utilizzati in Ucraina. E’ democrazia.
Cinque cittadini pakistani, tra cui una donna, colpevoli di assolutamente nessun reato, ma sospettati di volersi unire a una qualche Jihad terroristica (non quella al potere per conto USA-Sion-Turchia a Damasco), arrestati a Bologna. E’ democrazia.
Uno dei più rinomati giornalisti britannici, Richard Medhurst, prelevato a forza dall’aereo a Londra, trattenuto per giorni in arresto, privato degli strumenti di lavoro, sulla base di nessunissima accusa, minacciato, intimidito. Aveva parlato male dei “liberatori della Siria”. E’ democrazia.
Qualche accenno sulla stampa mainstream e via. Succede dove comandano i buoni. Quelli della dittatura della sorveglianza e della repressione, delle leggi antioperaie, del carcere a chi si oppone a Grandi Opere devastatrici, od occupa un’aula scolastica, o mette su un picchetto. Quelli delle guerre e dei genocidi.
Quando i Jerome Powell e le Christine Lagarde (attuale presidente della Bce) di questo mondo si accaniscono ad alzare i tassi di interesse ben sapendo che causeranno una recessione economica, lo fanno per una preoccupazione, oserei dire un’angoscia: se le persone non accettano più la loro condizione di salariati a basso costo, crolla la base stessa del nostro sistema economico. […]
Prendiamo il nostro Paese come esempio: se guardiamo alla spesa «aggregata» dello Stato italiano, non vedremo alcuna traccia di austerità.
Infatti lo Stato sta spendendo moltissimo in ambito militare e nel sostegno delle imprese (le banche per esempio) che mettono così in sicurezza i propri profitti.
I numeri della spesa pubblica non calano. Ma la questione rilevante è un’altra. Non si tratta semplicemente di vedere se lo Stato spende, quanto piuttosto dove lo Stato spende o, meglio, per chi lo Stato spende.
L’austerità non è una generica azione sulla spesa pubblica intesa come un tutto, è invece un’azione politica che agisce sulla capacità di spesa delle persone e quindi interviene sulla qualità della vita della maggioranza della popolazione, lasciando sostanzialmente protetta e intoccata quell’élite che non vive del salario e dunque principalmente del proprio lavoro ma gode di rendite (immobiliari, finanziarie ecc.) e profitti. […]
Lo scorso 17 dicembre, il tenente generale Igor Kirillov, a capo dell’unità di protezione nucleare, radiologica, chimica e biologica delle forze armate russe è stato assassinato a Mosca assieme al suo assistente Ilya Polikarpov dall’esplosione di un ordigno collocato sotto uno scooter situato nelle adiacenze dell’abitazione dell’ufficiale. Nell’arco di un giorno, gli inquirenti russi hanno catturato, identificandolo come esecutore dell’attentato, il ventinovenne uzbeko Akhmad Kurbanov. Interrogato dall’Fsb, Kurbanov ha dichiarato quasi immediatamente di aver agito su commissione dei servizi di sicurezza ucraini, che lo avevano assoldato promettendogli come contropartita il versamento di 100.000 dollari e un passaporto europeo.
L’omicidio di Kirillov, rivendicato di lì a brevissimo dai vertici del Sbu, è stato definito come legittimo sia dai rappresentanti istituzionali di Kiev che dal «Times» britannico, al quale il presidente del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa Dmitrij Medvedev ha risposto che, utilizzando lo stesso metro, sono da ritenersi obiettivi legittimi anche «tutti i funzionari della Nato che forniscono assistenza militare all’Ucraina e stanno partecipando a una guerra ibrida contro la Russia». Anche il tenente generale Keith Kellogg, recentemente investito da Donald Trump dell’incarico di plenipotenziario per il conflitto russo-ucraino, ha condannato l’attentato, che a suo avviso rappresenta al contempo una violazione delle regole di guerra e una mossa del tutto controproducente per l’Ucraina.
Delegazione russa di alto profilo in Iran. Si appresta il trattato globale Mosca-Teheran. Russia, Iran e Turchia tentano di preservare l'integrità territoriale siriana
Visita di alto livello quella della delegazione russa in Iran guidata dai vice primi ministri Alexei Overchuk e Vitaly Savelev. A tema la firma del trattato di cooperazione globale tra Mosca e Teheran, finora rimandato e che dovrebbe essere siglato a gennaio, quando il presidente iraniano Masoud Pezeshkian si recherà in Russia.
Chiaramente c’era anche altro in ballo nella visita, questioni più urgenti come il caos siriano e il tintinnio di sciabole che riecheggia negli States, dove i neocon incardinati nell’amministrazione Trump, in coordinato disposto con Tel Aviv, hanno ricominciato i preparativi, propagandistici e militari, di una prossima aggressione all’Iran.
La fretta di firmare il trattato con la Russia serve anche a rendere più difficile tale opzione, dal momento che Mosca ha già iniziato a inviare armi a Teheran e si appresta a rinfoltirne vieppiù l’arsenale.
Quanto a Damasco, di interesse un articolo di M. K. Bhadrakumar su Indianpuchline, nel quale riprende quanto detto da Putin sulla Siria nel suo recente intervento. In sostanza, l’ex ambasciatore indiano spiega che Putin ha ricordato che le forze russe erano intervenute in Russia per combattere il terrorismo ivi annidato, riuscendo nell’impresa.
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Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
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Alastair Crooke: Perfidia a Teheran
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1. Una lenta erosione
Assistiamo da molto tempo, nei paesi occidentali, a una lenta erosione del fondamentale principio della libertà di pensiero, intesa naturalmente come libertà di espressione pubblica delle opinioni. Nel 2024 abbiamo assistito, per fare qualche esempio, all’arresto di Pavel Durov, fondatore del “social” Telegram, e a iniziative repressive contro le proteste nei confronti della politica israeliana, iniziative che assumono modalità diverse nei vari paesi ma sembrano avere in comune l’accomunare la critica alle politiche israeliane con l’antisemitismo. Il catalogo dell’intolleranza contemporanea è però, purtroppo, molto più vasto, e comprende per esempio alcuni aspetti di quello “spirito del tempo” che viene genericamente indicato con termini quali “politicamente corretto”, “wokism”, “cancel culture”. Un recente notevole esempio in questo senso è rappresentato dalle contestazioni verso il film “Ultimo tango a Parigi”, che hanno portato alla cancellazione di una proiezione prevista in una sala cinematografica della capitale francese.
In sostanza, l’intolleranza contemporanea è presente in versioni sia “di destra” sia “di sinistra”, e va quindi indagata appunto come una espressione dello “spirito del tempo”.
Per fissare un punto di partenza di questa deriva, almeno per quanto riguarda l’Europa, si può forse indicare la legge francese del 1990, legge Gayssot, che fra le altre cose rendeva reato la negazione dell’esistenza del genocidio subito dagli ebrei ad opera del nazismo. Questa legge è stata poi imitata, in un modo o nell’altro, da molti paesi europei. Sicuramente tale legge non è la prima, in un paese occidentale, a colpire la libertà di opinione: basti pensare, in Italia, alla legge Scelba. La legge Gayssot mi sembra però significativa perché è stata imitata, in forme diverse, in vari paesi europei, e soprattutto perché essa colpisce non tanto una posizione politica sgradita, ma proprio la pura e semplice manifestazione di un’opinione: negare il genocidio ebraico, di per sé, è solo un’opinione relativa a fatti storici e non sottintende nessuna particolare posizione politica, tanto che sono esistite correnti di estrema sinistra (ultraminoritarie anche all’interno dell’estrema sinistra, s’intende) che sostenevano tale opinione.
I miei ultimi lavori (1) devono molto
alla interpretazione che l’ultimo Lukacs (2) ha dato del
pensiero di Marx. Analizzando i concetti fondamentali della
ontologia lukacsiana in un
ciclo di lezioni che sto tenendo per il Centro Studi Domenico
Losurdo (la più recente si può ascoltare all’indirizzo You
Tube: https://www.youtube.com/watch?v=z6q7KhmGK5g
) mi sono reso conto che, in tutte le cose che ho sin qui
scritto e detto su di lui, ho fatto solo brevi accenni alla
sua biografia. È vero
che, ragionando su un pensiero di grande spessore le
considerazioni relative all’opera tendono a prevalere su
quelle dedicate alla figura
dell’autore, tuttavia, nel caso specifico, tale approccio non
è del tutto appropriato. Non solo perché la sua vicenda umana
ha
incrociato eventi storici di enorme portata - la Prima guerra
mondiale, le Rivoluzioni russa e ungherese, lo stalinismo, la
Seconda guerra mondiale,
l’insurrezione ungherese del 56 – e personaggi della statura
di Georg Simmel, Max Weber, Thomas Mann, Ernst Bloch, Lenin e
Stalin. Ma
perché proprio il fatto di aver attraversato – uscendone
indenne – queste grandi prove, ha fatto sì che critici e
detrattori
abbiano potuto attribuirgli una “prudenza” al limite della
pavidità, se non di un vero e proprio opportunismo. Il tutto
al fine
malcelato di sminuire la portata del suo pensiero.
È per questo che ho deciso di rimettere mano a una sua lunga intervista autobiografica (Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo) pubblicata in edizione italiana dagli Editori Riuniti nel 1983. Nelle pagine che seguono ne richiamerò alcuni passaggi perché ritengo che, da questa “confessione”, emerga un profilo di straordinaria coerenza personale, politica, ideale e morale, anche – se non soprattutto – nelle discontinuità e nei ripensamenti autocritici: la sua storia è quella di un intellettuale e militante comunista che, pur consapevole delle contraddizioni e delle storture emerse nel corso del grande esperimento sociale inaugurato nell’Ottobre 1917, non ha mai voluto “salvarsi l’anima” (e intraprendere una ricca carriera in qualche università occidentale) indossando i panni del “dissidente”, perché, dichiara, è sempre rimasto convinto che “sia meglio vivere nella peggior forma di socialismo che nella miglior forma di capitalismo”.
La Groenlandia è l’isola più grande del mondo e corrisponde al 22% del territorio degli US, circa la somma di Italia + Francia + Spagna + Germania + Polonia + Regno Unito, 50 volte la superficie della Danimarca con soli 60.000 abitanti. È parte del regno di Danimarca ma dotata di ampi poteri autonomi.
Secondo un rapporto dell’US Geological Survey nel sottosuolo (tra terra emersa e pertinenza sui fondali marini) si troverebbero il 13% delle risorse mondiali di petrolio e il 30% di quelle di gas, più oro, rubini, diamanti, zinco, ferro, rame, terre rare e molto uranio, per uno stimato valore complessivo di circa 400 mld di US$, il Pil di un anno per la Danimarca.
Gli statunitensi vi hanno già diverse basi militari non pubblicizzate, tranne quella nota di Pituffik che è centro di tutta la rete di protezione spaziale (NORAD). Al di là delle risorse pur cospicue, non v’è dubbio che il peso strategico principale dell’isola ghiacciata è geo-strategico essendo parte del Polo Nord e controllando l’accesso al Polo per tutto il sud-ovest.
Per il Polo Nord, bordeggiando la Siberia, i cinesi pianificano lo sviluppo della loro Via della seta polare, una alternativa strategica per evitare gli stretti del sud-est asiatico (poi Bab el-Mandeb, Mar Rosso, Suez) ed accorciare anche i tempi di traversata per giungere in Europa.
Fine anno rocambolesco per la politica mondiale, con i protagonisti che affilano le armi e si preparano a farci vedere il meglio di loro.
La Turchia, come ormai di abitudine, mostra una vitalità e un dinamismo che la vecchia Europa ormai non può nemmeno sognare.
Continuano le mobilitazioni della società civile che chiedono un’azione ancora più decisa da parte del governo in sostegno della causa palestinese. Crescono i timori di essere i prossimi nel mirino israeliano, specie vista l’estensione del territorio controllato da Tel Aviv in Siria e la non applicazione del cessate il fuoco con Hezbollah. Israele procede nella distruzione di case – o peggio di interi villaggi –, ma soprattutto rimane sul suolo libanese, contravvenendo all’accordo che prevedrebbe il ritiro dell’IDF all’interno dei confini israeliani e di Hezbollah a Nord del fiume Litani; le truppe di Tel Aviv dovrebbero dunque lasciare il controllo dei territori all’esercito libanese.
Al momento dalla fine delle ostilità vi sono stati oltre duecentoquaranta attacchi, causando morti e feriti.
Crescono i timori ad Ankara di essere la prossima vittima. Tel Aviv sta infatti portando avanti il genocidio a Gaza e in Cisgiordania quotidianamente; occupa il Libano meridionale; ha bombardato e provocato Iran e Siria, paese di cui ha occupato anche alcune porzioni; ha bombardato lo Yemen (Netanyahu ha detto continueranno a colpire il paese fino ad “eliminare l’asse del male iraniano”).
Un’America in crisi all’interno tenta una proiezione “muscolare” all’esterno. Infrantasi contro il “muro” russo in Ucraina, affonda nel ventre molle mediorientale trainata dall’ariete israeliano
Sebbene i
bilanci di fine anno si risolvano spesso in stucchevoli
elenchi di eventi e in previsioni il più delle volte erronee,
al termine di
un’annata così tragica e tumultuosa come quella che si sta
chiudendo sarà forse utile tracciare un bilancio per tentare
di
comprendere cosa ci riserva il futuro.
Il 2024 era iniziato mentre infuriava la violentissima operazione militare di Israele a Gaza, e i primi omicidi mirati israeliani in Siria e Libano, così come gli attacchi degli Houthi (gruppo yemenita altrimenti noto come Ansar Allah) al traffico commerciale nel Mar Rosso, lasciavano presagire un possibile allargamento del conflitto all’intera regione mediorientale.
Nel frattempo, dopo la fallita controffensiva delle forze armate ucraine nell’estate del 2023, il conflitto nel paese est-europeo ha cominciato a volgere al peggio per Kiev. L’Ucraina mancava di uomini e mezzi. L’Occidente stava perdendo la sfida della produzione bellica con la Russia.
Anche a causa dei contraccolpi della guerra ucraina, nel 2024 l’Europa ha iniziato a sprofondare in una crisi economica e politica in gran parte frutto delle disastrose scelte degli anni passati: le prolungate politiche di austerità, la ridefinizione delle catene di fornitura avviata con la crisi del Covid-19, la decisione europea di rinunciare all’energia a basso costo fornita dalla Russia.
I due paesi leader dell’UE, Germania e Francia, hanno cominciato ad avvitarsi in gravi crisi interne che hanno intaccato progressivamente la loro stabilità politica.
Nel vano tentativo di rovesciare le sorti del conflitto in Ucraina, i paesi NATO hanno adottato tattiche sempre più provocatorie (sebbene militarmente inconcludenti), incoraggiando Kiev a colpire obiettivi in territorio russo e violando progressivamente le “linee rosse” di Mosca.
Nel paragrafo
“Il proletariato come classe dirigente” Lukács ripercorre
tutto il lavoro compiuto da Lenin all’interno del movimento
rivoluzionario dell’epoca per far emergere il proletariato
come classe dirigente dentro la rivoluzione russa. Sulla scia
di quanto argomentato
in precedenza, l’attualità della rivoluzione, Lenin
combatte una battaglia teorica, politica e organizzativa per
costruire
l’autonomia politica del proletariato in quanto classe
dirigente del processo rivoluzionario. È bene ricordare che
ciò non avviene
nel corso delle giornate insurrezionali del 1905 e, tanto
meno, dopo il febbraio del ’17, ma piuttosto in anni
apparentemente cupi come quelli
che caratterizzano la fine dell’ottocento e il primo novecento
russo. Anni in cui, per un verso, si osserva lo sviluppo
industriale e agrario
del capitalismo all’interno del sistema feudale russo,
dall’altro la crisi politica del populismo e l’affermarsi di
un movimento
borghese che, nel contesto, userà il marxismo come ideologia
del capitalismo. In contemporanea a ciò si assiste alla
nascita delle prime
forme di organizzazione operaia.
Il dibattito politico del movimento rivoluzionario e democratico è ancora pesantemente egemonizzato da quell’idea di popolo che aveva fatto da sfondo al populismo e alle sue diverse anime. Una continuità storica che, in qualche modo, si protrae sin dai tempi dei decabristi. L’irrompere del modo di produzione capitalista dentro l’apparente immobilismo dell’impero zarista mette in crisi quell’idea di particolarità che la Russia si era a lungo portata appresso e che tanto aveva incuriosito e attratto il mondo politico e culturale europeo. Il mistero russo aveva necessariamente coinvolto lo stesso movimento rivoluzionario tanto che gli stessi Marx ed Engels sulla Russia si erano soffermati in più occasioni1. Agli occhi degli europei la Russia si mostrava, al contempo, come bastione solido e inamovibile della controrivoluzione ma anche, per non secondarie schiere di rivoluzionari delusi dagli insuccessi del ’48 europeo, come il luogo maggiormente prono a un radicale processo rivoluzionario. L’autocrazia per gli uni, il popolo per gli altri, diventavano tanto i poli quanto l’esemplificazione del rapporto rivoluzione/controrivoluzione.
C’è un
calendario dei popoli e uno di chi li opprime, compilato in
base agli interessi inconciliabili che muovono la lotta di
classe, e confusi solo nei
paesi in chi la borghesia ha vinto la partita nel secolo
scorso, riuscendo a imporre la “verità” dei vincitori: “Per
ora”, come disse il comandante Chávez consegnando con quella
frase una promessa. Che quella promessa si sia compiuta con la
rivoluzione
bolivariana, e che questa continui a incamminarsi verso una
transizione al socialismo vantando un anno in più di
resistenza, è una forte
spina nel fianco di un capitalismo in crisi sistemica, che sta
portando il mondo alla catastrofe.
Per imporre la strategia del “caos controllato” anche in America latina – un continente ancora esente da un conflitto armato e che, il 28 e 29 gennaio del 2014, un vertice della Celac ha dichiarato “zona di pace” – l’imperialismo a guida Nato deve strapparsi a ogni costo quella spina dal fianco: sommergendola sotto un manto di menzogne, per preparare un attacco in più grande stile dagli esiti incerti.
Se, infatti, il primo governo di Donald Trump ha inasprito e moltiplicato il sistema di misure coercitive unilaterali illegali messo in moto con il decreto Obama (che definì il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti”), il secondo, che inizierà formalmente il 20 gennaio, non si annuncia di segno diverso. Dopo aver vinto le elezioni, il 5 novembre, il tycoon ha infatti annunciato che a far parte del suo staff saranno alcuni dei rappresentanti più incarogniti nel perseguire i governi socialisti dell'America latina, come Marco Rubio ed Elon Musk. E come il cubano-statunitense, Mauricio Claver-Carone, ex presidente del Bid e da sempre all'attacco di Cuba e del Venezuela, ora inviato speciale del Dipartimento di Stato per l'America latina.
A Rubio, senatore della Florida, noto per le posizioni da falco contro la Cina, contro Cuba (da cui è scappata la sua famiglia), contro il Venezuela e il Nicaragua, toccherà il ruolo di Segretario di Stato. Per aver mobilitato a favore di Trump il voto dei “latinos”, sarà il primo capo della diplomazia di origine ispanica.
Quando i Jerome Powell e le Christine Lagarde (attuale presidente della Bce) di questo mondo si accaniscono ad alzare i tassi di interesse ben sapendo che causeranno una recessione economica, lo fanno per una preoccupazione, oserei dire un’angoscia: se le persone non accettano più la loro condizione di salariati a basso costo, crolla la base stessa del nostro sistema economico. […]
Prendiamo il nostro Paese come esempio: se guardiamo alla spesa «aggregata» dello Stato italiano, non vedremo alcuna traccia di austerità.
Infatti lo Stato sta spendendo moltissimo in ambito militare e nel sostegno delle imprese (le banche per esempio) che mettono così in sicurezza i propri profitti.
I numeri della spesa pubblica non calano. Ma la questione rilevante è un’altra. Non si tratta semplicemente di vedere se lo Stato spende, quanto piuttosto dove lo Stato spende o, meglio, per chi lo Stato spende.
L’austerità non è una generica azione sulla spesa pubblica intesa come un tutto, è invece un’azione politica che agisce sulla capacità di spesa delle persone e quindi interviene sulla qualità della vita della maggioranza della popolazione, lasciando sostanzialmente protetta e intoccata quell’élite che non vive del salario e dunque principalmente del proprio lavoro ma gode di rendite (immobiliari, finanziarie ecc.) e profitti. […]
Fine anno un po’ insolita. Altro che feste natalizie, qui siamo ormai alla fiera dell’irrealtà. Volessimo prendere sul serio i giornali, finiremmo per non capirci più nulla. Ma stavolta la colpa non è solo del circo mediatico. E’ che un’intera società vive ormai di illusioni e fantasie. Il che non sposta di un millimetro la realtà, ma la cela, la confonde, la inquina fino a renderla inintelligibile.
Il fenomeno è generalizzato, rilevabile e sempre più manifesto in ogni ambito della vita sociale. Ma c’è un caso che dovrebbe esser visibile anche ai ciechi: la guerra d’Ucraina.
Qui siamo di fronte al tentativo, maldestro quanto ossessivo, di mettere il carro davanti ai buoi. Senza dire come provare a fare la pace, si discute di come gestire il “dopoguerra”. E lo si fa a senso unico. Autisticamente, parlando solo con e per sé stessi. Un lusso che, al massimo, possono concedersi i vincitori quando sono davvero tali. Questa volta, però, l’Occidente non si troverà da quella parte del tavolo…
Da quel che si dice i governanti europei starebbero dibattendo su quanti soldati mandare in Ucraina. Ma a differenza della primavera scorsa, quando Macron aprì la discussione sull’invio delle truppe per combattere a fianco di Zelensky, adesso il tema è quello dell’invio dei cosiddetti “peacekeeper”. Quanti non si sa, ma le cifre vanno da 50 a 200mila. Ed è su quest’ultima cifra che insistono i più.
Le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura,
del diritto ecc., sono anch’esse un prodotto dei rapporti
borghesi
di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto
non è che la volontà della vostra classe innalzata a
legge.
K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista.
1. “Negare, ritardare, difendere"
Si sente spesso elogiare la Costituzione italiana perché ha posto a suo fondamento il lavoro. Eppure non soltanto l’etimologia del termine (labor designa in latino una pena angosciosa e una sofferenza), ma anche la sua assunzione a insegna dei campi di concentramento («Il lavoro rende liberi» era scritto sul cancello di Auschwitz) avrebbero dovuto mettere in guardia contro una sua accezione così incautamente positiva. Dalle pagine della Genesi, che presentano il lavoro come una punizione per il peccato di Adamo, al brano tanto spesso citato dell’Ideologia tedesca in cui Marx annunciava che nella società comunista sarebbe stato possibile, invece di lavorare, «fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come ne viene voglia», una sana diffidenza verso il lavoro è parte integrante della nostra tradizione culturale.
C’è, però, una ragione più seria e profonda, che dovrebbe sconsigliare di mettere il lavoro a fondamento di una società. Essa proviene dalla scienza, e in particolare dalla fisica, che definisce il lavoro attraverso la forza che occorre applicare a un corpo per spostarlo. Al lavoro così definito si applica necessariamente il secondo principio della termodinamica. Secondo questo principio, che è forse l’espressione suprema del sublime pessimismo cui giunge la vera scienza, l’energia tende fatalmente a degradarsi e l’entropia, che esprime il disordine di un sistema energetico, altrettanto fatalmente ad aumentare. Quanto più produciamo lavoro, tanto più disordine ed entropia cresceranno irreversibilmente nell’universo.
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1. Una
carenza della cultura politica italiana
L’anno scorso ricorreva il centotrentesimo anniversario della nascita di Mao Zedong, noto alla mia generazione come Mao Tse-tung (1893-1976). Era facile prevedere che su quell’anniversario sarebbe calato, come infatti è calato, il totale silenzio non solo dei ‘mass media’ borghesi, ma anche, tranne poche eccezioni, delle stesse organizzazioni della sinistra comunista.
Sennonché, tralasciando i primi che, in quanto ‘armi di distrazione di massa’, si limitano a fare il loro mestiere, sarebbe invece opportuno interrogarsi sul comportamento delle seconde per capire le ragioni della debolezza manifestata dalla cultura politica italiana (e dalla cultura ‘tout court’) nei confronti dell’esponente di una delle maggiori esperienze, sia politiche che filosofiche, del Novecento.
In effetti, nonostante per alcuni versi la Cina sia ormai così vicina all’Italia da poter essere considerata (che si aderisca alla “Via della Seta” o che se ne esca) una delle componenti più rilevanti dell’economia del nostro paese, per altri versi, come dimostra la debolezza or ora menzionata, la Cina resta lontana.
Eppure, è difficile negare che se il pensiero di Mao non ha influito a sufficienza sulla cultura politica del nostro paese e non è stato a sufficienza assimilato e discusso dal fragile marxismo italiano, ciò si è risolto in un danno per quest’ultimo.
È infatti sorprendente che le pagine, pur verbalmente celebrate, del magistrale saggio di Mao Sulla contraddizione 1 non abbiano trovato l’attenzione e l’approfondimento che ancor oggi esse attendono.
Gli stessi comunisti di orientamento marxista avrebbero tutto l’interesse a condurre un’analisi delle classi della società italiana che fosse altrettanto rigorosa e perspicua quanto l’Analisi delle classi nella società cinese, che, quasi un secolo fa (e nello stesso anno in cui in Italia apparivano le Tesi di Lione del Partito comunista d’Italia), fu in grado di sviluppare Mao.2
Prima che
propaganda e disinformazione (la nostre, non quelle russe)
impostino narrazioni “fantasiose” circa lo stop alle forniture
di gas russo
all’Europa attraverso i gasdotti ucraini e le conseguenze sul
caro-energia, ci sono almeno tre punti che vanno evidenziati.
Il primo è che la decisione di non rinnovare il contratto con Gazprom per il transito del gas verso la UE (in media 42 milioni di metri cubi al giorno, 14/15 miliardi all’anno, transitati nonostante la guerra in corso) è stata presa dall’Ucraina (per ragioni di “sicurezza nazionale” ha detto il ministro dell’Energia di Kiev) che, in accordo con gli Stati Uniti e alcune nazioni europee, punta a tagliare ogni residua forma di legame politico, commerciale e soprattutto energetico tra Russia e UE.
Non sorprende che il presidente ucraino Volodymyr Zelenski lo abbia definito “una delle più grandi sconfitte di Mosca” ricordando che “quando Putin prese il potere in Russia più di 25 anni fa, il volume annuo di gas inviato attraverso l’Ucraina in Europa ammontava a più di 130 miliardi di metri cubi“.
Semmai l’aspetto sorprendente è che la decisione di Kiev non sia contestata né ostacolata dall’Unione Europea, innanzitutto perché, nonostante le dichiarazioni di Ursula von der Leyen e gli alti costi energetici patiti nel Vecchio Continente dal 2022, l’Unione non è riuscita a fare meno del gas russo come si era ripromessa.
Mosca è ancora oggi il nostro maggior fornitore di gas (insieme agli USA) ma a prezzi molto più elevati perché ci viene rivenduto da terzi o perché acquistato in forma liquida (GNL), quindi molto più costoso rispetto al gas trasferito via tubo.
Infatti nel 2024 le importazioni di GNL russo dell’Unione Europea hanno toccato un livello record, superando i 16,5 milioni di tonnellate, come ha ricordato recentemente il Financial Times, per un terzo acquisito tramite il “mercato spot”, che permette acquisti a breve termine a prezzi più bassi. La Germania importa GNL russo dalla Francia mentre Belgio e Paesi Bassi continuano a fungere da piattaforme logistiche per il gas russo.
Anselm
Jappe viene considerato un rappresentante della
Critica del Valore, e ha fatto in modo che la Critica del
Valore si diffondesse anche nei
paesi non di lingua tedesca. Ha anche scritto quella che
costituisce una "introduzione alla critica del
valore"
(“Le avventure della Merce” 2005). A
volte viene persino considerato come se fosse stato il
cofondatore della Critica del Valore, cosa
che non è vera, dato che i principi fondamentali erano già
stati formulati
prima che Jappe, all'inizio degli anni Novanta, comparisse.
Egli pertanto viene ritenuto un “esperto”
- a
livello internazionale – della Critica del Valore. Eppure,
tuttavia, Jappe oggi rappresenta delle posizioni che
costituiscono l’esatto
opposto della Critica del Valore: mentre quest'ultima ha
sempre criticato aspramente una concezione del capitalismo
personalizzante, ecco che esso ora
riappare improvvisamente proprio con Jappe, mostrando anche
una certa vicinanza alle teorie del complotto (Jappe: Ha detto "dittatura
sanitaria"?). Da allora ha
incrociato altri critici del Valore che però non hanno
partecipato a questa svolta. Da
allora, lo vediamo accompagnato dalla sua passione per il romanticismo
agrario, l'Ontologia e
l'Antropologia, e dal suo “amore”
per la Natura, e per quello verso una presunta natura
umana che non si sottrae ai presupposti malthusiani.
Su tutto questo, è ovviamente in linea con uno
Zeitgeist autoritario che valorizza l’autenticità,
la genuinità e simili. Anselm
Jappe, nel suo testo “I vivi e i morti nella
critica del valore”,
sottopone la Critica del Valore a una revisione che, qui di
seguito, costituirà
l'argomento principale. Gli elementi essenziali della Critica
del Valore, in questo suo articolo buttato giù troppo
rapidamente, vengono
travisati o distorti. Jappe tiene poco conto di quelli che
sono stati gli ulteriori sviluppi successivi alla reazione di
questa critica. Inoltre,
molte delle obiezioni che solleva erano già state ampiamente
discusse decenni fa. A tal proposito, gran parte di ciò che
Jappe produce
nel suo testo può essere affrontato con il metodo
copia&incolla, che utilizzerò ampiamente anche in questa
mia risposta. Jappe non
risponde ad argomenti che sono stati avanzati da tempo, ma
insiste dogmaticamente, alla vecchia maniera, su una critica
del valore passata/morta.
È interessante osservare gli sviluppi susseguenti alla repentina caduta del regime di Assad, e alla conseguente ascesa dei jihadisti moderati, che sembrano produrre effetti leggermente diversi da quelli auspicati e immaginati nelle cancellerie occidentali. Ancora oggi, la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, volata a Damasco insieme al collega francese Jean-Noël Barrot, ha ripetuto il mantra che “la Russia deve essere espulsa dalle basi di Hmeimim e Tartus”, manifestando ostinatamente l’infantilismo politico che caratterizza le leadership europee. Il nuovo regime siriano, infatti, su evidente input del suo main sponsor turco, ha già messo in chiaro che gli interessi strategici di Damasco escludono un simile evolversi della situazione.
Benché immediatamente festeggiata in occidente come un duro colpo per Mosca e Teheran, la caduta di Assad si sta piuttosto rivelando come un evento capace di scuotere gli equilibri regionali, ma non necessariamente nel senso desiderato a Washington e Bruxelles. Per un verso, infatti, la situazione interna siriana rimane estremamente instabile, con il Syrian National Army – di stretta osservanza turca – chiaramente assai più impegnato ad affrontare la questione curda che non in un processo di nation building, l’Hayat Tahrir al-Sham che si barcamena tra le spinte oltranziste delle sue frange più radicali e la costruzione di una credibilità internazionale, gli Stati Uniti (chiaramente poco disposti a cedere il controllo del petrolio siriano ad Ankara) sempre più schierati a sostegno delle SDF, mentre Israele continua a scorrazzare liberamente, occupando pezzi di territori e bombardando ovunque voglia.
Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in Farsi. È presidente del comitato esecutivo di B'Tselem e attivista del partito politico nazional democratico palestinese Balad. I suoi scritti affrontano la sua identità di Mizrahi, di donna di sinistra, di donna, di migrante temporaneo che vive come un'immigrata perpetua, e il costante dialogo tra queste identità
Fame, Torture, Pulizia Etnica, Genocidio, indifferenza e persino gioia di fronte alle uccisioni, alla soppressione di ogni critica e all'oppressione dei cittadini palestinesi, il 2024 è stato l'anno in cui abbiamo tirato fuori il peggio di noi.
Il compito di riassumere l'anno che si è concluso sembra impossibile. I demoni mostruosi che ha liberato dall'abisso continuano ad aleggiare intorno a noi in preda alla follia, offuscando il nostro campo visivo e la nostra coscienza. Ma una cosa si può dire: è stato un anno dopo il quale niente sarebbe stato più lo stesso.
Un anno in cui un orrore più grande di ogni immaginazione è stato condensato in poche parole: Fame, Tortura, Pulizia Etnica, Genocidio. Una persona può comprendere, comprendere davvero, il pieno significato di queste parole che sono impresse in noi sotto forma di immagini orribili che giungono da Gaza giorno dopo giorno, ormai da un anno intero? È possibile digerire il fatto che l'Olocausto di Gaza non è una forza della natura, ma un lavoro ben ponderato portato avanti dalle persone che siamo noi, i nostri fratelli, padri, figli e vicini?
Sono in disaccordo su quanto motivato ultimamente da Bassam Saleh, ma nel rispondere non voglio polemizzare ma ragionare
Per capire cosa avviene in Medio Oriente bisogna partire da una visione a largo spettro.
C’è stata una evoluzione culturale tra i genocidi sionisti, che da visioni colonialiste/socialiste sono passati a visioni marcatamente razziste (Irgun, banda Stern), ma dopo la seconda guerra mondiale ha preso il sopravvento la componente sionista yankee (vedi il rabbino Meir Kahane), con drammatiche conseguenze.
I sionisti made in USA hanno un esempio storico per come è stata costituita quella nazione dall’inizio del XVII secolo, un continuo appropriarsi di terre dei nativi, prima relegandoli in aree ridotte nel New England, poi in riserve sempre più a est e infine sterminandoli con tutti i mezzi possibili (“l’unico pellirossa buono è quello morto”, per chi si fosse scordato di questo loro slogan), operando perché i nativi non costituissero loro entità statuali.
La prospettiva da cui partono i sionisti yankee è perciò una visione di lunga durata, dove i palestinesi (ma anche gli arabi/mussulmani) vanno marginalizzati per poi essere sterminati, i mezzi truculenti o dissimulati sono solo un approccio all’obiettivo finale, la pulizia etnica.
Se c’è tanta affinità tra classe dirigente yankee e i sionisti il motivo va cercato anche in quello che ho appena detto, anche perché gli obiettivi strategici sono comuni seppure i sionisti mantengono una loro autonomia.
Dopo decenni
in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in
Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla
famosa frase di Margaret
Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli
uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul
concetto e
sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle
società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di
Economia politica e dello
sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro
importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza,
Roma-Bari 2024) che
fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale
sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia
politica, una
disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e
Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società,
indagando in modo
particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge
e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia
capitalistica.
Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.
Dal blog di Alain Marshal sul sito
“Mediapart” riprendiamo questo pezzo che è costruito con due
articoli della CNN: una fonte più insospettabile di questa,
implicata com’è in tutta la propaganda di guerra yankee, è
impossibile. L’attuale situazione a Gaza è al di là
di ogni parola, un orrore al di là di ogni orrore immaginabile
– come solo può esserlo una guerra che ha i bambini, i bambini
palestinesi come uno dei primissimi bersagli, sparando alla
loro testa (come abbiamo documentato), facendoli morire di
fame (**), di freddo, di
malattie, spezzandogli braccia e gambe, o arrestandoli e
facendoli marcire nelle carceri (*).
L’autore collettivo responsabile di questi immondi crimini non è solo lo stato coloniale sionista; sono l’Italia di Meloni-Mattarella & Schlein, l’Unione europea, gli Stati Uniti senza il cui sostegno militare, economico, propagandistico, Israele crollerebbe in pochi giorni.
Rilanciamo con tutte le nostre forze la denuncia di questo genocidio pianificato portato avanti dall’intero campo occidentale, le azioni concrete per spezzare alla fonte i legami che lo alimentano, la solidarietà al popolo palestinese e alla resistenza palestinese. (Red.)
Con le solite contorsioni linguistiche, questi due articoli della CNN toccano la serie di orrori inflitti a Gaza da oltre un anno dall’esercito genocida israeliano, che gode del pieno sostegno militare, diplomatico e mediatico del “civile Occidente”. Dato che non riguardano degli ucraini, ma “solo” una popolazione arabo-musulmana, questi abomini suscitano in noi solo indifferenza, se non addirittura stanchezza. Opponiamoci a questa disumanizzazione!
I. “La Nuova Società”
“La società futura sarà organizzata da un nuovo elemento, l’industria, e gli industriels assumeranno la direzione della vita pubblica, in virtù del potere fondato non sulla costrizione ma sul consenso.
Per sua stessa costituzione, la scienza è universale e pacifica, perciò anche la nuova società scientifico-industriale avrà carattere di universalità: essa si estenderà all’umanità intera e sarà contrassegnata dalla coesistenza di ordine e progresso, senza violente fratture rivoluzionarie.
La scienza e l’industria sono destinate a diventare depositarie del potere temporale e spirituale”[1].
In un testo del 1825, intitolato Nuovo Cristianesimo, il filosofo francese Saint-Simon esprimeva queste idee a mio avviso profetiche. Mi sembra che descrivano bene il mondo in cui ci troviamo.
Il sistema di potere neo-totalitario, per dirla con Pasolini, non domina più attraverso la coercizione, sebbene questa si possa presentare come estrema ratio in determinate situazioni, come abbiamo visto durante gli anni della pandemia, ma mediante il consenso, o cosiddetta “spinta gentile”.
La società dello spettacolo e dei consumi, o sistema di potere neoliberale, è cioè capace da un lato di svuotare lo stato sociale e la democrazia di sostanza, pur lasciandone intatta la forma, ma dall’altro di operare una forma di indottrinamento sottile e inconscio sulla mente degli individui.
Dall’alto della sua saggezza il ministro dell’Economia Giorgetti ci ha fatto sapere che arrivare al 2% del PIL di spesa militare sarebbe un obbiettivo troppo ambizioso. In realtà tutta la questione della spesa militare è posta in termini piuttosto confusi, dato che il PIL non è un numero assoluto, cioè può crescere ma anche decrescere in caso di recessione economica; per cui fissare una percentuale non è di per se stesso indicativo di una precisa quantità di spesa.
Anche il segretario della NATO Rutte accentra il discorso sulle percentuali di spesa militare rispetto al PIL, da aumentare senza ritegno; magari ammiccando alla possibilità di sottrarre qualcosa al welfare. Ancora una volta si tratta di puro feticismo dei numeri, cioè di affermazioni vaghe che non hanno nessun valore programmatico. In termini di strategia militare occorrerebbe infatti stabilire preliminarmente quali sistemi d’arma servirebbero e in quali quantità, ciò in rapporto alle dimensioni delle forze armate. Una strategia militare realistica inoltre non potrebbe permettersi di ignorare la questione della sostenibilità dei costi a lungo termine. Se i costi sfuggono al controllo, sarà la stessa strategia a sfuggire al controllo.
Se questi obbiettivi di spesa militare non hanno senso dal punto di vista strategico, ce l’hanno invece dal punto di vista del lobbying delle armi. Non c’entra la strategia militare ma la strategia di vendita: compra più armi e sarai felice.
Il prossimo obiettivo strategico degli USA e di Israele è la destabilizzazione dell’Iran, su questo non c’è alcun dubbio. Del resto ci stanno lavorando da sempre sia sotto il profilo militare, con il lancio di droni e missili sul territorio iraniano e con la prassi delle “esecuzioni mirate” (ricordiamo l’assassinio del generale Soleimani e il più che sospetto ”incidente” in cui ha trovato la morte l’ex Presidente della Repubblica Islamica, Ebrahim Raisi precipitato con l’elicottero su cui viaggiava), sia su quello ideologico-mediatico. Quest’ultimo fa leva sulle contraddizioni e le divisioni presenti sia all’interno dei vari apparati dello stato che, soprattutto, all’interno della società civile iraniana che potremmo molto, sottolineo, molto sommariamente dividere in conservatori (clero tradizionalista e ceti popolari delle campagne) e in “riformisti” (la borghesia delle città favorevole a un processo di avvicinamento del paese all’Occidente). Che tale obiettivo possa essere raggiunto attraverso una cosiddetta “rivoluzione colorata” o un sovvertimento del regime a opera di alcuni settori militari e politici o con un combinato disposto fra i due, è del tutto indifferente perché ciò che importa è raggiungere lo scopo. In buona sostanza sia in un caso che nell’altro si tratta di facce della stessa strategia.
Una volta destabilizzata la Repubblica Islamica dell’Iran, gli Stati Uniti, Israele e il blocco occidentale tornerebbero a essere completamente egemoni in tutto il Medioriente, anche se in coabitazione con la Turchia che comunque è pur sempre un membro autorevolissimo della NATO e ha oggettivamente da guadagna re dall’eventuale crollo dell’attuale stato iraniano, perché si sbarazzerebbe del suo principale competitor in quanto potenza regionale (Israele a parte ma contro questo non può nulla).
La guerra per procura che gli Stati Uniti combattono in Ucraina contro la Russia non si fermerà con un accordo per il cessate il fuoco tra Mosca e la proxy di Washington, ma dovrà essere conclusa con uno storico trattato di pace tra le due grandi potenze, per porre fine una volta per tutte alle rivalità sorte in conseguenza alla creazione dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico.
È questa la posizione che emerge dalle dichiarazioni del Cremlino e dei suoi più alti funzionari, ultimo in ordine cronologico il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, in merito alla possibilità di imminenti colloqui, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio.
“La Russia è impegnata a porre fine al conflitto”. Nei giorni scorsi questa affermazione di Putin al summit del CSI ha fatto scalpore sui nostri media, come se si trattasse di un elemento di novità nello scenario ucraino. In realtà il Cremlino non ha mai respinto ufficialmente la possibilità di una soluzione politica alla guerra in Ucraina.
Vale la pena ricordare che Mosca si sedette al tavolo dei negoziati immediatamente dopo l’avvio dell’operazione speciale militare. La pace venne sabotata prima con l’assassinio per mano dell’SBU del negoziatore Denis Kireev, uomo di fiducia del capo del GUR.
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Forse è opportuno prendere di petto una
questione teorica, politica e pratica che ci
trasciniamo da circa due secoli, fra quanti si sono
richiamati, in un modo o nell’altro, agli ideali del
socialismo e del comunismo. E lo
facciamo partendo da un fatto: le drammatiche difficoltà della
causa palestinese in questa fase di fronte al genocidio che
sta subendo a opera
dello Stato sionista di Israele che agisce in proprio e in
nome e per conto dell’insieme degli interessi dell’Occidente.
E ancora
più nello specifico riprendendo uno scritto del 24 dicembre di
un militante palestinese di Birzeit, Omar Abdaljawad1 circa la questione
dell’agire politico tra fazioni del popolo palestinese.
Cerchiamo di essere ancora più chiari: nella storia del movimento socialista e comunista è tradizione consolidata il metodo della polemica e delle invettive non solo contro i «nemici di classe», ma anche nei confronti dei più prossimi compagni dello stesso percorso teorico politico. A riguardo c’è tutta una letteratura partendo dai grandi padri fino ai più umili e ultimi militanti, dove l’ardore per la polemica molto spesso prende il posto delle argomentazioni, sfuggendo, in questo modo, alla necessità di affrontare le cause in questione per rifugiarsi nella responsabilità di individui e o gruppi dirigenti di partiti, sindacati, e così via.
Dunque non una questione teorico-filosofica fra le volte dell’astrazione, ma cerchiamo di parlare dei fatti nella loro concretezza.
In questo periodo viene proiettato in tutte le sale cinematografiche un film su Enrico Berlinguer, un’operazione politica, per così dire di “alto” profilo, il cui sottofondo propagandistico vuole essere la tesi del “grande” leader di aver fatto una giravolta sulla questione della Nato dicendo di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello a direzione Usa. Era il lontano 1976, circa 50 anni fa, ma si sa che quando il presente è poco luminoso ci si appella alle anime nell’al di là. Basta pensare che la figlia, la signora Bianca è passata alle reti della Fininvest dell’odiata famiglia Berlusconi.
“Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini,
tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un
tiranno
che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data”
(Etienne De La Boétie. Discorso sulla servitù
volontaria,
1548-1552)
E’ davvero straordinario come l’attenzione alle trasformazioni reali del mondo e dei rapporti economici e sociali che le sottendono finisca col nascondere troppo spesso il fatto che anche il capitalismo non è altro che il frutto di un’utopia. Dimenticando così che, come tutte le utopie, anche quella attualmente ancora predominante può essere negata e rovesciata nel suo contrario.
Un’utopia che, per quanto “concreta” e già interagente nella Storia, ha, come qualsiasi altra, la necessità di delineare dei piani e delle prospettive di perfezionamento e realizzazione del proprio sogno di un mondo ideale. In cui, però, la perfezione corrisponde alla massimizzazione dei profitti e dello sfruttamento della forza lavoro a favore dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta da parte di pochi.
Per questo motivo, per giungere alla critica radicale di quella che Giorgio Cesarano1 definiva l’”Utopia capitale”, è sempre utile leggere e interpretare le voci dei suoi difensori, motivo per cui può rendersi necessaria la lettura di un articolo di Matthew Karnitschnig, Europe’s Economic Apocalypse, pubblicato su «Politico» a fine dicembre.
Karnitschnig è un giornalista che ha lavorato come redattore per Bloomberg, Reuters e Business Week, per poi trasferirsi al «Wall Street Journal» e diventare in seguito capo dell’ufficio tedesco dello stesso quotidiano finanziario, con sede a Berlino. Con il lancio della filiale europea del portale statunitense «Politico» con il gruppo Axel Springer nel 2015, è diventato capo dell’ufficio tedesco di Politico.eu. Per precisione è qui giusto ricordare che «Politico» è un quotidiano statunitense fondato negli Stati Uniti nel 2007, diventato in breve tempo uno dei media più importanti della politica di Washington e successivamente acquisito nel 2021 dalla Axel Springer Verlag.
È difficile
parlare di un tema così divisivo e spiegare il perché del mio
rifiuto di ə asterischi e compagnia cantante, senza per questo
avere
il timore di essere tacciato di poca inclusione e/o di
intolleranza. Dopo le serie sul “caso del caso Moro” e delle
avventure nella
Gallipoli degli anni ’90, saltando volutamente di palo in
frasca sento ormai il bisogno di affrontare il tema,
nonostante sia trito e ritrito e
più volte rigirato in mille salse. Spero comunque di
contribuire alla discussione in maniera proficua.
L’inclusione
È già il concetto stesso di inclusione che mi mette in difficoltà perché presuppone qualcuno che include e qualcuno che viene incluso, qualcuno che da normale allarga le braccia e qualcuno che divergente dalla normalità si lascia abbracciare e viene accettato nel meraviglioso mondo della massa, che orrore. L’inclusione ha per me lo stesso senso del cielo blu e del sole che sorge ogni mattina, qualcosa di naturale che avviene a prescindere, badate bene che avviene non che dovrebbe avvenire. Ora penserete…esistono molti atteggiamenti in molti ambienti poco inclusivi e discriminatori, ne è piena zeppa la storia dell’umanità e oggi si continua a discriminare ANCHE su base gender, sicuramente è così. Più che altro però tali atteggiamenti (che tuttavia anche io mio malgrado ho testimoniato) più che poco inclusivi sarebbe più appropriato definirli autoescludenti. Vale a dire, in qualsiasi realtà scolastica, lavorativa, sociale che si ponga in un’ottica di ovvia inclusione reciproca in cui tutti includono tutti indistintamente perché tutti appartenenti al genere umano, chi discrimina si autoesclude. Possiamo e sicuramente dobbiamo puntare il dito, se necessario denunciare e sanzionare tali atteggiamenti ma è bene tenere a mente che ciò contribuirà per una percentuale irrisoria a ché tale atteggiamento non si ripeta. Sono convinto che ogni tipo di discriminazione provenga fondamentalmente da una condizione della mente (e quindi dell’anima) di poca o mancata evoluzione.
Verso la fine del 1800 il filosofo e sociologo tedesco W.M. Wundt parlò di eterogenesi dei fini come effetto di azioni umane che divergono dai fini originari producendo risultati diversi da quelli prefissati, creando di conseguenza nuove motivazioni e divenendo quindi mezzi per il raggiungimento di altri fini. Con un pizzico di italica fierezza ricordo che molto prima di Wundt anche i nostri Machiavelli e Vico avevano affrontato lo stesso argomento e come loro altri filosofi, politici, storici. Ma senza volare troppo in alto fermiamoci a quanto avvenuto in questi giorni, cioè l’arresto – per servile obbedienza agli USA – dell’ingegner Mohammad Abedini reo di nulla in Italia, e il successivo arresto a Teheran di Cecilia Sala, la giornalista che, suo malgrado, e proprio per la citata eterogenesi dei fini vogliamo ringraziare e ne spiegheremo il perché nelle prossime righe.
A chi ha scritto “se l’è andata a cercare” ricordiamo che affermazioni del genere sono degne di giornali come Libero o Il Foglio (per il quale la stessa Sala scrive) o il Giornale, i quali sono soliti esternare ignobili giudizi alternandoli a fragorosi silenzi di fronte a giornalisti imprigionati per il loro servizio di diffusione di scomode verità (pensiamo ad Assange) o catturati mentre svolgevano il loro lavoro di reporter non embedded (come Giuliana Sgrena o Enzo Baldoni) o semplicemente assassinati intenzionalmente come usa fare lo Stato illegale di Israele che solo nell’ultimo anno ne ha uccisi più di 200 di reporter soltanto a Gaza.
Il sistema penitenziario italiano, con i terroristi qaedisti, gli stragisti neri e la ‘ndrangheta serviti e riveriti, è uno strumento nelle mani della CIA?
L’Italia è una nazione cobelligerante, suddita degli USA, nella guerra multidimensionale contro la Federazione Russa e la Repubblica Islamica dell’Iran. L’arresto di Cecilia Sala, al di là della violazione delle leggi islamiche (a Teheran, le giovani appartenenti alla borghesia metropolitana indossano raramente l’hijab), è una risposta di Teheran all’arresto illegittimo di Abedini, “trattato come una bestia” nella Guantanamo italiana, il carcere di Rossano Calabro.
C’è una questione di legittimità internazionale da chiarire: i Guardiani della Rivoluzione vengono considerati una “organizzazione terroristica” dagli Stati Uniti, ma non dall’Italia. In realtà, i Pasdaran sono una milizia d’élite dell’esercito iraniano che rispondono direttamente al Grande Ayatollah Khamenei; il loro obiettivo è quello di difendere gli sciiti dal terrorismo wahabita-sunnita. Come diversi analisti sanno, Al Qaeda e Daesh sono un “esercito segreto” della CIA contro lo sciismo ed i governi pluralisti d’orientamento baathista (Iraq prima e la Siria di recente). Roma, violando la legge italiana (prima di tutto la Costituzione repubblicana), ha arrestato Abedini chiedendogli di provare la propria innocenza, l’onere probatorio invertito, una mostruosità giuridica tutta statunitense.
L’Occidente ha bisogno di un riorientamento gestaltico, come direbbero certi filosofi, più precisamente di guardarsi diversamente da come fa adesso perché si percepisce ciò che non è. A causa dei suoi intellettuali allevati in batterie di pensiero sempre più scadenti e di una casta dell’informazione supina ai poteri dominanti, non siamo più in grado di capire chi siamo. Abbiamo superato quei limiti che consentono un minimo di equilibrio tra come ce la raccontiamo e come è nella realtà. Partiamo da un presupposto necessario. Non siamo migliori degli altri ma possiamo essere sicuramente molto peggio. E nei fatti lo siamo quando non tolleriamo in chi ci sta di fronte proprio quei leggeri difetti che sono la nostra cifra, attuale e passata. Ci narriamo storie come vogliamo ma non consentiamo che la controparte faccia altrettanto, peraltro con molta meno enfasi. Così siamo diventati incapaci di cogliere quella ineliminabile contraddizione che è il motore della storia. Accusiamo chiunque non sia nella nostra orbita di fare propaganda fingendo di non comprendere che questo è il nostro modo specifico di fare propaganda. Così la verità è diventata la nostra fonte di manipolazione. Addebitiamo a chi ci combatte, spesso con tante ragioni, di portare il terrore in giro per il mondo ma questo è il nostro modo di terrorizzare tutti. Incolpiamo gli altri paesi di non rispettare i diritti umani ma questa è la nostra maniera di violarli tutti esportandoli a suon di bombe.
Mentre la guerra contro Gaza e il Libano si protrae verso il 15° mese, Israele affronta una crisi non solo sul fronte di guerra, ma anche all’interno dei suoi confini, hanno scritto Muhammad Dawood Al-Ali e Muhammad Watad sul sito web arabo Al-Jazeera.
Nel loro rapporto, gli autori hanno citato i dati dell’Autorità Israeliana per gli Alloggi e l’Immigrazione, secondo cui 600.000 israeliani hanno lasciato il paese dall’inizio della guerra nell’ottobre 2023, segnando la più grande ondata di emigrazione dalla fondazione di Israele nel 1948.
Le ragioni di questa partenza di massa, sostengono, sono molteplici. Il conflitto militare in corso, l’instabilità economica e le crescenti preoccupazioni per la sicurezza hanno spinto molti, in particolare i professionisti e gli accademici, a trasferirsi all’estero.
Paesi come il Canada e diversi paesi dell’Europa dell’Est sono diventati destinazioni preferite, con il Canada che ha registrato un aumento del 500% dei visti di lavoro temporanei concessi agli israeliani rispetto all’anno precedente.
I ricercatori e gli scienziati, in particolare, sono stati tra i gruppi più numerosi che hanno cercato rifugio all’estero, poiché molti ritengono che l’instabile situazione di sicurezza e l’incertezza economica di Israele rendano impossibile realizzare le loro ambizioni professionali.
Questo articolo che vi proponiamo è apparso sul
quotidiano Haaretz. Non è scritto da un
giornalista, ma da uno
psicologo.
Vi potrete trovare diversi piani di lettura, spesso non condivisibili. Un non israeliano, in effetti, non può provare nessuna empatia, neanche minima, con i soldati intervistati a scopo terapeutico o analitico. Neanche con quelli che lo psicologo Yoel Elizur classifica come “incorruttibili”, che si sono in qualche misura opposti ai commilitoni più brutali.
E’ chiaro infatti che tutta la ricerca è stata costruita all’interno dell’universo identitario israeliano, e che dunque distanze e vicinanze, estraneità totale o “comprensione”, ribrezzo o compassione dipendono dal sentirsi parte di un’umanità senza altre specificazioni oppure di un “popolo e una fede” intrisi di suprematismo (foss’anche solo culturale).
Le due frasi “illuminanti” sull’atteggiamento e le pratiche dei soldati a Gaza (e in Libano) sono state pronunciate non per caso da due elementi agli estremi opposti nel ventaglio dei “casi”.
a) “È come una droga… ti senti come se fossi tu la legge, sei tu a dettare le regole. Come se dal momento in cui lasci il luogo chiamato Israele ed entri nella Striscia di Gaza, tu fossi Dio”. Non si potrebbe essere più chiari. Una volta usciti dall’universo dei rapporti tra simili, dalle regole e dai valori condivisi con i correligionari, non esiste alcun limite verso “gli infedeli”. Si può fare qualsiasi cosa ai palestinesi, come ragazzini che giocano con le formiche o le lucertole.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Mentre lo Yemen evoca
quotidianamente
immagini di conflitti con Israele e la coalizione guidata
dai sauditi, è emersa una nuova dimensione per questo
paese e il suo popolo: la
guerra segreta delle spie al suo interno. MintPress ha
esaminato i documenti sulla più grande cellula di
spionaggio della CIA mai scoperta
nello Yemen, rivelando una grande operazione di sicurezza,
che ha intercettato i suoi membri e ha esposto le attività
di spionaggio
statunitense, ampliando notevolmente la nostra
comprensione del complesso campo di battaglia in Yemen.
* * * *
A giugno, MintPress aveva rivelato come il governo guidato da Ansar Allah di Sanaa avesse smantellato una cellula di spionaggio, la Forza 400, prevedibilmente operativa per Stati Uniti e Israele, descrivendo in dettaglio i membri della cellula e le loro attività. Washington ha risposto chiedendo il rilascio degli arrestati che sosteneva fossero dipendenti delle Nazioni Unite, di organismi diplomatici e ONG, etichettandoli come ostaggi detenuti dagli Houthi, un termine dispregiativo spesso usato dai funzionari occidentali per descrivere il movimento politico e militare noto come Ansar Allah.
Il corrispondente di MintPress News, Ahmed AbdulKareem ha ottenuto un accesso senza precedenti ai documenti relativi alla vicenda delle presunte spie. Inoltre, una notevole quantità di documenti top-secret è stata fornita a MintPress, che confermavano le dichiarazioni rilasciate dai detenuti durante gli interrogatori. Sono state anche fornite ed esaminate anche ore di riprese che mostrano gli interrogatori condotti dal personale di sicurezza yemenita di Ansar Allah, che hanno confermato i dettagli delle accuse contro i detenuti.
Le scienze
naturali non sono altro che edifici di concetti falsi. Offrono
concetti elaborati per ragioni pratiche. Dove la pratica è
ridotta alle
questioni del mangiare, bere, vestire e abitare, dimenticando
che l’uomo non vive di solo pane.
Il loro carattere empirico o pratico è evidente in quelle scienze che si occupano direttamente di classificazione, quali la zoologia, la botanica, la mineralogia, la chimica in quanto enumera specie chimiche, e, sotto questo medesimo aspetto, la fisica. L’universale di ciascuna di queste scienze, dice Croce (Logica), è arbitrario. È posto a discrezione di chi lo impone. Non c’è una distinzione rigorosa tra animale (l’universale della zoologia) e vegetale (l’universale della botanica) – e nemmeno, dice, tra il vivente e il non vivente, tra l’organico e il materiale. Perfino la cellula – il sommo concetto della scienza biologica – si differenzia dai fatti chimici per aspetti meramente esteriori, per caratteri empirici.
Non solo queste scienze, dice Croce, sono in balia delle infinite e individuali forme del reale, come è il caso della zoologia, che dei 15 milioni di specie (stimate) si limita a studiarne solo 400 mila; esse devono cedere anche al fatto che le specie (molte o poche che siano) fluiscono l’una nell’altra, per l’innegabile esistenza di forme intermedie graduali, anzi continue, che rendono evidente l’arbitrarietà del taglio netto che si compie quando si distacca il lupo dal cane o la pantera dal leopardo.
Alla catalogazione, momento propedeutico, può esser perdonato un certo arbitrio – bisogna pur esser pratici, se si vuol mangiare, dice Croce. Quando invece si passa alle leggi scientifiche vere e proprie la musica dovrebbe cambiare, e l’arbitrio lasciare il posto alla necessità e alla verità. Ma così non è, dice Croce. Perché la legge scientifica è la stessa cosa della catalogazione e della descrizione empiriche. In filosofia, dice, la legge è concetto puro, nelle scienze è concetto empirico: la legge del lupo è il concetto empirico di lupo.
Svariate volte sulle pagine dell'AntiDiplomatico abbiamo scritto che la grandezza economica fondamentale per riuscire a comprendere appieno il conflitto che stiamo vivendo è la posizione finanziaria netta (Net International Investment Position, in inglese) che sta a indicare la posizione debitoria o creditoria di una nazione rispetto al resto del mondo. Innanzitutto è necessaria una precisazione fondamentale: questa grandezza la si trova osservando quelli che si chiamano “conti nazionali” ovvero quegli specifici conti che aggregano i tre fondamentali comparti di un “sistema-paese”, vale a dire famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni. In questa lettura dei fenomeni economici il comparto delle famiglie rappresenta l’entità detentrice del risparmio mentre l'aggregato delle imprese detiene il debito privato necessario per i propri investimenti; infine il comparto delle pubbliche amministrazioni è quello che detiene il debito pubblico, necessario per porre in essere gli investimenti pubblici. Inutile sottolineare che a mettere in correlazione la domanda di risparmio delle pubbliche amministrazioni e delle imprese con l'offerta di risparmio delle famiglie sono gli Istituti di credito e più in generale i mercati finanziari.
Detto tutto questo, possiamo aggiungere che quando il risparmio delle famiglie copre completamente il fabbisogno di finanziamenti di imprese e pubbliche amministrazioni il sistema-paese in questione è da considerarsi in perfetto equilibrio finanziario e in tal caso si dice che la posizione finanziaria netta è in pareggio.
A Malpensa, su ordine del governo statunitense, è stato fermato nei giorni scorsi il cittadino svizzero di origine iraniana, Mohammad Abedini Najafabadi, con l’accusa di traffico d’armi. Egli avrebbe presuntamente fornito al governo dell’Iran informazioni sui sistemi di navigazione di droni tramite una sua società con sede presso il campus del Politecnico federale di Losanna (EPFL). L’accusa è, per dirla con le parole del giornalista Paolo Di Mizio, “farlocca senza alcuna base giuridica”. Questo perché, se davvero l’ingegnere lavora per lo Stato iraniano e se quest’ultimo vende armi a un paese terzo, ciò potrà essere eticamente discutibile ma certamente non costituisce il reato di “traffico d’armi”: è semplicemente un libero commercio garantito dalle leggi e dalla stessa World Trade Organisation (WTO). Infatti non ci risulta che i rappresentanti dell’industria degli armamenti americani in Svizzera ed Europa vengano arrestati con questa accusa…
Certo, vi sono delle sanzioni contro l’Iran per impedire che questo paese sviluppi la propria difesa militare. Ma si tratta di sanzioni politiche imposte da un governo nemico di Teheran, appunto quello USA.
Si può condividere o meno l’analisi classica dell’economia ma non si può negare che, sia Karl Marx sia Henry Ford, abbiano entrambi compreso quale sia il pilastro fondamentale di un’economia industriale: la forza lavoro deve guadagnare abbastanza per acquistare la produzione dell’economia.
Se la forza lavoro non guadagna abbastanza per avere reddito disponibile in eccesso – oltre alla sussistenza – da spendere nell’acquisto dell’enorme produzione di un’economia industriale, allora i produttori non possono vendere i loro beni/servizi con profitto, se non ai “pochi in cima” a cui forniscono prevalentemente beni di lusso, e questa non è un’economia industriale, è un’economia feudale di portata molto limitata e che nel tempo rivela la sua inconsistenza (il feudalesimo è scomparso molto tempo fa proprio per la sua insostenibilità).
Marx riconobbe – in negativo – che il capitalismo è un sistema autoliquidante, poiché il capitale ha il potere di ridurre i salari anche quando la produzione di un’economia industriale aumenta costantemente grazie all’automazione, alla tecnologia, etc. etc..
Henry Ford capì – in positivo – che se la sua forza lavoro non poteva permettersi di acquistare le auto che uscivano dalla catena di montaggio, allora la sua ambizione di vendere un’auto a ogni famiglia sarebbe rimasta una chimera irraggiungibile.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Lo scrittore austriaco Ivan Illich,
nella terza sezione dell’ultimo capitolo del suo celebre libro
Tools for Conviviality (Convivialità in
italiano),
pronosticava che l’aspirazione delle società capitaliste
post-industriali a una crescita infinita avrebbe
inevitabilmente condotto a una
crisi strutturale irreversibile—o, in alternativa,
all’instaurazione di un sistema di controllo totalizzante. Tra
le immagini più
emblematiche utilizzate da Illich per descrivere questa
possibilità spicca quella di un “campo di concentramento
globale di B.F. Skinner,
diretto da un T.E. Frazier”[1].
Questa potente metafora non si limita a una provocazione retorica, ma rappresenta un’analisi lucida del potenziale rischio che una società altamente tecnocratica e algoritmica possa organizzarsi come un’enorme Skinner Box, dove il comportamento umano è modellato attraverso un sistema rigorosamente controllato di stimoli e rinforzi. Il riferimento a Frazier, protagonista dell’opera Walden Two di Skinner, richiama l’immagine di un mondo dove l’efficienza e la pianificazione collettiva verticistica soppianta ogni aspirazione all’autonomia individuale. A distanza di più di cinquant’anni, l’intuizione di Illich appare non solo attuale, ma premonitrice[2].
Questo articolo esplora come il comportamentismo radicale abbia modellato approcci educativi, tecnologie digitali e politiche di controllo sociale fino alle moderne “smart city”, con un focus sull’eredità di Skinner, una delle figure più influenti della psicologia del XX secolo[3]. Ironicamente il suo progetto per l’esercito statunitense che prevedeva l’addestramento di piccioni bomba kamikaze fu un fallimento (a cui tagliarono i fondi), ma dopo la seconda guerra mondiale ottenne un riscatto che lo portò alla fama mondiale: le sue idee non solo hanno trasformato la psicologia sperimentale, ma hanno anche avuto un impatto profondo su campi come l’educazione, l’economia e le tecnologie emergenti.
Ho accolto con
piacere la proposta di Vanna Melia di collaborare a questo
metalibro di riflessione e rafforzamento dell’opera Logica
dialettica e
l’essere del nulla recentemente pubblicata dai compagni
Sidoli, Burgio e Leoni, per la primaria constatazione della
natura profondamente
politica, oltre che teoretica, dell’argomento.
Il tema potrebbe in effetti sembrare a molti compagni e militanti secondario in un contesto caratterizzato dalla guerra e dalle urgenze organizzative dettate dalla crisi del movimento comunista occidentale, ma in realtà occorre ribadire il nesso profondo che lega la crisi del marxismo occidentale proprio alla perdita dei fondamentali della teoria filosofica rivoluzionaria elaborata oltre 150 anni fa da Marx ed Engels, via via sviluppati da altri importanti maestri del socialismo. In tal senso ho ribadito più volte in altre sedi (rimanderei al recente Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari, L’AntiDiplomatico 2023) l’importanza basilare, anzitutto per i quadri dirigenti, ma non secondariamente anche per i militanti e i simpatizzanti, della necessità di recuperare una forma mentis alternativa rispetto alla rigida logica “metafisica” prevalente nel senso comune. Ribadire, come fa la logica formale, che A = A, e fermarsi a questo, appiattisce la realtà percepita a una razionalità che appare inamovibile, statica, eterna, rendendo vano non solo lavorare per una realtà diversa, ma perfino riuscire a concepirla mentalmente, tale realtà diversa. La logica dialettica apre quindi il campo alla possibilità di pensare a una realtà in divenire continuo, obbligando i singoli e le organizzazioni a lavorare continuamente all’aggiornamento della propria analisi e della propria proposta cercando di infilarsi nelle contraddizioni che caratterizzano costantemente, costitutivamente, l’intera realtà, compresa la società in cui viviamo. Contraddizioni in cui sono già presenti, seppur spesso appena accennati o invisibili, i germi della società futura che vorremmo costruire. Contraddizioni che non scompariranno mai del tutto, nemmeno nella società socialista e comunista, obbligandoci a uscire da visioni dogmatiche e definitive del percorso rivoluzionario e di una ipotetica “fine della storia” che non potrà mai caratterizzare né alcuna società capitalista, né comunista.
Signora Ponza: (con un parlare lento e spiccato) –
che cosa? la verità? È solo questa:
che io sono, sì,
la figlia della signora Frola –
Tutti: (con un sospiro di soddisfazione) ah!
Signora Ponza: (subito
c.s.) – e la seconda moglie del signor Ponza –
Tutti: (stupiti
e
delusi, sommessamente) – oh! E come?
Signora Ponza: (subito
c.s.)
– sì; e per me nessuna! nessuna!
Il Prefetto: Ah
no, per sé, lei,
signora: sarà l’una o l’altra!
Signora Ponza:
Nossignori. Per me, io sono
colei che mi si crede.
(Guarderà
attraverso il velo, tutti, per un istante; e si
ritirerà. In silenzio.) 1
La verità e il mattino si rischiarano a poco a poco.
Proverbio tedesco
1. «Chi è la signora Ponza?»
Non vi è un linguaggio che non implichi un orientamento verso ciò che non è linguaggio. E proprio un siffatto orientamento è ciò che comunemente si chiama riferimento, laddove ciò a cui ci si riferisce è il mondo o l’oggetto che il linguaggio vuole descrivere o trasformare. In questo senso, il riferimento di un discorso non è quindi, come talvolta si dice, la realtà, ma la sua realtà, vale a dire ciò che il discorso sceglie o istituisce come realtà.
Una quantità di problemi particolari sono connessi al riferimento: problemi che rientrano al contempo nella logica, nella linguistica, nell’analisi del discorso, nella filosofia. Ma la loro comune radice va ricondotta allo statuto ambiguo di ciò a cui ci si riferisce, ossia al referente, il quale, per un verso, dev’essere esterno al discorso, e, per un altro verso, è richiamato dal discorso, e perciò in esso iscritto. Se è la mia parola a indicare ciò di cui parla, se è essa a specificare il proprio oggetto, come potrebbe venire smentita da quest’oggetto, che essa si dà da sé? Se tu puoi sapere di che cosa parlo io solamente tramite quel che io ne dico, come può allora ciò di cui parlo differire da ciò che ne dico?
Immigrazione, dazi, Ucraina. A sentire le promesse elettorali di Donald Trump, quello che inizierà il prossimo 10 gennaio è una sorta di rito purificatorio degli Stati Uniti. La serie di misure annunciate dovrebbero mostrare in tempi brevi la ripresa della leadership statunitense nell’economia, nella conduzione politica degli affari globali, nella reiterazione della potenza militare. Un ritorno del dominio imperiale che arresterebbe la caduta in tutti i campi del modello a stelle e strisce. Ma davvero si ritiene che il Make America Great Again sia alla portata di un impero che ha problemi maggiori delle sue risorse? E che possa invertire la rotta in un quadriennio presidenziale?
La destra internazionale incrocia le dita e si prepara a questa riscossa imperiale, ma la mappa del pianeta è decisamente cambiata, anche solo volendo prendere a riferimento il primo mandato del tycoon. Oggi la ricchezza mondiale si trasferisce da Nord verso Sud e verso Est: per lo sviluppo accelerato delle economie emergenti e perché la capacità di interlocuzione degli USA è stata duramente danneggiata dall’uso arrogante delle sanzioni e degli embarghi ai 4 angoli del pianeta.
Strumenti con cui gli Stati Uniti cercano di piegare il quadro internazionale a proprio vantaggio ma che gli si sono ritorti contro, vista la riduzione dell’export verso i paesi sanzionati (che sono 23 e che raccolgono il 76% della popolazione mondiale) e della conseguente domanda di Dollari.
Il sistema penitenziario italiano, con i terroristi qaedisti, gli stragisti neri e la ‘ndrangheta serviti e riveriti, è uno strumento nelle mani della CIA?
L’Italia è una nazione cobelligerante, suddita degli USA, nella guerra multidimensionale contro la Federazione Russa e la Repubblica Islamica dell’Iran. L’arresto di Cecilia Sala, al di là della violazione delle leggi islamiche (a Teheran, le giovani appartenenti alla borghesia metropolitana indossano raramente l’hijab), è una risposta di Teheran all’arresto illegittimo di Abedini, “trattato come una bestia” nella Guantanamo italiana, il carcere di Rossano Calabro.
C’è una questione di legittimità internazionale da chiarire: i Guardiani della Rivoluzione vengono considerati una “organizzazione terroristica” dagli Stati Uniti, ma non dall’Italia. In realtà, i Pasdaran sono una milizia d’élite dell’esercito iraniano che rispondono direttamente al Grande Ayatollah Khamenei; il loro obiettivo è quello di difendere gli sciiti dal terrorismo wahabita-sunnita. Come diversi analisti sanno, Al Qaeda e Daesh sono un “esercito segreto” della CIA contro lo sciismo ed i governi pluralisti d’orientamento baathista (Iraq prima e la Siria di recente). Roma, violando la legge italiana (prima di tutto la Costituzione repubblicana), ha arrestato Abedini chiedendogli di provare la propria innocenza, l’onere probatorio invertito, una mostruosità giuridica tutta statunitense.
Si può condividere o meno l’analisi classica dell’economia ma non si può negare che, sia Karl Marx sia Henry Ford, abbiano entrambi compreso quale sia il pilastro fondamentale di un’economia industriale: la forza lavoro deve guadagnare abbastanza per acquistare la produzione dell’economia.
Se la forza lavoro non guadagna abbastanza per avere reddito disponibile in eccesso – oltre alla sussistenza – da spendere nell’acquisto dell’enorme produzione di un’economia industriale, allora i produttori non possono vendere i loro beni/servizi con profitto, se non ai “pochi in cima” a cui forniscono prevalentemente beni di lusso, e questa non è un’economia industriale, è un’economia feudale di portata molto limitata e che nel tempo rivela la sua inconsistenza (il feudalesimo è scomparso molto tempo fa proprio per la sua insostenibilità).
Marx riconobbe – in negativo – che il capitalismo è un sistema autoliquidante, poiché il capitale ha il potere di ridurre i salari anche quando la produzione di un’economia industriale aumenta costantemente grazie all’automazione, alla tecnologia, etc. etc..
Henry Ford capì – in positivo – che se la sua forza lavoro non poteva permettersi di acquistare le auto che uscivano dalla catena di montaggio, allora la sua ambizione di vendere un’auto a ogni famiglia sarebbe rimasta una chimera irraggiungibile.
Dopo decenni
in cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in
Italia e a livello internazionale è stato permeato dalla
famosa frase di Margaret
Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli
uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul
concetto e
sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle
società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di
Economia politica e dello
sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro
importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza,
Roma-Bari 2024) che
fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale
sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia
politica, una
disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e
Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società,
indagando in modo
particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge
e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia
capitalistica.
Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.
Dal blog di Alain Marshal sul sito
“Mediapart” riprendiamo questo pezzo che è costruito con due
articoli della CNN: una fonte più insospettabile di questa,
implicata com’è in tutta la propaganda di guerra yankee, è
impossibile. L’attuale situazione a Gaza è al di là
di ogni parola, un orrore al di là di ogni orrore immaginabile
– come solo può esserlo una guerra che ha i bambini, i bambini
palestinesi come uno dei primissimi bersagli, sparando alla
loro testa (come abbiamo documentato), facendoli morire di
fame (**), di freddo, di
malattie, spezzandogli braccia e gambe, o arrestandoli e
facendoli marcire nelle carceri (*).
L’autore collettivo responsabile di questi immondi crimini non è solo lo stato coloniale sionista; sono l’Italia di Meloni-Mattarella & Schlein, l’Unione europea, gli Stati Uniti senza il cui sostegno militare, economico, propagandistico, Israele crollerebbe in pochi giorni.
Rilanciamo con tutte le nostre forze la denuncia di questo genocidio pianificato portato avanti dall’intero campo occidentale, le azioni concrete per spezzare alla fonte i legami che lo alimentano, la solidarietà al popolo palestinese e alla resistenza palestinese. (Red.)
Con le solite contorsioni linguistiche, questi due articoli della CNN toccano la serie di orrori inflitti a Gaza da oltre un anno dall’esercito genocida israeliano, che gode del pieno sostegno militare, diplomatico e mediatico del “civile Occidente”. Dato che non riguardano degli ucraini, ma “solo” una popolazione arabo-musulmana, questi abomini suscitano in noi solo indifferenza, se non addirittura stanchezza. Opponiamoci a questa disumanizzazione!
Il prossimo obiettivo strategico degli USA e di Israele è la destabilizzazione dell’Iran, su questo non c’è alcun dubbio. Del resto ci stanno lavorando da sempre sia sotto il profilo militare, con il lancio di droni e missili sul territorio iraniano e con la prassi delle “esecuzioni mirate” (ricordiamo l’assassinio del generale Soleimani e il più che sospetto ”incidente” in cui ha trovato la morte l’ex Presidente della Repubblica Islamica, Ebrahim Raisi precipitato con l’elicottero su cui viaggiava), sia su quello ideologico-mediatico. Quest’ultimo fa leva sulle contraddizioni e le divisioni presenti sia all’interno dei vari apparati dello stato che, soprattutto, all’interno della società civile iraniana che potremmo molto, sottolineo, molto sommariamente dividere in conservatori (clero tradizionalista e ceti popolari delle campagne) e in “riformisti” (la borghesia delle città favorevole a un processo di avvicinamento del paese all’Occidente). Che tale obiettivo possa essere raggiunto attraverso una cosiddetta “rivoluzione colorata” o un sovvertimento del regime a opera di alcuni settori militari e politici o con un combinato disposto fra i due, è del tutto indifferente perché ciò che importa è raggiungere lo scopo. In buona sostanza sia in un caso che nell’altro si tratta di facce della stessa strategia.
Una volta destabilizzata la Repubblica Islamica dell’Iran, gli Stati Uniti, Israele e il blocco occidentale tornerebbero a essere completamente egemoni in tutto il Medioriente, anche se in coabitazione con la Turchia che comunque è pur sempre un membro autorevolissimo della NATO e ha oggettivamente da guadagna re dall’eventuale crollo dell’attuale stato iraniano, perché si sbarazzerebbe del suo principale competitor in quanto potenza regionale (Israele a parte ma contro questo non può nulla).
La guerra per procura che gli Stati Uniti combattono in Ucraina contro la Russia non si fermerà con un accordo per il cessate il fuoco tra Mosca e la proxy di Washington, ma dovrà essere conclusa con uno storico trattato di pace tra le due grandi potenze, per porre fine una volta per tutte alle rivalità sorte in conseguenza alla creazione dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico.
È questa la posizione che emerge dalle dichiarazioni del Cremlino e dei suoi più alti funzionari, ultimo in ordine cronologico il ministro degli Esteri Sergey Lavrov, in merito alla possibilità di imminenti colloqui, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio.
“La Russia è impegnata a porre fine al conflitto”. Nei giorni scorsi questa affermazione di Putin al summit del CSI ha fatto scalpore sui nostri media, come se si trattasse di un elemento di novità nello scenario ucraino. In realtà il Cremlino non ha mai respinto ufficialmente la possibilità di una soluzione politica alla guerra in Ucraina.
Vale la pena ricordare che Mosca si sedette al tavolo dei negoziati immediatamente dopo l’avvio dell’operazione speciale militare. La pace venne sabotata prima con l’assassinio per mano dell’SBU del negoziatore Denis Kireev, uomo di fiducia del capo del GUR.
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L’imminente ritorno di Donald Trump alla Casa
Bianca ha radicalmente modificato il dibattito sulla guerra in
Ucraina. Dopo aver insistito per
anni su una vittoria militare ucraina a ogni costo,
l’establishment politico e mediatico occidentale sembra
riconoscere a malincuore che questa
guerra può terminare solo attraverso i negoziati o il collasso
dell’Ucraina sotto la pressione di uomini e risorse esaurite.
Dato che la
probabilità di quest’ultimo scenario sta diventando sempre più
evidente — nonostante l’ultimo pacchetto di aiuti
annunciato lunedì dall’amministrazione uscente di Biden — non
sorprende che persino il New York Times, di solito
falco, abbia recentemente concluso che
“è tempo di pianificare la fase postbellica”.
Putin ha manifestato la sua disponibilità a incontrare Trump per discutere un accordo di pace, mentre il presidente eletto ha recentemente ribadito che “dobbiamo porre fine a questa guerra”. Dopo aver incontrato Zelenskyy a Parigi durante la riapertura della Cattedrale di Notre Dame, Trump ha chiesto un “cessate il fuoco immediato”. In un cambiamento notevole, lo stesso Zelenskyy ha recentemente riconosciuto che l’Ucraina non può recuperare i territori perduti con mezzi militari e ha persino suggerito che sarebbe disposto a cedere il territorio in cambio della protezione della NATO.
Il solo fatto che i negoziati siano ora sul tavolo è uno sviluppo positivo in una guerra che ha già causato un immenso spargimento di sangue e innescato tettonici cambiamenti economici e geopolitici. Tuttavia, nonostante le audaci affermazioni fatte durante la campagna elettorale, secondo cui avrebbe posto fine alla guerra “in 24 ore”, la risoluzione del conflitto si rivelerà probabilmente molto impegnativa — come ora ammette lo stesso Trump.
L’ostacolo principale è che l’incessante spinta dell’Occidente verso un’impossibile vittoria ucraina contro un avversario molto più forte ha rafforzato la mano della Russia. Rifiutando le precedenti opportunità di negoziazione — quando l’Ucraina era in una posizione più forte — i leader occidentali hanno permesso alla Russia di consolidare le sue conquiste militari, lasciando a Putin pochi incentivi per scendere a compromessi.
Nota
Redazionale. Questo testo è stato originariamente pubblicato
su Monthly Review dal direttore John
Bellamy Foster nel dicembre 2024. E’ stato poi
ripubblicato, tradotto in italiano da Antropocene.org. Lo
riprendiamo in quanto rientra nel dibattito centrale
sull’introduzione delle nuove tecnologie nel mondo del
lavoro, con particolare riferimento
al dibattito sull’intelligenza artificiale. Riprendendo un
vecchio testo di Braverman, Bellamy Foster mette in evidenza
come
l’introduzione della tecnologia informatica nel lavoro sia
il compimento di un lavoro che il capitalismo ha introdotto
fin dall’inizio del
suo percorso attraverso il meccanismo della divisione del
lavoro.
In tal senso, il capitalismo ha introdotto la scienza al servizio della produzione con l’unico scopo di produrre di più e a minore costo, aumentando il profitto. In perfetta concordanza con gli obiettivi descritti nel Capitale di Marx. Ovviamente, tale scelta, ha portato in dono alcuni elementi fondamentali tra cui l’aumento dei beni prodotti.
Contemporaneamente, il compimento di questo lavoro ha portato a livelli sempre maggiori di alienazione nei lavoratori.
Di particolare interesse, nell’analisi qui sviluppata, la ripresa dei concetti di “general intellect” e di “lavoratore complessivo”. Nella analisi giovanile di Marx, il frammento sulle macchine presente nei “Grundrisse” è stato generalmente interpretato come la previsione di Marx sul fatto che lo sviluppo delle tecnologie e dell’automazione avrebbero, in qualche modo, abolito la legge del valore.
Per il RINGHIO DEL BASSOTTO Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=VTWJGhEETzE
"E' tutto sbagliato, è tutto da rifare" (Gino Bartali), con Fulvio Grimaldi, Il ringhio del bassotto
Il video presenta una panoramica che va dal “no limits” delle atrocità israeliane a Gaza, dall’osceno collaborazionismo, in Cisgiordania, dell’ANP e dei suoi sgherri che, contro i propri concittadini, gareggiano in ferocia e necrofilia con la soldataglia di occupazione, all’evidenza di un paese progressista, laico, socialista squartato. Una nazione identificata dai colonialisti euro-atlantici come “liberata” e democratizzata” dal rigurgito subumano di mercenari al soldo di Turchia, Israele, Fratellanza Musulmana, USA e NATO. Ennesima balcanizzazione imperiale di una unità storica, culturale, multietnica, che onorava l’intera umanità, ma che si era resa colpevole della vittoria su colonialismo e neoliberismo e di perseguire un altro modello di organizzazione della società. Come in Libia, Iraq, Jugoslavia, Venezuela….
Tra privatizzazione draghiano-prodiano-montiana, dittatura Covid e regime Meloni, siamo stati talmente ridotti ad accettare per fatto compiuto la scomparsa dei nostri diritti politici, civili e sociali, un’iniqua distribuzione della ricchezza, la totale rimozione del pubblico a vantaggio del potere-profitto privato nel segno della “fine della Storia”.
1. Premessa. Sono rimasto colpito molto favorevolmente dall’assemblea dell’associazione “Volere la Luna” del 24 novembre. Da questa frase risulta che (sbagliando) mi attendevo di meno; questa mia relativa sfiducia nasceva forse da una mia deformazione professionale. Chiarisco. Attualmente sono in pensione, ma prima di approdare a questa condizione ho insegnato e studiato Politica Economica, prima all’Università di Torino e poi a quella del Piemonte Orientale. Mi sono occupato quindi della valutazione delle scelte economiche dei governi; e anche di quelle delle opposizioni. Le scelte economiche degli ultimi governi del nostro paese sono state a mio avviso progressivamente sempre più sbagliate; ma progressivamente sempre più grave è stata anche la trascuratezza della sinistra riguardo alle grandi scelte della politica economica. (Qui e di seguito, per “sinistra” intendo l’area a sinistra del PD, più forse una parte di esso, che però vive in clandestinità e quindi è difficile da individuare). Credo che quella trascuratezza sia dovuta soprattutto a una colpevole forma di ignoranza da parte dei dirigenti, come se occuparsi di quelle questioni non fosse affare loro: “noi protestiamo, è compito di qualcun altro dare veste politica alla nostra protesta”. Purtroppo però questo qualcun altro non esiste. Questa critica, che ritengo giusta, mi ha portato a sottovalutare l’importanza del lavoro di base, e anche della crescita della coscienza che si accompagna alla protesta, sia pure locale e/o generica, e soprattutto a non apprezzare adeguatamente l’importanza della organizzazione della protesta medesima.
Il Pentagono ha iniziato una corsa contro il tempo in vista dell’insediamento del presidente Trump. Dopo aver distrutto Iraq, Libia, Gaza, Libano e Siria ora lancia i propri uomini contro lo Yemen. Non confondete le apparenze con la realtà: ufficialmente Israele risponde ai bombardamenti di Ansar Allah e gli Stati Uniti reagiscono agli attacchi alle navi occidentali. In realtà la distruzione dello Yemen è solo una tappa della distruzione dell’insieme delle istituzioni politiche del Medio Oriente Allargato. Non credete a quanto vi raccontano sull’ineluttabilità dello scontro di civiltà: non è che una messinscena per farvi accettare l’inaccettabile.
* * * *
Il massacro dei palestinesi e le invasioni di Libano e Siria sono in corso dal 7 ottobre 2023. Da due settimane la guerra si è spostata in Yemen.
Come sempre, i media internazionali segmentano le informazioni e spiegano ogni evento in termini di fattori locali, a volte esatti, a volte falsi. Impegnati a districarci in questa congerie di notizie non riusciamo a capire che questi avvenimenti fanno parte di un piano più ampio: è impossibile vincere se si ignora l’estensione del fronte.
Il prezzo del gas torna a infiammarsi. La Borsa di Amsterdam lo dava ieri a 47 e nei giorni scorsi oltre i 50 euro al megawattora, un incremento di oltre il 60% in un anno e quasi la metà nelle ultime settimane. Ne risentono anche i pochi rimasti nel cosiddetto mercato “tutelato”.
Con aumenti in bolletta intorno al 3 percento. E la notizia è che per il 2025 Goldman Sachs prevede un boom ulteriore del prezzo, a 84 euro e oltre.
La miccia, stavolta, è stata la decisione di Volodymyr Zelensky di non rinnovare il contratto che consentiva al gas russo di transitare in territorio ucraino per raggiungere i paesi Ue. Per sbloccare la situazione, l’ungherese Orbán e gli altri simpatizzanti di Putin minacciano l’interruzione di elettricità che dall’Europa va in Ucraina. Ma il leader ucraino per adesso resiste, forte dell’appoggio americano.
La nascente amministrazione Trump, infatti, sarà anche intenzionata a far la pace militare con la Russia ma non intende rinunciare alla guerra commerciale con il mondo, da tempo fondata sul cosiddetto “friend shoring”. Questo obbliga l’Europa a diradare i rapporti commerciali con i “nemici” d’Oriente e a intensificarli con gli Stati Uniti e gli altri “amici” della Nato, a partire dalle forniture di energia.
Sempre di nuovo occorre meditare il passo dell’Apocalisse (6,9-11) in cui si legge: «E quando (l’agnello) aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime degli sgozzati a causa della parola di Dio e della testimonianza che avevano reso. E gridarono a gran voce dicendo: “fino a quando, o signore santo e verace, non compi il giudizio e non vendichi il nostro sangue su coloro che abitano sulla terra?” E fu data a ciascuno di loro una veste bianca e fu detto loro che avrebbero indugiato ancora per poco tempo, fino a che non fosse completato il numero dei loro conservi e fratelli, che debbono essere uccisi come loro».
La storia non finirà e il giudizio finale non sarà pronunciato finché non sarà completato il numero dei giusti uccisi. È forse questo che sta avvenendo intorno a noi? E quanto altri giusti dovranno essere uccisi, come ogni giorno li vediamo morire? Certo la storia è storia di guerre, morti e uccisioni. Ma il senso dell’apertura del quinto sigillo non è che, nel tempo che stiamo vivendo, noi dobbiamo aspettare inerti che sia completato il numero degli uccisi. Anche se i giornali non fanno che contarli ogni giorno, noi ignoriamo quale sia questo numero, come ignoriamo quando avverrà il giudizio e se mai avverrà.
Che la caduta di Assad
in Siria non fosse poi questo gran successo, per l’occidente,
è cosa che sta lentamente cominciando a chiarirsi;
ciononostante, sono
più o meno tutti concordi nel ritenere che – tra tutti gli
attori regionali e internazionali in scena – l’unico ad averne
tratto sicuramente grande vantaggio è Israele. Il che
effettivamente è difficile da contestare, visto che ha potuto
ottenere,
praticamente a costo zero, una serie di risultati niente
affatto di poco conto.
Innanzi tutto, ha potuto procedere in tutta tranquillità alla distruzione sistematica dell’intera infrastruttura militare siriana, eliminando dall’orizzonte quello che – pur ormai ridotto molto male – è stato uno degli eserciti arabi sempre in prima linea in tutte le guerre con lo stato ebraico. Ha inoltre potuto occupare una parte significativa di territorio siriano, ben oltre le alture del Golan annesse di fatto dal 1967. Occupazione che dà a Tel Aviv più di una carta da giocarsi, nella ridefinizione degli equilibri in Medio Oriente.
Tanto per cominciare, la conquista del monte Hermon, che offre all’IDF la possibilità di controllare una vasta aerea, dal Mediterraneo alla Giordania, per non parlare di quella di alcune dighe, che danno a Israele il controllo sulle forniture di acqua dolce alla Siria e alla Giordania, un evidente leva geopolitica di grande rilevanza. Niente affatto secondariamente, poi, i nuovi territori occupati offrono ulteriori possibilità, dall’espansione degli insediamenti coloniali (venendo così incontro ai desiderata dell’ala più estremista della sua maggioranza, e al tempo stesso offrendo uno sfogo all’irrequieto movimento dei settler), alla creazione di uno stato-cuscinetto affidato ai drusi siriani. Per non parlare, ovviamente, del fatto che ora l’IDF controlla la parte meridionale del confine siro-libanese, il che dà all’esercito israeliano la possibilità (in caso di riaccendersi del conflitto con Hezbollah) di attaccare il territorio libanese da un lato dove non esistono linee difensive fortificate.
Se, dunque, indiscutibilmente Tel Aviv ha tratto vantaggio dal cambio di regime in Siria, resta da capire se si tratti di un vantaggio tattico o strategico.
Lutero ha un
problema, e questo problema si chiama Peccato. Ciò che cerca è
la Salvezza, una via che lo porti verso una vita giusta.
Secondo i più è stato il viaggio di Lutero nella Città Eterna, compiuto nel 1510, che condusse allo scisma dalla chiesa di Roma.
Cosa vide Lutero a Roma? Vide Babilonia maledetta, le sue cortigiane, i suoi sgherri, i suoi ruffiani, il suo clero simoniaco, i suoi cardinali senza fede e senza moralità. Vide che la via della pace prevedeva il pagamento di un pedaggio.
Quando ritornò in Germania, portò in cuore l’odio inestinguibile verso la grande prostituta. Gli eccessi, quegli eccessi che la cristianità unanimemente bollava d’infamia, egli li aveva visti, incarnati, vivere e prosperare insolentemente sotto il cielo romano. Soprattutto, lo aveva colpito lo scandalo dei soldi raccolti attraverso la politica delle indulgenze e spesi per alimentare la corruzione delle anime e delle menti.
Era la spaventosa miseria morale della Chiesa che gli si era mostrata nella sua nudità e che lo aveva turbato. Abusi materiali: commercio di beni sacri, traffico di benefici in urgenze, vita licenziosa del clero, rapida dissoluzione dell’istituto monastico; e, dall’altra parte, dissolutezza nel campo morale: decadenze, miserie di una teologia che riduceva la fede viva a un sistema di pratiche morte.
Questo è quello che si racconta di Lutero, dice Lucien Febvre (Martin Lutero). Ma le cose non andarono in questo modo. I problemi di Lutero non erano la lussuria della Chiesa e la vendita delle indulgenze, non erano la decadenza di Roma e la perdita di una purezza primitiva. Per Lutero non c’era un’origine intatta da ripristinare, un’unità con Dio prima della caduta di Roma. Per Lutero c’era il Peccato, e il tormento di non riuscire a trovare la via dal peccato alla salvezza.
Come posso, con le mie gambe, con le mie mani, con questo mio misero corpo, tendermi verso Dio e toccarlo, partecipare della sua grazia? Come posso io, misero peccatore, piccolo verme strisciante, ammasso finito di pelle o ossa, cloaca di peccati e miserie pretendere di innalzarmi a Lui, il puro, il vero, l’infinito?
Il 2024 non poteva che concludersi con
un evento che non è solo simbolico: la nomina di Jens
Stoltenberg, non appena concluso lo scorso ottobre il suo
mandato come Segretario
generale della NATO, a nuovo co-presidente del Gruppo
Bilderberg.
Certo non ci occupiamo di questo fatto per alimentare i vari complottismi, che troppo spesso svaniscono in un confuso bisbigliare.
Meglio approfondire con pazienza la storia, per capire che con il Gruppo Bildberg non siamo in presenza di un complotto, ma semplicemente davanti all’azione delle forze che hanno formato questo nostro tempo e che operano per conservare il loro potere.
Il Bilderberg Group fa la sua prima comparsa ufficiale nel maggio del 1954, come sodalizio fra autorevoli esponenti della classe dirigente che si è venuta formando sulle due sponde dell’Atlantico tra i vincitori delle due grandi guerre mondiali del secolo XX.
Il loro dichiarato intento è appunto quello di dare continuità a quelle fondamentali vittorie, rendendo indistruttibili i rapporti euro-atlantici, in vista del futuro. Un futuro che allora si manifestava con l’inizio della Guerra Fredda, con la diffusione dei movimenti comunisti anche nell’Europa occidentale, con lo scoppio della guerra di Corea, la formazione della NATO, l’annosa questione tedesca, che si risolveva portando la nuova Repubblica Federale di Germania sotto stretto controllo atlantico.
Tutto ciò fu allora lucidamente compreso dal singolare animatore del Bilderberg, Jozef Retinger: un polacco che aveva vissuto per mezzo secolo come uno dei principali protagonisti sotto traccia della storia europea.
La nuova controffensiva di Kursk serve solo a far proseguire la guerra. L'inviato di Trump per l'Ucraina rimanda la visita a Kiev...
Tante le sfaccettature della nuova offensiva ucraina nella regione russa di Kursk, attacco concordato con gli americani, come annota il sito ucraino Strana commentando le dichiarazioni del Capo del Dipartimento di Stato Tony Blinken, che l’ha benedetta sottolineandone l’importanza “in vista di un negoziato che potrebbe aver luogo nel prossimo anno”.
Tale offensiva, cioè, è tesa a conquistare ulteriori territori russi per farne merce di scambio con i territori ucraini controllati da Mosca nell’ambito delle trattative annunciate dalla nuova amministrazione americana, determinata a porre fine alla guerra.
La posta sarebbe stata ancora maggiore se l’offensiva avesse conseguito il suo obiettivo principale, che era – come nella precedente offensiva lanciata nella medesima regione – la centrale atomica di Kursk.
Gli ucraini, infatti, come annota Strana, hanno “cercato di sfondare a nord-est di Sudzha, verso Bolshoi Soldatskoye, che si trova lungo l’autostrada che porta a Kursk, e a Kurchatov, dove si trova la centrale nucleare di Kursk”; che l’obiettivo fosse proprio la centrale atomica lo si può desumere anche dalle parole di Zelensky che, in un’intervista rilasciata in parallelo all’attacco, si è lamentato del fatto che il suo Paese non possieda armi nucleari (Kyiv Indipendent).
La geopolitica delle criptovalute (Castelvecchi 2024) è un testo duplice, come la materia cui è dedicato.
Da un lato parla di geopolitica, chiamando in causa un insieme di soggetti noti (terroristi islamisti, Cuba, Ucraina, Russia, regime nordcoreano, cartelli di narcos messicani, ecc.) e alcune dinamiche che li riguardano. Dallo scoppio della guerra in Ucraina tale ambito è diventato predominante nel dibattito pubblico.
Dall’altra riguarda le criptovalute, un oggetto un po’ misterioso (in effetti cryptos in greco significa “nascosto”) la cui tecnicalitá non è così familiare al lettore medio. In merito l’autrice, Elham Makdoum, giovane analista indipendente, ci illustra una sorta di continente occulto in cui le potenze e i soggetti sopra citati sono influenzati nella loro interazione conflittuale o di alleanza proprio da questi oggetti misteriosi.
Tale doppio piano si snoda nel testo, ora concedendo di più al primo fattore, ora al secondo. Uno dei percorsi più affascinanti del libro riguarda la matrice ideologica delle criptovalute e la loro parabola.
È noto che il retroterra di internet e del mondo digitale è una visione libertaria che rifiuta le gerarchie e il potere, le cui basi sono rinvenibili negli anni Sessanta. La matrice utopica sarebbe stata presto rovesciata dalla realtà, rendendo più realistica la tetra distopia di William Gibson, autore del termine cyberspazio negli anni Ottanta. In modo simile, il presupposto delle cripovalute è la preoccupazione per la privacy nella comunicazione, e lo strumento è la crittografia applicata ai pagamenti.
Le ultime provocazioni di Donald Trump non manifestano solo l’arroganza del personaggio, ma sono ispirate alla stessa storia degli Stati Uniti, costituitisi con occupazioni illegali, acquisizioni imposte, annessioni non accettate dalle popolazioni, basate esclusivamente sul principio della forza.
In questi ultimi giorni si è parlato molto delle ultime dichiarazioni o provocazioni di Donald Trump, che assumerà la presidenza degli Usa il prossimo 20 gennaio, benché qualcuno non scarti la possibilità dell’insorgere di un qualche impedimento al suo insediamento. Come è noto, ha prospettato la trasformazione del Canada nel 51° Stato dell’Unione, promettendo ai suoi abitanti una straordinaria riduzione delle tasse e una protezione militare ineguagliabile, ha dichiarato che il Canale di Panama dovrebbe tornare nelle mani degli Usa, se il governo di quel Paese non garantirà il suo funzionamento sicuro, efficiente e affidabile. Inoltre, ha accusato quest’ultimo di applicare tariffe esorbitanti al suo Paese, al suo esercito e alle corporazioni con cui questi ultimi fanno affari, prefigurando un’ipotetica influenza della Cina che, effettivamente, sta rafforzando i legami economici e commerciali con quei territori evidentemente ancora intoccabili per l’antica dottrina Monroe (1823).
Naturalmente, Paesi come Messico, anch’esso da incorporare, Cuba, Colombia, Nicaragua, Venezuela e lo stesso governo panamegno hanno reagito con forza, sottolineando la sfrontatezza e la mancanza di fondamento della pretesa di quel bizzarro personaggio con cui dovremo fare i conti nei prossimi quattro anni. Anche la Cina si è espressa negativamente.
Ieri, stando ai resoconti di stamane, sono stati uccisi 63 civili palestinesi dall’esercito israeliano.
Nelle ultime 72 ore risultano morti di stenti e freddo 7 bambini nelle “safety zones” palestinesi.
Ah, dimenticavo, buon anno a tutti.
Il primo impulso oggi sarebbe di dire che mi vergogno di essere italiano ed europeo.
Ma francamente, oltre ad appartenere al novero delle dichiarazioni sterilmente patetiche, si tratterebbe di una proposizione profondamente ingiusta.
Perché significherebbe lasciare alle nostre attuali classi dirigenti la titolarità di presentarsi come eredi di una storia e di una cultura grandi, di una storia e una cultura che essi ignorano e disprezzano.
No, l’unica cosa di cui credo sia giusto provare davvero vergogna è di vivere in un protettorato americano, guidato da una classe politica (con destra o sinistra perfettamente equivalenti) composta di servi di bottega, di lacchè senza dignità, disponibili a svendere ogni briciola del proprio paese, del proprio popolo, della propria storia pur di mantenersi in sella per qualche mese in più, pur di godere delle genuflessioni untuose di greggi mediatici dipendenti dai medesimi padroni.
C’è chi dice che la classe politica agisce così perché cerca di preservare il benessere del proprio paese pur sotto condizioni di oggettivo ricatto.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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La crescente delegittimazione della legalità internazionale lascia spazio a un mondo senza regole, dove vige un’unica legge: quella del più forte
L’anno
appena trascorso ci ha mostrato una verità pericolosa. Ci ha
confermato che l’Occidente, che a parole ha sempre sostenuto
il rispetto del
diritto internazionale, può violarlo a proprio piacimento, e
lasciare che i propri alleati facciano altrettanto.
In questo senso, quella di Gaza non è soltanto una tragedia ma anche un monito, un precedente rischioso.
Una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) sulla plausibilità del rischio di genocidio nella Striscia, una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che chiede la fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi (occupazione giudicata illegale da un precedente verdetto della CIG), rapporti delle Nazioni Unite e di numerose organizzazioni internazionali sulla natura genocida dell’operazione in corso a Gaza, non hanno fermato il massacro.
L’amministrazione Biden ha manipolato e sminuito dati e informazioni in suo possesso per negare che Israele impiegasse le armi americane in violazione del diritto internazionale, e che bloccasse l’ingresso degli aiuti nella Striscia.
Esponenti del Congresso, e la stessa Casa Bianca, hanno minacciato di imporre sanzioni alla Corte Penale Internazionale se avesse emesso mandati di arresto nei confronti di esponenti del governo israeliano. Una legge appena approvata dalla Camera dei Rappresentanti può tradurre in realtà queste minacce.
I paesi europei hanno respinto un rapporto del rappresentante speciale dell’UE per i diritti umani che, evidenziando i crimini di guerra commessi dalle forze armate israeliane, invitava i membri dell’Unione a sospendere le esportazioni di armi verso Israele.
Questa imprudente delegittimazione della legalità internazionale avviene nel contesto di uno scontro serrato per la ridefinizione degli equilibri mondiali.
Passato il
primo momento di sconcerto, sulle più recenti sparate di
Donald Trump – Groenlandia, Panama, Canada, ecc – hanno
affondato il
bisturi analisti piuttosto seri. Mentre i più rimbambiti
cantori dell’establishment bipartisan (non facciamo
nomi, ma ve li
ritrovate su tutti i giornali e soprattutto talk show, con
bretelle o senza) stanno ancora lì a recitare giaculatorie
scandalizzate per il modo
in cui si esprime il miliardario indebitato, campione della
reazione parafascista dell’Impero in crisi.
Si può capirli… vorrebbero poter conservare l’immaginario dell’America liberal, faro dei “diritti umani” ma disposta persino a fare “guerre umanitarie” senza giustificazione, o genocidi che non si devono chiamare col loro nome, tra un volto hollywoodiano e una serata da Grammy Awards mentre si cosparge il mondo di cadaveri.
E invece si ritrovano questo buzzurro che squaderna i peggiori tratti del colonialismo ottocentesco, quasi una generale Custer fuori tempo, trattando gli stessi Alleati come potenziali nemici da mettere a posto a suon di sganassoni.
Sotto il velo dell’apparente “pazzia”, però, il tycoon newyorkese sta soltanto indicando alcuni degli obiettivi che risultano “indispensabili” a realizzare l’altrettanto passatista programma del “make America great again”.
E allora, grattando nella storia neanche troppo recente, per esempio a proposito di Groenlandia, si può scoprire che durante la seconda guerra mondiale gli Usa l’avevano già occupata con reparti della Guardia Costiera “liberati dal servizio“, formalmente solo “volontari” senza legami con il governo statunitense.
Il governo danese tacque perché era tutto in esilio, visto che a Copenhagen campeggiavano le SS. L’accordo con gli Usa che legalizzava la presenza di militari sull’isola arrivò un po’ dopo, senza troppe trattative.
Nel 1951 venne poi firmato un altro accordo che consentiva agli USA di costruire ed equipaggiare basi militari statunitensi, diventate alla fine una cinquantina (quasi tutte stazioni di osservazione radar, tranne la più grande, Thule). Era iniziata la “guerra fredda” contro l’Unione Sovietica e dalla Groenlandia era molto più facile controllare le possibili rotte di eventuali missili sovietici verso l’America.
Che cosa
pensereste di una start up da cui se ne sono andati quasi
tutti i principali dirigenti e cofondatori, che ha chiuso il
2024 con un rosso di 5 miliardi di dollari e che deve
fare fronte a una marea di cause legali? La stessa start up i
cui costi operativi hanno raggiunto cifre
colossali non ha ancora dimostrato di avere un modello di
business sostenibile e i cui progressi tecnologici stanno già
dando segnali di
rallentamento?
Probabilmente, pensereste che la start up in questione è una delle tante (circa due terzi, secondo la Harvard Business Review) che non riescono a ripagare gli investitori e chiudono bottega, nella maggior parte dei casi entro i cinque anni di vita. E avreste ragione a pensarla così, a meno che la start up in questione non sia OpenAI: la società che sviluppa ChatGPT, DALL-E e altri strumenti basati su intelligenza artificiale generativa.
Pur se afflitta da tutti i problemi descritti in apertura, OpenAI continua infatti a godere di un’enorme fiducia, le sue prospettive future non vengono mai messe in discussione ed è stata perfino in grado di imporre le sue condizioni agli investitori, decidendo per esempio quali finanziamenti accettare, a partire da quale cifra e chiedendo che i partner non investissero nelle principali cinque società rivali (Anthropic, xAI, Superintelligence, Perplexity e Glean).
Nonostante questa – e altre – particolarità dell’ultimo round di finanziamento, OpenAI è riuscita lo scorso ottobre a raccogliere 6,6 miliardi di dollari da investitori come Thrive Capital, Nvidia, Microsoft, SoftBank e altri, per una valutazione da 157 miliardi di dollari. Partiamo proprio da questo aspetto: i finanziamenti. Per quanto i vari round in cui le startup riescono a raccogliere enormi quantità di denaro da investitori privati vengano solitamente celebrati – soprattutto a livello mediatico – come un segno delle loro enormi potenzialità, in alcuni casi è anche utile porsi una domanda: perché la start up in questione, ovvero OpenAI, ha bisogno di raccogliere una tale mole di denaro?
Sembrerebbe che Trump, prendendo realisticamente atto dello stato multipolare del mondo, abbia pensato di trasferire il modulo della stagione finanziaria dei “merger&acquisition” in politica statale-geopolitica. Dalle uscite sull’acquisto della Groenlandia alla annessione più o meno spontanea del Canada fino agli avvisi al governo panamense sulla gestione del Canale e l’idea di rinominare il Golfo del Messico, Golfo d’America, siamo davanti a una Dottrina Monroe 2.0 che presto si aprirà anche al Centro e Sud America.
Il nuovo polo americano si baserebbe su una chiara e solida sovranità allargata ed egemonia stretta su tutto il continente americano. Tra Groenlandia e Canada, immense riserve di nuove terre liberate dai ghiacci, abbondante acqua dolce, legno, risorse minerarie, sabbie bituminose e riserve di energia fossile attestate (gas e petrolio), per non parlare della strategica posizione geografica in grado di presentarsi in forze nella nuova scacchiera polare anche per contrastare la temuta rotta artica russo-cinese. Decisamente un soggetto pieno di potenza e potenzialità.
Bilanciando premi ovvero investimenti e partnership allettanti ai governi “amici” e punizioni ovvero dazi, sanzioni -ma non si può escludere anche l’intervento armato in alcuni casi- verso i “nemici” (Messico, Venezuela, Cuba, Bolivia, da vedere in prospettiva Brasile), crearsi una area interna su base di poco meno di un miliardo di persone di co-sviluppo, delocalizzazioni, prelievo di materie prime, ostracismo totale a insidiose penetrazioni russe o più che altro cinesi.
Il 22 dicembre, pochi giorni prima di Natale, il comitato editoriale di Haaretz ha pubblicato un editoriale intitolato “Israele sta perdendo la sua umanità a Gaza”.
Il breve articolo delinea un timore che per anni è stato pervasivo tra i sionisti liberali: che i crimini perpetrati a Gaza stiano tradendo i valori di una colonia di coloni altrimenti onesta e morale. Il progetto sionista, per loro, è una sorta di Stato legittimo che solo ora non riesce a essere all’altezza degli standard di condotta che ci si aspetta da lui.
Un’opera che voleva essere sia un’ammissione di colpa che un invito a fare meglio, alla fine non era altro che un resoconto fittizio della storia della colonia, che faceva appello a un’epoca migliore e più morale.
Togliendo di mezzo la storia della violenza derivante dalla colonia e dipingendo un quadro revisionista di un progetto moralmente onesto (anche se a volte problematico) e in definitiva legittimo, forse persino riformabile, hanno fatto ciò che molti sionisti liberali hanno tentato di fare per decenni: evitare una verità scomoda e ineludibile sul progetto a cui si aggrappano e che sostengono così disperatamente.
Non è mai esistito un Israele “buono”.
In innumerevoli occasioni Matteo Salvini ha dimostrato di essere un improvvisato e uno sprovveduto. L’ulteriore conferma la si è avuta in queste ultime settimane, allorché Salvini si è ingenuamente intestato la paternità di un nuovo Codice della Strada che probabilmente non ha neanche letto. Quando “assumono la responsabilità di un dicastero” i cosiddetti ministri trovano l’agenda già tracciata dai lobbisti, che sono quelli che scrivono materialmente le leggi. Si può stare certi che anche l’ennesima finta resurrezione del progetto del Ponte sullo Stretto di Messina non sia farina del sacco di Salvini ma la pluridecennale operazione fraudolenta per spillare al contribuente soldi col pretesto di un ponte che non si ha neppure voglia di fare.
La cleptocrazia imperante si narra al pubblico e a se stessa come tecnocrazia, ma è costretta a confondere le acque con la fintocrazia, per cui spetta ai politici di turno esporsi e prendersi gli sberleffi per gli apparenti nonsensi. Con i suoi eccessi di enfasi Salvini ha però esagerato, attirando troppa attenzione; per cui si è notato immediatamente che il nuovo Codice della Strada ha due effetti pratici molto evidenti. Il primo effetto è quello di aumentare il potere e la discrezionalità delle cosiddette “forze dell’ordine” offrendo loro altri margini di abuso e corruzione. Rendere così incerto e aleatorio il risultato dei controlli tossicologici ai posti di blocco indurrà anche gli automobilisti più sobri a cercare di evitarli versando un “pedaggio” agli agenti.
Sulla scena mondiale si stanno delineando due centri di potere: Stati Uniti e loro alleati da un lato; Cina e Russia dall’altro. Invece di superare i conflitti, ne sono stati generati di nuovi e di più pericolosi. È fallita la politica economica, ma è fallita soprattutto un’idea di uguaglianza. Che va recuperata con un salto di paradigma
Gli anni Novanta del secolo videro la piena affermazione dell’ideologia neoliberale. L’Unione Sovietica si era dissolta e i governi di ogni colore, dall’Europa agli Stati Uniti ai paesi in via di sviluppo, liberalizzavano, privatizzavano e riducevano le protezioni sociali. In questa ideologia non vi era solo una concezione dell’efficienza economica, ma anche un’idea di socializzazione: contrapposto al potere dei governi e delle istituzioni, il mercato era visto come il terreno privilegiato per lo sviluppo delle libertà individuali, peraltro in linea con un’antropologia, priva di riscontri oggettivi, che fa risalire al “selvaggio barattante” dell’alba dell’umanità il comportamento finalizzato all’utile economico. Realizzando l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani nella democrazia e nell’ordine di mercato, si sarebbe raggiunta nientedimeno che la “fine della storia”. Ciò non significa, sottolineava Fukuyama nel suo saggio del 1989, che non ci sarebbero più stati fatti storici, ma non ci sarebbe più stata contrapposizione tra diverse forme di convivenza umana. All’insegna dei valori dell’Occidente, la mercificazione delle relazioni umane avrebbe avuto una valenza universale, scongiurando così il rischio di conflitti su larga scala tra le nazioni.
In un momento in cui
l’economia della decrescita è oggetto di accesi dibattiti
all’interno e all’esterno del movimento ambientalista,
l’obiettivo di Saito Kohei, spiega in “Il Capitale
nell’Antropocene” (Einaudi, Torino 2024), è quello di
“superare il divario tra marxismo e decrescita”, riunendo
il
rosso e il verde in un “comunismo della decrescita”. Molti
nel movimento ambientalista sostengono che il capitalismo
e la sua
“accumulazione infinita su un pianeta finito … sono la
causa principale del crollo climatico”, scrive Saito. Ma
poiché gli
scritti di Marx sull’ecologia sono stati spesso
marginalizzati, c’è una visione secondo cui il suo
socialismo è
pro-tecnologico e anti-ecologico, sostenendo lo sviluppo
di tecnologie per gettare le basi per una società
post-capitalista e ignorando i
limiti della natura, credendo che possa essere dominata
dagli esseri umani. Secondo Saito, è possibile e
necessario ricostruire Marx in modo da
poter vedere come ha analizzato la crisi economica ed
ecologica. A Saito va l’indubbio merito d’essere riuscito
a portare
all’attenzione di un pubblico ampio il tema dell’ecologia
in una prospettiva di trasformazione sociale e di aver
contribuito alla
diffusione di una corrente di pensiero che vuole
riscoprire la fecondità delle idee di Marx in relazione a
problemi che ci riguardano molto da
vicino nell’epoca attuale nel contesto del riscaldamento
globale e dei cambiamenti climatici.
* * * *
La
continuità senza tregua delle guerre imperialiste si correda
di sempre nuovi fronti di: accaparramenti territoriali e
relative spartizioni
(ultima in ordine di tempo la Siria), risorse, spopolamenti,
disumanizzazioni a ogni livello. Soffermandoci su
quest’ultimo punto, abbiamo
provato a riflettere su cosa sia e quanto conti l’“umano”, o
più precisamente gli esseri umani, le loro sofferenze,
mutilazioni, morti, patologie irreversibili, ecc., a fronte
dell’utile strappato dalla rapina bellica.
Dal febbraio del 2022 si contano circa 1 milione di morti tra ucraini e russi, più 11 milioni di sfollati, e la guerra è una pratica assolutamente “umana”. Distrutte scuole, strutture sanitarie, prodotti inquinamenti dell’aria per aumento di gas serra, quali ammoniaca, monossido di carbonio, anidride solforosa, ossidi di azoto, nonché aumenti dei prezzi alimentari, dell’inflazione, ecc. Aumentano in tal modo i costi della ricostruzione - quando sarà - a vantaggio degli sparvieri umani che attendono solo il momento pacificato per trarne zona di sfruttamento e ulteriori profitti.
In Palestina si contano poi ormai per difetto 45.000 morti e circa 1 milione e 900.000 sfollati; in Libano più di 3.000 morti e quasi 14.000 feriti contati solo alla fine del 2024. Senza considerare le altre 200 guerre sparse sul pianeta, ma troppo lontane dall’Europa per coinvolgere l’interesse alla “sicurezza” dei confini, perennemente prioritaria per i nostri governi.
Tempo fa, inoltre, nei tg ufficiali della TV italiana, Zelensky ha avuto modo di affermare che la “crudeltà” di Putin si è mostrata nell’attacco bellico effettuato il giorno di Natale. Nessun commento televisivo però per la parallela analoga aggressione israeliana a Gaza la notte di Natale, con almeno 11 morti tra cui 5 giornalisti di un’emittente palestinese, deliberatamente colpiti, e 4 neonati deceduti per ipotermia. I raid missilistici sono poi continuati in tutti i giorni a seguire, senza alcuna sosta di un cessate il fuoco sulla striscia. A ciò si è aggiunto il maltempo che ha contribuito ad allagare almeno 1500 tende con circa 30 cm di acqua, e molti altri neonati sono morti di freddo.
Rage against the machine? Automazione, lavoro, resistenze, “Zapruder” n. 65, sett.-dic. 2024
«Dalla miniera a cielo aperto di
Lützerath in Germania alla “Zone à defendre” di Notre Dame
des Landes passando per la lotta no tav in Val di Susa,
negli anni
a noi più vicini la battaglia contro lo strapotere della
tecno-industria non ha né la fabbrica come epicentro, né la
classe
operaia come protagonista. Spesso frutto dell’alleanza tra
frazioni illuminate di piccoli proprietari agricoli e
settori radicali del movimento
ecologista, la “rabbia contro le macchine” non sembra più
essere alimentata dal potere dispotico del capitale sul
lavoro».
Così l’editoriale del numero 65 della rivista “Zapruder”
introduce il fascicolo dedicato alle resistenze al
cambiamento
tecnologico che hanno attraversato la storia a partire dalla
Rivoluzione industriale focalizzandosi su alcuni casi di
studio al fine di
«alimentare una riflessione sull’oggi per provare a
riorientare la tecnica verso un fine diametralmente opposto,
quello del benessere
sociale per tutte e tutti».
Mentre negli ultimi decenni sui territori si danno forme di resistenza e antagonismo come quelle sopra tratteggiate, da qualche tempo un’insistente narrazione a canali e media unificati si è preoccupata di esaltare le magnifiche sorti del progresso permesse dall’intelligenza artificiale generativa bollando come patetici luddisti passatisti antitecnologici per partito preso tutti coloro che osano evidenziare gli aspetti più inquietanti che l’accompagnano: la disumanizzazione decisionale riguardante l’organizzazione del lavoro; il ricorso a pratiche di ludicizzazione digitale al fine di incrementare le performance lavorative e la competizione con i colleghi; la proliferazione degli armamenti autonomi, dunque di modalità, se possibile, ancora più ciniche e spietate di gestione delle guerre; la ricaduta omologante sul mondo dell’informazione, dell’intrattenimento, dell’educazione e della cultura; lo sfruttamento delle risorse naturali e delle popolazioni del Sud del mondo; l’oscurità degli algoritmi che regolano i sistemi decisionali tecnologici; l’esponenziale incremento della sorveglianza che comporta; l’incidenza esercitata sull’immaginario collettivo ecc.
La storia è sempre storia del presente. Purtroppo, mi è venuto di pensare osservando le reazioni al docu-film Magma che ricostruisce il delitto Mattarella del 1980. Il filo conduttore dell’opera è la ferma convinzione di Giovanni Falcone che si fosse trattato di un assassinio politico di matrice “atlantica”. Un caso Moro bis a meno di due anni distanza. Perché siamo nel presente? Lo siamo perché siamo in mezzo a una guerra in Ucraina la cui lampante matrice è, appunto, “atlantica”.
Matrice atlantica significa né più né meno che un’origine imperiale, radicata negli interessi e nella volontà superiori dell’impero americano. Matrice atlantica significa violazioni del diritto internazionale nel caso dell’Ucraina, e violazioni del diritto penale e della sovranità nazionale nei casi Moro, Mattarella e La Torre. Significa mettere in atto ingiustizie e degenerazioni delle istituzioni democratiche da negare e nascondere con ogni mezzo soprattutto nei campi di battaglia dei satelliti, cioè nei luoghi della sovranità limitata. Il delitto Mattarella fu un caso Moro bis perché fu uno degli ultimi capitoli italiani della Guerra fredda, avvenuta in Italia anche sotto forma della cosiddetta “Strategia della tensione”. Dico uno degli ultimi perché l’ultimo fu la strage di Capaci, accaduta dodici anni dopo ma come uno strascico della stessa Guerra fredda.
Mattarella era un uomo coraggioso, deciso a proseguire lungo il sentiero proibito dell’accordo di governo con i comunisti che era costato la vita del suo maestro. I
La modernità con le rivoluzioni (da quella francese a quella bolscevica) ha cercato la liberazione del soggetto. Ma ciò che ne è scaturito è stato catturato dal capitalismo. Finché libertà ed eguaglianza sono rimaste ancorate al collettivo, cioè finché hanno cercato di produrre una nuova forma di vincolo solidale, una messa in forma della libertà è stata possibile. Ciò è accaduto con difficoltà, perché la fratellanza è sempre stata il valore della triade rivoluzionaria più problematico da garantire nella società emancipata dall’auctoritas. Ma fintanto che la politica non è stata neutralizzata dalla tecnica, era ancora possibile un orizzonte di emancipazione collettiva, pur tra insidie e rischi, nichilistici da un lato, assolutistici dall’altro. La politica moderna ha infatti oscillato tra perdita di senso comunitario e ricerca violenta di purezza solidale, replicando la dialettica tra istituzione ed eresia propria della teologia politica sostanziale, cioè della religione come vincolo politico: la politica “religiosa” ha sostituito la teologia come fondazione dell’ordine. Così il potere costituente si è risolto, nei suoi esiti più radicali, o nella “furia del dileguare”, che distrugge ogni ordine, o in un nuovo potere “totale”, che satura l’intero spazio pubblico. Nella società di massa del Novecento tale paradosso si è dispiegato. Solo con il “trentennio glorioso”, a precise condizioni, è stato possibile lo spazio di una nuova mediazione, emancipativa e non distruttiva.
Alle pulsioni messianiche per conquistare l'Israele biblica si sono sommate spinte espansioniste. Netanyahu vuole costruire il suo impero?
A fine dicembre le forze israeliane hanno devastato l’ultimo ospedale attivo nel Nord di Gaza, quello di Kamal Adwan, dopo aver arrestato il direttore e i medici e aver sfollato i pazienti, cacciati dalla struttura in mutande, al freddo e al gelo, sotto il tiro dei soldati.
“Un video mostra una fila di persone sprofondate nella sabbia, in mezzo alle macerie; uomini nudi con le braccia alzate, circondati dai carri armati israeliani, umiliati quanto è possibile che un essere umano possa essere umiliato”, annotava Gideon Levy.
Al suo scritto, Haaretz aggiungeva un editoriale di fuoco contro gli assalti agli ospedali della Striscia, presi di mira fin dall’inizio della guerra. “Secondo i dati delle Nazioni Unite – annotava il giornale – 1.057 operatori sanitari sono stati uccisi dall’inizio della guerra a Gaza. Il sistema sanitario è collassato a causa dell’elevato numero di vittime, della distruzione degli ospedali da parte dell’esercito e della carenza di medicinali, posti letto e personale”.
Un accademico svizzero-iraniano, Mohammad Abedini Najafabadi, è stato arrestato in transito a Malpensa su mandato americano mentre si dirigeva a Istanbul con l’accusa di avere aiutato Teheran a costruire alcuni droni. Per ritorsione, l’Iran ha arrestato una giornalista italiana per uno scambio di detenuti. Sentiamo dire che l’Iran agisce in questo modo perché è l’incarnazione del Male universale. La realtà è diversa.
Per comprendere la mossa dell’Iran, occorre capire come il “caso Abedini” sia legato al “caso” dell’imam Abu Omar, rapito a Milano sotto il governo Berlusconi: uno dei casi più documentati di azione illegale condotta dai servizi segreti americani in un Paese straniero. Abu Omar fu rapito, il 17 febbraio 2003, da dieci agenti della Cia. L’imam fu portato nella base aerea di Aviano e poi condotto in Egitto, dove fu brutalmente torturato con la falsa accusa di essere un terrorista islamico. Dalle sentenze della magistratura milanese, emerge che i vertici dei servizi segreti italiani e, quindi, il governo Berlusconi, erano informati e coinvolti nell’operazione della Cia. Nel dicembre 2010, la Corte d’appello di Milano ha stabilito un risarcimento di un milione di euro per Abu Omar e di 500 mila euro per la moglie, a carico di ben 23 agenti della Cia, tutti cittadini americani. I vari governi italiani hanno sempre fornito protezione agli agenti americani, ricorrendo persino al segreto di Stato per ostacolare le indagini della magistratura.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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1. Introdurre La Grassa
a chi non lo conosce
Per introdurre il pensiero di Gianfranco La Grassa è utile prendere in mano Il meccanico del marxismo. Introduzione critica al pensiero di Gianfranco La Grassa scritto da Piotr Zygulski. Il termine “meccanico del marxismo” è di Costanzo Preve e serve a descrivere il lavoro dell’economista veneto come un tentativo orientato non alla rianimazione della teoria di Marx bensì alla sua analisi per provare a smontare e rimontare, anche con pezzi nuovi, questa dottrina politica che avrebbe bisogno più di un nuovo motore che di nuovi autisti. Questa operazione richiede di individuare con precisione le parti difettose per poi apporre delle modifiche efficaci che possono produrre un risultato poco lontano dall’originale o la creazione di una vettura del tutto nuova e difficilmente distinguibile dal punto di partenza. Per capire come e perché è stato realizzato tutto ciò è bene presentare qualche dato biografico. Gianfranco La Grassa nasce nel 1935 a Conegliano da una famiglia di origini siciliane che possedeva un’azienda in Veneto specializzata nella produzione di vini e vermut. Nel 1953 approda al marxismo e si avvicina al PCI dopo una vacanza a Palermo dove scopre i libri di Marx e di Stalin. Dopo il diploma presso la scuola enologica di Conegliano si iscrive all’Università Ca’ Foscari di Venezia e inizia a partecipare alle riunioni del PCI pur non prendendo la tessera del partito. Nel 1959, dopo uno scambio epistolare, il suo maestro italiano, Antonio Pesenti, lo convince a trasferirsi all’Università di Parma dove aveva la cattedra di Scienza delle Finanze e di Diritto Finanziario. Nello stesso periodo inizia a prendere le distanze dal PCI e dalla “via italiana al socialismo” di Togliatti e non accetta le conclusioni del XX congresso del PCUS colpevole, secondo La Grassa, di incolpare dei crimini dello stalinismo unicamente la figura di Stalin e per questo iniziò ad avvicinarsi al maoismo. Nel 1963 rompe in maniera definitiva con il PCI dopo una complicata riunione di partito con il Comitato Federale di Treviso a cui fa seguito l’inizio della scrittura di una serie di ciclostilati di analisi politica tramite cui accusava di “neorevisionismo” sia il PCUS che il PCI.
La casa comune europea brucia: per sue
interne e risalenti contraddizioni, per l’esplodere dei
fascismi e dei sovranismi, per
le guerre in
cui è coinvolta, per la sua debolezza economica, per la
polarizzazione geopolitica tra Stati Uniti e Cina
in cui essa appare
sempre più un vaso di coccio. Contemporaneamente non c’è, ad
essa, un’alternativa credibile e desiderabile. In
questo scenario si svolgeranno, a breve, nuove
elezioni in diversi paesi e si definiranno,
nell’anno che abbiamo di
fronte, nuovi assetti politici. Per questo abbiamo
deciso di aprire un confronto al riguardo, cominciando con
un primo
articolo, in qualche misura ricognitivo, di Livio
Pepino (https://volerelaluna.it/commenti/2024/12/31/il-2024-e-la-fine-del-sogno-europeo/)
a cui ha fatto seguito un’ampia analisi di Marco
Revelli sulle dinamiche degli ultimi anni (https://volerelaluna.it/controcanto/2025/01/02/il-suicidio-dell-europa/).
Ora il confronto – come sempre libero e plurale, pur
nel quadro della nostra impostazione politica di fondo – è
aperto.
Nella speranza che ci aiuti a definire obiettivi e prospettive
che in questo momento ci è difficile anche solo intravedere.
(la redazione).
Sarebbe lungo l’elenco degli episodi in cui gli Stati Uniti hanno mentito all’opinione pubblica internazionale. Menzogne con cui hanno coperto sabotaggi, movimenti insurrezionali, azioni terroristiche, colpi di Stato, massacri di popolazioni inermi. Basterebbe dare uno sguardo alle ricostruzioni storiche di alcuni grandi giornalisti americani, perché tanti ferventi democratici nostrani, sostenitori delle buone ragioni della Nato, fossero costretti a rivedere le proprie erronee convinzioni. Mi riferisco, ad esempio, a un testo come quello di William Blum, Il libro nero degliStati uniti, Fazi, 2003. A dispetto del titolo da pamphlet sensazionalistico della traduzione italiana (l’originale è Killing Hope: US Military and CIA Interventions since World War II.) si tratta di un imponente volume di 886 pagine, che getta una luce sconvolgente sulla politica estera americana a partire dal dopoguerra.
Eccovi un estratto del Manifesto della nuova versione ideologica del liberalismo anglosassone che ha ormai trecentotrenta anni.
L’Autore è Marc Andreessen (lo presenta qui Fortune), un miliardario della Silicon Valley, un importante venture capitalist, e ora un ‘headhunter’. Andreessen sta reclutando talenti per Elon Musk, e il suo Dipartimento per l’Efficienza Governativa (DOGE) per il nuovo governo Trump. Ha una società di capitali di rischio assieme a Benjamin Abraham Horowitz (Andreessen-Horowitz) con cui condivide una militanza della prima ora nell’avventura digitale (Netscape).
A&H si muovono ai limiti del nuovo ambiente ideologico-culturale che unisce i supporter MAGA di Trump, i tecnologi dissidenti (anti-woke ovvero Google e fino a oggi Facebook che però pare intenzionata a muoversi a sua volta verso questa stessa direzione), la destra cristiana, l’anti-istituzionalismo degli anarco-capitalisti libertariani e cripto-miliardari, una costellazione con il co-fondatore di Palantir Joe Lonsdale, i re delle criptovalute Cameron e Tyler Winklevoss e i capitalisti di rischio Antonio Gracias e Douglas Leone Sacks, ma anche Ramaswamy, Carr e Ferguson (ora tutti membri della nuova Amministrazione) assieme a Elon Musk, che culmina nel vice-presidente J. D. Vance (riferimento istituzionale della Pay-pal mafia) e nel Project 2025. Veicolo intermedio, questa New Founding, tra think tank e fondo di investimento per iniziative conservatrici-libertariane.
L’8 febbraio 1996, John Perry Barlow, un giornalista informatico ed esperto di tecnologie digitale, per inciso anche uno degli autori dei testi dei Grateful Dead, si trovava a Davos per assistere alle riunioni del Forum Economico Mondiale, il summit che raccoglie l’establishment politico-industriale dell’oligarchia globale. Guardando il notiziario della Cnn, Barlow apprese in diretta che era stato approvato dal Congresso Americano il “Telecommunication Act”, una legge che aveva come scopo la regolazione della comunicazione su Internet. Con la scusa di limitare l’accesso alla pornografia in rete, venivano introdotti una serie di vincoli sul linguaggio, con il rischio di limitare notevolmente la libertà di espressione.
Di getto scrisse la Dichiarazione dell’Indipendenza del cyberspazio:
“Governi del Mondo, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli… Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo. Noi non abbiamo alcun governo eletto… Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo è per sua natura indipendente dalla tirannia che voi volete imporci…”
Nel gennaio 2015, viene presentato il progetto Starlink e nel 2016 è stata creata una struttura dedicata a Redmond, vicino a Seattle. I piani iniziali prevedevano di ultimare la realizzazione della costellazione entro il 2020, ma le modifiche delle specifiche tecniche stanno trascinando il calendario
“L’Uomo si illude di essersi liberato dalla paura quando non
c’è più nulla di ignoto.”
Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’illuminismo
“Sono d’accordo con te al novantanove percento,” afferma Bill Gates, “quello che mi piace delle tue idee è che sono basate sulla scienza, ma il tuo ottimismo è quasi una fede religiosa. Sono anch’io ottimista”. “Sì, beh, abbiamo bisogno di una nuova religione,” replica Raymond Kurzweil, “un ruolo principale della religione è stato quello di razionalizzare la morte, poiché fino a poco tempo fa c’era poco altro che potessimo fare a riguardo”. Bill Gates concorda, e il confronto si sposta sulla necessità o meno di una figura carismatica che si faccia portatrice della nuova religione: per Gates un messia è indispensabile, per Kurzweil fa invece parte del vecchio modello religioso. Alla fine i due trovano un punto di incontro: anche un supercomputer o un sistema operativo avanzato può svolgere la funzione di profeta.
Il dialogo sopra riportato è contenuto nel libro The Singularity is Near, pubblicato nel 2005 da Raymond Kurzweil, esponente di spicco del transumanesimo. Come ormai noto, il transumanesimo è l’ideologia che crede nell’utilizzo della scienza e della tecnologia per potenziare le capacità fisiche e intellettuali dell’Uomo, fino a riuscire a trascendere i limiti naturali della condizione umana – uno su tutti, la morte. Nanotecnologia, biotecnologia e ingegneria genetica contro le malattie e l’invecchiamento, ibridazione uomo-macchina per il potenziamento fisico e cognitivo (bionica, cibernetica e chip cerebrale, fino al mind uploading, il caricamento della mente su un computer per poter ‘vivere’ per sempre), crionica per essere ibernati e risvegliati in futuro (quando esisteranno tecnologie in grado di rianimare senza provocare danni encefalici e curare da malattie oggi letali) e, su tutto, condicio sine qua non per avanzare nello sviluppo tecnologico, intelligenza artificiale, in particolare l’AGI, Artificial General Intelligence, un sistema che non solo dovrebbe essere in grado di svolgere un’ampia varietà di compiti – di contro all’intelligenza artificiale ‘ristretta’ che conosciamo oggi, limitata a precise funzioni – ma anche di superare la capacità intellettuale umana.
1. Dgiangoz, comincia
tu!
Dgiangoz è il mio consulente in analisi logica marXZiana che, interpellato, così mi ha risposto:
– Sei tornato da me? Non ti fidi delle tue sole competenze? Ne prendo atto e ti vengo incontro. Rispetto ai miei interventi precedenti, adesso in quel dominio di Saggio Massimo del pianeta Marx in cui sei finito e dove, pur impiegando lavoro, non si pagano salari, le due sole merci prodotte (una “base” e una “non-base” secondo la nomenclatura introdotta da Piero Sraffa nel libro del 1960), invece di essere grano e tulipano sono diventate orzo e birra, ma questo cambia poco dato che l’orzo è una “merce-base” in quanto necessaria per produrle entrambe, mentre la birra è una “merce-non base” addirittura assoluta perché non serve nemmeno a produrre se stessa (che fai della birra se non berla?). Più interessante è invece la sostituzione, nella funzione d’intermediazione tra le due produzioni, del Palazzo al posto del Tempio, il che ti ha consentito di attribuirgli la doppia funzione di tassare il produttore d’orzo (d’ora in poi l’“orziere”) per poi prestare al produttore di birra (d’ora in poi il “birraio”) quel gettito fiscale così raccolto. Però hai strafatto nel supporre che il Palazzo prelevi l’intero profitto massimo dell’orziere per girarlo integralmente e gratuitamente al birraio. Certamente, così facendo, hai raggiunto d’assalto l’equilibrio di bilancio tra le entrate e le uscite del Palazzo:
R a11 Q1 = a12 Q2
dove a11 e a12 sono i coefficienti unitari delle due produzioni, Q1 e Q2 le quantità rispettivamente prodotte ed R è il Saggio Massimo del profitto, ma non ti parrebbe più plausibile che il Palazzo prelevi a titolo d’imposta soltanto una percentuale del profitto massimo dell’orziere secondo una aliquota fiscale (t < 1, mentre sul prestito al birraio si facesse pagare un interesse secondo un tasso i > 0? Però, così facendo, ne sarà modificato quell’equilibrio di bilancio del Palazzo da te dedotto che dovrà essere ripensato tenendo comunque conto che le tasse sono pagate soltanto dall’orziere produttore della merce-base, mentre l’interesse è pagato soltanto dal produttore della merce non-base, cioè dal birraio.
Il circo dei pagliacci dementi che si muove per conto del capitalismo finanziario si è arricchito di un nuovo personaggio, a suo modo sorprendente: Alice Weidel, “capa” del partito neonazista Alternative für Deutschland che si appresta a contendere la vittoria alla Cdu/Cdu nelle elezioni tedesche, tra sei settimane.
La signora, com’è noto, nel corso dell’intervista su X, realizzata direttamente da Elon Musk, ha deciso che era ora di togliersi dalla spalla l’ingombrante eredità di Adolf Hitler definendolo “un comunista”.
Definirla dunque un pagliaccio demente potrebbe sembrare sufficiente, viste le migliaia comunisti tedeschi morti o imprigionati da Hitler in Germania, a cominciare dal segretario Ernst Thälmann, ucciso nel ‘44 nel campo di concentramento di Buchenwald. Stiamo parlando del segretario di un partito che nel ‘32, nelle ultime elezioni celebrate e che videro i nazisti in testa, aveva ottenuto il 20%.
Per non parlare poi dei 22 milioni di sovietici, comunisti e non, che morirono nella Seconda Guerra Mondiale, prima sotto l’attacco nazista e poi – dopo la battaglia di Stalingrado – nell’offensiva che portò l’Armata Rossa fin dentro il Reichstag, a Berlino, ponendo fine all’esistenza del nazismo come regime e alla vita infame del suo capo/fondatore.
Ma non stiamo qui a misurare il grado dell’offesa che l’ennesimo pagliaccio demente ha fatto nei confronti di tanta parte dell’umanità, segnatamente la migliore. Per quell’offesa, come si dice da sempre, col nazifascismo non si parla, lo si combatte. Punto.
Un accademico svizzero-iraniano, Mohammad Abedini Najafabadi, è stato arrestato in transito a Malpensa su mandato americano mentre si dirigeva a Istanbul con l’accusa di avere aiutato Teheran a costruire alcuni droni. Per ritorsione, l’Iran ha arrestato una giornalista italiana per uno scambio di detenuti. Sentiamo dire che l’Iran agisce in questo modo perché è l’incarnazione del Male universale. La realtà è diversa.
Per comprendere la mossa dell’Iran, occorre capire come il “caso Abedini” sia legato al “caso” dell’imam Abu Omar, rapito a Milano sotto il governo Berlusconi: uno dei casi più documentati di azione illegale condotta dai servizi segreti americani in un Paese straniero. Abu Omar fu rapito, il 17 febbraio 2003, da dieci agenti della Cia. L’imam fu portato nella base aerea di Aviano e poi condotto in Egitto, dove fu brutalmente torturato con la falsa accusa di essere un terrorista islamico. Dalle sentenze della magistratura milanese, emerge che i vertici dei servizi segreti italiani e, quindi, il governo Berlusconi, erano informati e coinvolti nell’operazione della Cia. Nel dicembre 2010, la Corte d’appello di Milano ha stabilito un risarcimento di un milione di euro per Abu Omar e di 500 mila euro per la moglie, a carico di ben 23 agenti della Cia, tutti cittadini americani. I vari governi italiani hanno sempre fornito protezione agli agenti americani, ricorrendo persino al segreto di Stato per ostacolare le indagini della magistratura.
L’imminente ritorno di Donald Trump alla Casa
Bianca ha radicalmente modificato il dibattito sulla guerra
in Ucraina. Dopo aver insistito per
anni su una vittoria militare ucraina a ogni costo,
l’establishment politico e mediatico occidentale sembra
riconoscere a malincuore che questa
guerra può terminare solo attraverso i negoziati o il
collasso dell’Ucraina sotto la pressione di uomini e risorse
esaurite. Dato che la
probabilità di quest’ultimo scenario sta diventando sempre
più evidente — nonostante l’ultimo pacchetto di aiuti
annunciato lunedì dall’amministrazione uscente di Biden —
non sorprende che persino il New York Times, di
solito falco, abbia recentemente concluso che
“è tempo di pianificare la fase postbellica”.
Putin ha manifestato la sua disponibilità a incontrare Trump per discutere un accordo di pace, mentre il presidente eletto ha recentemente ribadito che “dobbiamo porre fine a questa guerra”. Dopo aver incontrato Zelenskyy a Parigi durante la riapertura della Cattedrale di Notre Dame, Trump ha chiesto un “cessate il fuoco immediato”. In un cambiamento notevole, lo stesso Zelenskyy ha recentemente riconosciuto che l’Ucraina non può recuperare i territori perduti con mezzi militari e ha persino suggerito che sarebbe disposto a cedere il territorio in cambio della protezione della NATO.
Il solo fatto che i negoziati siano ora sul tavolo è uno sviluppo positivo in una guerra che ha già causato un immenso spargimento di sangue e innescato tettonici cambiamenti economici e geopolitici. Tuttavia, nonostante le audaci affermazioni fatte durante la campagna elettorale, secondo cui avrebbe posto fine alla guerra “in 24 ore”, la risoluzione del conflitto si rivelerà probabilmente molto impegnativa — come ora ammette lo stesso Trump.
L’ostacolo principale è che l’incessante spinta dell’Occidente verso un’impossibile vittoria ucraina contro un avversario molto più forte ha rafforzato la mano della Russia. Rifiutando le precedenti opportunità di negoziazione — quando l’Ucraina era in una posizione più forte — i leader occidentali hanno permesso alla Russia di consolidare le sue conquiste militari, lasciando a Putin pochi incentivi per scendere a compromessi.
Nota
Redazionale. Questo testo è stato originariamente
pubblicato su Monthly Review dal direttore John
Bellamy Foster nel dicembre 2024. E’ stato poi
ripubblicato, tradotto in italiano da Antropocene.org. Lo
riprendiamo in quanto rientra nel dibattito centrale
sull’introduzione delle nuove tecnologie nel mondo del
lavoro, con particolare riferimento
al dibattito sull’intelligenza artificiale. Riprendendo un
vecchio testo di Braverman, Bellamy Foster mette in
evidenza come
l’introduzione della tecnologia informatica nel lavoro sia
il compimento di un lavoro che il capitalismo ha
introdotto fin dall’inizio del
suo percorso attraverso il meccanismo della divisione del
lavoro.
In tal senso, il capitalismo ha introdotto la scienza al servizio della produzione con l’unico scopo di produrre di più e a minore costo, aumentando il profitto. In perfetta concordanza con gli obiettivi descritti nel Capitale di Marx. Ovviamente, tale scelta, ha portato in dono alcuni elementi fondamentali tra cui l’aumento dei beni prodotti.
Contemporaneamente, il compimento di questo lavoro ha portato a livelli sempre maggiori di alienazione nei lavoratori.
Di particolare interesse, nell’analisi qui sviluppata, la ripresa dei concetti di “general intellect” e di “lavoratore complessivo”. Nella analisi giovanile di Marx, il frammento sulle macchine presente nei “Grundrisse” è stato generalmente interpretato come la previsione di Marx sul fatto che lo sviluppo delle tecnologie e dell’automazione avrebbero, in qualche modo, abolito la legge del valore.
1. Premessa. Sono rimasto colpito molto favorevolmente dall’assemblea dell’associazione “Volere la Luna” del 24 novembre. Da questa frase risulta che (sbagliando) mi attendevo di meno; questa mia relativa sfiducia nasceva forse da una mia deformazione professionale. Chiarisco. Attualmente sono in pensione, ma prima di approdare a questa condizione ho insegnato e studiato Politica Economica, prima all’Università di Torino e poi a quella del Piemonte Orientale. Mi sono occupato quindi della valutazione delle scelte economiche dei governi; e anche di quelle delle opposizioni. Le scelte economiche degli ultimi governi del nostro paese sono state a mio avviso progressivamente sempre più sbagliate; ma progressivamente sempre più grave è stata anche la trascuratezza della sinistra riguardo alle grandi scelte della politica economica. (Qui e di seguito, per “sinistra” intendo l’area a sinistra del PD, più forse una parte di esso, che però vive in clandestinità e quindi è difficile da individuare). Credo che quella trascuratezza sia dovuta soprattutto a una colpevole forma di ignoranza da parte dei dirigenti, come se occuparsi di quelle questioni non fosse affare loro: “noi protestiamo, è compito di qualcun altro dare veste politica alla nostra protesta”. Purtroppo però questo qualcun altro non esiste. Questa critica, che ritengo giusta, mi ha portato a sottovalutare l’importanza del lavoro di base, e anche della crescita della coscienza che si accompagna alla protesta, sia pure locale e/o generica, e soprattutto a non apprezzare adeguatamente l’importanza della organizzazione della protesta medesima.
Ieri, stando ai resoconti di stamane, sono stati uccisi 63 civili palestinesi dall’esercito israeliano.
Nelle ultime 72 ore risultano morti di stenti e freddo 7 bambini nelle “safety zones” palestinesi.
Ah, dimenticavo, buon anno a tutti.
Il primo impulso oggi sarebbe di dire che mi vergogno di essere italiano ed europeo.
Ma francamente, oltre ad appartenere al novero delle dichiarazioni sterilmente patetiche, si tratterebbe di una proposizione profondamente ingiusta.
Perché significherebbe lasciare alle nostre attuali classi dirigenti la titolarità di presentarsi come eredi di una storia e di una cultura grandi, di una storia e una cultura che essi ignorano e disprezzano.
No, l’unica cosa di cui credo sia giusto provare davvero vergogna è di vivere in un protettorato americano, guidato da una classe politica (con destra o sinistra perfettamente equivalenti) composta di servi di bottega, di lacchè senza dignità, disponibili a svendere ogni briciola del proprio paese, del proprio popolo, della propria storia pur di mantenersi in sella per qualche mese in più, pur di godere delle genuflessioni untuose di greggi mediatici dipendenti dai medesimi padroni.
C’è chi dice che la classe politica agisce così perché cerca di preservare il benessere del proprio paese pur sotto condizioni di oggettivo ricatto.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Ci
sconfiggeranno talmente tante volte che
alla fine impareremo a vincere
Franco
Piperno, 13 luglio 2017, Sherwood Festival,
Padova
Il 13 gennaio 2025 è mancato Franco Piperno, uno dei protagonisti delle lotte che hanno attraversato l’Italia a partire dal’68 sino ai più recenti movimenti. Ex leader di Potere Operaio, ha vissuto la repressione politica dei tardi anni Settanta, spostandosi prima in Francia e poi in Canada, dove ha insegnato astrofisica in diverse università per poi tornare in Calabria, a Cosenza. Studioso delle trasformazioni del capitalismo, delle possibilità di sovversione e dei problemi della metropoli e del meridione, grande fisico. Effimera lo vuole ricordare riprendendo due scritti e due video.
* * * *
Il primo contributo è tratto dal Pre-print 1/4 supplemento alla rivista Metropolis (i cui articoli sono stati oggetto di accuse di terrorismo nel processo 7 aprile 1979) “L’autonomia possibile”, intitolato “Sul lavoro non operaio”.
Chiamiamo autonomia la forma politica dentro cui si esprime e cresce il movimento del lavoro non-operaio. Si intende per lavoro non-operaio sia il lavoro indirettamente produttivo, sia il lavoro produttivo le cui prestazioni prescindono dalla modificazione – più o meno meccanizzata – della merce.
Questo segmento di forza-lavoro si caratterizza per essere la materiale articolazione dell’«intelletto generale» nel senso che solo a partire dalla sua presenza dentro il flusso produttivo allargato, il lavoro vivo assume la forma di attività generalmente e compiutamente sociale, attività in sé conclusa, che non ha bisogno di alcun «fattore esterno» per dispiegare nella sua interezza la potenza del lavoro come allargamento indefinito della ricchezza o, se si vuole, del processo di riproduzione sociale.
Un viaggio dentro gli spazi e la vita quotidiana di un istituto tecnico, dove le trasformazioni della scuola oggi sono tra le più avanzate: start up, alternanza scuola lavoro e innovazioni didattiche. La scuola del capitale umano è viva e prospera: gli insegnanti obbediscono e gli studenti imparano a diventare bravi imprenditori di se stessi
Il nuovo
presidente dell’Argentina, Milei, che con una motosega si
appresta a tagliare dal tronco dello stato argentino il ramo
secco del Ministero
dell’Istruzione, potrebbe apparire come l’immagine simbolo
delle politiche neoliberiste in materia di istruzione. In
realtà,
è probabile che l’uscita del loco (così viene
chiamato in Argentina il nuovo presidente) non sia piaciuta
affatto ai
circoli neoliberisti globali, probabilmente meno emotivi e
improvvisati quando si tratta di intervenire in ambito
pubblico. La motosega di Milei
rischia di tagliare, insieme ad alcuni posti al ministero, un
bel po’ di profitti, ma rischia soprattutto di interrompere
processi di formazione
di un nuovo tipo di soggettività: l’individuo isolato che si
costruisce come capitale umano e imprenditore di se stesso.
Questo testo non intende riprendere analisi approfondite sulle politiche globali e locali che da decenni investono il mondo dell’istruzione. Molti studiosi e attivisti hanno già investigato l’intreccio tra le elaborazioni teoriche degli economisti neoliberisti (Friedman e scuola di Chicago e, prima di loro, von Hayek e von Mises), le proposte di organismi internazionali come WTO e UNESCO e le politiche dell’UE e di singoli stati (Italia compresa) in materia educativa. In sintesi, le trasformazioni della scuola pubblica possono essere riassunte in questi punti: (a) istruzione pubblica come mercato da inondare di prodotti tecnologici per la didattica, (b) luogo privilegiato dove costruire la soggettività necessaria al nuovo mercato del lavoro e alla nuova società e (c) ambito dove sperimentare la trasformazione del pubblico in privato.
Per comprendere come questo processo si declini concretamente, intraprendiamo un breve viaggio dentro gli spazi e la vita quotidiana di un istituto tecnico, dove la sperimentazione neoliberale è più avanzata.
La formazione dei docenti: consumatori di merci educative e addestratori di competenze
Sbalorditi e terrorizzati. Così ci sentiamo.
I cittadini consapevoli, coloro che non hanno dimenticato l' umanità e conservano un' integrità morale, coloro che hanno gli strumenti culturali per demistificare la propaganda demenziale che copre ogni genere di crimine.
Rimangono impotenti, sono i naufraghi del nostro tempo.
E dall' isola del marginale dissenso in cui si rifugiano osservano il mondo orwelliano.
I filoucraini e democratici sostengono con nuove armi la distruzione di un Paese già fallito, corrotto, oligarchico, che ha eliminato partiti, libertà di culto e prorogato sine die un Presidente che se ci fossero elezioni sarebbe cacciato a pedate da un popolo sofferente.
Il genocidio di Gaza (con Lancet che parla di 70.000 morti, ma aveva parlato di cifre ancora maggiori) di cui i governi democratici sono complici viene chiamato autodifesa.
La comunità ebraica non prende le distanze e chiama antisemita persino il papa e chiunque denunci la carneficina di innocenti I cattolici integralisti condannano Papa Francesco e difendono l' ideologia suprematista dell' uomo bianco propagandata da giornali illeggibili.
Il fatto che un paese sia indebitato nei confronti di soggetti esteri è un problema? Una domanda semplice che però riceve risposte spesso confuse, contraddittorie o semplicemente sbagliate. Qualche chiarimento è utile e occorre partire distinguendo varie casistiche.
Debito pubblico in moneta estera detenuto da soggetti esteri: è un potenziale rischio ma non perché siano stranieri i detentori. Il rischio è dovuto al fatto che è straniera la moneta. Lo Stato che si è indebitato potrebbe avere difficoltà ad approvvigionarsi della moneta (emessa da terzi) necessaria per estinguere il debito. Questo non significa che sia SEMPRE un errore per lo Stato emettere debito in valuta. Può avere senso se ad esempio si vogliono effettuare investimenti pubblici che richiedono strutture o tecnologie non disponibili all’interno del paese, e che entità straniere sono disponibili a fornire solo se pagati in altre valute. In questo caso la situazione dello Stato è analoga a quella di un’azienda che si indebita per investire: non è necessariamente sbagliato, dipende da quali investimenti si effettuano. Però di sicuro è più rischioso rispetto a usare soldi propri.
Debito pubblico in moneta nazionale detenuto da soggetti esteri: non è rischioso e non è neanche da considerare un vero debito in quanto lo Stato emittente può sempre emettere moneta per estinguere il debito quando arriva a scadenza.
Roberto Fineschi, Marx e Hegel. Fondamenti per una rilettura, Napoli, La scuola di Pitagora, 2024
Fineschi torna sul luogo del delitto, ripubblicando il suo noto Marx e Hegel, stavolta per La scuola di Pitagora. Le modifiche e le aggiunte alla prima edizione (del 2006) sono diverse, e ne dà conto l’autore nella Nota iniziale. Soprattutto viene ampliata la terza (e conclusiva) parte, con l’aggiunta di due capitoli, l’uno su Lenin e Hegel, l’altro e su Dal Pra e la dialettica, tratti da suoi lavori precedenti. È dunque questa un’edizione aggiornata, e non una mera riproposizione del suo vecchio libro. Una versione più chiara e compiuta, pur nella tecnicità del linguaggio e degli argomenti, che ne fanno un lavoro poco accessibile ai non esperti. Nonostante ciò, siamo in presenza di un contributo rilevante, con inevitabili selezioni e anche lacune, ma che discute il tema classico della filosofia marxiana – il suo rapporto con Hegel – con una capacità di sintesi che non cede alle lusinghe dell’intervento polemico o d’immediato uso politico.
Molte cose apprezzabili emergono dallo scavo filologico degli scritti marxiani. In primo luogo, si direbbe “ovviamente” dato l’autore e il senso del presente lavoro, il rapporto di continuità tra Marx e Hegel. Una continuità su cui incidono alcune discontinuità, precisazioni, incomprensioni del rivoluzionario di Treviri rispetto al filosofo di Stoccarda. Il rapporto di Marx con Hegel è segnato soprattutto dalla lettura che di questo ne danno Bruno Bauer e Ludwig Feuerbach.
Quattro giorni fa a Caracas, alla presenza di decine di migliaia di cittadini venezuelani che hanno dato vita ad una grande cerimonia popolare, Nicolas Maduro ha giurato fedeltà alla Costituzione ed è stato reinsediato come presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela.
Si potrebbe supporre che si tratti del normale esito del processo elettorale, legalmente certificato dal Consiglio Elettorale Nazionale Venezuelano, decisione che è stata ratificata dalla Corte Suprema di Giustizia (TSJ).
Il reinsediamento di Maduro però di normale non ha nulla. Infatti, forse non tutti sanno che gli Stati Uniti hanno messo una taglia sulla testa di Maduro – vivo o morto ? – di 25 milioni di dollari. Alla faccia della legalità internazionale, il governo degli Usa perseguita un presidente legittimamente eletto che ha un solo grave torto: essere il garante di un processo di trasformazione popolare che tiene il Venezuela – paese che possiede enormi riserve petrolifere – fuori dall’orbita statunitense.
Come se non bastasse, due giorni fa il New York Times ha pubblicato un articolo in cui viene chiesta a gran voce l’invasione militare del Venezuela da parte dell’esercito degli Stati Uniti. Ciò che non è stato ottenuto attraverso i tentati colpi di stato, le azioni terroriste, il finanziamento con decine di milioni di dollari delle organizzazioni antigovernative, le sanzioni economiche arbitrarie, il furto delle riserve auree della Banca centrale Venezuelana da parte della banca d’Inghilterra e altre, si cerca ora di ottenerlo attraverso l’assassinio di Maduro o l’eventuale invasione militare.
È un fatto su cui non ci si dovrebbe stancare di riflettere che uno dei termini-chiave del nostro vocabolario politico – rivoluzione – sia stato tratto dall’astronomia, dove designa il movimento di un pianeta che percorre la sua orbita. Ma anche un altro termine che, nella generale tendenza a sostituire categorie economiche a quelle politiche che caratterizza il nostro tempo, ha preso il posto della rivoluzione , proviene dal lessico astronomico. Intendiamo riferirci al termine «congiuntura», sul quale ha richiamato l’attenzione in uno studio esemplare Davide Stimilli.
Questo termine, che designa «la fase del ciclo economico che l’attività economica attraversa in un dato periodo di breve durata», è in realtà una modificazione del termine «congiunzione», che significa il coincidere della posizione di più astri in un determinato momento.
Stimilli cita il passo del saggio di Warburg su La divinazione antica pagana in testi e immagini dell’età di Lutero, in cui congiunzione e rivoluzione sono accostati: «Solo entro vasti decorsi di tempo, chiamati rivoluzioni, ci si potevano aspettare tali congiunzioni. In un sistema accuratamente escogitato si distinguevano congiunzioni grandi e massime; queste ultime erano le più pericolose, per effetto dell’incontro dei pianeti superiori Saturno, Giove e Marte.
Così diceva Gasparazzo, l'eroe proletario delle strisce di Lotta Continua.
E Donald Trump parla, parla, parla. Parla in modo incontenibile.
Finora il peggio di sé lo ha dato affermando:
1) Se Hamas non libera gli ostaggi scatenerò l'inferno.
2) Farò concludere la guerra in Ucraina minacciando Zelensky di tagliargli gli aiuti e, al contrario, minacciando Putin di aumentarli.
3) Non escludo di usare la forza per controllare Panama e la Groenlandia.
Partiamo dal primo punto, cioè più in generale dal Medio Oriente.
Dopo 16 mesi di bombardamenti genocidi su Gaza, l'Idf non è riuscito a venire a capo di un esercito informale palestinese scarsamente armato, senza aviazione, senza antiaerea, senza artiglieria, senza forze corazzate. Anzi, fonti israeliane affermano che sempre più giovani entrano nelle fila di Hamas e le perdite nell'Idf aumentano. E come previsto da molti, Israele nel sud del Libano ha in poco tempo dovuto imbastire una tregua con Hezbollah.
Il rovesciamento di al-Assad è stato indubbiamente un brutto colpo per la Russia e l'Iran, e soprattutto per i Siriani, ma la situazione ora è caotica. Nessuna forza in campo sembra essere in grado di controllare né un processo di ricostruzione del Paese né un processo di sua balcanizzazione. L'Occidente e Israele stanno capendo che mentre il governo di al-Assad era prevedibile in quanto i suoi obiettivi erano razionalmente descrivibili e valutabili, la sua uscita di scena ha dato la stura a vari interessi che si differenziano geopoliticamente, materialmente e ideologicamente creando un buco nero di intelligibilità e di operatività. I vari attori procedono sfruttando questa o quella situazione di forza, questa o quella opportunità, senza un piano coerente e facendo scontrare una contro l'altra le loro strategie che più sono “grandi” e “comprensive” più sembrano sfrangiarsi in percorsi locali dietro ai quali ogni tanto fanno capolino sontuosi proclami, del tipo: “Dopo Damasco, Gerusalemme!” [1].
Torno spesso qui a
riflettere su una frase che mi colpì come un’illuminazione
mistica:
“Dal mio punto di vista, più si viaggia meglio è. Più opportunità di lavoro di business e di spostamento veloce in aereo, in macchina, in treno o in nave ci sono, e meglio è.”
Così parlò il Salsicciaio Matteo Salvini, il 19 dicembre 2018, dichiarando il suo sostegno all’espansione dell’aeroporto di Firenze Peretola, un aeroporto il cui proprietario è un miliardario argentino, e il cui direttore è attualmente console onorario d’Israele: gente che viaggia, insomma, ben più di un profugo eritreo che sta per annegare al largo di Malta.
E capii che quella era la vera essenza di ciò che oggi chiamano Destra.
In tutto il cosiddetto Occidente, si stanno improvvisamente affermando partiti politici che nell’emiciclo parlamentare si siedono a Destra.
Il fatto a prima vista è incomprensibile: dicono che la Destra crederebbe in Dio, Patria e Famiglia, quando le chiese sono vuote, la gente con trenta euro può salire su un volo Ryanair e volare sopra dieci patrie e in Italia, ogni cinque minuti una coppia si separa.
Eppure l’Italia di Destra, dopo il poligamo Berlusconi, ha conosciuto il divorziato Salvini e la convivente Meloni il cui governo ha introdotto la fecondazione assistita per tutti…
In realtà, attaccando il presunto Dio – Patria – Famiglia (sentite la vocina roboante-ghignante con cui il Sinistro medio pronuncia queste parole), non solo la Sinistra non ha colto il vero motore della Destra; ha anche attribuito alla Destra meriti che non ha: perché dietro la parola Dio, c’è tutta la spiritualità della specie umana; dietro la parola Patria, il senso di un rapporto con un luogo; dietro la parola Famiglia, il senso di affetti e relazioni che trascendono il tempo.
Tra gli strascichi del dopo-Ramstein e dei piagnistei su chi e come continuerà a sostenere i nazigolpisti di Kiev dopo l'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, Bloomberg dà notizia di una prossima visita a Vladimir Zelenskij da parte del premier britannico Keir Starmer. E, ancora una volta, contrabbandando le spinte belliciste per “pace” e presunto “cessate il fuoco” - ovviamente: da «imporre alla Russia» - si parlerà del possibile dispiegamento di “forze di pace internazionali” sul suolo ucraino; di nuovo - e altrettanto ovviamente - forze “internazionali” rigorosamente occidentali. Esattamente ciò che ha preteso Zelenskij a Ramstein, affermando che lo schieramento di “forze di pace” in Ucraina potrebbe costituire «uno dei migliori strumenti» per costringere Mosca alla pace: “oh Mosca tu sei bellicosa contro i pacifici nazisti ucraini!”.
Intanto Starmer, tanto per chiarire in anticipo le intenzioni “pacifiste”, si è incontrato col suo degno compare di “forze di pace”, Emmanuel Macron, con cui ha concordato il «sostegno incrollabile» ai nazisti, in modo da assicurar loro una posizione di forza per il 2025. Una posizione di forza “a fin di pace”, ca va sans dire, dal momento che, come ammette uno dei propagandisti della junta, il giornalista Jurij Butusov, i comandi ucraini gettano i mobilitati, impreparati, su posizioni praticamente circondate: ormai, su molte direttrici, afferma, non si è più in grado di contenere l'avanzata russa e si potrebbe presto iniziare a cedere città senza combattere. Dunque, l'invio del “contingente di pace” si fa proprio impellente.
Gli utenti non sono i poveri imbecilli descritti da chi nella stampa scritta o parlata si ritiene maestro di pensiero, castigatore non criticabile, geneticamente veritiero.
La diffamazione dei social si è fatta così enorme, a cominciare dai tempi del Covid, che prima o poi doveva venire qualcuno e chiedere: ma chi controlla i controllori?
Che bisogno c’è di una Congregazione del Sant’Uffizio che concede imprimatur preventivi e davanti a cui occorre inginocchiarsi, con la scusa che gli utenti cadrebbero così facilmente in tentazione?
Gli utenti sono appaiati agli elettori: se non votano come vogliamo noi, devono avere un baco nel cervello.
La battaglia dei verificatori contro la disinformazione ha i suoi siti internet, e i suoi sponsor e finanziatori. Bbc Verify, ad esempio, ha rapporti stretti con l’Istituto di Studi Strategici della Nato e non solo verifica ma fa propaganda e censura.
Chiunque critichi la politica occidentale sulla guerra in Ucraina o sullo sterminio perpetrato da Israele a Gaza diventa bersaglio delle campagne contro la disinformazione.
I verificatori sono numerosi ovunque.
Una delle principali collaborazioni italiane di Meta è stato per anni Open, il sito di fact checking fondato da Enrico Mentana nel 2018.
Da tempo ritengo che la crisi pandemica iniziata cinque anni orsono – o, per essere precisi, la sua gestione da parte dei governi sedicenti “democratici” – abbia rappresentato non tanto una soluzione di continuità con il passato prossimo quanto piuttosto un disvelamento, la fine di una narrazione che di veridico aveva poco o nulla.
La bolsa retorica dei diritti e delle libertà individuali cedette allora il passo a toni ultimativi, autoritari che non ammettevano repliche né obiezioni: si trattò di un esperimento riuscito di irreggimentazione delle masse volto a verificarne la docilità e le eventuali reazioni, che furono alquanto fiacche. Già ammaliato dal canto delle sirene pubblicitarie, il cittadino occidentale si rivelò, alla prova dei fatti, facilmente suggestionabile e, nonostante le pose qualunquiste, “umile e grato ai potenti”. L’appoggio incondizionato offerto dai media generalisti ai governanti agevolò l’opera di convincimento: lo stesso schema è stato poi applicato al conflitto russo-ucraino, fatto spudoratamente passare per una “aggressione non provocata”. L’elemento di novità è costituito dalla pervicace costanza con cui una certa tipologia di messaggi (psyops) viene oggi diffusa urbi et orbi: ai tempi dell’assalto alla Grecia, nel 2014, l’azione di screditamento del gruppo obiettivo fu condotta con perizia e sistematicità assai minori – accumulando esperienze il sistema affina le proprie armi.
Per chi vive la filosofia anche come il tentativo disperato ma necessario di afferrare il presente esistono dei momenti filosofici. Sono quei momenti in cui ti accade o vedi qualcosa che ti chiarisce il mondo in cui vivi, più spesso sono frasi o dialoghi con persone che non fanno filosofia, spesso persone semplici che, non essendo interessate a elaborare i messaggi che il mondo lancia loro, non fanno a essi alcuna resistenza e ti mostrano lo spirito dei tempi in modo diretto e incontrovertibile, perfino crudi. Costoro sono – direbbe Ortega – come todo el mundo e dunque sono loro stessi a svelartelo, il mondo. I libri di Anders (sempre sia lodato!) sono, ad esempio, pieni di questi momenti di epifania.
In questo caso, però, la rivelazione mi è giunta attraverso una giovane e intelligente (o meglio intelligente ma giovane) studentessa di filosofia. Tutt’altro che un’integrata occupata a tradurre in applicazioni i diktat del sistema in festante attesa di uno zuccherino metaforico, invece una ragazza capace di scelte coraggiose e minoritarie. Proprio per questo, una sua frase (che mi ha fatto orrore) si è stampata come vero signum dei nostri tempi giacché, ho realizzato, sta alla base non solo del pensiero di chi dà corpo alla macchina delle emergenze (penso ai ragazzi di Ultima generazione) ma persino in chi con giusta diffidenza guarda al succedersi circense degli eventoidi contemporanei.
Trump potrebbe semplicemente proseguire sulla stessa strada metafisica e dire semplicemente che solo lui ha una visione per salvare l’America dalla Terza Guerra Mondiale
La scorsa settimana il ministro degli Esteri russo Lavrov ha liquidato le proposte di pace avanzate dal Team Trump per l’Ucraina come insoddisfacenti. In sostanza, il punto di vista russo è che le richieste di un conflitto congelato perdono di vista il punto: dal punto di vista russo, tali idee (conflitti congelati, cessate il fuoco e peacekeeper) non possono nemmeno lontanamente essere qualificate come il tipo di accordo basato su trattati e un’”ampia visione” che i russi sostengono dal 2021.
Senza una fine duratura e permanente del conflitto, i russi preferiranno affidarsi a un esito sul campo di battaglia, anche a rischio che un loro rifiuto determini una continua escalation, persino nucleare, della politica del rischio calcolato degli Stati Uniti.
La domanda è piuttosto: è possibile una pace duratura tra Stati Uniti e Russia?
La morte dell’ex presidente Jimmy Carter ci ricorda la turbolenta “rivoluzione” politica degli anni ’70, condensata negli scritti di Zbig Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter: una rivoluzione che tormenta le relazioni tra Stati Uniti e Russia da allora fino a oggi.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Paul Mattick, La rivoluzione. Una bella avventura, Asterios Editore, Trieste 2020, pp. 174, 18 euro
Si spiega
in questa occasione la scelta del titolo di una serie di
articoli che, probabilmente, ha fatto arricciare il naso a
diversi elettori.
L’accostamento di Rivoluzione e Avventura può infatti aver
dato l’idea di una forzatura letteraria e ideologica nei
confronti di un
tema serio, o almeno ritenuto tale da coloro che del grigiore
politico hanno fatto uno schema esistenziale immemore di tutta
la gioia, la passione e
di tutto il coraggioso slancio soggettivo insiti e necessari
all’interno di un reale e vitale movimento rivoluzionario.
A far comprendere tutto ciò cui si è appena accennato è proprio l’”autobiografia” di Paul Mattick uscita alcuni anni or sono per l’editore triestino Asterios nella collana “in folio” con il numero 21 e precedentemente pubblicata in Francia nel 2013 con il titolo La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin en révolte aux mouvements radicaux américains (1918- 1934). Edizione da cui è tratta la postfazione di Laure Batier e di Charles Reeve dell’edizione italiana curata da Antonio Pagliarone che è anche autore della prefazione alla stessa. Prima di addentrarci nella lettura dell’avventura rivoluzionaria di Mattick occorre però inquadrare il comunista tedesco nel periodo in cui visse.
Paul Mattick (Slupsk, 13 marzo 1904 – Boston, 7 febbraio 1981) può essere collocato all’interno del comunismo di sinistra, in cui rappresentò uno dei maggiori esponenti di quello cosiddetto consiliarista, critico infatti sia del bolscevismo che dello stesso Lenin il cui pensiero e azione politica erano stati rivolti, a suo dire, sostanzialmente all’ascesa di un capitalismo di stato, controllato attraverso le maglie di uno stato estremamente autoritario e, per certi versi, prossimo al fascismo.
Nato nella Pomerania polacca, al tempo facente parte dell’impero guglielmino, crebbe a Berlino in una famiglia operaia sindacalizzata e politicizzata. A 14 anni, entrò a far parte della Freie Sozialistiche Jugend, la frazione giovanile della Lega di Spartaco fondata da Rosa Luxemburg e Karl Liebnecht.
Lo storico Gary Gerstle offre il resoconto più
completo di come il neoliberismo sia arrivato a dominare
la politica
americana per quasi mezzo secolo prima di scontrarsi con
le forze del Trumpismo a destra e con un nuovo
progressismo di ispirazione socialista (Bernie
Sanders) a sinistra. Il passaggio epocale verso il
neoliberismo, una rete di politiche correlate che, in
termini generali, hanno ridotto
l’impatto dello Stato e del governo sulla società e
riassegnato il potere economico alle forze del mercato
privato, iniziato negli Stati
Uniti e in Gran Bretagna alla fine degli anni ’70, ha
cambiato radicalmente il mondo. Oggi, la parola
“neoliberale” è spesso
usata per condannare un’ampia gamma di politiche, dal
privilegiare i princìpi del libero mercato rispetto alle
persone
all’avanzamento di programmi di privatizzazione in tutti i
paesi del mondo. Di sicuro, il neoliberalismo ha
contribuito a una serie di tendenze
allarmanti, non ultima delle quali è stata una crescita
massiccia della disuguaglianza dei redditi. Tuttavia, come
sostiene Gerstle, queste
accuse non riescono a tenere conto dei contorni completi
di ciò che era il neoliberalismo e del perché la sua
visione del mondo abbia
avuto una presa così persuasiva sia sulla destra che sulla
sinistra per tre decenni. Come dimostra, l’ordine
neoliberale emerso in
America negli anni ’70 fondeva idee di deregulation con
libertà personali, frontiere aperte con cosmopolitismo e
globalizzazione con la
promessa di una maggiore prosperità per tutti. Oltre a
tracciare come questa visione del mondo sia emersa in
America e sia cresciuta fino a
dominare il mondo, Gerstle esplora la misura in cui il suo
trionfo è stato facilitato dal crollo dell’Unione
Sovietica e dei suoi alleati
comunisti, prima non riconosciuta.
L’educazione filosofica,
testo di Costanzo Preve, non è solo un viaggio all’interno
del concetto di filosofia, ma è
un lungo percorso nel quale gli spettri e i nichilismi del
tempo contemporaneo sono attraversati con il dialogo
filosofico. La filosofia con il suo
lessico e il suo apparato metodologico non si ritrae dinanzi
alle trappole e agli abissi del proprio tempo, ma essa li
vive e li pensa in modo da
riaffermare con la verità il senso della condizione umana.
Il testo nel tempo della “confusione e della regressione veritativa” può essere una bussola con la quale orientare e riorientare il proprio viaggio. Il senso del viaggio è ritrovarsi dopo aver pensato gli inganni e i mascheramenti del nichilismo adattivo e crematistico, ma il ritrovarsi è il punto di partenza e di arrivo per un viaggio comunitario e veritativo che non conosce apriorismi e strutture concettuali sclerotizzate. Il viaggio nella verità e per la verità è una pratica che vive già nel presente di coloro che intraprendono un lungo cammino per attuare un profondo riorientamento gestaltico, il quale non è mai solo saggia gestione dell’esistenza privata, ma è prassi politica e sociale. Il reale è razionale, se per reale si intende l’idealità con cui valutare il tempo storico e nel quale impegnarsi individualmente e coralmente verso un tempo in cui ci si umanizza nella verità dialogica. Nell’epoca caratterizzata dal capitalismo integrale, Costanzo Preve ebbe a definirlo “capitalismo assoluto”, la pianificazione aziendalistica è divenuta la pericolosa realtà che tutto annichilisce. La filosofia sopravvive solo nella “formula della filosofia educativa”, ovvero la filosofia è divenuta parte integrante dell’apparato di ortopedizzazione dei popoli. La filosofia curvata nella forma della sociologia o della psicologia ha rinunciato alla verità per essere programmaticamente adattiva. Nelle scuole superiori e nelle accademie essa è tollerata, in quanto è uno dei mezzi con cui si insegna il relativismo che non può che portare a costituire personalità resilienti e di poco coraggio da offrire al mercato. Il relativismo consente la necrosi della prassi e la naturalizzazione disperata del capitalismo. L’olocausto della verità pone in essere il ciclo del nichilismo che indebolisce l’umanità e rafforza il mercato.
C’è una tregua, che porterà respiro a una popolazione massacrata, che vive sotto le bombe e quasi senza cibo, né acqua potabile, né una decente assistenza sanitaria, da quindici lunghi mesi. Questa è già di per sé una cosa importantissima, così come è di grande importanza che questa tregua non arriva perché il mondo si è improvvisamente commosso per tanta sofferenza, né tantomeno perché un quasi-presidente la pretendeva per dare lustro alla propria incoronazione. Arriva soprattutto perché la Resistenza del popolo palestinese e delle sue formazioni combattenti è stata immensamente superiore a quella degli israeliani e del loro esercito. Arriva perché la Resistenza ha vinto questa battaglia.
Per questo – per quanto la protezione dei palestinesi, dei bambini, delle donne, dei vecchi – sia una questione primaria, è davvero di relativa importanza se, e fino a che, Israele rispetterà la tregua, o se questa avrà un seguito immediato o meno. Non dobbiamo mai dimenticare, nei nostri salotti, che anche nella migliore delle ipotesi qui non finisce la guerra, perché questa è una guerra di liberazione, e finirà soltanto quando la Palestina sarà libera. E non c’è da farsi grandi illusioni: la strada è aperta, il 7 ottobre l’ha considerevolmente allargata, ma la fine non è dietro l’angolo. E questo a Gaza come a Jenin, a Sana’a come a Beirut, a Baghdad come a Teheran, lo sanno benissimo. Ci sarà ancora un prezzo da pagare.
Il doppio standard dell’Occidente riguardo al valore della vita umana.
Anche per noi comunisti è una buona notizia che una persona sia uscita dalla carcerazione, anche perché (coerentemente con la nostra Costituzione) chiunque va considerato innocente fino a condanna definitiva o a dimostrazione della sua colpevolezza al di là di ogni dubbio. Noi siamo così, diversamente dall’etica della borghesia imperialista che è cinica e barbara: tra innumerevoli esempi che potrei fare in proposito, ne ricordo uno piccolo, di quell’importante rabbino israeliano che gioì per il tragico terremoto che nove anni fa sconvolse il Lazio, l’Umbria e altre zone dell’Italia centrale. A suo dire, si trattò di una meritata punizione divina poiché – qualche tempo prima – il nostro Parlamento aveva approvato una legge contro la discriminazione (se ben ricordo) degli omosessuali.
A maggior ragione non ci dispiace affatto il profondo sollievo di due genitori che erano in pena per una figlia. La loro comprensibile felicità – lo hanno ammesso loro stessi e tutti gli altri protagonisti di questa vicenda – deriverebbe dal tempestivo impegno di tutte le principali componenti delle nostre istituzioni che hanno operato al massimo delle loro risorse e possibilità per ottenere il rilascio.
Forniamo armi agli ucraini che vengono usate dalla NATO per colpire la Russia in profondità ben sapendo di esporre il Paese intero a legittime ritorsioni russe
L’attacco di un drone ucraino ha colpito l’altro ieri un deposito di gas liquefatto causando un enorme incendio nella regione russa del Tatarstan presso lo stabilimento Orgsintez di Kazan in Russia.
I media russi hanno riportato le immagini di un’enorme colonna di fumo nei pressi della città di Kazan.
L’Ucraina afferma di aver colpito obiettivi militari fino a 1.100 chilometri di distanza, prendendo di mira strutture belliche ed industriali nonché depositi petroliferi, nelle regioni di Bryansk, Saratov, Tula e nella Repubblica del Tatarstan. In particolare, sono stati attaccati il deposito di prodotti petroliferi Kombinat Krystal a Engels e l’aeroporto Engels-2, base dei cacciabombardieri russi. Inoltre, è stato colpito lo stabilimento chimico di Bryansk a Seltso, dove si producono munizioni e componenti per missili da crociera. Sono stati usati 200 droni a lungo raggio e 5 missili Atacms.
La Russia ha recentemente denunciato l’attacco ucraino con nove droni aerei contro una stazione di compressione del gasdotto Turkstream, con l’obiettivo di interrompere le forniture di gas ai paesi europei.
Qui si prova a percorrere una panoramica che va dal “no limits” delle atrocità israeliane a Gaza, dall’osceno collaborazionismo in Cisgiordania dell’ANP e dei suoi sgherri che, contro i propri concittadini, gareggiano in ferocia con l’esercito di occupazione, all’evidenza di un paese progressista, laico, nella tradizione del socialismo arabo, squartato. Una nazione identificata dai colonialisti euro-atlantici come “liberata” e democratizzata” dal rigurgito subumano di mercenari al soldo di Turchia, Israele, Fratellanza Musulmana, USA e NATO. Ennesima balcanizzazione imperiale di una unità storica, culturale, multietnica, che onorava l’intera umanità, ma che si era resa colpevole della vittoria su colonialismo e neoliberismo e di perseguire un altro modello di organizzazione della società. Come in Libia, Iraq, Jugoslavia, Venezuela….
Tra privatizzazione draghiano-prodiano-montiana, dittatura Covid e regime Meloni, siamo stati talmente ridotti ad accettare per fatto compiuto la scomparsa dei nostri diritti politici, civili e sociali, un’iniqua distribuzione della ricchezza, la totale rimozione del pubblico a vantaggio del potere-profitto privato nel segno della “fine della Storia”. Tuttavia non pare che vi sia una piena consapevolezza dell’obiettivo perseguito, utilizzando l’ormai prediletto strumento terrorista, dalla rivoluzione reazionaria imperialcapitalista in Siria.
Oggi più che mai la
celebre frase della scrittrice britannica Charlotte Brontë
torna alla mente
osservando quanto accaduto sul fronte energetico nelle
ultime due settimane. Nonostante i tranquillizzanti annunci
dell’Unione Europea lo stop
al transito del gas russo attraverso il gasdotto ucraino sta
determinando, per ragioni oggettive e conseguenti incertezze
e speculazioni,
difficoltà e rialzo dei costi in gran parte d’Europa, con
previsioni di incrementi considerevoli delle bollette per
famiglie e
aziende.
La Slovacchia, membro di NATO e UE, è la nazione che risentirà di più della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli Stati Uniti e, paradossalmente, dell’Unione Europea.
Se Washington ha tutto l’interesse a privare di fornitori competitivi il mercato energetico europeo per imporci l’acquisto del suo costoso GNL (tema sostenuto perentoriamente prima da Barack Obama, poi da Joe Biden e che Donald Trump ha già anticipato) c’è da porsi più di qualche domanda circa il reale ruolo della UE o quanto meno di questa Commissione (e di quella precedente sempre a guida von der Leyen), pronta a sacrificare gli interessi dei suoi stati membri pur di difendere quelli di Washington e Kiev.
Basti ricordare quale timida reazione giunse dall’Unione Europea (e anche dal governo tedesco oggi uscente) dopo la distruzione dei gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico nel settembre 2022, attacco strategico alla Germania e all’Europa che raccolse il plauso di alcuni membri di NATO e UE, compiuto forse degli ucraini, più probabilmente dagli anglo-americani con qualche alleato del Nord Europa, ma certamente non dei russi.
L’esplosione dei Nord Stream non è stata certo l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio il ministero della Difesa di Mosca ha denunciato come “terrorismo energetico” il fallito attacco portato da 9 droni ucraini alla stazione di compressione Russkaya del gasdotto TurkStream a Gai-Kodzor, vicino ad Anapa, nel territorio di Krasnodar, nel sud della Russia.
Il mio secondo viaggio in Iran per motivi
familiari (mia moglie è iraniana e tutta la sua famiglia è
residente in Iran) è stato
più volte rimandato. L’ultima volta questa estate dopo
l’escalation di tensione dovuto all’ omicidio da parte di
Israele del
leader Palestinese Haniye a Teheran.
Torno quindi per la prima volta dal 2019. E trovo un Paese che resiste, pagandone ovviamente il prezzo. Un prezzo salato.
Innanzitutto rispetto a 5 anni fa ho notato un reale e pesante isolamento internazionale: ero l’unico straniero in strada, a parte ovviamente gli immigrati Afghani, Pakistani e Iracheni (che insieme rappresentano il 10% della popolazione totale in Iran).
Negli hotel di lusso della città si registrano presenze russe, cinesi e arabe, ma si tratta di pochissima cosa: l’isolamento bancario è ancora inaggirabile e l’Iran è finanziariamente sigillato nelle sue frontiere, dato che i turisti devono portarsi tutto il denaro di cui necessitano e cambiarlo in aeroporto. È impossibile anche fare un bonifico o un assegno per pagare l’albergo.
La mia permanenza ha fatto base in una media città di provincia, a un’ora di viaggio da Teheran, nei giorni dell’arresto di Cecilia Sala, contropartita per l’arresto, per conto e su ordine degli Stati Uniti, del cittadino iraniano Mohammad Abedini, detenuto per “possesso di materiale elettrico che potrebbe servire come componente di un drone”. Insomma un arresto basato su accuse fumose e capi d’imputazione non formalizzati, con l’Italia che dimostra ancora una volta di non essere un Paese sovrano ma una colonia statunitense.
Lasciando perdere considerazioni varie, è sulla situazione del Paese che vorrei concentrarmi, sulla generale propaganda che le nostre TV occidentali martellano, sul fatto che tale propaganda venga spesso rilanciata acriticamente anche da “antisionisti” facendo da grancassa alla propaganda israeliana e all’Imperialismo euroatlantico.
Pare che la bistrattata Italietta avrà modo di farsi valere nei prossimi anni. Grazie all’esperienza accumulata per circa un quindicennio dai nostri esegeti nel decodificare il senso recondito dei rutti di Umberto Bossi, oggi sarà per loro una passeggiata catturare i profondi messaggi annidati nelle insolenze di Donald Trump. Perché mai un presidente USA, pochi giorni prima del suo insediamento ufficiale, dovrebbe minacciare tre sue colonie (Canada, Danimarca e Panama) di prendersi con la forza dei territori che controlla già? La risposta ovvia è che Trump è un cialtrone e sta eccitando il suo pubblico facendogli credere di strappare con le minacce cose che in realtà si erano già ottenute da tempo. A proposito di Panama, occorre sottolineare che questo paese non è nuovo a fare da vittima all’esibizionismo fine a se stesso da parte degli USA. Nel 1989, appena un mese dopo la caduta del Muro di Berlino, il presidente Bush Senior festeggiò la vittoria nella Guerra Fredda bombardando e invadendo Panama con il pretesto di rimuovere dalla presidenza Noriega, cioè un uomo che era stato messo lì dagli stessi Stati Uniti e che aveva fatto carriera e fortuna grazie alla sua collaborazione con i traffici di droga della CIA. Ci sarebbe poi da spiegare il motivo per cui la rimozione di Noriega abbia comportato tante vittime tra la popolazione civile.
Probabilmente l’invasione di Panama del 1989 non aveva solo uno scopo auto-celebrativo; c’era infatti da rassicurare la lobby delle armi sul fatto che la fine della Guerra Fredda non avrebbe comportato una diminuzione degli affari, bensì un incremento.
Ieri, a margine di un evento organizzato a Copenaghen dall’ European Palestinian Network, l’emittente Al Jazeera ha intervistato Ilan Pappe, storico, autore e professore israeliano che ha trascorso gran parte della sua vita a lottare per i diritti dei palestinesi. Prima dell’intervista, Pappe ha dichiarato che, dopo lo scoppio dell'ultima guerra di Israele a Gaza, è rimasto scioccato dalla risposta dell'Europa.
"Condivido con molte persone la sorpresa per la posizione europea. L'Europa, che afferma di essere un modello di civiltà, ha ignorato il genocidio più mediatico della Storia moderna".
* * * *
Al Jazeera: Lei ha da tempo ha affermato che gli strumenti del sionismo, l'ideologia politica nazionalista che ha richiesto la creazione di uno Stato ebraico, includono la conquista della terra e gli sgomberi. Negli ultimi 15 mesi, Gaza ha subito uccisioni di massa quotidiane. A quale fase del sionismo stiamo assistendo?
https://www.youtube.com/watch?v=civGu7RiNV4
“Lo stato siamo noi" "La legge e uguale per tutti" Due frasi che non hanno nessun legame con la realtà. Noi dobbiamo fare pressioni per cambiare questo stato in cui siamo. Grazie per i suoi video”.
Questo è uno della valanga dii commenti arrivatimi nei primi venti minuti dopo la pubblicazione del video “L’etat cest moi” pubblicato sul mio canale Youtube. Solo per dire quanto l’argomento fascistizzazione, implicito nel titolo qui sopra, rappresenti una preoccupazione tanto sentita quanto ignorata da chi ne è il generatore.
Una volta Moreno Pasquinelli, in una discussione sul tema che ogni minuto, ora, giorno, da oltre due anni, ci impongono il regime e l’intera struttura sociopolitica impostaci dall’Occidente politico tutto, mi consigliò di non utilizzare il termine “fascismo” per definire la condizione che sentiamo stringerci al collo. Disse il fascismo è scientificamente una cosa ideologica precisa, rinchiusa in quel suo tempo. Meglio parlare di autocrazia, autoritarismo, dispotismo, tirannia, oligarchia…
E perché no democrazia? Visto il contenuto che questa occulta sotto le sue tanto sgargianti quanto stracciate vesti. A parte la battuta, Moreno ha ragione: tocca essere rigorosi nel classificare opere e forme.
“Le tre forme delle politiche di austerità – fiscale, monetaria e industriale – lavorano all’unisono per disarmare le classi lavoratrici ed esercitare una pressione discendente sui salari”, scrive Clara E. Mattei in “Operazione austerità” (Einaudi 2022). Una ricostruzione davvero pertinente.
Quali sono, dunque, le dinamiche della coercizione esercitata dall’austerità? Ecco uno schema di analisi, tratto dal libro di Mattei, che ci aiuta a capire le politiche economiche che muovono attualmente la Ue e i governi nazionali, compreso il governo Meloni.
* * * *
L’austerità fiscale si traduce in tagli al bilancio, soprattutto al welfare, e in una tassazione regressiva (che chiede una percentuale superiore di denaro a chi ne ha di meno).
Entrambe le riforme permettono di trasferire risorse dalla maggioranza dei cittadini a una minoranza – le classi dei risparmiatori-investitori – per garantire i rapporti di proprietà e la formazione del capitale.
La serie M – Il figlio del secolo è molto ben fatta. Un po’ statica, noiosa e sconnessa, forse. Ma tecnicamente impeccabile per cast, interpretazioni, regia, ambientazioni, musiche, spettacolo. Ha un solo difetto: ci racconta un uomo che non è Benito Mussolini, ma la sua macchietta, e un movimento che non è il vero fascismo, ma la sua caricatura. Si dirà: inevitabile, è una fiction di intrattenimento, per giunta ispirata a un romanzo, quello di Antonio Scurati. Ma allora era meglio precisare che è roba di fantasia, chiamando il protagonista Bonito Napoloni come nel Grande dittatore di Chaplin, Ermanno Catenacci come il personaggio di Bracardi, Gaetano Maria Barbagli come quello di Guzzanti in Fascisti su Marte. Il rischio è che chi vede la serie pensi che il duce e i personaggi storici che gli ruotano attorno fossero davvero così: marionette, parodie e sagome da teatro dei pupi o del grottesco. E vada a cercare conferme, trovandole, nel romanzo di Scurati, anziché documentarsi sui veri libri di storia di studiosi come Renzo De Felice, Emilio Gentile, Denis Mack Smith, Nicola Tranfaglia, Gianni Oliva, Angelo D’Orsi e altri, o di divulgatori alla Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Arrigo Petacco.
Mai come in questo momento di amnesie e revisionismi, dove la boss di Afd si permette di dire a Musk senza tema di smentite che Hitler era un comunista (infatti ne sterminò a migliaia), servono precisione e profondità storica, non barzellette, scenette e banalizzazioni un tanto al chilo.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Alessandro Barile, La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003), Mimesis, Milano 2024, pp. 180, € 16,00
I
movimenti sociali che vanno dalle occupazioni universitarie
della Pantera al movimento no global, passando per il ciclo
dei centri sociali, si
configurano come una protesta debole che, in quanto tale, può
consentire di rintracciare una possibile genealogia della
protesta populista
“di sinistra”. Una tesi, quella di Alessandro Barile, che non
manca di originalità e che, anche per questo, merita di essere
conosciuta e valutata. Per comprendere fino in fondo quanto
sostiene l’autore nel suo recente libro La protesta
debole. I movimenti sociali
in Italia dalla Pantera ai No global (1990-2003) bisogna
prima di tutto capire cosa si intende con genealogia. In
breve, non si tratta di una
filiazione diretta, ma di
un rapporto più distante e profondo, magmatico, che avviene a livello inconsapevole sul piano dell’ideologia spontanea dei movimenti, che sedimenta un modo di intendere la politica che, alterato dalla crisi economica e finanziaria degli anni dieci del Duemila e riformulato da nuovi protagonisti (e “imprenditori”) della politica, consente di ricavare un legame di parentela.1
In secondo luogo, bisogna capire il significato di “protesta debole”. Cosa che è possibile fare paragonandola alla protesta che può essere considerata forte, cioè quella innervata nella tradizione marxista e comunista, con particolare riferimento al movimento degli anni Settanta. Raffronto che non è una mera sovrapposizione di due periodi storici differenti operata estrinsecamente dallo studioso, perché il riferimento a quegli anni è un tema ricorrente nella stessa riflessione dei movimenti successivi, sebbene tale confronto si esprima spesso attraverso una dinamica di attrazione e repulsione. Ebbene, la forte componente di identificazione ideologica, la capacità di sedimentazione organizzativa, il legame tra politica e collocazione di classe, la chiara connotazione rivoluzionaria e anticapitalista sono tutti elementi che mancano nei movimenti degli anni Novanta e dei primi Duemila e che invece troviamo negli anni Settanta, quantomeno nelle intenzioni.
Nelle visure catastali rilasciate
dall’Agenzia del Territorio è conservato il ricordo del
momento in cui il suolo venne segnato dalla partizione tra
Reddito dominicale e
Reddito agrario. Questa divisione corrisponde esattamente a
quella tra Capitale e Reddito, ossia alle due sezioni del
bilancio aziendale: lo Stato
Patrimoniale e il Conto Economico. Che la terminologia rimandi
alla casa e al pater non è casuale, poiché questa
materia tocca
direttamente la concezione della famiglia, della casa e della
domus dinastica, con i connessi problemi di
successione, divisione e
continuità della persona che, dalla stessa epoca, comincia a
dividersi tra persona fisica, titolata al possesso, e persona
metafisica, titolata
a intestarsi la proprietà; tra corpo fisico e transeunte, e
corpo astrale infinito, sovrano, libero,
immortale; tra persona terrena e persona ultraterrena, magica;
tra Servo, che lavora e produce il
Reddito, e Capo, che si intitola questo reddito e lo rubrica
nello Stato Patrimoniale.
È merito dei fisiocratici, soprattutto di Quesnay e del suo Tableau économique, aver messo in rilievo a analizzato questa partizione, riconducendola alla struttura classista della società.
Quesnay, scrive Schumpeter (Storia dell’analisi economica, I) distinse i proprietari fondiari (classe des propriétaires, o classe souveraine, o, e ciò è significativo, classe distributive), gli imprenditori agrari (classe productive) e la classe delle persone impiegate in attività non agrarie (classe stérile).
Questo schema, ribadisce Schumpeter, non è tanto uno schema di classi come entità sociologiche, ma di gruppi economici del genere di quelli che oggi si trovano nelle statistiche degli addetti, per esempio, all’agricoltura o alle industrie minerarie o a quelle manifatturiere.
Nel 1758 Quesnay costruire un modello di ciclo e di equilibrio economico come fanno i moderni keynesiani. Perciò non deve stupire che Marx ponga i fisiocratici e Quesnay, e non Adam Smith, come i fondatori dell’analisi economica moderna.
L’intelligenza artificiale (AI) e i data
centers, che potremmo definire come le infrastrutture
dell’immateriale o, più
semplicemente, le banche in cui immettiamo i dati, ci pongono
dinanzi al difficile tema della correlazione esistente tra la
transizione digitale e la
transizione energetica.
Più precisamente, lo scorso 8 novembre, la Professoressa Giovanna Sissa, dell’Università di Genova, ha scritto che “occorre indagare gli effetti dell’interazione tra le due, siano essi positivi – può la transizione digitale accelerare quella energetica? – o negativi – l’impatto sulle emissioni [e a monte sui consumi] della transizione digitale, dell’intelligenza artificiale e dei data center rischia di vanificare gli sforzi di quella energetica”[1]?
Premesso che, a oggi, esistono ancora pochi studi al riguardo e con risultati in contrasto tra loro, l’obiettivo che ci poniamo è di portare alla luce la contraddizione che si cela tra le due transizioni.
Senza dubbio, l’intelligenza artificiale è particolarmente promettente per quanto attiene la costruzione di reti energetiche più efficienti, stabili e intelligenti, oltre ad avere un impatto potenzialmente significativo sulla produttività, quindi sui margini di profitto di un’ampia gamma di settori industriali, dai software ai servizi finanziari[2].
L’AI potrebbe infatti migliorare la pianificazione e la resilienza delle reti energetiche, nonché contribuire alla scoperta di materiali per le tecnologie energetiche pulite. Ad esempio, l’incremento dell’efficienza dei chip, con circuiti più densi, sta già riducendo in maniera significativa il fabbisogno energetico dei semiconduttori[3].
Inoltre, Bank of America[4] ha stimato che l’effetto dell’intelligenza artificiale sulla crescita dei margini del settore dell’energia Usa in una serie di casi d’uso, tra cui l’esplorazione, il monitoraggio delle condutture e quello ambientale, sarà del 3,1% nei prossimi 5 anni.
Ha scritto l’amico Fulvio Grimaldi:
«Una volta Moreno Pasquinelli, in una discussione sul tema che ogni minuto, ora, giorno, da oltre due anni, ci impongono il regime e l’intera struttura sociopolitica impostaci dall’Occidente politico tutto, mi consigliò di non utilizzare il termine “fascismo” per definire la condizione che sentiamo stringerci al collo. Disse il fascismo è scientificamente una cosa ideologica precisa, rinchiusa in quel suo tempo. Meglio parlare di autocrazia, autoritarismo, dispotismo, tirannia, oligarchia…»
Confermo. Fulvio commette un grave errore politico usando la categoria di “fascismo” come un passepartout per qualificare le pulsioni repressive antidemocratiche che l’Occidente Collettivo esibisce in maniera sempre più minacciosa. Un errore politico e teorico.
So bene che Fulvio non ha niente a che spartire con le sinistre transgeniche (dalla Schlein agli Antifà passando per la setta globalista sorosiana), tuttavia è un fatto che dette sinistre usano il sostantivo un giorno sì e l’altro pure come uno specchietto per le allodole, come una maschera per nascondere le proprie nefandezze o, nel caso di certa estrema sinistra, la propria totale inconsistenza — vedi il polverone sollevato sul presunto ritorno del fascismo con la Meloni al governo.
A voler prendere per buono questo antifascismo, diremmo che si tratta di un antifascismo umanitaristico e moralistico, contro il quale proprio il principale storico del fascismo, Renzo De Felice, ebbe a dire nel 1980:
Economia americana Il passaggio del testimone: diffondere la convinzione che l’economia americana, gravata dal debito estero, non solo sia al primo posto oggi, ma che crescerà più di tutte le altre in futuro
«Molti credevano che l’economia cinese avrebbe superato quella americana alla fine del decennio. Secondo le attuali predizioni non ci sorpasseranno mai». Joe Biden si congeda dalla presidenza degli Stati uniti con una dichiarazione altamente patriottica e spudoratamente falsa.
Come mostrano le statistiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, calcolato in termini di parità dei poteri d’acquisto il Pil cinese è al di sopra del Pil statunitense già da quasi un decennio, e il divario continua ad aumentare. Senza nemmeno bisogno di contare le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao, nel 2024 la Cina ha oltrepassato i 37 mila miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti non hanno ancora raggiunto i 30 mila miliardi.
A ripetere la menzogna dell’inarrivabile primato economico americano Biden non è certo lasciato solo. Da questo punto di vista, democratici e trumpiani cantano la stessa messa, ben coordinata. È un po’ come se avessero in mente la vecchia massima nazista, secondo cui ribadire di continuo una colossale bugia finisce per renderla credibile.
In effetti è esattamente questo lo scopo obbligato dei vertici statunitensi. Bisogna diffondere il convincimento che l’economia americana non soltanto sia primatista oggi, ma soprattutto sia destinata a crescere più di tutte le altre in futuro.
Riflessioni di ampio respiro sulla vicenda della incarcerazione e liberazione di Cecilia Sala e di Mohammad Abedini: ciò che emerge è tutt’altro rispetto a quanto propinato dai mass media
Premessa: Cecilia Sala piccola
rotella
di un ingranaggio
Lo scambio dei “prigionieri” alla fine si è realizzato: Cecilia Sala è tornata in Italia l’8 di gennaio mentre Mohammad Abedini
è stato liberato e rimpatriato il 12 su iniziativa del guardasigilli Nordio. Da un punto di vista personale entrambi dovrebbero tirare un profondo respiro di sollievo per uno scampato pericolo che, forse, non hanno pienamente apprezzato. Quale? Per esempio, se i due fossero stati imprigionati un anno fa, e non in un periodo di passaggio di consegne alla Casa Bianca, la possibilità che il vecchio e maligno Joe rigettasse senz’appello la richiesta del governo italiano di ritirare l’editto imperiale di cattura nei confronti del cittadino iraniano e di conseguenza negare le condizioni del rilascio di Cecilia Sala, sarebbero state elevate. Abedini sarebbe stato estradato negli Usa dove avrebbe subìto pene detentive draconiane e la Sala sarebbe stata ospite delle carceri iraniane per un lungo periodo. Invece, oggi negli Stati Uniti esiste una “corte di appello” presso la principesca villa di Mar-a-Lago in Florida, dove l’oligarca-magistrato-quasi presidente Donald Trump ha evidentemente accolto l’istanza di Giorgia Meloni, probabilmente facendo pagare un caro prezzo all’Italia. Accenniamo brevemente a Cecilia Sala perché non c’è molto da dire sulla persona: rampolla di una famiglia borghese romana, è una rotella di piccole o medie dimensioni di quel grande meccanismo che è la propaganda di regime che si fa chiamare giornalismo. Nel caso in specie, per chi volesse approfondire il Sala pensiero, suggerisco di vedersi la video intervista su YouTube “Cecilia Sala parla del conflitto a Gaza”1, dove la neoeletta paladina della libertà del giornalismo sfoggia la sua interpretazione del genocidio in corso in Palestina con concetti mai sentiti prima, ovviamente in senso ironico: “conflitto brutale”; “è importante la presenza di giornalisti di terza parte che raccontino i fatti perché le opinioni sono estremamente polarizzate”; “esistono solo soluzioni molto complicate a questo conflitto”; “il presupposto è che non ci siano più il governo più di destra in Israele e Hamas a Gaza per iniziare un percorso che abbia come fine la creazione dei due Stati” (sic); “serve un nuovo piano Marshall per Gaza e la Palestina, in cui la solidarietà e la cooperazione, le Ong, le associazioni sul territorio saranno fondamentali”.
Il realismo capitalista opprime la visione di un futuro possibile, ma il «comunismo acido» di Fisher ci ricorda che immaginare «come potrebbero essere le cose» è un tonico vitale contro la disperazione
Intravedete una figura nello specchio
dall’altra parte del corridoio, ma quando tornate indietro per
controllare, non c’è nessuno. Gli spettri si soffermano in
spazi
vuoti, creando un’atmosfera cupa, come i corridoi di una
vecchia villa o un sentiero attraverso un cimitero desolato.
Questi sono contesti
classici per un’infestazione, così come l’innaturale vuotezza
di un villaggio Potemkin.
È strano guardare lo skyline di una grande città degli Stati uniti e sapere che alcuni di quei grattacieli scintillanti sono completamente vuoti; torri residenziali fantasma che fungono da semplici attività finanziarie nei portafogli immobiliari, infestate dalla loro stessa vacuità. Allo stesso modo, i fantasmi sono noti per gli inquietanti sdoppiamenti, come le gemelle di Shining, e per gli eccessi inquietanti: sciami neri di mosche, una strage di corvi, voci dal nulla. Così, è strano passeggiare dietro un grande magazzino, oltre le banchine di carico, e trovare cassonetti pieni di cibo perfettamente commestibile o di prodotti di consumo in confezione che, a quanto pare, non sono stati venduti e ora sono destinati alla discarica.
In The Weird and the Eerie, Mark Fisher ha scritto di come queste sensazioni inquietanti si riferiscano a cose al di fuori della nostra percezione – qualcosa di spettrale, che sfida una descrizione completa. Velate e ultraterrene, queste infestazioni indicano ciò che Fisher ha definito in modo evocativo «lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero». Fisher, che ha lottato per tutta la vita contro la depressione clinica, si è tolto la vita nel 2017, ma il suo lavoro continua a essere un antidoto alla disperazione – in particolare la sua ultima proposta di libro, intitolata, scherzosamente, Acid Communism.
L’opera più famosa di Fisher rimane Realismo capitalista.
Pensavate
fossero sofisticate strategie geopolitiche e, invece, era la
solita tamarrata hollywoodiana; la grande rivoluzione
che ha spazzato
via in quattro e quattr’otto il vecchio pensiero unico
dell’establishment liberale (impersonificato da
rimbamBiden) con i
miliardari del popolo Trump e Musk,
alla fine si sta rivelando come il più trito e ritrito dei
copioni:
sbirro buono contro sbirro cattivo, il classico dei
classici. Anche se, a questo giro, la sequenza è invertita e
già qui sorge
il primo problema: di solito, infatti, ogni interrogatorio che
si rispetti inizia col cattivo, quello che con le
regole ci si pulisce il
culo e che ti prende a pizze. E, se non cedi, ecco
allora che arriva quello buono: fa il comprensivo, ti fa
sentire a casa, te ti lasci un
po’ andare e zac, ti fotte. Qui, invece, siamo partiti da
quelli buoni, anzi, quelli democratici,
come si fanno chiamare
(addirittura progressisti, a volte); lascia perdere
che forniscono i missili per sterminare i bambini rintanati
dentro un ospedale, o che
armano fino ai denti battaglioni formati da energumeni di due
metri con più svastiche e croci celtiche tatuate che denti:
mica lo fanno
perché so’ stronzi! E’ che sono costretti; d’altronde, di
fronte alle minacce alla democrazia e al progresso, sono il
male
minore e, tra una lettura di Kant e l’altra, hanno imparato a
rispettare le regole. Vabbeh, le regole… Non esageriamo;
diciamo
LA regola, l’unica che conta davvero: quella
del Marchese del Grillo.
Ora, sarà perché quando parti subito con lo sbirro buono il giochino non funziona, oppure perché questo sbirro buono recitava troppo male e l’hanno sgamato subito tutti, oppure perché – banalmente – con questi imputati lo sbirro buono non aveva nessuna chance a prescindere, fatto sta che, stringi stringi, il giochino non ha funzionato. Trump lo ripete continuamente da anni: mica pensavate davvero di scoraggiare degli energumeni come Putin, Xi o Kim co’ ste fregnacce! Co’ quelli altro che sbirro cattivo ce vo’! In estrema sintesi, la geopolitica trumpiana sta tutta qui: dalle dichiarazioni sull’annessione di Canada, Groenlandia e Panama, alle minacce di dazi del 100% per chiunque si azzarda a commerciare con valute diverse dal dollaro, passando per Musk che dà il pieno sostegno a qualsiasi nazistello si presenti alle elezioni nei Paesi vassalli, lo scopo, piano piano, diventa sempre più chiaro e perfettamente razionale.
E’ stato necessario attendere il suo discorso d’addio alla presidenza e alla vita politica attiva per poter sentire una parola di Biden che non fosse aria fritta o sostegno a regimi criminali/genocidi.
“Un’oligarchia sta prendendo forma in America, composta da estrema ricchezza, potere e influenza, che minaccia letteralmente l’intera democrazia, i nostri diritti fondamentali, la libertà e la possibilità di garantire a tutti un’opportunità equa”.
Siccome è pur sempre il pallido terminale dell’establishment che da tempo immemore occupa tutte le posizioni rilevanti ai vertici degli Usa, il vecchio rimbambito è rimasto concentrato a sufficienza per non fare nomi. Ma il contesto è tale non lasciare molti dubbi su chi siano i principali oligarchi che da qualche anno (almeno tre decenni) stanno concentrando nelle proprie mani un potere tale da non avere confronti con quello del passato.
Non c’è soltanto un neo-vecchio presidente che di mestiere ha sempre fatto lo speculatore immobiliare, specializzato soprattutto in abusi debiti e ricatti, e non c’è neanche solo Elon Musk, ormai classificato ‘uomo più ricco del mondo’ (anche se la stima delle sue ricchezze risente delle quotidiane oscillazioni di valore delle azioni che possiede).
I giornali Usa sono pieni da settimane con i nomi di straricchi che stanno traslocando dalla tifoseria “liberal” a quella trumpiana, pur avendo detto sempre peste e corna del mondo “Maga” (“make America great again”), giustamente identificato con il buzzurrame complottista, evangelico, suprematista bianco (col Ku Klux Klan in gran spolvero), ma ora capace di conquistare anche coloured di tutte le origini e sfumature.
La serie M – Il figlio del secolo è molto ben fatta. Un po’ statica, noiosa e sconnessa, forse. Ma tecnicamente impeccabile per cast, interpretazioni, regia, ambientazioni, musiche, spettacolo. Ha un solo difetto: ci racconta un uomo che non è Benito Mussolini, ma la sua macchietta, e un movimento che non è il vero fascismo, ma la sua caricatura. Si dirà: inevitabile, è una fiction di intrattenimento, per giunta ispirata a un romanzo, quello di Antonio Scurati. Ma allora era meglio precisare che è roba di fantasia, chiamando il protagonista Bonito Napoloni come nel Grande dittatore di Chaplin, Ermanno Catenacci come il personaggio di Bracardi, Gaetano Maria Barbagli come quello di Guzzanti in Fascisti su Marte. Il rischio è che chi vede la serie pensi che il duce e i personaggi storici che gli ruotano attorno fossero davvero così: marionette, parodie e sagome da teatro dei pupi o del grottesco. E vada a cercare conferme, trovandole, nel romanzo di Scurati, anziché documentarsi sui veri libri di storia di studiosi come Renzo De Felice, Emilio Gentile, Denis Mack Smith, Nicola Tranfaglia, Gianni Oliva, Angelo D’Orsi e altri, o di divulgatori alla Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Arrigo Petacco.
Mai come in questo momento di amnesie e revisionismi, dove la boss di Afd si permette di dire a Musk senza tema di smentite che Hitler era un comunista (infatti ne sterminò a migliaia), servono precisione e profondità storica, non barzellette, scenette e banalizzazioni un tanto al chilo.
Gli utenti non sono i poveri imbecilli descritti da chi nella stampa scritta o parlata si ritiene maestro di pensiero, castigatore non criticabile, geneticamente veritiero.
La diffamazione dei social si è fatta così enorme, a cominciare dai tempi del Covid, che prima o poi doveva venire qualcuno e chiedere: ma chi controlla i controllori?
Che bisogno c’è di una Congregazione del Sant’Uffizio che concede imprimatur preventivi e davanti a cui occorre inginocchiarsi, con la scusa che gli utenti cadrebbero così facilmente in tentazione?
Gli utenti sono appaiati agli elettori: se non votano come vogliamo noi, devono avere un baco nel cervello.
La battaglia dei verificatori contro la disinformazione ha i suoi siti internet, e i suoi sponsor e finanziatori. Bbc Verify, ad esempio, ha rapporti stretti con l’Istituto di Studi Strategici della Nato e non solo verifica ma fa propaganda e censura.
Chiunque critichi la politica occidentale sulla guerra in Ucraina o sullo sterminio perpetrato da Israele a Gaza diventa bersaglio delle campagne contro la disinformazione.
I verificatori sono numerosi ovunque.
Una delle principali collaborazioni italiane di Meta è stato per anni Open, il sito di fact checking fondato da Enrico Mentana nel 2018.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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La polemica
contro un eventuale investimento di Starlink in Italia muove
da considerazioni di vario tipo. Ad esempio c’è chi evidenzia
i rischi per
la sicurezza nazionale, perché gli oligarchi come Musk –
quelli cioè in grado di sfidare gli Stati su alcune delle loro
prerogative fondamentali (come il servizio di accesso
universale alle connessioni di rete per la cittadinanza) –
agiscono oggettivamente come
«veri e propri contropoteri» (Mattarella).
A ben vedere, tuttavia, tali rischi non riguardano solo lo Stato come istituzione integra e sovrana ma anche i cittadini e le loro vite private, i loro dati sensibili, nonché i dipendenti della Pubblica Amministrazione: l’affare Starlink va infatti collegato anche con il DdL Sicurezza, che obbligherà le Amministrazioni pubbliche a fornire informazioni e comunicazioni sui propri dipendenti e sul loro operato (comprendendo la ricerca e l’insegnamento), in un’ottica, evidente, di controllo e repressione dell’autonomia sul lavoro. In generale, poi, far dipendere l’erogazione di un servizio universale dalla disponibilità a fornirlo da parte di un colosso privato multinazionale vuol dire trovarsi perennemente sotto potenziale ricatto, tanto più se le tecnologie reperite privatamente avranno un ruolo importante e strutturale nella fornitura del servizio: sarà molto difficile riuscire a svincolarsene per poi, in un futuro, tornare a essere indipendenti.
D’altro canto è pur vero, come evidenziato dai sostenitori di Musk e Meloni, che investimenti privati di grandi dimensioni su asset fondamentali dell’economia nazionale sono, ahinoi, perfettamente “normali” e di frequente praticati: l’intero Rapporto Draghi, i Pnrr, gli Ipcei e i vari accordi transnazionali stretti nel corso del tempo fra governi di ogni colore dei Paesi dell’Ue si basano, tutti, su strategie per ottenere investimenti privati e la stipula di nuovi accordi.
L’appello lanciato alle compagne
e ai compagni dal coordinatore nazionale del Movimento per
la Rinascita Comunista e dirigente di Prospettiva Unitaria,
per l’appuntamento che si
terrà nella Capitale.
È l’ora!
Nessuno si tiri indietro!
È l’ora della costruzione del partito comunista!
Sabato 25 gennaio, a Roma, presso il Teatro Flavio, dalle ore 10.00, Prospettiva Unitaria, le comuniste e i comunisti del nostro Paese daranno vita a una grande Assemblea nazionale dalla quale partirà il percorso concreto per la costruzione del partito comunista!
Nessun comunista con la coscienza del tempo che vive, del nostro tempo terribile, può mancare all’appuntamento! Conosciamo i compagni e le compagne: i nostri stipendi sono magri, le nostre pensioni sono spesso da sopravvivenza, i treni ci falciano il salario, i lunghi viaggi in auto per noi costano tanto: ma quando viene l’ora che conta i comunisti ci sono, ci sono sempre stati e nessun’ora è giusta come quella che va scoccando, quella della costruzione del partito comunista! Nessun sacrificio è giusto, nessuno vale la pena di essere scelto come questo di essere protagonisti della messa in cantiere del nostro partito, il partito delle lavoratrici e dei lavoratori, il partito degli intellettuali e dei giovani: il partito comunista!
Le compagne e i compagni del Movimento per la Rinascita Comunista lavorano da tempo per l’unità dei comunisti e per la costruzione del partito comunista. Hanno già investito in questi due grandi e nobili progetti tanta parte della loro vita, si sono sacrificati e sanno cos’è il sacrificio. A testa alta faranno anche questo nuovo pezzo di strada che ci porterà a Roma il prossimo 25 gennaio!
Queste compagne e questi compagni, l’intero MpRC, hanno fornito un contributo determinante all’unità dei comunisti e al progetto di costruzione del partito comunista.
Trump ha promosso una serie di piani
per rendere l’America forte – a spese di altri Paesi. Dato il
suo motto “noi vinciamo, voi perdete”, alcuni dei suoi piani
produrrebbero l’effetto opposto a quello da lui immaginato.
Non sarebbe un gran cambiamento nella politica degli Stati Uniti. Ma, secondo me, la Legge di Hudson potrebbe raggiungere il suo apice sotto Trump: ogni azione degli Stati Uniti, quando attaccano gli altri Paesi, tende a ritorcersi contro di loro e finisce per costare alla politica americana almeno il doppio.
Abbiamo visto che è diventato normale per i Paesi stranieri essere l’oggetto dell’aggressione politica degli Stati Uniti. Il più evidente è il caso delle sanzioni commerciali americane contro la Russia. Se non sono gli Stati Uniti a perdere (come nel caso del sabotaggio al gasdotto Nord Stream che ha portato all’impennata delle esportazioni statunitensi di GNL), saranno i loro alleati a farne le spese. Tra qualche anno, gli Stati Uniti potrebbero perdere l’Europa e la NATO a causa delle pressioni esercitate dai Paesi europei per dichiarare la propria indipendenza dalla politica statunitense.
Per accelerare il distacco dall’Europa, i leader della NATO chiedono sanzioni contro la Russia e la Cina, affermando che “le importazioni equivalgono alla dipendenza”. Seguiranno controsanzioni russe e cinesi che bloccheranno la vendita di altre materie prime all’UE.
In passato abbiamo discusso del piano di Trump di aumentare le tariffe doganali statunitensi e di usarle in modo simile all’imposizione di dazi contro i Paesi che non si allineano alla politica estera degli Stati Uniti. Questa proposta è molto contrastata da interessi repubblicani consolidati e, in ultima analisi, è il Congresso che deve approvare le sue proposte. Quindi Trump probabilmente minaccia troppi interessi acquisiti per fare di questa proposta una grande battaglia all’inizio della sua amministrazione. Sarà impegnato a fare piazza pulita [di quei settori] dell’FBI, della CIA e delle forze armate che, fin dal 2016, sono sempre state contro di lui.
Il congelamento del conflitto in Siria è stato il più grande errore di Assad e del precedente governo, che ha assunto una posizione troppo morbida nei confronti dei terroristi.
Dopo la caduta della Siria e il parziale collasso dell'Asse della Resistenza, nei media occidentali è stata lanciata una prevedibile campagna diffamatoria che, come per la Russia, si basa su distorsioni e bugie.
Si tratta di una campagna psicologica occidentale ben oliata per far credere al grande pubblico che, dopo Hitler, Bashar al-Assad fosse un dittatore temuto, proprio come fanno con Putin e, prima ancora, con Gheddafi e Saddam Hussein.
Il mondo è rimasto sorpreso quando, l'8 dicembre 2024, i terroristi più temuti hanno preso il controllo della vecchia Siria, una forma di Stato semi-secolare, e l'hanno immediatamente trasformata in un califfato.
Ma per i pianificatori imperiali americani, i loro alleati europei e i loro proxy terroristi, compresi quelli in Ucraina, non c'è stata alcuna sorpresa. Lo sapevano. La milizia terroristica sponsorizzata dalla NATO è stata addestrata dalla CIA a Idlib e dotata di droni dall'Ucraina, che sono prodotti in Ucraina, a partire da prodotti semilavorati di un'azienda olandese chiamata Metinvest B.V.
Gran parte dell'esercito siriano non ha disertato, come sostengono i media occidentali e i cosiddetti esperti. Circa 9.000 soldati sono ancora prigionieri nel deserto siriano o nella prigione di Sednaya, detenuta dai terroristi.
Allacciare le cinture, sarà un atterraggio problematico. La politica estera vincolata e priva di buon senso delle classi dirigenti europee si sta concretizzando con effetti devastanti sulle spese energetiche di imprese e famiglie, innescando ancora una volta un’inevitabile e tutt’altro che imprevedibile spirale inflazionistica da offerta. I dati che arrivano dalla Germania sono inequivocabili, calo degli ordinativi, aumento della povertà, recessione, crisi profonda del comparto automotive. 364 grandi aziende tedesche sono fallite nel 2024. Si tratta del 30% in più rispetto a un anno prima. Quest’anno, il numero di tali fallimenti si stima in aumento di un altro 25-30% e raggiungerà livelli mai visti dal picco della crisi finanziaria globale nel 2009[1].
I fornitori di componenti automobilistici, le società di ingegneria e di costruzione, nonché il settore sanitario si trovano nella situazione più difficile. Nel settore edile si è verificato un aumento del numero di fallimenti del 53%. L’aumento dei costi e dei tassi di interesse ha creato una tempesta perfetta che ha portato a un forte calo anche nella costruzione di abitazioni che continuerà nel nuovo anno.
La CGIA di Mestre in una nota datata 11 gennaio[2] espone dati drammatici sui futuri costi energetici. Le imprese italiane dovranno sostenere 13,7 mld di spese in più nel 2025 per un conto complessivo che si aggirerà sugli 85 mld, divisi in circa 65 per la fornitura di energia elettrica e 20 per la fornitura di gas. Una marea di soldi finiranno in fumo.
Anton Jager; Iperpolitica. Politicizzazione senza politica; Nero Edizioni; Roma 2024; 15€ 158 pp.
Tre proiettili alle spalle e Brian Thompson, il CEO della United Healthcare, cade freddato a terra.
Non si fa in tempo ad avere l’identità dell’attentatore che già inizia il vociare di internet.
Sui social si brinda alla morte del capo dell’assicurazione sanitaria, si moltiplicano le testimonianze di cure rifiutate per le politiche aziendali dell’assicurazione guidata da Thompson; rifiuti che hanno determinato morti evitabili e dolori inutili, che hanno stabilito il valore della vita di ciascuno sulla base della sua affidabilità economica.
L’empatia è un ingrediente che manca totalmente nella reazione generale e questo nonostante i canali mainstream si prodighino in avvisi allarmati e condoglianze contrite, nonostante soprattutto i megainfluencer politici, Musk tra tutti, che improvvisamente cambiano registro: da commentatori spietati e virulenti, aizzatori di folle, si riscoprono moderati e ragionevoli “epperò signora mia… uccidere qualcuno non è mica una bella cosa”. Rapidamente si allarga uno spazio dove le posizioni sono molto nette, al di là di qualsiasi posizionamento ideologico.
Spazio che si fa rapidamente abisso quando diventa pubblica l’identità dell’attentatore, Luigi Mangione: italoamericano, studente brillante di buona famiglia, fisico atletico e bel viso.
La filosofa della politica Giorgia Serughetti ha dato alle stampe un libro controcorrente intitolato La società esiste (Laterza, Bari-Roma 2023, pag. 174, 18,00 euro). Il volume costituisce una critica al neoliberismo e pone il problema del suo superamento. Ma andiamo con ordine.
Serughetti interpreta la pandemia da Covid 19 (2020-2023) come l’evento che ha inflitto all’ideologia neoliberista un duro colpo perché ha dimostrato l’importanza delle strutture pubbliche e persino l’allora premier britannico, Boris Johnson, fu costretto ad ammettere l’esistenza della società altrimenti gli inglesi non sarebbero usciti dall’emergenza sanitaria.
Nella storia, si sa, i processi sociali hanno bisogno di tempo per maturare e il peso della celeberrima battuta della Thatcher, “La società non esiste”, aveva alle spalle trent’anni di concrete applicazioni finalizzate a ridurre la spesa pubblica volta a sostenere i salari e il benessere dei cittadini. Perciò non è bastata la pandemia per invertire la rotta delle politiche economiche neoliberiste. Le quali continuano ancora oggi a demolire il Welfare state e a permettere all’imprenditoria privata di appropriarsi delle risorse dello Stato.
Gran parte del libro della Serughetti è dedicato ad analizzare gli effetti sociali del neoliberismo. E bisogna dire che le sue riflessioni sono molto ben articolate, convincenti e irrobustite dalla padronanza di una notevole bibliografia.
Nonostante le grandi aspettative di cui è
riuscito a circondare il suo secondo mandato presidenziale, è
assai improbabile che Trump possa e voglia imprimere una
svolta radicale alla
politica internazionale degli Stati Uniti. E ciò per la
semplice quanto evidente ragione che le linee strategiche di
una grande potenza non
possono essere soggette a continui cambiamenti, se non sul
piano tattico e per gli aggiustamenti resi necessari
dall’evoluzione delle
situazioni, e che pertanto non è una Presidenza che imprime la
direzione, ma è questa a determinare il Presidente.
Fermo restando, quindi, che la presidenza Trump (cosa del resto chiaramente rivendicata) avrà come obiettivo la riaffermazione dell’egemonia americana, e non certo una qualsiasi apertura al multipolarismo, resta da capire come concretamente svilupperà questa linea strategica, soprattutto relativamente alle maggiori aree di crisi, ma non solo.
Se guardiamo ad esempio alla crisi ucraina, sulla quale del resto si è accentrata l’attenzione, possiamo notare come la posizione statunitense – quale si va sempre più delineando – è caratterizzata innanzitutto da un approccio riduttivo, che cioè considera il conflitto come una questione circoscritta, che va mantenuta e risolta in un ambito limitato, senza quindi affrontare i temi di fondo che invece lo sottendono, quali non solo l’appartenenza o meno dell’Ucraina alla NATO ma la sua neutralità/smilitarizzazione e, ancora più importante, una nuova architettura di sicurezza reciproca in Europa e globale. Temi questi che, per loro natura, richiederebbero appunto la disponibilità a mettere in discussione la supremazia statunitense, cosa che la nuova amministrazione non vuole e non può fare.
Ugualmente, si vede come Washington intenda conseguire il solo risultato che gli sta a cuore – ovvero la fine dei combattimenti – attraverso una politica del bastone e della carota; da un lato offrendo la prospettiva di un progressivo allentamento delle sanzioni e il riconoscimento de facto delle annessioni territoriali, accompagnati da un rinvio sine die dell’adesione di Kiev alla NATO, e dall’altro la minaccia di inasprirle e di mantenere il sostegno militare all’Ucraina, magari allargandone la facoltà di utilizzo.
Le statistiche disponibili
indicano che il pil di Cina ed India ha rappresentato
circa il 50% del totale mondiale per moltissimi secoli,
almeno dall’anno mille
(Maddison, 2007) in poi e ancora sino al 1820, con la
rivoluzione industriale inglese ormai matura. Poi la
stanchezza delle due grandi civiltà
asiatiche (incidentalmente, gli storici hanno analizzato a
lungo, ad esempio, le ragioni dello strano caso della mancata
rivoluzione industriale in
Cina prima che in Inghilterra), gli sviluppi del colonialismo
uniti al progressivo decollo dell’economia del Nord del mondo,
hanno fatto
sì che il loro peso arrivasse a stabilirsi in una frazione
ridotta del totale mondiale. Così nel 1973, sempre secondo
le analisi di
Maddison, il valore del pil dei due paesi era sceso al 7,7%.
Per moltissimi secoli l’area asiatica si è collocata al
centro
dell’economia mondiale e si è caratterizzata tra l’altro per i
rapporti, a volte sereni, a volte tempestosi, tra le due
grandi
civiltà delle pianure alluvionali da una parte e quella dei
popoli nomadi dell’Asia Centrale dall’altra. La via della
seta, che
collegava tra di loro i due paesi con quelli asiatici e poi
con l’Europa, costituiva nella sostanza il sistema nervoso
del mondo, come ha
scritto un grande storico, Peter Frankopan, facendo da trait
d’union lungo i paesi attraversati per la diffusione di
culture, religioni,
tecnologie, informazioni. Inoltre i due paesi partecipavano a
un intenso e fittissimo sistema di scambi commerciali
marittimi con gli altri paesi
asiatici.
Facciamo a questo punto un salto nel tempo. A partire dalla fine degli anni quaranta del Novecento, dopo l’indipendenza indiana e l’arrivo di Mao a Pechino, sul piano economico le cose hanno cominciato a cambiare di nuovo, con un processo che, prima abbastanza lento, è andato accelerando nel tempo, prima in Cina e ora in India. Così ormai nel 2024, secondo le cifre del Fondo Monetario, il PIL cinese, se calcolato con il criterio della parità dei poteri di acquisto, rappresenta il 19% del totale mondiale, contro il 15% circa di quello Usa, mentre da qualche anno quello indiano cresce a ritmi anche più elevati di quello dell’altro paese asiatico.
1. Il principio
logico di non-contraddizione e il principio ontologico di
contraddizione secondo Hegel
Parecchi importanti pensatori contemporanei, di orientamento analitico ma anche trascendentale, hanno preteso di confutare il sistema hegeliano appellandosi semplicemente al fatto che il metodo di Hegel, ossia la dialettica, negherebbe il principio di non-contraddizione. Tale negazione, secondo questi pensatori, tra i quali occupa un posto di primo piano Popper, vanificherebbe ogni possibilità di critica, in quanto, in base al punto di vista dell’autentico dialettico, la reductio ad absurdum non può mai essere assunta come procedimento valido. Questo modo di vedere si ritorcerebbe, comunque, contro lo stesso dialettico, poiché anch’egli non potrebbe confutare chi asserisse idee opposte alle sue, ma parimenti contraddittorie. Il principio di non-contraddizione, però, deve conservare la sua validità, anche perché dalla sua negazione può conseguire qualsiasi proposizione e in tal modo si potrebbe dimostrare tutto.1 Orbene, Popper e chi la pensa come lui hanno certamente ragione nel sostenere che una teoria che non si consideri confutata allorché se ne dimostri il carattere autocontraddittorio vanifica ogni possibilità di critica immanente. Teorie del genere vanno quindi respinte a priori come non scientifiche e bisogna considerare con la massima diffidenza quelle difese della dialettica che non lo ammettono.2
La verità è che Hegel non ha mai contestato il principio di non-contraddizione. Sennonché si potrebbe obiettare che Hegel ha addirittura incluso la contraddizione in quanto categoria nella logica e che ha sostenuto in vari passi che ogni ente si contraddice. Questo è vero, ma ciò non significa ancora violare il principio di non-contraddizione, che è la condizione di possibilità di qualsiasi critica dotata di senso. Per convincersene occorre, innanzitutto, stabilire che il principio di non-contraddizione, in quanto presiede alla consistenza e coerenza di qualsiasi argomentazione logica, deve essere così formulato: una teoria è sicuramente falsa, se incorre in contraddizioni. E ci si trova in presenza di tali contraddizioni, se una teoria asserisce qualcosa come vero, ma nel contempo dai suoi presupposti consegue che tale asserzione è necessariamente falsa.
Un mese dopo lo scatto della foto in fondo, Marwan Barghuti è stato arrestato a Ramallah dall’IDF, violando la sua immunità di deputato del parlamento palestinese. Nel 2004 è stato condannato a cinque ergastoli e a ulteriori 40 anni di prigione, per colpe a lui attribuite: attacchi suicidi della Resistenza a obiettivi militari. Dato che in nessuna di queste azioni è stato direttamente coinvolto, è stato violato il principio giuridico fondamentale secondo cui la responsabilità penale è personale.
Oggi Barghuti ha 65 anni, è in carcere da 2004, non si è difeso in tribunale perchè non gli ha riconosciuto legittimità. In ogni sondaggio in vista delle prime elezioni da tenersi nei territori occupati dal 2006, vinte da Hamas, risulta primo nelle preferenze della popolazione palestinese. In tutte le liste di prigionieri che, nei vari scambi considerati nel corso dei negoziati tra il 2023 e oggi, Hamas ha collocato Barghuti al primo posto. All’atteggiamento di apertura e di laicismo e al rispetto per la volontà degli elettori, così manifestato da Hamas, il governo dello Stato sionista ha sistematicamente opposto un rifiuto netto.
Oggi, nelle fasi successive a quella della cessazione del fuoco e del primo scambio di prigionieri, fasi 2 e 3 già valutate improbabili dal regime di Tel Aviv, il quasi novantenne presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si è candidato, ed è stato candidato dagli sponsor esterni della tregua, all’amministrazione, in congiunzione con altri paesi, della Striscia di Gaza “liberata” dalla presenza di Hamas e delle altre forze della Resistenza.
Hanno un bel sollevare baccano, a Londra, per il cosiddetto accordo che, a parole, dovrebbe garantire un “partenariato centenario” con l’Ucraina golpista: il problema principale per la junta nazista, quello della carenza di carne umana da mandare al macello rimane e anzi si fa sempre più critico.
Il documento sottoscritto a Kiev dal premier britannico Keir Starmer e Vladimir Zelenskij, mentre Londra, parallelamente, sta discutendo con Parigi l’invio di un “contingente di pace” in Ucraina, ha appena appena un aleatorio valore simbolico, mettendo nero su bianco che il sostegno inglese (d’altronde, Londra ha finora destinato appena il 3% di tutte le somme ricevute da Kiev per la guerra) non ha nulla da invidiare al cosiddetto “impegno” franco-britannico sulla Polonia nel 1939: in sostanza, che se la sbrighino da soli e, in ogni caso, è scritto che solo l’adesione «alla NATO rappresenta la migliore garanzia per la sua sicurezza».
Il breve documento, di soli 14 articoli, non prevede nemmeno obblighi specifici su alcunché e può essere annullato con una semplice notifica di una parte all’altra. Non paghi, gli inglesi, nella loro migliore tradizione coloniale, hanno incluso nell’ultimo articolo la dizione che «i due testi sono equivalenti. In caso insorgano divergenze di interpretazione, prevale il testo inglese». Che ne dite?
La decisione da parte del governo statunitense di mettere al bando TikTok sta provocando effetti inaspettati assolutamente deleteri del regime di Washington. L’applicazione “cinese” è sempre stata oggetto d’attacchi da parte degli Stati Uniti, in particolare per la sua crescente popolarità, osteggiata da Meta e da Elon Musk, e per il ruolo che essa ha avuto nel diffondere le immagini del genocidio di Gaza occultate dal resto dei social-network, Facebook in primis.
TikTok è stata, a torto, accusata di essere uno strumento del governo cinese e di rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale, per cui l’amministrazione Biden, dopo aver offerto come unica soluzione la vendita a soggetti statunitense, ha deciso per il ritiro di essa dal mercato USA entro il 20 di gennaio. Gli utenti statunitensi di TikTok sono più di 150 milioni, superiori di un terzo a quelli di X e pari al 15% del totale mondiale. La notizia del probabile blocco dell’applicazione ha portato molti di questi a cercare alternative. Per uno strano scherzo del destino, l’alternativa è stata trovata in “RedNote”, meglio conosciuta come Xi?ohóngsh?, letteralmente “Libretto Rosso”, una piattaforma social squisitamente cinese la cui utenza, fino a pochi giorni fa, era composta per la stragrande maggioranza di cittadini della Repubblica Popolare.
In pochissimi giorni RedNote è diventata l’applicazione più scaricata negli Stati Uniti, con milioni di nuovi utenti, di cui 700.000 solo nei primi due giorni.
Il sistema internazionale durante la Guerra Fredda era organizzato in condizioni estremamente a somma zero. C’erano due centri di potere con due ideologie incompatibili che si basavano sulle continue tensioni tra due alleanze militari rivali per preservare la disciplina di blocco e la dipendenza dalla sicurezza tra gli alleati. Senza altri centri di potere o una via di mezzo ideologica, la perdita per uno era un guadagno per l’altro. Tuttavia, di fronte alla possibilità di una guerra nucleare, c’erano anche incentivi per ridurre la rivalità e superare la politica dei blocchi a somma zero.
Le fondamenta di un’architettura di sicurezza paneuropea per mitigare la competizione in materia di sicurezza sono nate con gli accordi di Helsinki del 1975, che hanno stabilito regole del gioco comuni per l’Occidente capitalista e l’Oriente comunista in Europa. Il successivo sviluppo della fiducia ha ispirato il “nuovo pensiero” di Gorbaciov e la sua visione gollista di una casa comune europea per unificare il continente.
Nel suo famoso discorso alle Nazioni Unite del dicembre 1988, Gorbaciov annunciò che l’Unione Sovietica avrebbe ridotto le sue forze militari di 500.000 soldati e che 50.000 soldati sovietici sarebbero stati rimossi dal territorio degli alleati del Patto di Varsavia. Nel novembre 1989, Mosca ha permesso la caduta del Muro di Berlino senza intervenire. Nel dicembre 1989, Gorbaciov e Bush si incontrano a Malta e dichiarano la fine della guerra fredda.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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In una intervista/dibattito su YouTube con Varoufakis, David Wengrow, archeologo e uno dei due autori de ‘L’alba di tutto’ (v. 1), porta una critica radicale alla teoria dell’evoluzione umana basata sui salti della tecnologia (bronzo, ferro, agricoltura…) che non è compatibile, dice, coi dati che abbiamo accumulato negli ultimi vent’anni.
Le svolte vere sono state invece nelle forme di organizzazione sociale, da ventimila anni fa in poi; e la cosa interessante, sottolinea, è il fatto che non hanno seguito un percorso lineare (come nella vulgata sette-ottocentesca: dai cacciatori primitivi poveri e malaticci agli agricoltori col surplus e di qui a salire trionfalmente fino al capitalismo..) ma hanno seguito tanti rami diversi, spesso anche in modo ciclico (un ramo viene abbondanato da un parte e ripreso da un’altra).
Solo in epoca moderna questo va a coincidere con l’affermazione di Marx, ‘la storia è storia delle lotte di classe’, il che se da una parte è una conferma dall’altra mostra il depauperamento della storia stessa, il suo appiattimento in termini di gradi di libertà.
Ed è proprio la fase capitalistica che vede il più stretto legame tra rapporti sociali di produzione e scienza e tecnica: se la lunga fase dell’accumulazione primitiva crea la forza-lavoro libera per le fabbriche, è la macchina a vapore che crea il dominio dell’industria; anche se con un piccolo aiutino imperiale, dato che la concorrenza delle tessiture bengalesi viene eliminata non grazie alla ‘mano invisibile del mercato’ ma tagliando il pollice dei capifamiglia. Questo connubio forza tecnica-forza militare è carattere precipuo del capitalismo, seppure in dosi diverse in periodi diversi. Rispetto alla tecnica la scienza è insieme madre e figlia: le conoscenze scientifiche generano le tecniche, la tecnica propone le domande di cui la scienza si alimenta; anche se per tutto l’ottocento c’è un vortice continuo che mescola scienziati, inventori, artigiani arrivando solo a fine secolo ad una chiara distinzione dei ruoli e delle sedi.
Il libro scritto da Gianfranco La Grassa e Maria
Turchetto Dal capitalismo alla società di transizione è
un buon esempio per indagare il La Grassa comunista che può
ancora fornire degli spunti interessanti per ragionare sul
problema della transizione a un altro modo di produzione. La
Grassa e Turchetto prendono le
mosse dal tentativo nei settori del movimento operaio di
allora di mettere tra parentesi le esperienze di socialismo
prodottesi nel mondo. Sembra che
debba essere messa sotto il tappeto quella storia e che in
ogni caso il movimento operaio occidentale non commetterà gli
stessi errori. Si
tratta di un atteggiamento da struzzo che si preclude la
possibilità di analizzare gli insegnamenti provenienti dai
paesi che hanno avviato la
transizione socialista. Gli autori rifiutano categoricamente
questo atteggiamento e cercano di dare il loro contributo al
problema criticando le idee
prevalenti in merito. L’obiettivo principale da colpire è
l’economicismo che si basa sull’idea della centralità dello
sviluppo delle forze produttive, provocato da un progresso
tecnologico che in fondo è neutrale e può essere riadattato
per costruire il
socialismo. Questa tesi è affiancata dalla neutralità degli
apparati statali il cui sviluppo può essere usato per la
pianificazione economica orientata al massimo soddisfacimento
dei bisogni delle masse. Le tecniche produttive capitalistiche
e le tecniche del
controllo statale, piegate al soddisfacimento dei bisogni
della collettività, esprimerebbero tutte le loro potenzialità
insite nella
socializzazione della produzione che hanno generato portando a
uno sviluppo senza precedenti delle forze produttive
inizialmente ostacolato dalla
proprietà privata dei mezzi di produzione. Lo sviluppo delle
forze produttive così conseguito allieverebbe le fatiche dei
lavoratori,
riducendo l’orario di lavoro e creando le premesse di
un’istruzione e di una cultura di massa sempre crescenti. Ciò
porterà
alla possibilità da parte della collettività di gestire gli
affari dello Stato e alla formazione dell’uomo nuovo. Da
simili tesi
è facile giungere a conclusioni come lo Stato operaio
degenerato a causa delle condizioni di arretratezza in cui si
trova a dibattere il primo
stato socialista.
Ricevo dall'amico Piero Pagliani questa fotografia della situazione geopolitica mondiale nel momento del cambiamento di leadership al vertice Usa [Carlo Formenti]
«Tu sei la prima ragione, tutti i tuoi sogni sono la seconda»
Alla presenza dei personaggi istituzionali, di Giorgia Meloni come unico leader europeo invitato, e del gotha del Big Tech al completo (che aveva sempre sostenuto i Dem), con l'assenza di Zelensky, Netanyahu e von der Leyen e delle rinunciatarie Nancy Pelosi e Michelle Obama, Donald Trump si è insediato alla Casa Bianca.
Il suo discorso inaugurale è stato reazionario-libertarian. Un discorso ultranazionalista (normale per i presidenti statunitensi), che ha toccato vari punti. La sicurezza/immigrazione (con punte estremiste a lui consone: gli irregolari sono tout court criminali), dazi e protezionismo contro chiunque, il ritorno deciso e aggressivo al fossile (con ringraziamento ai lavoratori dell'industria dell'auto) senza la minima preoccupazione ecologica (ma con il “verde” Biden l'estrazione di gas e di petrolio ha già raggiunto punte non superabili), la fine delle censure (woke) e il ritorno alla “piena libertà d'espressione”, il ritorno al primato militare ma anche la pace e il rifiuto a farsi invischiare in guerre (ha giustamente rivendicato la tregua a Gaza, la fine, per ora, di quel genocidio che Biden ha sostenuto ed è stato una delle cause della sconfitta Dem).
E’ balzata agli occhi persino di alcuni media mainstream la differenza di condizioni al momento del rilascio tra le tre donne israeliane in ostaggio a Gaza e quella di molte prigioniere palestinesi liberate domenica sera dalle carceri israeliane.
In particolare le immagini della dirigente palestinese Khalida Jarrar – sulla cui condizione avevamo pubblicato diverse denunce nei mesi scorsi – testimoniano la brutalità delle condizioni di detenzione alle quali gli israeliani sottopongono i e le prigioniere palestinesi. Una immagine decisamente in contrasto con quella dei tre ostaggi che pure uscivano da un periodo di coercizione/detenzione nelle mani dei palestinesi a Gaza.
Le tre israeliane erano state catturate il 7 ottobre 2023, Khalida Jarrar il 26 dicembre 2023, cioè due mesi e mezzo dopo, anche se il suo era solo l’ultimo di ripetuti arresti in condizione di detenzione amministrativa, ovvero senza limiti di tempo e senza accuse formulate o formalizzate. Un periodo di coercizione simile – chi nei tunnel di Gaza e chi in un carcere “ufficiale” – hanno restituito però prigioniere in condizioni molto diverse, indicando un trattamento dei prigionieri ben diverso e che rivela come “una democrazia” come Israele possa essere più brutale di una organizzazione non statale e definita “terrorista”.
Un paio di giorni fa la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum contro la Legge sull’autonomia differenziata fortemente voluta dal ministro Calderoli. Si tratta di una decisione gravissima, che a io parere non ha nulla a che vedere con la giurisprudenza e con la legalità, come si evince dalle motivazioni con cui la Corte ha detto che il referendum non era ammissibile.
La prima sarebbe che “l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari”. Ora, visto che il quesito richiedeva l’abrogazione completa di quello che rimane della legge Calderoli dopo la precedente sentenza della Corte Costituzionale – come si faccia a dire che il quesito non era chiaro risulta difficile da capire. La legge in oggetto, modificata dalla Corte, è funzionale alla realizzare l’autonomia differenziata nei limiti della Costituzione e cioè ha una finalità assolutamente chiara. Il quesito referendario, proponendo di abrogare questa norma, si poneva un obiettivo altrettanto chiaro: di non realizzare l’autonomia differenziata. I cittadini che erano favorevoli all’autonomia differenziata – sia pure in una forma più light di quella perorata da Calderoli – avrebbero votato NO e invece i cittadini che erano contrari a ogni autonomia differenziata avrebbero votato SI. Dire che vi era un quesito poco chiaro oltre alla coscienza democratica del paese offende la logica.
Così anche Franco Piperno, quel signore ironico e sorridente con un cappello a larghe falde e una sciarpa rossa, ebreo calabrese e rivoluzionario comunista, ci ha lasciati. Per me, che ho sempre seguito con vivo interesse le sue lezioni politiche, intellettuali e umane, forse non è stato un maestro, ma un fratello maggiore degno del massimo rispetto e della massima attenzione, sì.
Vorrei ricordarlo con due miei scritti del 2008, entrambi pubblicati dal quotidiano «La Prealpina», che documentano lo scambio polemico che ebbi con un esponente politico del Pd a partire da un articolo in cui, prendendo spunto da un significativo episodio che Piperno racconta nel suo libro "'68. L'anno che ritorna", ponevo in luce la natura, la politica e lo stile non proletari di un famoso dirigente della Cgil.
* * * *
Nel bel libro di Franco Piperno sul “’68. L’anno che ritorna”,1 di cui consiglio vivamente la lettura a chi intenda comprendere “l’eredità di una stagione di protesta nelle parole di un protagonista” (come sta scritto nella quarta di copertina), è raccontato un incontro tra la “Commissione Fabbriche” del movimento studentesco romano e i dirigenti della Fiom nazionale.
La schizofrenia di NATO e UE, le cui
dirigenze parlano ormai in fotocopia circa la guerra in
Ucraina al netto del fatto che i due organismi sono composti
in buona parte dagli stessi stati
membri, sta raggiungendo il culmine in questi ultimi sgoccioli
dell’Amministrazione Biden.
Lo si avverte da numerosi indicatori, inclusa l’evidente irritazione avvertibile in molte cancellerie europee per la possibilità che Donald Trump possa aprire un negoziato che concluda il conflitto in Ucraina.
Una “paura della pace” (o di una “pace non giusta” per citare un’espressione spesso utilizzata dalla politica europea), che tradisce il timore fondato che l’Europa venga ancora una volta tagliata fuori da un negoziato USA – Russia e relegata al solito ruolo di comparsa.
Un timore che colpisce anche l’Amministrazione Biden uscente che nell’aprile 2022 impedì a Kiev di accettare l’accordo con Mosca mediato dalla Turchia e che pochi mesi più tardi, come ha rivelato oggi il New York Times, scoraggiò gli ucraini ad aprire trattative con i russi sull’onda dei successi appena conseguito con le controffensive nelle regioni di Kharkiv e Kherson. All’epoca fu il capo degli stati maggiori riuniti, generale Mark A. Milley, a suggerire tale iniziativa agli ucraini ma il segretario di Stato Antony Blinken (peraltro di origini ucraine) la cassò, convinto che la guerra dovesse continuare.
La preoccupazione che Trump possa trovare una soluzione negoziata al conflitto traspare anche dalla nuova narrazione con cui UE e NATO cercano in ogni modo di nascondere quanto sta avvenendo sui campi di battaglia da cui, ci avrete fatto caso, giungono dai media notizie sempre più scarse mano a mano che la situazione per gli ucraini si aggrava.
Occultate o messe al bando le quotidiane evoluzioni belliche a vantaggio dei russi che giungono dai fronti di Kursk, Pokrovsk, Toretsk, Chasov Yar e dalla regione di Kharkiv (di cui ci occupiamo con qualche dettaglio in un altro articolo), dai vertici occidentali emergono dichiarazioni che suscitano perplessità, poiché del tutto prive di pragmatismo e realismo.
Che lo sperpero del proferire non sia pretesto al / tacere/ Che la
rapina del
significare/ non sia la tomba di ogni giudizio.
Haiku senza Haiku* Progetto ispirato da Juan Sorroche-AS2 c.c. Terni
Vengono fatte con continuità puntuali ricerche storiche, lucide analisi politiche, dotte disquisizioni sul sesso degli angeli, ma quasi nessuno/a si occupa di analizzare la quotidianità in termini di classe. Quei pochi/e che lo fanno sono avvolti nel silenzio se non demonizzati e stigmatizzati anche nella così detta sinistra. E questo già la dice lunga. Invece dovrebbe essere un esercizio di cui ci dovremmo far carico con urgenza per evitare che lo scollamento tra teoria e prassi ci faccia perdere di vista che è sulla lettura di quello che accade nel quotidiano che si costruisce il comune sentire. E’ un compito che ci dobbiamo assumere per evitare di dare sponda alla costruzione del nemico interno che sta operando con sistematicità e da molto tempo il capitalismo neoliberista attraverso tutto l’arco partitico compresi annessi, connessi e collaterali, media in prima linea.
Il modello di destra, che è fondamentalmente fascista, punisce e reprime i subalterni che non stanno al loro posto, il modello socialdemocratico, politicamente corretto e decorosamente reazionario, li annichilisce fisicamente e psicologicamente. I subalterni devono essere sempre grati.
Qualche tempo fa, il ministro Giuseppe Valditara ha dichiarato in seguito all’aggressione da parte di un gruppo di genitori a una professoressa di sostegno in una scuola in provincia di Napoli, nel plesso di Scansano, che siamo di fronte ad un “imbarbarimento di una società sempre più violenta”.
Sui giornali, nei media, sui social, nei telegiornali di ogni ordine e tipo rimbalzano tutti i giorni notizie sulla violenza della società: ragazzi, addirittura minorenni, si affrontano durante la movida con coltelli, armi da fuoco, qualche volta qualcuno rimane ucciso senza un motivo reale, dicono i media, oppure per un pestone su un costoso paio di scarpe.
Abbiamo aspettato una
manciata di giorni per non farci trascinare dall’euforia e
tirare un filo a piombo sui fatti eccezionali che si sono
realizzati in Palestina.
L’uscita dalla crisi di Israele e dell’Occidente nel dominare
il Medio Oriente richiederebbe la soluzione finale della
questione
palestinese attraverso la distruzione totale di Gaza come
elemento storico necessario oggi come lo fu per il liberismo
la distruzione di Dresda nel
1945 a Germania già sconfitta, la deportazione totale dei
palestinesi e l’eliminazione di Hamas come condizione sine qua
non a definire
la vittoria di Israele e di riflesso di rilanciare il peso
dell’Occidente. Nonostante un genocidio il popolo palestinese
non si ritiene
sconfitto e lo Stato di Israele, e indirettamente gli Stati
Uniti, è stato costretto a trattare con la Resistenza
palestinese rappresentata da
Hamas. Pertanto tutti quelli che suonavano le campane a morte
e consigliavano ai palestinesi di arrendersi sono chiamati a
rivedere il proprio
orientamento teorico e politico: quello che si profila è una
prima sconfitta storica dello Stato di Israele in 77 anni
dalla sua fondazione da
parte della Resistenza palestinese.
In questi giorni abbiamo seguito in uno stato di fibrillazione il susseguirsi dei colpi di scena intorno al decisivo conflitto in Medio Oriente e in Palestina, che vede da una parte l’Occidente schierato a sostegno del genocidio del popolo palestinese da parte di Israele e la tenacia delle forze della resistenza del popolo palestinese e di Hamas che incarnano le necessità e la forza della disperazione di un popolo oppresso e martoriato.
L’annuncio da parte dei mediatori degli Stati del Golfo e poi anche da parte degli Stati Uniti sul raggiungimento dell’accordo per il “cessate il fuoco” tra Israele e Hamas, dunque dell’inizio della tregua dell’assedio di Gaza e dei massacri indiscriminati contro le masse della Striscia, aveva colto il mondo di sorpresa. Anche se il governo israeliano non si era ancora espresso ufficialmente, a Gaza la gente in massa ha immediatamente celebrato la notizia.
Negli ultimi giorni, mentre si prepara la successione di Trump a Biden, la vicenda di Tiktok si è guadagnata uno spazio nelle notizie della politica internazionale. L’amministrazione trumpiana promette di trovare una soluzione e, da questa notte, l’app è tornata sugli store americani. Nel frattempo, in Occidente e in particolare negli Stati Uniti, l’applicazione Rednote, una sorta di Instagram cinese, si è diffusa moltissimo. Il nome originale dell’app è Xiaohongshu, la cui traduzione, libro/libretto rosso, rende la vicenda ancora più intrigante.
Popolarissima in Cina, usata principalmente dalla Generazione Z (al 70%) e dalle donne (80%), è approdata anche sul mercato americano, registrando fin da subito moltissimi iscritti e dando vita, così, a un inaspettato scambio culturale fra utenti. Quello che ne è venuto fuori ha veramente dell’incredibile: per la prima volta una parte della società americana si è confrontata con i miti propagandati in Occidente sulla Cina, spesso rappresentata come una patria di schiavi incapaci di esprimere giudizi sul mondo e automi completamente alienati. Un quadro che risulta essere il frutto di una propaganda esasperata e sinofoba che, invece, non si interessa realmente delle vere criticità di quel sistema. Così, in questo processo di scoperta della vita dei cinesi, per moltissimi statunitensi è stato uno shock scoprire che nel paese del dragone le persone hanno amici, famiglie, diritti, interessi e che non sono, come dice un utente, dei “mostri non umani” ma che, al contrario, si possono persino sviluppare amicizie virtuali con persone che abitano in Cina.
I 4 fratelli si schierano per Trump: Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sundar Pichai ed Elon Musk... I fratelli tecno-guerrieri dell’apocalisse
E’ chiaro che il complesso tecno-militare plasmerà non solo la nuova amministrazione, ma anche la società americana, esacerbando la crescente interdipendenza tra potere statale e interessi aziendali. Forse la cosa più sorprendente di tutte, però, è ciò che il complesso tecno-militare dice della piattaforma politica di Trump. Il nuovo presidente si è presentato come un anti-interventista e come un candidato di pace, eppure la sua amministrazione è strettamente allineata con le aziende che contano sul perpetuare il militarismo statunitense. La fissazione dei tecno-guerrieri per la Cina esemplifica questa dinamica, poiché la tensione con la Repubblica Popolare offre ampie opportunità alle aziende di difesa ad alta tecnologia. Finché le aziende che prosperano sulla guerra continueranno a esercitare influenza sulla politica estera americana, è improbabile che il paese sarà mai in grado di liberarsi dalle sue tendenze affamate di guerra.
Poco prima di lasciare la Casa Bianca, nel gennaio 1961, il presidente Eisenhower mise in guardia contro il “complesso militare-industriale”, descrivendo come le aziende della difesa e i funzionari militari cospirassero per plasmare indebitamente la politica pubblica. Joe Biden, 64 anni dopo, dedicò il suo messaggio di commiato a temi simili. Evocò una nuova oligarchia, un complesso “tecno-industriale” che risucchia il potere nella Silicon Valley a spese del popolo americano.
L’ART. 31 DEL DDL SICUREZZA – Postdemocrazia. Il testo apre alla possibilità che le università consegnino informazioni su docenti e studenti e anche i risultati delle ricerche svolte
Postdemocrazia: il neologismo di Colin Crouch sembrava una categoria astratta per politologi, un’etichetta catastrofista. E invece ora l’abbiamo vista: con il capo (rigorosamente al maschile) di un importante governo occidentale ammesso al bacio della pantofola alla corte privata di Mar-a-Lago, a mostrare ‘rispetto’ al padrone del mondo nella sua villa da miliardario pazzo uscita dal Satyricon di Fellini. Eccola la postdemocrazia: niente più spazio pubblico, niente decisioni prese in pubblico, niente parlamenti e nemmeno governi. Somiglia a qualcosa che conosciamo bene: l’oligarchia, il governo dei più ricchi. Il potere militare di quella che è ancora la superpotenza mondiale, il capitale dell’uomo più ricco del mondo, il controllo dei media e dei social media: contro questo buco nero della democrazia ci sarebbe solo un rimedio, il pensiero critico. Sarà per questo che il vicepresidente eletto David Vance ha detto, per tempo, che “le università sono il nemico”: “Penso che il modo di fare di [Orbán] debba essere un modello per noi: non eliminare le università, ma dare loro la possibilità di scegliere tra la sopravvivenza e l’adozione di un approccio all’insegnamento molto meno parziale”. La cortigiana di Mar-a-Lago è veloce a imparare le lezioni, specie quando le sono congeniali: e dunque anche da noi l’università è diventata un nemico.
L’antica dottrina secondo cui il male non è che la privazione del bene e pertanto in sé non esiste, va corretta e integrata nel senso che esso non è tanto la privazione, quanto piuttosto il pervertimento del bene (con il codicillo, formulato da Ivan Illich, corruptio optimi pexima, «non vi è nulla di peggio di un bene corrotto»). Il nesso ontologico col bene in questo modo permane, ma resta da pensare come e in che senso un bene può pervertirsi e corrompersi. Se il male è un bene pervertito, se in esso riconosciamo ancora una figura guasta e stravolta del bene, come possiamo combatterlo quando ce lo troviamo oggi di fronte in tutte le sfere del vivere umano?
Una corruzione del bene era familiare al pensiero classico nella dottrina politica secondo cui ciascuna delle tre forme rette di governo – la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia (il governo di uno, dei pochi o dei molti) – degenerava fatalmente in tirannide, oligarchia e oclocrazia. Aristotele (che considera la stessa democrazia una corruzione del governo dei molti) si serve del termine parekbasis, deviazione (da parabaino, spostarsi a fianco, parà). Se chiediamo ora verso dove esse hanno deviato, scopriamo che hanno per così dire deviato verso sé stesse. Le forme di costituzione corrotte somigliano, infatti, a quelle sane, ma il bene che in esse era presente (l’interesse comune, il koinon) si è ora rivolto al proprio e al particolare (idion). Il male è, cioè, un certo uso del bene e la possibilità di quest’uso perverso è iscritto nello stesso bene, che in questo modo esce fuori di sé, si sposta per così dire a fianco di sé stesso.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Se in Tecnoluddismo
1/2 ci si è occupati della prima parte del
volume di Gavin Mueller, Tecnoluddismo.
Perché odi il tuo lavoro (Nero, 2021), in cui vengono
tratteggiate le ragioni delle conflittualità nei confronti
delle tecnologie e
dell’automazione introdotte nei processi produttivi espresse
dai lavoratori nel corso dell’Ottocento e della prima metà del
secolo
successivo, in questo scritto si farà riferimento al “luddismo
hi-tech” il cui avvio può essere fatto risalire alla comparsa
sulla scena del computer.
Come ricorda Mueller, i movimenti studenteschi statunitensi degli anni Sessanta furono i primi a «politicizzare i computer»; se nella quotidianità le schede perforate rappresentavano ai loro occhi burocrazia, censimento e controllo, non mancarono di cogliere il ricorso dell’apparato militare agli elaboratori nella pianificazione delle operazioni nel teatro di guerra vietnamita.
«Il passaggio a strategie basate sulla raccolta di dati quantitativi e sull’analisi automatizzata rappresenta un cambiamento radicale nella cultura militare». A ribadire le analogie tra la logica militare e quella industriale è il fatto che entrambe faranno ricorso a metriche quantitative; non a caso, ricorda lo studioso, a guidare la riqualificazione militare fu chiamato il segretario della Difesa, Robert McNamara, che precedentemente aveva fatto ricorso all’analisi statistica nella ristrutturazione della Ford. «L’automazione della guerra, come l’automazione dell’industria, era uno strumento fondamentale per riaffermare il controllo sui soldati ribelli in Vietnam». Esattamente come avveniva nelle fabbriche, anche in Vietnam erano sempre più frequenti gli atti di insubordinazione e sabotaggio, tanto che si pensò di sostituire le resistenze della fanteria con il ricorso a bombardamenti aerei sempre più automatizzati così come nelle fabbriche si tentava di ovviare alle insorgenze operaie attraverso l’automazione della produzione.
Nel corso degli anni Settanta la posizione degli attivisti nei confronti del computer prende due diversi indirizzi; uno, minoritario, antitecnologico, e un secondo, decisamente maggioritario, propenso a vedere nel computer uno strumento che avrebbe potuto favorire, soprattutto a partire dalla commercializzazione delle apparecchiature, pratiche di liberazione personale su cui si sarebbe poi sviluppato l’internet-attivismo.
Trump ha dichiarato
apertamente guerra al vecchio ordine mondiale frutto di 40
anni di globalizzazione neoliberista (che, detta così, suona
anche parecchio bene),
se non fosse che il modello proposto assomiglia da vicino
all’era dei conflitti inter-imperialistici che ci ha portato
dritti a due guerre
mondiali e che Trump inaugura con una valanga di regali
senza precedenti alle multinazionali USA, che
dovranno essere finanziati
tassando in varie forme il resto del pianeta; e, quando le
tasse coloniali non basteranno, annettendo direttamente le
aree che più gli
interessano. Con stupore di tutti – a essere onesti –
nonostante la produzione da record di ordini esecutivi nelle
prime 24 ore di
mandato, sul fronte dei dazi e della guerra commerciale per
ora Trump ha fatto solo annunci: il primo è stata la minaccia
di dazi del 25% per i
veicoli che arrivano da Messico e Canada, dove vengono
prodotti il 40% dei veicoli venduti ogni anno negli USA, in
parte non irrilevante da produttori
europei – a partire da Stellantis che, ricordiamo,
significa anche marchi come Chrysler, Jeep e
Dodge; anche
Volkswagen subirebbe una botta gigantesca, a partire
dal suo mega-stabilimento di Puebla, che da solo produce oltre
450 mila veicoli
l’anno, l’80% dei quali è destinato al mercato USA.
Come degli Zuckerberg qualsiasi, le case automobilistiche però, invece che incazzarsi, hanno sconigliato e sono corse da Re Donald per promettere che si adegueranno ai suoi diktat: John Elkann, dopo essere entrato nel CDA di Meta, come il capo Mark si è trasformato ormai in una sorta di militante MAGA; Volkswagen, invece, ha rafforzato il suo impegno per i 10 miliardi di investimento per lo stabilimento di Chattanooga e per la joint venture col marchio locale Rivian. Tutti soldi che, ovviamente, verranno tolti dagli investimenti in Europa, dove non c’è nessun Trump che prenda per le orecchie la casa automobilistica e la costringa a fare gli investimenti necessari per evitare la prima chiusura nella storia del gruppo di 3 stabilimenti in Germania.
Tratto da Anwar Shaikh, Introduzione alla storia delle teorie sulla crisi, in U.S. Capitalism in crisis, U.R.P.E New York, 1978, Traduzione 2012 a cura di Antiper
Sin dall’inizio, la visione del
laissez-faire di un capitalismo armonioso e privo di crisi è
stata tormentata da una altrettanto vecchia e persistente
visione di un
capitalismo strutturalmente incapace di accumulazione. [In
questa visione] si assume che le forze interne del sistema
possano al più riprodurlo
in modo stazionario: ma, se stagnante, il capitalismo degenera
rapidamente. La competizione mette gli uni contro gli altri, e
non c’è
crescita che qualcuno possa realizzare se non a discapito di
qualcun altro. Capitale contro capitale, lavoratore contro
lavoratore, classe contro
classe. O l’antagonismo diventa troppo intenso e il sistema
esplode oppure degenera in una società (come la Cina di una
volta) nella
quale una ristretta élite di potere grava su una condizione di
povertà di massa e di miseria umana. In entrambi i casi, un
capitalismo
che non accumula non dura a lungo.
È interessante osservare come questo argomento a confutazione si basi sullo stesso assunto originario della teoria che attacca. La teoria ortodossa ha sempre sostenuto infatti che lo scopo finale di tutta la produzione capitalistica è quello di produrre per il consumo: ciò che non viene consumato viene ora reinvestito nella produzione allo scopo di garantire un consumo futuro. In tutti i casi è il consumo che detta legge. Nell’oscurità della teoria sotto-consumista, questa stessa nozione dovrebbe diventare un’arma per attaccare il capitalismo.
Attraverso la lunga e complessa storia di questo ramo di teoria della crisi, ricorre di continuo il seguente argomento: sì, il regolatore finale di tutta la produzione è nei fatti il consumo, attuale o futuro; d’altra parte, la produzione capitalistica non risponde ai bisogni, ma al potere di acquisto; non alla domanda, ma alla domanda “effettiva” (cioè a dire, la domanda solvibile). E tale è la natura contraddittoria della produzione capitalistica che, ove lasciata a sé stessa, è incapace di generare sufficiente domanda effettiva per supportare l’accumulazione. I meccanismi intrinseci del sistema, in altre parole, tendono a condurlo verso la stagnazione: esso necessita pertanto di fonti esterne di domanda effettiva – esterne ai suoi meccanismi fondamentali – al fine di continuare a crescere.
Chiedo scusa in anticipo per lo sfogo, ma è francamente insopportabile sentire l'ennesima discussione compunta o scandalizzata sul braccio teso di Elon Musk.
E' francamente deprimente scoprire (riscoprire, per l'ennesima volta) che l'intellighentsia progressista (ma non solo) del paese è così totalmente incapace di analizzare la realtà per quello che è, di guardare la storia corrente per quello che è, senza proiettarvi sopra fantasmi artificiali.
Cosa abbia inteso fare o dire Elon Musk con le sue scomposte gesticolazioni sul palco è un NON-PROBLEMA.
Non perché si tratti di cercare scuse, giustificazioni o altro. Quand'anche Musk avesse, in perfetta lucidità, premeditatamente e senza alterazioni dovute a sostanze psicotrope, deciso di evocare un saluto romano con intenti nostalgici, questo è UN FALSO PROBLEMA.
Davvero è sconsolante vedere la povertà categoriale di una grandissima parte dell'"intelligenza politica", che per la millemillesima volta dimostra di entrare in allerta soltanto quando si utilizzano paroline di un secolo fa ("fascismo", "nazismo", "Shoah", ecc.).
Santo cielo, viviamo in un altro mondo, in un'altra epoca, con altri problemi, con presupposti sociali e materiali completamente incompatibili con quelli in cui sono emerse le dittature degli anni '20 e '30.
Avevo
espresso il sospetto che sotto sotto il Cremlino preferisse
vedere alla Casa Bianca Kamala Harris piuttosto che Donald
Trump. Successivamente Putin
sembrò confermarlo al Forum economico di Vladivostock: «Prima
avevamo Biden come favorito, ma è stato escluso dalla corsa.
Lui ha
raccomandato a tutti i suoi sostenitori di appoggiare Harris,
quindi lo faremo anche noi… lei ha una risata così contagiosa,
il che vuol
dire che le cose le vanno bene».
In realtà stava facendo dell'ironia sull'ennesima accusa di “interferenza” nelle elezioni statunitensi e sul perenne riso della Harris sul quale già ironizzavano gli americani stessi.
Ciononostante, trapelavano informazioni sulla “preferenza” russa per un'amministrazione Dem, più prevedibile e uniforme, rispetto a un'amministrazione Trump erratica e contraddittoria. Per il Cremlino l'Operazione Militare Speciale in Ucraina stava andando come doveva andare. Idem per le sanzioni contro la Russia [1]. La continuità dell'azione statunitense avrebbe inintenzionalmente ma inevitabilmente garantito l'indebolimento di Kiev, degli Usa, della Nato e della UE secondo modalità ormai sperimentate che finora erano rimaste al di qua dell'irreparabile e permettevano a Mosca di esercitare la propria “escalation dominance”. Per contro con Trump l'unica cosa garantita era il proseguimento dell'atteggiamento ostile verso la Russia, così scontato che Dmitri Medvedev, forse la persona più importante in Russia dopo Putin, ha dichiarato che per ripristinare normali relazioni con gli Stati Uniti ci vorranno decenni, addirittura chiedendosi se è davvero necessario farlo [2].
D'altra parte, se era stato Obama a iniziare il conflitto in Ucraina col golpe nazista della Maidan curato dalla sua plenipotenziaria Victoria Nuland, durante il suo primo mandato Trump aveva preparato l'esercito di Kiev all'invasione del Donbass e se possibile della Crimea, armandolo fino ai denti e riorganizzandolo, approfittando slealmente degli accordi di Minsk, e aveva sommerso la Russia di sanzioni come mai prima [3].
Con la morte di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss delle stragi, in Italia si è voltato pagina”. Questo l’incipit dell’ultimo libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso intitolato “Una cosa sola. Come le mafie si sono integrate al potere”
L’altra settimana, il 14 di gennaio, sono stati arrestati 15 mafiosi a Messina, dediti allo smaltimento di rifiuti urbani, di rifiuti speciali e rottamazione di veicoli. L’attenzione investigativa alle condotte di queste persone è stata realizzata mediante intercettazioni che hanno rilevato l’impedimento di una rendicontazione aziendale mediante una denuncia sulla perdita di registri, cioè ostacolo alla verifica di utilizzo di un mercato nero in cui sarebbero avvenute vendite senza fatturazione. Abbandonando l’evento cronachistico non nuovo e soprattutto non ultimo in questo paese, e non solo, proviamo a riparlare di mafia chiedendoci come mai emerga solo in fase di arresti, merito di indagini e interventi di polizia, mentre a livello politico e culturale è silenziata ogni problematica o riflessione sull’esistenza, espansione e soprattutto attività mafiosa funzionale.
“Con la morte di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss delle stragi, in Italia si è voltato pagina”. Questo l’incipit dell’ultimo libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso intitolato “Una cosa sola. Come le mafie si sono integrate al potere”, Mondadori, 2024. Dato l’accattivante titolo, si è pensato di accedere alla loro analisi e condividere con altri ancora le riflessioni scaturite dai dati oggettivi riportati da questi autorevoli autori, tra i pochissimi che ancora parlano di mafia e soprattutto ne contrastano l’attività.
Continua il testo: “Sconfitta la violenta genìa di mafiosi che aveva osato sfidare lo Stato, tutto è stato messo a tacere. Le priorità ora sono altre, come l’abolizione dell’abuso d’ufficio, il ridimensionamento del traffico di influenze, la separazione delle carriere nella magistratura, l’impossibilità per i giornalisti di pubblicare il contenuto delle ordinanze di custodia cautelare, la stretta sulle intercettazioni e sull’uso dei trojan per i colletti bianchi. Fa meno notizia anche la stessa corruzione, se non fosse per qualche indagine che riesce ancora a far breccia nella promiscuità dei rapporti tra politici, mafiosi, faccendieri e boiardi di Stato”.
I tre articoli
sul marxismo africano che ho recentemente pubblicato su queste
pagine, dedicati rispettivamente ad Amilcar Cabral, Said
Bouamama, e Kevin Okoth (di
cui è appena uscito il libro Red Africa che ho tradotto
per Meltemi), hanno suscitato una certa attenzione (non solo
in Italia: gli
amici della rivista El Viejo Topo li stanno
traducendo in spagnolo). Mi ha scritto, fra gli altri, Andrea
Ughetto segnalandomi i
“Ritratti” (usciti su Machina) che ha
destinato ad altre due grandi figure di leader rivoluzionari
neri: Thomas Sankara e
Walter Rodney. Mi ha così ricordato che Rodney è pluricitato
nel libro di Okoth e che quei pur brevi estratti mi avevano
interessato,
per cui mi sono procurato e ho letto a stretto giro due suoi
lavori: The Russian Revolution. A View from the Third
World e Decolonial
Marxism. Essays from the Pan-African Revolution. Prima
di approfondire gli stimoli che ne ho ricavato, è il caso
di ricordare che
Rodney, originario della Guyana, è stato un vero e proprio
nomade della rivoluzione nera. Divenuto un punto di
riferimento dei movimenti
radicali in Jamaica, ne venne espulso (e il suo allontanamento
provocò una vera e propria insurrezione). Trasferitosi in
Africa, insegnò
all’università di Dar Es Salaam, dove studiò il progetto di
transizione al socialismo della Tanzania di Nyerere. Rientrato
infine
in Guyana, si impegnò a organizzare le lotte dei lavoratori
del suo Paese natale, finché fu fatto assassinare (aveva
trentotto anni) dai
servizi del governo fantoccio al servizio dell’imperialismo
occidentale, andando ad aggiungersi al lungo elenco di leader
neri uccisi in Africa,
Stati Uniti e Centro America.
I. La rivoluzione Russa vista dall’Africa
Perché rivendicare uno sguardo africano sulla storia della Rivoluzione Russa? Per rispondere, Rodney parte dalle menzogne che gli intellettuali occidentali hanno sfornato nelle “analisi” storiche, antropologiche, economiche, politiche e sociali che hanno dedicato a tutte le fasi – pre-coloniale, coloniale e post coloniale – della storia africana.
Per tutto un lungo periodo, susseguente all’avvio dell’Operazione Speciale Militare russa in Ucraina, il leitmotiv della propaganda europea è stato che bisognava aiutare Kiev a vincere, altrimenti i russi avrebbero invaso l’intero continente, arrivando sino a Lisbona.
Questo imprinting concettuale ha in effetti permeato di sé tutta la narrazione europea del conflitto, in misura così profonda da trascenderne le iniziali ragioni. È stato infatti evidente, sin dal primo momento, che l’adesione acritica – e diciamo pure masochistica – all’impianto bellicistico statunitense, è stato solo in piccolissima misura attribuibile al timore delle armate russe, mentre in gran parte era dovuto al rapporto di sudditanza (psicologico ancor prima che politico) delle élite europee verso gli Stati Uniti. Ma, già dal momento in cui si è profilata all’orizzonte la possibile vittoria elettorale di Trump, con la conseguente prospettiva di un disimpegno rispetto al conflitto ucraino, si è evidenziata la presa di questa idea sul pensiero delle leadership del vecchio continente. Per le quali, infatti, il cambio di rotta di Washington – nonostante la summenzionata sudditanza – non ha prodotto un riallineamento con l’alleato di oltre Atlantico, ma ha semmai determinato un arroccamento sulle posizioni belliciste.
Ovviamente, avendo così profondamente investito sul conflitto, per i leader europei è certamente problematica una inversione ad u della linea politica (e della conseguente narrazione di supporto), e a ciò si aggiunge anche il timore che la fine della guerra possa avere contraccolpi temibili sulla propria sopravvivenza politica.
Per antica tradizione il giorno dell’insediamento di un nuovo Presidente è un momento repubblicano, un momento incentrato sul potere civile americano – l’essere costituzionalmente gli Usa una Repubblica – più che l’essere gli Usa, di fatto, anche un impero.
Il cerimoniale – ricorda la rivista francese Le Grand Continent – ha sin qui sempre registrato questa scelta, nel senso che nessun Capo di Stato o di Governo vi è mai stato invitato. A voler sottolineare la differenza con la tradizione romana nella quale l’imperium conferisce al suo titolare non solo il potere civile all’interno della capitale (imperium domi) ma anche il potere militare fuori Roma (Imperium militiae). Il cerimoniale è simbolo, messaggio, sovrastruttura di una struttura.
Il suo mutamento, al di là della consapevolezza che ne abbiano i suoi organizzatori, non può essere sottovalutato. Questa volta alla cerimonia di inaugurazione sono stati invitati molti dei suoi alleati stranieri (Miley, Netanyahu, Orban, il Presidente di El Salvador Nayib Bukele, l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro e altri). Quello che conta è che Trump abbia pensato la giornata non come una inaugurazione ma come una incoronazione. Probabilmente, già nelle prossime ore osservatori e commentatori liberal, ironizzeranno su questo, lo interpreteranno come l’ennesima caduta di stile di un uomo volgare, populista e sovranista, che ignora le regole e il bon ton democrat. E, invece, anche questa volta si sbagliano: quelle regole le conosce bene e le vuole cancellare sin dal cerimoniale, per far capire che un’altra epoca si è aperta nei rapporti dell’America con il resto del mondo e con l’Europa.
L’antica dottrina secondo cui il male non è che la privazione del bene e pertanto in sé non esiste, va corretta e integrata nel senso che esso non è tanto la privazione, quanto piuttosto il pervertimento del bene (con il codicillo, formulato da Ivan Illich, corruptio optimi pexima, «non vi è nulla di peggio di un bene corrotto»). Il nesso ontologico col bene in questo modo permane, ma resta da pensare come e in che senso un bene può pervertirsi e corrompersi. Se il male è un bene pervertito, se in esso riconosciamo ancora una figura guasta e stravolta del bene, come possiamo combatterlo quando ce lo troviamo oggi di fronte in tutte le sfere del vivere umano?
Una corruzione del bene era familiare al pensiero classico nella dottrina politica secondo cui ciascuna delle tre forme rette di governo – la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia (il governo di uno, dei pochi o dei molti) – degenerava fatalmente in tirannide, oligarchia e oclocrazia. Aristotele (che considera la stessa democrazia una corruzione del governo dei molti) si serve del termine parekbasis, deviazione (da parabaino, spostarsi a fianco, parà). Se chiediamo ora verso dove esse hanno deviato, scopriamo che hanno per così dire deviato verso sé stesse. Le forme di costituzione corrotte somigliano, infatti, a quelle sane, ma il bene che in esse era presente (l’interesse comune, il koinon) si è ora rivolto al proprio e al particolare (idion). Il male è, cioè, un certo uso del bene e la possibilità di quest’uso perverso è iscritto nello stesso bene, che in questo modo esce fuori di sé, si sposta per così dire a fianco di sé stesso.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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La presa diretta del potere da parte
del “quinto capitalismo” chiede ai comunisti di
riappropriarsi pienamente dell’intera visione del mondo
leninista e
gramsciana.
Donald Trump, lo scorso 20 gennaio 2025, giorno del suo secondo insediamento alla Casa Bianca, svolge, di seguito, due discorsi: il primo alla Rotonda del Campidoglio, il secondo presso l’Emancipation Hall, di fronte ai militanti repubblicani, ai suoi sostenitori più fedeli e a tutta la schiera dei nuovi vip corsi sul carro del vincitore. Nel suo primo intervento il presidente Usa mantiene un profilo relativamente equilibrato e “istituzionale”, pur annunciandosi senza vergogna “salvato da Dio affinché l’America torni grande”, eroe della nuova era d’oro americana e pacificatore delle guerre del mondo. È nel secondo intervento, tuttavia, che il presidente fa riemergere il vero Trump che ha in sé, rilanciando con fulmini e tuoni il proprio disegno razzista di deportazione di massa degli immigrati e i propri progetti proto-imperialisti volti a cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo Americano, a “riconsegnare all’America” il Canale di Panama e a conquistare per gli Usa la Groenlandia. Proponendo, inoltre, con particolare iattanza reazionaria, una sorta di undicesimo comandamento per il quale dal 20 gennaio 2025 in poi vi saranno negli Usa solo due generi: maschile e femminile e tutto il resto del doloroso, sofferente, non “ordinato”, comunque non protocollare e diverso, e a volte anche persino felice, percorso sessuale umano (che tale è, non ordinato, non protocollare, dall’intera storia dell’umanità) sarà cancellato attraverso la stessa forza poliziesca della “legge” trumpiana (sarà interessante vedere come nelle università statunitensi, tra i giovani americani, nelle vaste aree socialmente e intellettualmente avanzate Trump potrà ratificare e far rispettare il “nuovo ordine” di genere controrivoluzionario, come potrà edificare su tutto il territorio nordamericano l’immensa Vandea della controrivoluzione sessuale).
Ma, sulla natura dei due discorsi di Trump nel giorno del suo secondo insediamento molto si è parlato. Ciò che, credo, sia stato poco rimarcato è un altro fatto, che nella sua essenza sembra a chi scrive di importanza strategica.
Il 2025 potrebbe essere l’anno del grande compromesso o quello dello scontro decisivo tra Cina e Usa. La vittoria di Trump accentuerà la spinta verso un'Europa più dominata dalla finanza, meno sociale e più impegnata per la “rinascita” della manifattura bellica
Il successo elettorale di Trump e la
composizione della sua squadra sembrano aprire un varco nello
strapotere delle “Big Three” – BlackRock,
Vanguard e
State Street – e rendono assai più critica l’idea di
un’Europa delle esportazioni verso gli Stati Uniti. In questa
prospettiva, i vertici della finanza europea paiono
intenzionati a reagire e dare corpo a un pezzo del “progetto
Draghi”, non a caso
immaginato come possibile presidente della Commissione europea
in caso di eccessiva debolezza della Von der Leyen.
La vittoria di Trump potrebbe accelerare l’attuazione del piano Draghi
Prima l’allarme lanciato dalla Bce sulla possibile bolla, sul punto di esplodere, generata dall’eccessiva concentrazione del valore azionario delle Borse americane, poi l’insistenza, sempre a opera di Madame Lagarde, sull’urgenza di creare un mercato unico dei capitali europei, superando l’attuale frammentazione sono segnali che paiono muoversi in tale direzione. L’obiettivo di queste mosse infatti è possibile che sia quello di evitare la costante trasmigrazione dei 33 mila miliardi di euro di risparmio europeo verso i titoli degli Stati Uniti. Il messaggio di Lagarde è chiaro: i colossi del risparmio gestito Usa dovranno fare i conti, dopo anni, con un governo non troppo amico, e quindi saranno più deboli, meno in grado di garantire super dividendi, come del resto sta dimostrando il caso Nvidia, a cui sembra svanita la patina di imbattibilità. La società quotata con la maggiore capitalizzazione al mondo, infatti, ha presentato la terza trimestrale 2024 con risultati record; i profitti sono raddoppiati, arrivando a 19,3 miliardi di dollari e il giro d’affari è cresciuto del 94 per cento superando i 35 miliardi. Nonostante questo, il titolo Nvidia ha perso valore, segnando un chiaro rallentamento rispetto a una corsa che sembrava inarrestabile. Forse la guerra interna al capitalismo finanziario USA sta facendosi sentire e non bastano neppure gli ottimi risultati della società dell’Intelligenza artificiale a sostenerne il titolo.
La moneta quantistica è una tecnologia, per ora soltanto teorica, che sfrutta le leggi della meccanica quantistica per creare denaro digitale che non si possa copiare, se ne possa verificare l’autenticità e che sia unico
Le caratteristiche di una moneta
ideale, reale o virtuale che sia, sono sintetizzabili nel
fatto che non dovrebbe essere falsificabile
(*) né
alterabile (per es. aumentandone il valore). Non
dovrebbe essere spendibile più’ volte, dovrebbe
garantire l’anonimato dello scambio.
Le monete quantistiche sono pensate per essere l’analogo digitale delle monete fisiche, tutte identiche e scambiabili senza tracciamento.
Le banconote quantistiche sono uniche e tracciabili grazie ai loro numeri di serie, mentre le monete sono tutte identiche e anonime.
Questa distinzione porta a differenti approcci per la loro verifica e la loro implementazione con le monete a chiave pubblica [1]. Quest’ultime presentano ulteriori sfide e non sono ancora state concretamente realizzate. In particolare, la moneta collision-free, che approfondiremo più avanti, è un tipo di banconota che sfrutta numeri di serie unici quale garanzia di sicurezza.
L’idea originale della moneta quantistica è stata proposta nel 1982 da Stephen Wiesner, un fisico teorico, in un articolo intitolato Conjugate Coding.
Immaginiamo una forma di moneta digitale completamente diversa da quella a cui siamo abituati. Invece di essere fatta di semplici bit (unità elementare di informazione classica) come quelli che usano i computer, che possono essere 0 o 1, (acceso o spento, vero o falso, ecc.) questa moneta è costruita con dei quantum bit, qubit [2] che sono basati sui principi, fuori dalla nostra comune esperienza, della meccanica quantistica la quale descrive il comportamento fisico della natura al livello atomico. Una sua particolarità è che un qubit può trovarsi in una specie di sovrapposizione, un po’ come una monetina che sta girando in aria che non è ancora né testa né croce, ma è un po’ entrambe le cose contemporaneamente. La monetina si trova in uno stato sospeso di possibilità, non ancora testa né croce…
Trump sfrutta il momento favorevole per fare pulizia e riaprire le relazioni con Corea del Nord, Russia e Cina
La decisione di Trump di declassificare i documenti sugli omicidi di JfK, del fratello Robert e di Martin Luther King non discende solo dalla volontà di mantenere le promesse elettorali, ma da altro e ben più importante
Il momento rivoluzionario al quale ha dato vita con la sua vittoria, infatti, potrebbe essere di breve durata, dal momento che i suoi antagonisti, interni e globali (i circoli neocon e liberal iper-atlantisti) cercheranno in tutti i modi di eliminarlo, l’unico modo che hanno al momento per fermare il processo innescato.
Nel corso del suo primo mandato, infatti, tali circoli avevano infiltrato in maniera profonda la sua amministrazione, cosa che Trump aveva accettato nella presunzione di poter gestire e frenare le spinte dei fautori delle guerre infinite, ma così non è stato e la sua presidenza ne è uscita profondamente condizionata.
Decisivi, in tal senso, l’allora Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton e l’ex Segretario di Stato Mike Pompeo, anche se in realtà erano solo figure apicali di un apparato di condizionamento ben più ampio al quale hanno ceduto, prima o poi, tutte le persone che aveva chiamato nel suo team.
Resistere è vincere. Quante volte l’abbiamo letto e scritto? Una di quelle frasi dal sapore vagamente retorico e autoconsolatorio che tiriamo fuori quando la forza delle ragioni degli oppressi e degli sfruttati viene piegata dalla ragione della forza degli oppressori, e quando il vento della storia sembra soffiare in direzione ostinatamente opposta alla nostra.
La lunga battaglia di Gaza e la tregua entrata in vigore domenica scorsa l’hanno però nuovamente resa vera, riempiendola così di significato. Perché per quanto fragile e precaria possa essere, è proprio di una vittoria della Resistenza palestinese che oggi bisogna parlare. Una vittoria pagata si a carissimo prezzo, ma che anche per questo ci spinge ad alcune prime riflessioni di carattere generale.
La più importante, probabilmente, è la conferma che la subordinazione del “militare” al “politico” rimane una questione dirimente, soprattutto per un movimento insorgente. Fin dal 7 ottobre la Resistenza aveva ben chiaro che gli obiettivi dell’operazione “diluvio di Al Aqsa” erano eminentemente politici: impedire la “normalizzazione” dell’occupazione coloniale con gli Accordi di Abramo, ridare centralità alla questione palestinese e porre nuovamente all’ordine del giorno la liberazione della Palestina dopo il conclamato fallimento degli accordi di Oslo.
Ho conosciuto Augusto Graziani quando ero alle prime armi come economista agli inizi degli anni Ottanta. Ricordo la sua cortesia e attenzione, in uno stile comunicativo solo in apparenza formale, perché il suo interesse per la generazione dei più giovani era genuino e sincero. Ricordo, ad esempio, un invito a Napoli, in occasione della venuta di Frank Hahn, incoronata da una stupenda cena vicino al Teatro San Carlo, in cui noi “giovani” fummo ospiti.
L’occasione di collaborare fu quando Graziani mi chiese di scrivere una nota bibliografica per una serie che aveva ideato per la rivista Studi economici. Il testo che diedi alle stampe (Gli scritti di Joan Robinson dal 1932 al 1980, Studi economici Vol. 37, n. 16, 1982, pp. 159-228) fu la prima versione di un lungo, laborioso e paziente lavoro di ricerca bibliografica – in un’epoca senza internet – che si concluse molti anni più tardi con quello che forse rimarrà il catalogo definitivo delle opere di Joan Robinson (The Writings of Joan Robinson, in the Palgrave Archive edition of Joan Robinson, Writings on Economics, vol. 1, London: Macmillan 2002, pp. xxxii-lxxiii.).
Ho pertanto un debito di riconoscenza verso Augusto Graziani per avermi dato un’opportunità e lo stimolo iniziale ad un tipo di lavoro che ebbe poi un ruolo importante nella mia attività di ricerca.
Ci sono state varie occasioni in cui mi sono confrontata con lui in seminari e conferenze, spesso sul pensiero di Keynes e talvolta in disaccordo, ma sempre in un clima di reciproco rispetto.
Oscurato dal chiacchiericcio politico si va delineando il nuovo modello di capitalismo occidentale che va soppiantando da tempo il neoliberismo degli ultimi 40 anni. E naturalmente risulta completamente fuori tempo il ”modello sociale europeo” – o meglio, ciò che ne resta do un trentennio di austerità e “parametri di Maastricht”.
Per il momento non si vede una “teoria unitaria” in grado di sintetizzare i cento segnali diversi che vanno convergendo, ma unendo i punti apparentemente dispersi una prima immagine viene fuori.
Per noi schiavi europei alcuni segnali importanti arrivano dalle elezioni in Germania, dove il vecchio conservatorismo “democristiano” rappresentato da Cdu/Csu sta cambiando faccia e programma. Il nuovo segretario, nonché probabile futuro cancelliere, Friedrich Merz, intende rovesciare radicalmente l’eredità di Angela Merkel. Anzi, il ruolo stesso che fin qui la Germania ha avuto all’interno dell’Unione Europea.
Lo fa per ragioni interne – l’avanzata dell’estrema destra neonazista (accreditata del 20% nazionale) e della “nuova sinistra” aggregata intorno a Sahra Wagenknecht – ma soprattutto per affrontare il nuovo quadro strategico mondiale, certificato dal ritorno di Donald Trump sul trono statunitense.
Ma, dicevamo, questo racconto politico nasconde, invece che illuminare, il “cambio di sistema” in corso nel capitalismo occidentale. Il cuore della questione, al di qua e al di là dell’Atlantico, sta ancora una volta nel tipo di rapporto considerato “ottimale” tra impresa e Stato, tra iniziativa privata e “politica”.
E’ molto probabile che Ursula
von der Leyen, la presidente tedesca della Commissione
Europea, non verrà neppure invitata ai colloqui di pace
che il presidente americano Donald Trump intende avviare
sull’Ucraina con la
Russia di Vladimir Putin. Se Trump riuscisse a mantenere
le sue promesse di pace sull’Ucraina, come è possibile,
molto difficilmente
l’accordo con la Russia vedrà la partecipazione
dell’Unione Europea. Ma se l’Europa non dovesse neppure
partecipare alle
trattative sull’Ucraina la von der Leyen dovrebbe per
dignità dimettersi.
Con Trump al potere negli USA tutto cambia anche per l’Europa: per il neopresidente statunitense la UE è praticamente irrilevante, un competitor fragile, un consorzio commerciale da disgregare. La Russia e la Cina sono invee potenze da rispettare. Occorre prendere atto che con la sua elezione alla Casa Bianca l’Occidente è finito, si è rotto in mille pezzi. La UE forse non se ne è ancora accorta, ma l’America di Trump non è più l’alleato principale, è un duro avversario, e potrebbe diventare anche un nemico. Trump non è un isolazionista come lo erano i conservatori americani dei vecchi tempi: è invece un presidente imperiale che vuole rompere l’Unione Europea e trattare gli Stati europei come se fossero semicolonie del sud America!
Secondo Donald Trump i rapporti internazionali si basano solo sulla forza. I valori dell’Occidente liberale e democratico sono apertamente rinnegati dall’America di Trump: l’Occidente perde così la sua autorità morale e ideologica di fronte al resto del mondo. Un fatto è certo: i rapporti tra la UE e gli Stati Uniti diventeranno sempre più conflittuali, probabilmente ancora più conflittuali di quelli con la Cina. Anche considerando che Trump vuole che la Danimarca, stato membro della UE, ceda la Groenlandia. Ma la UE della von der Leyen non è mai stata debole come oggi.
Il bersaglio più facile di Trump è proprio la von der Leyen che ha finora stupidamente e irresponsabilmente perseguito la linea del vecchio presidente Joe Biden e della Nato[1] di escalation nella guerra con la Russia.
Il futuro dell’umanità si
sta decidendo mentre
parliamo. E non si sta decidendo su un campo di
battaglia nell’Europa dell’Est, in Medio Oriente o nello
Stretto di Taiwan, ma nei centri
dati e nelle strutture di ricerca dove gli esperti di
tecnologia creano “l’infrastruttura fisica e virtuale
per alimentare la prossima
generazione di intelligenza artificiale”. Si
tratta di un vero e proprio scontro a fuoco che ha già
fatto diverse vittime, anche
se non si direbbe leggendo i titoli dei giornali, che di
solito ignorano i recenti sviluppi “catastrofici”. Ma,
quando martedì il
Presidente Trump ha annunciato il lancio di un progetto
infrastrutturale per l’intelligenza artificiale da 500
miliardi di dollari (Stargate),
poche ore dopo che la Cina aveva rilasciato il suo DeepSeek
R1 – che “supera i suoi rivali nelle
capacità avanzate di codifica, matematica e conoscenza
generale” – è diventato dolorosamente ovvio che
la battaglia
per il futuro “è iniziata” in grande stile. E non è una
battaglia che nessuna delle due parti può permettersi di
perdere. Ecco come ha riassunto la cosa l’esperto di
tecnologia Adam Button:
Immaginate di essere tornati nel 2017 e che l’iPhone X sia stato appena presentato al pubblico. Allora veniva venduto a 999 dollari e Apple, con le vendite alle stelle, stava costruendo un ampio fossato intorno al suo ecosistema.
Ora immaginate che, solo pochi giorni dopo, un’altra azienda avesse presentato un telefono e una piattaforma uguali in tutto e per tutto, se non migliore, al prezzo di soli 30 dollari.
Questo è ciò che si è verificato oggi nello spazio AI. La cinese DeepSeek ha rilasciato un modello opensource che funziona alla pari con gli ultimi modelli di OpenAI, ma che costa una frazione minima. Inoltre, è possibile scaricarlo ed eseguirlo gratuitamente (con l’unica spesa dell’energia elettrica).
Il prodotto rappresenta un enorme balzo in avanti in termini di scalabilità ed efficienza e potrebbe ribaltare le aspettative sulla quantità di potenza e di calcolo necessaria per gestire la rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
Pubblichiamo la relazione tenuta da Antionio Cantaro a Reggio Emilia lo scorso 20 gennaio 2025 nell'ambito del corso dell'Università popolare su "Quale futuro per la democrazia occidentale"
Da dove iniziare una storia
dell’Unione europea tra sovranismi e tecnocrazia, come ci
chiede la nostra iniziativa di questo pomeriggio?
Non era semplice, ci ho pensato a lungo. Alla fine – perdonerete l’azzardo – ho deciso di cominciare da oggi lunedì 20 gennaio 2025, il giorno in cui Donald Trump diventa ufficialmente il 47 esimo Presidente degli Stati Uniti, di cui peraltro è stato anche il 45 esimo. Magari un’altra volta metterò un punto a questo azzardo con un altro ben più memorabile giorno. Il 12 ottobre 1492, quando alcuni membri di una delle caravelle di Cristoforo Colombo, stremati da mesi viaggio transoceanico, gridarono con un senso di vittoria e di liberazione Terra Terra. Pensavano che fossero le Indie e invece era un Nuovo continente. Terra terra in un senso certamente molto diverso da quello in cui lo dice oggi Trump a proposito della Groenlandia e altri territori. Diverso, ma non troppo distante nel suo significato simbolico. Certamente a parti invertite. Oggi a gridare terra terra non sono l’europeo Colombo e la sua ciurma, i vecchi colonizzatori, bensì l’americano Trump e il naturalizzato americano Elon Trump quando si occupano di noi, dell’Europa.
Nel mio azzardo sono confortato dall’editoriale di una Rivista francese per me, in genere, abbagliata da troppo macronismo per essere affidabile. Una rivista troppo eurocentrica, troppo franco centrica, sin dal nome, Le Grand Continent. Ma che, in questa occasione, muove felicemente lo sguardo non da quanto accade nella provincia del mondo, nel Vecchio Continente, ma da quanto accade nel Nuovo Continente, nella sua capitale, Washington.
Per antica tradizione il giorno dell’insediamento di un nuovo Presidente è un momento repubblicano, un momento incentrato sul potere civile americano – l’essere costituzionalmente gli Usa una Repubblica – più che l’essere gli Usa, di fatto, anche un impero.
Si discute molto delle continue uscite del neo-presidente Trump, che sono assai spesso confezionate proprio in modo da accendere il dibattito. E certamente, anche al netto del carattere esuberante del personaggio, è evidente come – dietro quello che troppo spesso appare come un linguaggio eccessivo – ci siano in effetti disegni e strategie politiche, certamente non solo frutto della sua fantasia.
Risulta abbastanza evidente che l’uso di espressioni decisamente fuori le righe rientra a sua volta in una scelta comunicativa strategica, che sostanzialmente si concretizza in una postura verbale intrisa di senso di superiorità (se non di vero e proprio sprezzo), la quale dovrebbe trasmettere appunto l’idea di un potere imperiale così forte (e così stufo di dover scendere a compromessi) che non si fa scrupolo di manifestarsi brutalmente urbi et orbi. Insomma, Make America Great Again comincia dal mostrare un atteggiamento – appunto – da grande potenza in essere.
Al tempo stesso, è altrettanto evidente che l’audience a cui è principalmente rivolto il messaggio intrinseco a questo linguaggio poco felpato, è essenzialmente quella interna agli Stati Uniti; dopo aver mobilitato l’elettorato, che lo ha portato alla Casa Bianca, è necessario ora mantenere un clima di mobilitazione che supporti l’azione riformatrice che Trump ha in mente, e che ha cominciato a portare avanti. E per fare ciò, devono essere insufflate massicce dosi di ottimismo e patriottismo tra i cittadini.
https://www.youtube.com/watch?v=W4Mu2ERZsiw&t=12s
Questo regime di biscazzieri, malviventi, scappati di casa, incapaci, mentitori, armatori e complici di massacratori di guerra, ha rimandato libero e riportato nel suo covo di briganti, a Tripoli, un assassino torturatore di massa, sotto mandato d’arresto del Tribunale Penale Internazionale. Al nostro regime di complici di ogni infamia lo ha ordinato il capo della cosca criminale libica a cui noi, con l’ONU, conferiamo il titolo di governo. A condizione che ci passi il petrolio e che tenga rinchiusi, torturati e uccisi, coloro che vorrebbero venire qui.
Ma i fascismi di cui si parla in questo video sono tanti e neanche tanto vari. E’ bastato, a Washington, qualche mero accenno a una variazione sul tema dell’America antropofaga, che paggi, vallette, spazzini e strilloni europei sono andati in agitazione: “Quello cincischia, cambia le carte in tavola e allora noi che facciamo?” Ed è stata la bava alla bocca, l’urlo collettivo: guerra guerra guerra!
In questi giorni, tra assassini-torturatori, nostri partner dell’Altra Sponda, genocidi in estensione da Gaza al Libano e alla Cisgiordania, nostri sodali da amare e armare, e il nuovo grande capo che, con i 50.000 satelliti del suo visir dal braccio teso, promette di contarci anche i peli del pube, contro fatti duri e puri abbiamo sbattuto la zucca.
La serie rispetta la "verità storica sostanziale"? Il commento dello storico Gianpasquale Santomassimo
Per dovere professionale, 7 anni fa acquistai il primo massiccio volume dell’opera di Scurati su M. L’autore ormai era stato proclamato il Vate del nuovo antifascismo formato “Repubblica” e questo mi ispirava diffidenza. Comunque mi disposi a leggerlo senza pregiudizi, ma confesso che abbandonai a un terzo dell’opera, sopraffatto dalla verbosità incontenibile della scrittura. A qualcuno piacque, anche fra gli storici. Si discuteva dell’efficacia divulgativa della formula adottata. Per quanto mi riguarda detestavo i giornalisti storici che mettevano tra virgolette pensieri da loro attribuiti ai personaggi, e si può capire cosa pensassi di un autore che scriveva impersonando un personaggio storico (non uno qualsiasi, peraltro).
Ma ora il film è un prodotto del tutto diverso, di indubbia efficacia, e destinato ad avere successo. Uno stimabilissimo amico come De Luna sulla Stampa ne ha scritto come opera che rispetta la verità storica sostanziale (il fascismo fu un fenomeno molto violento, che andò al potere con la complicità del sovrano, e che M. era un opportunista).
Credo che questo prodotto – molto ben fatto - debba stimolare in realtà riflessioni più complicate.
Per quanto riguarda le “verità storiche” si può formulare un breve e molto incompleto elenco, sulla base delle prime 4 puntate.
Nell’Unione Europea ormai si è consolidato un partito trasversale della guerra contro la Russia. A guidarlo sono soprattutto alcuni paesi dell’Europa dell’Est (Polonia, Estonia, Lituania) da sempre molto connessi agli USA ma che, con enorme senso di irresponsabilità, la nuova Commissione Europea ha collocato ai posti di comando in materia di politica estera e difesa.
Questi volenterosi guerrafondai d’Europa godono però di sostegni e consensi nel resto dei paesi membri, vuoi perché sono molti a pensare che l’industria militare possa essere la via d’uscita dalla crisi industriale in atto, vuoi perché nella crisi di prospettive della stessa Ue di fronte alla crisi e alla competizione globale, più di qualcuno pensa che la guerra possa essere una delle soluzioni possibili.
E’ avvenuto in passato e ora lo scenario si ripresenta, un po’ come negli anni Trenta, alimentato anche da un ritorno alla competizione, al protezionismo e anche agli sgambetti “tra alleati” come sembra annunciare l’amministrazione Trump.
Abbiamo provato a sintetizzare alcune delle dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dai responsabili europei e della Nato e che restituiscono piuttosto chiaramente – purtroppo – l’idea di quello che andiamo denunciando da tempo.
“Se l’Europa deve sopravvivere, deve essere armata”, ha dichiarato il premier polacco Tusk al Parlamento di Strasburgo nel suo discorso di insediamento come presidente di turno del Consiglio europeo.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Il resoconto della partecipata e riuscita assemblea che si è svolta nella Capitale
Il
cantiere per la costruzione del Partito comunista si è
ufficialmente aperto con l’assemblea nazionale tenuta a Roma,
presso il Teatro
Flavio.
L’iniziativa, che ha visto la luce dopo mesi di lavoro preparatorio, con l’allestimento di convegni tematici nelle diverse aree del Paese, ha determinato un primo visibile risultato, in controtendenza rispetto agli avvenimenti degli ultimi dieci, quindici anni e più: la convergenza nel progetto di Prospettiva Unitaria di quattro organizzazioni (Costituente Comunista, Movimento per la Rinascita Comunista, Patria Socialista, Resistenza Popolare), che meno di un anno addietro avevano avviato, attraverso un tavolo operativo, un percorso di condivisione dell’azione politica.
La sfida che adesso viene lanciata, dunque, è ancora più ambiziosa: dare forma, forza e contenuto a un partito comunista unitario, con il coinvolgimento – a partire dai territori, dove si concentreranno gli sforzi – di compagne e compagni, lavoratori, disoccupati, pensionati e studenti, il confronto con comitati, associazioni e movimenti di lotta sociale e la mobilitazione sul campo, ma anche con il contributo di altri gruppi e organizzazioni politiche che ritengono una priorità la riaggregazione delle forze comuniste.
Un nodo particolarmente avvertito dalle centinaia di militanti e simpatizzanti presenti all’appuntamento nella Capitale e dagli autorevoli ospiti che hanno deciso di portare il proprio saluto, manifestando apprezzamento per quanto si sta realizzando.
Significativi i messaggi inviati dai partititi comunisti di tutto il mondo, che seguono con attenzione l’evoluzione del percorso.
“Non cessano i tentativi delle forze dell’imperialismo – si legge nella nota del Presidium del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa – di dividere il movimento comunista mondiale, di disunire le sue fila e di distruggerlo come forza politica. Pertanto, oggi, nelle condizioni economiche e politiche più difficili, sono importanti come non mai l’unità e l’azione congiunta dei comunisti di tutti i Paesi nella lotta per il nostro futuro comune.
Sfruttando la sua forza istituzionale, l’adattabilità sul campo e le tattiche psicologiche, Hamas ha magistralmente trasformato la distruzione di Gaza in una dimostrazione di Resilienza, ottenendo avanzamenti sia simbolici che tattici e impedendo a Israele di rivendicare una qualsiasi vittoria politica
23 gennaio 2025.
Il rilascio di tre donne prigioniere israeliane a Gaza da
parte dell’ala militare di Hamas, le Brigate Qassam, in cambio
di 90 detenuti
palestinesi, ha innescato una frenesia mediatica nello Stato
di Occupazione.
La “scena” drammatica, combattenti che spuntano tra le rovine della guerra, circondati da una folla esultante, ha minato le narrazioni ufficiali israeliane sulla guerra, i suoi obiettivi e il trattamento dei prigionieri israeliani. Ha sollevato una domanda che fa riflettere gli israeliani: cosa stavamo facendo a Gaza per 15 mesi?
Le Brigate Qassam hanno organizzato ogni dettaglio dell’evento per massimizzare l’impatto. Dalle borse regalo griffate alle uniformi lucide dei combattenti, l’esibizione trasudava una precisione calcolata. Si è persino tenuta una sfilata militare in Piazza Saraya, un’area fortemente assediata dalle Forze di Occupazione Israeliane. La scelta del sito è stata voluta, a dimostrazione della continua Resilienza in un luogo destinato a simboleggiare la sconfitta di Tel Aviv nella sua più lunga campagna militare di sempre.
Fonti di Hamas informano che la scelta della città di Gaza, posizionata a Nord della Valle di Gaza e del Corridoio Netzarim, un corridoio di separazione creata dall’esercito israeliano per dividere in due la Striscia, che presto si prevedeva sarebbe stato smantellato, è stata una decisione voluta e simbolica, scelta rispetto ad altre alternative per le sue implicazioni strategiche e politiche.
Naturalmente, Hamas aveva la possibilità di rilasciare le detenute in luoghi “più sicuri”, come il centro o il Sud di Gaza, ma ha scelto intenzionalmente la piazza.
Le potenzialità di cooperazione fra Mosca e Teheran sono promettenti, se i due paesi riusciranno a escogitare sistemi comuni per sfuggire alle sanzioni. Resta l’incognita della stabilità regionale
Appena tre
giorni prima dell’inaugurazione della presidenza Trump, lo
scorso 17 gennaio, Russia e Iran hanno firmato dopo lunghe
trattative un atteso
“accordo di partenariato strategico globale”.
La coincidenza è stata rilevata soprattutto dai commentatori occidentali, i quali hanno ricordato l’aiuto fornito da Teheran a Mosca sul teatro di guerra ucraino (in particolare attraverso l’invio di droni di fabbricazione iraniana).
Essi hanno anche menzionato il fatto che il nuovo presidente americano ha preannunciato un atteggiamento duro nei confronti dell’Iran, ed ha invece promesso di porre fine al conflitto in Ucraina, sebbene non sia assolutamente certo in qual modo, e (a detta dello stesso Trump)non sia escluso un inasprimento delle sanzioni contro Mosca.
Dal canto suo, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha negato che vi fosse qualche relazione tra la firma dell’accordo e l’insediamento di Trump, ma l’evento ha segnato senza dubbio un ulteriore rafforzamento delle relazioni fra due paesi che sono entrambi oggetto di un duro embargo occidentale ed hanno rapporti conflittuali con l’Occidente.
La firma del trattato è avvenuta al Cremlino, in occasione della visita a Mosca del presidente iraniano Masoud Pezeshkian a capo di una nutrita delegazione.
Questo evento lungamente atteso si inserisce in una fase in cui soprattutto l’Iran si sente minacciato “dall’amministrazione Trump, da Israele, dal crollo del regime siriano, dal collasso di Hezbollah”, ha affermato Nikita Smagin, analista che ha lavorato per i media governativi russi a Teheran prima dello scoppio del conflitto ucraino.
Tra gli osservatori, vi è chi ha descritto l’intesa come una “svolta epocale” e chi l’ha sminuita definendola vaga e inferiore alle aspettative.
Trump apre a un incontro con Putin, Putin accetta, ma ancora non si vede nulla. Negoziati procrastinati, per motivi dicibili e indicibili
L’avanzata delle forze russe continua, giorno dopo giorno, inarrestabile. Di ieri la conquista di Velyka Novoselka, baluardo fortificato la cui caduta mette a repentaglio tutta l’area all’intorno, rimasta senza difese. Per i russi si aprono altre possibilità per aggirare parte del fronte meridionale e velocizzare l’avanzata verso Zaporozhye e il Dnepr, obiettivi strategici finali.
Allo stato delle cose, la situazione è impossibile da invertire o arrestare, eppure l’Ucraina, invece di aprire decisamente ai negoziati per chiudere la guerra persa e salvare il salvabile, continua nelle sue ambiguità e a combattere. Non eroismo, ma l’esatto contrario, perché la leadership ucraina sta mandando letteralmente al macello, senza alcuno scopo, i suoi cittadini.
Da parte sua, l’amministrazione Trump, che aveva promesso di chiudere la guerra, non sta facendo nulla in tal senso. Le armi continuano a fluire, anche se in maniera ridotta, verso Kiev, in contrasto con tali promesse, ma, allo stesso tempo, sono stati bloccati i fondi diretti a scopi assistenziali, che poi tanto assistenziali non erano, segnalando la prima riduzione dell’impegno Usa.
Non si fa in tempo ad avere l’idea “fine di mondo” che subito arriva un cinesino dispettoso a bucarti il palloncino mooooolto gonfiato.
L’idea era venuta a Sam Altman, fondatore di OpenAI e ora fautore del progetto Stargate, appoggiato a vario titolo da Satya Nadella (Microsoft), Larry Ellison (Oracle) e Masayoshi Son (Softbank): farsi dare 500 miliardi di dollari – in parte privati, in parte pubblici, a carico del debito federale Usa – ovvero da rastrellare sui mercati in cambio di minacce di aggressione.
Contrario Elon Musk, e non è un dettaglio visto che ora è il “Doge”, ossia il ministro incaricato di “snellire” l’intera amministrazione pubblica statunitense con tecniche “alla Milei”, ovviamente più avanzate della semplice motosega. Il che mette immediatamente in mostra come l’”oligarchia dei tecno-miliardari” che intende soppiantare il vecchio “comitato d’affari della borghesia” (troppa gente, troppi finti ricchi all’italiana…), non sia affatto un paradiso. In fondo, ogni tecno-miliardario ragiona per sé, mica “come classe”. Al massimo come club decisamente esclusivo…
I costi faraonici per un progetto che promette(va?) di far fare un salto di qualità spaventoso (in molti sensi) all’Intelligenza Artificiale dipendono dal fatto che questa “intelligenza”, per come è strutturata, ha bisogno comunque di supporti fisico-elettronici altrettanto smisurati: una rete di datacenter da costruire interamente negli Stati Uniti e chip avanzatissimi.
In questi giorni si fa un gran parlare delle prime disposizioni del presidente Trump circa l’espulsione di quei nuovi immigrati sul suolo statunitense entrati durante il mandato di Biden.
I primi voli sono cominciati lo scorso venerdì e sono stati definiti da fonti della Casa Banca come parte della “più grande operazione di rimpatri” della storia degli Stati Uniti, che dovrebbe riguardare circa 1,3 milioni di immigrati irregolari.
L’espressione delle fonti della Casa Bianca è stata alla lettera "largest deportation operation”.
Da qui in Italia molti, sull’onda dell’emozione forse per l’avvicinarsi del giorno della Memoria, hanno tradotto “la più grande operazione di deportazione”, commettendo quello che considero un errore grossolano, per quanto comune e condiviso.
Il termine "deportazione" in Italiano ha un significato preciso, la cui estensione ai casi in questione è subdolo malcostume introdotto anni orsono da sottili (e finanziati) linguisti dell'arrembaggio pro-migrazionista.
In altre parole si tratta di una manipolazione linguistica. E le manipolazioni non portano mai niente di buono.
Confrontiamo le definizioni in Italiano e in Inglese fornite da prestigiosi dizionari.
La Treccani riporta il significato di "deportazione" in questi termini:
Alle ipotesi di alleanze internazionali, malviste dalla politica, risponde Mps: un’offerta pubblica di scambio che punta a Generali per realizzare il terzo polo italiano. La banca moderna è ormai avvinghiata al mercato finanziario. L’obiettivo è mobilitare il risparmio in ogni dove, purché siano garantiti i rendimenti
Il peccato veniale di un banchiere è fuggire con la cassa, quello mortale è parlare». Enrico Cuccia, antico dominus di Mediobanca, poco avrebbe gradito la ridda di rumors di queste ore intorno alla sua «magnifica creatura». Che in verità tanto magnifica non è più.
Centro nevralgico del capitalismo italiano per quasi mezzo secolo, Mediobanca ha ormai un po’ sporcato il suo pedigree cimentandosi anche nella finanza di minor pregio, tra raccolta del piccolo risparmio e credito al consumo. Tuttavia, nel risiko bancario nazionale l’istituto di piazzetta Cuccia resta decisivo, soprattutto come primo azionista di Generali, la «cassaforte del risparmio degli italiani».
Gli attuali vertici dei due istituti guardano con favore alle alleanze internazionali. Esempio recentissimo è l’annuncio di un’intesa tra Generali e la francese Natixis, per la creazione di una piattaforma di gestione della ricchezza «di stazza globale».
Parafrasando Gramsci, il vecchio ordine è sempre più vacillante, mentre un nuovo ordine fatica a venire alla luce. Nell’intermezzo, si assiste a svariati fenomeni morbosi, tra cui la presidenza “Trusk”, che pur ispirata all’American First, potrebbe, invece, accelerare il tramonto dell’egemonia USA
Appare
evidente che stiamo vivendo in questi anni nel mondo in un
periodo di grande confusione, anzi, se vogliamo, di vero e
proprio caos. Tra i segni
più evidenti ci sono indubbiamente la guerra in Ucraina e
quella israelo-palestinese, la confusione siriana, la lotta su
tutti i fronti e con
tutti i mezzi degli Stati Uniti per contrastare l’avanzata
economica, tecnologica, politica cinese, la grande incertezza
economica e politica in
Europa, ma dalle prospettive comunque poco incoraggianti e
ancora le lotte armate interne in diversi paesi africani e
asiatici, a cominciare da
quella, terribile, che si svolge da tempo in Sudan. Si
aggiungono dopo quelle atomiche le minacce ecologiche e
tecnologiche sempre più
incombenti.
Il vecchio ordine internazionale vacilla
Al di là delle ragioni specifiche di ognuno di questi accadimenti essi sembrano collocarsi tutti sostanzialmente nel quadro di una situazione nella quale il vecchio ordine internazionale vacilla sempre di più. Non regge il potere degli Stati Uniti, e più in generale dell’Occidente, sul resto del mondo, con tutte le loro presunte regole sempre violate a piacimento e le sue istituzioni ormai cadenti, mentre il nuovo assetto globale che dovrebbe sostituirlo non si è ancora affermato; se ne intravede appena qualche segno iniziale
Tra l’altro, la Cina ha mostrato al mondo e in particolare ai paesi del Sud globale che il vecchio mito per cui la modernizzazione economica comporti necessariamente l’occidentalizzazione dei vari paesi non sta più in piedi e che l’Occidente non ha tutte le risposte da dare ai paesi in via di sviluppo.
Tutta la storia
contemporanea, dalla rivoluzione francese in poi, può anche
essere letta come storia del conflitto tra nazioni e imperi,
tra comunità
nazionali che hanno lottato e lottano per la propria sovranità
e imperi aggressivi e coloniali che cercano di assoggettare
altri popoli e
nazioni per sottometterli e asservirli ai propri interessi,
che si tratti interessi di egemonia e potere o meri interessi
economici; in questo periodo
di transizione a un nuovo ordine multipolare, in cui la
sovranità e l’autodeterminazione nazionale diventeranno
veramente il principio
fondante del nuovo equilibrio mondiale, popoli coraggiosi
hanno cominciato finalmente ad alzare la testa e le armi
contro i propri aggressori e contro
l’ordine mondiale costituito, un ordine dove il privilegio
della vera sovranità e libertà era ed è riservato a pochissime
nazioni del mondo che, per il loro atteggiamento, sarebbe più
corretto chiamare veri e propri imperi, le
quali, con la guerra
armata o anche solo quella economica, non accettano che questo
privilegio diventi diritto globale e condiviso. E anche per il
nostro Paese e per il
nostro continente, ormai da 80 anni militarmente occupato a
causa di una guerra persa, la questione della sovranità e
dell’indipendenza
diventa sempre più una questione dirimente e non più
rimandabile, una questione di vita o di morte
perché lo
spaventoso declino economico, demografico e culturale che
stiamo subendo è in gran parte frutto del fatto che non
abbiamo la possibilità
di portare avanti un’agenda dettata dai nostri interessi e che
le nostre classi dirigenti collaborazioniste,
sia politiche che
economiche e a Palazzo Chigi e come a Bruxelles,
sono accuratamente selezionate a monte e supportate dai media
dominanti sulla base della
loro mediocrità e servilismo nei confronti
dell’impero atlantico.
(quarta parte: riconoscere le radici storiche del neoliberismo e rispondere ad esso attraverso un’integrazione tra il “socialismo scientifico” marx-engelsiano – la cui centratezza la storia sta confermando – e le forme di esperienza, di pensiero e di movimenti alternativi più congrue, profonde e costruttive che si sono sviluppate nell’ultimo centinaio d’anni)*
Politiche keynesiane: una rilettura
critica della loro ascesa ed eclissi, anche alla luce
dell’opera di Michal Kalecki
1. Complessità storiche
Se si torna alle radici delle oscillazioni storiche che si sono verificate – dopo la tremenda “crisi del ’29” – tra gli orientamenti economici liberisti e la tendenza strutturale ad un ampio intervento pubblico nell’economia di mercato, si trova che un primo mutamento epocale avvenne progressivamente tra il 1930 e il 1950 e fu ispirato principalmente dall’economista britannico John Maynard Keynes e dai marcati successi economici che vennero ottenuti nel concreto dalle sue proposte estremamente innovative, contrassegnate anche da una spiccata sensibilità sia sociale che ambientale e culturale. Ma, quando si arrivò a quello che può essere definito il “periodo d’oro” dell’intervento pubblico in tale economia (in pratica, i 35 anni tra il 1945 e il 1980), ciò che avvenne fu che si trattò di un periodo solo superficialmente keynesiano: malgrado le frequenti celebrazioni pubbliche dei grandi talenti di Keynes, le sue idee complesse e sensibili vennero di fatto deformate ampiamente dalle élite politiche ed economiche dell’epoca e poi usate strumentalmente da queste in base ai propri specifici interessi materiali, scarsamente interessati in realtà tanto al piano sociale quanto a quello ambientale e a quello culturale [144]....
Nel complesso, i principali di questi interessi erano di due tipi: sul piano economico, ridurre la portata delle “crisi cicliche” dell’economia capitalistica (un intento condiviso da una parte notevole delle classi privilegiate, ma non dalla loro totalità, in quanto quelle crisi potevano sì trascinare in bancarotta grandi patrimoni, ma anche consentire grandi guadagni ai più abili e “fortunati” tra i finanzieri e gli speculatori...) e ampliare i profitti imprenditoriali trasformando i lavoratori anche in consumatori (così da poter moltiplicare le vendite complessive di prodotti da parte dell’insieme delle imprese); sul piano politico, che per molti in tali élite era ancor più significativo di quello economico, evitare il più possibile un forte “spostamento a sinistra” delle masse lavoratrici che le spingesse verso posizioni diffusamente anticapitalistiche come quelle che nella Russia del 1917 avevano portato alla “rivoluzione d’ottobre” (che parti consistenti delle classi popolari cercarono presto di emulare – ma senza successo – in altri paesi europei come specialmente Germania, Ungheria, Finlandia, Italia e Bulgaria).
Il costante sovradimensionarsi del carattere terrorista e fuorilegge nell’immediato agire dello Stato sionista impedisce di vedere ed esaminare la profondità della portata storica del progetto imperiale in altalenante corso di attuazione. Che, a guardare lontano, è la guerra dei mille anni dell’Occidente cristiano agli arabi. La superficie ribolle di episodi di feroce tracotanza, particolarmente rilevabili nella sistematica violazione, sotto i pretesti più farlocchi, di ogni accordo concluso con la controparte e delle garanzie offerte da mediatori che poi si rilevano essenzialmente sponsor della parte più cinica e sleale.
Ne dovrebbe risultare, all’opinione pubblica internazionale, una sempre meno annebbiata, dalla propaganda politico-mediatica, percezione dello stato delle cose, del giusto e dell’ingiusto. Effetto che l’omologazione-concentrazione proprietaria dell’informazione in area occidentale si preoccupa di sventare. Alla stessa maniera in cui l’abbagliante evidenza del contrasto tra quanto ci viene mostrato della liberazione delle prigioniere israeliane e quanto ci viene occultato della fine del sequestro, perlopiù ultradecennale, degli ostaggi nelle Guantanamo israeliane.
Abbiamo capito che quanto a Israele, a dispetto di tutte le complicità armate, finanziarie, (im)morali fornite, non è riuscito a Gaza, ora, su probabile spinta del neo presidente USA, va messo in campo in Cisgiordania.
Secondo quanto pubblicato dal canale ucraino Strana, il piano dell’amministrazione Trump per porre fine al conflitto avrebbe una precisa scaletta temporale e programmatica. Il piano di pace, diffuso da Strana (e sul quale non c’è al momento alcuna conferma ufficiale, ovviamente) sarebbe stato elaborato a Washington, presentato ad alcuni diplomatici europei, e poi da questi girato a Kiev.
Per il momento, quindi, potrebbe trattarsi semplicemente di una indiscrezione lasciata filtrare per sondare il terreno o, viceversa, per bruciarla sul nascere. Il fatto che sia stata diffusa dagli ucraini, che difficilmente ne digerirebbero i termini, potrebbe far pensare a questa seconda ipotesi.
La messa in atto del piano dovrebbe partire con una conversazione telefonica tra Putin e Trump a fine gennaio / inizio febbraio, e concludersi (ipoteticamente) ad agosto, con le elezioni presidenziali in Ucraina. Ma, al di là della previsione in ordine ai tempi – troppo rigida per reggere al confronto con la realtà, in ogni caso – è più interessante guardare appunto ai termini che Washington delinea come base per il negoziato.
Innanzi tutto, si certificherebbe il non ingresso dell’Ucraina nella NATO, anche attraverso una dichiarazione di neutralità da parte di Kiev, che verrebbe ulteriormente sancita da una decisione dell’Alleanza Atlantica stessa.
In una economia già surriscaldata, gli interventi minacciati da Trump rischiano di rilanciare in tempi brevi l’inflazione. Il presidente esorcizza lo spettro inflazione puntando sull’aumento dell’export di energia fossile, a onta delle ripercussioni ambientali, ma sottovaluta l’innesco del processo a livello mondiale
La politica economica annunciata dal presidente Trump, se attuata, non risolverà i problemi degli Stati Uniti e influirà molto negativamente sull’economia mondiale. Muove, tale politica, dalla manifestazione più vistosa di quei problemi: lo squilibrio esterno, umiliante, contro natura per un grande paese. La bilancia dei pagamenti Usa è in cronico, crescente disavanzo dai primi anni Settanta del secolo scorso. Nel 2024 il deficit ha sfiorato il trilione di dollari.
I disavanzi sono stati coperti da una posizione debitoria netta verso l’estero esplosa in questo secolo da uno a 24 trilioni di dollari (prossimi all’85% del Pil). All’epoca lo denunciavano Charles de Gaulle e il suo economista Jacques Rueff: gli americani vivono al di sopra di quanto producono, finanziati dal resto del mondo, a spese del resto del mondo, meno ricco di loro.
In posizione creditoria netta – anche verso altri paesi debitori, non verso un’Italia in lieve surplus – si situano il Giappone, la Germania e in misura crescente la Cina, ciascuno con un attivo compreso fra tre e quattro trilioni di dollari.
Nonostante la dicitura “quotidiano comunista” campeggi ancora sulla sua testata, Il Manifesto ha recentemente pubblicato articoli che riproducono narrazioni occidentali critiche verso i Paesi socialisti. L’ultimo caso riguarda il Vietnam e l’opera di Nguyễn Thanh Việt, tra revisionismo storico e omissioni significative
Sulla prima pagina de Il Manifesto campeggia ancora oggi la scritta “quotidiano comunista”. Proprio per questa ragione, troviamo alquanto curioso il fatto che, negli ultimi anni, sulle pagine di questo giornale si siano moltiplicati gli articoli che tendono ad attaccare i Paesi socialisti, soprattutto la Cina, ma anche la Corea del Nord e persino Cuba. Sia chiaro che non stiamo dicendo che bisognerebbe farne un’agiografia acritica, ma da un quotidiano che ancora si definisce “comunista” ci aspetteremmo quanto meno una postura più analitica e che non vada a replicare gli stessi schemi della stampa borghese. Altrimenti, tanto varrebbe leggere La Repubblica o il Corriere della Sera.
L’ultimo esempio in tal senso è rappresentato da un articolo uscito lo scorso 4 gennaio a firma di Umberto Rossi, una sorta di recensione del saggio Riflessi di guerra: Storia e antirealismo nella narrativa di Viet Thanh Nguyen, opera del ricercatore Giacomo Traina, nel quale si analizzano gli scritti di Nguyễn Thanh Việt, accademico e autore vietnamita-statunitense, che diventa il pretesto per fare del revisionismo storico circa le vicende del Vietnam nello scorso secolo.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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In termini di profondità e dirompenza, i drammatici avvenimenti internazionali che travolsero il mondo tra il 1914 e il 1918 esemplificano come poche altre epoche storiche cosa si intenda per «crisi organica». Ciò vale particolarmente per la Russia sconquassata dalle molteplici conseguenze di una guerra disastrosa che, acutizzando i problemi strutturali di questo immenso Paese, portò al clamoroso crollo dell’impero zarista nel febbraio 1917. Dobbiamo la conoscenza di quanto accadde nella caotica Russia post-rivoluzionaria soprattutto al talento di tre grandi scrittori che, come ha scritto Ronald W. Clark, del loro soggiorno russo non lasciarono soltanto freddi resoconti di cronaca giornalistica. Tre narratori di eccezione come M. Philips Price, Arthur Ransome e John Reed, infatti, descrissero con vividi affreschi le immagini decadenti di un vecchio mondo che moriva, volgendo al contempo la propria curiosa attenzione verso i primi vagiti di quello nuovo che tentava disperatamente di nascere. Anche grazie a loro è stato possibile ricostruire il ruolo politico di Lenin in uno scenario per molti versi grottesco, nel quale, a causa di una guerra sconsiderata, la stragrande maggioranza della popolazione viveva nella miseria più assoluta e pativa la fame, mentre per ristrette fasce di popolazione nulla era cambiato.
«A Pietrogrado, all’Hotel Europa, c’era ancora Jimmy, del Waldorf-Astoria di New York, che continuava a servire i suoi cocktail. La Karsavina danzava ancora Il lago dei cigni davanti a platee rapite e Šaljapin continuava a deliziare i suoi ascoltatori in immacolati abiti da sera. Benché le riserve di viveri si facessero sempre più scarse, la maggior parte dei ristoranti di lusso non solo era aperta, ma faceva affari d’oro. Lo stesso avveniva per i teatri e i cabaret, anche se alle loro porte si svolgevano dimostrazioni e controdimostrazioni che spesso degeneravano in tumulti»1.
DeepSeek è un modello di intelligenza artificiale cinese che sta sfidando con successo i colossi tecnologici americani e che rischia di bucare la bolla dell’HiTech statunitense gonfiata a dismisura dalle big three, i grandi fondi di investimento USA. Possibili vendite allo scoperto da parte di grandi player finanziari.
Il modello di IA cinese gratuito e Open Source ha raggiunto prestazioni elevate in tempi brevi e con un budget limitato, scuotendo il panorama dell’IA a livello globale
DeepSeek è stato sviluppato da un team cinese [1] con un investimento di soli 5 milioni di dollari, un importo notevolmente inferiore rispetto ai miliardi spesi da aziende come Open AI, Google e Meta. Nonostante ciò, DeepSeek ha superato modelli come GPT-4 di OpenAI e Claude 3.5 Sonnet di Antropic, specialmente in matematica e coding (in particolare, DeepSeek V3 ha raggiunto un’accuratezza del 51.6% in matematica e coding, rispetto al 23.6% di GPT-4o e il 20.3% di Claude 3.5).
Questo è stato possibile grazie a un’architettura chiamata mixture of experts – che riduce i costi computazionali – e ad altre tecniche innovative di addestramento, come il dual pipe and computation communication overlap (l’utilizzo di floating point 8 anziché 32 e la previsione di due token successivi invece di uno. Inoltre, DeepSeek è stato addestrato con sole 2000 schede video H800, mentre altri modelli hanno richiesto oltre 100.000 schede).
Un aspetto fondamentale di DeepSeek è la sua natura open source (OS), che permette a chiunque di studiare, utilizzare e migliorare il modello. Questo approccio che è utile approfondire qui di seguito, si contrappone alla strategia delle grandi aziende tecnologiche che custodiscono gelosamente le loro tecnologie. La disponibilità del codice sorgente di DeepSeek sta abbassando le barriere all’innovazione e spostando il potere dai giganti dell’IA a una comunità globale di sviluppatori.
Occidente.
Liberismo. Nazione. Atlantismo. Democrazia. Razzismo. Élite.
Le categorie con cui abbiamo finora interpretato la realtà
sono state
travolte dalla valanga trumpiana. Sarebbe da riscrivere un
intero vocabolario ermeneutico, dopo la conquista della Casa
Bianca da parte di The Donald.
I primi 100 decreti immediati – uno “tsunami”, li ha definiti
il suo ex stratega Steve Bannon – danno un quadro già
abbastanza chiaro dell’onda d’urto che si abbatterà non solo
sugli Stati Uniti e sul mondo ma anche, più in
profondità, sui nostri paradigmi.
Qui mi proverò nel tentativo di una guida minima, pubblicata in tre parti in rigoroso disordine alfabetico. Un abbozzo di critica del pregiudizio riguardante alcune verità ormai consunte. Una critica, in parte, che è anche salutare autocritica. Di seguito, la prima parte.
Democrazia (rappresentativa delle élites, fino a un certo punto)
Non è più vero, o non necessariamente, che il voto alle elezioni sia un passaggio residuale, poco incisivo e non dirimente, rispetto alle decisioni che piovono dall’alto, nelle cabine di regìa dove si fanno e si disfano i veri giochi. Il potere, beninteso, passa regolarmente di mano in mano entro ristrette cerchie che si spartiscono il controllo delle forze istituzionali, economiche, militari e culturali. La paretiana circolazione delle élites è sempre viva e prospera, in ossequio alla legge ferrea dell’oligarchia. Ma se il consenso delle urne esprime un vincitore netto, leader incontrastato della propria fazione che riflette su di sé un campo di egemonia largamente diffusa, allora il rito elettorale può fare la differenza.
È l’identikit di Trump, che tornato da trionfatore nello Studio Ovale con una legittimazione fortissima, è oggi nelle condizioni di parlare, come vedremo, da pari a pari perfino con l’uomo più ricco del pianeta, Elon Musk.
La fintocrazia trova il suo momento più epico non nello scontro tra destra e sinistra, bensì nella diatriba tra politica e magistratura. La riforma Nordio va stranamente a coincidere con la ricorrenza della morte di Bettino Craxi, colui che una certa vulgata presenta come il martire più illustre del “colpo di Stato giudiziario” del pool di PM milanesi detto “Mani Pulite”; un golpe che sarebbe avvenuto tra il 1992 e il 1993. Purtroppo il gioco delle parti impone che questa narrativa non venga contrastata entrando nei dettagli storici, perciò all’immagine dell’esule perseguitato, rifugiatosi ad Hammamet come a suo tempo Giuseppe Mazzini, si contrappone l’altrettanto acritica versione sul latitante che sfugge ai processi per mazzette. Un articolo sul quotidiano online Linkiesta si compiace del fatto che il presidente Mattarella abbia scavalcato le timidezze nella rivisitazione della figura di Craxi per mettere in evidenza l’opera dello “statista”. Ovviamente siamo sul piano delle chiacchiere; infatti l’articolo si impantana in un calderone di considerazioni inconcludenti sugli esiti politici della fine di Craxi, infilandoci i fumi del “populismo” e persino Giuseppe Conte, il che è quanto dire.
Peccato che tredici anni fa proprio il quotidiano Linkiesta abbia pubblicato un articolo che, sebbene fuorviante nel titolo, riportava qualche fatto che smentisce l’attuale pantomima che si svolge sulle spoglie di Craxi. Il 29 aprile 1993 la Camera respinse la richiesta di autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi.
Dietro alle vicende siriane, e non ci
riferiamo solo alla recente e repentina caduta di Assad bensì
alle origini della guerra nel 2011, vi sono importanti
elementi strutturali che
meritano di essere presi in considerazione.
Gasdotti e oleodotti
La Siria non occupa una posizione strategica solo per l’Asse della resistenza, che ha infatti subito un duro colpo dato che la caduta del (legittimo) governo siriano aumenta le difficoltà di Teheran nel rifornire di armi Hizballah, ma ha una rilevanza per i diversi progetti, prioritario su tutti quello dell’imperialismo statunitense (con collaborazione dell’imperialismo regionale israeliano) di ridisegnare il Medioriente, che hanno contribuito prima allo scoppio del conflitto nel 2011 e poi all’abbattimento della Repubblica araba siriana tredici anni dopo.
A cavallo fra il 2009 e il 2010 sono stati scoperti nel Mediterraneo orientale giacimenti di gas e petrolio in grado di garantire per 50 anni le riserve mondiali di energia fossile. La conseguente strategia delineata dall’imperialismo occidentale è stata quella di pensare a come sfruttare questi giacimenti in modo da eliminare la dipendenza energetica europea dai rifornimenti provenienti dalla Russia[1], mentre il capitale russo correva ai ripari stipulando una serie di accordi con i paesi rivieraschi (Siria, Libano, Israele, Gaza, Egitto, Turchia e Cipro) per costruire nuove infrastrutture con lo scopo di indirizzare il flusso energetico verso i mercati asiatici puntando al duplice obiettivo di conquistare nuovi clienti e mantenere la posizione egemonica nel rifornire l’Europa. Gli altri paesi interessati alla realizzazione di nuovi corridoi energetici non restavano con le mani in mano, nello specifico per quanto riguarda la Siria nel 2009 il Qatar (potendo anche contare sulla messa fuorigioco dei rifornimenti iraniani all’Europa grazie alle sanzioni) aveva progettato un gasdotto di 5.000 chilometri lungo la direttrice Qatar-Arabia Saudita-Giordania-Siria-Turchia-Ue che avrebbe permesso a Doha di raggiungere più economicamente e rapidamente il mercato europeo al posto del trasporto via nave evitando al contempo le pericolose strozzature dello stretto di Hormuz (facilmente bloccabile dagli iraniani in caso di conflitto), all’Ue di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e alla Turchia di intascare le tasse di transito.
L'impero americano sarà l'ultimo della storia, ma Pechino non intende sostituirsi agli Usa quale dominus unipolare. La via cinese allo sviluppo – stabilità sociale, economia di mercato vigilata, controllo pubblico delle risorse – è un incubo per il capitalismo occidentale
I
bolscevichi giungono alla vittoria persuasi di costituire il
primo capitolo della rivoluzione proletaria universale,
in un paese dove gli
operai erano una sparuta minoranza rispetto ai
contadini/schiavi dell’impero zarista.
La Cina tra Usa e Urss
Scomparso Lenin e dovendo sopravvivere come avamposto socialista sotto assedio, l’Unione Sovietica di J. Stalin accetta di convivere col mondo borghese in attesa di quella palingenesi proletaria che tuttavia si allontana sempre più. Il vanificarsi di tale speranza avrebbe portato alla russificazione del comunismo, che Mao Zedong, alla fine degli anni ’50, accuserà di esser divenuta l’avamposto dell’imperialismo russo mascherato da internazionalismo proletario.
In Cina, l’aspirazione alla palingenesi sociale si accompagna sin dagli esordi alla lotta contro colonialismo e imperialismo, prima britannico/occidentale, poi giapponese. Nel 1949, sconfitti il Kuomintang e gli americani, l’urgenza è quella di ricostruire un paese sterminato e arretrato, obiettivo che implica stabilità politica. In tali circostanze, il comunismo cinese non può certo impegnarsi in un’ipotetica rivoluzione proletaria universale. Mao era poi persuaso che entrambi, Stati Uniti e Unione Sovietica, puntassero a comprimere la sovranità della Cina, i primi per ragioni imperialistiche, la seconda per consolidare la leadership in seno alla galassia comunista. Lo strappo con l’Urss si consuma nel ‘59 con il rifiuto di Krusciov di fornire a Pechino la tecnologia per l’arma atomica, secondo Mosca perché questo avrebbe impedito la distensione con l’Occidente, in realtà perché ciò avrebbe reso la Cina ancor più svincolata dall’Unione Sovietica.
Nel 1969, con gli incidenti sull’Ussuri si giunge a un passo da un conflitto aperto. Il rischio d’isolamento e le tensioni con l’Urss, dunque, convincono Mao ad assecondare l’intento di Washington di giocare la carta cinese in funzione antisovietica, mentre a sua volta guarda all’ingresso della Cina alle N.U.[i] al posto di Taiwan (obiettivo poi raggiunto il 25 ottobre 1971).
La
maggior parte dei lettori ormai conoscerà la notizia.
DeepSeek, un'azienda cinese di intelligenza artificiale, ha
rilasciato un modello di
intelligenza artificiale chiamato R1 che è paragonabile in
termini di capacità ai migliori modelli di aziende come
OpenAI, Anthropic e
Meta, ma è stato preparato a un costo radicalmente inferiore e
utilizzando chip GPU meno all'avanguardia. DeepSeek ha anche
reso pubblici
dettagli sufficienti del modello affinché altri possano
eseguirlo sui propri computer senza costi.
DeepSeek è un siluro che ha colpito le magnifiche sette aziende hi-tech statunitensi sotto la linea di galleggiamento. DeepSeek non ha utilizzato i chip e il software Nvidia più recenti e migliori; non ha richiesto grandi spese per addestrare il suo modello di intelligenza artificiale a differenza dei suoi rivali americani; e offre altrettante applicazioni utili. DeepSeek ha costruito il suo R1 con i chip Nvidia più vecchi e lenti, che le sanzioni statunitensi avevano consentito di esportare in Cina. Il governo statunitense e i titani della tecnologia pensavano di avere il monopolio nello sviluppo dell'intelligenza artificiale a causa degli enormi costi coinvolti nella realizzazione di chip e modelli di intelligenza artificiale migliori. Ma ora R1 di DeepSeek suggerisce che le aziende con meno soldi possono presto gestire modelli di intelligenza artificiale competitivi. R1 può essere utilizzato con un budget limitato e con una potenza di calcolo molto inferiore. Inoltre, R1 è bravo quanto i rivali nell'inferenza, il gergo dell'intelligenza artificiale per quando gli utenti mettono in discussione il modello e ottengono risposte. E funziona su server per tutti i tipi di aziende in modo che non debbano "affittare" a prezzi enormi da aziende come OpenAI. La cosa più importante è che R1 di DeepSeek è "open source", ovvero i metodi di codifica e formazione sono aperti a tutti per essere copiati e sviluppati. Questo è un vero colpo ai segreti "proprietari" che OpenAI o Gemini di Google rinchiudono in una "scatola nera" per massimizzare i profitti. L'analogia qui è con i prodotti farmaceutici di marca e generici.
Dopo esserci abboffati di talk show monotematici e ricostruzioni giornalistiche di diverso orientamento, ci sembra di poter dire che il nuovo “caso Meloni” sia abbastanza semplice.
L’ex ragazza del Movimento Sociale almirantiano, oggi primo ministro (e prima donna in tale ruolo), nonché al momento unica abbastanza salda sulla sedia tra i premier europei, per di più simpaticamente ammessa alla corte di Musk e Trump insieme a Milei, ha ricevuto dal Procuratore capo di Roma – Francesco Lo Voi – la segnalazione di essere stata iscritta nel registro degli indagati in seguito alla denuncia presentata da un privato cittadino, per quanto “speciale”: l’avvocato Luigi Li Gotti. La cronaca dei fatti è ricostruita fedelmente in questo altro articolo.
I reati contestati dall’avvocato sono favoreggiamento personale (nei confronti del generale libico Najeen Osama Almasri) e peculato (per l’uso dell’aereo di Stato utilizzato dai servizi segreti per rimpatriarlo). A farle compagnia sono i ministri della giustizia Carlo Nordio, quello dell’interno Piantedosi e il sottosegretario Mantovano (che ha la delega ai servizi segreti).
Di certo non è un “avviso di garanzia” e non si tratta di una iniziativa della magistratura.
Quindi su questo punto Meloni mente. Punto.
L’avvocato Li Gotti, peraltro, dovrebbe essere una sua vecchia conoscenza in quanto era stato come lei un militante del Movimento Sociale almirantiano, poi traslocato ovviamente in Alleanza Nazionale e infine approdato in Italia dei Valori (finto partito personale dell’ex commissario di polizia Antonio Di Pietro, protagonista dell’operazione di lawfare chiamata “Mani pulite”) giusto in tempo per fare il sottosegretario in un governo Prodi.
In questi giorni si fa un gran parlare delle prime disposizioni del presidente Trump circa l’espulsione di quei nuovi immigrati sul suolo statunitense entrati durante il mandato di Biden.
I primi voli sono cominciati lo scorso venerdì e sono stati definiti da fonti della Casa Banca come parte della “più grande operazione di rimpatri” della storia degli Stati Uniti, che dovrebbe riguardare circa 1,3 milioni di immigrati irregolari.
L’espressione delle fonti della Casa Bianca è stata alla lettera "largest deportation operation”.
Da qui in Italia molti, sull’onda dell’emozione forse per l’avvicinarsi del giorno della Memoria, hanno tradotto “la più grande operazione di deportazione”, commettendo quello che considero un errore grossolano, per quanto comune e condiviso.
Il termine "deportazione" in Italiano ha un significato preciso, la cui estensione ai casi in questione è subdolo malcostume introdotto anni orsono da sottili (e finanziati) linguisti dell'arrembaggio pro-migrazionista.
In altre parole si tratta di una manipolazione linguistica. E le manipolazioni non portano mai niente di buono.
Confrontiamo le definizioni in Italiano e in Inglese fornite da prestigiosi dizionari.
La Treccani riporta il significato di "deportazione" in questi termini:
Secondo quanto pubblicato dal canale ucraino Strana, il piano dell’amministrazione Trump per porre fine al conflitto avrebbe una precisa scaletta temporale e programmatica. Il piano di pace, diffuso da Strana (e sul quale non c’è al momento alcuna conferma ufficiale, ovviamente) sarebbe stato elaborato a Washington, presentato ad alcuni diplomatici europei, e poi da questi girato a Kiev.
Per il momento, quindi, potrebbe trattarsi semplicemente di una indiscrezione lasciata filtrare per sondare il terreno o, viceversa, per bruciarla sul nascere. Il fatto che sia stata diffusa dagli ucraini, che difficilmente ne digerirebbero i termini, potrebbe far pensare a questa seconda ipotesi.
La messa in atto del piano dovrebbe partire con una conversazione telefonica tra Putin e Trump a fine gennaio / inizio febbraio, e concludersi (ipoteticamente) ad agosto, con le elezioni presidenziali in Ucraina. Ma, al di là della previsione in ordine ai tempi – troppo rigida per reggere al confronto con la realtà, in ogni caso – è più interessante guardare appunto ai termini che Washington delinea come base per il negoziato.
Innanzi tutto, si certificherebbe il non ingresso dell’Ucraina nella NATO, anche attraverso una dichiarazione di neutralità da parte di Kiev, che verrebbe ulteriormente sancita da una decisione dell’Alleanza Atlantica stessa.
In una economia già surriscaldata, gli interventi minacciati da Trump rischiano di rilanciare in tempi brevi l’inflazione. Il presidente esorcizza lo spettro inflazione puntando sull’aumento dell’export di energia fossile, a onta delle ripercussioni ambientali, ma sottovaluta l’innesco del processo a livello mondiale
La politica economica annunciata dal presidente Trump, se attuata, non risolverà i problemi degli Stati Uniti e influirà molto negativamente sull’economia mondiale. Muove, tale politica, dalla manifestazione più vistosa di quei problemi: lo squilibrio esterno, umiliante, contro natura per un grande paese. La bilancia dei pagamenti Usa è in cronico, crescente disavanzo dai primi anni Settanta del secolo scorso. Nel 2024 il deficit ha sfiorato il trilione di dollari.
I disavanzi sono stati coperti da una posizione debitoria netta verso l’estero esplosa in questo secolo da uno a 24 trilioni di dollari (prossimi all’85% del Pil). All’epoca lo denunciavano Charles de Gaulle e il suo economista Jacques Rueff: gli americani vivono al di sopra di quanto producono, finanziati dal resto del mondo, a spese del resto del mondo, meno ricco di loro.
In posizione creditoria netta – anche verso altri paesi debitori, non verso un’Italia in lieve surplus – si situano il Giappone, la Germania e in misura crescente la Cina, ciascuno con un attivo compreso fra tre e quattro trilioni di dollari.
La serie rispetta la "verità storica sostanziale"? Il commento dello storico Gianpasquale Santomassimo
Per dovere professionale, 7 anni fa acquistai il primo massiccio volume dell’opera di Scurati su M. L’autore ormai era stato proclamato il Vate del nuovo antifascismo formato “Repubblica” e questo mi ispirava diffidenza. Comunque mi disposi a leggerlo senza pregiudizi, ma confesso che abbandonai a un terzo dell’opera, sopraffatto dalla verbosità incontenibile della scrittura. A qualcuno piacque, anche fra gli storici. Si discuteva dell’efficacia divulgativa della formula adottata. Per quanto mi riguarda detestavo i giornalisti storici che mettevano tra virgolette pensieri da loro attribuiti ai personaggi, e si può capire cosa pensassi di un autore che scriveva impersonando un personaggio storico (non uno qualsiasi, peraltro).
Ma ora il film è un prodotto del tutto diverso, di indubbia efficacia, e destinato ad avere successo. Uno stimabilissimo amico come De Luna sulla Stampa ne ha scritto come opera che rispetta la verità storica sostanziale (il fascismo fu un fenomeno molto violento, che andò al potere con la complicità del sovrano, e che M. era un opportunista).
Credo che questo prodotto – molto ben fatto - debba stimolare in realtà riflessioni più complicate.
Per quanto riguarda le “verità storiche” si può formulare un breve e molto incompleto elenco, sulla base delle prime 4 puntate.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Una valanga di
provocazioni ha caratterizzato la prima settimana alla Casa
Bianca di Donald Trump in politica estera, dove la foga di
imporre il nuovo corso
dell’America “tornata grande” sembra portare il neo presidente
ai ferri corti con alleati, vicini e rivali dall’Europa al
Medio Oriente, dalla Groenlandia alla Russia, dai BRICS
all’America Latina.
Che si tratti di passi falsi o dell’ostentazione della forza che Washington intende utilizzare o forse solo minacciare per dirimere le contese con alleati e rivali solo il tempo potrà dirlo.
Il monito lanciato a Vladimir Putin affinché negoziare sull’Ucraina ha fatto seguito a molti segnali di distensione verso il Cremlino. Se non accetterà di negoziare per porre fine alla guerra in Ucraina, gli Stati Uniti porranno nuove ulteriori sanzioni alla Russia e ai suoi alleati ha fatto sapere Trump due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, in un messaggio pubblicato su Truth Social.
“Ho sempre avuto un ottimo rapporto con il presidente Putin. Non voglio danneggiare la Russia. Farò alla Russia, la cui economia sta fallendo, e al presidente Putin, un grandissimo favore. Raggiungete un accordo ora e fermate questa ridicola guerra! Non potrà’ che peggiorare!”.
Mostrando aperture verso Mosca, Trump ha aggiunto che “non dobbiamo mai dimenticare che la Russia ci ha aiutato a vincere la Seconda Guerra Mondiale, perdendo quasi 60 milioni di vite umane”. Una gaffe storica non proprio edificante per il neo presidente e il suo staff.
Trump aveva definito l’Ucraina “un Paese raso al suolo dalla guerra”, sottolineando l’enorme tributo di sangue che il conflitto è costato a entrambi i belligeranti auspicando che il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, voglia porre fine quanto prima al conflitto ma, aggiungendo che per conseguire tale obiettivo è necessaria una reale apertura al dialogo da parte di Putin, benché “Zelensky non sia un angelo”, come ha ricordato Trump dando un colpo al cd4rchio e uno alla botte.
Il libro di Gianfranco La Grassa Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin rappresenta il punto di arrivo della lunga parabola intellettuale di La Grassa e del suo personale ripensamento della teoria marxista
1. Ripensare il
marxismo
Per La Grassa la scienza disantropomorfizza e per questo motivo le scienze naturali si sono dovute liberare di ogni forma di animismo. Concetti come forza o magnetismo possono portare ad alcuni errori perché fanno credere all’esistenza di qualità intrinseche alla materia di cui sono costituiti i corpi fisici. Si tratta, invece, di caratteristiche delle funzioni che esercitano in determinate condizioni di intreccio e interazione reciproca. La matematica aiuta, esattamente come il linguaggio, a sfuggire da ogni punto di vista sostanziale. Esiste una fondamentale unitarietà di metodo tra tutte le scienze, incluse quelle sociali. Concetti come formazione sociale o modo di produzione non fanno eccezione. Lo scienziato deve limitarsi alle funzioni di dati soggetti e descriverne i caratteri per costruire l’intelaiatura della società. La scienza non serve a rispondere alle domande essenziali che l’uomo si pone circa la sua esistenza o i fini ultimi della sua vita ma deve forgiare strumenti per orientare le nostre azioni in una realtà complessa come la società umana. Quindi la scienza non risponde a domande sull’essenza umana e neanche deve porsi simili questioni ma allo stesso tempo lo scienziato sociale non deve indagare la realtà per imbrigliarla in schemi teorici che orientano l’interpretazione e l’azione nella società con lo stesso spirito che guida il lavoro degli scienziati che interpretano la natura. Analizzare le forme storiche delle relazioni sociali ha bisogno di strumentazioni teoriche tanto quanto l’analisi del moto degli astri o delle reazioni chimiche ma lo spirito che muove le analisi nei vari rami delle scienze non è uguale.
In Marx è sempre stata presente una pulsione all’oggettività scientifica che nasceva dal suo essere un rivoluzionario e dal non volersi limitare ad analizzare il mondo in cui viveva ma a trasformarlo. Per conseguire un simile scopo non era sufficiente l’adesione morale ad un progetto politico ma studiare le sue condizioni di possibilità attraverso l’analisi della struttura interrelazionale e interazionale tra le varie classi.
Su un recente volume di Finelli e Gatto contro il rigetto del pensiero dialettico. – Marxismo dell’astrazione e marxismo della contraddizione. – L’attuale dominio assoluto del capitalismo svuota la cultura di funzione critica. – Il processo ha investito anche il concetto gramsciano di egemonia, negando il suo cuore economico e riducendolo a fatto culturale. Si è aperta così la strada alla «soggettivizzazione della politica». – La scuola come sede dell’utopia possibile
Sistema,
dialettica, totalità. Giudicate come estinte da buona parte
degli orientamenti culturali oggi egemoni in Occidente, nonché
da correnti
filosofiche a vario titolo eredi di Althusser in Francia e di
Della Volpe in Italia, le categorie della tradizione
hegelo-marxista sono indicate da
Roberto Finelli e Marco Gatto nel loro recente volume Il
dominio dell’esteriore. Filosofia
e
critica della catastrofe (Roma,
Rogas, 2024, pp. 160) come le uniche in grado di garantire una
comprensione critica della
società attuale. In questa fortunata unione di due delle
intelligenze più innovatrici della filosofia italiana
contemporanea viene
proposta quale chiave interpretativa del presente della
globalizzazione neoliberale quella del compiersi del processo
di universalizzazione del
capitale, inteso come Übergreifende Subjekt,
o “soggetto dominante”, della modernità, indagandone le
conseguenze sul piano antropologico e culturale.
Al volume va anzitutto riconosciuto il merito di aver fatto chiarezza sulla modalità con cui a partire dagli anni Settanta sia avvenuto in Italia il processo di liquidazione della cultura filosofica marxista e la sua sostituzione con gli autori del pensiero negativo. Concretizzandosi nel passaggio dell’anticapitalismo dai moduli del pensiero storico-sociologico a quelli di ascendenza ontologico-teologica, questa vicenda viene osservata all’interno della più ampia svolta del pensiero occidentale scaturita dal ritorno a Parmenide di Heidegger e proseguita attraverso una serie di Filosofie e teorie dell’altro mondo, secondo l’espressione che dà il titolo al terzo capitolo. Il Grand Autre di Lacan, il Vuoto-Nulla di Agamben, l’operaismo teologico di Tronti, il poter-dire di Virno, filosofie assai di moda nelle accademie italiane degli ultimi anni, sarebbero a vario titolo eredi della riproposizione ontologica della categoria di Essere compiuta dalla rivoluzione conservatrice heideggeriana. Un passaggio reazionario osservato anzitutto nella riconcettualizzazione del significato di Essere da quello di necessità a quello di possibilità, che farebbe dell’essere umano il prodotto di un riferimento al futuro estraneo alla riproduzione biologica, storica e sociale della vita.
C’è una dannata fretta nell’aprire la guerra – commerciale, per ora – contro tutto il mondo. E probabilmente pesano anche gli squarci aperti sulla “narrazione MAGA” dai quotidiani incidenti aerei che vanno mostrando al mondo quanto la “grandezza statunitense” non sia proprio nel suo momento migliore.
Anticipando di un mese la partenza delle ostilità rispetto a quanto scritto nei suoi “ordini esecutivi”, comincia già oggi comincia la prima guerra commerciale della seconda presidenza di Donald Trump.
Il portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha infatti smentito un’indiscrezione diffusa dalla Reuters (“dazi dal 1° marzo“) e ha confermato che partiranno oggi 1° febbraio.
I beni provenienti dalla Cina, ha detto Leavitt, saranno sottoposti a dazi del 10%, mentre quelli dal Messico e del Canada al 25. Dazi del 25% faranno certamente salire il prezzo che i consumatori Usa pagheranno per qualsiasi merce importata da quei paesi, ma soprattutto faranno scattare analoghe ritorsioni (riducendo così i margini dell’esportazione per il non molti prodotti Usa che viaggiano in direzione opposta).
Il Canada ha già preparato e annunciato una serie di contromisure forti, ha detto il primo ministro canadese Justin Trudeau: “Saremo pronti a rispondere, una risposta mirata, energica ma ragionevole e immediata. Non è quello che vogliamo, ma se si muoverà, agiremo anche noi. Non cederemo finché le tariffe non saranno rimosse e, naturalmente, tutto è sul tavolo“.
Con buona pace di quelli che mi hanno voluto affibbiare l’etichetta di filo-Putin e di anti-americano, è proprio nel cuore delle istituzioni statunitensi che si stanno rivelando i fatti che ho sempre raccontato.
L’audizione al Senato USA di Tulsi Gabbard, nominata da Donald Trump alla guida delle 18 agenzie di intelligence statunitensi, è stata un fuoco di fila di tabù politici abbattuti uno dopo l’altro nella sede più solenne. Per capirci: ha dichiarato le stesse cose che scrivo da anni in libri, atti parlamentari e articoli guadagnandomi lo stigma di “complottista” e altri attacchi insultanti presso le officine dei media dominanti: cioè che al-Qāʿida e la galassia jihadista sono stati meri strumenti di Washington e che tutte le guerre degli ultimi venticinque anni (per stare solo al nostro secolo) sono state fatte dal governo statunitense sulla base di falsi pretesti e con effetti destabilizzanti e criminali.
Gabbard ha tenuto testa a parlamentari totalmente disabituati all’esposizione di verità così scandalose e imbarazzanti. Non so se alla fine avrà quei 51 voti su 100 che le servono, perché le reazioni di una parte della politica e dei bugiardi dei media sono furibonde e senza precedenti: gli interessi minacciati sono immensi. Ma di certo gli effetti saranno durevoli e nulla potrà essere come prima. Trump ha puntato la prua contro il mondo “neo-con” che con ogni probabilità non è estraneo alle pallottole che lo hanno sfiorato. Perciò ha voluto dare un ruolo chiave a una figura come Tulsi Gabbard (così come sulla Sanità ha sfidato la super-mafia farmaceutica lanciando Robert Kennedy Jr.).
Noi tireremo diritto” è sicuramente il motto del Governo riguardo al nucleare. Il ministro, diciamo così, competente ha depositato un disegno di legge-delega al Governo che prevede, appunto, di procedere per il ritorno dell’Italia nella confraternita internazionale dei paesi nuclearisti. Poco importa che l’economicità del nucleare stia sempre più declinando anche e soprattutto nel contesto delle economie liberiste, poco importa che i tempi di realizzazione di nuove centrali siano incompatibili con quelli di un’emergenza climatica più che incombente e che i costi siano esorbitanti e tali da non trovare di certo investitori privati se non dietro totale garanzia pubblica. L’importante è utilizzare le parole magiche giuste; nel caso del decreto il nucleare futuro è sempre congiunto con la qualifica “sostenibile”, senza naturalmente che il decreto stesso ne definisca il significato. Ma la parola risolve!
La presidente del consiglio, di ritorno da Baku dove era andata per la COP29, ricorda che «l’Italia è impegnata in prima linea sul nucleare da fusione» dopo aver detto, nel corso della conferenza, che in futuro dovremo anche utilizzare «il nucleare da fusione che potrebbe produrre energia pulita, sicura e illimitata»: magia delle parole. D’altra parte i pilastri su cui poggia il palcoscenico della politica al riguardo del nucleare sono Enel, Leonardo, Ansaldo, Enea, Snam (almeno per la ipotizzata produzione di idrogeno): tutte imprese o enti a partecipazione, anzi sotto il controllo pubblico (resta da capire chi controlli chi).
Io credo nei contenuti non nelle competenze, nelle tecniche, nelle didattiche. Credo in una scuola dei contenuti, cioè della cultura, del pensiero, dell’affinamento del gusto. Credo che la competenza che si origina dal sapere Dante sia conoscere Dante. Credo che la competenza che si origina dal sapere Hegel sia conoscere Hegel. E se non lo sai applicare o non lo usi nella costruzione della tua cultura non è perché dovevi svilupparne le collegate competenze ma semplicemente perché non lo hai capito, lo hai fatto male, ne hai fatto poco. Pochi contenuti, contenuti poco capiti, contenuti adulterati.
Credo che le nozioni siano importanti perché organizzano un contesto entro cui accogliere le cose che impari e che capisci. Credo che chi abbia negli anni lavorato solo agli aspetti formali e didattici del sapere sia a forte rischio di miseria concettuale e spirituale e persino morale perché per leggere eticamente il mondo devi conoscere il mondo umano e il tecnocrate ne conosce il solo funzionamento (che non è il mondo umano).
Credo che la scuola sia l’unica occasione di formare uomini decenti e che questo fine sia incommensurabilmente superiore e prioritario rispetto al creare cittadini, elettori, lavoratori, consumatori (l’ordine non è casuale ma con valore discendente). Uomini decenti sono uomini che hanno un linguaggio per capire gli altri e farsi capire. Hanno un mondo che è stratificazione del tempo e non un incubo sincronico. Per questo servono i contenuti.
Trump non è solo un nuovo POTUS (President Of The United States), ma una nuova fase della reazione americana alla crisi sistemica.
La sinistra negli Usa e in Europa sta molto attenta all'angolazione del braccio teso di Musk senza sospettare che chi guida il blocco sociale raccolto attorno a Trump preferisce di gran lunga che i suoi avversari si concentrino su queste cose e non su ciò che si intende fare e sui motivi profondi delle decisioni prese.
Molti anni fa uno slogan recitava “Il revisionismo disarma gli operai”. Ma ciò che è successo va ben oltre. L'introiezione, protratta per decenni, del senso comune dell'avversario di classe all'attacco, oltre che ad aperte complicità ha portato la sinistra a un profondo degrado della capacità di analisi e comprensione (e quindi di azione) che è andato oltre le più funeste previsioni.
Così la sinistra, aizzata dall'iperbolico reazionarismo di Trump e del suo “popolo”, si fossilizza in una proterva difesa anche delle più indifendibili esagerazioni woke, buoniste e imperial-cosmopolite liberal distogliendo l'attenzione dal vero “problema Trump”. Perché il vero problema Trump, o il principale problema, sarà la sua politica di minaccia e aggressione contro tutto il mondo.
Tradizionalmente, si tende a
pensare che i paesi europei – e segnatamente Italia e Germania
– siano costretti ad un ruolo subalterno, rispetto agli Stati
Uniti, non
solo in virtù del ruolo di superpotenza di questi ultimi, ma
anche perché ciò farebbe parte dell’eredità della
sconfitta subita nella seconda guerra mondiale. In realtà
questa tesi è smentita non soltanto dal fatto che ci sono
paesi altrettanto
subalterni, benché non ascrivibili al novero dei membri
dell’Asse, ma anche dal fatto che – proprio nei paesi che
persero la guerra
– vi sono stati personaggi come Brandt o Moro che, pur nella
loro assoluta fedeltà atlantica, erano comunque capaci di una
(sia pur
parziale) autonomia, che garantisse anche gli interessi
nazionali, e non solo quelli imperiali.Basti
pensare, appunto, alla Ostpolitik
tedesca oppure al posizionamento italiano sulla questione
mediorientale negli anni ‘70 del novecento.
Il dato reale è invece che, soprattutto a seguito della nascita dell’Unione Europea, che si è andata strutturando in modo sempre più centralizzato e a-democratico, è via via emersa una generazione di leader post-guerra fredda, estremamente attenta a soddisfare le attese delle varie amministrazioni americane, e che – nella convinzione di potersi con ciò dedicare esclusivamente alla cura del famoso “giardino” – hanno completamente delegato a Washington la difesa dello stesso, sino a perdere del tutto la cognizione stessa che gli interessi nazionali non sempre, e non necessariamente, coincidono con quelli della potenza egemone.Ciò è divenuto particolarmente evidente (e stringente) soprattutto negli ultimi due decenni, quando la saldatura tra neocon e democratici americani ha messo gli USA su una rotta di collisione con la Russia, e conseguentemente ha reso necessario un maggior controllo statunitense sull’Europa, individuata come il principale campo di battaglia per l’egemonia globale.
Questa subalternità, profondamente interiorizzata dalle classi dirigenti europee, ha poi raggiunto, nell’ultimo decennio, livelli di completo autolesionismo, sino alla tacita accettazione di un ruolo sacrificale nel confronto tra Washington e Mosca – coronata dal silenzio tombale con cui è stata registrata la distruzione dei gasdotti North Stream.In questo contesto psico-politico, le élite europee si sono avventurate non soltanto nel sostegno all’Ucraina, ma nell’adozione acritica di una ideologia russofobica senza precedente (e senza fondamento), tanto da diventare in ciò più realisti del re.
Il perimetro in cui si
sta giocando la partita intorno al caso Al Masri è più ampio
di quel che si racconta.
Il perimetro, come sempre in questi casi, viene limitato al campo dei diritti umani e della migrazione.
Lì, in questo campo, stanno volando i fendenti in questi giorni tra destra e sinistra in Italia.
In sostanza la sinistra ha buon gioco a incolpare la presidente Meloni di incompetenza, finanche complicità con i criminali torturatori libici (evidentemente si suppone che questi siano lì per fermare i migranti e in questo fare un favore alla Meloni).
La destra si trincera dietro a vizi procedurali e a una rapida espulsione in Libia motivata da ragioni di sicurezza.
Anzi, denuncia un piano segreto per attaccare il suo governo, dal momento che Al Masri, prima di arrivare in Italia, era transitato da altri Paesi europei, ma solo il 18 gennaio, il giorno del suo ingresso in Italia, viene spiccato il mandato di cattura internazionale contro di lui.
Questo per chi crede alle coincidenze.
Però, come si diceva, il perimetro della partita è più ampio.
Ma ciò che avviene al di fuori del campo che concerne i diritti umani e la migrazione, non sarà raccontato.
Ma è quello che spiega ciò che sta succedendo in questi giorni.
In Libia non si vota dal 2014. Le nuove elezioni previste per il dicembre 2021 sono state annullate all'ultimo momento per evitare che Saif Gheddafi, figlio del colonnello, diventasse presidente della Libia.
Il governo Meloni, come tutti i suoi predecessori, riconosce come governo della Libia quello di Dabaiba, insediato a Tripoli.
Questo governo non solo è illegittimo, perché non riceve la fiducia del parlamento eletto nel 2014, ma ormai è prossimo a cadere, sotto la spinta degli ultimi eventi internazionali.
“È una delle innovazioni più sorprendenti e
impressionanti che abbia mai visto”: le parole del venture
capitalist
Marc Andreessen sintetizzano alla perfezione lo stupore con
cui la Silicon Valley ha assistito all’avvento di V3 e R1, i
modelli di intelligenza
artificiale creati da DeepSeek, la startup cinese derivata
dall’hedge fund di Lian Wenfeng.
DeepSeek è riuscita a creare sistemi di AI potenti almeno quanto i principali realizzati negli Stati Uniti a una frazione del costo di training – 5,6 milioni di dollari per il suo modello V3, un LLM (modello linguistico di grandi dimensioni), contro gli oltre 100 milioni stimati per ChatGPT-4 – e utilizzando chip molto meno potenti e probabilmente in quantità inferiore (il numero di schede Nvidia utilizzate è ancora dibattuto), anche a causa dei blocchi commerciali imposti dagli Stati Uniti. DeepSeek è riuscita nell’impresa usando delle tecniche di programmazione e di funzionamento innovative e procedendo a ottimizzazioni sistematiche e su larga scala nel funzionamento dei sistemi di creazione e gestione dei modelli.
In questo ha giocato un ruolo significativo anche il fatto che DeepSeek abbia scelto un modello di sviluppo di tipo open source (pur con le differenze che questo ha nel settore dell’intelligenza artificiale rispetto all’ingegneria del software tradizionale, tanto che la definizione di open per questi modelli è contestata), da un lato potendo sfruttare l’aiuto di sviluppatori indipendenti di tutto il mondo, dall’altro aumentando la pervasività dei suoi modelli, perché possono essere scaricati da chiunque, nel repository presente su GitHub, e utilizzati in altro modo. I modelli possono quindi essere utilizzati in locale anche con computer relativamente poco potenti, mentre altre aziende possono riutilizzarli dopo averli portati nel proprio cloud. Microsoft stessa ha dichiarato di voler aggiungere i modelli di DeepSeek nell’offerta del suo cloud Azure (nonostante la partnership con OpenAI), mentre Perplexity offre R1 come opzione per il suo motore di ricerca.
La stampa e i mercati finanziari hanno rapidamente registrato il cambiamento nel settore dell’intelligenza artificiale, comparando il lavoro e i costi affrontati da DeepSeek con quanto invece sostenuto dalle aziende statunitensi del settore, cioè che siano necessari investimenti di capitale e tecnologia crescenti per sviluppare nuovi modelli e mantenere la supremazia statunitense. Nel biennio 2023-2024 le cifre, mai rivelate ufficialmente, sono state nell’ordine di grandezza dei 100 milioni di dollari per l’addestramento dei modelli di nuova generazione, e questo contando solo il costo d’uso dei processori, mentre per il 2025, come aveva dichiarato l’anno scorso il Ceo di Anthropic Dario Amodei, la cifra necessaria per l’addestramento della “next gen” di AI potrebbe arrivare anche al miliardo di dollari.
La comparazione più facile per la stampa internazionale e per i mercati finanziari è stata comunque quella con lo “Stargate Project”, pianificato durante la presidenza di Joe Biden da OpenAI, SoftBank, Oracle e il fondo emiratino Mgx, e presentato alla Casa Bianca da Donald Trump il 21 gennaio. Il progetto prevede che, per continuare lo sviluppo dei modelli realizzati da OpenAI, sia necessario creare una gigantesca infrastruttura di centri di calcolo dedicata esclusivamente all’azienda di Sam Altman al costo iniziale di 100 miliardi di dollari nel 2025, che potrebbero diventare 500 miliardi in quattro anni, generando tra le altre cose più di 100mila posti di lavoro negli Usa. L’obiettivo, secondo Altman, è lo sviluppo dell’intelligenza artificiale generale (AGI), mentre per il presidente Trump è più esplicitamente il mantenimento della supremazia statunitense nel settore.
Durante un evento pubblico tenuto solo un giorno prima, il 20 gennaio, Liang Wenfeng ha presentato al premier cinese Li Qiang il modello di DeepSeek capace di “ragionamento”, R1, che secondo varie metriche è pari o superiore a o1 di OpenAI, il modello giudicato finora il più avanzato tra quelli dotati di ragionamento. Riferendosi alla presentazione di questo particolare modello, Marc Andreessen ha parlato del “momento Sputnik” dell’intelligenza artificiale, con un suggestivo riferimento alla messa in orbita nel 1954 da parte dei sovietici del primo satellite artificiale, che abbatté il primato americano nel settore aerospaziale e scatenò la corsa allo spazio, con la nascita della Nasa, l’espansione del programma militare e, indirettamente, la nascita di Internet.
L’impatto del “momento Sputnik” di DeepSeek per adesso si è tradotto invece in una reazione di shock e nel timore di un “AI Gap” evidenziato da tutte le più autorevoli testate internazionali, a partire da quelle statunitensi. I giornali hanno sostanzialmente ufficializzato lo stupore per questa “new entry” cinese, sconosciuta ai più, nel settore dell’intelligenza artificiale, che non solo è riuscita a raggiungere e superare il campione del settore (OpenAI), ma lo ha fatto mettendone in discussione gli assunti tecnologici ed economici.
Al di là dei dettagli tecnici (numero di parametri dei modelli di DeepSeek, modalità di addestramento e funzionamento, velocità e modalità di gestione dei token) ed economici (costo dell’addestramento e del funzionamento, costi di inferenza e costo delle GPU utilizzate), l’impatto del nuovo attore cinese ha prodotto un primo risultato immediato, cioè il crollo dei titoli delle aziende centrali per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, che dal 2022 stavano godendo di una crescita significativa. In particolare, Nvidia ha perso circa 600 miliardi di dollari in poche ore (-17%), ma il calo ha coinvolto, su cifre più contenute, anche gli altri protagonisti del settore: Alphabet/Google, Amazon, Meta e Microsoft (OpenAI non è quotata in Borsa).
DeepSeek è riuscita a rompere la narrazione, portata avanti da alcune aziende degli Stati Uniti, secondo la quale lo sviluppo dell’intelligenza artificiale richiede investimenti miliardari crescenti e l’aumento esponenziale di centri di calcolo per sviluppare nuovi sistemi di intelligenza artificiale. Ed è riuscita a rompere questa narrazione senza minarne la base, che sia cioè comunque opportuno, e anzi necessario, sviluppare l’intelligenza artificiale perché utile alle imprese e all’umanità in generale, rispetto invece alle resistenze (soprattutto occidentali) di chi vede nello sviluppo dell’intelligenza artificiale un pericolo per l’umanità diretto (una sorta di “rischio Terminator”) o indiretto (soprattutto per l’impatto ambientale dei centri di calcolo, ma anche dal punto di vista occupazionale e non solo).
Inoltre, DeepSeek è (involontariamente) riuscita a far mettere a fuoco ai media, e a una parte dell’opinione pubblica occidentale, le dimensioni dello scontro in corso tra gli Stati Uniti e la Cina. La supremazia nell’ambito dell’intelligenza artificiale è un fattore non solo puramente tecnologico ed economico, ma anche strategico e geopolitico.
L’intelligenza artificiale (intesa in senso lato, non solo come AI generativa) è facilmente convertibile a fini bellici, sia in contesti di scontri convenzionali, sia non convenzionali e asimmetrici. Può infatti essere utilizzata sia per campagne di disinformazione, spam, hacking, furto di informazioni o più in generale di sabotaggio tecnologico, ma anche come strumento di intelligence per analisi di dati sia di natura riservata sia pubblica, oltre che come strumento militare diretto: dai droni a guida autonoma alle armi e bombe intelligenti, dai software per sistemi d’arma innovativi (compresi i robot) agli altri meccanismi automatici o semiautomatici da usare sul campo nei conflitti.
L’intelligenza artificiale è inoltre uno strumento in grado di aumentare l’innovazione in altri settori: dalla ricerca biochimica all’ambito finanziario.
La supremazia tecnologica degli Stati Uniti, nel campo dell’intelligenza artificiale come in altri settori, è un elemento della dottrina della deterrenza militare americana, che si stava già riorganizzando attorno al settore privato. Per esempio, Eric Schmidt, uno dei cofondatori di Sun Microsystems e poi Ceo di Google, da tre anni porta avanti un’attività di lobbying incentrata sull’idea che le forze armate statunitensi debbano modernizzarsi velocemente, sfruttando a questo scopo sistemi di intelligenza artificiale a qualsiasi livello (il cosiddetto “AI Warfare”), mentre Palantir Technologies, creata tra gli altri da Peter Thiel, uno degli ex soci di Elon Musk e personaggio strumentale per il successo elettorale di Donald Trump, ha numerosi appalti militari per la fornitura di sistemi di intelligence basati su AI.
Assieme all’impatto tecnologico, economico, finanziario e ambientale, l’intelligenza artificiale cinese realizzata da DeepSeek sta avendo un ruolo più sotterraneo, ma altrettanto dirompente, nei rapporti di forza geopolitici in generale.
Mostrando come, al di là dei blocchi e delle sanzioni americane, possa raggiungere e superare la tecnologia realizzata dagli Usa, con costi più accessibili e un impatto ambientale inferiore di vari ordini di grandezza, la storia di DeepSeek rimette in discussione uno dei vettori di crescita economica diretta apparentemente più consolidati, ovvero gli enormi e crescenti investimenti pianificati nel settore dello sviluppo e funzionamento dell’AI.
Inoltre, crea uno strumento che non solo solleva potenziali problemi di privacy (tanto che il Garante italiano ha subito chiesto chiarimenti e poi è intervenuto con una istruttoria), ma, in Occidente, può anche essere considerato un rischio per la sicurezza nazionale assimilabile a quello che gli Usa sostengono sia causato dal social media TikTok. Il riferimento è, da un lato, alla censura e manipolazione dei contenuti e delle risposte fornite dai modelli di DeepSeek (anche se limitazioni sulle risposte sono presenti nei modelli di tutte le aziende), dall’altro, all’estrazione di informazioni personali, prompt, chat e alla loro conservazione a tempo indeterminato su server cinesi, con possibili utilizzi anche a fini di intelligence (almeno nella versione che non prevede un utilizzo in locale, che limiterebbe molti di questi rischi).
È per queste ragioni che possiamo considerare l’intelligenza artificiale come un moltiplicatore di potenza strategico, che opera su tre livelli principali. Innanzitutto, su una dimensione economica, perché rappresenta una tecnologia abilitante fondamentale, paragonabile all’elettricità o al motore a combustione interna. Chi oggi domina lo sviluppo dell’AI avrà vantaggi competitivi enormi in molteplici settori.
Dal punto di vista militare – dove, come abbiamo visto, sta trasformando profondamente la natura dei conflitti moderni permettendo lo sviluppo di sistemi d’arma autonomi – l’intelligenza artificiale potenzia drasticamente le capacità di intelligence e sorveglianza, automatizzando in parte il processo decisionale sul campo di battaglia.
Dal punto di vista geopolitico, l’intelligenza artificiale rappresenta invece il fulcro di quella che è ormai diventata una specie di nuova “corsa agli armamenti tecnologici” tra gli Stati Uniti e la Cina. Controllare l’AI non determina solo la supremazia militare ed economica, ma anche la capacità di influenzare gli standard globali e le norme etiche del suo utilizzo.
La corsa all’intelligenza artificiale è quindi una competizione caratterizzata, da un lato, da una forte interdipendenza nelle catene di approvvigionamento tra i due paesi e, dall’altro, dalla mancanza quasi completa di una governance globale condivisa. Governance condivisa che, peraltro, esiste in quasi tutti gli altri settori di attrito tra stati o blocchi di stati. È proprio questo doppio vincolo, l’interdipendenza e la mancanza di governance globale condivisa, che dovrebbe far nascere le preoccupazioni maggiori.
Per le pensioni italiane, si sa, non vi è mai tregua. Non pago degli interventi restrittivi già delineati in autunno, e nei due anni precedenti della legislatura, il governo Meloni, nel pieno delle feste natalizie, ha inserito in extremis nella legge di bilancio l’ennesimo tassello del feroce accanimento contro il sistema previdenziale pubblico.
E così, insieme al rinnovo dei tagli alle percentuali di indicizzazione all’inflazione e all’allungamento delle finestre di attesa per l’accesso alla pensione anticipata, entra in scena, come un colpo contro la Croce Rossa, l’inasprimento dei requisiti di accesso alla pensione anticipata puramente contributiva.
Vediamo, in primo luogo, a quale forma di pensione stiamo facendo riferimento. Nel ginepraio della normativa previdenziale italiana, tra le varie strade alternative, sempre più depotenziate e marginalizzate, rispetto a quella “standard” costituita dalla pensione di vecchiaia a 67 anni, vi è, in vigore dalla Riforma Fornero del 2012, la possibilità, per chi abbia iniziato a versare contributi dal 1996 (ovvero con il solo sistema contributivo) di andare in pensione a 64 anni con almeno 20 anni di contributi e con un primo assegno pensionistico pari almeno a un certo multiplo dell’importo mensile dell’assegno sociale. Si tratta di un’opzione che nei primi anni dopo la sua definizione ebbe scarsissima adesione poiché con solo 20 anni di contributi il sistema contributivo conduce a una rendita pensionistica bassissima e solo in pochi potevano contare su un primo assegno pari, all’epoca, a 2,8 volte l’assegno sociale.
L’allarme viene questa volta direttamente dai giornali economici che, come detto più volte, sugli aspetti tecnici sono decisamente più attendibili dei “generalisti”, perché il loro pubblico è fatto di operatori sui mercati, che debbono perciò disporre di informazioni utili per investire soldi, non per fare gossip o piatta propaganda “atlantica”.
E quindi prendiamo dannatamente sul serio il grido sollevato da MilanoFinanza: “Perché le stablecoin Usa sono un rischio per banche e credito in Europa”.
Un po’ criptico, vero? Beh, bisogna allora spiegare intanto cosa sono e come funzionano le stablecoin, poi vedere perché minano la posizione di intermediazione del denaro tipica delle banche e infine che cosa ha combinato Donald Trump sull’argomento, con uno dei suoi cento “decreti esecutivi”.
Le stablecoin sono un tipo di criptovaluta progettata per mantenere un valore stabile, generalmente ancorato a una valuta fiat come il dollaro statunitense (USD) o a un paniere di asset.
A differenza delle criptovalute tradizionali (Bitcoin, Ethereum, ecc), soggette a violente fluttuazioni di prezzo, le stablecoin mirano a ridurre la volatilità, rendendole più adatte per transazioni quotidiane, riserva di valore e trasferimenti di fondi.
Pochi giorni fa l’azienda cinese Deepseek ha rilasciato un chatbot basato sull'intelligenza artificiale generativa e sull'apprendimento automatico. Un concorrente di ChatGPT dell’americana OpenAI. Che però costa molto meno ed è open source.
La ditta cinese è in attività da meno di 2 anni, ha circa 200 dipendenti e ha investito 6 milioni di dollari per sviluppare il suo prodotto. OpenAI ha investito 100 milioni di dollari per ChatGPT, esiste da quasi 10 anni e ha circa 4.500 dipendenti.
Come risposta Nvidia ha perso in poche ore quasi 600 miliardi di dollari di capitalizzazione (-17%). Poco meno dell'intera capitalizzazione della Borsa di Milano. Non è andata meglio ad altre aziende tech, soprattutto nel settore dei semiconduttori: Broadcom -16,5%, Arm -10%, Amd -6%¹.
Come si spiega lo smacco di una piccola azienda cinese ai colossi americani?
Tra il 2003 e il 2007, gli Stati Uniti erano leader in 60 dei 64 settori coperti dal Critical Technology Tracker dell'ASPI. La Cina in appena 3. Nel 2023 la Cina era diventata leader in 57 settori².
La Cina forma annualmente 8/15 volte (le stime variano molto tra di loro) il numero di laureati STEM (science, technology, engineering and mathematics) degli Stati Uniti nonostante abbia “solo” 4 volte gli abitanti USA (1,4 miliardi contro 335 milioni).
Movimenti. Un pranzo con Tano D’Amico parlando del suo nuovo libro: il Settantasette, l’urlo muto delle compagne di Giorgiana Masi straziate, la restaurazione del potere contro le immagini
Un altro libro sul Settantasette? Se ne sentiva il bisogno? Diciamo subito di sì, perché l’autore è Tano D’Amico, uno dei maestri della fotografia italiana, le cui opere sono esempio di potenza etica e forza poetica. Si intitola I nostri anni (Settanta/Milieu, pp. 120, euro 14,90) e non è un libro di fotografie. Ci sono, nelle ultime pagine, alcune delle storiche foto di Tano che raccontano l’anno che di fatto chiuse il Novecento, ma questo libro è fatto di testi. O meglio è una sequenza di testi che si richiamano a vicenda, che incedono a spirale, e che a loro volta evocano e precipitano in immagini.
TANO HA UN’IDEA molto radicale del rapporto tra parola scritta e immagini: queste ultime vengono sempre prima, esprimono una forma di libertà e sentimento che il testo, dice lui, può soltanto accompagnare. Ecco perché questo libro di immagini raccontate e di parole che disegnano avventure, non è (soltanto) un libro sul Settantasette: è un trattato sul rapporto tra comunicazione e rivoluzione, sullo scontro delle immagini col potere. Quando gli proponiamo di parlarne, pone la condizione che gli è solita: il contesto sia conviviale. «Dobbiamo mangiare insieme». Dunque, ci ritroviamo tra le mura amiche del Rouge, osteria di San Lorenzo: il locandiere Danilo ogni giorno mette sul bancone il menù e una copia del manifesto.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Tra la raffica di ordini esecutivi
emessi dal presidente Donald Trump nei primi giorni della sua
amministrazione, forse il più importante fino a oggi è quello
intitolato
“rivalutare e riallineare l’assistenza estera degli Stati
Uniti”.
In base a quest’ordine è stata immediatamente imposta una pausa di 90 giorni a tutta l’assistenza allo sviluppo all’estero degli Stati Uniti in tutto il mondo, a eccezione, naturalmente, dei maggiori beneficiari degli aiuti statunitensi in Israele ed Egitto. Per ora, l’ordine vieta l’erogazione di fondi federali a qualsiasi “organizzazione non governativa, organizzazione internazionale e appaltatore” incaricato di attuare i programmi di “aiuto” degli Stati Uniti all’estero.
Nel giro di pochi giorni centinaia di “appaltatori interni” dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) sono stati messi in congedo non retribuito o licenziati a titolo definitivo come risultato diretto dell’ordine esecutivo.
Il collaboratore del Washington Post John Hudson ha riferito i funzionari dell’organizzazione definiscono le direttive di Trump sull’”assistenza allo sviluppo estero” un “approccio shock-and-awe”, che li ha lasciati barcollanti, incerti sul loro futuro.
Un membro anonimo dell’USAID gli ha detto che “hanno persino rimosso tutte le fotografie dei programmi di aiuto nei nostri uffici”, come attestano le fotografie che accompagnano l’ordine.
Mentre l’epurazione dell’amministrazione Trump ha provocato onde d’urto tra il corpo di sviluppo internazionale di Washington e i banditi di Washington che si nutrono delle sue reti, l’improvviso taglio dei fondi dell’USAID ha scatenato il panico all’estero.
Dall’America Latina all’Europa dell’Est, gli Stati Uniti hanno investito miliardi di dollari nelle ONG e nei media per spingere per le rivoluzioni colorate e varie operazioni di cambio di regime, il tutto in nome della “promozione della democrazia”.
Il terzo
paragrafo del breve saggio è dedicato alla questione del
partito e alla sua funzione direttiva nel processo
rivoluzionario, qui Lukács
offre la più chiara e nitida esposizione della teoria
leniniana del partito che il movimento comunista abbia mai
elaborato. Ma proprio detta
esposizione sarà oggetto di non poche critiche e censure.
Perché? Lukács, in piena continuità con Lenin, non fa altro
che
subordinare la forma partito alla dialettica marxiana. In
altre parole, considerando, e non potrebbe essere altrimenti,
il partito un prodotto storico
lo pone continuamente al vaglio dell’unica forma di sovranità
che la dialettica marxiana riconosce: la lotta di classe. Non
avevano forse
detto Engels e Marx che l’unica scienza che riconoscevano era
la scienza storica? Ma questa scienza non scientista non era
forse determinata dai
conflitti delle classi? Non era forse la soggettività di
classe a essere l’elemento costitutivo e costituente della
scienza marxiana? Ma
questo, allora, non significa, senza ambiguità di sorta: la
strategia alla classe, la tattica al partito? Questo il
nocciolo della questione.
Il partito non può chiamarsi fuori dalla dialettica storica,
quindi non può rimanere separato e immune da ciò che, in
maniera
spontanea, la classe pone all’ordine del giorno.
Ciò che Lukács pone al centro di questo paragrafo è esattamente il legame dialettico tra partito e classe. Una relazione che, di fatto, negano tanto le concezioni riformiste e revisioniste alla Bernestein, quanto quelle rivoluzionarie alla Luxemburg, tutte incentrate sulla spontaneità. Ma cosa lega ciò che, in apparenza, appare non solo distante ma addirittura incommensurabile? Perché, andando al sodo, riformismo e spontaneismo non sono che due facce della stessa medaglia? Ciò che qui entra immediatamente in gioco, ancora prima della concezione del partito (questa alla fine ne sarà solo un semplice riflesso) è la visione del processo storico. Da un lato, quello che possiamo individuare come asse riformismo–spontaneità, vi è un’idea sostanzialmente evoluzionista del divenire storico per l’altra, quella riconducibile alla teoria leniniana, la storia è sempre frutto di conflitti di classe aperti e mai storicamente già determinati. Da un lato, quindi, il determinismo scientista, dall’altro la determinatezza della soggettività.
1. Tra passato e
presente: “il punto di vista di classe”
Le locuzioni che fanno parte del vocabolario marxista novecentesco, di quel marxismo che è stato la lingua parlata e accomunante – pur con tutti i suoi dialetti – delle Rivoluzioni che vi hanno preso avvio, si usano spesso con timida circospezione, con molta esitazione e quasi chiedendo il permesso. La formula “punto di vista del proletariato” entra subito e facilmente in questo repertorio. E quindi, per poterla recuperare, per poterla incorporare in una “lingua ritrovata”, in una lingua che articoli le pratiche delle lotte sociali e politiche, serve, ineludibilmente, uno sforzo di traduzione. In prima istanza, traduzione da un libro cruciale, da Storia e coscienza di classe di György Lukács, del quale il concetto di “punto di vista del proletariato” è l’architrave filosofico. In seconda istanza, traduzione dai contesti in cui quella teoria di Lukács e importanti forze storiche si sono vicendevolmente rispecchiati e più o meno direttamente sostenuti.
Qualunque sforzo è tuttavia un prezzo sempre troppo basso in proporzione all’importanza dei problemi, dei contenuti teorici e delle prospettive pratiche che l’espressione e, inseparabilmente, il concetto di “punto di vista del proletariato” hanno seminato durante un lungo tempo storico, dalla Terza Internazionale all’emergere del cosiddetto “marxismo occidentale”, dai movimenti studenteschi a Fanon. Infatti, le traduzioni sono avvenute attraverso le pratiche, poiché le continuità hanno beneficiato delle critiche e le situazioni hanno incessantemente riconvertito le idee. Comunque, non è mai crollato il ponte filosofico tra il “punto di vista di classe”, che altro non è che il modo di conoscere il mondo sociale nella sua storicità - la coscienza di esso -, e la classe antagonistica della borghesia imperialista; per quanto quella classe non abbia più il volto del proletariato della guerra civile rivoluzionaria degli anni Venti, delle Repubbliche dei Consigli in Germania e in Ungheria e del Biennio Rosso in Italia.
La coppia Trump-Musk, nell’ambito della squadra presidenziale, continua a svolgere il proprio ruolo di punta di sfondamento, sia nei toni che nei modi. Da ultimo, a finire nel mirino è l’USAID (US Agency for International Development), che il miliardario matto ha definito “una tana di serpenti marxisti di sinistra che odiano l’America”. Oltre a licenziare numerosi alti dirigenti dell’organismo, il capo del DOGE (Department of Government Efficiency) intende riportare l’agenzia – attualmente autonoma – sotto il diretto controllo del Dipartimento di Stato.
Trattandosi di una delle più importanti agenzie governative statunitensi, per quanto riguarda la politica estera, è importante comprendere qual’è il senso della mossa di Musk.
L’USAID è ufficialmente una struttura dedita al sostegno delle organizzazioni della società civile che, nei vari paesi del mondo, lavorano per favorire lo sviluppo, ma in realtà è ormai da decenni uno dei principali strumenti di sovversione, utilizzato dagli Stati Uniti per destabilizzare e rovesciare governi, ed è di fatto un hub centrale che organizza tutte le diverse operazioni clandestine all’estero. Come ha detto Mike Benz (un noto neocon, direttore della Foundation for Freedom Online) in un’intervista, “ha un budget di 50 miliardi di dollari. L’intera comunità di intelligence è di soli 72 miliardi di dollari.
Note per
approfondire la discussione
La guerra che viene è il grande fatto del nostro tempo. Cifra del presente e tema centrale intorno a cui tutti gli altri si ricombinano, si ristrutturano, si organizzano. Tra questi, la scuola e l’università, punti nodali della riproduzione capitalistica e sociale.
Da una parte, come «industrie della formazione» atte a produrre e disciplinare la merce oggi più preziosa: quei soggetti che verranno chiamati a lavorare e combattere per la guerra dentro fabbriche, magazzini, laboratori, aule e uffici, o direttamente sul campo di battaglia. Dall’altra, tuttavia, come luoghi di mobilitazione giovanile e comportamenti di rifiuto che negli ultimi anni, intorno ai conflitti globali, e in special modo la Palestina, che coinvolge anche le dimensioni decoloniale e della razzializzazione interne alla composizione di classe delle nostre latitudini, hanno visto una nuova generazione politica prendere parola, tra tentativi di conflitto, spontaneità e contraddizioni.
Come si stanno trasformando scuola e università dentro la guerra? Quale funzione sono chiamate a ricoprire, da Stato, imprese e politica, nell’organizzazione, mobilitazione, e produzione bellica? Quale ruolo degli istituti tecnici e professionali, baricentrali per la formazione della forza lavoro specializzata per la fabbrica della guerra e al contempo alla formazione allo sfruttamento, con alta concentrazione di soggettività razzializzate, ma sovente esclusi o impermeabili agli interventi politici? Quali sono i soggetti coinvolti dentro i processi di trasformazione e che istanze, pulsioni e visioni materiali esprimono (o possono esprimere) nelle mobilitazioni contro la «fabbrica della guerra»?
Lasciateci, per una volta, segnalare che – pur
essendo un giornale solo online, senza finanziamenti né
padroni, con redattori
“militanti” senza paga – per una volta ci avevamo preso,
anticipando di molto i professionisti del mainstream.
Deve essere colpa di quella curiosità che non può albergare nelle redazioni dove “la notizia” è quella che arriva dall’alto… Da un’agenzia di stampa internazionale, da un tweet di un potente, da un ordine della proprietà del giornale…
Però, parlando onestamente e senza alcuna intenzione ironica (per una volta), abbiamo apprezzato che il Corriere della Sera abbia ospitato un pezzo di Andrea Marinelli che prova a dar conto dello “stile comunicativo” di Donald Trump e che gli conferisce – per riconoscimento quasi unanime – il dominio sull’agenda politica: Le tre regole spregiudicate di Trump e chi è Roy Cohn, l’avvocato che gliele ha fornite: «Se vuoi vincere, si vince così».
L’attenzione e l’occasione permettono infatti di precisare quanto avevamo già scritto quasi due mesi fa, subito dopo le elezioni stravinte dal tycoon. E forse abbiamo sbagliato anche noi, allora, a inserire il ragionamento critico sulle “tre regole” all’interno di un articolo più generale, invece di dedicargli un “pezzo a parte”. Rimediamo oggi.
L’articolo di Marinelli è di qualità, ben scritto, coglie molti punti importanti del Trump style. Ma, detto con sincera tranquillità, si svolge interamente dentro i criteri della critica cinematografica, al confine tra fiction e realtà, e quindi non coglie il punto vero – tutto politico – quello che segna un “cambio d’epoca” nella visione politica dell’Occidente collettivo, e che caratterizza l’avanzare apparentemente inarrestabile della destra più reazionaria e suprematista che sia mai apparsa al mondo dalla conquista del Reichstag da parte dei sovietici, il 9 maggio del 1945.
La “verità” del broncio minaccioso di Trump è il sorriso felice e il ghigno tracotante e aggressivo di Elon Musk. È lui la vera personificazione dell’imperialismo del capitale e non il presidente della stanza ovale, un figurante prestanome qualsiasi
“Il progresso
dell’industria, del quale la borghesia è l’agente involontario
e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai,
risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria
mediante l’associazione. Lo sviluppo della grande industria
toglie dunque di sotto
ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa
produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto
i suoi propri
seppellitori”. (K. Marx, Il Capitale, I, VII, 24)
“Il capitalista non è capitalista perché dirigente industriale ma diventa comandante industriale perché è capitalista. Il comando supremo nell’industria diventa attributo del capitale, come nell’età feudale il comando supremo in guerra e in tribunale era attributo della proprietà fondiaria”. (K. Marx, Il Capitale, I, 2, 11)
Solerte nel suo nuovo incarico, Donald non ha perso tempo per il bene degli “americani” – da sempre gli statunitensi sono stati chiamati così: il “tutto per la parte”! al contrario – proprio come ormai il “loro” golfo, non più del Messico, finora così insignificante con quel nome! Ha graziato i suoi pretoriani di Capitol Hill, ha promesso di scaraventare fuori dalla fortezza a stelle e strisce gli ultimi immigrati, dato che non si sa chi si salverebbe se si chiedesse agli statunitensi di buttarsi a mare qualora avessero avuto origini migratorie. Il termine “deportation” non lascia dubbi, anche se molti traducono con “rimpatrio” o “espulsione”, al punto che anche la vescova evangelica ha chiesto “misericordia” a Trump nei confronti di chi, emigrato in ritardo con la storia, teme per la propria vita.
Dimissioni dall’Oms, e dimissioni per la seconda volta dagli accordi di Parigi sulla transizione energetica, per “Make America affordable and energy dominant again”, cioè rendere l’America accessibile e di nuovo dominante in ambito energetico! Ripresa devastatrice delle trivellazioni per ottenere petrolio e gas (stimato lo scorso novembre in 4 miliardi di tonnellate in più alle emissioni entro il 2030. D’altronde, le industrie dei combustibili fossili hanno sborsato 75 milioni di dollari per la campagna di Trump!).
La situazione di crisi perdurante e priva di apparenti sbocchi in cui si muove l’Europa tutta e l’Italia in modo particolare è un problema che va molto al di là della perdita di status internazionale, della perdita di benessere, della perdita di competitività, dell’aumento della povertà e della disoccupazione (tutte cose, naturalmente, parecchio gravi). Il problema di fondo è che esistere per lunghi periodi in una condizione di crisi permanente, percezione di declino e mancanza di prospettive produce un graduale ma sistematico abbattimento della stessa voglia di vivere, della “vitalità primaria” di chi è avvolto in questo sudario storico.
Le cause di questa condizione sono molteplici e possono (e devono) essere analizzate in grande dettaglio sul piano empirico, storico, economico.
Possiamo prenderla larga e far partire l’analisi dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, con susseguente condizione di paese occupato.
Possiamo concentrarci su apparenti “errori” più recenti, come il suicidio industriale decretato dal riorientamento dei rifornimenti energetici dalle fonti prossimali (Libia, Russia) a quelle del maggior competitore diretto (USA).
Possiamo condannare la struttura oligarchica e tecnocratica dell’Unione Europea, drammaticamente fallimentare nell’unica cosa che ufficialmente ne giustificava l’esistenza, ovvero far valere il peso economico dell’Europa come leva per ottenere uno status internazionale di maggior rilievo, con accresciuta capacità di difendere l’interesse dei popoli europei, ecc…
Sabato 25 gennaio si è tenuta a Roma un'assemblea di gruppi di reduci provenienti da esperienze 'comuniste' con l'intenzione di creare le basi di un nuovo partito. Conosciamo bene la storia di queste vicende, che si susseguono da circa un trentennio e sempre con lo stesso esito. Purtroppo la diaspora comunista, nata dalla disintegrazione da varie esperienze fallite, riproduce sempre nuove illusioni per coloro che, seppure a ranghi ridotti, perseverano nell'errore.
La cosa che ci colpisce di più di queste vicende è il fatto che gli attori presenti sulla scena non vengono da Marte nè partono dall'anno zero. No, sono gente che in questi decenni è stata dentro i ‘comunismi' che sono falliti e hanno vissuto le esperienze della 'rifondazione' di bertinottiana memoria fino alle avventure di Marco Rizzo. Eppure, invece di riflettere e fare un bilancio di come sono andate le cose, ripartono di nuovo con slogan come questo:
“È l'ora! Nessuno si tiri indietro! È l'ora della costruzione del partito comunista!”. Testualmente questo è stato scritto recentemente in un appello a firma di Fosco Giannini coordinatore del 'Movimento per la Rinascita Comunista', uno dei quattro gruppi che hanno organizzato il 'cantiere' a Roma.
Viene naturale chiedersi: ma fino a ieri che cosa hanno fatto? Che cosa li induce a dire che è oggi l'ora di costruire il partito? E ieri e l'altro ieri, che ora era?
Con buona pace di quelli che mi hanno voluto affibbiare l’etichetta di filo-Putin e di anti-americano, è proprio nel cuore delle istituzioni statunitensi che si stanno rivelando i fatti che ho sempre raccontato.
L’audizione al Senato USA di Tulsi Gabbard, nominata da Donald Trump alla guida delle 18 agenzie di intelligence statunitensi, è stata un fuoco di fila di tabù politici abbattuti uno dopo l’altro nella sede più solenne. Per capirci: ha dichiarato le stesse cose che scrivo da anni in libri, atti parlamentari e articoli guadagnandomi lo stigma di “complottista” e altri attacchi insultanti presso le officine dei media dominanti: cioè che al-Qāʿida e la galassia jihadista sono stati meri strumenti di Washington e che tutte le guerre degli ultimi venticinque anni (per stare solo al nostro secolo) sono state fatte dal governo statunitense sulla base di falsi pretesti e con effetti destabilizzanti e criminali.
Gabbard ha tenuto testa a parlamentari totalmente disabituati all’esposizione di verità così scandalose e imbarazzanti. Non so se alla fine avrà quei 51 voti su 100 che le servono, perché le reazioni di una parte della politica e dei bugiardi dei media sono furibonde e senza precedenti: gli interessi minacciati sono immensi. Ma di certo gli effetti saranno durevoli e nulla potrà essere come prima. Trump ha puntato la prua contro il mondo “neo-con” che con ogni probabilità non è estraneo alle pallottole che lo hanno sfiorato. Perciò ha voluto dare un ruolo chiave a una figura come Tulsi Gabbard (così come sulla Sanità ha sfidato la super-mafia farmaceutica lanciando Robert Kennedy Jr.).
La sinistra deve prendere atto del fatto che neppure i compromessi possono salvare la democrazia dal potere e dalla volontà di potenza del capitalismo e della tecnica. Rileggere Napoleoni può aiutare a trovare una via d’uscita dalla società tecnocratica
Claudio
Napoleoni (1924-1988), un altro grande intellettuale e
politico della sinistra oggi sostanzialmente dimenticato dalla
stessa sinistra. Da una
sinistra, oggi ma come scriveva Napoleoni già allora, dove
“non c’è più l’abitudine a ragionare in grande,
cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto”
– una sinistra incapace (a parte lodevoli eccezioni) non solo
di
pensare alla rivoluzione, a una (in realtà sempre più urgente)
uscita dal tecno-capitalismo, o al “progressivo abbandono
delle
strutture in cui oggi vive il dominio” (soprattutto la
tecnica), ormai lasciandosi sopraffare e quindi solo
adattandosi o facendosi solo
resiliente a ciò che il capitale e il neoliberalismo impongono
come dati di fatto ineluttabili e immodificabili. Una
abitudine a ragionare che
invece dovrebbe essere ancora più necessaria oggi – ragionare
in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive,
soprattutto mentre capitalismo e tecnica (il nuovo Principe
del mondo, con i suoi intellettuali organici, altro che
partito gramsciano ed egemonia del
proletariato) stanno costruendo un nuovo tecno-fascismo
(Musk & Trump e i loro emulatori in giro per il mondo),
e/o una tecno-destra
apparentemente libertaria e anarchica (definizione
tautologica, quella di tecno-destra: per come si
impone appunto come dato di fatto sulla
società, l’innovazione tecnologica è sempre
industrialista/positivista e di destra per sua essenza,
comunque anti/a-democratica),
e/o una tecno-oligarchia reazionaria a dominio e a
egemonia (sempre nel senso di Gramsci) globale,
risvegliando/riattivando con la
tecnologia quel fascismo potenziale e quella
fascinazione di massa per la personalità autoritaria di cui
scrivevano
settant’anni fa Adorno e la prima Scuola di Francoforte – o
quell’Ur-fascismo di cui aveva scritto Umberto Eco
nel
1997.
A rileggere Napoleoni – economista, filosofo, politico, intellettuale poliedrico, sempre impegnato a ragionare sull’economia (mentre oggi l’economia è chiusa nei propri modelli autoreferenziali, avalutativi e senza confronto con la realtà reale) e sulla politica, su Marx, su Sraffa, su Heidegger, con Rodano e con Del Noce, sulla religione.
Nel film
Un volto nella folla (Elia Kazan, 1957) assistiamo
all’inarrestabile ascesa di Larry “Lonesome” Rhodes, ex
cantante country
interpretato da Andy Griffith che, scoperto dalla conduttrice
di una trasmissione radio, diventa presto un idolo delle
folle, un influencer
(allora si diceva testimonial), nonché un aspirante
politico. Ma quando Marcia, la produttrice che purtroppo si è
innamorata di
lui, decide di punirlo dei suoi tradimenti, non deve far altro
che lasciare acceso il microfono alla fine di un programma
televisivo e poi diffondere
la registrazione in cui Lonesome Rhodes, il campione del
popolo, dà degli idioti a coloro che lo seguono. Il suo indice
di gradimento crolla e
la sua carriera politica è finita.
Questo nel 1957, ma oggi non è più così. Il nuovo populista non teme affatto di far sapere al suo elettorato quello che pensa di loro. Quando Trump ha detto: “Amo gli ignoranti” (“I love the uneducated”) non ha perso voti, anzi ne ha guadagnati. Il populista che disprezza il popolo viene osannato da un popolo che a quanto pare disprezza soprattutto se stesso. Ma è proprio così?
Michael Sandel, filosofo della politica e autore di La tirannia del merito (2020), ha argomentato che i recenti movimenti populisti, negli Stati Uniti e altrove, sono una rivolta delle masse contro le élites di coloro che si ritengono, per nascita e censo, “la metà migliore” (è un’espressione che userò ancora, in un contesto più preciso). Ma non sono sicuro che questo sia ancora vero. Il 20 gennaio 2025, durante l’inaugurazione della sua seconda presidenza, accanto a Trump non c’erano gli ex minatori della Pennsylvania o gli operai del Michigan; c’erano gli amministratori delegati delle grandi tech companies, gli uomini più ricchi e potenti del pianeta, nessuno dei quali ha mai nascosto la propria politica antisindacale e l’assunto in base al quale il miglior amministratore è quello che licenzia di più. Come si è realizzata questa unholy alliance, questo matrimonio osceno di populismo, tecnocrazia e sovranismo?
Improvvisamente, scoppia il
‘caso Milano’... La magistratura inizia a contestare
all’amministrazione comunale la legittimità giuridica
dell’uso
fatto del dispositivo dell’urbanistica contrattata. In
numerosi casi, la procedura seguita avrebbe impedito che
l’interesse pubblico fosse
adeguatamente rappresentato nella negoziazione. La reazione
di chi governa Milano è stata disinibita tanto nel dire
quanto nel fare, come si conviene nella tradizione
neoliberale: chiedere al Parlamento di promulgare una legge
che
legittimasse ex-post la prassi negoziale seguita per
autorizzare gli interventi di trasformazione urbana. Ne
scrive con cura Antonio Calafati, uno dei
massimi esperti in Italia di economia urbana [Stefano
Lucarelli].
* * * *
In occasione del 175° anniversario della sua fondazione, nel settembre del 2018 The Economist, iconico settimanale inglese, tra i più influenti nella scena internazionale, pubblica un lungo saggio dal titolo eloquente: 1843-2018. A Manifesto for renewing liberalism. Non conteneva novità, ma codificava il progetto neoliberale nella forma che ha trionfalmente preso in Europa dopo il 1989, ancorandosi al paradigma mercatista per interpretare e governare il capitalismo.
Nel 2018, in molte democrazie europee era stata in larga parte realizzata l’agenda politica che il Manifesto illustrava, ma da alcuni anni crescevano inquietudine e instabilità politica, e cresceva il consenso elettorale di movimenti ‘anti-mercato’. Ricapitolarne i temi principali era sembrato necessario alla redazione dell’Economist, consapevole che il suo Manifesto si sarebbe rivelato uno strumento utile per sostenere le ragioni del progetto neoliberale.
Il vero game changer della guerra in Ucraina non sono stati gli F16, i carri armati Leopart o Challenger, gli ATACMS o gli Storm Shadow, ma i droni. Hanno consentito alle forze di Kiev di sopperire alla carenza di munizioni e di colpire in profondità il territorio russo
Gli UAV, aerei senza pilota, hanno un ruolo chiave nella guerra all’energia russa che l’Ucraina conduce, prendendo di mira un’altra centrale nucleare in territorio russo. Questa notte è stata attaccata l’area in cui si trova la stazione di distribuzione dell'oleodotto Druzhba, a Novozybkov nella regione di Bryansk, proprio mentre in UE si avvia la discussione sulla riapertura all’energia russa per ridurre i costi di alcuni Paesi europei, soprattutto Germania e Ungheria. In seguito al raid è esploso un incendio, probabilmente a causa dei frammenti dovuti alla contraerea.
Nella notte tra martedì e mercoledì sciami di droni ucraini sono stati lanciati in profondità nel territorio russo, contro infrastrutture civili strategiche, impianti petroliferi, centri industriali di diverse regioni. Un drone è stato abbattuto mentre tentava di attaccare la centrale nucleare di Smolensk, ha detto il governatore V. Anokhin.
Unità dell'intelligence della difesa ucraina hanno colpito la notte del 29 gennaio la raffineria Norsi della Lukoil a Kstovo, nella regione di Nizhny Novgorod, la sesta città più grande della Russia.
Trump e i suoi sostenitori vorrebbero opporsi alla corrente della storia, ma potrebbero finire per non avere modo di fermarla ed essere travolti. Queste prime settimane della sua amministrazione potrebbero rappresentare l’apice del potere di Trump, come riconoscono alcuni sostenitori
Dopo
anni di analisi, dibattiti e conflitti su cosa significhi la
sua ascesa, il discorso inaugurale di Donald Trump in
occasione della sua seconda
assunzione della presidenza ha chiarito tutto: lui è il
sintomo del declino imperiale che pretende di essere la cura.
Il suo discorso
inaugurale in occasione del primo mandato si era soffermato
sul declino nazionale: la “carneficina americana”.
L’apertura del secondo
discorso inaugurale, date le pretese monarchiche di
Trump, tuttavia, è iniziata con il mito della “nuova età
dell’oro”, proponendo un’immagine quasi idilliaca della fine
del periodo di difficoltà dell’America, con il paese che
dovrà tornare a suscitare quell’invidia e rispetto di cui un
tempo godeva tra le potenze della terra. E, molto più
chiaramente che
nel suo primo discorso inaugurale e mandato, le parole e gli
stratagemmi di Trump indicano una visione non solo di
competizione, ma di ritorno a
un’ascesa comparativa. Vuole che l’America si crogioli al sole
della sua precedente vittoria nella competizione degli imperi.
Sarà
una “nuova entusiasmante era di successo nazionale”.
Sappiamo che Trump è un narcisista, un bullo e un cercatore di accordi che non desidera avere obblighi verso gli altri. Sta creando una monarchia elettorale non soggetta al controllo parlamentare, un sistema in cui tutto il potere è personalizzato e tenuto nelle sue mani, una ricetta certa per flussi distorti di informazioni, corruzione, instabilità e i(nco)mpotenza amministrativa. La miscela di politica, ideologia ed escatologia megalomane è particolarmente importante perché Trump ha legato il destino degli USA alle sue fortune personali come nessun altro presidente prima di lui. Come lui sostiene, la realizzazione del programma America First (arrestare il declino imperiale statunitense) è inestricabilmente legata al suo potere personale.
Sebbene alcuni analisti e commentatori, naturalmente, si oppongono al fatto che gli Stati Uniti siano mai stati un impero, Trump non sembra dubitarne.
I patologici squilibri indotti dal modello economico occidentale risultano sempre più insostenibili. La finanziarizzazione estrattiva/speculativa genera e alimenta il conflitto globale
La pratica neoliberista
che obbliga gli Stati a finanziarsi facendo ricorso esclusivo
ai mercati finanziari, vendendo titoli a soggetti non
residenti in cambio di soldi da
restituire con gli interessi, è sempre meno sostenibile. I
costi dei debiti sovrani crescono rapidamente, creando un
potenziale rischio per
l’economia globale. Il rendimento dei titoli di Stato
USA a 10 anni [1], attualmente al 4,5%
potrebbero crescere sino
al 5% o più. Già questo singolo fattore è indice di
una fragilità crescente delle economie occidentali. Non si
tratta, infatti, di un fenomeno circoscritto agli Stati Uniti,
ma si sta verificando anche altrove: Gran Bretagna (4,58%),
Italia (3,65%) e Francia
(3,29%), Ungheria (6,74), Messico (9,61%), Sud Africa
(10,11%), Brasile(10,75%), Turchia (25,51%) tutti paesi con
tassi in rapido aumento. Era
già accaduto nel 2007, prima della crisi finanziaria del 2008,
e all’alba del secolo che ha visto valori superiori al 5%.
Alti Rendimenti finanziari inducono i possessori di capitali a farli fruttare finanziariamente piuttosto che investirli nell’economia reale. L’aumento dei tassi d’interesse drena, infatti, capitali dall’economia produttiva, spingendo cittadini e aziende a risparmiare invece di spendere ed investire, con evidenti conseguenze negative sull’attività economica. I prestiti necessari agli investimenti costano di più, viceversa, investire finanziariamente capitali rende di più e con zero rischio di impresa.
Per i governi, la situazione è ancora più complessa: molti paesi spendono più di quanto incassano con le entrate fiscali, vedendosi costretti a tagli nello stato sociale e ad aumentare il debito per far fronte al debito tramite l’emissione di nuove obbligazioni.
Dgiangoz è il mio consulente in analisi logica marXZiana che, interpellato, così mi ha risposto:
– Sei tornato da me? Non ti fidi delle tue sole competenze? Ne prendo atto e ti vengo incontro. Rispetto ai miei interventi precedenti, adesso in quel dominio di Saggio Massimo del pianeta Marx in cui sei finito e dove, pur impiegando lavoro, non si pagano salari, le due sole merci prodotte (una “base” e una “non-base” secondo la nomenclatura introdotta da Piero Sraffa nel libro del 1960), invece di essere grano e tulipano sono diventate orzo e birra, ma questo cambia poco dato che l’orzo è una “merce-base” in quanto necessaria per produrle entrambe, mentre la birra è una “merce-non base” addirittura assoluta perché non serve nemmeno a produrre se stessa (che fai della birra se non berla?). Più interessante è invece la sostituzione, nella funzione d’intermediazione tra le due produzioni, del Palazzo al posto del Tempio, il che ti ha consentito di attribuirgli la doppia funzione di tassare il produttore d’orzo (d’ora in poi l’“orziere”) per poi prestare al produttore di birra (d’ora in poi il “birraio”) quel gettito fiscale così raccolto. Però hai strafatto nel supporre che il Palazzo prelevi l’intero profitto massimo dell’orziere per girarlo integralmente e gratuitamente al birraio. Certamente, così facendo, hai raggiunto d’assalto l’equilibrio di bilancio tra le entrate e le uscite del Palazzo:
R a11 Q1 = a12 Q2
dove a11 e a12 sono i coefficienti unitari delle due produzioni, Q1 e Q2 le quantità rispettivamente prodotte ed R è il Saggio Massimo del profitto, ma non ti parrebbe più plausibile che il Palazzo prelevi a titolo d’imposta soltanto una percentuale del profitto massimo dell’orziere secondo una aliquota fiscale (t < 1, mentre sul prestito al birraio si facesse pagare un interesse secondo un tasso i > 0? Però, così facendo, ne sarà modificato quell’equilibrio di bilancio del Palazzo da te dedotto che dovrà essere ripensato tenendo comunque conto che le tasse sono pagate soltanto dall’orziere produttore della merce-base, mentre l’interesse è pagato soltanto dal produttore della merce non-base, cioè dal birraio.
Il discorso inaugurale di Trump e i suoi primi decreti esecutivi sono il tipico esordio di un capo populista che promette al popolo di riscattarlo dall’ambascia in cui è caduto e di guidarlo dentro un cammino di rinascita.
Quante volte l’abbiamo visto questo squallido spettacolo, da Mussolini a Hitler a Berlusconi, agli odierni capetti xenofobi europei? In quanti hanno promesso di far tornare grandezza nazionale e prosperità in virtù del loro carisma personale per poi crollare ignominiosamente, e talvolta tragicamente, di fronte a crisi economiche, guerre e revulsioni da parte degli stessi interessi che li avevano favoriti?
È vero che Trump è arrivato al potere grazie a elezioni democratiche, ma la sua vicenda non fa che convalidare il principale argomento contro la democrazia elettiva. Fu Platone a sollevarlo per primo nei confronti di una Agorà ateniese preda di demagoghi al guinzaglio dell’uno per cento dell’epoca (cui Platone stesso peraltro apparteneva).
I processi elettorali sono vittima di forze irrazionali perché presuppongono una capacità degli elettori di valutare candidati e programmi che è palesemente inesistente. Tesi confermata dalla famosa battuta di Churchill, che il più grande argomento contro la democrazia è una chiacchierata di cinque minuti con l’elettore medio. E compensata dall’altrettanto celebre battuta, che il convento non offre di meglio.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Infrastrutture, armi autonome e sistemi predittivi basati sull’AI sono gli ambiti della sempre più stretta relazione tra uso civile e uso militare delle tecnologie digitali. Ma anche la narrazione della AI è uno strumento di guerra
Intervento all’iniziativa
“Guerra e tecnologie: il
complesso digitale-militare”, tenutasi il 20.01.2025,
nel ciclo “Guerra, pace, sistema mondiale”, promosso
dall’Università di Roma “La Sapienza” insieme alla
Fondazione Lelio e Lisli Basso, in collaborazione con la
Campagna
Sbilanciamoci!, Rete italiana Pace e Disarmo, Greenpeace
Italia e con il patrocinio di RUniPace – Rete delle
Università per la
Pace.
L’utilizzo delle tecnologie digitali nei teatri di guerra non è recente, ma certamente ha avuto un fortissimo impulso negli ultimi anni. La guerra tra Russia e Ucraina e quella tra Israele e Palestina sono gli scenari dove con più evidenza è possibile osservare le caratteristiche della combinazione sempre più stretta tra tecnologie digitali e dispositivi militari (se ne è scritto recentemente su questo sito). Per comprenderne meglio le implicazioni è utile suddividere e analizzare questo connubio in tre ambiti tecnologici: quello delle infrastrutture; quello delle armi autonome; quello dei sistemi predittivi di supporto alle decisioni basati sull’AI.
Civile e militare
Prima di analizzarli è utile però rilevare una caratteristica che attraversa i tre ambiti e può fornire una chiave di lettura più generale: la stretta integrazione tra usi civili e usi militari delle tecnologie digitali (lo ha descritto efficacemente e con ricchezza di riferimenti Michele Mezza nel suo recente “Connessi a morte. Guerra, media e democrazia nella società della cybersecurity”, Donzelli Editore, 2024). E abbiamo assistito nei due teatri di guerra non solo a una più stretta intersezione di civile e militare, ma anche a una inversione rispetto al tradizionale rapporto tra usi militari e usi civili.
È tradizionale considerare l’innovazione tecnologica, e quindi anche quella digitale, come un percorso che inizia nell’ambito militare, che non solo finanzia ma indirizza la ricerca e consente efficaci opportunità di sperimentazione sul campo.
L’Occidente neoliberista ha
scoperto all’improvviso che, a proposito di dazi e guerra
commerciale mondiale, Trump e i suoi amici tecnomiliardari
facevano sul serio. Ma hanno anche capito con orrore, e
parecchio in ritardo, che il bersaglio principale della prime
mosse concrete era
proprio… l’Occidente.
Il rinvio di un mese per Canada e Messico, entrambi “convinti” a mandare 10.000 soldati a testa per “controllare i confini con gli Usa” – 3.000 km a sud, quasi 9.000 a nord – non cambiano molto. E’ normale provare a trattare ogni singolo passo, prima di affondare i colpi, se si teme un’escalation fuori controllo.
A uno sguardo anche superficiale sui media mainstream lo sconcerto appare serio. L’analisi invece latita – se si usano gli schemi in voga “prima”, inevitabilmente la novità sfugge – e l’immaginare una reazione è tutto un friccicare di intenzioni sparse (“compriamo più gas dagli Usa per tenerli buoni”, da Tajani a Lagarde, che è tutto dire; oppure “anche armi“, ma è Kaja Kallas…) che non risolvono il problema. Strategico.
Uno dei più competenti e dunque preoccupati, Franco Bernabé, ex manager di molte cose importanti (Eni, Telecom, Acciaierie d’Italia, ma anche PetroChina), ha colto un punto: “la presidenza Usa piccona l’ordine mondiale costruito dagli Stati Uniti”, si tratta di “una svolta ancora più importante di quella dell’89” (la caduta del Muro e lo scioglimento dell’Unione Sovietica).
Altrettanto preoccupata Lucrezia Reichlin – economista “draghiana di ferro”, ma figlia di due icone del Pci e del manifesto come Alfredo Reichlin e Luciana Castellina – che equipara la rottura in corso a quella imposta da Richard Nixon nell’agosto del 1971, quando cancellò la parità tra oro e dollaro, ovvero l’architrave degli accordi di Bretton Woods e del primo ordine postbellico.
Benedict Anderson, Anarchismo e immaginario
anticoloniale, elèuthera 2024, pp. 446, 24,00 euro
Evviva la «zagaglia barbara» («Il Programma Comunista», 24 marzo 1961)
Mentre la centralità dell’ordine occidentale del mondo inizia a venir meno anche in quei settori, come quello ricollegabile allo sviluppo dell’AI, in cui si sentiva più sicuro e mentre la presidenza Trump 2.0 contribuisce a rendere più incerto il sistema delle alleanze che lo hanno garantito negli ultimi ottanta anni, la pubblicazione del testo di Bendict Anderson sulle origini dell’internazionalismo “rivoluzionario” attento ai popoli e alle nazioni estranee al contesto europeo e “biancocentrico” serve da stimolo per una riflessione che, ancor troppo spesso, appare scontata nelle sue conclusioni.
Infatti, andando a indagare un periodo in cui il socialismo era rappresentato dalle posizioni della Seconda Internazionale, la ricerca di Anderson rivela un’inaspettata e scarsamente studiata vicinanza tra le posizioni espresse dall’anarchismo e quelle proprie dei primi movimenti nazionalisti nati al di fuori del contesto europeo.
Un contesto in cui la Prima Internazionale o Associazione Internazionale dei lavoratori era nata e si era sviluppata a partire non soltanto dalla solidarietà tra i lavoratori dei vari paesi europei, ma anche da quella nei confronti degli insorti polacchi che proprio in quel periodo si battevano contro la repressione e il dominio zarista sulla loro nazione.
Non a caso un personaggio fortemente simbolico di quella stagione fu Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, guerrigliero e abile condottiero, ma scarsamente dotato dal punto di vista della visione e della capacità critica politica, così come lo ritenevano sia Marx che Engels. I quali, pur potendo essere considerati, insieme a Bakunin e altri esponenti dei movimenti politici dell’epoca come Giuseppe Mazzini, tra i “padri fondatori” di quella esperienza, sorta nel 1864 e destinata a concludersi nel 1876, ma già avviata alla sua fine a partire dall’espulsione di Michail Bakunin e di James Guillaume messa in atto al Congresso dell’Aja sulla base delle decisioni prese alla Conferenza di Londra nel 1871, ne furono contemporaneamente tra i maggiori promotori e affossatori.
Spesso gli aspetti più interessanti di una vicenda non riguardano il merito della stessa, bensì i dettagli collaterali. In molti infatti si sono domandati il motivo per cui la Meloni nel suo spot vittimistico sul caso Almasri abbia falsamente affermato di aver ricevuto un “avviso di garanzia”, mentre invece si trattava di una semplice iscrizione nel registro degli indagati. Tra l’altro non esiste neppure un obbligo dell’autorità giudiziaria di comunicare tale iscrizione agli interessati; anzi, sta a chi teme un’eventualità del genere di attivarsi per averne notizia. Se non ci fosse stata di mezzo la competenza del tribunale dei ministri, forse la Meloni sarebbe rimasta tranquillamente ignara.
Non si trattava dunque di informazione di garanzia, ma anche se la Meloni avesse usato l’espressione corretta di iscrizione nel registro degli indagati, l’effetto di far indignare i suoi follower, e spingerli in un abbraccio ideale verso di lei, ci sarebbe stato ugualmente, poiché le sottigliezze della procedura penale non sono di universale conoscenza. I casi perciò sono due: o la Meloni ha mentito inutilmente, per pura abitudine e per riflesso condizionato, esponendosi altrettanto inutilmente a essere sbugiardata; oppure la Meloni è la prima a ignorare i risvolti della procedura penale e, imprudentemente, è corsa a cercare il calore dei suoi fan prima ancora di consultarsi con i suoi co-indagati Nordio e Piantedosi, i quali, pur non essendo delle cime, probabilmente masticano qualcosa di procedura penale. Potrebbe trattarsi quindi non di menzogna intenzionale o compulsiva, ma di banale cialtroneria.
Canale Youtube di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=17uxIKn19TY
“Premio Attila” a chi distrugge la terra. Premio “Jack lo Squartatore” a chi fa sparire 2,3 milioni di esseri umani – merce ingombrante – dalla loro terra, per costruirci un resort per genocidi.
Premio “Piano Mattei” a chi si salva da un’invasione di migranti affidandoli alla custodia di chi, appena sottratto a giudici che si permettono di perseguire criminali, li incarcera, tortura, stupra, uccide.
Trump-Netaniahu, mercenariato d’eccellenza dell’Occidente dollarizzato al tempo del suo disfacimento nell’ignominia e nel raccapriccio: E, da noi, un postribolo di papponi e mignotte, abusivamente chiamato governo, che si precipita a reggergli lo strascico insanguinato.
Ma cos’è questa emigrazione? Un fenomeno, o un’operazione? Una delle emergenze create nel famigerato laboratorio di armi biologiche, tipo clima, Covid, terrorismo? O l’ammodernata versione della tratta degli schiavi?
Ma stavolta, tra andare e venire, non solo tra Italia e Albania, Texas e Messico, Nigeria o Bangladesh e Ghetto Mezzanone (Foggia), è una tratta che può anche riavvolgersi su se stessa. Il boom è finito, tanto più lo sviluppo detto sostenibile, siete troppi, non ci servite più, sparite. Resti quanto contribuisce alla disgregazione sociale: ci offre il pretesto per scatenare sui sudditi i Nordio e i Piantedosi.
Trump incontra Netanyahu ed evoca la pulizia etnica di Gaza. Tregua a rischio
Nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu, in visita negli Usa, Trump ha reso ufficiale quanto aveva in precedenza: i palestinesi verranno espulsi da Gaza e gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia. Mai un crimine contro l’umanità (pulizia etnica) era stato dichiarato in maniera così pubblica da un presidente degli Stati Uniti. Trump non maschera la brutalità propria dell’esercizio del potere imperiale.
I palestinesi, chiaramente, hanno reagito con legittima indignazione a tale prospettiva, che peraltro rischia di far collassare la fragile tregua di Gaza che proprio ieri entrava nella seconda e decisiva fase in cui le parti tratteranno del ritiro israeliano e del futuro dalla Striscia e Hamas procederà alla liberazione dei restanti ostaggi.
Ma, mentre Hamas annunciava di essere pronto al nuovo round di negoziati, Trump sganciava una bomba nucleare su di essi. Infatti, la richiesta del ritiro dell’esercito israeliano da parte della milizia islamica aveva come sottinteso che Gaza restasse ai palestinesi. L’improvvida dichiarazione di Trump nega tale opzione.
Il terzo anniversario di guerra in Ucraina – 22 febbraio – rischia di essere l’ultimo per l’attore prestato alla presidenza del Paese che doveva risolvere il problema Russia per conto della Nato.
Le sorti del conflitto sul campo sono ormai segnate, ammettono anche i più falsari tra gli osservatori e gli “inviati” (i nomi sono sempre gli stessi, compresa Cecilia Sala). Dunque in ogni caso è ora di abbozzare concretamente una via d’uscita meno costosa possibile. Ovviamente il “costo” cambia parecchio, a seconda degli interessati.
Per il popolo ucraino è salatissimo. Centinaia di migliaia, forse un milione di morti in battaglia, più qualche migliaio di civili per effetto dei missili o dei droni abbattuti e andati fuori bersaglio (se fossero stati volontariamente indirizzati sui civili, come a Gaza, le proporzioni delle perdite rispetto ai militari sarebbero opposte).
In più un paese industrialmente distrutto, la produzione agricola crollata, debito allucinante con gli “alleati” che pretendono ora pezzi sostanziali per il saldo (Trump ieri ha spiegato di voler negoziare un “accordo” con l’Ucraina affinché Kiev offra una “garanzia” sulle sue “terre rare” minerarie, in cambio degli aiuti).
L’unico errore non ancora commesso dalla junta nazigolpista di Kiev è stato quello di cedere alla richiesta del “democratico Biden”, di mobilitare anche la generazione tra i 18 e i 25 anni, mandandola a morte. Ma solo perché erano comunque troppo pochi, per effetto di quella drastica riduzione della natalità che colpisce ormai quasi tutti i paesi dell’Occidente (e anche la Russia, la Cina, ecc), e dunque insufficienti a cambiare il timing del disastro.
A Bruxelles vogliono la guerra. Non si preoccupano più nemmeno di nasconderlo. «Non possiamo parlare di fare di meno quando dovremmo fare di più» per alimentare il conflitto in Ucraina, ha proclamato una degli eredi di quei komplizen che ottant'anni fa marciavano compatti dietro le schiere hitleriane nel Baltico e oggi sproloquiano di “valori europeisti” e “resilienza democratica”, esigendo più soldi per la guerra sottraendoli alle spese sociali.
Dettando la “linea” della “diplomazia” europeista, Kaja Kallas è sicura che «l'Ucraina dovrebbe essere la principale priorità» della UE che, tradotto, suona come “la guerra con la Russia ha la precedenza assoluta su tutto il resto”. Dunque, ben venga il 5% del PIL per le spese di guerra, secondo gli ordini impartiti da Donald Trump, per rimpolpare le entrate del complesso militare-industriale USA.
Ma, quanto conta davvero l'Europa? Secondo l'americano “Politico”, Trump e Putin sono d'accordo su una cosa: togliere di mezzo il beniamino dell'Europa, Vladimir Zelenskij, indicendo le elezioni presidenziali. Nei giorni scorsi, il rappresentante speciale yankee per l'Ucraina, Keith Kellogg, aveva anticipato che «nella maggior parte delle democrazie, le elezioni si tengono anche in tempo di guerra», in riferimento all'annullamento del voto decretato dal jefe de la junta golpista la scorsa primavera col pretesto della guerra. Poi il colpo di grazia: «la forza di una democrazia stabile è data dalla presenza di più di un candidato»: ad esempio l'ex Capo di SM Valerij Zalužnij o il capo dei Servizi Kirill Budanov.
Considero il
recente (presunto) suicidio del programmatore indiano
ventiseienne Suchir Balaji, un giovane che aveva alle spalle
quattro anni di lavoro presso il
centro di ricerca di OpenAI, un evento di una tale gravità da
richiedere un ripensamento in merito al ruolo svolto dalla
proprietà
intellettuale negli ultimi quarant’anni, sia all’interno della
produzione informatica e di rete sia, più in generale,
nell’ambito dei complessi rapporti che questa peculiare forma
di proprietà privata ha stabilito con la libertà di opinione,
con il
diritto di accesso all’educazione e alla formazione, con la
cooperazione internazionale allo sviluppo e, per estensione,
con tutti i principali
pilastri del diritto nelle democrazie liberali, quelli che i
paladini del libero mercato continuano a invocare nei loro
discorsi pubblici sebbene
nelle realtà non se ne veda più traccia da moltissimo tempo.
Partendo dalle prime proteste dei movimenti “no copyright” degli anni Novanta, fino ad arrivare alle attuali rimostranze contro la violazione, da parte dell’intelligenza artificiale generativa (LLM), delle leggi americane sul fair use, abbiamo assistito a un progressivo attenuarsi dei motivi polemici contro queste leggi. Da posizioni che si schieravano radicalmente contro la proprietà intellettuale, siamo passati a un atteggiamento sostanzialmente inverso: un pieno riconoscimento delle leggi di tutela del copyright, accompagnato dalla veemente denuncia delle loro violazioni effettuate dalle Big Tech. Come vedremo alla fine dell’articolo, è da quest’ultima posizione che Balaji aveva mosso la sua critica, rigorosa e puntuale, nei confronti di OpenAI.
Per una serie di strane e tristi coincidenze, ci è dato ripercorrere brevemente l’itinerario di queste oscillazioni in materia di proprietà intellettuale degli ultimi quarant’anni, a partire dalle morti di altri due autorevolissimi ricercatori informatici che, come nel caso Balaji, sono state archiviate come suicidi dall’autorità giudiziaria statunitense.
È
necessario sottrarsi al gioco di specchi tra sinistra e destra
imperialistiche. Pensiamo a un Saviano che maledice Musk, ma
non ha niente da dire sul
genocidio in Palestina, o, al fatto ovvio che il “saluto
romano” di Musk non intaccherà la stretta alleanza tra Usa e
Israele (in
merito difeso su X da Netanyahu, quale “grande amico di
Israele”), ecc.
Tuttavia, non prendere sul serio e ignorare il plateale gesto di Musk neanche convince. Innanzitutto, eviterei il “dibattito” se Musk è fascista o nazista, visto che fino a qualche a tempo fa era in ottimi rapporti con l’amministrazione Biden, fin quando non ha deciso di cambiare cavallo, puntando su quello vincente. È evidente un uso puramente strumentale delle ideologie, da parte di questi personaggi, che non credono in nulla, al fine di raggiungere determinati scopi. Chiediamoci invece quali obiettivi politici persegue Musk nell’ambito dell’amministrazione Trump. Analizziamo il “saluto romano” che in quanto gesto simbolico condensa diversi significati. Musk ha voluto richiamarsi al saluto alla bandiera americana, il “saluto di Bellamy”, introdotto nel 1892, e poi abbandonato durante la seconda guerra mondiale perché troppo simile a quello nazista, e sostituito con il gesto della mano sul cuore. Il gesto di Musk, come si vede nei filmati, unisce le due forme di saluto. Ma, siccome il “saluto romano” non era in uso il riferimento inequivocabile è proprio al “saluto romano” (che tra i romani invece non era in uso in ambito politico come ci informano gli storici). La vicenda ha assunto dei connotati che diremmo comico-grotteschi, se non si trattasse di personaggi con un enorme potere, stile la gag “Hitler Tony” di Lillo e Greg, quando Musk ha postato su X le foto di Obama, della Clinton, della Harris immortalati nel “saluto fascista”, mentre, in realtà, stavano salutando la folla. Invece, Musk ha proprio inteso fare il “saluto romano”, ma poi nega l’evidenza … è Hitler Tony (per chi non ha visto la gag è facile da ritrovare in internet).
Il saggio di Emmanuel Todd sulla
sconfitta dell’Occidente convince soprattutto nella previsione
circa la fine dell’Unione europea come conseguenza del suo
appoggio
incondizionato alla guerra condotta dagli Stati Uniti contro
la Russia. L’Unione nasce del resto come progetto atlantista,
concepito per serrare
le fila del mondo capitalista e affossare il costituzionalismo
democratico e sociale sorto come reazione alla sconfitta del
fascismo. E si sviluppa
sotto forma di dispositivo neoliberale irriformabile, in
quanto tale destinato a minacciare a tal punto le società
europee da far apparire una
loro reazione avversa come inevitabile e prima o poi destinata
a produrre il disfacimento dell’Unione.
Todd trascura però le differenze tra il costituzionalismo democratico e sociale e quello liberale, e con ciò elementi fondamentali per analizzare la crisi della democrazia provocata dalla virulenza del neoliberalismo. Per contro sopravvaluta il ruolo della religione in quanto fondamento per il recupero della dimensione comunitaria indispensabile al successo del costituzionalismo: anche il neoliberalismo possiede una simile dimensione, nel cui ambito la religione ben può divenire una fonte di valori premoderni buoni solo a sostenere la modernità capitalista.
Il declino dell’Occidente e il neoliberalismo
La letteratura sul declino dell’Occidente ha una tradizione relativamente lunga. Prende corpo con il celeberrimo volume di Oswald Spengler, pubblicato alla conclusione del primo conflitto mondiale con una tesi decisamente reazionaria: il “tramonto” della civiltà occidentale veniva attribuito alla centralità assunta dal denaro alimentata dalla democrazia, tanto che lo si sarebbe potuto arrestare solo con l’avvento del cesarismo[1].
Da allora molti si sono cimentati con lo stesso tema e con sensibilità le più disparate, quindi non solo per sponsorizzare soluzioni antidemocratiche al declino dell’Occidente.
Trump incontra Netanyahu ed evoca la pulizia etnica di Gaza. Tregua a rischio
Nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu, in visita negli Usa, Trump ha reso ufficiale quanto aveva in precedenza: i palestinesi verranno espulsi da Gaza e gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia. Mai un crimine contro l’umanità (pulizia etnica) era stato dichiarato in maniera così pubblica da un presidente degli Stati Uniti. Trump non maschera la brutalità propria dell’esercizio del potere imperiale.
I palestinesi, chiaramente, hanno reagito con legittima indignazione a tale prospettiva, che peraltro rischia di far collassare la fragile tregua di Gaza che proprio ieri entrava nella seconda e decisiva fase in cui le parti tratteranno del ritiro israeliano e del futuro dalla Striscia e Hamas procederà alla liberazione dei restanti ostaggi.
Ma, mentre Hamas annunciava di essere pronto al nuovo round di negoziati, Trump sganciava una bomba nucleare su di essi. Infatti, la richiesta del ritiro dell’esercito israeliano da parte della milizia islamica aveva come sottinteso che Gaza restasse ai palestinesi. L’improvvida dichiarazione di Trump nega tale opzione.
Più di due decenni fa, l’UE ha presentato la sua strategia di Lisbona, che si prefiggeva di trasformare l’Unione nell’“economia basata sulla conoscenza più dinamica, competitiva e sostenibile, che godesse di piena occupazione e di una coesione economica e sociale rafforzata”.
Sappiamo quanto bene ha funzionato. Difficilmente dinamica, certamente non competitiva, l’UE è rimasta costantemente indietro rispetto ad altre nazioni in praticamente ogni parametro economico chiave. Mentre gli Stati Uniti e la Cina intensificano la loro corsa per la supremazia tecnologica del XXI secolo, l’Europa è costretta a guardare da bordo campo, assediata da stagnazione economica, alti costi energetici, sconvolgimenti politici e inerzia burocratica.
E ora è in preda al panico per la minaccia di tariffe sulle importazioni da parte di Donald Trump. Ma un riequilibrio dell’economia europea, che attualmente ha un enorme surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti, sarebbe davvero una cosa così negativa?
La realtà è che la crescita delle esportazioni non indica un’economia di successo. Al contrario, basta guardare la Germania. L’UE è sempre stata una potenza esportatrice proprio a causa della sua economia in declino, causata dalla mancanza di consumi e investimenti interni.
Nell’ambito della sempre esplosiva situazione mediorientale, assume sempre più rilevanza una complessa triangolazione, che rappresenta oggi il cardine della politica statunitense nella regione. Mentre durante l’amministrazione Biden, infatti, la politica americana è andata completamente a rimorchio di quella israeliana, con l’avvento della nuova amministrazione Trump tornano a primeggiare gli interessi strategici di Washington – pur fermo restando il saldo appoggio per Tel Aviv.
In questa fase, in effetti, gli interessi strategici statunitensi si trovano a coincidere con gli interessi tattici israeliani, anche se – per ragioni di equilibri politici interni – questi ultimi non possono essere dichiarati apertamente all’interno dello stato ebraico. Ragion per cui Netanyahu trova comodo nascondersi dietro le pressioni americane, ed al tempo stesso le utilizza per contrattare delle contropartite. Il suo viaggio negli states (primo leader straniero incontrato da Trump dal suo insediamento) serve precisamente a questo.
Rapidamente archiviata la tragica boutade di trasferire i gazawi in Egitto e Giordania, le questioni sul tavolo sono altre, ma tutte di non facile soluzione.
La prima è quella dell’implementazione della seconda fase del cessate il fuoco. La questione centrale è in effetti quella del governo di Gaza dopo il ritiro israeliano.
Africa, chi viene e chi va. Chi va sono soprattutto, in prima persona, i francesi con, in seconda battuta, gli statunitensi. Chi viene sono essenzialmente gli stessi che se ne vanno, se ne devono andare, cacciati, ma che provano a tornare sotto mentite spoglie. È il caso di fuori i francesi! dal Sahel, dall’Atlantico del Senegal al Mar Rosso dell’Eritrea, passando per Mali, Niger, Burkina Faso, Guinea, Chad e, ha da venì, Repubblica Centroafricana, che ha cominciato a chiedere agli Usa se non fosse il caso di ritirare i propri militari. Altri che arrivano, ma prima non c’erano, sono i russi e cinesi. Di questi ci sarà altra occasione per dire.
Nel giro di tre anni, dal 2020 della rivoluzione anticoloniale in Mali, l’intera fascia subsahariana ha cambiato fisionomia. Se qualcuno, frantumando la Libia, linciando Gheddafi, insediando a Tripoli una brigata di criminali alla Osama Al Masri, pensava di aver posto fine alla spinta del continente verso, se non l’unità, l’autodeterminazione e l’affrancamento dal neocolonialismo nelle sue varie forme, il Sahel gli ha dato modo di ricredersi.
In Senegal per via elettorale, con neo presidente Diomaye Faye e premier Ousmane Sonko a sostituzione di Maky Sall, uomo di Parigi; in Mali, Niger e Burkina Faso dove Assimi Goita, Abdurahman Tchani e Ibrahim Traorè, rispettivamente, portano al potere una giunta militare che corona una rivolta popolare contro i francesi, termina il dominio coloniale del Franco francese e il presidio militare di Parigi, USA e altri NATO.
L’uscita recente del libro di M. Amiech, L’industria del complottismo (Malamente edizioni, 2024), con una pregevole prefazione di Elisa Lello, merita un invito alla lettura.
Il testo dello studioso e attivista francese rappresenta un valido strumento per cercare una via critica che eviti i luoghi comuni degli ultimi anni, soprattutto relativi all’emergenza sanitaria Covid-19. Il primo è quello che ha usato il “complottismo” come termine svalutativo per neutralizzare e criminalizzare qualsiasi lettura non coincidesse con la dottrina mainstream propinata dalla quasi totalità dei mass media. Il secondo, simmetrico e opposto, è quello di coloro che hanno preferito risolvere il disagio, la paura e la confusione adottando processi mentali tesi a semplificare e imputare ogni evento distorto alle intenzioni malevole di soggetti più o meno oscuri, detentori esclusivi delle leve del comando.
Le teorie cospirazioniste – come suggerisce il libro – sbocciano come effetto della depoliticizzazione della società e del silenziamento del dibattito pubblico. Esse risultano deboli e talora perniciose, non perché diffondano il seme dell’irrazionalismo, ma perché la fanno troppo facile e inibiscono una reale presa di responsabilità collettiva. Insomma, condannano all’impotenza compiaciuta. Sono perfette per masse atomizzate, che abitano internet e rimangono murate nel loro isolamento digitale, sfogando rabbia e malumore senza mai cogliere fino in fondo cosa sia il potere. Quest’ultimo non è riconducibile in modo lineare e riduzionistico a trame occulte, perfettamente coordinate su scala mondiale.
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
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Il movimento universitario che si ritrova in assemblea nazionale in questo fine settimana a Bologna muove dalla critica alla riforma Bernini e al taglio ai finanziamenti. Limitandosi a questo rischia però di riprodurre più che scardinare il modello di università esistente. Questo articolo discute perché le critiche al sottofinanziamento e alla precarizzazione non siano sufficienti e perché l’assemblea precaria deve guardare al movimento studentesco piuttosto che agli strutturati per costruire la propria mobilitazione
In vista dell’assemblea nazionale che si terrà
a Bologna in questo fine settimana sono usciti numerosi
articoli che provano a fare il
punto sulla mobilitazione nelle università e a immaginare
ulteriori sviluppi per il movimento. Data la composizione
della propria redazione e
la rete di collaboratori di cui dispone, la rivista Jacobin
è quella che forse più si è spesa in tal senso. Questo
è certamente un merito. Al tempo stesso però, ci sembra di
poter dire che Jacobin sia anche l’espressione più
nitida
di una certa incapacità di proporre una critica più generale
al modello di università liberista, proponendo soluzioni e
parole
d’ordine che tendono più a migliorare l’esistente che a
metterlo in discussione. Di questa tendenza è emblematico
l’articolo di Giacomo Gabbuti. La polemica che qui
proponiamo non deve essere intesa, in alcun modo, come
rivolta in maniera specifica
all’autore, ma investe una serie di prese di posizione che
il pezzo di Gabbuti condensa. Mentre infatti l’articolo
risulta
particolarmente utile per mappare lo stato di avanzamento del
movimento di protesta e per avere contezza delle mobilitazioni
messe in campo dalle
varie assemblee precarie a livello locale nei mesi passati, soffre
anche di due gravi criticità. La prima è la prospettiva
generale
attorno alla quale è costruito. La seconda è invece il
rapporto tra la componente precaria e gli strutturati.
Le due questioni
possono essere poste singolarmente. Il nodo delle alleanze
deriva però dalla prospettiva generale. Conviene quindi
partire dalla prima per
giungere alla seconda e non viceversa.
Il protezionismo
come prassi storica del capitalismo e base materiale del
neoprotezionismo di Trump. La consustanzialità
dell’isolazionismo alla guerra
imperialista e all’odierna spinta bellica degli Usa. La
necessità delle lotte dei comunisti e dei popoli per la
liberazione dal giogo
imperialista e della Nato.
Non saranno forse, “i dieci giorni che sconvolgeranno il mondo”, ma certo la quindicina di giorni che ha separato la seconda investitura di Trump alla Casa Bianca (20 gennaio 2025) dalla firma, da parte dello stesso presidente Usa (4 febbraio 2025), dell’ordine esecutivo per l’avvio della guerra doganale, ha già scatenato una scossa tellurica, sul terreno economico-finanziario internazionale, di almeno 9 gradi della scala Mercalli.
Il neoprotezionismo “trumpiano” inizia ufficializzando nuove tariffe doganali del 25% contro Messico e Canada e del 10% contro la Cina, che si assommerebbero, se praticate, a quelle già in atto contro il gigante guidato dal partito comunista cinese. Inoltre, “per proteggere gli Usa” anticipatamente da ogni ritorsione, il provvedimento firmato da Trump prevede “una clausola di ritorsione” in grado di far innalzare le stesse barriere doganali contro i Paesi già colpiti, qualora essi rispondessero con uguali misure protezionistiche.
Consapevole dell’atto di guerra economico-finanziario proclamato e della sua gravità oggettiva, Trump ha inoltre ratificato, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act, “lo stato di emergenza nazionale”, che gli consentirebbe di disporre di ampi poteri per affrontare le eventuali e molto probabili crisi e contraddizioni, sia sul piano internazionale che su quello nazionale.
Fermi tutti! Fermi
tutti che qui abbiamo lo scooppone del Foglio!
PIL al ribasso, titola allarmato: l’economia
italiana è
entrata in una fase critica; incredibile ma vero,
l’ufficio parlamentare di bilancio ha rivisto le stime sulla
crescita del PIL
per il 2024 e indovinate un po’? Incredibilmente l’obiettivo
dell’1% non è stato raggiunto; anzi, non ci siamo manco
avvicinati: 0,7, sentenzia il rapporto. Quando noi – e quelli
che, come noi, non devono fare propaganda trionfalista
filo-occidentale – lo
dichiaravamo ormai quasi un anno fa, i sapientoni del Foglio,
dall’alto dei loro curricula accademici in discipline
economiche che da
30 anni non ne colgono una manco per sbaglio, ci davano dei gufi;
propaganda putiniana, per creare una narrazione
tossica
sul declino dell’Occidente: “Fatti e numeri smentiscono
l’eterna lagna nazionale” scriveva Marco Fortis
il 26
marzo, forte del suo contributo alla rinascita italiana prima
come consigliere di Mario Monti e poi di Matteo Renzi. Lo
stesso Fortis che ancora in
maggio rilanciava: “L’Italia ha scalato l’export mondiale”;
“un bel successo per un Paese come il nostro che fino a una
decina di anni fa era considerato in declino dalla maggior
parte degli economisti e considerato come un perdente sicuro
nel quadro della competizione
globale”
Oggi lo stesso giornale la vede un po’ diversamente: “Il peggioramento della congiuntura è evidente già dallo scorso anno” scrivono, senza un minimo sussulto di dignità; quello che li ha spiazzati è che “nell’ultimo trimestre 2024 anche i servizi, che negli ultimi anni sono andati molto bene, hanno mostrato segnali negativi”. Ma te guarda a volte il caso… A parte gli economisti squinternati di regime che vogliono rilanciare l’Italia a suon di b&b e pizze gourmet, nessuna persona sana di mente può pensare che un Paese come l’Italia possa essere trainato dai servizi: se la produzione industriale crolla, inesorabilmente, a stretto giro, arriverà anche il turno dei servizi.
Come raggiungere l'impossibile? L'America è istintivamente una potenza espansionistica, che ha bisogno di nuovi campi da conquistare, di nuovi orizzonti finanziari da dominare e sfruttare. Gli Stati Uniti sono fatti così. Lo sono sempre stati.
Ma - se siete Trump, che vuole ritirarsi dalle guerre alla periferia dell'impero, ma vuole anche dare un'immagine brillante di un'America muscolosa che si espande e guida la politica e la finanza globale - come fare?
Il Presidente Trump, da sempre uomo di spettacolo, ha una soluzione. Disdegnare l'ideologia intellettuale, ormai screditata, dell'egemonia muscolare americana a livello globale; suggerire piuttosto che queste precedenti “guerre per sempre” non sarebbero mai dovute essere “le nostre guerre”; e, come ha avanzato e suggerito Alon Mizrahi, iniziare a ricolonizzare ciò che era già stato colonizzato: Canada, Groenlandia, Panama - e anche l'Europa, naturalmente.
L'America sarà quindi più grande; Trump agirà con decisa muscolarità (come in Colombia); farà un grande “show”, ma allo stesso tempo ridurrà l'interesse principale degli Stati Uniti per la sicurezza al centro dell'emisfero occidentale. Come Trump continua a osservare, gli americani vivono nell'“emisfero occidentale”, non in Medio Oriente o altrove.
Trump tenta così di staccarsi dalla periferia bellica espansionistica americana - “l'esterno” - per proclamare che l'“interno” (cioè la sfera dell'emisfero occidentale), è diventato più grande ed è indiscutibilmente americano. E questo è ciò che conta.
"L'Europa ha un crescente numero di leggi che istituzionalizzano la censura" ha detto Zuckerberg, folgorato sulla via di Damasco della rielezione di Trump. Ovviamente da Bruxelles la risposta non è tardata: "Noi non censuriamo i social media".
La questione della supposta fine del fact checking (o della censura) sta ormai prendendo tinte grottesche, ma una cosa è abbastanza chiara: se (e sottolineo se) oltreoceano c'è stato un tana libera tutti in Europa niente del genere. Su tutte le agende "pesanti" il vecchio continente va avanti come se a Washington ci fosse ancora l'amministrazione Biden. E questo riguarda anche la censura online: il contrasto alla diffusione della "disinformazione" era già l'oggetto principale dell' European Union’s Code of Practice on Disinformation adottato in tempi di Brexit dopo lo scandalo Facebook/Cambridge Analytics (2018). La tesi fu che i risultati del refendum per Brexit erano stati prodotti dalla disinformazione online - e dagli hacker russi. Eppure dieci anni prima il massiccio uso dei social media da parte di Barack Obama durante la sua campagna elettorale fu commentato con entusiasmo.
Clara Mattei, dell’Università di Tulsa, in Oklahoma, spiega le idee e la pratica del Centro per l’Economia eterodossa che vuole uscire dal modello dominante ed esplorare la critica dell’economia per la trasformazione sociale
Il Center for Heterodox Economics (Che) tiene la sua conferenza inaugurale dal 6 all’8 febbraio a Tulsa, Oklahoma, Stati uniti del sud, territorio trumpiano. E l’inizio è davvero dirompente (qui per seguirla). Si discuterà di «Economia politica di Karl Marx», di «Inflazione, austerity e conflitti», della «Economia politica della Palestina occupata», ma anche della «Economia politica di Piero Sraffa», degli approcci alla «storia del capitalismo», di clima e di lavoro di cura. L’insieme di studiosi e studiose chiamate a tenere i corsi descrive il senso di una scuola di pensiero critico (Carolina Alves, Nikolaos Chatzarakis, Riccardo Bellofiore, Costas Lapavitsas, Branko Milanovic, Robert Brenner, dall’Italia ancora Giovanna Vertova, e molti altri).
Il progetto vuole «esplorare prospettive alternative nella teoria e nella pratica economica» per «una comprensione più inclusiva e dinamica dell’economia».
Il 9 febbraio si terranno in Ecuador le elezioni presidenziali e legislative e, se necessario, il 13 aprile si andrà al ballottaggio. Avremo 46 anni di “democrazia”, poiché dopo un decennio di dittature, l'agosto 1979 ha segnato l'inizio del più lungo periodo di governi costituzionali della storia, con una successione di 15 presidenti. Ma gli ultimi due decenni del XX secolo e fino all'inizio del XXI sono stati condizionati dalla crisi economica, dal debito estero, dall'ascesa dell'ideologia neoliberista attraverso il FMI e il Washington Consensus, dallo sviluppo della globalizzazione transnazionale dopo il crollo del socialismo di stampo sovietico, dall'imposizione del modello imprenditoriale nel Paese e dal predominio delle forze identificate con la destra politica.
L'economia costruita, unita all'indebolimento delle politiche sociali, ai privilegi della casta politica e alla progressiva de-istituzionalizzazione che ha aggravato la governance, ha fatto crollare anche le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione. Si tratta dello stesso fenomeno sociale che l'America Latina ha vissuto a seguito del neoliberismo imposto alla regione. Inoltre, nelle suddette condizioni interne e internazionali, il movimento popolare, un tempo espresso dalla significativa presenza del FUT (Frente Unitario dei Lavoratori) e la sinistra tradizionale hanno perso forza e non sono riusciti a diventare alternative elettorali, anche se dal 1990 il movimento indigeno guidato dal CONAIE ha acquisito uno slancio senza precedenti.
Lo scorso 28 gennaio il Bulletin of the Atomic Scientists ha spostato le lancette del Doomsday Clock, l’Orologio dell’apocalisse, da 90 a 89 secondi alla mezzanotte. Fondato nel 1945 da Albert Einstein, J. Robert Oppenheimer e dagli scienziati che contribuirono a sviluppare le armi atomiche nel Progetto Manhattan, il Bulletin of the Atomic Scientists creò il Doomsday Clock utilizzando l’immagine dell’apocalisse e il conto alla rovescia per monitorare lo stato delle minacce nucleari all’umanità. A ottanta anni da Hiroshima e Nagasaki, attraversiamo il momento più vicino alla catastrofe mai registrato nella storia: “poiché il mondo è già pericolosamente vicino al precipizio, uno spostamento anche di un solo secondo dovrebbe essere interpretato come un’indicazione di pericolo estremo e un avvertimento inequivocabile che ogni secondo di ritardo nell’inversione di rotta aumenta la probabilità di un disastro globale” – scrivono gli scienziati – “Continuare ciecamente sul percorso attuale è una forma di follia”.
Il giorno dopo questo appello urgente all’inversione di rotta, fondato sul ripristino della ragione – che prevede il disarmo, a cominciare da quello nucleare, e la preparazione di strumenti non armati e nonviolenti per risolvere le controversie internazionali – anche il capo di stato maggiore dell’esercito italiano, Carmine Masiello, audito in Commissione Difesa della Camera dei Deputati, ha parlato della necessità “di un vero e proprio cambiamento culturale”, ma per attrezzare le forze armate a passare dalle “missioni di mantenimento della pace” alla “capacità di produrre operazioni ad alta intensità, attraverso rapidi interventi strutturali” con un “rinnovamento qualitativo e quantitativo dello strumento militare“.
Mentre arriva la sfida cinese di DeepSeek, la Silicon Valley guarda sempre più al settore militare, proponendo un’alleanza all’establishment USA che teme di perdere l’egemonia mondiale
DeepSeek,
una startup cinese fino a poco tempo fa pressoché sconosciuta,
ha scosso le convinzioni del mondo dell’intelligenza
artificiale (IA), a
fine gennaio, lanciando un modello linguistico di grandi
dimensioni (large language model, LLM) con capacità
paragonabili a quelle dei migliori modelli di compagnie
americane leader nel settore come OpenAI, Anthropic e Meta.
Per anni, molti hanno dato per scontato che le compagnie della Silicon Valley fossero all’avanguardia nello sviluppo dell’IA, ed essenzialmente destinate a dominare un settore considerato strategico nella lotta per l’egemonia tecnologica mondiale.
DeepSeek R1 è un “modello di ragionamento” in grado di risolvere problemi matematici, logici e di programmazione anche complessi, con prestazioni equiparabili a quelle di OpenAI o1, ma con software “open source” e senza iscrizione a pagamento (richiesta invece da quest’ultimo, che è un modello proprietario).
In più, DeepSeek R1 è stato addestrato a una frazione del costo richiesto da OpenAI o1 (secondo stime tuttavia non unanimemente condivise, l’addestramento avrebbe richiesto circa 6 milioni di dollari), e senza l’impiego di microchip di ultima generazione, la cui esportazione in Cina è proibita dagli USA.
Il lancio del modello “a basso costo” di DeepSeek avviene mentre giganti come Microsoft e Meta si apprestano a spendere rispettivamente 80 e 65 miliardi di dollari nel 2025 in infrastrutture legate all’IA.
Nell’anno appena iniziato, ci si attende che i “magnifici sette” fra le Big Tech americane (Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Nvidia, Meta, e Tesla) investiranno complessivamente almeno 250 miliardi di dollari nell’intelligenza artificiale.
Alla luce dell’exploit di DeepSeek, il timore degli investitori USA è che simili investimenti si rivelino eccessivi, e soprattutto che possano danneggiare la redditività delle grandi compagnie americane, se una startup cinese relativamente piccola può fornire applicazioni di intelligenza artificiale a costi molto più bassi.
“L’incommensurabilità della scienza” chiarisce il pensiero del filosofo delle rivoluzioni scientifiche
Per quanto possa apparire
un’ovvietà, vale sempre la pena ricordare che in nessun’epoca
della storia gli uomini si sono sentiti “antichi”. Poteva
accadere – ed è accaduto quasi sempre finché la moderna
ideologia delle “magnifiche sorti e progressive” non si
è affermata – che ci si percepisse in un’epoca di decadenza;
ma ogni generazione si considera moderna e attribuisce alle
precedenti
errori e concezioni superate, anche se questo può farci
sorridere se pensiamo a coloro che credevano nella fissità
della Terra o
nell’etere luminifero. Di quest’ovvietà si rese conto Thomas
S. Kuhn nell’estate del 1947 quando, giovane dottorando
venticinquenne, meditando sul testo della Fisica di
Aristotele, all’improvviso ebbe una illuminazione:
“Improvvisamente i frammenti nella mia testa si sono riordinati in modo nuovo e ognuno è andato al proprio posto. Sono rimasto a bocca aperta, perché tutto d’un tratto Aristotele mi sembrò davvero un ottimo fisico, ma di un tipo che non avevo mai sognato fosse possibile”
(Kuhn, 2024).
Era accaduto che Kuhn, chiedendosi come fosse possibile per il più grande filosofo dell’età antica credere nell’inesistenza del vuoto e in generale a tutta una serie di concezioni scientifiche del tutto errate rispetto alle nostre conoscenza moderne, comprese che la fisica di Aristotele si reggeva su concetti che avevano per lui significati del tutto diversi da quelli che hanno oggi e che, all’interno di quella tassonomia, la fisica aristotelica era non solo perfettamente sensata, ma corretta. Quell’epifania aveva proiettato per un attimo Kuhn nel mondo di Aristotele, vale a dire che gli era riuscito di vedere il mondo esattamente nello stesso modo in cui lo vedeva lo Stagirita, e non piuttosto – come sempre avviene – con gli occhi di noi “moderni” di oggi. Nell’opus magnum di Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), questa idea è trattata nel capitolo decimo, intitolato Le rivoluzioni come mutamenti nella concezione del mondo. Il cambio di paradigma che rappresenta, nell’opera di Kuhn, il processo con cui si verifica una rivoluzione scientifica, è un vero e proprio cambiamento di mondo:
Passano gli anni ma in Italia i parlamentari di centro-destra mantengono la loro ormai consueta mancanza di dignità
Nel numero di
luglio-agosto 2011 di quella bellissima esperienza di
giornalismo locale che è stata in Lombardia il mensile La
Civetta, sotto la
direzione di Claudio Morselli (tra la metà degli scorsi anni
’90 e una dozzina d’anni fa, prima di soccombere – come tante
altre esperienze – all’aspra recessione economica
internazionale seguita alla “crisi dei mutui”), si scriveva
nella seconda
parte dell’articolo La deriva leghista-berlusconiana - La
scomparsa del federalismo inteso come progresso sociale,
a proposito del
“caso Ruby” avviatosi il 27 maggio 2010 con una serie di
telefonate del premier Berlusconi alla Questura
milanese, miranti a
salvaguardare dall’interessamento della polizia una minorenne
straniera nota appunto come Ruby: «Il trionfo dei “governicchi
ad
personam” [messi tipicamente in piedi da Berlusconi nel
corso degli anni, N.d.R.] è stato forse raggiunto il
3 febbraio e
il 5 aprile [di quel 2011, N.d.R.], quando alla
Camera 315 deputati la prima volta (su 614 presenti) e 314 la
seconda (su 616) hanno
approvato delle deliberazioni indirizzate alla magistratura di
Milano e incentrate sullo spiegare le ormai famose telefonate
che hanno avviato il
“caso Ruby” (rivolte alla Questura di Milano dal premier
e da suoi incaricati) come un’iniziativa “governativa”
a tutela delle relazioni tra Italia ed Egitto, anziché come
un’iniziativa personale di Berlusconi allo scopo di evitare
che emergesse il
suo coinvolgimento in cose come la prostituzione minorile.
Tutti questi “onorevoli” hanno così sottoscritto la tesi che
il
premier pensasse davvero che la minorenne marocchina
invitata col nome di Ruby ai party notturni di
Berlusconi (dei quali è
ormai notorio lo sfondo sessuale) fosse una nipote del premier
egiziano Mubarak. Peccato che la tesi sia apertamente
incompatibile con quanto
è successo dopo quelle telefonate: quando la Questura ha
aderito alle ripetute richieste di Berlusconi di affidare la
ragazza (accusata di
furto) non ai servizi sociali ma a un’inviata personale del premier
stesso, cioè la consigliera regionale del Pdl Nicole
Minetti, quest’ultima non ha fatto che “consegnare” la
minorenne Ruby a una prostituta brasiliana maggiorenne la cui
professione era
ben nota a Milano. Il premier era ovviamente a
conoscenza di queste vicende (in seguito ampiamente
documentate e rese pubbliche dagli
apparati giudiziari), ma non disse alla Minetti di fare
altrimenti, né l’ha criticata per queste sue azioni; anzi, più
volte
l’ha lodata pubblicamente per le sue grandi capacità...
In molti cominciano a chiedersi: “ma perché Trump spara tante cavolate?”, e finiscono col rispondersi – sbagliando, ma comprensibilmente – che queste devono in qualche modo corrispondere a un disegno strategico degli Stati Uniti.
Vorrei quindi qui provare ad analizzare criticamente il personaggio Trump, cercando di delineare le (possibili) ragioni del suo comportamento alquanto sopra le righe.
Necessariamente, devo partire da quanto ho già sostenuto precedentemente; l’elezione di Trump alla presidenza è stata una operazione portata a termine da una parte minoritaria del deep state americano, da decenni emarginata dal blocco costituito da neocon e democratici, che ha controllato sia le istituzioni federali che la politica estera degli USA. Per ribaltare la situazione, questo gruppo minoritario ha deciso di sfruttare gli errori commessi dalle varie presidenze dem, e la debolezza ormai strutturale di quel partito, utilizzando come cavallo di Troia un leader populista, capace di catalizzare la rabbia e la frustrazione di una parte significativa degli americani. Oltretutto, Trump offriva da questo punto di vista ulteriori vantaggi. Innanzi tutto, non è un politico ma un imprenditore, e non possiede quindi le malizie di un politico navigato, abituato a muoversi nell’establishment federale. Nel suo primo mandato ha già dimostrato di essere abbastanza pilotabile (tutti i presidenti lo sono, ma lui di più), nonostante il suo ego smisurato – anzi, proprio per quello. E, infine, non è rieleggibile.
Quando i reazionari prendono le leve del potere, sostituendo i conservatori che giochicchiavano parlando di sé come “progressisti”, abbiamo quelle classiche situazioni da “dieci giorni che sorpresero i cretini” (piuttosto diversi da quelli che “sconvolsero il mondo” oltre 100 anni fa).
Abituati a un mondo “basato sulle regole”, tutti – anche gli analisti più di sinistra o “antagonisti” – fanno fatica a cogliere quel che sta avvenendo al vertice degli States, e quindi nella “sala operativa” da cui nel bene o nel male dipende il corso del mondo.
Avvertenza: mondo “basato sulle regole” non significa affatto – come continuano a pensare i conservatori – che quelle regole fossero “buone”, “etiche”, “efficaci” o condivisibili. Significa solo che c’era un quadro di regole abbastanza fisso entro cui tutti, anche i rivoluzionari e gli antagonisti, si muovevano con relativa certezza, fissando obiettivi di medio o lungo periodo, iniziative di lotta o di semplice gestione, ecc.
Quelle regole stanno saltando e con esse l’impianto generale delle “attese razionali”, sia nelle dinamiche interne agli Usa che, a maggior ragione, nelle relazioni internazionali. E’ infatti in corso un blitz a carro armato da parte dei “trumpiani tecnologici” contro il cuore stesso dell’amministrazione Usa.
Da un articolo del NYT sulle migrazioni: dubbi, perplessità e riflessioni eterodosse per l’apertura di un dibattito serio sul tema delle migrazioni
Un caro amico con cui ho condiviso lotte passate mi ha inviato un articolo del NYT (noto giornale “liberal”) a firma di Lydia Polgreen, in cui si analizza il moderno fenomeno delle migrazioni dandone sostanzialmente un giudizio molto positivo e considerandolo un fenomeno necessario.
In realtà, leggendolo, mi sono venuti in mente molti dubbi e perplessità e la convinzione che questo fenomeno vada affrontato con obiettività senza cadere nella retorica e nella demagogia né della “destra” xenofoba, né della “sinistra neo-liberale” paladina a chiacchiere dei “diritti umani”, e nemmeno di quella presunta “estrema sinistra” (alla Casarini, tanto per intenderci) che organizza ONG e si fa finanziare i suoi interventi in mare.
Respingendo ovviamente qualsiasi demagogia razzista e qualsiasi tentativo di deportazione “spettacolare” dei migranti in Messico, Albania o Rwanda, mi chiedo però cosa ci sia di tanto “progressista” nel fatto che milioni di persone provenienti dai paesi “poveri”- affidandosi a loschi trafficanti e correndo enormi pericoli - vengano sostanzialmente a implorare di poter essere sfruttati nei paesi “ricchi” neo-colonialisti e imperialisti. Non è in sostanza un moderno commercio di schiavi favorito anche dal falso mito dell’Occidente paese di Bengodi?
Nel periodo tempestoso che stiamo vivendo e la cui origine si può far risalire alla fine della “guerra fredda” nel 1989, la guerra in tutte le sue molteplici manifestazioni e gradazioni (militare, commerciale, finanziaria, comunicativa, culturale, etnica, regionale, locale ecc.) è tornata prepotentemente a occupare la scena mondiale ed è divenuta oggetto di indagini condotte nell’ambito di varie discipline, a vari livelli e con differenti approcci (geopolitico, economico, tecnologico, sociologico, psicologico, antropologico ecc.). Una domanda tuttavia sorge spontanea: che cosa ha detto la filosofia, e in particolare la filosofia italiana di questi ultimi decenni, sulla guerra?
Si può cominciare a rispondere a tale domanda prendendo in considerazione due articoli di Umberto Eco pubblicati, non a caso, a ridosso della rottura epocale che si verificò nel 1989: uno intitolato, per l’appunto, Pensare la guerra e pubblicato in occasione della prima guerra del Golfo (1991), e un altro intitolato Quando la guerra è un’arma spuntata e risalente al periodo della guerra del Kossovo (1999). 1 Nel primo articolo Eco sottolineava il fatto che non esistono più due fronti opposti nettamente separati, poiché «l’esistenza di una società dell’informazione istantanea e dei trasporti rapidi, della migrazione intercontinentale continua, unita alla nuova tecnologia bellica, ha reso la guerra impossibile e irragionevole e, dunque, «la guerra è in contraddizione con le stesse ragioni per cui è fatta». L’illustre semiologo traeva da tale premessa la conseguenza per cui la guerra oggi non mette più di fronte due termini opposti, ma mette in concorrenza infiniti poteri.
Spesso discutendo del processo di asservimento e colonizzazione mentale dell'Europa da parte americana si incontrano voci inclini alla minimizzazione.
Si dice: "Vi saranno pure influenze culturali, come è naturale che sia in presenza di una grande potenza, ma pensare ad una regia di influenze sistematiche è complottismo."
In questo quadro alcuni dati emersi in questi giorni sono interessanti e forniscono, forse, qualche chiarimento.
Su Wikileaks e sul Columbia Journalism Review sono comparse in questi giorni alcune pagine dei rapporti interni dell'USAID, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, recentemente caduta in disgrazia con l'amministrazione Trump - il che ha consentito a molti attori critici del presente governo USA di diffondere informazioni precedentemente secretate.
Tra le informazioni emerse vi sono i dati 2023 sui finanziamenti forniti da USAID a 6.200 giornalisti in vari paesi del mondo (a sostegno della libertà di informazione, ça va sans dire), a 707 testate appartenenti a NGO (che, ricordo, sta per Non Governmental Organizations) e a 279 "organizzazioni della società civile operanti nel settore dei media".
Tra le testate che appaiono coinvolte - nonostante frenetici tentativi di dire che è tutto un fraintendimento - ci sono prestigiose riviste di politica internazionale come "Politico".
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
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Questa storia delle foibe, che
la “giornata del ricordo” ci ripropone con cadenza
annuale, ha almeno il merito di farci riscoprire la
centralità delle politiche della memoria, diventate ormai
componente essenziale del
conflitto sociale, antifascista e anticapitalista. Per
questo abbiamo ritenuto di poter riproporre uno scritto di
Sergio Fontegher Bologna di due anni
fa, apparso sul sito del
Centro per la Riforma dello Stato (che ringraziamo anche
per la foto). In quel pezzo si invitava a “spostare il
terreno di scontro”, dalle
vicende specifiche del confine orientale al tema centrale,
da cui tutto, Shoah compresa, era partito: la guerra
mondiale e la scelta del fascismo di
aggredire popoli che per l’Italia non rappresentavano
nessuna minaccia: francesi, tunisini, iugoslavi, albanesi,
greci e infine russi. Di
aggredirli, di invadere le loro terre, solo per fare un
favore a Hitler. Ma non basta, di aggredirli senza
armamenti ed equipaggiamenti adeguati, per
cui le abbiamo beccate ovunque di santa ragione. Un’intera
generazione mandata al massacro da un dittatore
irresponsabile. E’ una storia
che, a pensarci, fa ancora accapponare la pelle e che
rende grottesca ogni manifestazione di militarismo, simile
a quelle che danno voce alle
paternali dei generali italiani in servizio, pronti ad
ammonire i giovani di oggi che “occorre essere pronti alla
guerra”.
Quest’anno cade l’ottantesimo della Liberazione, del 25 aprile. Ecco un bel banco di prova per la politica della memoria. Speriamo che non sia solo martirologio ma si possa rivendicare con orgoglio di aver fatto fuori qualche criminale in camicia nera o in divisa da SS.
L’ormai consolidata attitudine nel guardare
agli avvenimenti con uno sguardo da hooligans –
che è cosa ben diversa da un
occhio partigiano – induce sfortunatamente molti
di noi a posizionarci, rispetto anche ad avvenimenti tragici
come le guerre, come se
si trattasse di scegliere tra curva sud e curva nord.
Mentre, ovviamente, la realtà è sempre più complessa e
sfaccettata, e per
essere davvero compresa e valutata richiede che si metta da
parte la propria scelta di campo, cercando innanzitutto di
selezionare le notizie e le
fonti non in base alla coerenza emotiva col nostro sentire,
ma alla loro veridicità.
Sentiamo ad esempio spesso dare, anche da autorevoli esperti, valutazioni diametralmente opposte dei medesimi avvenimenti. Sino a veri e propri contorsionismi verbali, come quello recentemente enunciato dal Segretario generale della NATO Mark Rutte, secondo cui “l’Ucraina non sta perdendo, ma il fronte si sta spostando nella direzione sbagliata”…
Non mancano neanche valutazioni superficiali, come quelle che paragonano il conflitto ucraino alla prima guerra mondiale – che fu invece, sostanzialmente una guerra di trincea, senza grandi spostamenti del fronte, e caratterizzata da un inutile reciproco massacro di fanti.
Se proviamo a guardare al conflitto russo-ucraino con uno sguardo non di parte, possiamo invece trarne delle importanti lezioni, che serviranno (probabilmente) agli stati maggiori per ripensare le proprie strategie, e ancor più i propri indirizzi operativi – con tutto ciò che ne consegue. Ma anche, al comune osservatore, per una più aderente comprensione di ciò che si sta evolvendo sul campo di battaglia, e che inevitabilmente si riflette poi anche sul piano politico-diplomatico.
La guerra russo-ucraina, o meglio la guerra Russia-NATO, è caratterizzata sicuramente da alcuni elementi assolutamente nuovi, primo fra tutti il ruolo predominante assunto dai droni.
Trascrizione (non riveduta dall’autore) della conversazione tenuta da Gustavo Esteva a Bologna, presso lo spazio pubblico autogestito Xm24, nell’aprile 2013, durante un lungo tour in Italia
Il paradosso di oggi
Si dice che siamo in una crisi globale. Vorrei cercare innanzitutto di precisare di che tipo di crisi si tratta. Prima di tutto è una crisi di quello che tecnicamente chiamiamo il modo di produzione capitalistico. Poiché questo modo è arrivato alla fine, si è trovato esausto, ha avuto bisogno di scappare via dall’economia reale, dall’economia produttiva, verso il settore finanziario. Questa fuga verso il settore finanziario ha creato innanzitutto un’illusione: l’illusione comune che il denaro possa produrre denaro. Ma il denaro non può produrre denaro. Gli enormi profitti speculativi del settore finanziario sono stati il frutto di un saccheggio sistematico dell’economia reale. E questo ha significato finire di prosciugare, di rovinare l’economia produttiva.
Poiché i capitalisti non hanno trovato una via di fuga all’interno del modo capitalistico di produzione, sono fuggiti verso un modo pre-capitalistico. Abbiamo ora il paradosso di trovarci in un mondo post-capitalistico con dinamiche pre-capitalistiche. Per essere precisi, diciamo che ancora una gran parte dei profitti del capitale si ottiene in forma capitalistica, con relazioni di produzione capitalistiche, ma la dinamica del sistema non è più lì. Il sistema non è più in grado di accumulare relazioni di produzione capitalistiche. È fuggito verso quello che possiamo chiamare accumulazione per via di spoliazione, di rapina. Questo implica che la dinamica del sistema sta lì: il sistema di saccheggio si realizza in una forma coloniale pre-capitalistica.
Un modello che richiede violenza
Questo è ciò che a suo tempo Marx ha chiamato accumulazione primitiva. La forma principale di questo sistema di rapina è il saccheggio del territorio. Farò un esempio molto preciso del mio paese. Il governo messicano ha venduto a corporazioni private, transnazionali, il 40% del territorio del Messico.
I fenomeni sociali, che siano spontanei o che vengano costruiti da una volontà di controllo sui corpi collettivi, alla fine si incontrano e scontrano con le strutture antropologiche, con ciò che l’umano è per natura al di là del costruzionismo politico che pure molta influenza esercita sulla vita degli individui e delle collettività.
Un ambito nel quale tale dinamica è particolarmente evidente, delicata e quindi anche distruttiva, è la formazione, è la scuola. Da alcuni decenni, e in modo sempre più accelerato, la scuola permeata dai principi pedagogici dell’occidente anglosassone – e quindi sostanzialmente dal behaviorismo coniugato con il moralismo – vede al centro alcuni fenomeni, quali:
-la presenza sempre più ossessiva dei genitori nelle scuole, con il conseguente primato della componente emotiva e privata a danno della componente professionale e oggettiva, vale a dire gli educatori, i maestri, i professori;
-la conseguente perdita di identità e sicurezza da parte dei docenti, ridotti o a burocrati o a domestici delle famiglie, e affetti in modo ormai preoccupante dalla sindrome da burnout;
-una ossessione iperprotettiva rivolta a bambini e agli adolescenti, che si presume dover salvaguardare da ogni più piccola difficoltà, dispiacere e soprattutto conflitto.
Come noto, la Wertkritik (it.
Critica
del Valore) è stata spesso accusata, ripetutamente e da
più parti, di trascurare gli aspetti “pratici” e
“propositivi” nella sua lettura del momento storico che
stiamo attraversando, limitandosi a descriverne la crisi
strutturale e a metterci
in guardia rispetto alla catastrofe in corso – secondo
questa lettura estremamente tragica, pericolosa e
irreversibile.
Questa obiezione non è campata in aria, e la questione non è di lana caprina. La Wertkritik, pur capace di analizzare con rara profondità e attenzione il periodo che altri chiamano “Capitalocene”I, corre effettivamente il rischio di assumere una sorta di posizione passiva nei confronti dei problemi che questo solleva, quasi da mera “spettatrice” in attesa del cadavere portato dalla corrente. Ma da questa posizione, che potremmo definire “contemplativa”, il rischio è che finisca essa stessa risucchiata dal fiume in piena, nella misura in cui il capitalismo, mentre rovina, porta con sé il mondo intero.
Questa problematica sta in qualche modo emergendo all’interno del Krisis-Kreis, cioè della cerchia di coloro che si rifanno alle istanze di fondo formulate da questa corrente di pensieroII.
È vero che, per citare Robert Kurz, “…Nessuno può dire di conoscere una via règia che ci conduca fuori da questa situazione desolante, né può estrarre dal cilindro, come per incanto, un programma per l’abolizione della merce moderna” ma, aggiunge subito dopo lo stesso Kurz, “Drammatico è però il fatto che, fino ad ora, non sia neppure iniziata una discussione in questo senso”III.
Sedici
candidati, due donne e quattordici uomini, si candidano
alle elezioni presidenziali in Ecuador di
domenica 9 febbraio. Il 7 si è chiusa una campagna
elettorale segnata, oltre che dagli altissimi livelli di
violenza, dai piani di Trump per
l'America Latina. L'attuale presidente, l'imprenditore
neoliberista ultra-securitario, Daniel Noboa, scalpita per
mettersi nell'orbita di Trump. Ha
accolto con entusiasmo la proposta di deportare i suoi
connazionali migranti, e si è addirittura offerto per
ospitare nelle carceri ecuadoriane
i “delinquenti” statunitensi. Se venisse rieletto,
stenderebbe il tappeto rosso ai piedi del suo idolo
nordamericano.
Non a caso, ha ritenuto “storico” l’invito a presenziare all’insediamento del magnate per il suo secondo mandato, insieme a personalità dell’estrema destra latinoamericana, come l’argentino Javier Milei, il salvadoregno Najib Bukele e, seppur dietro le quinte, Edmundo González Urrutia, che aspira a essere il nuovo presidente “autoproclamato” del Venezuela, nonostante le elezioni siano state vinte da Nicolás Maduro.
Noboa ha accolto a braccia aperte il nuovo Segretario di Stato americano, Marco Rubio, portavoce dei settori più reazionari di Miami, nel primo viaggio in quello che Trump vorrebbe tornasse a essere il suo “cortile di casa”. Non per niente, uno dei primi decreti da lui emanati è stato quello di reinserire Cuba nella lista dei Paesi che “sponsorizzano il terrorismo”, chiudendo il breve periodo in cui l’amministrazione uscente Biden l’aveva rimossa dall’assurda lista.
ANDANDO AL CENTRO
DELLA QUESTIONE: Gaza è stata una zona di uccisioni libere e
un “campo di concentramento” (per citare il direttore della
sicurezza
nazionale israeliano Giora Eiland nel 2004), ben prima del 7
ottobre.
Alla luce di ciò, la posizione più radicale deriva direttamente dalla domanda più semplice: i palestinesi sono esseri umani? Se la tua risposta è enfaticamente sì, inequivocabilmente e senza riserve, allora sei una causa persa per il sionismo. Perché se i palestinesi sono esseri umani, allora la loro autodifesa è legittima e la difesa della loro continua esistenza è necessaria.
Gaza, questa scatola nera, questo recinto per i rifugiati della pulizia etnica della Palestina del 1948: possiamo pensare alla sua gente come pensiamo a noi stessi, immaginando di essere rinchiusi, imprigionati, in un piccolo tratto di terra per sempre, senza alcun motivo se non quello di essere nati in una specifica etnia? Un posto che è stato tagliato fuori dal mondo a vari livelli dal 1948. E un posto che almeno dal 2003 ha sperimentato molteplici e devastanti operazioni militari su larga scala. I cittadini di Gaza erano sopravvissuti a dodici di queste dal 2003, con un bilancio delle vittime di oltre 8.000 persone, prima del 7 ottobre. Da allora, quel numero è cresciuto di oltre 34.000. E ogni minuto c'è un nuovo aggiornamento di più morti a Gaza per il fuoco israeliano, ma ora anche per fame. Niente carburante, niente cibo, niente acqua, niente medicine. Qualunque cosa stia arrivando è come “una goccia nel mare”, per citare i funzionari delle Nazioni Unite, in un luogo che questi funzionari avevano già previsto, nel 2018, sarebbe presto diventato “invivibile”, inadatto alla vita umana, un luogo che stava vivendo quello che Ilan Pappé aveva definito “un genocidio incrementale” già nel 2006.
Questo è il contesto che dobbiamo tenere a mente quando pensiamo all'attacco del 7 ottobre. E poi dobbiamo chiederci, cosa faremmo in quella situazione? Acconsentire e morire? O combattere?
Il Daily Mail ha delineato i punti della "road map" Usa. Si tratterebbe di una grave sconfitta politico-diplomatico da parte della Russia
Con il passare dei giorni dall'entrata alla Casa Bianca di Donald Trump si sono fatte sempre più insistenti le voci di un possibile vertice tra il Tycoon americano e il Presidente russo Vladimir Putin con la finalità di sbloccare il prima possibile la crisi ucraina e riportarla in un alveo di risoluzione del conflitto attraverso la diplomazia.
Assieme alle voci che accreditano la possibilità di un vertice tra i due leader si fanno sempre più insistenti anche le indiscrezioni sui possibili punti della Road Map che dovrebbe portare alla pace nell'est europeo. A questo proposito è di ieri un articolo del quotidiano inglese Daily Mail che delinea il possibile piano proposto da parte statunitense.
Secondo il giornale britannico, i punti della road map per la pace in Ucraina, studiata dallo staff di Trump prevederebbe i seguenti punti:
Tariffe di guerra Molti si illudevano che il commercio sarebbe stato libero per sempre, «fino ai più remoti recessi dell’inferno», come avrebbe detto Schumpeter. Adesso che nell’inferno siamo davvero piombati, si sorprendono che la libertà degli scambi sia destinata alle fiamme
Molti si illudevano che il commercio sarebbe stato libero per sempre, «fino ai più remoti recessi dell’inferno», come avrebbe detto Schumpeter. Adesso che nell’inferno siamo davvero piombati, si sorprendono che la libertà degli scambi sia destinata alle fiamme.
Eppure il problema era lì, evidente anche agli sprovveduti. Il globalismo senza regole creava uno squilibrio crescente nei rapporti commerciali, con paesi che importavano troppo e paesi che esportavano troppo. E un conseguente accumulo di sbilanciamenti finanziari, con gli esportatori a veder montare i crediti e gli importatori a farsi sommergere da una montagna di debiti. I più sommersi di tutti: gli Stati uniti, con un passivo netto verso il resto del mondo che ormai supera i 23 mila miliardi di dollari.
È dalla crisi del 2008 che le amministrazioni Usa hanno intuito che l’amore americano per le importazioni ha messo il debito su una traiettoria pericolosa.
Il movimento universitario che si ritrova in assemblea nazionale in questo fine settimana a Bologna muove dalla critica alla riforma Bernini e al taglio ai finanziamenti. Limitandosi a questo rischia però di riprodurre più che scardinare il modello di università esistente. Questo articolo discute perché le critiche al sottofinanziamento e alla precarizzazione non siano sufficienti e perché l’assemblea precaria deve guardare al movimento studentesco piuttosto che agli strutturati per costruire la propria mobilitazione
In vista dell’assemblea nazionale che si
terrà a Bologna in questo fine settimana sono usciti
numerosi articoli che provano a fare il
punto sulla mobilitazione nelle università e a immaginare
ulteriori sviluppi per il movimento. Data la composizione
della propria redazione e
la rete di collaboratori di cui dispone, la rivista Jacobin
è quella che forse più si è spesa in tal senso. Questo
è certamente un merito. Al tempo stesso però, ci sembra di
poter dire che Jacobin sia anche l’espressione più
nitida
di una certa incapacità di proporre una critica più generale
al modello di università liberista, proponendo soluzioni e
parole
d’ordine che tendono più a migliorare l’esistente che a
metterlo in discussione. Di questa tendenza è emblematico
l’articolo di Giacomo Gabbuti. La polemica che qui
proponiamo non deve essere intesa, in alcun modo, come
rivolta in maniera specifica
all’autore, ma investe una serie di prese di posizione che
il pezzo di Gabbuti condensa. Mentre infatti
l’articolo risulta
particolarmente utile per mappare lo stato di avanzamento
del movimento di protesta e per avere contezza delle
mobilitazioni messe in campo dalle
varie assemblee precarie a livello locale nei mesi passati,
soffre anche di due gravi criticità. La prima è la
prospettiva generale
attorno alla quale è costruito. La seconda è invece il
rapporto tra la componente precaria e gli strutturati.
Le due questioni
possono essere poste singolarmente. Il nodo delle alleanze
deriva però dalla prospettiva generale. Conviene quindi
partire dalla prima per
giungere alla seconda e non viceversa.
Il protezionismo
come prassi storica del capitalismo e base materiale del
neoprotezionismo di Trump. La consustanzialità
dell’isolazionismo alla guerra
imperialista e all’odierna spinta bellica degli Usa. La
necessità delle lotte dei comunisti e dei popoli per la
liberazione dal giogo
imperialista e della Nato.
Non saranno forse, “i dieci giorni che sconvolgeranno il mondo”, ma certo la quindicina di giorni che ha separato la seconda investitura di Trump alla Casa Bianca (20 gennaio 2025) dalla firma, da parte dello stesso presidente Usa (4 febbraio 2025), dell’ordine esecutivo per l’avvio della guerra doganale, ha già scatenato una scossa tellurica, sul terreno economico-finanziario internazionale, di almeno 9 gradi della scala Mercalli.
Il neoprotezionismo “trumpiano” inizia ufficializzando nuove tariffe doganali del 25% contro Messico e Canada e del 10% contro la Cina, che si assommerebbero, se praticate, a quelle già in atto contro il gigante guidato dal partito comunista cinese. Inoltre, “per proteggere gli Usa” anticipatamente da ogni ritorsione, il provvedimento firmato da Trump prevede “una clausola di ritorsione” in grado di far innalzare le stesse barriere doganali contro i Paesi già colpiti, qualora essi rispondessero con uguali misure protezionistiche.
Consapevole dell’atto di guerra economico-finanziario proclamato e della sua gravità oggettiva, Trump ha inoltre ratificato, ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act, “lo stato di emergenza nazionale”, che gli consentirebbe di disporre di ampi poteri per affrontare le eventuali e molto probabili crisi e contraddizioni, sia sul piano internazionale che su quello nazionale.
Fermi tutti! Fermi
tutti che qui abbiamo lo scooppone del Foglio!
PIL al ribasso, titola allarmato: l’economia
italiana è
entrata in una fase critica; incredibile ma vero,
l’ufficio parlamentare di bilancio ha rivisto le stime sulla
crescita del PIL
per il 2024 e indovinate un po’? Incredibilmente l’obiettivo
dell’1% non è stato raggiunto; anzi, non ci siamo manco
avvicinati: 0,7, sentenzia il rapporto. Quando noi – e
quelli che, come noi, non devono fare propaganda
trionfalista filo-occidentale – lo
dichiaravamo ormai quasi un anno fa, i sapientoni del Foglio,
dall’alto dei loro curricula accademici in discipline
economiche che da
30 anni non ne colgono una manco per sbaglio, ci davano dei
gufi; propaganda putiniana, per
creare una narrazione tossica
sul declino dell’Occidente: “Fatti e numeri smentiscono
l’eterna lagna nazionale” scriveva Marco Fortis
il 26
marzo, forte del suo contributo alla rinascita italiana
prima come consigliere di Mario Monti e poi di Matteo Renzi.
Lo stesso Fortis che ancora in
maggio rilanciava: “L’Italia ha scalato l’export mondiale”;
“un bel successo per un Paese come il nostro che fino a una
decina di anni fa era considerato in declino dalla maggior
parte degli economisti e considerato come un perdente sicuro
nel quadro della competizione
globale”
Oggi lo stesso giornale la vede un po’ diversamente: “Il peggioramento della congiuntura è evidente già dallo scorso anno” scrivono, senza un minimo sussulto di dignità; quello che li ha spiazzati è che “nell’ultimo trimestre 2024 anche i servizi, che negli ultimi anni sono andati molto bene, hanno mostrato segnali negativi”. Ma te guarda a volte il caso… A parte gli economisti squinternati di regime che vogliono rilanciare l’Italia a suon di b&b e pizze gourmet, nessuna persona sana di mente può pensare che un Paese come l’Italia possa essere trainato dai servizi: se la produzione industriale crolla, inesorabilmente, a stretto giro, arriverà anche il turno dei servizi.
Clara Mattei, dell’Università di Tulsa, in Oklahoma, spiega le idee e la pratica del Centro per l’Economia eterodossa che vuole uscire dal modello dominante ed esplorare la critica dell’economia per la trasformazione sociale
Il Center for Heterodox Economics (Che) tiene la sua conferenza inaugurale dal 6 all’8 febbraio a Tulsa, Oklahoma, Stati uniti del sud, territorio trumpiano. E l’inizio è davvero dirompente (qui per seguirla). Si discuterà di «Economia politica di Karl Marx», di «Inflazione, austerity e conflitti», della «Economia politica della Palestina occupata», ma anche della «Economia politica di Piero Sraffa», degli approcci alla «storia del capitalismo», di clima e di lavoro di cura. L’insieme di studiosi e studiose chiamate a tenere i corsi descrive il senso di una scuola di pensiero critico (Carolina Alves, Nikolaos Chatzarakis, Riccardo Bellofiore, Costas Lapavitsas, Branko Milanovic, Robert Brenner, dall’Italia ancora Giovanna Vertova, e molti altri).
Il progetto vuole «esplorare prospettive alternative nella teoria e nella pratica economica» per «una comprensione più inclusiva e dinamica dell’economia».
Spesso discutendo del processo di asservimento e colonizzazione mentale dell'Europa da parte americana si incontrano voci inclini alla minimizzazione.
Si dice: "Vi saranno pure influenze culturali, come è naturale che sia in presenza di una grande potenza, ma pensare ad una regia di influenze sistematiche è complottismo."
In questo quadro alcuni dati emersi in questi giorni sono interessanti e forniscono, forse, qualche chiarimento.
Su Wikileaks e sul Columbia Journalism Review sono comparse in questi giorni alcune pagine dei rapporti interni dell'USAID, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, recentemente caduta in disgrazia con l'amministrazione Trump - il che ha consentito a molti attori critici del presente governo USA di diffondere informazioni precedentemente secretate.
Tra le informazioni emerse vi sono i dati 2023 sui finanziamenti forniti da USAID a 6.200 giornalisti in vari paesi del mondo (a sostegno della libertà di informazione, ça va sans dire), a 707 testate appartenenti a NGO (che, ricordo, sta per Non Governmental Organizations) e a 279 "organizzazioni della società civile operanti nel settore dei media".
Tra le testate che appaiono coinvolte - nonostante frenetici tentativi di dire che è tutto un fraintendimento - ci sono prestigiose riviste di politica internazionale come "Politico".
Canale Youtube di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=17uxIKn19TY
“Premio Attila” a chi distrugge la terra. Premio “Jack lo Squartatore” a chi fa sparire 2,3 milioni di esseri umani – merce ingombrante – dalla loro terra, per costruirci un resort per genocidi.
Premio “Piano Mattei” a chi si salva da un’invasione di migranti affidandoli alla custodia di chi, appena sottratto a giudici che si permettono di perseguire criminali, li incarcera, tortura, stupra, uccide.
Trump-Netaniahu, mercenariato d’eccellenza dell’Occidente dollarizzato al tempo del suo disfacimento nell’ignominia e nel raccapriccio: E, da noi, un postribolo di papponi e mignotte, abusivamente chiamato governo, che si precipita a reggergli lo strascico insanguinato.
Ma cos’è questa emigrazione? Un fenomeno, o un’operazione? Una delle emergenze create nel famigerato laboratorio di armi biologiche, tipo clima, Covid, terrorismo? O l’ammodernata versione della tratta degli schiavi?
Ma stavolta, tra andare e venire, non solo tra Italia e Albania, Texas e Messico, Nigeria o Bangladesh e Ghetto Mezzanone (Foggia), è una tratta che può anche riavvolgersi su se stessa. Il boom è finito, tanto più lo sviluppo detto sostenibile, siete troppi, non ci servite più, sparite. Resti quanto contribuisce alla disgregazione sociale: ci offre il pretesto per scatenare sui sudditi i Nordio e i Piantedosi.
Più di due decenni fa, l’UE ha presentato la sua strategia di Lisbona, che si prefiggeva di trasformare l’Unione nell’“economia basata sulla conoscenza più dinamica, competitiva e sostenibile, che godesse di piena occupazione e di una coesione economica e sociale rafforzata”.
Sappiamo quanto bene ha funzionato. Difficilmente dinamica, certamente non competitiva, l’UE è rimasta costantemente indietro rispetto ad altre nazioni in praticamente ogni parametro economico chiave. Mentre gli Stati Uniti e la Cina intensificano la loro corsa per la supremazia tecnologica del XXI secolo, l’Europa è costretta a guardare da bordo campo, assediata da stagnazione economica, alti costi energetici, sconvolgimenti politici e inerzia burocratica.
E ora è in preda al panico per la minaccia di tariffe sulle importazioni da parte di Donald Trump. Ma un riequilibrio dell’economia europea, che attualmente ha un enorme surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti, sarebbe davvero una cosa così negativa?
La realtà è che la crescita delle esportazioni non indica un’economia di successo. Al contrario, basta guardare la Germania. L’UE è sempre stata una potenza esportatrice proprio a causa della sua economia in declino, causata dalla mancanza di consumi e investimenti interni.
L’uscita recente del libro di M. Amiech, L’industria del complottismo (Malamente edizioni, 2024), con una pregevole prefazione di Elisa Lello, merita un invito alla lettura.
Il testo dello studioso e attivista francese rappresenta un valido strumento per cercare una via critica che eviti i luoghi comuni degli ultimi anni, soprattutto relativi all’emergenza sanitaria Covid-19. Il primo è quello che ha usato il “complottismo” come termine svalutativo per neutralizzare e criminalizzare qualsiasi lettura non coincidesse con la dottrina mainstream propinata dalla quasi totalità dei mass media. Il secondo, simmetrico e opposto, è quello di coloro che hanno preferito risolvere il disagio, la paura e la confusione adottando processi mentali tesi a semplificare e imputare ogni evento distorto alle intenzioni malevole di soggetti più o meno oscuri, detentori esclusivi delle leve del comando.
Le teorie cospirazioniste – come suggerisce il libro – sbocciano come effetto della depoliticizzazione della società e del silenziamento del dibattito pubblico. Esse risultano deboli e talora perniciose, non perché diffondano il seme dell’irrazionalismo, ma perché la fanno troppo facile e inibiscono una reale presa di responsabilità collettiva. Insomma, condannano all’impotenza compiaciuta. Sono perfette per masse atomizzate, che abitano internet e rimangono murate nel loro isolamento digitale, sfogando rabbia e malumore senza mai cogliere fino in fondo cosa sia il potere. Quest’ultimo non è riconducibile in modo lineare e riduzionistico a trame occulte, perfettamente coordinate su scala mondiale.
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
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Il polverone sollevato da Trump e Musk è tale da
confondere un po’ tutti gli osservatori, specie quelli
ancora fermi alle
giaculatorie “liberal” che contestano la rozzezza dei due
tycoon ma naturalmente non ne rallentano neanche per un
attimo la spinta
eversiva.
E’ utile, in questa situazione, tenere d’occhio quanto accade su una scala magari più limitata, ma controllabile, in modo da intravedere meglio la portata della ristrutturazione reazionaria della superpotenza, le sue conseguenze immediate, i suoi rischi, anche di suicidio.
Nei giorni scorsi abbiamo tenuto un faro di attenzione su UsAid – una complessa e articolata Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) – improvvisamente chiusa per decisione dei due nuovi “boss”.
Stiamo parlando di un programma mondiale di intervento Usa, con un budget di circa 50 miliardi, che copre (copriva?) sia iniziative “umanitarie” vere e proprie sia spazi di manovra per la Cia, “formazione” di giornalisti e finanziamento di testate definite però “indipendenti” operanti in decine di Paesi, fino a operazioni “creative” come la distribuzione di contraccettivi in Afghanistan o campagne pro-Lgpt un po’ in tutto il mondo. Tutto documentato, non chiacchiere…
Insomma: è un’agenzia tuttofare, corrispondente all’immagine che Washington ha voluto dare di sé al mondo fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Per capire quanto
sia cambiata la politica nel giro di un paio di decenni,
approssimativamente gli ultimi del secolo scorso, basta
mettere a confronto cosa
contrapponeva fino a quel periodo le maggiori forze politiche
con ciò che le contrappone ai nostri giorni.
Ieri
Per quanto si possa sostenere a giusta ragione che il PCI non aveva l’obiettivo della rivoluzione e che la DC era un coacervo di forze che rendevano difficile coglierne un’identità definita, non si può negare che, in ultima istanza, l’oggetto più profondo del conflitto che ruotava attorno a questi due grandi partiti era l’alternativa fra socialismo e capitalismo. Ciò è vero anche se non era chiaro a nessuno, neppure al gruppo dirigente del PCI, che cosa potesse essere concretamente il socialismo che si evocava. Non a caso era concepito come il graduale compimento di un lungo processo di transizione di cui si indicavano soltanto le primissime tappe, per altro del tutto compatibili con il capitalismo. Ma, di sicuro, il messaggio col quale ci si rivolgeva alla classe lavoratrice era quello di un cambiamento sostanziale della situazione in cui viveva, e così le masse lo percepivano.
Dall’altro lato, la DC e le forze che le gravitavano attorno, pure attraversate da sensibilità e idealità diverse, convergevano senza il minimo dubbio sulla superiorità del capitalismo non solo sul piano dell’efficienza, ma persino su quello morale in quanto tutt’uno con la democrazia, mentre, al contrario, il socialismo, a loro parere, esisteva e poteva esistere solo in forme dispotiche.
Guardando ai massimi sistemi, dunque, il conflitto era radicale. Ad attenuare tale radicalità provvedevano due presidi. Il primo era la Costituzione, che segnava i confini entro i quali tale conflitto si doveva svolgere. Non mancarono da parte della DC tentativi di valicarne i limiti, ma furono respinti.
In Romania, con il vincitore delle elezioni, Calin Georgescu, neutralista e antiguerra, a cui hanno annullato il voto popolare e negato il ballottaggio, è andata come NATO e UE hanno voluto. In Serbia, dall’altra parte dei Balcani “normalizzati”, ci si sta dando da fare.
Si avvicina il 26° anniversario dell’aggressione NATO alla Serbia, fase culminante della disgregazione della Jugoslavia programmata e condotta, sotto supervisione USA, da Germania e Vaticano, con supporto di forze fascistoidi locali in Croazia, Bosnia e Kosovo. Gli eventi che stanno sconvolgendo la Serbia a partire dal novembre scorso rappresentano l’ennesimo episodio di una strategia che, a partire dalla fallita “normalizzazione” postbellica della Serbia, non ha mai cessato di puntare all’obiettivo già mancato dalla Germania nazista: Serbia delenda est. Strategia UE-USA che si dipana in forma di pressioni diplomatiche, ricatti economici, conflittualità tra le entità statali o pseudostatali fabbricate dagli aggressori e, come in questi giorni, innesco di fenomeni eversivi basati su qualche settore insoddisfatto, o manipolabile, della popolazione.
Permettetimi un ricordo personale che, nel suo piccolo, è comunque indice di come, già sul finire del secolo scorso, il sistema mediatico si era compattato intorno al progetto dell’eliminazione, a fini di euro-colonizzazione, di questa anomalia politico-ideologico-sociale rappresentata, prima, dalla Jugoslavia comunista di Tito e, poi, da quella di Slobodan Milosevic, già a brandelli, ridotta a Serbia-Kosovo-Montenegro, ma pur sempre socialista e non allineata.
Il 5 febbraio scorso Sergio Mattarella era all’Università di Marsiglia a intrattenere l’uditorio sul pericolo costituito dalle politiche di “appeasement”. Paragonando la situazione attuale a quella precedente alla seconda guerra mondiale, Mattarella ha affermato che l’accordo firmato a Monaco nel 1938, che riconosceva ad Hitler il controllo dei Sudeti, fu un’illusione di pace, mentre un atteggiamento di fermezza avrebbe “probabilmente” evitato la guerra. Un “probabilmente” che ha una funzione puramente retorica e poggia sul nulla, dato che proprio nulla indica che nel 1938 la Francia e il Regno Unito fossero in posizione di forza nei confronti della Germania e neppure dell’Italia. Ambrose Bierce diceva che Dio ha inventato le guerre per costringere gli uomini a studiare la geografia, e in effetti il mito dell’appeasement di Monaco si dissolve osservando la carta geografica e consultando un po’ una cronologia degli eventi storici.
Mussolini svolse il ruolo di mediatore dell’accordo di Monaco, che fu firmato nel settembre del 1938. In quel periodo l’Italia occupava militarmente l’isola di Maiorca con truppe, navi e aerei; e da quella posizione geografica non soltanto bombardava le posizioni repubblicane in Spagna, ma era anche in grado di minacciare il transito per Gibilterra, cioè la principale roccaforte della potenza britannica nel Mediterraneo. La guerra di Spagna si concluse nell’aprile del 1939, e solo allora le forze armate italiane e tedesche si ritirarono dal suolo spagnolo, cessando di insidiare Gibilterra. Non ci fu quindi nessun appeasement ma solo uno scambio.
Per la Repubblica Islamica questo non è un periodo facile; anche se ormai da anni la Siria rappresentava più un peso che un vantaggio (dipendendo moltissimo dagli aiuti iraniani), la caduta del regime di Assad ha creato sicuramente dei problemi, e l’invasione israeliana del sud siriano costituisce una minaccia per Hezbollah (il più stretto alleato della regione), così come – paradossalmente – la (temporanea) fine dei conflitti in Libano e Gaza, con la conseguente sospensione degli attacchi ad Israele da parte irachena e yemenita, rilancia la pulsione di Tel Aviv a colpire Teheran.
Ma i veri elementi problematici di questa fase, si trovano in effetti proprio a Teheran, oltre che a Washington.
La rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, infatti, apre un periodo di incertezza, poiché – come sempre, verrebbe da dire – la posizione del neo-presidente è alquanto ambigua. Stando a quanto dichiara, Trump ribadisce la contrarietà assoluta degli USA a che l’Iran si doti di armi nucleari (pretesa che non ha alcun fondamento nel diritto internazionale), anche se sostiene di preferire la via negoziale a quella militare, per ottenere questo risultato. Il problema è che proprio Trump, durante il suo primo mandato, ritirò gli Stati Uniti dal JCPOA, il trattato con cui Teheran si impegnava a non sviluppare il nucleare militare. Ne consegue che l’intenzione della nuova amministrazione americana è quella di agitare la minaccia di un attacco preventivo, per ottenere un nuovo trattato, ancora più stringente.
Nello Cristianini, Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2024, pp. 152, € 15,00
Machina Sapiens di Nello
Cristianini contiene già nel titolo l’indicazione di una
svolta epocale per l’umanità e il Pianeta di cui nessuno
conosce
davvero i possibili sviluppi. La convinzione dello scrittore
Arthur Charles Clarke che le tecnologie avanzate risultino
spesso indistinguibili dalla
magia trova conferma nel fatto che oggi si tende a guardare
all’intelligenza artificiale generativa come a una sorta di
oracolo. Restando ancora
per un istante nell’ambito del magico o del divino, si
potrebbe dire, con una battuta, che se l’attingere dall’albero
della
conoscenza (del bene e del male) da parte dei Progenitori ha
scatenato l’ira di Dio, ora i loro lontani discendenti
sembrerebbero intenti a
consegnare la conoscenza conquistata a caro prezzo
(evidentemente senza aver imparato a distinguere il bene dal
male) a una nuova divinità
chiamata macchina (intelligente) rimettendosi al suo
(sconosciuto) volere.
Tornando alle cose terrene, per illustrare come le macchine si stiano appropriando della conoscenza, a lungo considerata dall’essere umano una propria prerogativa, Cristianini suddivide il libro in tre sezioni dedicate rispettivamente agli scienziati, agli utenti e alle macchine, così da ricapitolare lo sviluppo nella costruzione delle macchine pensanti, il rapporto che le persone stanno instaurando con esse e, infine, quel che (presumibilmente) queste macchine sanno di noi e quello (poco) che davvero noi sappiamo di loro.
Nella prima sezione del volume l’autore ricorda come l’avvio della corsa alla realizzazione di macchine intelligenti si possa far risalire al quesito “Can machines think?” posto da Alan Turing in un suo celebre scritto – Computing Machinery and Intelligence – pubblicato nel 1950 sulla rivista accademica «Mind», Oxford University Press. Non potendo contare su una definizione scientifica univoca di “pensare”, Turing ha spostato la questione sulla possibilità di arrivare ad una macchina capace di tenere una conversazione con un essere umano facendosi passare per umana essa stessa (imitation game) senza essere scoperta. Quello che poi è stato chiamato “il test di Turing” è in pratica la messa alla prova della macchina nella sua capacità di imitare nella conversazione l’essere umano al punto tale da rendersi indistinguibile da esso.
Il saggio di Ennio
Abate, che affianca a questo titolo ‘in minore’ il sottotitolo
esplicativo, Letture e interventi (1978-2024), 1
nasce
da una motivazione autentica e radicale. Scrive infatti
l’autore: «A chi mi chiedesse perché, tra tanti scrittori
importanti,
proprio Fortini abbia ricevuto stima e attenzione così
prolungate nel tempo da parte mia, rispondo così. Perché più e
meglio di altri ha difeso una idea di poesia, di letteratura,
di politica, di visione critica e comunista del mondo che ho
fatto mia. E l’ha
difesa sia nel biennio politicamente esaltante del ’68-’69 sia
dopo, durante la crisi degli anni Settanta (compromesso
storico, uccisione
di Moro, scioglimento del Pci) e fino alla sua morte avvenuta
agli inizi delle attuali, devastanti guerre “democratiche” o
“permanenti”». E in effetti la biografia di Fortini che
risulta da questa assidua frequentazione dei suoi “dintorni”
si
converte, come è inevitabile ma, in questo caso, altamente
augurabile, nell’autobiografia di una figura prototipica del
’68:
l’intellettuale prodotto dallo sviluppo economico degli anni
Sessanta, dal grande esodo verso il Nord e dalla
scolarizzazione di massa, che
partecipa, prima come lavoratore-studente e poi come
insegnante, al “lungo Sessantotto” italiano militando nelle
organizzazioni della
sinistra rivoluzionaria e incontrando una figura carismatica
di quella fase storica: il poeta, saggista, traduttore e
insegnante Franco Fortini.
Il rischio per chi si prefigga di porre a confronto la propria esperienza letteraria, politica e culturale con quella di una simile figura era chiaramente quello di cercare di scavarsi un posticino nell’ambito della fortinologia, laddove questa rappresenta una nicchia, peraltro non priva di meriti cognitivi, che si è venuta a creare all’interno dell’università senese, così come in altri ambiti universitari si creano nicchie votate al culto di questo o di quell’autore che per qualche ragione abbia insegnato abbastanza a lungo in questo o quell’ateneo locale. Dunque, la fortinologia poteva essere una risorsa, poteva essere un pericolo.
Estratto da Sentimenti dell'aldiqua (DeriveApprodi, 2023)
Per ricordare
Franco Piperno, pubblichiamo oggi un suo meraviglioso
scritto, estratto da
Sentimenti dell'aldiqua (nuova edizione DeriveApprodi,
2023). Nel testo Franco analizza con profonda lucidità i
cambiamenti imposti dalla
macchina informatica alla conoscenza, alle capacità
cognitive umane, ai modi di pensare e comunicare. Processo
che non va vissuto con la
nostalgia verso una supposta natura umana immutabile, ma con
la voglia di «osare stipulare un nuovo significato della
parola lavoro, un altro
calendario, un diverso tempo collettivo».
Le riflessioni di Franco sul rapporto tra innovazione tecnologica e capacità umane erano al centro di un altro testo che abbiamo pubblicato su Transuenze, Ascesa e crisi della tecnoscienza del capitale.
* * * *
Marx e Turing
Se, per gioco, per scrollarsi di dosso il tedio della sconfitta, scegliessimo il Frammento sulle macchine di Marx come un passo biblico, un luogo nel quale la parola risuona profetica, allora il commentario adeguato di quel testo sarebbe una esposizione concisa della teoria degli automi, ovvero la descrizione, a grandi linee, della macchina generale di Turing. L’applicazione della macchina informatica al processo produttivo conferisce a quest’ultimo il carattere della scienza naturale, di processo naturale scientificamente riprodotto; e, a un tempo, riduce il lavoro del corpo umano, il lavoro vivo a un semplice elemento di questo processo: l’organo cosciente, l’osservazione volta a evitare l’interruzione. Marx, nel Frammento, avanza la congettura che l’applicazione sistematica del sapere tecnico-scientifico alla produzione avrebbe conseguito l’esito di liberare l’operaio dalla fabbrica, rendendo così vano il misurare la ricchezza con il tempo di lavoro umano.
Davvero viviamo tempi strani. Gli esempi potrebbero essere mille, ma vediamone uno curioso assai. Ieri, proprio mentre era in corso il summit parigino sull’intelligenza artificiale, la Repubblica annunciava come niente fosse che lo sviluppo dell’IA nell’Ue porterà nei prossimi 5 anni a un aumento dei consumi energetici del settore pari al 160%. Avete letto bene: centosessanta percento.
La previsione è che nel 2030 il solo consumo dei data center europei sarà pari a 287 Twh (miliardi di kilowattora). Un’enormità assoluta, un consumo pari a quello medio di 115 milioni di famiglie, superiore a quello complessivo della Spagna e piuttosto vicino (92%) a quello dell’Italia.
Ma come, da anni vige l’ossessione del risparmio energetico senza il quale il pianeta andrebbe a ramengo, da anni si smerciano solo lampadine ed elettrodomestici pensati per risparmiare qualche kilowattora, e adesso ci venite a dire che i consumi elettrici dovranno crescere all’impazzata per l’IA? E il “climate change” dov’è andato a finire?
Ora, sappiamo bene come certe ossessioni siano del tutto interessate. Sappiamo, ad esempio, come esse servano ai produttori di elettrodomestici per imporre sul mercato modelli più costosi e a obsolescenza programmata più ravvicinata. Ma, pur sapendo tutto ciò, è tollerabile che chi ci parla di cambiamento climatico anche durante una partita di calcio, nulla abbia da eccepire sull’impatto ambientale dell’intelligenza artificiale?
Mentre le borse europee crescono, i dati sull’economia reale continuano a peggiorare. In Italia si registra un declino della produzione industriale che dura ormai da due anni. I mercati finanziari operano sempre più indipendentemente dall’economia reale. I settori finanziari vedono un apprezzamento e distribuiscono utili anche quando l’economia non cresce. La remunerazione dei depositi bancari da parte della BCE e gli alti tassi di interesse hanno aumentato enormemente i profitti delle banche.
L’Europa sta assistendo a una situazione economica paradossale in cui, nonostante i dati macroeconomici negativi e un’economia reale in difficoltà (Previsioni di crescita economica per l’Europa nel 2025: Si parla di un 1%), i mercati azionari europei, in particolare il settore bancario, stanno vivendo una crescita significativa. Questo fenomeno, osservato anche dalla stampa internazionale come il Wall Street Journal e il Sole 24 Ore, solleva interrogativi sulle dinamiche finanziarie attuali e sul ruolo delle politiche monetarie.
Nell’articolo precedente abbiamo visto come il Governo è ripartito all’attacco delle pensioni, attraverso la proposta di un semestre di silenzio-assenso per la devoluzione del TFR ai fondi pensioni, collegandolo di fatto alla promessa di una maggiore flessibilità (per pochi) per andare in pensione prima.
E proprio su quest’ultimo aspetto, cioè quando poter accedere alla pensione, è ripartita silente (ma non troppo) la campagna terroristica sull’imminente nuovo aumento dell’età pensionabile reso cogente dall’aumento della speranza di vita attesa certificato recentemente dall’INPS.
Come noto, per via delle leggi Sacconi (2010) e Fornero (2011) le pensioni di vecchiaia e anticipata sono agganciate in automatico all’andamento della speranza di vita. Al crescere di quest’ultima devono crescere le soglie anagrafiche e contributive di accesso alla pensione: basta un decreto ministeriale (un atto a metà fra la sfera politica e quella puramente amministrativa) che prende atto dei dati sull’aspettativa di vita comunicati da ISTAT, mentre serve un vero e proprio intervento legislativo per bloccare tale meccanismo.
La cadenza degli scatti inizialmente triennale dal 2019 è divenuta biennale. A un primo scatto nel 2013 è seguito un ulteriore nel 2016 e ancora nel 2019 per la sola pensione di vecchiaia (la soglia di quella anticipata è stata invece bloccata al 2016 con decreto politico) portando da quell’anno l’età pensionabile di vecchiaia a 67 anni e fermo restando quella anticipata a 42 anni e 10 mesi di contributi (1 anno in meno per le donne).
John Wainwrigth, Stato di fermo, Edizioni Paginauno, pp. 182, € 15,00
In estremo ritardo nella lettura e, soprattutto, rispetto all’uscita, ma sicuramente di stringente attualità. Oggi sono molte le iniziative e le mobilitazioni, con punti di vista e impostazioni diverse, messe in campo per contrastare la deriva autoritaria che, con il disegno di legge 1660, il governo Meloni impone rispetto al conflitto sociale, in primis le forme di lotta che si sono espresse all’interno del conflitto capitale/lavoro. A questo proposito, è bene sottolineare il rendere esplicito l’intento di questo provvedimento dichiarato da Piantedosi, il ministro dell’interno, attaccare il sindacalismo di base (sicobas in primis) e le forme di lotta praticate in particolare nel settore della logistica.
Non ci può venire non alla mente l’introduzione della cosiddetta regolamentazione del diritto di sciopero messa in campo per contrastare le lotte portate avanti dai lavoratori delle ferrovie, con l’introduzione della nota, in modo nefasto, 146/90. Dalla 146 al ddl 1660 il passo è breve: il conflitto deve essere annullato e represso. Dai lavoratori delle ferrovie a quelli della logistica. Esercitare il diritto al mettere in campo rapporti di forza a favore degli interessi di coloro che sono sottoposti allo sfruttamento, al profitto: deve essere bandito.
Non è complicatissimo, in fondo, capire quale sia la postura imperiale statunitense dopo il secondo insediamento di Donald Trump. Basta non utilizzare gli schemi logici e verbali del mainstream “liberal-democratico” – che per 30 anni ha steso un velo di retorica nauseabonda su crimini e stragi di proporzioni bibliche, dall’Iraq a Gaza – e tutto diventa limpido, visibile, chiarissimo.
La situazione attuale appare confusa solo perché le vecchie abitudini servili nei confronti degli Usa stanno cercando un modo di dipingere l’attuale gruppo dirigente degli States come “un problema”, certo, ma in fondo “temporaneo”, non tale da invalidare la “narrazione” e l’immagine dell’America faro di democrazia e libertà. Se leggete i vari “Rambini” o ascoltate i molti Mentana potete farvene un’idea…
Poi però si devono leggere o ascoltare le “voci vere”, quelle che senza alcun freno vengono dall’interno della Casa Bianca. E che raccontano un’altra realtà, decisamente più brutale e sanguinaria.
L’errore da non fare è quello di prendere le varie dichiarazioni come, appunto, “solo chiacchiere” che non diventeranno fatti, oppure verranno ridimensionate.
Abbiamo visto in pochi giorni distruggere il fondamento delle relazioni internazionali, ovvero il riconoscimento pieno dell’indipendenza nazionale di tutti gli stati esistenti. Canada, Groenlandia, Panama sono trattati come asset patrimoniali che possono passar di mano a colpi di quattrini e/o di minacce.
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
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La presidenza Trump – quello che
rappresenta ed esprime – è ancora ai suoi esordi, per quanto
rutilanti, non è quindi facile comprendere a fondo come si
svilupperà, in quale direzione (e soprattutto come) cercherà
di portare l’America – e il mondo. Alcuni elementi cominciano
però a chiarirsi, e si incistano su quanto si poteva, anche
facilmente, prevedere, già dal modo in cui è stata condotta la
campagna elettorale.
Il primo di questi elementi è che gran parte dell’azione della nuova amministrazione è rivolta all’interno degli Stati Uniti; rifare grande l’America, nella visione di quel pezzo di potere statunitense che ha portato Trump alla Casa Bianca, significa innanzi tutto smantellare radicalmente quell’intreccio di apparati e istituzioni messo in piedi durante i decenni di dominio neocon-dem. Un’opera alla quale la squadra di Trump si sta dedicando con vigore – e, si direbbe, con un certo stupore da parte delle sue vittime – ma che, al di là degli effetti mediatici, necessita di tempo per produrre effetti concreti. Ovviamente è più facile la parte destruens, alla quale comunque presto si opporrà la resistenza degli stessi apparati [1], al momento ancora frastornati, ma prima o poi dovrà essere affrontata la questione del come / con cosa sostituirli. E questo sarà più lungo e più complesso.
L’altro elemento, fortemente caratterizzato dalla personalità del neo-presidente, è il medesimo approccio sbrigativo, ruvido – e in ultima analisi aggressivo – applicato sul piano internazionale. In un certo senso, simbolicamente riassumibile nella decisione di rinominare il Golfo del Messico in Golfo dell’America, ovvero una decisione unilaterale, sostanzialmente limitata negli effetti concreti ma di grande visibilità, e che soprattutto rilancia un’immagine muscolare degli Stati Uniti, che hanno deciso di mettere da parte le formalità diplomatiche e di riaffermare sin dai toni il proprio potere egemonico.
Ovviamente qui, come si suol dire, casca l’asino, perché se si tratta di rifare grande l’America, significa che a non esserlo più non è soltanto la sua immagine percepita, e quindi questo genere di maquillage non solo non è sufficiente, ma rischia di avere un effetto boomerang. Perché è tutta la realtà globale a essere mutata, non soltanto gli USA, e rifiutare di vedere la realtà è il primo passo per compromettere qualsiasi tentativo di cambiarla.
Introduzione
Il lavoro ha da sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali nell’organizzazione delle società umane, non solo come mezzo di sussistenza, ma anche come strumento di definizione dell’identità personale e collettiva. Tuttavia, la sua concezione e il suo ruolo hanno subito trasformazioni radicali nel corso della storia. Nelle società antiche, il lavoro era sinonimo di servitù e sottomissione, un’attività riservata agli schiavi e alle classi inferiori, mentre la libertà e la realizzazione personale erano associate all’otium, il tempo libero dedicato alla riflessione, alla creatività e alla partecipazione alla vita pubblica. In Grecia e a Roma, il lavoro manuale era disprezzato e considerato incompatibile con la dignità della cittadinanza.
Con l’avvento del capitalismo manifatturiero e industriale, il lavoro ha subito una rivalutazione profonda, trasformandosi da attività necessaria ma disprezzata in un valore intrinseco, promosso come dovere morale e strumento di realizzazione personale. Questo cambiamento non è avvenuto spontaneamente, ma è stato il risultato di secoli di violenza, coercizione e imposizione culturale. La Riforma protestante ha giocato un ruolo cruciale in questa trasformazione, con figure come Martin Lutero che hanno esaltato il lavoro come vocazione divina e predestinazione dell’uomo nel mondo. Il capitalismo industriale ha ulteriormente rafforzato questa visione, facendo del lavoro non solo un obbligo economico, ma anche un imperativo sociale e culturale.
Oggi ci troviamo di fronte a una nuova rivoluzione: l’avvento dell’automazione e delle tecnologie avanzate promette di ridefinire ancora una volta il rapporto tra l’uomo e il lavoro. L’introduzione di macchine intelligenti e sistemi automatizzati sta riducendo la necessità del lavoro umano nei processi produttivi, sollevando interrogativi profondi sul futuro del lavoro e sul ruolo che esso dovrà assumere nelle nostre vite. Se da un lato l’automazione offre la possibilità di liberare l’umanità dalle fatiche quotidiane, dall’altro rischia di accentuare le disuguaglianze sociali ed economiche, soprattutto in un contesto capitalistico in cui il profitto e l’accumulazione di ricchezza rimangono gli obiettivi principali.
“Un presidente addormentato al volante ha
portato disastri al mondo e Trump è tornato alla Casa
Bianca, questa volta con Elon
Musk”, scrive Seymour Hersh. A distanza di due anni
dal primo esplosivo articolo sul sabotaggio dei gasdotti
Nord Stream, che per la prima
volta chiamò in causa gli Stati Uniti citando informazioni
di intelligence, Hersh torna sulla vicenda confermando nella
sostanza la sua teoria
iniziale e aggiungendo alcuni dettagli: l’operazione,
pianificata dagli USA ancor prima dell’invasione
dell’Ucraina nel febbraio
2022 anche se realizzata sette mesi dopo, fu resa possibile
dalla decisiva collaborazione della Norvegia: le mine furono
innescate da “un
aereo della Marina norvegese che volava a poche centinaia
di metri sopra le onde. L’aereo sganciò il sonar a bassa
frequenza e la
connessione funzionò”.
Siamo ormai a tre settimane dall’inizio della seconda presidenza di Donald Trump, che ha praticamente consegnato il Dipartimento del Tesoro e più di una dozzina di altri dipartimenti e agenzie del Gabinetto a Elon Musk e al suo team di giovani avvoltoi digitali. Sono in procinto di calpestare la Costituzione mentre raccolgono dati economici e intelligence su tutto ciò che vedono, presumibilmente inclusi i dettagli sui vasti rapporti commerciali di Musk con Washington dall’interno del governo. Trump, che ha settantotto anni, ha persino parlato della sua ricerca di un terzo mandato. Eppure, molti in America e persino al Congresso plaudono il caos.
La chiave del successo di Trump, come tutti sappiamo, è stata la vera e propria scomparsa di Joe Biden, i le cui défaillances fisiche e mentali sono state tenute nascoste al pubblico americano per (a quanto ne so oggi) due anni prima del suo disastroso dibattito con Trump lo scorso giugno.
Alla vigilia della annuale Conferenza di Monaco sulla sicurezza nella quale quest'anno la nuova amministrazione degli Stati Uniti presenterà il suo piano di pace per l'Ucraina si addensano altri scenari di crisi nella parte orientale dell'Europa.
Nulla di cui stupirsi, abbiamo sempre sostenuto che il conflitto ucraino è solo un tassello di un conflitto europeo di più vaste dimensioni che cova sotto la cenere.
L'area che in questa precisa fase più si sta scaldando è certamente quella del Mar Baltico. Si tratta di uno stretto braccio di mare che si incunea tra l'Europa continentale e la penisola scandinava e che ha l'ulteriore caratteristica di essere sostanzialmente chiuso dalla penisola danese e dal suo arcipelago. Sin dalla prima deflagrazione della crisi ucraina (o per meglio dire tra i paesi Nato e la Russia) gli osservatori più attenti all'aspetto strategico della crisi si sono immediatamente resi conto dell'importanza di questo braccio di mare, infatti è proprio lì che sono saltate le maschere e le narrazioni per lasciare spazio ai reali motivi della crisi in corso.
Come si è potuto intuire ci stiamo riferendo all'esplosione del gasdotto Nord Stream che riforniva l'imponente apparato produttivo tedesco dell'essenziale (perché a basso costo) gas russo proveniente dalla Siberia. Dopo questo spettacolare e storico avvenimento nessuno poteva più negare che il motivo reale della guerra era la competitività economica europea spinta dalle materie prime russe acquistate a prezzo di saldo.
Ognuno di noi è dotato di mente privata. È caratteristica del genere Homo avere una mente che è la funzione di un cervello riflessivo e intenzionale, un cervello incorporato e sociale. Per tre milioni di anni la nostra principale arma adattiva che ci ha portato a dominare il mondo su cui e di cui viviamo. Tuttavia, nelle nostre società, la mente pubblica e collettiva non ha alcuna analogia con le funzioni della mente privata e individuale.
La mente pubblica soffre di parecchie distorsioni. Non ha memoria o ha memorie parziali e distorte, non ha percezioni adeguate se non quelle che vengono filtrate da chi dirige il potere selle società, ha conoscenze parziali, frazionate, fortemente distorte da ideologie non del tutto razionali, non elabora collettivamente intenzioni, non cumula esperienze per “prova ed errore”, non è autocosciente e non è autonoma, soffre di istinto gregario alla massa percorsa da brividi di emotività sapientemente procurata.
Quindi non è una mente in senso pienamente umano, è ancora e per lo più una semplice mente mammifera.
Questo stato di primitività mentale è tenuto a forza a livelli di elementarità voluta attraverso processi di formazione sempre più specializzati e finalizzati a creare macchine di lavoro, attraverso dosi massicce di propaganda, privata di tempo ed energia per tentare una propria scoperta del mondo reale e su di essa si abbatterà sempre più la strutturazione algoritmica del comportamento secondo i dettami della psicologia behavioristica.
Rifondare la dinamica fra impresa e lavoro, superando una volta per tutte questa tossica visione conflittuale che anche nel mondo del sindacato qualcuno si ostina ancora a sostenere”: questa dichiarazione programmatica di Giorgia Meloni, formulata al congresso della Cisl, è stata accolta da un’ovazione di tutti quei delegati che, sotto la guida del loro segretario, sostengono l’attuale governo.
Per ora si attacca il conflitto, ma l’obiettivo finale è chiaramente la proscrizione della lotta di classe e, di conseguenza, di quelle organizzazioni che, come i partiti comunisti, la promuovono.
Sennonché, se è vero che definire “tossico” il conflitto è già praticarlo per conto del potere dominante, è altrettanto vero che la lotta di classe non può essere posta fuori legge “per la contradizion che no’l consente”, in quanto la sua messa fuori legge è esattamente una manifestazione della lotta di classe (nella fattispecie, della borghesia contro la frazione militante del proletariato e contro i sindacati conflittuali e le organizzazioni politiche in cui tale frazione si organizza).
Sono passati quasi vent’anni da quando nel 2007 il poeta Edoardo Sanguineti concluse con queste parole la conferenza stampa di presentazione della sua candidatura a sindaco per la città di Genova: «Che il proletariato esista e continui a essere sfruttato è un segreto di Pulcinella. Bisogna restaurare l’odio di classe. I padroni ci odiano e noi non odiamo più loro».
Il libro affronta la tematica cruciale della guerra e delle sue radici economiche, molto scorrevole e valido si presenta come una raccolta di articoli scritti dal prof. Brancaccio insieme ad altri professori e suoi collaboratori offrendo un punto di vista alternativo rispetto alla narrazione dominante
Dall’inizio della guerra in Ucraina, che possiamo definire come uno scontro imperialista tra la NATO e la Russia per interposta nazione, molti tabù sono stati infranti. Tra questi, la possibilità di una guerra mondiale che coinvolga direttamente l’Europa, con il rischio addirittura di un conflitto nucleare. Se solo pochi anni fa parlare di tali scenari avrebbe potuto attirare l’attenzione dei servizi sanitari per un eventuale TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), oggi, dopo tre anni dall’invasione russa, sono i leader europei stessi a parlare apertamente di riarmo, economia di guerra e della necessità di un riequilibrio globale tra le grandi potenze economiche.
In questo contesto, diventa urgente affrontare la questione della pace. Tuttavia, come giustamente sottolinea Brancaccio, per farlo è necessario comprendere le cause materiali alla base di questi conflitti, che definiamo di stampo imperialista. Il suo libro si distingue proprio per questa capacità di analisi, inquadrando le dinamiche della guerra attraverso le leggi di tendenza del capitalismo, che, seppur complesse e dialettiche, rappresentano le radici profonde dei conflitti attuali.
Giuseppe Spedicato Il sogno avvelenato – La violenza come evento fondativo, I Quaderni del Bardo Editore, Lecce. Febbraio 2025, Prefazione di Rita El Khayat, Introduzione di Maurizio Nocera.
Ho vissuto gli anni di piombo nel mio paese, un paese del Mediterraneo, l’ho fatto per un sogno, un sogno ben presto divenuto avvelenato. Ho imparato a mie spese che l’essere sensibili all’umano riduce le aspettative di vita.
Tutte le stragi e violenze commesse dal potere, avevano l’obiettivo di costruire il paese come è adesso, noi non eravamo compatibili con questo paese.
L’amarezza di essere stati defraudati del nostro sogno, di vivere in un mondo più umano, ha avvelenato il nostro sogno e finanche le nostre anime.
Si racconta di Driss, un testimone degli anni di piombo (periodo che va dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Novanta) in un paese arabo del Mediterraneo, della sua terra, dei conflitti, della fine di ogni speranza, di ogni sogno, dell’impossibilità di vivere in pace, di non poter avere uno scopo nella vita, di un uomo che non ama più la vita, di un luogo dove regna la rassegnazione, dove il sapere non serve a nulla a meno che non lo si metta a disposizione dei padroni, della lotta per un mondo dove nessuno avrebbe dovuto sentirsi un incompiuto, dove non si soffre ininterrottamente, dove si incontrano persone belle umanamente, dove i giovani non sono indifferenti e guardano con entusiasmo al futuro e lo pensano nel proprio paese.
Andrei Martyanov è un ex ufficiale di marina
russo che dissoltasi l'URSS si è
trasferito negli Stati Uniti di cui è diventato cittadino.
Pluridiplomato in prestigiose accademie militari sovietiche ha
una solida formazione
scientifica. Ritiene che la scarsa formazione nelle discipline
STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics)
degli attuali ufficiali
statunitensi e NATO sia una delle cause per cui l'Occidente
non ha idea di come si conduca un grande conflitto
continentale ad armi combinate come
quello in Ucraina. A ciò si aggiunge una impossibilità
materiale a combatterlo dovuta alla finanziarizzazione delle
economie occidentali
e alla loro deindustrializzazione. Non solo, ma proprio la
finanziarizzazione secondo Martyanov ha portato a una
diminuzione degli studi scientifici.
A queste difficoltà se ne aggiunge una storica: gli Stati
Uniti, l'unica vera potenza occidentale, non hanno mai
combattuto per la propria
difesa ma hanno condotto solo “expeditionary wars”.
La sfera di competenza delle analisi di Martyanov riguarda i rapporti di forza militari tra le grandi potenze - intesi nel senso ampio visto sopra - considerati fattori geopolitici dirimenti.
In questa sfera la sua critica è puntuale e informata, specialmente dal punto di vista della “operational art” nella guerra e dei suoi risvolti fisico-matematici.
Alle spalle dei rapporti di forza Martyanov vede dunque la potenza industriale delle nazioni. E la potenza industriale è valutata in base ai suoi “tangibles” in contrapposizione agli “intangibles” finanziari. Fin qui l'analisi è condivisibile, almeno parzialmente (vedremo nella nota [3] che non in tutti i contesti il livello di industrializzazione è un fattore sufficiente per vincere un conflitto tra stati – il Vietnam ne è una riprova; per le guerriglie e le insorgenze, come in Afghanistan, il discorso è ulteriormente diverso).
Dopo tre anni di retorica sulla
democrazia da salvare contro l’autocrazia e la necessità di
difendere la libertà e i valori del mondo libero dall’orco
russo, Donald Trump ha riportato anche la guerra in Ucraina in
un contesto più concreto e di facile comprensione per tutti:
soldi, materie
prime e interessi!
Dopo il colloquio tra Trump e Putin prende corpo l’ipotesi di un’intesa che veda Russia e Stati Uniti passare all’incasso in Ucraina, in termini di territorio, risorse e sicurezza ai confini per Mosca, in termini economici per Washington che con questa guerra già ha ottenuto il non scontato successo di mettere in ginocchio un’Europa cieca e suicida.
Il presidente statunitense ha chiarito il 10 febbraio di aver ottenuto dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky che ‘Ucraina paghi gli aiuti americani, che secondo le diverse dichiarazioni di Trump ammonterebbero a 175, poi 200 e infine 300-350 miliardi contro i circa 100 europei.
A Fox News ha detto che gli USA hanno dato l’Ucraina “più di 300 miliardi di dollari, probabilmente 350 miliardi di dollari, e l’Europa è dentro per probabilmente 100 miliardi di dollari, noi siamo dentro per più del doppio”.
A parte il fatto che la Casa Bianca potrebbe dotare il presidente di uno staff che includa consulenti in grado di non far pronunciare al presidente numeri a casaccio, come già fece quando disse che nella Seconda guerra mondiale i sovietici avevano avuto 60 milioni di morti invece dei 27 milioni passati alla Storia che gli vennero poi ricordarti da Dimitri Peskov, portavoce del Cremlino.
Ciò detto tra 300 e 350 miliardi di dollari di differenza ne passa, e ancor di più tra 175 e 350. E’ interessante notare che Zelensky aveva evidenziato la scorsa e di aver incassato solo 75 miliardi dagli Stati Uniti e di non avere idea di dove fossero finiti gli altri.
Certo l’Ucraina è ultra-corrotta e già diverse istituzioni americane hanno lamentato l’assenza di controllo su armi e denario inviati a Kiev. Esiste però un altro tema che spiega perché le ingenti somme di denaro ufficialmente destinate all’Ucraina non sono mai arrivate a Kiev così come in passato parte dei fondi destinati all’Afghanistan non sono mai arrivati a Kabul.
L'itinerario
di Amadeo Bordiga va compreso alla luce della convergenza
delle sinistre socialdemocratiche europee verso la fine della
Prima Guerra mondiale, fino
alla scissione con i rispettivi partiti d'origine e alla
formazione dei primi partiti comunisti (tra cui il PCd'I in
Italia, fondato nel gennaio 1921,
quindi piuttosto tardi), e poi della loro divergenza e
marginalizzazione nella fase di arretramento delle lotte di
classe di quel periodo. La
cristallizzazione e l'irrigidimento di correnti particolari
come la Sinistra comunista italiana, la Sinistra
tedesco-olandese, ecc. fu un prodotto
della controrivoluzione, e la pretesa del bordighismo di
detenere il monopolio dell'autentica filiazione marxista, o
dell'invarianza del programma
comunista, il frutto di una ricostruzione a posteriori. Questa
non regge a uno studio della storia reale (la frazione guidata
da Bordiga stava ancora
nel PSI nel 1920), ma non è arbitraria nella misura in cui
l'aspirazione a ristabilire la «vera» dottrina di Marx ed
Engels contro
le «deviazioni» revisioniste e centriste fu allora, se ci
affidiamo alla periodizzazione di Karl Korsch (cfr. Marxismo
e
filosofia), il tratto distintivo del «terzo periodo»
del marxismo. L'invarianza del programma è solo una variazione
tardiva su
un tema molto più diffuso, legata a doppio filo all'esistenza
di un sedicente «socialismo realizzato»; qualsiasi critica che
si
limiti a sottolinearne la falsità è superficiale, poiché né la
storia né le teorie evolvono secondo una
razionalità astratta e disincarnata. Inoltre, è bene
evidenziare che la convergenza di queste correnti, così come
il loro
successivo divergere, non avvennero «in ambiente sterile», ma
a partire da e in seno a contesti nazionali e persino locali
storicamente
determinati, con le loro specificità e le loro singolari
modalità di costituzione. Il contesto italiano, in
particolare, continuava a
essere segnato, da un lato, dallo sviluppo assai precoce ma
travagliato dei rapporti sociali capitalistici1
e, dall'altro, dalla
recente unificazione del paese sotto il vessillo del
federalismo monarchico (e non sotto quello del
repubblicanesimo unitario mazziniano), nella
prevalente indifferenza delle masse popolari.
Per l’Ue è stato un colpo micidiale: i funzionari europei non sono stati avvertiti della conversazione telefonica tra Trump e Putin. Ciò li ha mandati nel panico più totale.
Ma il fatto che l’Europa si sia trovata ai margini della storia, è solo merito suo e della sua politica cieca e poco intelligente di sottomissione completa al padrone americano, il quale non ha cambiato pelle, ma agisce come ha sempre fatto in base alla sua intima natura: dopo averla usata, le ha indicato col dito quale sia il suo posto: “non sei nessuno, sei solo il mio straccio su cui io mi pulisco i piedi ogni volta che voglio, quindi giù a cuccia e continua a eseguire i miei ordini!” Perciò ora è inutile piangere, supplicare un posto al tavolo delle trattative.
L’Ue si umilia così da sola. E i motivi per essere avvilita sono diversi. Il Presidente degli Stati Uniti in un colpo solo ha spazzato via un bel po' di birilli dal tavolo, innanzitutto gettando alle ortiche la politica dei Democratici: Biden, Blinken e &, imperniata sulla fissazione dell’“isolamento della Russia”, dei colloqui per la pace in Ucraina che non dovevano escludere Kiev, il famoso mito “nessun negoziato sull'Ucraina senza l'Ucraina”. Trump ha spazzato via in un secondo anche il dogma “Putin è un criminale di guerra, col quale non si parla” e la tiritera “la Russia deve essere sconfitta sul campo di battaglia, deve capitolare”, come amava ripeteva sempre il giardiniere Josep Borrell, e alla fine ha capitolato proprio la Ue.
Non c'erano dubbi che il più gettonato tra paragoni “europeisti” sarebbe stato immediatamente lanciato, sullo sfondo della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, per versare compassionevoli lacrime sulla sorte della “martoriata” Ucraina, che verrà divisa tra i grandi, come lo era stata la Polonia nel 1939, occupata da Wehrmacht ed Esercito Rosso, dopo che «l'Unione sovietica, nel patto Molotov-Ribbentrop, concordò con la Germania nazista l'invasione e l'occupazione di parti della Polonia e della Romania...» e via di stantie, cicliche e riciclate omelie europeiste.
Questa volta, il traguardo l'ha tagliato per primo il “politologo” ucraino Jurij Romanenko; ma non dubitiamo (non ci è stato possibile consultare tutti i media italici) che il parallelo sia stato o verrà ripreso da più d'uno degli acuti osservatori euro-liberali. In sostanza, Romanenko (in Russia è ricercato... detto per inciso) scrive che «La posizione degli Stati occidentali, in linea di massima delle grandi potenze, è spesso flessibile rispetto agli interessi di stati come l'Ucraina, o stati come la Polonia nel 1939, nel 1945, o come la Cecoslovacchia nel 1938 e dopo la Seconda guerra mondiale... penso che Trump stia prendendo in considerazione l'opzione di accordarsi con Putin sulla semplice divisione delle sfere di influenza in Ucraina...».
Romanenko è preoccupato per la “divisione” dell'Ucraina in “sfere d'influenza”; ma quanto lo è per quei quattro milioni di ucraini sinora sacrificati alla bramosia euro-atlantista di mettere le mani sulle risorse ucraine e usare l'ex Repubblica sovietica quale piazzaforte USA-NATO per l'attacco alla Russia?
Nel passato più recente abbiamo visto svolgere questo ruolo all’avvento della tecnologia digitale e di internet risalente agli anni 90 a cui hanno fatto immediatamente seguito dapprima l’e-commerce e successivamente le Fintech con i pagamenti digitali (anni 2000), i Big Data e Analytics (anni 2000) seguite da Blockchain e Criptovalute (anni 2010), pure scommesse speculative, con la loro promessa di anonimato a chi preferisce agire nell’oscurità, le tecnologie green legate al new green deal europeo (2020) [1]. A catalizzare efficacemente tutti questi processi di inflazione finanziaria, sino a produrre vere e proprie bolle finanziarie [2], le politiche emergenziali, indotte ad arte, che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni: l’emergenza climatica la cui causa è stata individuata, da una falsa scienza asservita alle logiche di profitto, nell’eccesso di CO2 prodotta dalle attività umane, l’emergenza pandemica che ha visto anch’essa l’uso distorto della scienza in totale conflitto d’interesse, quella bellica (che hanno direzionato gli investimenti finanziari a gonfiare le capitalizzazioni di ‘bigpharma‘ e ‘bigarma‘) e quella energetica connessa a quella bellica mirante a rendere competitiva tutta la filiale del gas liquefatto, soprattutto statunitense, rispetto al gas da tubo russo bloccato con lo strumento delle sanzioni e del sabotaggio (north stream) (vedi https://www.francescocappello.com/energia-gas-liquefatto/).
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
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Sono nel pallone… dopo la
telefonata Trump-Putin e il discorsetto di Vance a Monaco gli
euronazi, i satrapi del deep state USA prima delle elezioni
americane, quelli che si
sono fatti saltare dagli ucronazi, dai servizi britannici e
dalla CIA il Nord Stream da sotto il culo, dopo aver mandato
armi e al macello migliaia di
ucraini vendendocela come imminente sconfitta russa, dopo aver
ridotto l’Unione Europea ad area dipendente e sotto
“protezione”
degli USA, praticamente un protettorato, e dulcis in fundo,
dopo aver promesso lacrime e sangue per aumentare il budget
bellico per la NATO, tutti
questi signori si ritrovano nella scomoda posizione di
estranei alla trattativa sull’Ucraina. E se non bastasse è il
nuovo inquilino
della Casa Bianca, che dopo aver dato il ben servito a USAID,
attacca gli euroburocrati svelando la triste verità: nell’UE
la democrazia,
quel poco che c’era nel delirio dei suoi diktat economici e
fonanziari, è morta e sepolta. Vance attacca sulla censura,
sulle elezioni
cancellate se non vanno bene come in Romania: sono schiaffi
che fanno ben capire che se le classi dirigenti corrotte e
meschine dell’UE vogliono
continuare la guerra con la Russia attraverso l’Ucraina e per
mezzo della NATO, devono sborsare i dané per le armi, ma anche
per i danni
alla fine della fiera, visto che la Russia ha già vinto.
Il tutto col nuovo regime dei dazi statunitensi, dopo la mazzata che i neuro-burocrati si sono dati nei coglioni con le sanzioni alla Russia. Una debacle che non può che preannunciare la fine dell’architettura europea incentrata sull’egemonia USA e iniziata con Maastricht e le sue velleità di terzo polo europeo. Non sarà questa architettura a ricostruire un’idea di Europa dentro un contesto geostrategico che vede affermarsi il multipolarismo, ma semmai l’avvento di stati nazione che mutano l’intero scenario mondiale e la stessa catena imperialista a dominanza statunitense. E che allo stato attuale delle cose, i sistemi democratici europei siano finiti e che stiano finendo le libertà costituzionali, delle costituzioni nate dalle Resistenze è un dato di fatto: tutti fattori che fanno da preludio a ribaltoni elettorali, se non rivolte sociali, dato che i popoli europei, deste o sinistre che siano, la guerra non la vogliono e non vogliono pagarne i costi.
Kohei Saitō, professore universitario e ricercatore giapponese è diventato recentemente la nuova star del pensiero ecologista e marxista. Ricercatore impegnato nella pubblicazione degli inediti e degli appunti di Marx ed Engels (MEGA), autore di numerosi libri incentrati sul pensiero ecologista e sui rapporti tra ecologismo e marxismo. In Italia molti dei suoi lavori non sono tradotti a differenza di due testi: a) L’ecosocialismo di Karl Marx (editrice Castelvecchi, 2023), b) Il Capitale nell’Antropocene (editrice Einaudi 2024).
In questo saggio esamineremo i due testi mettendone in evidenza le continuità e le differenze. Approfondiremo anche i rapporti sempre più stretti che intercorrono tra la teoria del valore-lavoro come espressa nel Capitale di Karl Marx e il pensiero ecologista predominante. In particolare ci riferiremo al pensiero ecosocialista presente in autori come John Bellamy Foster e Ian Angus confrontandolo con il pensiero ecologista prevalente lontano anni luce da un marxismo considerato come una disciplina fondamentalmente antropocentrica e totalmente disinteressata (storicamente) a un discorso sulla scarsità delle risorse naturali.
Noi crediamo a un marxismo basato su una solida applicazione del pensiero scientifico e non “scientista”. In tal senso riteniamo che la lotta per salvare il Pianeta dai disastri ecologici sia una parte fondamentale della lotta per introdurre nuovi rapporti di produzione nel Mondo che portino al riscatto delle classi subordinate e dei popoli oppressi nel Pianeta.
Giustizia climatica e giustizia sociale sono più che mai indissolubili nella lotta dei comunisti.
Ecco le risposte patogeniche al vaccino Covid riportate nella pubblicazione scientifica del dottor Maurizio Federico: autoimmunità, trombocitopenia, miocardite, lesioni miocardiche, disturbi del ciclo mestruale, riattivazione di infezioni latenti e sindrome post-vaccino COVID
La pubblicazione
scientifica del dottor Maurizio
Federico [1], “The
Immunologic Downsides Associated with the Powerful
Translation of Current COVID-19 Vaccine mRNA Can Be
Overcome by Mucosal Vaccines”
“Gli svantaggi immunologici associati alla potente
traduzione dell’mRNA dei vaccini COVID-19 attuali possono
essere superati
dai vaccini mucosali” pubblicata il 14
Novembre 2024, è importante non tanto perché insiste nel
proporci una
soluzione vaccinale, quella dei vaccini mucosali, giudicata
meno dannosa, quanto perché, un ricercatore dell’Istituto
Superiore di
Sanità, l’Istituzione italiana che non si è opposta ed ha anzi
promosso la campagna vaccinale di massa, oggi, attraverso un
suo
ricercatore, elenca a posteriori una lunga serie di meccanismi
del danno che vengono identificati quali potenziali effetti
collaterali immunologici
derivanti dall’alta efficienza di traduzione dell’mRNA nei
vaccini COVID-19.
Proponiamo, per iniziare, la traduzione dell’abstract dell’articolo:
L’azione dei vaccini a base di mRNA richiede l’espressione dell’antigene nelle cellule bersaglio dei complessi mRNA-nanoparticelle lipidiche. Quando l’antigene del vaccino non viene completamente trattenuto dalle cellule produttrici, la sua diffusione locale e sistemica può avere conseguenze dipendenti sia dai livelli di espressione dell’antigene sia dalla sua attività biologica. Una peculiarità dei vaccini a base di mRNA contro il COVID-19 sono le quantità straordinariamente elevate dell’antigene Spike espresse dalle cellule bersaglio. Inoltre, la proteina Spike del vaccino può essere rilasciata e legarsi ai recettori ACE-2 delle cellule, inducendo così risposte di significato patogenetico, incluso il rilascio di fattori solubili che, a loro volta, possono disregolare i processi immunologici chiave. Inoltre, le risposte immunitarie circolatorie innescate dalla proteina Spike del vaccino sono piuttosto potenti e possono portare a un efficace cross-binding degli anticorpi anti-Spike, nonché alla comparsa di auto-anticorpi e anticorpi anti-idiotipo. In questo articolo, vengono discussi gli svantaggi immunologici della forte efficienza della traduzione dell’mRNA associata ai vaccini contro il COVID-19, insieme agli argomenti a sostegno dell’idea che la maggior parte di essi può essere evitata con l’avvento dei vaccini mucosali di nuova generazione contro il COVID-19.
Tra parentesi graffe qualche richiamo per facilitare la comprensione a chi non sia addentro al linguaggio della biologia.
Si è aperto un ampio dibattito sull’interpretazione delle frasi del presidente Mattarella intorno alla guerra russo-ucraina.
Le frasi incriminate sono le seguenti:
Fenomeni di carattere autoritario presero il sopravvento in alcuni Paesi, attratti dalla favola che regimi dispotici e illiberali fossero più efficaci nella tutela degli interessi nazionali. Il risultato fu l’accentuarsi di un clima di conflitto - anziché di cooperazione - pur nella consapevolezza di dover affrontare e risolvere i problemi a una scala più ampia. Ma, anziché cooperazione, a prevalere fu il criterio della dominazione. E furono guerre di conquista. Fu questo il progetto del Terzo Reich in Europa. L’odierna aggressione russa all’Ucraina è di questa natura.
La prima parte è una sorta di analisi, storiograficamente da bocciatura, volta a far passare l’idea che nel ‘900 un clima di conflitto si sia originariamente instaurato a causa della nascita di regimi dispotici e illiberali. Ma naturalmente, i regimi “dispotici e illiberali” si instaurano a partire dagli anni ’20, emergendo sulla scorta del drammatico lascito della Prima Guerra Mondiale, che fu guerra tra regimi liberalcapitalistici e imperialistici. Alla faccia del clima di cooperazione precedente ai “regimi dispotici e illiberali”.
Dunque abbiamo a che fare con una ricostruzione espressamente falsa e fuorviante.
Ma la parte più grave è rappresentata dalle ultime due frasi, che unificate suonano:
Questa mia riflessione trae spunto dal
saggio di Carl Rhodes dal titolo “Capitalismo Woke. Come la
moralità aziendale minaccia la democrazia”, pubblicato in
Italia dalla
Fazi Editore nel 2023. L’autore del saggio è professore di
Teorie dell’organizzazione e preside della Business School
presso
l’Università di Sidney in Australia, pertanto ha un punto di
osservazione molto interessante. Il saggio analizza il
riposizionamento
delle grandi imprese rispetto a temi sociali e a istanze
rivenienti da movimenti politici e culturali progressisti se
non addirittura, fatti passare,
di sinistra.
L’autore sviluppa il proprio ragionamento partendo dalla genesi del concetto di “woke” e dal suo significato originario per poi dimostrare come di tale concetto se ne sia appropriato il capitalismo neoliberale ribaltandone il senso in funzione del mercato e dell’occupazione della società con l’obiettivo di sostituire lo Stato. Di recente questo tema è stato affrontato sul quotidiano Avvenire dall’economista Stefano Zamagni[1] il quale scrive nel suo articolo << Non si deve dunque cadere nell’errore di pensare che il fenomeno “trusk” ( Trump + Musk) sia una sorta di fulmine a ciel sereno, qualcosa di inatteso. Invero, nel corso dell’ultimo trentennio si è andata affermando, a partire dalla California, una duplice presa di posizione, tra i segmenti molto alti della scala sociale, nei confronti del modello di ordine sociale verso cui tendere il mondo occidentale (…)>>.
Zamagni fa propria l’analisi di Carl Rhodes e individua i due estremi della questione. Da una parte quella di patriotic millionaires dall’altra il woke capitalismo. I primi chiedono ai governi di aumentare la pressione fiscale a loro carico per finanziare il Welfare state per poi essere lasciati liberi nella loro attività di imprenditori. Su questo punto la riflessione di Rhodes si differenzia.
La scelta del
Presidente Trump di ridurre finanze, potere e ruolo che
l’agenzia UsAid (United States Agency for International
Development)[1] ha avuto nella
gestione delle relazioni internazionali negli ultimi decenni,
pone forti interrogativi anche sul futuro di altre
organizzazioni americane con fini
filantropici consimili; in particolare il NED (National
Endowment for Democracy) rischia di scomparire o di subire un
grave ridimensionamento.
Sulla stampa di area conservatrice americana, hanno iniziato a comparire già da qualche mese articoli dove si invitano Elon Musk e il DOGE (Department of Government Efficiency), che sarebbe stato istituito di lì a breve (il 20 gennaio scorso), a prendere in seria considerazione il NED per la riduzione delle spese federali nel 2025, in quanto rappresenta una “voragine per i soldi dei contribuenti americani” e anche a ragione di tutta una serie di motivi assai criticamente analizzati e riguardanti le funzioni della suddetta fondazione e i suoi tentacoli sul mondo1.
Già nel 2018, in verità, Trump aveva proposto di ridurre i finanziamenti al NED; l’operazione tuttavia allora non riuscì per le accuse di volere così negare il sostegno alla affermazione della democrazia all’estero e di avere, al contrario, una inclinazione di simpatia verso regimi autoritari2, accuse che gli piovvero addosso da quelle stesse oligarchie neoliberiste che macchinarono poi per farlo fuori nel 2020.
D’altronde l’idiosincrasia tra i due ambienti si è manifestata a più riprese negli anni, che hanno visto funzionari e collaboratori del NED dichiarare il loro disappunto all’ipotesi di una rielezione di Donald Trump e di una sua nuova amministrazione, oltreché l’impossibilità concreta di una collaborazione, per gravi divergenze di opinioni intorno a questioni dirimenti, come la faccenda Ucraina.
Il quadro già abbastanza delicato degli equilibri interni al potere statunitense viene ulteriormente complicato dalla presenza di Victoria Nuland, figura importantissima dello stato profondo americano, che ha appena ripreso la sua attività di membro del Consiglio di Amministrazione della fondazione, dopo che averne fatto parte dal 2018 al 2021, per poi diventare, sotto l’amministrazione Biden, prima Sottosegretario di Stato per gli affari politici e poi vicesegretario di Stato ad interim.
I palestinesi non se ne andranno da Gaza. Se
rifiuteranno questa realtà, Israele e gli USA finiranno per
portare a compimento
l’orrendo crimine del genocidio di un popolo
Il presidente americano Donald Trump ha nuovamente spiazzato alleati e oppositori allorché, durante la conferenza stampa con il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, lo scorso 4 febbraio, ha dichiarato che gli USA avrebbero “preso possesso” di Gaza per trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”.
Senza spiegare sulla base di quale autorità, il presidente ha detto che, dopo aver reinsediato altrove i palestinesi, avrebbe trasformato la piccola enclave sul Mediterraneo in un luogo dove avrebbe vissuto “la gente del mondo”, incluso eventualmente qualche palestinese.
Sebbene non vi siano stati incontri in seno all’amministrazione per definire la proposta, Trump l’ha ribadita più volte nei giorni successivi, spiegando che gli USA non avrebbero schierato soldati sul terreno perché Gaza sarebbe stata loro “consegnata” da Israele “alla fine del conflitto”.
Egli ha anche chiarito che non ci sarebbe stato alcun diritto al ritorno per i palestinesi al termine dell’operazione, smentendo coloro che avevano parlato di una ridislocazione “solo temporanea” della popolazione di Gaza.
Il presidente ha citato Egitto e Giordania fra i paesi che avrebbero potuto accogliere i palestinesi, mentre ha accennato alla possibilità che siano le monarchie del Golfo a pagare il costo della ricostruzione della Striscia.
Trump ha definito Gaza come un luogo ormai invivibile, una terra di morte e distruzione, “un sito di demolizione” dove la vita è impossibile, senza tuttavia dire come ciò sia accaduto, e concludendo che i palestinesi preferirebbero vivere altrove se solo potessero, senza però averli interpellati.
“L'unica pace è la vittoria di Kiev”; l'importante è “non umiliare i futuri sconfitti”, in riferimento alla Russia, anche se i termini più in voga riguardo a Mosca sono sempre stati «punire» e «costringere»; e via di questo passo. Quante ne hanno dette e quanto a lungo le hanno ripetute. E anche oggi, il Ministero degli esteri tedesco non trova di meglio che dichiarare che i «nostri obiettivi comuni devono essere quelli di mettere l'Ucraina in una posizione di forza», cioè di continuare la guerra a tempo indefinito, mentre i Ministri degli esteri di Germania, Francia, Polonia, Italia, Spagna, Gran Bretagna e UE insistono sul fatto che «Ucraina ed Europa devono esser parte di qualsiasi negoziato».
Oggi si riempiono la bocca con i “negoziati”, mentre aizzano Kiev a colpire il sarcofago di Cernobyl, secondo uno scenario ormai consolidato tra i nazisti di Kiev. Pretendono di esser parte dei negoziati: certo; come no. Hanno abbaiato per tre anni (parevano avere le corde vocali anchilosate, dal 2014 al 2022, quando Kiev bombardava e massacrava i civili in Donbass) e, nonostante tutto, continuano a farlo tuttora; non smettono di latrare sulla necessità di armare a più non posso i nazigolpisti di Kiev, perché, hanno detto, “l'unica garanzia è la sconfitta della Russia” e dunque si devono mandare missili a lungo raggio per colpire Mosca.
Lo stanno ripetendo anche in queste ore, coi giornalacci italici che fanno da cassa di risonanza ai nazigolpisti di Kiev: oggi tocca a Mikhail Podoljak, consigliori di Zelenskij, dire che Kiev vuol «porre fine alla guerra in modo equo per un lungo periodo» e, per questo, dice all’Europa che «l’investimento in Ucraina è un investimento sulla propria sicurezza e va aumentato.
Uno sguardo cursorio sulla condizione attuale della politica europea lascia storditi. Se vivessimo su Marte ci sarebbero gli estremi per una spassosa commedia dell’assurdo, ma vivendo in Europa quella commedia è piuttosto una tragedia di cui siamo vittime.
Dopo la telefonata tra Trump e Putin ad alcuni leader europei è iniziato a balenare il sospetto che dopo il barile di pece stiano per arrivare le piume.
Hanno iniziato a strabuzzare gli occhi, agitarsi, e a produrre proclami scomposti.
La ministra degli Esteri UE Kaja Kallas si è messa a concionare pateticamente che “in ogni negoziato, l'Europa deve avere un ruolo centrale” e che “qualsiasi accordo concluso alle nostre spalle non funzionerà”. (Va dato atto alla Kallas di possedere doti attoriali fuori dal comune: è in grado di dire le più sconcertanti corbellerie sempre con aria sorridente e sicura).
Di fronte agli annunciati dazi di Trump sulle esportazioni europee la tedesca Von der Leyen si dice “profondamente dispiaciuta” e promette risposte e “contromisure ferme e proporzionate”, aggiungendo con grande senso del comico: “proteggeremo i nostri lavoratori, le nostre aziende e i nostri consumatori".
Il vicepresidente americano Vance in tour europeo snobba il primo ministro tedesco Scholz dicendo che “non c’è bisogno di incontrarlo, tanto sarà cancelliere ancora per poco” – per gli sputi in faccia non era a distanza.
Il libro affronta la tematica cruciale della guerra e delle sue radici economiche, molto scorrevole e valido si presenta come una raccolta di articoli scritti dal prof. Brancaccio insieme ad altri professori e suoi collaboratori offrendo un punto di vista alternativo rispetto alla narrazione dominante
Dall’inizio della guerra in Ucraina, che possiamo definire come uno scontro imperialista tra la NATO e la Russia per interposta nazione, molti tabù sono stati infranti. Tra questi, la possibilità di una guerra mondiale che coinvolga direttamente l’Europa, con il rischio addirittura di un conflitto nucleare. Se solo pochi anni fa parlare di tali scenari avrebbe potuto attirare l’attenzione dei servizi sanitari per un eventuale TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), oggi, dopo tre anni dall’invasione russa, sono i leader europei stessi a parlare apertamente di riarmo, economia di guerra e della necessità di un riequilibrio globale tra le grandi potenze economiche.
In questo contesto, diventa urgente affrontare la questione della pace. Tuttavia, come giustamente sottolinea Brancaccio, per farlo è necessario comprendere le cause materiali alla base di questi conflitti, che definiamo di stampo imperialista. Il suo libro si distingue proprio per questa capacità di analisi, inquadrando le dinamiche della guerra attraverso le leggi di tendenza del capitalismo, che, seppur complesse e dialettiche, rappresentano le radici profonde dei conflitti attuali.
Il polverone sollevato da Trump e Musk è tale da
confondere un po’ tutti gli osservatori, specie quelli
ancora fermi alle
giaculatorie “liberal” che contestano la rozzezza dei due
tycoon ma naturalmente non ne rallentano neanche per un
attimo la spinta
eversiva.
E’ utile, in questa situazione, tenere d’occhio quanto accade su una scala magari più limitata, ma controllabile, in modo da intravedere meglio la portata della ristrutturazione reazionaria della superpotenza, le sue conseguenze immediate, i suoi rischi, anche di suicidio.
Nei giorni scorsi abbiamo tenuto un faro di attenzione su UsAid – una complessa e articolata Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) – improvvisamente chiusa per decisione dei due nuovi “boss”.
Stiamo parlando di un programma mondiale di intervento Usa, con un budget di circa 50 miliardi, che copre (copriva?) sia iniziative “umanitarie” vere e proprie sia spazi di manovra per la Cia, “formazione” di giornalisti e finanziamento di testate definite però “indipendenti” operanti in decine di Paesi, fino a operazioni “creative” come la distribuzione di contraccettivi in Afghanistan o campagne pro-Lgpt un po’ in tutto il mondo. Tutto documentato, non chiacchiere…
Insomma: è un’agenzia tuttofare, corrispondente all’immagine che Washington ha voluto dare di sé al mondo fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Per capire quanto
sia cambiata la politica nel giro di un paio di decenni,
approssimativamente gli ultimi del secolo scorso, basta
mettere a confronto cosa
contrapponeva fino a quel periodo le maggiori forze politiche
con ciò che le contrappone ai nostri giorni.
Ieri
Per quanto si possa sostenere a giusta ragione che il PCI non aveva l’obiettivo della rivoluzione e che la DC era un coacervo di forze che rendevano difficile coglierne un’identità definita, non si può negare che, in ultima istanza, l’oggetto più profondo del conflitto che ruotava attorno a questi due grandi partiti era l’alternativa fra socialismo e capitalismo. Ciò è vero anche se non era chiaro a nessuno, neppure al gruppo dirigente del PCI, che cosa potesse essere concretamente il socialismo che si evocava. Non a caso era concepito come il graduale compimento di un lungo processo di transizione di cui si indicavano soltanto le primissime tappe, per altro del tutto compatibili con il capitalismo. Ma, di sicuro, il messaggio col quale ci si rivolgeva alla classe lavoratrice era quello di un cambiamento sostanziale della situazione in cui viveva, e così le masse lo percepivano.
Dall’altro lato, la DC e le forze che le gravitavano attorno, pure attraversate da sensibilità e idealità diverse, convergevano senza il minimo dubbio sulla superiorità del capitalismo non solo sul piano dell’efficienza, ma persino su quello morale in quanto tutt’uno con la democrazia, mentre, al contrario, il socialismo, a loro parere, esisteva e poteva esistere solo in forme dispotiche.
Guardando ai massimi sistemi, dunque, il conflitto era radicale. Ad attenuare tale radicalità provvedevano due presidi. Il primo era la Costituzione, che segnava i confini entro i quali tale conflitto si doveva svolgere. Non mancarono da parte della DC tentativi di valicarne i limiti, ma furono respinti.
Il 5 febbraio scorso Sergio Mattarella era all’Università di Marsiglia a intrattenere l’uditorio sul pericolo costituito dalle politiche di “appeasement”. Paragonando la situazione attuale a quella precedente alla seconda guerra mondiale, Mattarella ha affermato che l’accordo firmato a Monaco nel 1938, che riconosceva ad Hitler il controllo dei Sudeti, fu un’illusione di pace, mentre un atteggiamento di fermezza avrebbe “probabilmente” evitato la guerra. Un “probabilmente” che ha una funzione puramente retorica e poggia sul nulla, dato che proprio nulla indica che nel 1938 la Francia e il Regno Unito fossero in posizione di forza nei confronti della Germania e neppure dell’Italia. Ambrose Bierce diceva che Dio ha inventato le guerre per costringere gli uomini a studiare la geografia, e in effetti il mito dell’appeasement di Monaco si dissolve osservando la carta geografica e consultando un po’ una cronologia degli eventi storici.
Mussolini svolse il ruolo di mediatore dell’accordo di Monaco, che fu firmato nel settembre del 1938. In quel periodo l’Italia occupava militarmente l’isola di Maiorca con truppe, navi e aerei; e da quella posizione geografica non soltanto bombardava le posizioni repubblicane in Spagna, ma era anche in grado di minacciare il transito per Gibilterra, cioè la principale roccaforte della potenza britannica nel Mediterraneo. La guerra di Spagna si concluse nell’aprile del 1939, e solo allora le forze armate italiane e tedesche si ritirarono dal suolo spagnolo, cessando di insidiare Gibilterra. Non ci fu quindi nessun appeasement ma solo uno scambio.
Nello Cristianini, Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2024, pp. 152, € 15,00
Machina Sapiens di Nello
Cristianini contiene già nel titolo l’indicazione di una
svolta epocale per l’umanità e il Pianeta di cui nessuno
conosce
davvero i possibili sviluppi. La convinzione dello scrittore
Arthur Charles Clarke che le tecnologie avanzate risultino
spesso indistinguibili dalla
magia trova conferma nel fatto che oggi si tende a guardare
all’intelligenza artificiale generativa come a una sorta di
oracolo. Restando ancora
per un istante nell’ambito del magico o del divino, si
potrebbe dire, con una battuta, che se l’attingere dall’albero
della
conoscenza (del bene e del male) da parte dei Progenitori ha
scatenato l’ira di Dio, ora i loro lontani discendenti
sembrerebbero intenti a
consegnare la conoscenza conquistata a caro prezzo
(evidentemente senza aver imparato a distinguere il bene dal
male) a una nuova divinità
chiamata macchina (intelligente) rimettendosi al suo
(sconosciuto) volere.
Tornando alle cose terrene, per illustrare come le macchine si stiano appropriando della conoscenza, a lungo considerata dall’essere umano una propria prerogativa, Cristianini suddivide il libro in tre sezioni dedicate rispettivamente agli scienziati, agli utenti e alle macchine, così da ricapitolare lo sviluppo nella costruzione delle macchine pensanti, il rapporto che le persone stanno instaurando con esse e, infine, quel che (presumibilmente) queste macchine sanno di noi e quello (poco) che davvero noi sappiamo di loro.
Nella prima sezione del volume l’autore ricorda come l’avvio della corsa alla realizzazione di macchine intelligenti si possa far risalire al quesito “Can machines think?” posto da Alan Turing in un suo celebre scritto – Computing Machinery and Intelligence – pubblicato nel 1950 sulla rivista accademica «Mind», Oxford University Press. Non potendo contare su una definizione scientifica univoca di “pensare”, Turing ha spostato la questione sulla possibilità di arrivare ad una macchina capace di tenere una conversazione con un essere umano facendosi passare per umana essa stessa (imitation game) senza essere scoperta. Quello che poi è stato chiamato “il test di Turing” è in pratica la messa alla prova della macchina nella sua capacità di imitare nella conversazione l’essere umano al punto tale da rendersi indistinguibile da esso.
Il saggio di Ennio
Abate, che affianca a questo titolo ‘in minore’ il sottotitolo
esplicativo, Letture e interventi (1978-2024), 1
nasce
da una motivazione autentica e radicale. Scrive infatti
l’autore: «A chi mi chiedesse perché, tra tanti scrittori
importanti,
proprio Fortini abbia ricevuto stima e attenzione così
prolungate nel tempo da parte mia, rispondo così. Perché più e
meglio di altri ha difeso una idea di poesia, di letteratura,
di politica, di visione critica e comunista del mondo che ho
fatto mia. E l’ha
difesa sia nel biennio politicamente esaltante del ’68-’69 sia
dopo, durante la crisi degli anni Settanta (compromesso
storico, uccisione
di Moro, scioglimento del Pci) e fino alla sua morte avvenuta
agli inizi delle attuali, devastanti guerre “democratiche” o
“permanenti”». E in effetti la biografia di Fortini che
risulta da questa assidua frequentazione dei suoi “dintorni”
si
converte, come è inevitabile ma, in questo caso, altamente
augurabile, nell’autobiografia di una figura prototipica del
’68:
l’intellettuale prodotto dallo sviluppo economico degli anni
Sessanta, dal grande esodo verso il Nord e dalla
scolarizzazione di massa, che
partecipa, prima come lavoratore-studente e poi come
insegnante, al “lungo Sessantotto” italiano militando nelle
organizzazioni della
sinistra rivoluzionaria e incontrando una figura carismatica
di quella fase storica: il poeta, saggista, traduttore e
insegnante Franco Fortini.
Il rischio per chi si prefigga di porre a confronto la propria esperienza letteraria, politica e culturale con quella di una simile figura era chiaramente quello di cercare di scavarsi un posticino nell’ambito della fortinologia, laddove questa rappresenta una nicchia, peraltro non priva di meriti cognitivi, che si è venuta a creare all’interno dell’università senese, così come in altri ambiti universitari si creano nicchie votate al culto di questo o di quell’autore che per qualche ragione abbia insegnato abbastanza a lungo in questo o quell’ateneo locale. Dunque, la fortinologia poteva essere una risorsa, poteva essere un pericolo.
Davvero viviamo tempi strani. Gli esempi potrebbero essere mille, ma vediamone uno curioso assai. Ieri, proprio mentre era in corso il summit parigino sull’intelligenza artificiale, la Repubblica annunciava come niente fosse che lo sviluppo dell’IA nell’Ue porterà nei prossimi 5 anni a un aumento dei consumi energetici del settore pari al 160%. Avete letto bene: centosessanta percento.
La previsione è che nel 2030 il solo consumo dei data center europei sarà pari a 287 Twh (miliardi di kilowattora). Un’enormità assoluta, un consumo pari a quello medio di 115 milioni di famiglie, superiore a quello complessivo della Spagna e piuttosto vicino (92%) a quello dell’Italia.
Ma come, da anni vige l’ossessione del risparmio energetico senza il quale il pianeta andrebbe a ramengo, da anni si smerciano solo lampadine ed elettrodomestici pensati per risparmiare qualche kilowattora, e adesso ci venite a dire che i consumi elettrici dovranno crescere all’impazzata per l’IA? E il “climate change” dov’è andato a finire?
Ora, sappiamo bene come certe ossessioni siano del tutto interessate. Sappiamo, ad esempio, come esse servano ai produttori di elettrodomestici per imporre sul mercato modelli più costosi e a obsolescenza programmata più ravvicinata. Ma, pur sapendo tutto ciò, è tollerabile che chi ci parla di cambiamento climatico anche durante una partita di calcio, nulla abbia da eccepire sull’impatto ambientale dell’intelligenza artificiale?
Mentre le borse europee crescono, i dati sull’economia reale continuano a peggiorare. In Italia si registra un declino della produzione industriale che dura ormai da due anni. I mercati finanziari operano sempre più indipendentemente dall’economia reale. I settori finanziari vedono un apprezzamento e distribuiscono utili anche quando l’economia non cresce. La remunerazione dei depositi bancari da parte della BCE e gli alti tassi di interesse hanno aumentato enormemente i profitti delle banche.
L’Europa sta assistendo a una situazione economica paradossale in cui, nonostante i dati macroeconomici negativi e un’economia reale in difficoltà (Previsioni di crescita economica per l’Europa nel 2025: Si parla di un 1%), i mercati azionari europei, in particolare il settore bancario, stanno vivendo una crescita significativa. Questo fenomeno, osservato anche dalla stampa internazionale come il Wall Street Journal e il Sole 24 Ore, solleva interrogativi sulle dinamiche finanziarie attuali e sul ruolo delle politiche monetarie.
Carlo Di Mascio: Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista
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L’urgenza di ricostituire la sinistra comunista
non è più rimandabile. Le oligarchie transnazionali con la
fine della
globalizzazione mostrano la verità del dominio. Sono in lotta
a Oriente come a Occidente. Con la lotta fra le plutocrazie si
aprono spazi di
intervento e di verità. Le guerre plutocratiche si
moltiplicheranno e i diritti sociali e individuali
gradualmente scompariranno
dall’orizzonte politico. Il loro posto è, e ancor più, sarà
occupato da slogan e dalle parole ambivalenti della
società dello spettacolo. L’articolo 31 del DDL sicurezza
prepara l’Italia a una lunga guerra. Sarà possibile per le
università, se fosse approvato, collaborare spontaneamente con
i Servizi segreti. La guerra tra le oligarchie non può che
causare un
clima di timore. La paura è “arma” per neutralizzare i
dissenzienti e per sollecitare il sospetto e il controllo.
L’inquietudine è il mezzo con cui il capitalismo cerca di
strappare la sua tranquillità, poiché è esso stesso
inquieto a causa delle ingovernabili contraddizioni che lo
corrodono. Il declino del capitalismo nelle sue formule
plurali è inevitabile. I
sintomi della decadenza sono ormai evidenti. La
sovrapproduzione e la scarsità di risorse da estrarre e da
sfruttare sono ormai la tagliola
sanguinante del capitalismo. Il saccheggio è anche e
specialmente spirituale, nella fase attuale il capitalismo
rapina “la
capacità di significare”, in tal modo i sudditi non sono che
orci bucati in cui tutto fluisce, fino al punto che l’orcio
assume la
forma dei contenuti. Il sangue degli ultimi ha macchiato la
storia dei capitalismi, pertanto la sua storia non potrà che
terminare nel sangue e
nel sudore degli infelici che già ora non vivono ma
sopravvivono. Rileggere Marx è oggi fondamentale per
risemantizzare per il presente.
Il comunismo che verrà non sarà la riproposizione del passato,
ma esso necessita della tradizione comunista e delle sue
categorie per
pensare il presente e progettare il futuro.
Marx ha riportato l’essere umano nella storia e ha svelato le religioni si sistema nella loro realtà ideologica. La religione con le sue fughe dorate da un mondo reificante è stata la complice del dominio, ha sparso i “fiori sulle catene”, è stata l’oppiaceo che ha consentito di “sopportare l’insopportabile”.
Sarà anche che l’irruzione dell’uragano Trump
sulla scena internazionale ha sconcertato molti, o che le
aspettative
fossero esageratamente alte, ma si direbbe che ciò sta
scatenando una serie di misunderstanding davvero
considerevole.
Tanto per cominciare, la nuova America non è affatto orientata al multipolarismo, nemmeno nei termini di una semplice accettazione della realtà. Al contrario – e lo dimostrano molte cose – sta semplicemente operando una conversione tattica, che prende atto sì dell’emergere di un mondo multipolare, ma soltanto per combatterlo meglio, e riaffermare il predominio statunitense. Ciò non consegue soltanto dalle reiterate affermazioni (e azioni) che continuano a indicare la Cina come una minaccia, e la necessità di contenerla (anche militarmente), ma anche dal mutato atteggiamento verso la Russia.
Il rovesciamento di 180°, rispetto alle posizioni sostenute dalla precedente amministrazione USA sino a pochi mesi fa, è infatti dovuto a due elementi: da un lato, la constatazione dell’errore strategico commesso innescando il conflitto in Ucraina, che ha spinto Mosca a saldare un’alleanza strategica di fatto con Pechino, e dall’altro la rivalutazione del nemico russo come ostico ma comunque di livello inferiore. Da ciò la nuova politica americana che punta a separare Russia e Cina (e più in generale a rompere il blocco di alleanze quadrilaterale con Iran e Corea del Nord), aprendo una fase di dialogo e collaborazione con Mosca, che punta a coinvolgerla in un meccanismo di riduzione della conflittualità. Fondamentalmente, questo schema si basa sull’idea che depotenziando il conflitto con la Russia, e contemporaneamente accentuando quello con la Cina, ciò finisca con l’insinuare un cuneo tra i due paesi. Ovviamente, il presupposto è che le profferte statunitensi siano abbastanza allettanti per Mosca da convincerla a tenersi fuori da un eventuale acuirsi delle tensioni sino-americane. Vedremo più avanti come questa operazione sia in realtà molto più complicata, a partire dal fatto che Washington non ha effettivamente molto da offrire.
Poche ore prima che a Riad russi e
americani definissero i destini dell’Ucraina e riallacciassero
le relazioni bilaterali, a Parigi come a Monaco ha trionfato
l’aria fritta
in salsa europea, cioè la dura espressione di ferree volontà
basate però sul nulla, a partire dall’inconsistenza politica e
militare. Nei contenuti infatti al summit europeo informale
Parigi sembra essere andata in scena la replica della
Conferenza sulla Sicurezza di
Monaco, raccontata ai nostri lettori dall’articolo di Maurizio
Boni apparso ieri sulle nostre pagine.
I leader europei riunitisi su invito del presidente francese Emmanuel Macron per provare a reagire alla soluzione trumpiana al conflitto in Ucraina, avrebbero concordato con il presidente americano su un approccio di “pace attraverso la forza”.
Non è ben chiaro cosa significhi ma questo riferiscono fonti Ue non meglio precisate, citate dalle agenzie di stampa, aggiungendo che “i leader ritengono che sia pericoloso concludere un cessate il fuoco senza un accordo di pace allo stesso tempo”. Affermazione paradossale perché esattamente aderente a quanto chiede Mosca che ha precisato da tempo che non accetterà tregue o cessate il fuoco ma solo un accordo complessivo che risolva il conflitto.
Sempre secondo fonti UE i leader europei “sono pronti a fornire garanzie di sicurezza, con modalità da esaminare con ciascuna parte, a seconda del livello di supporto americano”. E qui il paradosso rischia di scivolare nella comica perché l’Europa dichiara di essere pronta a mostrare muscoli che non ha e a correre rischi che nessun governo europeo è in grado di correre se vuole restare in sella.
Nel Paese delle Meraviglie
Per comprenderlo è sufficiente rilevare le ultime bellicose dichiarazioni rilasciate da alcuni leader riunitisi a Parigi e confrontarle con la realtà.
Il discorso di
Monaco del vicepresidente Usa JD Vance è stato di una durezza
quasi incredibile verso gli alleati europei, criticandoli
aspramente anche per
questioni di politica interna; particolare rilievo ha assunto
il tema delle limitazioni della libertà di espressione che
sono diventate moneta
sonante per le classi dirigenti del Vecchio continente, nonché
della precedente Amministrazione Biden.
Tale discorso va collegato al video, diffuso il 7 gennaio da Mark Zuckerberg – capo di Facebook e Instagram – a dir poco esplosivo, annunciando che si sbarazzerà (letterale: get rid of…) dei fact-checker per il controllo dei contenuti postati online (al momento solo negli Usa).
Per capire la carica polemica di Vance dobbiamo approfondire le forme di supervisione dei contenuti dei social e di come esse si siano radicate nel mondo del progressismo di establishment; quel mondo che la nuova dirigenza statunitense vede come un nemico ideologico. Con molte ragioni.
Cosa ha detto Zuckerberg
L’uscita del padrone di Meta ha suscitato reazioni forti, in particolare dei diretti interessati, che non ne avevano assolutamente avuto alcuna avvisaglia, apprendendo assieme al resto del mondo del proprio licenziamento.
Nel video Zuckerberg ammette che negli anni dal 2016 si è intensificata la pressione da parte di media tradizionali e governi per controllare i contenuti online, e il risultato è stato: sempre più censura ed errori. Cita anche le recenti elezioni statunitensi che avrebbero espresso una volontà di tornare a maggiore libertà online. I fact-checker avrebbero peccato di faziosità e distrutto più fiducia di quanto non ne abbiano creata.
Ma adesso intende tornare alle radici della sua mission aziendale e virare verso il free speech: vestendo i panni del difensore della libera opinione, indica diversi paesi e soggetti in cui c’è una grande voglia di censura, (fra cui la Ue!) che non riuscivano a contrastare avendo il loro stesso governo che premeva in tal senso.
Bit Truth = contenuto "estratto" in rete (come i Bitcoin). Può essere anche “verità fake” ma se fa audience è comunque buona per inserire pubblicità
Nota – Come si
potrà notare in questo articolo non è stato menzionato il
tema della
censura che le Global Power Élites occidentali esercitano
utilizzando argomentazioni e strumenti di controllo ambigui
quali le Norme della
Comunità nel caso dei Social o le nuove norme contenute nel
Digital Services Act. Stavolta ho scelto di trattare
questioni proprie della
Verità dal punto di vista ontologico, del Monopolio tecnico
e dell’uso commerciale.
* * * *
Purtroppo la stragrande maggioranza degli occidentali ritiene che esistano azioni e pensieri tali da realizzare “il Meglio Assoluto” per Tutti. Vedi, per esempio, le affermazioni di Yuval Noah Harari o le dichiarazioni della NATO. Da questa idea perversa di Monopolio della Verità derivano scontri, agguati, omicidi e guerre senza fine, combattute per affermare un concetto infantile: “la mia VERITÀ è meglio della tua”…quasi sempre a prescindere poi dagli effetti, dai “frutti generati”.
Affermare VERITÀ e imporle ad Altri conferisce e consolida l’Egemonia di Chi lo fa e pertanto le Élites lo fanno, ogni volta che possono…da sempre. Ovviamente queste Élites dominanti sanno anche molto bene che gli Opposti si esprimono in una dinamica continua tra loro e talvolta addirittura convivono, ma non ne vogliono tener conto. Sanno che c’è Yin e Yang; che “ogni medaglia ha il suo rovescio”; che il Mercato si fa con il mix di offerta/domanda e quindi c’è la Compravendita e non solo l’Acquisto o la Vendita…sanno che ogni Debito è anche un Credito e che ogni Difesa è anche un Attacco e così via.
Eppure le Cupole dominanti, ostinatamente, dal declino del Politeismo in poi, CREDONO o per lo meno FANNO CREDERE FERMAMENTE che esistano VERITÀ in assoluto migliori di altre interpretazioni della Realtà, che sia essa visibile o invisibile.
Il Dipartimento Formazione di
Resistenza Popolare segnala come contributo al dibattito la
traduzione in italiano di questo corposo saggio di John
Bellamy Foster, pubblicato il
1° novembre 2024 sul sito della Monthly Review con
il
titolo The New Denial of Imperialism on the Left
(sul cartaceo è uscito sul n° 6 del volume 76).
Si segnala che, per ragioni organizzative non è stato tradotto il ricco impianto di note (ben 116) che correda il testo dandogli un impianto scientifico.
Il valore del lavoro di Bellamy Foster consiste a nostro avviso in tre aspetti fondamentali:
1. offrire un resoconto molto dettagliato di come sia evoluta nell’ambito del marxismo eterodosso occidentale la teoria dell’imperialismo; si tratta di temi su cui c’è scarsissima cognizione in Italia, dove negli ambienti della sinistra occidentale il trionfo del totalitarismo “liberale” ha portato a dimenticare perfino gli aspetti fondamentali della stessa analisi leninista. A quanto ci dice Bellamy Foster stesso, non manca comunque anche tra molti “intellettuali” una certa diffusa ignoranza di fondo di tali fondamentali teorici.
2. Bellamy Foster prende posizione a favore di quegli intellettuali, come Samir Amin, che hanno ribadito l’attualità del paradigma imperialista in connessione con il persistente fenomeno definito “neocolonialismo” dagli studiosi liberali, ricordando meritoriamente il filo rosso che lega queste analisi con il marxismo e il leninismo. Oltre a ribadire i meriti storici del movimento comunista internazionale, che è stato il pilastro della lotta antimperialista dell’ultimo secolo, viene giustamente riaffermata l’attualità della questione antimperialista correttamente intesa.
Esiste un principio non scritto, forse perché è talmente palese che scriverlo non sembrava necessario: chi porta un Paese in guerra, se poi quella guerra la perde deve andare a casa, oppure finire a testa in giù: non è questione di vendetta; è questione di sanità pubblica. Una guerra, infatti, richiede sacrifici straordinari (agli altri, però); per chi sta nella stanza dei bottoni, partecipare a una guerra, di per se, è una scelta indolore. Anzi, può portare a un sacco di vantaggi: una carriera straordinaria, un angolino nei libri di storia e anche incredibili occasioni di arricchimento personale; basta vedere il cerchio magico che ha condotto l’Ucraina al disastro in questi anni. Ecco perché è assolutamente necessario mantenere salda un’antica tradizione che prevede che se poi quella scommessa la perdi, il prezzo da pagare deve essere stratosferico: è l’unico deterrente che abbiamo per far sì che una scelta del genere non venga presa a cuor leggero. Chi lancia il famoso appello armiamoci e partite, come minimo deve sapere che se ha fatto male i calcoli farà una finaccia.
E nel caso della guerra per procura in Ucraina, dire che le classi dirigenti europee e il loro codazzo di propagandisti d’accatto hanno fatto male i calcoli è un eufemismo: a essere stato umiliato, infatti, è tutto il campo imperialista, a partire dalla nazione leader. Come ricordava sabato la nostra Clara in un bellissimo articolo sull’Antidiplomatico, per quanto “la partita in Ucraina non è ancora chiusa, possiamo certificare che alcuni obiettivi strategici del morente blocco occidentale sono irreversibilmente clamorosamente falliti”: la Russia – te guarda un po’ a volte il destino – non è stata né sconfitta, né smembrata; e non è stata nemmeno isolata.
Siamo in una crisi economica, politica e sociale molto profonda; aumenta quindi la pubblicazione di saggi che si propongono di trovare una sintesi dell’insieme di contraddizioni che compongono questa crisi. Buoni esempi sono il recentissimo La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione Europea di Piero Bevilacqua e La sconfitta dell’occidente di Emmanuel Todd. Si inserisce in questo filone Il neoliberismo è vivo e lotta contro di noi (Infiniti Mondi, 2025) di Luigi Pandolfi. È un libro dichiaratamente a tesi, anzi a due tesi: la prima è che l’attuale “policrisi” del capitalismo non è superabile restando entro quel sistema di produzione, e quindi è necessario uscire da esso se si vogliono evitare esiti catastrofici, dove per “catastrofici” si intendono sviluppi che vanno contro gli interessi del popolo (un concetto inevitabilmente ambiguo; Pandolfi infatti preferisce usare la tradizionale nozione di “lavoratori”). La seconda tesi, conseguentemente, è che occorre ripensare al socialismo come prospettiva praticabile, e anzi necessaria, e quindi riaprire la “battaglia delle idee”, a partire dalla critica del pensiero economico mainstream, evidentemente avulso dalla realtà e ciononostante tuttora ampiamente usato a sostegno di politiche economiche di classe.
Il testo ha tre caratteristiche fondamentali. La prima è l’impostazione marxista: le categorie usate sono la lotta di classe, la ricerca della struttura che determina la sovrastruttura (ma su questo, a mio avviso, il discorso è incompleto:
Non pare azzardato dire che le ore da quando è stata annunciata la telefonata tra Putin e Trump sono diventate convulse in tutte le cancellerie del mondo e in particolare in quelle d'Occidente. Pare infatti sempre più evidente che siamo di fronte a una svolta storica paragonabile a quella che avvenne nel 1990 quando Michail Gorbaciov al vertice del Comecon tenutosi a Sofia annunciò che l'Unione Sovietica non era più disponibile a finanziare a piè di lista le spese dei paesi “fratelli” dell'Europa dell'Est sancendo così il “liberi tutti” e la fine dell'equilibrio sancito a Yalta che vedeva l'Europa divisa in due: da una parte quella capitalista e dall'altra quella comunista.
Che stiamo vivendo qualcosa di simile a quanto visto nel 1990 lo si capisce non solo dalle sprezzanti dichiarazioni di Trump, che in ogni circostanza chiarisce di non considerare l'Europa un interlocutore credibile ma anche dalle dichiarazioni del Segretario alla Difesa Hegseth che ha ribadito al vertice Nato come i paesi europei saranno chiamati a pagare il dovuto per la sicurezza e del vice Presidente Vance che alla conferenza di Monaco sulla Sicurezza ha preso a pesci in faccia la “democrazia” europea considerata come priva di libertà e in completa decadenza. Anche la nuova portavoce della Casa Bianca Caroline Leavitt reagisce al commento di Scholz sui colloqui Putin-Trump senza la Germania e l'Europa dicendo in maniera sprezzante che l'unico posto dove dovrebbe sedere la Germania in questi colloqui di pace è sul banco degli imputati.
Il conflitto tra Stati Uniti e Federazione Russa, combattuto attraverso l’Ucraina, ha rappresentato un momento cruciale per gli equilibri geopolitici globali. Fin dall’inizio delle ostilità nel febbraio 2022, gli Stati Uniti hanno esercitato una forte pressione diplomatica sugli alleati europei, ottenendo un sostegno economico e militare senza precedenti da parte dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Secondo il Kiel Institute for the World Economy, al gennaio 2024 l’UE e i suoi Stati membri hanno stanziato oltre 85 miliardi di euro in aiuti all’Ucraina, superando perfino il contributo diretto degli Stati Uniti, pari a circa 75 miliardi di dollari.
Perché quest’adesione così marcata dell’UE contro la Federazione russa? Dipendeva tale adesione soltanto dalla subalternità, pur presentissima, alla sovranità Americana? Io credo di no. Molti Paesi membri dell’UE, in particolare quelli dell’Est Europa, avevano un interesse strategico diretto nella stabilizzazione dell’Ucraina, vista la loro vicinanza geografica alla Russia e la necessità di prevenire quello che pensavano come espansionismo russo. L’idea che la Russia stesse perseguendo un “espansionismo” pericoloso in Ucraina, mi sembra una posizione che, da una prospettiva storica e geopolitica, è quantomeno problematica. Piuttosto che un’aggressione imperialista verso territori stranieri, le azioni della Russia potevano essere meglio interpretate come una risposta difensiva, legata al timore crescente di un allargamento dell’influenza occidentale, rappresentata in questo caso dal rafforzamento della NATO e dall’orientamento filo-occidentale del governo attuale dell’Ucraina.
Alla fine, caddero. Che non si tratti di semplice inciampo lo certificherà – se i sondaggi non saranno totalmente ribaltati (improbabile ma pur sempre possibile) – il voto tedesco di domenica prossima, 23 febbraio. Gli Dei sono già caduti. Ne sono stati smascherati tutti i miracoli sin qui loro attribuiti. Il miracolo – direbbe Ernst Jünger – si è rilevato “materialmente impossibile, assurdo”. I segnali ci sono tutti. E non si tratta semplicemente della caduta degli Dei tedeschi dell’auto e dell’acciaio (TyssenKrupp, Volkswagen, Bmw, Bosch…), ma della più ampia devastazione del vasto tessuto di imprese corpo e sangue della seconda potenza manifatturiera mondiale, oggi in balia di sempre più smarriti governi e di decadenti aristocrazie capitaliste. Le banche sono state negli scorsi anni i primi anelli a vacillare (Deutsche Bank, Commerzbank…), ma la recessione ormai da tempo ha colpito il commercio e la grande distribuzione. Decine di migliaia di ristoranti, pub e bar sull’orlo dell’insolvenza (“a vantaggio” dei discount). La fiera delle meraviglie non c’è più, tanto nel privato quanto nel pubblico. A denunciarlo sbigottiti e arrabbiati sono quotidianamente i tedeschi nelle loro conversazioni private: “non è più la Germania di una volta, le cose funzionano male. Le scale mobili rotte, sei mesi per una visita specialistica, i treni inaffidabili, le scuole maltenute”. E non più all’orizzonte, ma sempre più ravvicinata e concreta, l’ultima mazzata. Gli annunciati dazi di Trump, preludio a ulteriori tagli degli stipendi e del personale, a licenziamenti, a vaghi e confusi progetti di riconversione produttiva che non riescono a nascondere il fatto che nessuno tra le élite sa bene che pesci pigliare (https://asimmetrie.org/video/le-elite-tedesche-e-la-crisi-del-modello-di-crescita-export-led-emd2024/).
È un momento propizio per la filosofia. Non intendo per filosofia gli “studi filosofici”, sempre più marginalizzati nelle nostre Università, ridotti, nel migliore dei casi, a elemento decorativo o, peggio ancora, confusi con la brillante soluzione di rompicapo linguistici. Questa filosofia antiquaria e/o analitica è ancora tollerata solo perché la sua inoffensività è evidente. Intendo piuttosto la filosofia come potenza instaurativa di un mondo comune, come discorso capace di creare il reale che descrive, intendo la filosofia come prassi trasformativa dell’esistenza individuale e di quella collettiva. Nella citatissima undicesima tesi su Feuerbach, Marx non liquidava affatto la filosofia, contrapponendole la prassi rivoluzionaria, ma le chiedeva una assunzione di responsabilità: da interpretazione di uno stato di cose dato, doveva diventare principio di un cambiamento reale dello stato di cose. In tal modo la filosofia avrebbe riguadagnato la sua autentica originaria natura: le “idee” dei filosofi sono infatti mera “ideologia” fintantoché si limitano a descrivere, diventano invece potenze quando, conformemente all’etimo della parola “idea”, si fanno schemi dell’azione possibile, macchine semi-automatiche che producono effetti sensibili.
Se per la filosofia il momento è propizio lo si deve alla lucidità di cui hanno dato prova coloro che vogliono inaugurare una nuova narrativa, populista, sovranista e cripto-fascista.
In questi ultimi
tempi siamo entrati nell’ottica di un necessario riarmo
europeo, introdotti qualche settimana fa dal “Meno Europa più
libertà” di Matteo Salvini al raduno dei “patrioti” alla
periferia di Madrid. Sono gli stati dunque a legittimare
l’Europa, (quale Europa per altro?) e non quest’Europa
indeterminata, o meglio invocata dall’estrema destra, a
legittimare gli
stati, peraltro profondamente ineguali che la compongono?
L’attualità sembra richiedere lo smantellamento delle istituzioni sovranazionali, se si tifa per l’Occidente, e quindi ci si predispone “liberamente” a un procedere in ordine sparso verso accordi bilaterali, che l’imperialismo del dollaro sta richiedendo con un comando sempre più legato alla persuasione delle armi. Per l’Europa in questione non c’è problema, dato il suo stato ectoplasmatico buono solo a garantire l’uso di superiore e indiscutibile richiesta di leggi essenzialmente atte all’erosione del salario sociale di classe, nella cosiddetta sovranità appartenente al popolo. L’Europa riunita in questa settimana invece a Parigi, e non a Bruxelles, deve decidere se diventare maggiorenne dal tutorato Usa ed entrare nell’ottica bellicista alla pari con i massimi imperialismi mondiali, o relegarsi definitivamente nella subalternità non solo difensiva, ma soprattutto nell’ulteriore sviluppo produttivo in un asfittico mercato mondiale, in cui l’esportazione di capitali dev’essere pilotata dalla politica dell’alleato sovrastante.
Le recenti dimissioni dall’OMS, invece, e dagli ultimi accordi di Parigi sul cambiamento climatico da parte Usa, l’attacco ai giudici italiani promosso da Musk, seguito da quello del governo italiano alla Corte penale internazionale comunitaria hanno già trascinato il nostro stato – da tempo colonia statunitense – nell’obbedienza all’indebolimento di un’Europa mai nata politicamente, ma da usare in modo surrettizio nelle forme servili di capitali da fondere o acquisire da parte dei monopoli più forti.
La situazione internazionale sta
cambiando a una velocità tale che nel tempo necessario a
scrivere un articolo si accumulano notizie sufficienti a
buttar via tutto e scriverne
un altro. Quando questo uragano si fermerà avremo davanti un
paesaggio piuttosto diverso e solo allora tutti saranno
costretti a
riconoscerlo.
Alcune linee fondamentali sono però sufficientemente chiare per chi non si è mai fatto catturare dalle “spiegazioni” della propaganda liberaldemocratica euroatlantica o da quelle “nazionaliste servili”.
Ma andiamo con ordine.
1) Alti funzionari dell’amministrazione Trump si stanno recando in Arabia Saudita per avviare colloqui di pace con i negoziatori russi. Le prime voci da Washington davano per certa anche la partecipazione di una delegazione ucraina (complicato fare trattative di pace senza uno dei due belligeranti…), ma un funzionario ucraino ha dichiarato che Kyiv non è stata informata e non prevede, per il momento, di partecipare.
Il compito della delegazione Usa è ancora quello di preparare il terreno per l’inizio delle trattative vere e proprie, quando il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz si unirà al segretario di Stato Marco Rubio e all’inviato presidenziale per il Medio Oriente Steve Witkoff, nei prossimi giorni. L’inviato Usa alla Conferenza di Monaco, Keith Kellogg, ha confermato che Gli Stati Uniti stanno conducendo un approccio “a doppio binario” con Russia e Ucraina e stanno avendo colloqui separati con Mosca e Kiev.
Secondo il britannico Guardian, un incontro in Arabia Saudita tra i presidenti di Usa e Russia, Donald Trump e Vladimir Putin, potrebbe svolgersi già entro la fine del mese.
La concezione politica della speranza come esplosione
della forza umana potenzialmente in grado di svilupparsi
giorno dopo giorno
intorno al non-ancora, concezione esplorata da Ernst Bloch
in un tempo senza speranza come gli anni Trenta e Quaranta,
ha orientato movimenti e
correnti di pensiero, ma anche pedagogie e teologie. John Holloway e Gustavo Esteva, in modo
più brillante e originale di altri, negli ultimi anni hanno
restituito centralità a una certa idea di speranza. Per
questo oggi le
lezioni di Bloch dedicate alla filosofia moderna e ora
pubblicate da Mimesis, nella traduzione e
cura
di Vincenzo Scaloni, ci sembrano essenziali. Stralci
dell’introduzione all’edizione italiana di Da Kant a
Marx. Lezioni di storia
della filosofia moderna.
* * * *
L’opera che rendiamo qui disponibile in traduzione rappresenta il quarto volume delle lezioni di storia della filosofia, tenute da Ernst Bloch all’Università di Lipsia tra il 1951 e il 1956. Si tratta delle lezioni che coprono l’intero sviluppo della filosofia moderna da Kant fino a Marx, con una significativa sezione dedicata all’idealismo tedesco e una ulteriore che invece si occupa della dissoluzione dell’hegelismo nelle filosofie di Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche1. In quella che allora era la Repubblica Democratica Tedesca Bloch era approdato dopo il periodo di emigrazione forzata trascorso negli Stati Uniti, avendo accettato la direzione dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Lipsia.
Forse è ancora presto per considerare finita la guerra in Ucraina. Non basta una telefonata per definirne l’esito, ma forse basta per segnare l’avvio di quella svolta importante, temuta da tutti i sostenitori della guerra e spavaldamente sottovalutata.
Si è abusato spesso delle presunte “svolte epocali” che se da un lato aprivano spiragli di speranza dall’altro contrastavano con la realtà. C’era qualcosa che non funzionava nelle pretese della propaganda occidentale di accreditare le scaramucce per battaglie e i successi sempre da una parte; nel magnificare le presunte controffensive (fallite), le risolutive armi occidentali (ininfluenti), le forze inesauribili (finite), la volontà ferrea di combattere (logorata), la certezza della vittoria ucraina (sfumata), la definitiva e irrevocabile ammissione di Kiev alla Nato (archiviata), la sconfitta russa sul campo di battaglia (non pervenuta) e le alleanze inossidabili “fino a quando sarà necessario” e whatever it takes (penosamente arrugginite).
L’unica vera svolta dopo tre anni di guerra è stata proprio quella telefonata: tra Putin e Trump? No. Tra Russia e America? No. Tra due pazzi? No. Tra le maggiori potenze mondiali? No: è stata una chiacchierata tra i soli protagonisti che hanno la potenza di scatenare l’Apocalisse. Chi crede che Trump e Putin si siano parlati per due ore per accordarsi sulla sorte dell’Ucraina o di Gaza si sbaglia. Non sanno nemmeno loro cosa farne e di certo avranno bisogno di molti mediatori e migliori negoziatori per trovare una soluzione.
Tra la fine degli anni novanta e i decenni successivi, però, alcuni policy-makers intravedono con sempre maggiore chiarezza il potenziale strategico della parola antisemita.
Divenuto sinonimo del Male Assoluto, il termine si presta a una varietà di usi funzionali alla politica di chi se ne sente custode e titolare.
Tra questi, come è evidente, i partiti della destra israeliana quasi ininterrottamente al potere dal 1996. Con l’appoggio di istituzioni americane ed europee, i governi israeliani di stampo ultranazionalista si autoproclamano portavoce ufficiali delle vittime dell’Olocausto, discendenti compresi.
Non importa che, degli attuali quindici milioni di ebrei nel mondo, solo sette abbiano scelto di vivere in Israele. Essendo Israele l’unico paese a maggioranza ebraica, la supervisione della Memoria spetta alla sua leadership politica, sostengono.
Nominatisi motu proprio Guardiani della Memoria, rivendicano un monopolio su quell’area del linguaggio che si riferisce ai crimini storici subiti dagli ebrei d’Europa: genocidio, ghetto, lager, pogrom, razzismo, antisemitismo e altre parole affini. Loro soltanto possono autorizzarne l’uso.
Perdere una guerra è un fallimento gravissimo per un governo che, insieme ad altri Paesi occidentali, ha stanziato miliardi, inviato armi e munizioni a uno Stato che non è né membro della NATO né parte dell’Unione Europea. A ciò si aggiunge la scelta di aver fatto la guerra senza averla dichiarata a un Paese come la Russia, da cui l’Italia importava gran parte del gas necessario alla sua economia compromettendo relazioni commerciali e diplomatiche difficilmente risanabili. Questa decisione ha causato un’impennata dei costi interni e aggravato la crisi industriale, con conseguenze dirette su imprese e cittadini i cui effetti resteranno negli anni.
Il governo Meloni ha trascinato l’Italia in un conflitto contro la Russia senza alcuna giustificazione, calpestando la sovranità nazionale e ignorando gli interessi dell’Italia. Per questo motivo, l’intero esecutivo dovrebbe dimettersi per manifesta incapacità di leggere i processi storici e geopolitici, restituendo agli italiani il diritto di esprimersi su quanto accaduto.
Non saranno certo i sondaggi di comodo, che danno Fratelli d’Italia come primo partito per gradimento, a cambiare la realtà: presto i fatti smentiranno ogni narrazione propagandistica. Lo stesso vale per tutte le forze politiche che hanno avallato le scelte autodistruttive di questo governo, il quale, anziché cambiare l’Italia, l’ha ulteriormente affossata, esattamente come i suoi predecessori.
Gli sconfitti piangono sul latte versato. Dopo aver trascinato a capofitto le nazioni ed i popoli europei in una proxy war suicida in cui l’Europa aveva tutto da perdere, dalla rilevanza geopolitica alle importazioni di risorse strategiche, dal commercio estero alle più basilari conquiste democratiche e illusioni liberali, i leader europei sono esterrefatti: hanno perso su tutta la linea.
La partita in Ucraina non è ancora chiusa, ma alcuni obiettivi strategici del morente blocco occidentale sono clamorosamente falliti:
Impressionante come le classi dominanti della Ue, completamente spiazzate dall’azione politica di Trump, cerchino in tutti i modi di continuare a prendere in giro i popoli europei. E’ infatti evidente che uno degli effetti dell’azione di Trump è quello di rendere evidente che le élite europee – e Usa – hanno preso in giro i propri popoli raccontando bugie per anni e a reti unificate. Alla faccia dei tanto sbandierati fact checking, la cosa che emerge è che non solo qualche episodio ma la completa narrazione propagandata per anni era completamente falsa. Difficile fare una classifica tra chi continua a difendere le bugie più grandi, ma certo Meloni si è fatta notare.
Dice Meloni: “Se oggi si tratta è perché abbiamo difeso Kiev e la libertà”. In altri termini Meloni sostiene che oggi la Russia è “obbligata” a una trattativa perché le armi fornite dall’occidente all’Ucraina hanno permesso a questa di difendersi e di fermare il nemico. Si tratta di una bugia storica di dimensioni clamorose. Come ha rivelato Stoltenberg, l’ex presidente della Nato, la Russia propose di fare un accordo a fine 2021, in modo da evitare la guerra. Un accordo in cui ovviamente veniva previsto che l’Ucraina non entrasse nella Nato. I paesi occidentali – governo Draghi compreso – rifiutarono ogni trattativa non prendendo nemmeno in considerazione la proposta della Russia che avrebbe evitato la guerra.
Giovanna Melia: Stalin e le quattro leggi generali della dialettica
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Istruzioni per l’uso per ragionare sulle ragioni dell’affermazione delle destre in Occidente e in Germania. Il rappresentante della sinistra alla moda non desidera essere definito socialista, neppure nell’accezione socialdemocratica. Si considera cittadino del mondo senza troppi legami con il proprio paese
«Sinistra era un tempo
sinonimo
di ricerca della giustizia e della sicurezza sociale, di
resistenza, di rivolta contro la classe medio-alta e di
impegno a favore di coloro che non
erano nati in una famiglia agiata e dovevano mantenersi
con lavori duri e spesso poco stimolanti. Essere di
sinistra voleva dire perseguire
l’obiettivo di proteggere queste persone dalla povertà,
dall’umiliazione e dallo sfruttamento, dischiudere loro
possibilità
di formazione e di ascesa sociale, rendere loro la vita
più facile, più organizzata e pianificabile». […]
Un libro scandaloso
Credo che i lettori non faranno fatica a condividere questa descrizione proposta da Sahra Wagenknecht nel primo capitolo del suo libro. Questa descrizione è anche il miglior punto di partenza per introdurre quelle che ritengo siano le tesi principali di questo testo, quelle che lo rendono un libro importante e opportunamente scandaloso.
Un tempo la sinistra era questo, in effetti. E oggi? Oggi le cose sono parecchio cambiate. Se un tempo al centro degli interessi di chi si definiva di sinistra vi erano problemi sociali ed economici, oggi non è più così.
Adesso, osserva l’autrice, «l’immaginario pubblico della sinistra sociale è dominato da una tipologia che definiremo da qui in avanti sinistra alla moda [l’originale tedesco è Lifestyle-Linke, letteralmente ‘sinistra dello stile di vita’], in quanto chi la sostiene non pone più al centro della politica di sinistra problemi sociali e politico-economici, bensì questioni riguardanti lo stile di vita, le abitudini di consumo e i giudizi morali sul comportamento […]. È convinto che lo Stato nazionale sia un modello in via di estinzione e si considera cittadino del mondo senza troppi legami con il proprio paese». Il rappresentante della sinistra alla moda non può – né desidera – essere definito un “socialista”, neppure nell’accezione socialdemocratica del termine: semmai un liberale di sinistra.
«Siamo entrati, sembriamo non volerlo
comprendere, in una fase della storia inedita e
pericolosa» scriveva Walter Veltroni sul
Corriere della sera l’8 febbraio di quest’anno. Un
giudizio che condividiamo appieno. Ma in che senso è
inedito e pericoloso,
perché e innanzitutto per chi?
Partiamo, come sempre dai fatti per cercare di capire cosa sta succedendo realmente e di cosa ci dobbiamo aspettare. Due sono le questioni in primo piano: la crisi in Medioriente e quella in Ucraina, con risvolti storici tempestosi.
Diciamo fin da subito che lo spettacolo piuttosto indecoroso che stanno offrendo le cancellerie occidentali sull’Ucraina è degno della “migliore” tradizione del liberalismo occidentale: partire lancia in resta quando la storia gonfiava le sue vele e arretrare vergognosamente senza volerne ammettere l’evidenza.
Cerchiamo di chiarire di cosa parliamo: è acclarato che l’Occidente nel suo insieme, causa la crisi storica del modo di produzione capitalistico che non riesce più a far ripartire l’accumulazione, aveva deciso, scegliendo Kiev come testa d’ariete per provocare la Russia, attirarla in una guerra, batterla, smembrarla e stravincere la Guerra fredda, gestire le sue risorse energetiche e tentare di riprendere il controllo della dominazione imperiale ormai in declino. Detto altrimenti una sorta di una nuova Israele più a est. Si trattava di un passaggio obbligato per cercare di recuperare un rapporto con il resto del mondo, l’Asia in modo particolare che la sta sopravanzando nella concorrenza e in particolare per quanto riguarda la produzione e l’approvvigionamento di quelle materie prime e di quei metalli rari necessari alla nuova industria e alla logistica delle telecomunicazioni, che abbondano appunto in Cina, in America Latina, nel cuore dell’Africa, in Russia e in Ucraina e perfino in Groenlandia e di cui sono sprovvisti le nazioni avanzate dell’Occidente e gli Stati Uniti. Dunque un potere capitalistico in affanno che aveva già alle spalle una serie di sconfitte a cominciare dal Vietnam per finire alla fuga precipitosa dall’Afghanistan oltre all’odio guadagnato in gran parte del resto del mondo per i suoi comportamenti gangsteristici.
Abstract: Nel dibattito prevalente sulle determinanti dei conflitti militari, sembra mancare un'indagine sulle possibili cause ‘materiali’ tra i fattori che alimentano gli odierni venti di guerra. In particolare, occorre valutare quanto contino gli squilibri nelle relazioni commerciali e finanziarie, le tendenze verso la centralizzazione dei capitali e le relative svolte nell’ordine economico globale dal libero scambio al protezionismo. Un dialogo tra il Governatore onorario della Banca d’Italia Ignazio Visco e l’economista Emiliano Brancaccio, promotore dell’appello su “le condizioni economiche per la pace”.
Paola Nania -
Lo scopo di questo dibattito è di
approfondire e discutere "le condizioni economiche per
la pace”: è il titolo del
libro che ha ispirato questa iniziativa ed è il tema
partito dall’appello che il professor Brancaccio, con
Lord Skidelsky e altri
studiosi, ha pubblicato nel 2023 sul Financial
Times e Le Monde e che è stato ripreso dal
Sole 24 Ore e da molte
altre testate. Nel 2022 è iniziata la guerra in
Ucraina, l’anno successivo è riesploso il conflitto in
Palestina e
in Medio Oriente e i teatri di guerra continuano
purtroppo ad allargarsi nel mondo. Secondo la tesi del
professor Brancaccio e dei suoi coautori, uno
dei problemi di questa fase storica è che nella
riflessione collettiva manca un approfondimento sulle
contraddizioni ‘economiche’
alla base delle attuali tensioni militari e sulla
cooperazione necessaria per superarle. Ne discutiamo con
gli ospiti di questo incontro e soprattutto
con l’ex Governatore e attuale Governatore onorario
della Banca d’Italia Ignazio Visco, che si è spesso
soffermato sui grandi
problemi della cooperazione internazionale nei ruoli di
vertice che ha ricoperto durante la sua lunga carriera
istituzionale. Iniziamo allora questo
dialogo con una domanda al professor Brancaccio: quali
sono, a suo avviso, gli inneschi economici delle odierne
tensioni internazionali?
Emiliano Brancaccio - Prima di rispondere vorrei ringraziare coloro che hanno reso possibile questa iniziativa: l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici che ci ospita, il presidente onorario dell’Istituto e Rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari, il direttore studi dell’Istituto professor Geminello Preterossi dell’Università di Salerno.
La polemica aperta dalla portavoce del Ministero degli Esteri russo Zacharova nei confronti del discorso del Presidente della Repubblica italiana Mattarella all’Università di Marsiglia, per i parallelismi storici tra la Russia di oggi e il Terzo Reich, si è allargata al confronto tra accademici grazie a un’ampia e argomentata intervista al “Fatto quotidiano” di Luciano Canfora, cui ha replicato prontamente Piero Graglia, ordinario di Studi internazionali alla Statale di Milano, già candidato al Parlamento Europeo per il Partito Democratico.
Premetto che a mio giudizio il nodo della polemica Zacharova-Mattarella non riguarda tanto le politiche di appeasement delle potenze occidentali nei confronti del nazismo – di cui il patto di Monaco costituì il momento culminante – quanto piuttosto l’utilizzo strumentale del riferimento per criticare, come fosse un segno di debolezza, l’apertura statunitense alle trattative con la Russia per una soluzione negoziata della guerra in Ucraina. Non a caso il gotha politico nostrano si è ritrovato unanime, dalla Meloni alla Schlein, nell’elevare alte grida, menando scandalo per le critiche al Presidente. Riarmisti e bellicisti fino in fondo!
L'intervista di Daniela Ranieri a Luciano Canfora[1] contiene spunti di riflessione preziosi. Avanziamo qui alcune osservazioni alle critiche di Graglia, il quale coprendosi con attestazioni compiacenti tenta di screditare nella sostanza l’intervento di Canfora [2].
Sollecitata dal
sudafricano Elon Musk
a fornire risposte emotive e avventate e dalla
velenosa provocazione britannica sul “malato
d’Europa”, la Germania ha reagito con
un’altissima partecipazione al voto (84%) e una
indicazione di stabilità. Ma il neomercantilismo
tedesco è comunque finito. A
volte un sigaro è solo un sigaro, ma qualche volta è
qualcos’altro, ha detto un giorno Sigmund Freud. A
volte un risultato
elettorale è solo un risultato elettorale, ma il voto
tedesco di domenica 23 febbraio, svoltosi esattamente
a distanza di tre anni
dall’inizio della “operazione militare speciale” di
Vladimir Putin, è molto di più. È qualcos’altro. Ed
è di questo qualcos’altro che si occupano, da diversi
punti di osservazione, i diversi e ricchi contributi
di questo numero di
fuoricollana. Della caduta di un modello politico,
economico, sociale, costituzionale. Fine ancora più
esemplare in quanto coincide (ma non si
tratta di mera coincidenza) con il definitivo
esaurimento fine dei due ordini – l’ordine del New
deal e l’ordine neoliberale –
che hanno retto nell’ultimo secolo gli Usa e grande
parte del mondo occidentale. Il nuovo ordine sta
nascendo sulle ceneri dei due precedenti ed
è per questa ragione che non troviamo ancora la parola
giusta per definirlo, se non quella approssimativa di
“ordine del caos”. Un
ordine del caos – la cui icona è Trump – che ci parla
di una epocale crisi della funzione progressiva
storicamente svolta dal
capitalismo neoliberale. Quel mondo è finito, ma
senza mettere a tema virtù e i vizi di quel vecchio
mondo capiremo poco di quanto
sta accadendo nel nuovo. Per questo ci riguarda non
solo quanto è avvenuto con le ultime elezioni
americane e subito dopo, ma ci riguarda anche
quanto accade (e quanto non accade) nel Vecchio mondo
europeo e, soprattutto, in Germania. In primo luogo,
perché la Germania, ancora la prima
potenza economica e demografica dell’Ue, è una dei
principali bersagli della guerra commerciale e
tecnologica tra Cina e Usa. Bye Bye
Germany. In secondo luogo, perché il ruolo
della Germania, da sempre decisivo per il processo di
integrazione sovranazionale, era stato
sino a pochi anni fa rafforzato dall’allargamento. Es
war einmal in Deutschland. In terzo luogo,
perché parlare della Germania
significa parlare – per evidenti ragioni storiche,
politiche, economiche – anche dell’Italia. C’era
una volta in
Germania.
«Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto
cambi.»
Tommasi di Lampedusa
Quello che segue è un tentativo del tutto prematuro di ipotizzare la logica d’azione della nuova amministrazione americana; una riflessione sugli eventi dal solo punto di vista del nuovo establishment statunitense. Prematuro perché dovrà essere lo svolgersi degli eventi a chiarire la direzione delle cose, e in parte retrospettivamente illuminare le intenzioni. La superficie delle cose ci dice che, da una parte, l’amministrazione Usa prosegue, esasperandola ulteriormente, la tendenza di fondo neoliberale di svuotare le macchine redistributive e di controllo dello Stato (affidando il compito di macellaio a una nuova agenzia e a un imprenditore senza scrupoli, come il sudafricano Elon Musk); dall’altra sembra condurre una brutale politica estera di radicale revisione dell’impostazione ‘wilsoniana’ prevalente in tutto il Novecento[1]. Accompagna questa doppia lama di forbice una retorica radicalmente ostile all’universalismo progressista, fondata su argomenti presi dal catalogo del conservatorismo tradizionalista.
Si tratta, dunque, di una costellazione di policy ancora apparentemente incoerente, che non può essere ricondotta direttamente allo schema liberali/fascisti (storicamente poi non tanto incompatibili[2]), dal momento che il fascismo storicamente esistito (quello ‘eterno’ lo possiamo lasciare ai fantasmi della propaganda) è sempre stato iperaccentratore e statalista, mentre qui tutto parla di una triplice ritirata.
La nostra ipotesi è che si tratti in sostanza della finale assunzione del fatto che il triplice deficit (bilancio dello stato, bilancia commerciale e saldo finanziario complessivo) è insostenibile ormai nel medio periodo, e la “sconfitta dell’Occidente” di cui parla Todd nel suo libro[3], rende non più sostenibile la sovraestensione imperiale pretesa dagli ultimi governi USA (da Clinton in poi, almeno, democratici e repubblicani).
Questa volta ci
siamo. L’iniziativa di Trump ai colloqui di pace con
la Russia di Putin ha decretato l’estinzione di fatto
dell’Unione Europea come
progetto politico, se mai lo è stato. L’autocelebrato
colosso della civiltà liberale che con i suoi standard
doveva servire da
faro al resto del mondo, è divenuto improvvisamente un
fantasma internazionale.
È bastata la poderosa squilla di un soave twitt (pardon! di un truth) per rompere l’incantesimo. Milioni di europei indotti a credere nel sogno di un’unione dei popoli nel segno della pace, della democrazia e del benessere, si svegliano ora bruscamente nell’incubo a occhi aperti di un diroccato maniero ossessionato dagli spettri ululanti dei politici europei. Ne fornisce un plastico esempio il grido in falsetto di Mario Draghi all’ultimo European Parlamentary Week di Bruxelles, rivolto a chi gli chiedeva cosa sia meglio fare per uscire dall’impasse in cui l’ha ficcata Trump: “Non ne ho idea, ma facciamo qualcosa!”. I competenti hanno parlato, questione chiusa.
Insomma l’UE è appesa a un filo – indecisa se usarlo per ritrovare l’uscita dal labirinto, oppure per impiccarsi. Non è escluso che le due soluzioni convergano, perché “What we call the beginning often is the end” (Eliot).
Dopo il fallimento delle sue politiche finanziarie, economiche, energetiche, sociali e ideologiche, divenuto ormai conclamato con la guerra alla Russia, l’UE non potrà far altro che riqualificare la sua azione nell’unico modo che ha sempre ritenuto necessario adottare in analoghe circostanze di crisi, cioè: radicalizzando le medesime politiche! Non abbiamo dubbi che lo farà, e a maggior ragione, anche questa volta, perché la casta degli euroburocrati che l’amministra per conto terzi semplicemente non ha scelta. Devono troppo a chi li ha nominati dalle segrete “cabine di regìa” al loro ruolo di serventi dorati. Il World Economic Forum non può cambiare il proprio programma di governo, ma al più rimodularlo intensificandolo. Esso segue da sempre un’unica agenda, fatta esclusivamente di continue emergenze tra loro collegate che la rendono in sé totalitaria e perciò inemendabile, pena la totale crisi di credibilità di chi la promuove.
Leggenda vuole che Michelangelo, pur contento della sua riproduzione dell’umano Mosè, abbia alla fine scagliato il martello contro la statua che pur perfetta “non parlava”, non era pienamente umana.
I discorsi che si fanno su quello che dovrebbe fare o non fare geopoliticamente l’Europa hanno la stessa surrealtà. La statua non parlava perché non era umana, era di marmo. L’Europa non agisce geopoliticamente con raziocinio perché non è un soggetto geopolitico, è una confederazione nata e sviluppata su logiche economiche e commerciali. L’Europa non è “uno” stato e in storia non si rinvengono soggetti geopolitici che non siano stati (regni, imperi, principati o altro). Non è uno stato, né potrà mai esserlo poiché gli stati hanno base, pur imperfetta, in una popolazione che mostra alcune omogeneità culturali su basi geo-storiche che i 27 paesi europei non hanno.
L’assurdo culturale del dibattito su questo argomento è spesso l’assenza totale di competenza.
Sul problema di “parlare con una voce sola” che presuppone una mente sola e un corpo solo, cioè un soggetto ontologicamente inteso (cioè, un unico stato giuridicamente fondato come tale), si è espresso l’altro giorno Draghi. Qualche giorno fa si era espresso a mezza bocca anche Prodi, riconoscendo che il processo dell’allargamento dell’UE ha importato eccessiva eterogeneità disordinante.
1. Il “modello
americano”
e la crisi della globalizzazione
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno attraversato due fasi: la fase della “guerra fredda” con l’Unione Sovietica e il campo socialista (1947-1991) e la fase del mondo unipolare (1991-2024). Nella prima, gli Stati Uniti si confrontavano alla pari con l’Unione Sovietica, mentre nella seconda hanno completamente sconfitto l’avversario e sono diventati l’unica superpotenza politico-ideologica e militare di dimensioni mondiali. Il capitale finanziario, dotato di tutte le opportune ramificazioni nei partiti e in altre istituzioni, ha così assunto il ruolo di guida di una strategia di dominio mondiale. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, questo dominio si è rivestito di un’ideologia di sinistra liberale fondata sulla combinazione fra gli interessi del grande capitale internazionale e una cultura individualista di taglio ‘progressista’: ideologia che ha trovato la sua piena espressione politica nel Partito Democratico statunitense.
A questo punto, sembrava che tutti i paesi del mondo avessero adottato, nella loro concreta articolazione di Stati e di società, il modello americano: democrazia politica rappresentativa, economia di mercato capitalista, ideologia individualista e cosmopolita dei diritti umani, tecnologia digitale, cultura postmoderna incentrata sull’Occidente. Tuttavia, fin dai primi anni Novanta, tra gli intellettuali americani si manifestarono posizioni che ponevano in luce il carattere mistificante e illusorio di questa visione. Tali posizioni trovarono un’espressione incisiva nell’analisi di Samuel Huntington, il quale previde come inevitabili lo “scontro delle civiltà”, il rafforzamento del multipolarismo e la crisi della globalizzazione incentrata sull’Occidente capitalistico. 1 Partendo da queste premesse, il politologo statunitense elaborò il progetto di una riforma, per così dire di stampo “dioclezianeo”, dell’Impero, sostenendo che l’identità americana dovesse essere rafforzata piuttosto che indebolita e che gli altri paesi occidentali dovessero essere uniti nell’ambito di un’unica civiltà occidentale, non più globale ma regionale. 2
Gli Stati Uniti
riconoscono gli errori
compiuti con la Russia e li attribuiscono alla
precedente amministrazione mentre l’Europa sembra non
comprendere la necessità di
correggere la strategia fallimentare adottata fino a
ora. Infatti le conseguenze del vertice in Arabia
Saudita tra il segretario di Stato americano
Marco Rubio e il ministro degli Esteri russo Sergei
Lavrov stanno scatenando scalpore e panico in Europa.
Un incontro definito da entrambe le delegazioni utile e proficuo e benché non siano emersi molti dettagli è apparso chiaro che le due superpotenze sembrano intenzionate ad accordarsi e a trovare intese che vanno ben oltre la conclusione del conflitto in Ucraina.
Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. “La conversazione, credo, è stata molto utile. Non ci siamo solo sentiti, ma ci siamo ascoltati a vicenda, e ho ragione di credere che la parte americana abbia capito meglio la nostra posizione”.
Da quanto emerso, come riportato sui siti internet dei ministeri degli Esteri di Russia e USA, verranno riattivate le relazioni le missioni diplomatiche (Washington ha già presentato le credenziali di un novo ambasciatore) e la priorità per i gruppi di lavoro russo-americani sembra essere più la ripresa delle relazioni commerciali ed economiche che non arrivare al più presto a concludere un accordo per far cessare il conflitto ucraino, di cui verranno informati (ma non coinvolti) anche ucraini ed europei.
Parte del dialogo in corso, ha detto Rubio, è incentrato “sull’assicurarsi che le nostre missioni diplomatiche possano funzionare”, per far ripartire relazioni diplomatiche “vibranti”. Per il segretario di Stato sarà importante “identificare le straordinarie opportunità esistenti qualora questo conflitto giunga a una conclusione accettabile… per collaborare con i russi in termini geopolitici, su questioni di interesse comune, e francamente anche sotto l’aspetto economico”.
Trovare un’intesa per chiudere il conflitto è “essenziale affinché sia possibile lavorare insieme su altre questioni geopolitiche di interesse comune, e naturalmente su alcune partnership economiche piuttosto uniche, potenzialmente storiche”.
L’Unione Europea è oggi
ai ferri corti con Trump perché in surplus rispetto
agli USA di più di 50 miliardi di euro, e anche nei
confronti del resto del mondo, a
causa delle sue politiche economiche mercantiliste
ordoliberiste. Gli squilibri commerciali tra
importazioni ed esportazioni esistono anche
all’interno dell’eurozona.
Pur di mantenere questi surplus, i paesi dell’eurozona hanno attuato svalutazioni interne, mantenendo bassi i salari, riducendo lo stato sociale e gli investimenti pubblici anche a costo di danneggiare, come continua a succedere, la domanda interna. La deflazione salariale causata dall’euro ha, infatti, ulteriormente ridimensionato il mercato interno europeo. Questo ha generato una bilancia commerciale sbilanciata, favorendo i paesi in attivo e penalizzando quelli in difficoltà. La necessità di privilegiare le esportazioni è resa necessaria dal bisogno di valuta estera con la quale continuare a onorare il servizio al debito pubblico, obiettivo raggiunto grazie anche agli avanzi primari realizzati ormai da trent’anni a questa parte dal nostro Paese.
I surplus commerciali, in particolare quelli della Germania, hanno portato a spostamenti di capitali dai paesi in surplus a quelli in deficit, aggravando la povertà di nazioni come la Grecia, costretta a risarcire i suoi debiti svendendo i suoi asset. È necessario, finalmente, riconoscere i rischi legati a questi spostamenti di capitali e introdurre correttivi per affrontare la situazione.
Dopo il secondo conflitto mondiale, a risollevare l’Europa Occidentale dalle macerie della guerra più che il piano Marshall fu l’Unione Europea dei Pagamenti (UEP), attiva dal 1950 al 1958, presieduta da Guido Carli. Essa fu mutuata dal sistema dei pagamenti proposto a Bretton Woods nel ’44 da J.L.M. Keynes [1].
Per quanto meno frequentemente di un tempo, si possono ancora trovare ogni tanto, nelle stazioni o in altri luoghi affollati, alcuni prestidigitatori di strada che invitano il pubblico al gioco dei tre bussolotti. Si inserisce una biglia sotto uno dei tre recipienti opachi (bicchieri, coppette, ecc.) presenti sul tavolo e poi si invitano gli astanti a indovinare alla fine di una serie di manipolazioni rapide, dove si trova la biglia.
Ecco, questa è la condizione in cui si trovano oggi, e da tempo, i cittadini italiani (europei, ma soprattutto italiani) quando si tratta di valutare la politica nazionale. Noi ci possiamo affaticare a discutere di crisi finanziarie, di pandemie letali, di invasioni militari, di diritti umani, degli eterni valori della libertà e della giustizia, di 73 generi, di un sacco di cose appassionanti, e questo è il moto vorticoso dei bicchieri sulla tavola. Ma la difficoltà sta tutta nel mantenere l’occhio sulla posizione della pallina, perché quando la perdi di vista, il banco vince inesorabilmente. E qual è la pallina? Qual è il minimo comune denominatore di tutti gli scoppiettanti caleidoscopici eventi che ci vengono fatti balenare sotto gli occhi?
Se c’è una crisi finanziaria come la crisi subprime, scopriamo che ci sono sistemi bancari troppo grandi per fallire e che, sciaguratamente, dobbiamo ripianare i loro debiti con i vostri soldi – dopo tutto a commettere investimenti azzardati sono state alcune mele marce.
Non si può escludere in assoluto che dietro le esternazioni di Trump vi sia qualcosa di simile a una strategia, però al momento nulla lo conferma; semmai certi eccessi comunicativi farebbero sospettare il contrario. L’approccio dell’amministrazione Trump infatti presenta evidenti affinità con quelle tecniche di management per le quali ogni nuovo dirigente di un’azienda tende immancabilmente a presentare la sua persona come la cesura e il ponte tra un’epoca oscura di apatia, corruzione e incompetenza, e una nuova era di luminosi destini. I toni messianici e palingenetici fanno parte ormai del comune bagaglio comunicativo di qualsiasi dirigente di SpA, di ASL, di municipalizzata o di istituto scolastico, così come ne fanno parte la tendenza a insolentire i dipendenti e a trattarli come parassiti, le promesse di drastici repulisti e gli annunci di un caos rigeneratore. D’altra parte il caos non sempre riesce a prevalere sulla routine, per cui le aziende vanno avanti nonostante i loro dirigenti.
Assodato che il salvatore dell’umanità è il tipo più comune di essere umano, si potrebbe persino supporre che le attuali “vittime” di Trump stiano esagerando la sua minaccia e la sua presunta anomalia per accreditare a loro volta l’avvento di qualche altro messia designato a gestire la nuova emergenza e a scongiurare la solita catastrofe incombente. Il mantra attuale è che la politica dei dazi di Trump stia facendo saltare il modello “mercantilista” dell’Unione Europea; un modello basato sul primato delle esportazioni rispetto al mercato interno.
Slobodian è uno storico
canadese, già autore dell’ottimo Globalist. La
fine dell’impero e la nascita del neoliberismo
(Meltemi 2021), qui in
indagine sull’evoluzione del sistema ideologico di
certo capitalismo anglosassone ovvero
l’anarco-capitalismo. Titolo originale
dell’opera: Crack-Up Capitalism: Market Radicals
and the Dream of a World Without Democracy che
ha il merito di chiarire subito il
punto centrale della questione: un mondo dominato dal
mercato e il capitale, libero da ogni residua forma di
democrazia.
La forma economica capitalistica sappiamo essere presente in vari modi e intensità nell’intera storia umana incluso il tardo medioevo italiano che creò e raffinò gran parte degli elementi di questa forma economica. Ma solo quando si impossessò dello stato con la Gloriosa rivoluzione inglese del 1688-89, cominciò a diventare sia la forma completa che conosciamo, sia l’unica forma di economia ammessa. Dopo quasi due secoli e mezzo, Il Regno Unito arrivò ad accettare il pieno suffragio universale della forma di rappresentanza parlamentare che diciamo impropriamente “democrazia”. Dopo guerra e dopoguerra, inizia il fastidio delle élite per questa pur imperfetta forma di “democrazia”, precisamente dagli anni ’70 e le prime teorizzazioni dei think tank americani, dalla Trilaterale di Samuel Huntington in giù. A seguire, la versione con sempre meno politica ovvero democratica e sempre più dittatura prima della mano invisibile, poi del capitale finanziario detta “neo-liberismo”. L’anarco-capitalismo è la radicalizzazione ulteriore che, come da titolo originale del libro di Slobodian, sogna un mondo totalmente libero dai vincoli sociali e politici ovvero una monarchia o aristocrazia del capitale.
Tale ideologia anarco-capitalista non va presa come un canone ferreo ma come una costellazione di concetti, ispirazioni e tendenze. Può darsi che, a parte i teorici deputati a disegnare mondi di perfezione logica poco realistici che hanno il fascino dell’ideale, alcuni elementi possano essere usati per applicazioni parzialmente diverse ma concrete come sta facendo e sempre più farà Donald Trump. Vale dunque la pena di vedere cosa dice l’indagine di Slobodian.
Non è
ironico? Non credete? Un centinaio di aziende
di veicoli elettrici sono fiorite sotto il
comunismo, mentre il capitalismo sovvenziona uno
spaccone che produce quattro veicoli e un
fermacarte. Una start up ha addestrato
un'intelligenza artificiale per 5,5 milioni di
dollari sotto il
comunismo, mentre l'intelligenza artificiale del
capitalismo richiede 500 miliardi di dollari di
aiuti governativi. Tutto ciò che i
capitalisti vi hanno detto sul capitalismo erano solo
stronzate per vendervi altro capitalismo. Il comunismo
è in realtà molto
più innovativo del capitalismo. Fanno di più con meno,
e per scopi migliori.
Lunga e forse inutile digressione storica
La grande potenza tecnica del comunismo era in realtà nota fin dall'inizio. Russia e Cina si sono industrializzate nel giro di una generazione. Nessuna nazione si è mai sviluppata più velocemente o in misura maggiore, un miracolo economico che la maggior parte degli economisti occidentali ha ignorato, perché il comunismo è un male, STFU [zitto, stronzo!]. La capacità produttiva del comunismo è stata screditata perché l'intera faccenda sembrava crollare con la fine dell'Unione Sovietica, ma non era tutto. Come ha detto Xi Jinping nel 2018:
Lo sviluppo storico non è mai rettilineo, ma pieno di colpi di scena. Alla fine degli anni '80 e all'inizio degli anni '90, il crollo dell'Unione Sovietica, la caduta del Partito Comunista dell'Unione Sovietica e i drammatici cambiamenti nell'Europa dell'Est non solo hanno portato alla scomparsa dei primi Paesi socialisti e dei Paesi socialisti dell'Europa dell'Est, ma hanno anche avuto un grave impatto sul gran numero di Paesi in via di sviluppo che aspiravano al socialismo, e molti di loro sono stati costretti a prendere la strada di copiare il sistema occidentale.
I discorsi di Hegseth e Vance, e le esternazioni di Trump su Zelensky, provocano un terremoto nelle relazioni tra USA ed Europa, mettendo a nudo verità troppo a lungo taciute
C’è voluta una ventina di
giorni, dopo l’insediamento di Donald Trump alla Casa
Bianca, perché i contatti fra la Russia e
la nuova amministrazione si mettessero in moto.
Ma quando il presidente americano (dopo una seconda telefonata al suo omologo Vladimir Putin, questa volta confermata dal Cremlino) ha annunciato l’immediato avvio dei negoziati per risolvere la guerra ucraina, ai leader europei è cominciata a mancare l’aria.
La vera doccia fredda è arrivata però dal segretario alla Difesa Pete Hegseth, il 12 febbraio, in occasione dell’incontro del Gruppo di Contatto che riunisce i paesi che sostengono l’Ucraina.
Egli ha affermato che Trump intende porre fine a questo devastante conflitto ormai prossimo al suo terzo anniversario, giungendo a una pace duratura sulla base di una valutazione realistica del teatro di guerra.
Partendo da questa premessa, Hegseth ha aggiunto che:
1) Ritornare ai confini dell’Ucraina precedenti alla crisi del 2014 è irrealistico (dunque Kiev dovrà fare importanti concessioni territoriali);
2) l’adesione dell’Ucraina alla NATO non è un obiettivo perseguibile;
3) ogni eventuale garanzia di sicurezza all’Ucraina dovrà essere fornita da truppe europee e non europee, a esclusione di quelle americane;
4) qualora vengano dispiegate forze di interposizione in Ucraina, esse non faranno parte di una missione NATO e non saranno coperte dall’articolo 5 dell’Alleanza;
Incontro-dibattito sul libro Intelligenze artificiali e intelligenze sociali di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2024), presso il Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, Milano, 29 settembre 2024
La tecnica e
il sociale non vanno confusi: la
tecnica è lo strumentale e lo strumentale funziona
in modo diverso dalla vita. Renato Curcio aggiunge
un altro tassello al suo percorso di
ricerca
Questo libro è il seguito di un percorso di ricerca che faccio dal 2015, quindi da un po’ di anni, sul rapporto tra il vivente e lo strumentale, cioè tra le tecnologie nel senso generale del termine - le macchine - e l’umano, come momenti di un tipo di società, quella capitalistica, che sempre più li incrocia e li ibrida. Dopo il periodo della digitalizzazione, quindi di un capitalismo che era passato dal macchinismo industriale a una più complessa tecnologia digitale - che già aveva cambiato moltissime modalità di lavorare ma anche di entrare in relazione - con l’intelligenza artificiale si è fatto un passo ulteriore. Un passo che è stato guardato, da una parte con la curiosità che spesso caratterizza la grande stampa, una curiosità legata alla pubblicità, per cui si parla molto di una certa tecnologia perché questo la promuove - ed è il caso di dispositivi come ChatGPT, che a un certo punto viene immesso nel mercato e nel consumo un po’ come era stato fatto, a suo tempo, coi social network, mitizzandone le potenzialità, le caratteristiche, le prospettive ecc. -; d’altro canto è tuttavia anche vero che, al di là delle mitizzazioni propagandistiche, queste tecnologie progressivamente non solo hanno cambiato, e stanno cambiando, il nostro modo di vivere, ma lo stanno facendo molto velocemente e profondamente, mentre non cambia la nostra capacità di entrare in relazione consapevole con questi strumenti. Questo libro, quindi, parla e si interessa dell’intelligenza artificiale in relazione all’immaginario, ossia in relazione a uno dei problemi di fondo del cambiamento sociale, perché nessun cambiamento sociale si è mai prodotto senza che si generasse un immaginario istituente.
Gramsci è conosciuto in tutto il mondo soprattutto per il suo grande contributo relativo al concetto di egemonia: sostanzialmente in che modo le classi sociali - e soprattutto quelle che hanno il potere, quindi che si collocano in una situazione di forza rispetto alle altre - costruiscono la cattura dell’immaginario dei cittadini, con quali strumenti li portano a sé; in breve, come esercitano il loro dominio.
«Quando mi chiedete cosa sia meglio fare ora, io dico che non ne ho idea. Ma fate qualcosa!». Pochi fatti alla pubblica opinione appaiono più sconcertanti di una nuda manifestazione di impotenza del potere. Eppure questa è la prova che Mario Draghi ha dato al parlamento Ue.
Il celebrato gendarme della moneta unica ha messo l’emiciclo di Bruxelles dinanzi a una prospettiva ormai tangibile: la morte dell’Unione europea, afflitta da una letale paralisi nel mezzo della guerra economica mondiale in corso.
Draghi ha iniziato il suo intervento con una sofferta confessione: redatto da appena pochi mesi, l’osannato rapporto sulla competitività che porta il suo nome è già obsoleto.
Il documento era stato scritto per suggerire all’Unione un nuovo modo di interpretare l’alleanza con gli Stati uniti, così da rendere il capitalismo occidentale più forte e più unito nel fronteggiare l’ascesa della Cina. Ma adesso che l’attacco principale all’Ue viene dalle sponde dell’America, il papello draghiano appare improvvisamente ingiallito.
Draghi ammette il problema.
Il ritorno di Trump alla Casa bianca segna il tentativo del capitalismo americano di scaricare la crisi del debito in primo luogo sugli alleati europei. L’obiettivo della nuova amministrazione Usa è di consentire alle imprese del vecchio continente di accedere al grande mercato americano solo a condizione che i paesi Ue paghino caro pegno.
Terre rare, materie prime, il dollaro come valuta di riferimento, porte spalancate ai capitali americani e i risparmi nazionali dritti dritti nei portafogli di società Usa. In meno di una riga di post, il neo-presidente, attaccando l’omologo ucraino, ha riassunto la dottrina che gli Stati Uniti hanno seguito per anni. L’Europa balbetta, proponendo solo nuova austerità e corsa al riarmo. L’analisi di Alessandro Volpi
C’è un passaggio del violentissimo post di Donald Trump contro Volodymyr Zelensky che sembra sia sfuggito a molti. Il neo-presidente statunitense ha sottolineato con forza il fatto che Zelensky abbia convinto Joe Biden a spendere 350 miliardi di dollari “senza garanzie”.
Ora, al di là dell’indicazione di una cifra chiaramente superiore alla realtà, il vero tema contenuto in queste parole è costituito proprio dal riferimento all’assenza di “garanzie”. Il messaggio di Trump è molto esplicito: gli Stati Uniti non possono “spendere senza garanzie” che sono individuabili nella fornitura di materie prime, a cominciare da quelle più strategiche, come le terre rare, dall’importazione di prodotti americani, dall’uso del dollaro come valuta di riferimento, dall’accettazione della penetrazione dei capitali americani e dalla destinazione dei risparmi nazionali verso le società e il debito Usa.
Trump in meno di una riga definisce e riassume la dottrina che gli Stati Uniti hanno seguito per anni, nascondendola dietro il fariseismo del capitalismo liberale. Come ha dichiarato il suo vice, J. D. Vance, c’è un nuovo sceriffo in città che intende fare a meno della fin troppo a lungo coltivata finzione delle regole.
Bit Truth = contenuto "estratto" in rete (come i Bitcoin). Può essere anche “verità fake” ma se fa audience è comunque buona per inserire pubblicità
Nota –
Come si potrà notare in questo articolo non è stato
menzionato il tema della
censura che le Global Power Élites occidentali
esercitano utilizzando argomentazioni e strumenti di
controllo ambigui quali le Norme della
Comunità nel caso dei Social o le nuove norme
contenute nel Digital Services Act. Stavolta ho
scelto di trattare questioni proprie della
Verità dal punto di vista ontologico, del Monopolio
tecnico e dell’uso commerciale.
* * * *
Purtroppo la stragrande maggioranza degli occidentali ritiene che esistano azioni e pensieri tali da realizzare “il Meglio Assoluto” per Tutti. Vedi, per esempio, le affermazioni di Yuval Noah Harari o le dichiarazioni della NATO. Da questa idea perversa di Monopolio della Verità derivano scontri, agguati, omicidi e guerre senza fine, combattute per affermare un concetto infantile: “la mia VERITÀ è meglio della tua”…quasi sempre a prescindere poi dagli effetti, dai “frutti generati”.
Affermare VERITÀ e imporle ad Altri conferisce e consolida l’Egemonia di Chi lo fa e pertanto le Élites lo fanno, ogni volta che possono…da sempre. Ovviamente queste Élites dominanti sanno anche molto bene che gli Opposti si esprimono in una dinamica continua tra loro e talvolta addirittura convivono, ma non ne vogliono tener conto. Sanno che c’è Yin e Yang; che “ogni medaglia ha il suo rovescio”; che il Mercato si fa con il mix di offerta/domanda e quindi c’è la Compravendita e non solo l’Acquisto o la Vendita…sanno che ogni Debito è anche un Credito e che ogni Difesa è anche un Attacco e così via.
Eppure le Cupole dominanti, ostinatamente, dal declino del Politeismo in poi, CREDONO o per lo meno FANNO CREDERE FERMAMENTE che esistano VERITÀ in assoluto migliori di altre interpretazioni della Realtà, che sia essa visibile o invisibile.
Il Dipartimento
Formazione di
Resistenza Popolare segnala come contributo al
dibattito la traduzione in italiano di questo
corposo saggio di John Bellamy Foster, pubblicato il
1° novembre 2024 sul sito della Monthly Review con
il
titolo The New Denial of Imperialism on the
Left (sul cartaceo è uscito sul n° 6 del
volume 76).
Si segnala che, per ragioni organizzative non è stato tradotto il ricco impianto di note (ben 116) che correda il testo dandogli un impianto scientifico.
Il valore del lavoro di Bellamy Foster consiste a nostro avviso in tre aspetti fondamentali:
1. offrire un resoconto molto dettagliato di come sia evoluta nell’ambito del marxismo eterodosso occidentale la teoria dell’imperialismo; si tratta di temi su cui c’è scarsissima cognizione in Italia, dove negli ambienti della sinistra occidentale il trionfo del totalitarismo “liberale” ha portato a dimenticare perfino gli aspetti fondamentali della stessa analisi leninista. A quanto ci dice Bellamy Foster stesso, non manca comunque anche tra molti “intellettuali” una certa diffusa ignoranza di fondo di tali fondamentali teorici.
2. Bellamy Foster prende posizione a favore di quegli intellettuali, come Samir Amin, che hanno ribadito l’attualità del paradigma imperialista in connessione con il persistente fenomeno definito “neocolonialismo” dagli studiosi liberali, ricordando meritoriamente il filo rosso che lega queste analisi con il marxismo e il leninismo. Oltre a ribadire i meriti storici del movimento comunista internazionale, che è stato il pilastro della lotta antimperialista dell’ultimo secolo, viene giustamente riaffermata l’attualità della questione antimperialista correttamente intesa.
È un momento propizio per la filosofia. Non intendo per filosofia gli “studi filosofici”, sempre più marginalizzati nelle nostre Università, ridotti, nel migliore dei casi, a elemento decorativo o, peggio ancora, confusi con la brillante soluzione di rompicapo linguistici. Questa filosofia antiquaria e/o analitica è ancora tollerata solo perché la sua inoffensività è evidente. Intendo piuttosto la filosofia come potenza instaurativa di un mondo comune, come discorso capace di creare il reale che descrive, intendo la filosofia come prassi trasformativa dell’esistenza individuale e di quella collettiva. Nella citatissima undicesima tesi su Feuerbach, Marx non liquidava affatto la filosofia, contrapponendole la prassi rivoluzionaria, ma le chiedeva una assunzione di responsabilità: da interpretazione di uno stato di cose dato, doveva diventare principio di un cambiamento reale dello stato di cose. In tal modo la filosofia avrebbe riguadagnato la sua autentica originaria natura: le “idee” dei filosofi sono infatti mera “ideologia” fintantoché si limitano a descrivere, diventano invece potenze quando, conformemente all’etimo della parola “idea”, si fanno schemi dell’azione possibile, macchine semi-automatiche che producono effetti sensibili.
Se per la filosofia il momento è propizio lo si deve alla lucidità di cui hanno dato prova coloro che vogliono inaugurare una nuova narrativa, populista, sovranista e cripto-fascista.
In questi ultimi
tempi siamo entrati nell’ottica di un necessario
riarmo europeo, introdotti qualche settimana fa dal
“Meno Europa più
libertà” di Matteo Salvini al raduno dei “patrioti”
alla periferia di Madrid. Sono gli stati dunque a
legittimare
l’Europa, (quale Europa per altro?) e non quest’Europa
indeterminata, o meglio invocata dall’estrema destra,
a legittimare gli
stati, peraltro profondamente ineguali che la
compongono?
L’attualità sembra richiedere lo smantellamento delle istituzioni sovranazionali, se si tifa per l’Occidente, e quindi ci si predispone “liberamente” a un procedere in ordine sparso verso accordi bilaterali, che l’imperialismo del dollaro sta richiedendo con un comando sempre più legato alla persuasione delle armi. Per l’Europa in questione non c’è problema, dato il suo stato ectoplasmatico buono solo a garantire l’uso di superiore e indiscutibile richiesta di leggi essenzialmente atte all’erosione del salario sociale di classe, nella cosiddetta sovranità appartenente al popolo. L’Europa riunita in questa settimana invece a Parigi, e non a Bruxelles, deve decidere se diventare maggiorenne dal tutorato Usa ed entrare nell’ottica bellicista alla pari con i massimi imperialismi mondiali, o relegarsi definitivamente nella subalternità non solo difensiva, ma soprattutto nell’ulteriore sviluppo produttivo in un asfittico mercato mondiale, in cui l’esportazione di capitali dev’essere pilotata dalla politica dell’alleato sovrastante.
Le recenti dimissioni dall’OMS, invece, e dagli ultimi accordi di Parigi sul cambiamento climatico da parte Usa, l’attacco ai giudici italiani promosso da Musk, seguito da quello del governo italiano alla Corte penale internazionale comunitaria hanno già trascinato il nostro stato – da tempo colonia statunitense – nell’obbedienza all’indebolimento di un’Europa mai nata politicamente, ma da usare in modo surrettizio nelle forme servili di capitali da fondere o acquisire da parte dei monopoli più forti.
Il discorso di
Monaco del vicepresidente Usa JD Vance è stato di una
durezza quasi incredibile verso gli alleati europei,
criticandoli aspramente anche per
questioni di politica interna; particolare rilievo ha
assunto il tema delle limitazioni della libertà di
espressione che sono diventate moneta
sonante per le classi dirigenti del Vecchio
continente, nonché della precedente Amministrazione
Biden.
Tale discorso va collegato al video, diffuso il 7 gennaio da Mark Zuckerberg – capo di Facebook e Instagram – a dir poco esplosivo, annunciando che si sbarazzerà (letterale: get rid of…) dei fact-checker per il controllo dei contenuti postati online (al momento solo negli Usa).
Per capire la carica polemica di Vance dobbiamo approfondire le forme di supervisione dei contenuti dei social e di come esse si siano radicate nel mondo del progressismo di establishment; quel mondo che la nuova dirigenza statunitense vede come un nemico ideologico. Con molte ragioni.
Cosa ha detto Zuckerberg
L’uscita del padrone di Meta ha suscitato reazioni forti, in particolare dei diretti interessati, che non ne avevano assolutamente avuto alcuna avvisaglia, apprendendo assieme al resto del mondo del proprio licenziamento.
Nel video Zuckerberg ammette che negli anni dal 2016 si è intensificata la pressione da parte di media tradizionali e governi per controllare i contenuti online, e il risultato è stato: sempre più censura ed errori. Cita anche le recenti elezioni statunitensi che avrebbero espresso una volontà di tornare a maggiore libertà online. I fact-checker avrebbero peccato di faziosità e distrutto più fiducia di quanto non ne abbiano creata.
Ma adesso intende tornare alle radici della sua mission aziendale e virare verso il free speech: vestendo i panni del difensore della libera opinione, indica diversi paesi e soggetti in cui c’è una grande voglia di censura, (fra cui la Ue!) che non riuscivano a contrastare avendo il loro stesso governo che premeva in tal senso.
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
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Fondamentalmente, lo stato ebraico è
intimamente connesso all’idea della guerra, che ne costituisce
non solo l’atto fondativo ma
anche lo strumento attuativo del disegno sionista. Non certo
per caso, è l’unico stato al mondo che non ha una definizione
precisa dei
propri confini; ciò infatti è funzionale alle mire
espansionistiche che puntano alla costruzione del Grande
Israele, esteso su gran
parte delle terre arabe, e non soltanto sulla Palestina.
Ovviamente questo disegno rappresenta un obiettivo ultimo, che
lo stato ebraico persegue
quando e come se ne presenta l’opportunità, ma che resta
valido anche quando apparentemente non si manifesta.
C’è, inoltre, un ulteriore elemento che rende così salda la connessione tra il sionismo e la guerra: le élite sioniste, infatti, e più in generale gli israeliani intellettualmente onesti, ben sanno che lo stato ebraico rappresenta un corpo estraneo in Terra Santa, anche se ovviamente ritengono di avere comunque un diritto divino a restarvi, e pertanto sono consapevoli che queste estraneità non cesserà mai di produrre reazioni di rigetto, rispetto alle quali la guerra è – appunto – la sola risposta possibile.
Come sempre avviene nei processi storici, elementi diversi, riflettendosi reciprocamente, hanno portato a una esasperazione di questa caratteristica. La condizione di perenne insicurezza, determinata appunto dal non venir meno del rigetto da parte araba, ha determinato un crescente radicalizzarsi della popolazione israeliana, soprattutto di quella parte più attivamente impegnata nel movimento colonizzatore, portandola a sostenere le forze di destra ed estrema destra, sostenitrici di fantomatiche soluzioni finali del problema palestinese. Ovviamente ciò ha portato a un ulteriore inasprirsi del conflitto, piuttosto che avvicinarne una soluzione qualsiasi, creando così un meccanismo che si autoalimenta.
Questo processo era già in atto da anni, ma l’attacco portato dalla Resistenza palestinese il 7 ottobre 2023 (che a sua volta ne è conseguenza) ha impresso una significativa accelerazione, determinando una situazione assolutamente nuova.
Da Lukács in questione. Storia e coscienza di classe cento anni dopo, a cura di Roberto Morani, Orthotes, Napoli, 2024
Scopo del presente saggio è mostrare l’importanza fondamentale della mediazione del pensiero di Rosa Luxemburg non soltanto nell’approdo e nel primo approfondimento critico da parte di Georg Lukács di alcune categorie filosofiche politiche del marxismo, da quella, già centrale nella sua fase pre-marxista di “totalità” a quella di “rivoluzione sociale”, ma anche nella successiva e più matura interpretazione “leninista” del marxismo come teoria dell’attualità della rivoluzione proletaria. Più in particolare si tenterà di mostrare come attraverso una lettura originale del pensiero rivoluzionario di Rosa Luxemburg, Lukács si sforzi sia di reinterpretare in termini radicalmente nuovi il marxismo della tradizione, sia di superare i limiti stessi della sua concezione precedente, dai forti tratti storicistici e idealistico-neokantiani, della storia come processo dialettico e come totalità.
Il tema dell’imminenza e della necessità della rivoluzione sociale proletaria costituisce il nucleo della riflessione del giovane Lukács sull’essenza pratico-critica e rivoluzionaria del metodo dialettico marxista. È infatti attorno ad esso che ruota la critica radicale del marxismo “ortodosso” della II Internazionale, ovvero della base teorica e politico-ideologica del movimento operaio europeo, della sua prassi riformista e gradualista, condotta dal pensatore ungherese sia nei saggi filosofici raccolti in Storia e coscienza di classe sia nei più importanti interventi teorico-politici che scandiscono la sua attiva militanza comunista tra il 1918 e i primissimi anni ‘20. L’interpretazione socialdemocratica della dottrina di Marx ed Engels, elaborata dai maggiori dirigenti e teorici della II Internazionale, veniva accusata dal giovane Lukács di avere trasformato e deformato il marxismo in una concezione generale e pretesa scientifica del divenire storico-sociale insieme economicistica e deterministica, finendo per smarrirne totalmente l’essenza, ovvero la sua natura originaria di teoria della rivoluzione fondata sul metodo dialettico.
Qui a Berlino per quasi una settimana le temperature sono scese sino a -12 gradi. Un meteo che simbolizza bene la situazione odierna del paese nel lungo inverno così come quella europea. Può, l’Ue, una fondazione americana, rifondarsi con le attuali classi dirigenti?
Intanto, due eventi, svoltisi a
Monaco, hanno molto turbato gli animi della campagna
elettorale. Il primo. In televisione si sono visti
dei politici, ma anche dei cittadini
comuni, apparire del tutto sconvolti di fronte all’attacco
brutale del Vice-Presidente Usa, all’UE e alla Germania e
questo nel corso
della annuale conferenza transatlantica tenutasi nella città
bavarese. Non solo, Vance ha suggerito ai tedeschi di votare
per il partito di
estrema destra, la AfD, di cui ha incontrato la
rappresentante, evitando invece di farsi ricevere da Scholz.
Lo shock è stato enorme, dal
momento che il paese considerava sino a ieri gli Stati Uniti
come il grande protettore del suo rinnovamento democratico
dopo la catastrofe nazista,
nonché il facilitatore della sua ripresa economica e il sicuro
protettore militare (Chassany, 2025, a). Un mito crollato in
poche ore.
Il secondo evento negativo che ha scosso le coscienze è stato l’episodio del veicolo, guidato da un immigrato, che si è lanciato sulla folla sempre nella stessa città. A poco è valso lo stesso appello dei parenti delle due vittime a non sfruttare l’episodio a fini politici. I cristiano democratici e l’AfD si sono buttati a capofitto sulla vicenda.
La crisi delle esportazioni
E veniamo all’economia. Le ragioni delle odierne difficoltà della Germania sembrano del tutto chiare, come appaiono sostanzialmente chiare quelle dell’intera Unione Europea, mentre la due crisi hanno plausibilmente molto, anche se non tutto, in comune. Per quanto riguarda invece i possibili rimedi le proposte portate avanti dalle varie parti in commedia non coincidono tra di loro in nessuno dei due casi. Quello che si può comunque già dire per quelle avanzate dal futuro cancelliere Merz è che esse appaiono per la gran parte non pari alla gravità della situazione (e certo i recenti dibattiti televisivi tra i più importanti candidati, prima a due, poi a quattro, non hanno fatto gran che per rassicurare), mentre per lo meno oscure appaiono le idee di Bruxelles.
Fine delle chiacchiere, ora si fa sul serio. Nella prima riunione del suo governo, presente anche Elon Musk – che dunque dovrebbe essere considerato un “ministro” – Donald Trump ha confermato di aver preso la decisione di imporre dazi “del 25%” sui prodotti europei. Quanti avevano sperato che si trattasse solo di sparate minacciose per contrattare qualcosa su altri piani (la guerra in Ucraina, ecc), o che ci fosse spazio per trattamento individuale diverso (Meloni, insomma), devono ora fare i conti con la realtà.
Anche perché il tycoon ha dichiarato ufficialmente guerra all’Unione Europea in quanto tale: “non accetta le nostre auto o i nostri prodotti agricoli, si approfitta di noi. Io amo i Paesi della Ue, ma siamo onesti: l’Unione Europea è nata per fregare gli Stati Uniti e sta facendo un buon lavoro, ma ora sono io presidente“. Non preoccupa insomma soltanto quel che “l’Europa” fa, ma il fatto stesso che esista e si concepisca come un competitor sul mercato mondiale, con ambizioni “strategiche” certo velleitarie ma coltivate a lungo.
Al di là delle dichiarazioni di circostanza, come quelle europee che promettono immediata risposta sullo stesso piano, è bene tener d’occhio il dato economico e politico più rilevante, che non a caso è stato inquadrato seriamente soprattutto dagli industriali italiani, che sanno benissimo quanto i loro profitti derivino dall’essere contoterzisti della Germania e dunque secondo paese europeo nella classifica delle esportazioni verso gli Usa.
Da qualche anno la situazione internazionale sta cambiando sotto i nostri occhi e, come sempre accade, il cambiamento prima procede lentamente e poi accelera sempre di più. Perciò è difficile immaginare che cosa può succedere domani o dopodomani: un modo per tentare di capire un po’ i processi in atto è provare ad analizzare il recente passato per individuare le possibili traiettorie del futuro.
Partiamo dai cambiamenti che si sono verificati negli Stati Uniti: dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, gli USA sono diventati la prima potenza militare al mondo oltre a essere la prima potenza economica.
Dal punto di vista militare hanno promosso tante guerre in giro per il mondo, spesso per procura, facendo cioè combattere altri, oppure con il solo impiego degli aerei da bombardamento per limitare le proprie perdite: Iraq (1991), Somalia (1993), Bosnia (1995), Kossovo (1999) e poi, dopo l’11 settembre, Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011), Siria (2014), Ucraina (2022, ma probabilmente già anche dal 2014). Quante di queste guerre sono state “vinte” dagli americani? Se per vittoria s’intende l’aver determinato una situazione di stabile allineamento alle posizioni degli USA, la risposta è probabilmente negativa per tutti questi sanguinosi conflitti.
È molto difficile comprendere come funzioni l’empatia negli esseri umani. Le teorie psicoanalitiche spiegano che gran parte delle nostre posizioni, apparentemente razionali, trovano la loro radice nell’opaca profondità del nostro inconscio. Banalizzando eccessivamente, si potrebbe affermare che la destra, col suo bisogno di autorità, ordine gerarchico e repressione dei colpevoli, è come espressione del bisogno di reprimere da parte di un padre frustrato; mentre la sinistra, che “vorrebbe supportare” (virgolette necessarie) a priori i deboli nella società, attribuendo al sistema responsabilità forse sproporzionate, sarebbe come una manifestazione del senso di colpa maturato nei confronti della madre. Generalizzazioni che servono a poco. Eppure, non tanto la posizione della destra, tradizionalmente a favore del militarismo patriottico, ma quella dell’elettorato del PD sorprende e inquieta non poco sulla guerra in Ucraina. Le esternazioni di Elly Schlein, che difende ancora l’invio di armi in Ucraina per la pace giusta e afferma di non poter essere mai d’accordo col Presidente Trump, sono di un semplicismo aprioristico stupefacente. Se Trump si dichiara per la pace in Ucraina, bisogna boicottarlo a prescindere perché è Trump. Se Putin afferma che l’Unione Sovietica ha perso 26 milioni di cittadini russi per liberare l’Europa dal nazismo bisogna cancellare una verità storica perché difesa da Putin. Il ragionamento della leader del PD (e purtroppo di gran parte dell’elettorato piegato dalla propaganda ininterrotta di Mentana) è di una violenza estremista evidente, e dimostra come si sentano di appartenere al mondo del bene come i crociati, e come in nome del bene possano seminare distruzione e abbeverarsi del sangue degli Ucraini.
“Friedrich Merz, il «vassallo in capo» europeo degli Stati Uniti nella nostra era post-liberale”. Alla nostra ragazza romana simpatica, bugiardella e molto vanitosa, sarà assegnato il posto di «vice-capo vassallo» o della staffetta? Staremo a vedere
Saremo impotenti testimoni di una ulteriore cannibalizzazione dell’Europa per mano del capitale statunitense.
Sentiremo molta retorica sull’“autonomia” tedesca ed europea, e forse anche accesi disaccordi pubblici tra Berlino e Washington. In realtà, però, si tratterebbe in gran parte di una facciata, perché la nuova dinamica servirebbe solo le élite europee e americane. Le prime continuerebbero ad alimentare la paura della Russia come mezzo per giustificare maggiori spese per la difesa, dirottando i fondi dai programmi sociali e legittimando la loro continua repressione della democrazia. Quanto alle seconde, continuerebbero a trarre vantaggio dalla dipendenza economica dell’Europa dagli Stati Uniti. Nel frattempo, persone come Merz sarebbero ben posizionate per aiutare l’ulteriore cannibalizzazione dell’Europa per mano del capitale statunitense.
Non che dovremmo sorprenderci. Negli ultimi due decenni, Merz, proprio come Trump, ha dimostrato di essere prima un uomo d’affari e poi un politico.
Nel fantasmagorico turbinio generato dall’elezione di Trump e dalla subitanea realizzazione delle sue promesse elettorali - a lungo snobbate dagli accesi sostenitori della vittoria democratica (ricordate il primo piano di Speranza, incredibilmente sorridente, paludato dei colori della Harris, sullo sfondo di un gremitissimo stadio, in terra americana? E i “sicurissimi” sondaggi che davano per certa la vittoria dem?) – dicevamo, non è facile trovare il momento giusto per prendere la parola, tanti sono gli stimoli che ogni giorno intervengono a mutare il quadro generale.
Il dato che risalta maggiormente - agli occhi di chi già da tempo guardava sconcertato lo scomposto balletto della narrazione ufficiale - è quello di un generale, imprevisto sovvertimento dell’ordine canonico, quasi che un fulmine avesse fatto saltare tutti i circuiti: supporter armati di fede indefettibile nella vittoria ucraina che, da un giorno all’altro, si dichiarano ovviamente consapevoli che la guerra era già persa da tempo (novelli putiniani?); agenzie di stampa che si affannano a nascondere sotto il tappeto le rivelazioni trumpiane dei massicci (e interessati) finanziamenti USAID, finalizzati anche a sostenere candidati graditi in elezioni lontanissime dal suolo americano, primavere arabe e rivolte colorate (georgiane, ucraine, asiatiche, africane, sud-americane, un elenco lunghissimo); l’UE che si scopre sprezzata, abbandonata dalla superpotenza da cui si aspettava di essere ancora finanziata, diretta, protetta e vezzeggiata (pro bono, naturalmente);
Traducendo Red
Africa di Ochieng Okoth (vedi la mia recensione su
questa pagina) mi sono reso conto di quanto poco gli
occidentali di sinistra conoscano il
pensiero radicale Nero. In quattro post pubblicati negli
ultimi tre mesi, frutto di una prima tornata di letture
dedicate al tema, ho discusso alcuni
lavori di Amilcare Cabral, Said Bouamama e Walter Rodney oltre
che dello stesso Okoth. Dopodiché, avendo realizzato di avere
solo sfiorato le
ricchezze di questo patrimonio di idee, ho avviato una seconda
escursione che mi ha offerto ulteriori spunti di riflessione
che cercherò di
sintetizzare in tre articoli. Quello che state leggendo tratta
del pensiero di cinque autori: William Du Bois, George
Padmore, Eric Williams, C. L. R.
James ed Aimé Césaire. Nel secondo mi occuperò del monumentale
lavoro di Cedric Robinson, Black Marxism, nel terzo
affronterò la critica di Angela Davis al femminismo delle
classi medie bianche.
Come spiega Caroline Elkins nel suo formidabile saggio sui crimini dell'imperialismo britannico (1), nel periodo fra le due guerre mondiali un gruppo di intellettuali giamaicani “itineranti” fra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti (con puntate in Africa e in Unione Sovietica) si fece promotore del progetto di costruzione di un centro mondiale di pensiero anticoloniale che tentò di mixare le culture africane tradizionali (tanto nella versione originale che in quella diasporica) alla teoria marxista e agli insegnamenti della Rivoluzione Russa. Di questa esperienza, e dei suoi prolungamenti successivi, fecero parte fra gli altri, assieme ai già citati DuBois, Padmore, Williams, James e Césaire, Frantz Fanon, Marcus Garvey (il primo a rivendicare una nazione per gli afroamericani) e il leader storico (assieme a Malcolm X) del Black Panther, Stokely Carmichael. In questo articolo mi occupo però solo dei primi cinque.
William Du Bois. Il decano
Du Bois nasce nel 1868 in una cittadina del Massachusetts, dopo che il padre, (un sangue misto franco-africano di religione ugonotta) e la madre (nera nata libera ma discendente di schiavi) erano emigrati negli Stati Uniti.
Donald Trump è stato scorticato vivo dai media e dai leader occidentali per aver detto che l'Ucraina ha iniziato la guerra. Ecco i fatti, non i miti, dice Joe Lauria
Il clamore si è diffuso
rapidamente in tutto il mondo occidentale: Donald Trump ha
osato dire che è stata l’Ucraina a dare inizio alla guerra.
Il New York Times ha accusato Trump di “riscrivere la storia dell’invasione russa del suo vicino”. Il corrispondente del giornale alla Casa Bianca ha scritto :
“Quando le forze russe si sono schiantate oltre i confini dell’Ucraina nel 2022, decise a cancellarla dalla mappa come stato indipendente, gli Stati Uniti si sono precipitati ad aiutare la nazione assediata e hanno dipinto il suo presidente, Volodymyr Zelensky, come un eroe della resistenza.
Tre anni dopo, quasi esattamente il giorno dopo, il presidente Trump sta riscrivendo la storia dell’invasione russa del suo vicino più piccolo. L’Ucraina, in questa versione, non è una vittima, ma un cattivo. E il signor Zelensky non è un Winston Churchill dei giorni nostri, ma un “dittatore senza elezioni” che in qualche modo ha iniziato la guerra lui stesso e ha convinto l’America ad aiutarlo”.
La BBC ha riferito:
“L’Ucraina non ha iniziato la guerra. La Russia ha lanciato un’invasione su vasta scala dell’Ucraina nel febbraio 2022, dopo aver annesso la Crimea nel 2014.
L’annessione è avvenuta dopo che il presidente filorusso dell’Ucraina è stato detronizzato da manifestazioni popolari.”
La CNN ha urlato: “Il presidente Donald Trump ha ora adottato pienamente la falsa propaganda russa sull’Ucraina, rivoltandosi contro una democrazia sovrana che è stata invasa a favore dell’invasore. … Trump ha accusato ingiustamente l’Ucraina di aver iniziato il conflitto”.
“In commenti ai giornalisti nel suo resort di Mar-a-Lago in Florida, Trump ha falsamente affermato che Kiev aveva iniziato il conflitto, il più grande sul suolo europeo dai tempi della seconda guerra mondiale”, si è lamentato il Financial Times.
La stessa cosa è accaduta nel panorama dei media occidentali, che hanno parlato con una sola voce.
Riscrivere completamente la narrazione durata ottanta anni sul “sogno americano” è un esercizio che sta mettendo a dura prova i nervi e i neuroni dei liberali di destra e “di sinistra” in Europa.
I balbettii tra conduttori e ospiti dei talk show televisivi cui assistiamo in queste settimane, di fronte allo shock and awe imposto da Trump, appaiono decisamente impressionanti, talvolta anche divertenti, ma altrettanto significativi.
Il cielo è crollato sulla testa delle élites che per decenni hanno raccontato a noi e a se stessi che l’Occidente disegnato dagli Stati Uniti poteva solo essere perfezionato dall’Europa, ma per il resto era il migliore dei mondi possibili e chi non lo accettava come tale poteva anche essere deposto, bombardato, eliminato fisicamente in nome della superiorità di questo modello su tutti gli altri.
Ma quando al suprematismo liberale dell’”Occidente collettivo” si è sostituito il “suprematismo stronzo” di Trump, il cielo è venuto giù, seminando panico, incertezze, cambiamenti di alleanze e paradigmi, così come era avvenuto quando è venuto giù il Muro di Berlino.
Gli Stati Uniti stanno ridisegnando la mappa delle loro priorità e delle loro alleanze decidendo che l’Unione Europea – e l’Europa nel suo complesso – non sono più alleati indispensabili, ma al massimo mercati e mercanti con cui stipulare accordi commerciali, se questi appaiono convenienti.
Le elezioni politiche tedesche delineano la crisi dei partiti tradizionali di governo e il rafforzamento delle ali estreme del panorama politico, come riflesso della grave crisi economico-sociale in cui versa il più importante paese della Ue. Infatti, i partiti che componevano la coalizione dell’ultimo governo sono calati fortemente. I socialdemocratici della Spd subiscono il calo maggiore passando dal 25,7% del 2011 al 16,4% del 2025, il loro peggiore risultato di sempre, i Verdi scendono dal 14,8% all’11,6% e i liberali della Fdp crollano al di sotto della barriera del 5%, restando così fuori dal parlamento tedesco. È vero che, come pronosticavano i sondaggi, il primo partito risulta la democristiana Cdu, ma questa con il 28,5% dei voti – appena 4 punti più del 2021 – rimane al di sotto della soglia “psicologica” del 30% su cui puntava.
Viceversa, i partiti all’estrema destra e all’estrema sinistra crescono in modo molto sostenuto. In particolare, Afd diventa il secondo partito della Germania, guadagnando ben 5 milioni di voti in più, che la portano a salire dall’11% del 2021 al 20,8%. Si tratta del primo partito di estrema destra a ottenere un risultato di questo rilievo dal 1945. All’altra estremità dello spettro politico la Linke, che era data per spacciata dopo il voto delle europee in cui aveva raccolto solo il 2,7% dei voti, ottiene l’8,7%. Tra i 18-24enni la Linke è addirittura il primo partito con il 27%. Più deludente è il risultato dell’altro partito di sinistra radicale, Bsw, guidato da Sahra Wagenknecht, che, malgrado alle europee avesse ottenuto il 6,17%, alle politiche, con il 4,97%, per un soffio non entra in parlamento.
Jeffrey Sachs, direttore del Center for Sustainable Development della Columbia University, ha concesso un'intervista esclusiva a China Daily, analizzando le implicazioni delle politiche commerciali dell'amministrazione Trump e il loro impatto sulle economie di Cina e Stati Uniti. Sachs, esperto di sviluppo sostenibile e relazioni internazionali, ha espresso un giudizio critico sulle scelte del presidente USA, delineando uno scenario in cui gli Stati Uniti rischiano di perdere competitività e leadership globale, mentre la Cina e i paesi emergenti potrebbero accelerare il loro sviluppo.
Le ragioni dietro la politica aggressiva di Trump
Alla domanda su come la decisione di Trump di imporre un dazio aggiuntivo del 10% su tutte le merci cinesi influenzerà le economie di Cina e Stati Uniti, Sachs ha spiegato che il presidente nordamericano persegue una politica commerciale aggressiva per diversi motivi: indebolire la Cina, spingere Pechino ad accettare le richieste di politica estera degli Stati Uniti, aumentare le esportazioni americane verso la Cina, bilanciare il commercio bilaterale, proteggere le aziende e i lavoratori statunitensi e generare entrate fiscali. Tuttavia, Sachs è convinto che questa strategia sia destinata a fallire. "Trump sopravvaluta l'importanza del mercato statunitense per la Cina e crede di avere più leva politica di quanto non abbia in realtà", ha affermato. "La Cina non si farà intimidire e diversificherà il proprio commercio verso il resto del mondo, mentre gli Stati Uniti perderanno competitività nei mercati terzi".
Una toppa politica “moderata” sulla voragine della crisi tedesca. I risultati delle elezioni confermano quasi tutte le previsioni della vigilia. L’unica incertezza riguardava infatti se la vittoria dei democristiani di Cdu/Csu sarebbe stata tale da permettere il più classico dei governi di transizione – la Grosse Koalition insieme ai sedicenti socialdemocratici dell’Spd – oppure se si sarebbe reso necessario un “triangolo” includendo i Verdi (quelli guerrafondai di Baebock, peraltro).
Le urne sono state a loro modo spietate. Il finanziere Friedrich Merz, il volto di destra della Cdu, ha vinto ma è rimasto abbondantemente sotto il 30%. Anzi, addirittura sotto il 29 (28,5%), che si traducono in 208 seggi.
Il tracollo dell’Spd ha lasciato a Olaf Scholz e soci appena il 16,4% e 120 deputati. Insieme fanno 328 seggi, garantendo una maggioranza risicata di appena 12 deputati.
Per la formazione di un governo al sicuro da sempre possibili “incidenti parlamentari” – già annunciati per quando si dovranno votare provvedimenti sull’immigrazione, che la Cdu proporrà nell’illusione di “limitare” così l’ascesa dell’Afd – sarebbe necessario imbarcare anche i Grunen, scesi all’11,6%, ma d’altro canto questo complicherebbe le trattative (lo scambio politico tra i diversi programmi) e non assicurerebbe egualmente la “stabilità”.
Il capitalismo nei suoi anni avanzati è come una scatola di cioccolatini: gusti diversi, però sempre di cioccolato si tratta. Ma, beati loro (sarcasmo), in tanti continuano a prenderlo alla Forrest Gump:
Sarebbe a dire che se e quando riescono a sfangarla in un modo o nell'altro allora tutto bene, tutto regolare. E quando si è insediata la nuova amministrazione americana magari hanno parlato del sorgere di un potere brutale senza alcun rispetto per l'uomo, come se fino al giorno prima il potere USA e il sistema capitalistico che lo sostiene non fossero brutali ma avessero il massimo rispetto per l'umanità nel suo insieme. Bah...
Elon Musk, già idolo dei fan della scienza per SpaceX e degli ambientalisti per la Tesla, quando si comprò un Twitter in crisi licenziò l´80% del personale. Meccanismi standard del capitalismo finanziarizzato, dove non si sa mai dove finisce l´industria e dove comincia la finanza - sarebbe a dire che da decenni decisioni industriali suicide per la finanza sono perfettamente sensate, tranne poi lamentarsi dello stato delle cose alcuni anni dopo (questo nel caso dell'industria che vende prodotti materiali, riguardo al mercato dei prodotti immateriali digitali mi dichiaro incompetente). La stessa SpaceX di Musk esiste grazie al definanziamento della NASA: lo stato arretra, il libero mercato avanza e ho perso il conto di quelli che applaudivano fino a spellarsi le mani ogni volta che succedeva.
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
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La vittoria
militare della Russia, la “pace” di Trump con la strategia
di guerra contro la Cina, la spinta bellica dell’Ue e le
elezioni in
Germania: lezioni per i comunisti italiani
Zeitgeist: con questo termine, nel “corpo” della filosofia romantico-idealistica tedesca tra il 18° e il 19° secolo, si indicava lo spirito dei tempi, cioè il clima politico, culturale, ideologico, tendente all’egemonia, di un’epoca. Vi è qualcosa che più di ogni altra, in questa fase, esprime l’attuale spirito dei tempi, del video pubblicato da Trump, sul proprio profilo “Truth”, Riviera di Gaza? Nell’orrendo clip musicale il genocidio israeliano su Gaza si trasforma in un trucido festival di danzatrici lascive quali esatte proiezioni del più bieco “appetito” maschile imperialista; le macerie senza fine di Gaza in grattacieli splendenti e riviere vacanziere per i ricchi americani. Con il popolo palestinese totalmente “fuori quadro” poiché espulso, come il popolo di Mosè dagli egizi, dalla propria terra e già vagante – nel film horror di Trump e Musk – in un nuovo deserto del Sinai.
Se la feroce volgarità di Riviera di Gaza è “Zeitgeist”, di quali sommovimenti profondi si fa paradigma, indicatore? Nell’ambito dell’uragano politico che scuote il pianeta (Trump-Putin-Unione europea, elezioni in Germania), essa è il segno dell’attuale metamorfosi in atto nel liberalismo nordamericano, che passa da una volontà di potenza imperialista “liberal” fondata sulla falsità del “libero scambio” mondiale, sulla verità dello “scambio diseguale” e adornata da orpelli pseudoumanistici “woke” (i “democratici”, che imperialisti rimangono anche nella loro postura di “estrema sinistra democratica” alla Ocasio-Cortez, paladina della guerra di Biden contro la Russia e a sostegno del palese fascismo ucraino, tanto palese da essere così definito persino da Trump), a una ancor più oscura e scarnificata volontà di potenza imperialista volta a una nuova accumulazione fondata sull’isolazionismo e sul protezionismo (i “repubblicani”), un “totalitarismo liberale” (così come magistralmente messo a fuoco dal compagno Alessandro Pascale nella sua opera omonima) che abbandona, irridendoli, gli “addobbi” ideologici umanitari per dedicarsi totalmente e seriamente alla definitiva guerra strategica contro il “nuovo mondo”, contro il multilateralismo crescente, contro la Cina.
Durante gli anni '70, Baudrillard sviluppò una duplice
critica di Marx e Freud. Da un lato, rivolta al mito
capitalistico della
produzione e dei bisogni, da cui lo stesso Marx sarebbe
rimasto dipendente. Dall'altro, rivolta alla nozione
freudiana dell'inconscio, che sarebbe
stata indebitamente estesa dalla psicoanalisi a un'ontologia
trans-storica. Viene qui presentato, e sottolineato
l'interesse che riveste questa
duplice critica [*1]. Mostreremo anche su cosa Baudrillard
basi la sua concezione del simbolico, e i limiti dovuti alla
sua teoria semiotica
post-strutturalista dello scambio che si riflettono sulle
critiche, altrimenti giustificate, che egli rivolge a Marx e
Freud.
* * * *
La critica di Baudrillard alla produzione
Ne "Lo specchio della produzione" (1973), Baudrillard descrive la frammentazione funzionale degli oggetti, che la dialettica pretende di riconciliare, facendoli entrare nel movimento della storia. Egli definisce come «proiezione paranoica», l'operazione attraverso la quale i concetti si generano a vicenda seguendo la finalità di una «scienza che vive solo di separazione». Pertanto, la scienza costruisce un'antropologia su misura di quelle funzioni che ha prima separato. Baudrillard analizza alcuni discorsi, come quello di Maurice Godelier: un antropologo marxista che si stupisce del fatto che gli esseri umani primitivi non producano un surplus economico. Godelier risolve questo problema dicendo che tutte queste società senza eccedenze producono solamente per «soddisfare i loro bisogni».
Questo testo, scritto alla fine di un «ciclo» di tre libri sulla guerra (Guerra o rivoluzione, 2022; Guerra e moneta, 2023; Guerra civile mondiale?, 2024) precisa alcuni concetti, in modo particolare quelli di imperialismo, monopolio, guerra
In questo momento in tutto il mondo si discute della
possibilità di una terza guerra mondiale. Dobbiamo essere
psicologicamente
preparati a questa eventualità e considerarla
analiticamente. Noi siamo decisamente per la pace e contro
la guerra. Ma se gli imperialisti
insistono nel voler iniziare un'altra guerra, non dobbiamo
avere paura. Il nostro atteggiamento nei confronti di
questo problema è lo stesso di
tutti i disordini: in primo luogo, siamo contrari e, in
secondo luogo, non ne abbiamo paura. La prima guerra
mondiale è stata seguita dalla
nascita dell'Unione Sovietica, con una popolazione di 200
milioni di abitanti. La seconda guerra mondiale è stata
seguita dalla formazione del
campo socialista, con una popolazione di 900 milioni di
abitanti. È certo che se gli imperialisti si ostinano a
scatenare una terza guerra
mondiale, centinaia di milioni di persone passeranno dalla
parte del socialismo e non rimarrà molto spazio sulla
terra per gli imperialisti;
è persino possibile che il sistema imperialista crolli
completamente.
Mao Tse-tung
Ognuno può vedere quanto manchi di tatto il Rabocheye Dyelo quando agita trionfalmente la frase di Marx : «Ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi». Ripetere queste parole in un momento di sbandamento teorico, è come «fare dello spirito a un funerale».
Lenin
L' affermazione di Mao sembra essere stata scritta per la nostra attualità. Ma siamo psicologicamente impreparati alla realtà della guerra e ancor meno a considerare analiticamente le sue cause, le sue ragioni e le possibilità che potrebbe aprire. Ci mancano gli «affetti» e i concetti per farlo. Il pensiero critico occidentale (Foucault, Negri - Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati, lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per intervenire. Lo «sbandamento teorico» prodotto negli ultimi cinquanta anni è grande. Non si tratta di sopravvalutare la teoria, ma senza quest’ultima, come diceva qualcuno, «non ci può essere movimento rivoluzionario».
Di fronte alle mosse economiche del presidente Trump, i suoi critici centristi oscillano tra la disperazione e una toccante fede che la sua frenesia tariffaria si esaurirà. Presumono che Trump si agiterà e sbufferà finché la realtà non esporrà la vacuità della sua logica economica. Non ci hanno fatto caso: la fissazione tariffaria di Trump fa parte di un piano economico globale solido, anche se intrinsecamente rischioso.
Il loro pensiero è radicato in un’idea sbagliata di come si muovono il capitale, il commercio e il denaro nel mondo. Come il birraio che si ubriaca della sua stessa birra, i centristi hanno finito per credere alla loro stessa propaganda: che viviamo in un mondo di mercati competitivi in cui il denaro è neutrale e i prezzi si adeguano per bilanciare la domanda e l’offerta di ogni cosa.
L'”ingenuo” Trump è, in effetti, molto più sofisticato di loro in quanto capisce come il potere economico grezzo, non la produttività marginale, decida chi fa cosa a chi, sia a livello nazionale che internazionale.
Sebbene rischiamo di essere guardati dall’abisso quando proviamo a scrutare la mente di Trump, abbiamo bisogno di comprendere il suo pensiero su tre questioni fondamentali: perché crede che l’America sia sfruttata dal resto del mondo? Qual è la sua visione di un nuovo ordine internazionale in cui l’America possa tornare a essere “grande”? Come pensa di realizzarlo? Solo allora potremo produrre una critica sensata del piano economico generale di Trump.
L’amministrazione Trump è imperialista nel profondo. Trump crede ovviamente che le grandi potenze dominino il mondo. Gli Stati Uniti saranno spietati e cinici, e sì, anche nei confronti dell’Europa. Non andate a chiedere l’elemosina a Washington. Non servirebbe a nulla. Anzi, probabilmente aumenterebbe la spietatezza. Piuttosto, si deve avere una vera politica estera europea
Michael, grazie mille e grazie a tutti voi per la possibilità di stare insieme e di pensare insieme. Questo è davvero un periodo complicato, in rapida evoluzione e molto pericoloso. Abbiamo quindi bisogno di chiarezza di pensiero. Sono particolarmente interessato alla nostra conversazione, quindi cercherò di essere il più sintetico e chiaro possibile. Negli ultimi 36 anni ho seguito da vicino gli eventi nell’Europa orientale, nell’ex Unione Sovietica, in Russia e in Ucraina. Sono stato consulente del governo polacco nel 1989, del team economico del Presidente Gorbaciov nel 1990 e 1991, del team economico del Presidente Eltsin nel 1991-1993 e del team economico del Presidente Kuchma in Ucraina nel 1993-1994. Ho contribuito all’introduzione della moneta estone. Ho aiutato diversi Paesi dell’ex Jugoslavia, in particolare la Slovenia. Dopo il Maidan, il nuovo governo mi ha chiesto di venire a Kiev, mi ha portato in giro per il Maidan e ho imparato molte cose di persona. Sono in contatto con i leader russi da più di 30 anni. Conosco da vicino anche la leadership politica americana. Il nostro precedente Segretario al Tesoro, Janet Yellen, è stata la mia meravigliosa insegnante di macroeconomia 52 anni fa. Siamo amici da mezzo secolo. Conosco queste persone. Dico questo perché ciò che voglio spiegare dal mio punto di vista non è di seconda mano. Non è ideologia. È ciò che ho visto con i miei occhi e sperimentato in questo periodo. Voglio condividere con voi la mia comprensione degli eventi che hanno colpito l’Europa in molti contesti, e includerò non solo la crisi ucraina, ma anche la Serbia del 1999, le guerre in Medio Oriente, tra cui l’Iraq, la Siria, le guerre in Africa, tra cui il Sudan, la Somalia, la Libia. Queste sono in misura molto significativa il risultato di politiche statunitensi profondamente sbagliate. Ciò che dirò potrebbe sorprendervi, ma parlo per esperienza e conoscenza di questi eventi.
La strada è segnata: avanti tutta con Imec e piani Nato. Nuove dichiarazioni sono un grave campanello d'allarme, mentre in città approda la nuova portaerei
Nell’ultimo anno si è
fatto veramente un gran parlare di Trieste e di certe manovre
che coinvolgono il capoluogo giuliano. Sembra ormai quasi che
parlarne sia diventato di
moda. E difatti, forse, se ne parla anche un po’ troppo.
A dire la loro su Trieste e a sbavarci sopra si sono avvicendati importanti think thank americani come «Atlantic Council» (1) e «The National Interest» (2), oltre a testate italiane come «formiche» (3) e la famosa rivista di geopolitica «Limes».
Quest’ultima ci ha dato veramente dentro e, dopo aver dedicato a Trieste l’editoriale del numero di ottobre 2024 (4), un altro articolo sempre nello stesso numero(5) ed un altro in quello di dicembre 2024 (6), ha anche messo Trieste al centro di uno dei confronti svoltisi alla XII edizione del Festival di Limes, che ha avuto luogo a Genova tra il 7 e il 9 febbraio.
Qui il filmato di uno degli interventi, incentrato proprio sulla città alabardata:
Anche su ComeDonChisciotte sono usciti molti articoli legati alle vicende triestine, e chiedo venia ai lettori se insisto nello scrivere su questa città, finendo magari per essere ridondante e ripetitivo. A dire il vero, eccetto le notizie sui processi relativi alla mobilitazione No Green Pass, che a Trieste continuano a susseguirsi, non intendevo spendere ulteriori articoli dedicati a questioni triestine. Tuttavia gli ultimi sviluppi e certe recenti e assai gravi dichiarazioni mi hanno spinto ad accantonare questo proposito.
Per chi fosse estraneo al dibattito generatosi negli ultimi mesi su Trieste e sugli interessi internazionali in ballo, rimando alla lettura di alcuni degli articoli pubblicati su ComeDonChisciotte (siccome se n’è già parlato abbondantemente cerco di evitare di ripetere cose già scritte):
1. All’inizio
c’è sempre l’Indignazione, cui segue un indistinto
sentimento d’irritazione, non importa se intellettuale, etica
o
epidermica, che cresce a dismisura se si getta lo sguardo
sulle ingiustizie perpetrate dai potenti e sulla macchina
della manipolazione che modella
una popolazione narcotizzata da consumismo e rimbambimento smartfonico,
quella medesima manipolazione che sul piano internazionale
impone il
delirio paranoico bellicista del principale avversario della
pace nel mondo, l’Impero americano. Non v’è dubbio che una
sintesi
estrema come quella che precede porta con sé il rischio di
risultare apodittici. Essa tuttavia ci fa almeno guadagnare in
chiarezza di
posizionamento.
In dettaglio, se si getta lo sguardo al dipanare degli accadimenti è possibile identificare con buona approssimazione i nemici principali da cui occorre guardarsi: sul piano economico un capitalismo selvaggio e la società della mercificazione; su quello politico l’assolutismo neoliberalista; sul piano filosofico l’alienazione solipsista; su quello sociale il dominio mercantile e sull’arena geopolitica, ça va sans dire, gli Stati Uniti d’America.
Parafrasando l’incipit della Bibbia, all’inizio c’è il Verbo, americano beninteso, che andrebbe chiamato in realtà statunitense, perché i nobili abitanti di quel continente non andrebbero confusi con le oligarchie malate che guidano la locomotiva impazzita di quella nazione. Ma la lingua imperiale deforma senso e controsenso, imponendosi persino nel balbettio lessicale di ridicoli operatori mediatici. Per Verbo statunitense deve comunque intendersi una forma mentis, variante della nozione di caos, luogo metafisico che consente alla plutocrazia bellicista di quel paese di acquisire legittimazione abolitoria di ogni restrizione agli interventi armati contro chiunque osi mantenere la posizione retta. Da lì la patologia dell’eccezionalismo americanista si è poi diffusa nell’inconscio filosofico-valoriale di tante nazioni non solo occidentali, deformando la coscienza di miliardi di individui intellettualmente fragili e indifesi, corredati di difese deboli davanti alle nefande intimidazioni della «nazione scelta da dio per governare un mondo altrimenti ingovernabile» (W. Clinton, 1999).
Si parla sempre più spesso di deep state, e io stesso faccio spesso ricorso a questa espressione. Se ne fa in genere uso per designare una caratteristica tipica del sistema di potere statunitense, ma – anche se in effetti è qui più che altrove che se ne può ragionevolmente parlare – in realtà non si tratta di una realtà circoscritta agli states; recentemente ho scritto un testo in cui, ad esempio, parlavo di un deep state europeo.
Per quanto possa sembrare strano, il termine ha origine in Turchia; fu l’ex primo ministro di sinistra Mustafa Bülent Ecevit a coniare l’espressione (in turco, derin devlet), con riferimento alla rete di potere laico-militare costituitasi intorno a Kemal Ataturk, e poi sopravvissuta alla sua morte.
La definizione attuale di ciò che è il deep state non è però univoca. Secondo Wikipedia [1], “si intende a livello politico l’insieme di quegli organismi, legali o no, che grazie ai loro poteri economici o militari o strategici condizionano l’agenda degli obiettivi pubblici, di nascosto e a prescindere dalle strategie politiche degli Stati del mondo, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica. Detto anche ‘Stato dentro lo Stato’, è costituito da lobby e reti nascoste, segrete, coperte, di potere in grado di agire anche contro le pubbliche istituzioni note.”
Questa definizione a mio avviso, però, rischia di risultare fuorviante, in particolare in riferimento alla situazione per eccellenza, cioè gli Stati Uniti.
Il tragicomico
epilogo della visita alla Casa Bianca del presidente ucraino
Volodymyr Zelensky ha riaperto il dibattito in Europa e in
Italia circa il posizionamento
del governo italiano nel contesto del conflitto in Ucraina.
Da un lato gli USA di Donald Trump intenzionati a concludere il conflitto, ormai perduto sul campo dagli ucraini, per riprendere strette relazioni economiche e politiche con la Russia necessarie a gestire con successo altri scenari di crisi falla Cina all’Iran alla Crea del Nord, come abbiamo illustrato in un editoriale precedente.
Dall’altro un’Europa decisamente schierata a favore di una “pace giusta” in cui l’Ucraina non perda territori che vuol dire in concreto una guerra a oltranza che nessuno in Europa è disposto a combattere, che nessuna forza armata in Europa sarebbe in grado di sostenere, che nessuna nazione europea è in grado di sostenere con adeguate forniture militari all’Ucraina e che vede l’opinione pubblica in tutta Europa nettamente contraria.
A queste valutazioni aggiungiamo che sono ben poche le nazioni europee disposte a schierare proprie truppe i Ucraina (ipotesi su cui Mosca ha già posto il suo veto) senza il supporto di un’America determinata a sganciarsi da questo conflitto e dal confronto militare con Mosca.
La rissa
In questo contesto di alta tensione il dibattito nello Studio Ovale, cominciato in modo garbato e diplomatico ma poi degenerato, ha acceso le polveri, almeno a parole, anche in Europa.
“Abbiamo capito molte cose che non avremmo mai potuto capire senza una conversazione così tesa: ho stabilito che il presidente Zelensky non è pronto alla pace con il coinvolgimento statunitense”, ha scritto Trump su Truth Social, aggiungendo che Zelensky ha mancato di rispetto agli Usa e che “può tornare qui una volta che sarà pronto alla pace”.
Il cambio dei ceti dirigenti negli USA
e l’avvento Trump, ha comportato un mutamento totale di
strategia politica imperiale davanti al sopravanzare del
multipolarismo, la crisi del
dollaro e l’accelerazione di processi decolonizzazione come
nel Sahel e la lunga guerra di logoramento tra imperialismo e
bolivarismo in America
Latina.
Se prima la Russia era stata considerata il demone da abbattere nella narrazione del giardino occidentale delle democrazie liberali di borrelliana espressione, e gli USA e i suoi vassalli erano al totale assalto della Federazione Russa sin dal golpe nazista di Euromaidan per smembrarla e accedere alle ingenti risorse interne, ora il trumpismo spera e pensa di contrastare il declino dell’impero americano e dell’egemonia della sua moneta tornando a una sorta di bipolarismo come ai tempi dell’URSS, nel tentativo di spezzare l’alleanza cino-russa, spegnendo il fronte est europeo per rivolgersi all’Indocina e all’Estremo Oriente, con la possibile escalation della crisi taiwanese.
Del resto il secondo nemico, i vassalli, su cui affermare l’egemonia è già stato sconfitto insieme all’Ucraina nella guerra con la Russia, che ha avuto un non meno importante risvolto interno: spezzare il legame con la Russia da parte della Germania, della locomotiva industriale europea. Cosa riuscita anche con mezzi terroristici e avvertimenti mafiosi come l’attentato al Nord Stream. Ma la sconfitta è a questo punto qualcosa di letale per la sopravvivenza dell’euroatlantismo e dell’Unione Europea stessa.
L’analisi sulla guerra in Europa, i rapporti di forza con la Russia, le contraddizioni interne al campo imperialista atlantista, il declino del progetto europeo in crisi irreversibile con questa guerra e con le accelerazioni di una crisi sociale e politica dovute all’economia di guerra: il viaggio neoliberista finale di un TINA che oggi risuona come campane a morto per l’UE stessa.
La mia frequentazione
scientifica di Augusto Graziani ebbe inizio nelle aule del
Centro di Specializzazione post-universitario di Portici, dove
fui studente del corso di
Microeconomia da lui tenuto. Nei decenni successivi le
occasioni di incontro con lui sono state tante; il che mi ha
consentito di seguire da vicino
l’evoluzione del suo pensiero. Fin dai primissimi anni ’70,
Graziani andava sviluppando un percorso scientifico di
radicalizzazione della
visione keynesiana dell’economia. Da giovanissimo economista,
da un anno ‘contrattista quadriennale nel Dipartimento di
Economia di
Napoli, mi ero cimentato in un’interpretazione della dinamica
economica italiana imperniata sui modelli keynesiani di lungo
periodo
(L’accumulazione in Italia (1959-1972), De Donato,
Bari, 1976). Il distacco di Graziani dal
modello macroeconomico
tradizionale ebbe un impatto non solo in ambito teorico ma
anche in quello dell’analisi economica applicata, influenzando
in profondità
la sua visione dello sviluppo economico italiano. Per me
costituì un importante stimolo ad approfondire lo studio del
pensiero di Keynes,
andando oltre la visione neo-keynesiana di cui era impregnata
la struttura analitica del mio libro. Mi sollecitò infatti a
mettere in
discussione la vulgata keynesiana, dedicandomi alla lettura
diretta degli scritti di Keynes.
Non affrontai solo lo studio della Teoria generale – molto più arduo di quanto mi aspettassi – ma anche delle altre sue opere, che non avevano trovato accoglienza in quella ‘rilettura’ della sua visione macroeconomica – riduzionistica fino al travisamento – che fu il modello IS-LM. Parlo naturalmente innanzitutto del Trattato sulla moneta, e dello scritto Teoria monetaria della produzione, che contengono in nuce la convinzione che Keynes aveva coltivando negli anni ’30 dell’alterità di un’economia monetaria rispetto alla ‘neutralità della moneta’ della visione dell’economia contenuta nel modello di equilibrio economico generale; ma anche degli articoli del ’37 sul ruolo fondamentale del credito bancario nel finanziamento della produzione; e dei suoi lavori a cavallo fra storia, politica ed economia, come Le conseguenze economiche della pace, La riforma monetaria, Esortazioni e profezie, Lassez-faire e comunismo.
Lo spettacolo offerto alla stampa dall’incontro tra Zelensky e Trump sembra emblematico degli ultimi rantoli del mostro: il partito della guerra.
Domandiamoci chi guadagna da questo conflitto e avremo i primi schizzi, il profilo del mostro.
Cerchiamo al netto della propaganda di soffermarci sui dati. L’Ucraina è un Paese fallito che sopravvive grazie a fondi statunitensi ed europei. Non è una democrazia a meno che i vari editorialisti della stampa più letta non vogliano affermare che essa si concretizzi nell’abolizione dei partiti e della libertà di culto, nella legge marziale e nel posporre le elezioni presidenziali sine die. In tre anni di guerra ha perso territori, una generazione di ucraini e sei milioni di abitanti. I ragazzi si rompono le ossa pur di non andare al fronte. La resistenza ucraina è un mito passato sponsorizzato da una classe nazionalista e neonazista al potere di cui Zelensky è ostaggio.
Gli Stati Uniti hanno problemi economici notevoli che l’ingente piano di aiuti pubblici di Biden non ha risolto: il debito è al 136% del PIL, crescono inflazione, sacche di povertà ed emarginati (come i migranti), tra crisi industriale, perdita di infrastrutture a pezzi e di competitività. Due dati per comprendere il declino americano: la mortalità infantile che ha indici non comparabili a quella europea o di Cina e Russia; il numero di ingegneri che si laureano è inferiore a quello russo.
Conflitto a est. La verità della trattativa è che gli Stati uniti e l’Europa insieme spolperanno quel paese nei decenni a venire pur di recuperare le loro spese militari
All’orrido affarista che alberga nella mente di Donald Trump va riconosciuto un involontario chiarimento: sta sgombrando il campo dalle banalizzazioni geopolitiche che hanno dominato il dibattito sulla guerra. E sta chiarendo che la pace si decide sugli interessi capitalistici in ballo e non solo tracciando la linea di confine della nuova Ucraina russificata.
L’avevamo detto in tempi non sospetti: il principale tavolo delle trattative sarà quello che fisserà le condizioni economiche per la pace. A quanto pare ci siamo arrivati. E purtroppo, come previsto, non è il tavolo che speravamo di vedere. Il caso dell’accaparramento delle terre rare dell’Ucraina è indicativo. Come ieri il manifesto riportava, Zelensky si è sgolato fino all’ultimo per ribadire che non avrebbe firmato nessuna cambiale agli alleati per ottenere le armi. Vero o falso che sia, ormai è vox clamantis in deserto.
Il grottesco siparietto alla Casa Bianca fra Macron e Trump lo dimostra. L’americano sostiene che le terre rare gli spettano perché l’aiuto degli Stati Uniti all’Ucraina, diversamente da quello europeo, non era coperto da garanzie. Il francese lo interrompe affermando che l’Ue vuole rivalersi non sull’Ucraina ma solo sui fondi russi congelati nei conti correnti europei. Ipotesi pretenziosa, un po’ come se alla Francia vincitrice della prima guerra mondiale avessero chiesto di pagare i debiti della Germania sconfitta.
La politica di "ambiguità strategica" degli Stati Uniti nei confronti della Cina, l'amministrazione Trump e l'incognita neocon
Quattro anni fa,
dopo l’insediamento dell'amministrazione Biden, avevo
ipotizzato la probabile traiettoria della sua politica di
contenimento della Cina in un
lungo articolo intitolato Hybrid
War on China (Guerra ibrida alla Cina), poi ripreso da
un organo di stampa cinese. Sostenevo che gli Stati
Uniti, di fronte all'emergere di un ordine mondiale
multipolare, avrebbero cercato disperatamente di arrestare il
declino della loro egemonia e
perseguito una politica aggressiva basata sulla rigida
affermazione dell’ideologia liberale. Vale a dire, avrebbe
continuato a inquadrare la
competizione con la Cina come una battaglia esistenziale tra
democrazia e autoritarismo, anche se questa narrazione, e
l'ideologia che la sostiene,
stavano diventando delle armi spuntate: molte società avevano
infatti sviluppato, o stavano sviluppando, anticorpi contro la
promozione
messianica del liberalismo occidentale. Oggi che
l'amministrazione Biden è stata relegata nella pattumiera
della storia occorre rivedere
quell'analisi per tenere conto della spinta ideologica e delle
ambizioni della nuova amministrazione e delle riforme che sta
attuando.
Nella squadra di Trump coesistono punti di vista diversi nei confronti della Cina che rispecchiano i pregiudizi ideologici e gli interessi commerciali dei suoi consiglieri e sostenitori e ciò può spiegare la dissonanza che si nota tra le affermazioni del presidente e quelle di vari membri della sua amministrazione. Marco Rubio, Segretario di Stato di Trump, vede la Cina come un paese totalitario che rappresenta una minaccia per l’egemonia americana; gli fa eco Michael Waltz, consigliere per la sicurezza nazionale, che inquadra la sfida cinese in termini ideologici ed esistenziali, e sottolinea le implicazioni a lungo termine dell'ascesa cinese. Al contrario, Elon Musk ammira i progressi tecnologici e industriali della Cina e si oppone a un disaccoppiamento economico, sostiene un approccio cooperativo piuttosto che conflittuale, e intende farsi mediatore tra Stati Uniti e Cina.
L’Europa non
esiste e non è un incidente. E’ stato fatto scientificamente:
il grande piano del super-imperialismo
USA secondo il quale al mondo doveva esistere un solo Paese
sovrano (e, cioè, il loro) e tutto il resto dovevano essere
semi-colonie, anche se
più fedeli a Wall Street che non direttamente a
Washington. Alcuni paesi del Sud globale gli hanno dato il
due di picche e la
nostra propaganda li chiama regimi autoritari.
L’Europa, invece, autoritaria non è; anzi: non è
e basta. E’ terra di scorribande, amministrazione
coloniale per conto delle oligarchie finanziarie che, però,
ora sono in guerra
tra loro: le big three, da un lato, e la PayPal
Mafia dall’altro. Trump nella sua amministrazione ha
fatto il pieno di membri
della seconda, ma non può rinunciare ai soldi della prima; in
Germania domenica ha vinto un uomo di BlackRock e,
come prima cosa, ha
annunciato che per lui “la priorità è raggiungere
l’indipendenza dagli USA”: intendeva dire che invece che fare
da
zerbino alla cricca che insedia la Casa Bianca, farà
da zerbino a quella che (al momento) è rimasta fuori.
Scegliere a chi fare
da zerbino è l’unica sovranità che c’è
rimasta; chi pagherà il costo di questa guerra lo
sappiamo già: noi, il 99%. Che dovremo
rinunciare a sanità e istruzione per fare l’unica cosa che,
nel frattempo,
tiene insieme le due fazioni in guerra: armare fino ai denti
l’Europa per permettere all’impero, dopo il time break
ucraino, di poter
sperare di vincere la guerra contro il nemico comune, il Paese
più sovrano del pianeta, l’unico che ha tutti gli strumenti
per
sfanculare Wall Street e vivere felice: la Repubblica
Popolare di Cina. Se proprio devo fare dei
sacrifici, preferirei farli
per una causa migliore…
Togliere ai poveri per dare ai ricchi: la risoluzione di bilancio approvata per un soffio ieri dal Congresso USA, in estrema sintesi, può essere riassunta così; la buona notizia è che poteva pure andare peggio. Trump aveva promesso tagli fiscali che, secondo studi indipendenti, sarebbero arrivati a costare fino a 10 mila miliardi: la manovra approvata ne costerà 4,5. Insomma: sarà lotta di classe dei ricchi contro i poveri, ma meno feroce di quanto promesso da Re Donald; cosa l’ha spinto a darsi una calmata?
Fabio Malagnini, Horror ex machina. Intelligenze artificiali, robot e androidi nel cinema dell’orrore tecnologico, Odoya, Bologna, 2024, pp. 285, euro 22,00
L’animazione
di un oggetto inanimato, secondo Sigmund Freud, rientra nella
categoria del “perturbante”, un concetto che si riallaccia a
ciò che
è spaventoso e che provoca orrore. Rifacendosi alla fiaba di
Hoffmann dal titolo Il mago Sabbiolino, Freud
afferma che desta
particolare perturbamento “una bambola che sembra viva”1 e che “è
perturbante in sommo grado il fatto che un oggetto inanimato,
ritratto o bambola, acquisti vita propria”2. La bambola della fiaba di
Hoffmann appare come un “automa”, cioè un essere che si muove
da solo: se lì la
spiegazione del movimento era puramente magica e
soprannaturale, il movimento degli automi reali, realizzati a
partire dal XVII secolo, era meccanico.
Questi ultimi si potevano incontrare anche ai banchetti e alle
feste delle corti barocche e settecentesche, esposti a fare
bella mostra di sé:
basta dare uno sguardo all’iperbolico banchetto di una corte
tedesca ricostruito dalla fantasia di Federico Fellini in Il
Casanova di
Federico Fellini (1976), al quale partecipa uno
stupefatto Giacomo Casanova. Qui, il celebre intellettuale e
seduttore veneziano incontra una
bambola meccanica che provoca in lui contemporaneamente
attrazione e perturbamento e della quale finirà per
innamorarsi.
Ma l’automa è anche e soprattutto portatore di orrore: non è un caso che il vampiro di Murnau, in Nosferatu. Una sinfonia dell’orrore (1922), emerga dal sepolcro e si muova quasi come una marionetta o un burattino, in modo meccanico, come un sonnambulo. Esseri sonnambulici, definiti “automi spirituali” e “mummie del pensiero” da Gilles Deleuze3 sono presenti d’altronde anche nel cinema di Dreyer, non a caso proprio in Vampyr – Il vampiro (1932). La figura dell’automa, nell’immaginario della fantascienza, si è evoluta poi nelle sembianze dell’androide, un essere meccanico dotato di una superiore intelligenza artificiale: è quest’ultima a sostituire, oggi, gli elementi magici, meravigliosi e demonici. Un cortocircuito di tematiche che, nella contemporaneità, esce dall’immaginario cinematografico e letterario per lambire la realtà: è da essa, in cui l’intelligenza artificiale si è ormai diffusa, che emergono gli spunti più inquietanti per un nuovo “orrore tecnologico”.
“Ahò i tedeschi se so alleati agli americani”, la magistrale battuta di Albero Sordi che interpreta lo spiazzamento totale dei militari italiani l’8 settembre del 1943, nel film di Luigi Comencini “Tutti a casa", potrebbe oggi rappresentare lo sconcerto e lo stato confusionale dei liberaldemocratici e socialdemocratici europei di fronte alla prospettiva di pace in Ucraina.
Il loro mondo non c’è più. Dopo aver costruito tutta la loro politica nella collocazione euroatlantica, con il dogma della fedeltà assoluta agli Stati Uniti, come condizione per la crescita del potere dell’Unione Europea. Dopo aver condiviso con gli USA la marcia verso Est della NATO, la contrapposizione alla Russia e alla Cina, il colpo di stato in Ucraina del 2014, all’origine della guerra in quel paese, come sostengono dal loro punto di vista gli stessi ucraini.
Dopo aver innalzato la bandiera della guerra, della sconfitta della Russia e del rovesciamento di Putin, sempre assieme agli Stati Uniti. Dopo aver speso la UE a fianco di Israele, nonostante qualche dissociazione e con una montagna di ipocrisia. Dopo aver portato in recessione i propri paesi per i costi delle sanzioni e dell’economia di guerra. Dopo tutto questo impegno politico, ideologico, economico e militare, i leader e i loro giornalisti europei, fautori di quella che è stata chiamata la “maggioranza Ursula”, vedono crollare tutte le loro certezze nei comuni immarcescibili valori occidentali. All’Onu Israele vota contro l’Ucraina e gli USA stanno assieme alla Russia. E tutti sanno che è questo è solo l’inizio di un percorso che rovescia trent’anni di ciò che è stato l’europeismo occidentale.
Prima di accusare Giuseppe Conte di tradimento dei valori occidentali, e di sottomissione a Trump e alle estreme destre, converrebbe analizzare l’andamento della guerra in Ucraina negli ultimi tre anni e chiedersi come mai l’illusione di una vittoria di Kiev sia durata così a lungo e apparentemente duri ancora.
Come mai non ci sia alcun ripensamento, nella Commissione UE e nel Parlamento europeo, sulla strategia di Zelensky e sull’efficacia del sostegno militare a Kiev. La prossima consegna di armi, scrive il «Financial Times», dovrebbe ammontare a 20 miliardi di dollari.
Non è solo Conte a dire che Trump e i suoi ministri smascherano un’illusione costata centinaia di migliaia di morti ucraini oltre che russi: l’illusione che Kiev potesse vincere la guerra, e che per vincerla bastasse bloccare ogni negoziato con Putin e addirittura vietarlo, come decretato da Zelensky il 4 ottobre 2022, otto mesi dopo l’invasione russa e sette dopo un accordo russo-ucraino silurato da Londra e Washington.
Smascherando illusioni e propaganda, Trump prende atto dell’unica cosa che conta: non la politica del più forte, come affermano tanti commentatori, ma la realtà ineluttabile dei rapporti di forza. Realtà dolorosa, ma meno dolorosa di una guerra che protraendosi metterebbe fine all’Ucraina.
È molto difficile comprendere come funzioni l’empatia negli esseri umani. Le teorie psicoanalitiche spiegano che gran parte delle nostre posizioni, apparentemente razionali, trovano la loro radice nell’opaca profondità del nostro inconscio. Banalizzando eccessivamente, si potrebbe affermare che la destra, col suo bisogno di autorità, ordine gerarchico e repressione dei colpevoli, è come espressione del bisogno di reprimere da parte di un padre frustrato; mentre la sinistra, che “vorrebbe supportare” (virgolette necessarie) a priori i deboli nella società, attribuendo al sistema responsabilità forse sproporzionate, sarebbe come una manifestazione del senso di colpa maturato nei confronti della madre. Generalizzazioni che servono a poco. Eppure, non tanto la posizione della destra, tradizionalmente a favore del militarismo patriottico, ma quella dell’elettorato del PD sorprende e inquieta non poco sulla guerra in Ucraina. Le esternazioni di Elly Schlein, che difende ancora l’invio di armi in Ucraina per la pace giusta e afferma di non poter essere mai d’accordo col Presidente Trump, sono di un semplicismo aprioristico stupefacente. Se Trump si dichiara per la pace in Ucraina, bisogna boicottarlo a prescindere perché è Trump. Se Putin afferma che l’Unione Sovietica ha perso 26 milioni di cittadini russi per liberare l’Europa dal nazismo bisogna cancellare una verità storica perché difesa da Putin. Il ragionamento della leader del PD (e purtroppo di gran parte dell’elettorato piegato dalla propaganda ininterrotta di Mentana) è di una violenza estremista evidente, e dimostra come si sentano di appartenere al mondo del bene come i crociati, e come in nome del bene possano seminare distruzione e abbeverarsi del sangue degli Ucraini.
“Friedrich Merz, il «vassallo in capo» europeo degli Stati Uniti nella nostra era post-liberale”. Alla nostra ragazza romana simpatica, bugiardella e molto vanitosa, sarà assegnato il posto di «vice-capo vassallo» o della staffetta? Staremo a vedere
Saremo impotenti testimoni di una ulteriore cannibalizzazione dell’Europa per mano del capitale statunitense.
Sentiremo molta retorica sull’“autonomia” tedesca ed europea, e forse anche accesi disaccordi pubblici tra Berlino e Washington. In realtà, però, si tratterebbe in gran parte di una facciata, perché la nuova dinamica servirebbe solo le élite europee e americane. Le prime continuerebbero ad alimentare la paura della Russia come mezzo per giustificare maggiori spese per la difesa, dirottando i fondi dai programmi sociali e legittimando la loro continua repressione della democrazia. Quanto alle seconde, continuerebbero a trarre vantaggio dalla dipendenza economica dell’Europa dagli Stati Uniti. Nel frattempo, persone come Merz sarebbero ben posizionate per aiutare l’ulteriore cannibalizzazione dell’Europa per mano del capitale statunitense.
Non che dovremmo sorprenderci. Negli ultimi due decenni, Merz, proprio come Trump, ha dimostrato di essere prima un uomo d’affari e poi un politico.
Jeffrey Sachs, direttore del Center for Sustainable Development della Columbia University, ha concesso un'intervista esclusiva a China Daily, analizzando le implicazioni delle politiche commerciali dell'amministrazione Trump e il loro impatto sulle economie di Cina e Stati Uniti. Sachs, esperto di sviluppo sostenibile e relazioni internazionali, ha espresso un giudizio critico sulle scelte del presidente USA, delineando uno scenario in cui gli Stati Uniti rischiano di perdere competitività e leadership globale, mentre la Cina e i paesi emergenti potrebbero accelerare il loro sviluppo.
Le ragioni dietro la politica aggressiva di Trump
Alla domanda su come la decisione di Trump di imporre un dazio aggiuntivo del 10% su tutte le merci cinesi influenzerà le economie di Cina e Stati Uniti, Sachs ha spiegato che il presidente nordamericano persegue una politica commerciale aggressiva per diversi motivi: indebolire la Cina, spingere Pechino ad accettare le richieste di politica estera degli Stati Uniti, aumentare le esportazioni americane verso la Cina, bilanciare il commercio bilaterale, proteggere le aziende e i lavoratori statunitensi e generare entrate fiscali. Tuttavia, Sachs è convinto che questa strategia sia destinata a fallire. "Trump sopravvaluta l'importanza del mercato statunitense per la Cina e crede di avere più leva politica di quanto non abbia in realtà", ha affermato. "La Cina non si farà intimidire e diversificherà il proprio commercio verso il resto del mondo, mentre gli Stati Uniti perderanno competitività nei mercati terzi".
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Carla Filosa: "Libertà" fascista
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Se ne sono dette
di tutte sulle elezioni tedesche. Perlopiù a partire da un
presupposto dato come marmoreo e perenne. Qui si prova a
uscire un po’ dal
coro e non me ne abbia a male il lettore.
Sarà perché ho un antenato francese, il Capitano Pierre François De Gerbaulet che, scampato alla Notte di San Bartolomeo e alla strage degli ugonotti ordinata da Carlo IX, si rifugia in Germania, Vestfalia, e i suoi discendenti vi rimangono fino ai giorni nostri. Sarà perché ho passato la parte più cruda della guerra in Germania, da ragazzino quasi adolescente, e vi ho anche sparato contro gli angloamericani. Peraltro senza prenderci. E non mi è venuto neanche difficile, dopo aver visto a Germania ormai rasa al suolo, a Francoforte, Colonia, Coblenza, svuotare i palazzi dei loro abitanti a forza del fosforo di Churchill e Roosevelt. O dopo aver raccolto un mio compagno di classe, sfollato dalla Ruhr incenerita, sventrato dalle mitragliatrici degli Spitfire.
Sarà perché a Monaco e a Colonia, con Thomas Mann, ho studiato Germanistica… Ma, pur guardando il mondo, e agendovi, da sinistra estrema, non concordo con quasi nessuno degli analisti che della Germania si dicono esperti (escluso Vladimiro Giacché). Tanto meno ora, viste le valutazioni che si vanno facendo delle recenti elezioni.
Sarà anche perché sono pochi i nostri storici e analisti che concentrano le loro attenzioni sulla Germania. Preferiscono Francia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone. Forse perché non abbiamo ancora metabolizzato del tutto il risentimento covato per come ci avevano ridotto i barbari. E poi gli imperatori del Sacro Romano Impero.
Al pur ottimo liceo che ho frequentato, ci parlavano di Montaigne, Hugo, Voltaire, un po’ di Fitzgerald, un accenno a Joyce. Mai una parola su Hoelderlin, Heine, Kleist. Un fugace accenno a Goethe e al suo Faust. E pensare che i germanofoni, più ancora degli inglesi, hanno rivolto a noi la loro massima passione per l’esplorazione storica: Theodor Mommsen su Roma e il suo diritto, Jacob Burckhardt e il Rinascimento, Ferdinand Gregorovius e il nostro Medioevo, lo stesso Goethe…
L’ingiustizia oggi cammina con passo sicuro. Gli oppressori
si fondano su diecimila anni. La violenza garantisce: com’è
resterà. Nessuna voce risuona tranne la voce di chi comanda.
E sui mercati lo sfruttamento dice alto: solo ora io
comincio. Ma fra gli oppressi
molti dicono ora. Quel che vogliamo non verrà mai. Chi è
ancora vivo non dica: mai. Quel che è sicuro non è sicuro.
Com’è così non resterà. Quando chi comanda avrà parlato
Parleranno i comandati. Chi osa dire: mai? A chi si deve se
dura l’oppressione? A noi. A chi si deve, se sarà
spezzata?Sempre a noi. Chi viene abbattuto, si alzi! Chi è
perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà
fermare? Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani E
il mai diventa:
oggi!
Bertolt Brecht, “Lode della dialettica”.
Non spaventi subito il ricorso, qui sotto proposto, a un recupero storico di ciò che sta accadendo in questo presente e che forse riguarderà anche un prossimo futuro. L’obiettivo è solo quello di collocare, senza l’emotività e lo sconcerto che caratterizza l’attualità (il video farlocco “Trump Gaza”, per esempio), una comprensione che sappia diluire le apparenti “novità” nel percorso lento e continuo che invece ha preordinato, in questa fase più favorevole, il consolidarsi di vecchi rapporti di forza trasferitisi soprattutto in moderne tecnologie. L’esteriore “tirannide” trumpiana può essere sciolta da un connotato politico preoccupante, quando, al contrario, se ne veda una sorta di mimetismo per il solito ricorso al protezionismo, alternato sempre alla libera circolazione poi di merci e capitali. Inoltre, la brutalità degli insulti alle persone da parte del presidente Usa, è solo espressione del rapporto di capitale che implica la rozzezza dell’arbitrio del potere, mai mancato, intento a svuotare di contenuto strutturale ogni relazione estrinseca, “differente” o “oppositoria”. Le offensive bordate di pochi giorni fa all’indirizzo di Zelensky, ad esempio, possono essere lette non solo come il passo più breve per conquistare appetibili terre rare, ma anche con la sapienza cinese che avverte che “se non si è al tavolo si è nel menu”.
L’8 marzo accomuna da più
di un secolo chi vuole la libertà delle donne, quindi ci
sentiamo coinvolte in questa data. Da alcuni anni, tuttavia,
proviamo sconcerto per
l’uso di parole neutre a base di asterischi: come può essere
celebrata la giornata delle donne, se si rifiuta la parola
“donna”? E l’estetica truce dei cortei, con i fumogeni e a
volto coperto, non fa pensare al femminismo che è
conflittuale, ma
non violento. La rivoluzione delle donne è e rimane
nonviolenta, fa leva sulla presa di coscienza soggettiva e sul
partire da sé.
In Italia i temi dell’8 marzo ormai classificano l’umanità in base al grado di oppressione. Può sembrare un modo solidale di fare giustizia, di non lasciare indietro nessuno e di dare priorità ai bisogni più gravi, ma così si ricalcano conflitti che oppongono storicamente tra loro gruppi di uomini, non si mettono al centro le donne. Tutte siamo state educate ai valori universali che fanno apparire insufficiente occuparsi di una parte invece che di tutti e siamo state abituate a mettere gli altri prima di noi: sarà questo che fa considerare riduttivo il femminismo se non si fonde nelle lotte a favore di altri? Si propone allora un femminismo del 99% in marcia contro l’1% dei privilegiati, ma in questo magma proprio le donne rischiano di scomparire.
In questa Lettera aperta mettiamo a fuoco alcuni concetti per aprire una discussione, da tempo soffocata.
Donna
Monique Wittig definiva “donna” l’adulta destinata alla relazione con l’uomo, accuditiva e subalterna, madre dei figli di lui, e concludeva provocatoriamente che le lesbiche non sono donne, ma non intendeva dire che le lesbiche sono trans, bensì che si sottraevano a quanto previsto per loro dal patto sociale. Noi definiamo donna “un’adulta umana di sesso femminile”: essere donna non è un sentimento, ma un dato di realtà.
Nel primo volume dei “Quaderni dal carcere” Gramsci dedica un’ampia e giustamente celebre analisi alla natura del ceto intellettuale e della loro funzione. Egli scrive:
“Gli intellettuali hanno la funzione di organizzare l’egemonia sociale di un gruppo e il suo dominio statale, cioè il consenso dato dal prestigio della funzione nel mondo produttivo e l’apparato di coercizione […] per quei momenti di crisi di comando e di direzione in cui il consenso spontaneo subisce una crisi.”
Se uno studente volesse cercare un esempio preclaro di questa funzione degli intellettuali nell’Italia contemporanea non potrebbe trovare esempio migliore dell’articolo a firma Antonio Scurati, comparso oggi sulle pagine di Repubblica, dal titolo: “Dove sono oramai i guerrieri d’Europa?” (con la parola “guerrieri” sottolineata in corsivo).
Il testo è ammirevole, perché il compito assegnato dai committenti era indubbiamente di straordinaria complessità.
La situazione cui l’intellettuale è chiamato a porre mano è critica.
Per ragioni inconfessabili, la catena di comando europea oggi desidera far passare un drenaggio di risorse pubbliche “monstre” nel nome della sicurezza e del riarmo.
Per quanto ottenebrati da reality show, talk show e sostanze psicotrope – in ordine decrescente di nocività – i cittadini europei paiono manifestare alcuni sensi di inquietudine al profilarsi di questo colossale cetriolo in volo radente.
La passionalità e la vis polemica che lo caratterizzano fanno di Massimo Cacciari un eccellente relatore quando il dibattito verte su temi filosofici, ma nocciono non poco alla sua lucidità espositiva nei casi (assai frequenti) in cui è chiamato a esprimersi su questioni politiche.
In un recente confronto social con Di Battista sugli sviluppi della vicenda ucraina, all’indomani dello show andato in scena allo studio ovale, il filosofo veneto ha riconosciuto che l’Occidente a guida americana è il principale responsabile dello scoppio delle ostilità e della loro prosecuzione, salvo poi affermare (vado a memoria, ma il senso è questo) che “la pace andava fatta subito per non lasciar vincere Putin”, che invece sta vincendo ma resta “il peggiore”, perché in patria ha perseguitato gli oppositori ecc. ecc.
È almeno dai tempi di Kant che la logica viene considerata una disciplina minore, quasi un’ancella della filosofia, ma la sua assenza in un ragionamento desta comunque stupore, specie se a “perdere il filo” è uno stimato intellettuale che – oltretutto – non va a caccia di facile consenso né di incarichi. Il fatto che il Presidente russo sia o meno un despota è nel caso di specie del tutto irrilevante, anche se il sostegno di cui gode da parte della cittadinanza sembra suggerire che egli faccia affidamento più sulla capacità di persuasione e sulla “bontà” del proprio operato che sulla paura suscitata: chi giudica una controversia deve basarsi sui fatti per distribuire ragioni e torti, non lasciarsi traviare da simpatie e preconcetti moralistici.
“Sii forte”; “Sii coraggioso”; “Non avere paura”: dopo aver assistito alla scazzottata nello Studio Ovale dell’altro giorno, i leader europei volevano in tutti i modi fare in modo che il compagno Zelensky sentisse il loro sostegno incondizionato e lo stimolo giusto per non mollare l’osso. E cosa c’è di meglio che un bel messaggio motivazionale? Beh, chiaro: 4 messaggi motivazionali, da Dombrovskis a Costa, dalla Metsola alla Borderline, tutti uguali; un messaggio in codice?
Zele’, guarda, ti vogliamo bene, ma da quando c’hanno tolto l’USAID a fondi per la comunicazione stiamo messi maluccio e il massimo che ci possiamo permettere è un copincolla: figurati se ce n’abbiamo abbastanza per permetterti di continuare a fare la guerra a Putin; però oh, te tieni duro, eh? D’altronde, “la tua dignità onora il coraggio del popolo ucraino”; “non sarai mai solo, caro presidente”, tanto, contro le pale e i chip delle lavatrici basta il pensiero, no? Intanto, caro Zele, ti dispiace se strumentalizzo un altro po’ il martirio del popolo ucraino per farmi un po’ di cazzi miei? Perché sai, sono 20 anni che qui cerchiamo il modo per armarci fino ai denti, ma i cittadini europei sono dei rompicoglioni che non ti puoi immaginare: siccome l’economia va di merda da almeno 15 anni e non facciamo altro che tagliare i servizi sociali essenziali anno dopo anno, ci stressano che dicono che prima di spendere un altro 2% di PIL per comprare qualche ferrovecchio di qualche azienda militare statunitense decotta, tipo quel cesso a pedali dell’F35, ci sarebbero altre priorità, però ora con questa puttanata che, invadendo l’Ucraina, Putin ha dimostrato di essere una minaccia per tutta l’Europa, forse li stiamo convincendo che è urgente e che non si può fare altrimenti.
“L’Europa deve riarmarsi urgentemente”. Questo è quanto ha dichiarato la presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, al termine del vertice tra una dozzina di paesi euroatlantici a Londra. La Von der Leyen ha sottolineato la necessità di rafforzare militarmente l’Ucraina con “garanzie di sicurezza complete” che ne sostengano le posizioni economica e militare. “Dobbiamo potenziare massicciamente le nostre difese”, ha aggiunto la presidente, annunciando che il 6 marzo la Commissione presenterà un piano su questo al Consiglio europeo.
“È fondamentale incrementare gli investimenti nella difesa per un periodo prolungato, per la sicurezza dell’Unione Europea nel contesto geostrategico in cui viviamo, dobbiamo prepararci al peggio”, ha affermato la presidente della Commissione europea confermando così come la corsa al riarmo sia ormai il dna dell’Europa che tanti decantano ancora – e del tutto arbitrariamente – come culla della pace e della civiltà.
I leader euroatlantici presenti a Londra hanno concordato di mantenere il flusso di aiuti militari all’Ucraina e di aumentare la pressione economica sulla Russia, ribadendo che Kiev dovrà essere parte integrante di qualsiasi negoziato di pace.
Il britannico Starmer, organizzatore del vertice di Londra, ha comunicato l’intenzione di formare “una coalizione di volenterosi” (formula usata da George W. Bush ai tempi della guerra in Iraq) per far rispettare un eventuale accordo di pace, con il Regno Unito pronto a giocare un ruolo di primo piano.
Una considerazione forse dai toni troppo perentori, di cui mi scuso in anticipo ma non saprei dirla in altro modo. Trump può rappresentare veramente la fine del capitalismo, l'autodistruzione.
Gli Stati Uniti hanno retto l'urto del mondo emergente, che hanno costruito, commettendo infiniti errori, con la globalizzazione, attraverso una combinazione di dominio finanziario, presenza militare e, soprattutto, con una narrazione liberale e democratica in grado di egemonizzare non solo le destre, ma anche gran parte delle sinistre occidentali. Questo modello ha generato una gigantesca bolla finanziaria che sorregge il Pil a stelle e strisce, ha attratto capitali da tutto il mondo, ha fatto sì che il dollaro fosse considerato la valuta più stabile, ha reso "accettabili" da una parte influente dell'opinione pubblica internazionale le peggiori guerre e ha mantenuto un equilibrio indispensabile con la Cina.
In altre parole, pur non essendo più la più grande potenza economica e pur vivendo profonde contraddizioni interne, gli Stati Uniti hanno garantito la vita del capitalismo. Ora è arrivato Trump che ha messo subito in tensione la finanza con l'appoggio a figure come Musk, pretendendo un esplicito vassallaggio dei super ricchi big tech, ha dichiarato apertamente che il capitalismo è totalmente di destra, ha rotto l'artificio retorico del capitalismo liberale e ha definito un sistema di relazioni internazionali costruito sulla ricerca di un primato retorico fatto di costanti minacce; magari minacce verbali, ma certamente in grado di generare una profonda instabilità in un sistema, come accennato, già molto complesso.
Lorenzo Mizzau riflette sul libro di Evelina Praino, L'uso di sé (Orthotes 2023) che ripercorre l'opera di Agamben cercando di individuare una exit strategy etica dal neoliberalismo attraverso il concetto di forma-di-vita
Perché il fine sia
l’origine, la nascita di una comunità-specie realizzata, la
nascita continua della presenza coerente, l’affermazione
dell’essere inoggettivo, la soggettività vivente al di là
dell’avere. Dell’avere un Io, dell’avere una madre, un
padre, dell’avere dei figli, dell’aversi, del
possedere.
Affinché abbia
fine la perdita, infine.
Giorgio
Cesarano
Talvolta un istinto sicuro ci mette di fronte a una circostanza brutale: la vita ci sfugge tra le mani. O, meglio, ci è già sfuggita. Ha lasciato il suo luogo proprio, o, forse, è stata trascinata via.
Lo testimonia l’imbarazzo che proviamo quando, alla richiesta di un vecchio amico di metterlo al corrente dei fatti salienti della nostra vita recente, non possiamo che rispondere con un piatto resoconto, in tutto e per tutto simile a un CV. In occasioni simili, nasce in noi il sospetto che il curriculum vitae (letteralmente: il corso-di-vita) abbia sostituito in ogni aspetto il corso della nostra vita.
Ma non è solo la nostra vita a sfuggirci: altrettanto sfuggente, in pieno capitalismo cibernetico, è la vita degli altri, la vita del mondo. Al punto che la FOMO, fear of missing out, la paura di rimanere tagliati fuori dal mondo e di perdersi l’essenziale, potrebbe oggi nominare il tratto centrale del soggetto neoliberale. Ciò che, nella FOMO, siamo terrorizzati di mancare, è forse anzitutto l’appuntamento con noi stessi. Ma ciò significa che, nella FOMO, il soggetto neoliberale diventa qualcosa come il luogo di un appuntamento mancato: il luogo della vita che manca la vita, che si sottrae a sé – il luogo della vita privata. È qui che si palesa un’ambivalenza sottile: che rapporto c’è, infatti, tra la vita privata e la vita pubblica? Non è forse, la vita privata, ciò che rimane quando alla vita è sottratta la sua intrinseca qualità politica? Non è, forse, ogni vita privata, una vita mutilata, spogliata di sé – una nuda vita?
A cura di Antonio Pagliarone
Trump considera
gli Stati Uniti solo come una grande corporation capitalista
di cui è amministratore delegato. Proprio come quando era il
capo nello show
televisivo The Apprentice, pensa di gestire un'azienda e
quindi può assumere e licenziare persone a suo piacimento. Ha
un consiglio di
amministrazione che consiglia e/o esegue i suoi ordini (gli
oligarchi americani e gli ex presentatori televisivi). Ma le
istituzioni dello stato sono
un ostacolo. Quindi il Congresso, i tribunali, i governi
statali ecc. devono essere ignorati e/o gli si deve dire di
eseguire le istruzioni
dell'amministratore delegato. Come un buon (sic) capitalista,
Trump vuole liberare la plc statunitense da qualsiasi vincolo
nel realizzare profitti.
Per Trump, la corporation e i suoi azionisti, hanno come unico
obiettivo i profitti, non le esigenze della società in
generale, né
salari più alti per i dipendenti della corporation di Trump.
Ciò significa niente più spese inutili per mitigare il
riscaldamento
globale ed evitare danni all'ambiente. La corporation
statunitense dovrebbe semplicemente realizzare più profitti e
non preoccuparsi di tali
"esternalità". Come l'agente immobiliare che è, Trump pensa
che il modo per aumentare i profitti della sua azienda sia
fare accordi per
acquisire altre aziende o fare accordi su prezzi e costi per
garantire i massimi profitti per la sua azienda. Come ogni
grande azienda, Trump non
vuole che nessun concorrente guadagni quote di mercato a sue
spese. Quindi vuole aumentare i costi per le corporate
nazionali rivali, come Europa,
Canada e Cina. Lo sta facendo aumentando le tariffe sulle loro
esportazioni. Sta anche cercando di convincere altre corporate
meno potenti a
concordare termini per acquisire più beni e servizi delle
imprese statunitensi (aziende sanitarie, cibo OGM ecc.) negli
accordi commerciali (ad
esempio il Regno Unito). E mira ad aumentare gli investimenti
delle imprese statunitensi in settori redditizi come la
produzione di combustibili
fossili (Alaska, fratturazione idraulica, trivellazione),
tecnologia proprietaria (Nvidia, AI) e, soprattutto, nel
settore immobiliare (Groenlandia,
Panama, Canada Gaza).
Nel cercare di analizzare cosa significhi la
netta vittoria elettorale di Trump sia per il suo paese che
per il resto del mondo, come
è necessario fare, bisognerebbe in primo luogo sbarazzarsi, o
almeno mettere da parte, alcune caratterizzazioni che sono
state appiccicate al
personaggio e che non ci sono d’aiuto per comprendere a fondo
la natura del fenomeno. Quale quella di essere un avventurista
incline alla
violenza in ogni campo; di interpretare il suo ruolo come
messianico; di adottare atteggiamenti e dichiarazioni a dir
poco sopra le righe; di
ostentare il suo corpo ferito in un’immagine ricercata e
diventata iconica; di brutalizzare il suo stesso agire
politico; o addirittura di
essere poco più di un “comico naturale”. In particolare
dovremmo essere noi, nativi e abitanti dell’italico stivale, a
essere
sufficientemente vaccinati da simili devianti interpretazioni,
avendo assistito increduli - senza necessariamente rammentare
le posture mussoliniane,
riportate all’attenzione da ricostruzioni romanzate e filmiche
– al nascere e allo svilupparsi del fenomeno, pur ben diverso,
del
berlusconismo e sapendo quanto ci sia costata l’altera
sottovalutazione della sua fondata pericolosità, almeno al suo
primo manifestarsi.
Ma scorrendo anche autorevoli commenti offerti dal mainstream
nostrano sembra riconfermarsi l’acuto detto secondo cui la
storia
è una ottima maestra, ma non ha scolari.
Intendiamoci non si può negare che The Donald, rispetto alla sua prima apparizione come presidente sulla scena della storia statunitense e quindi mondiale, abbia accentuato aggressività e decisionismo nelle sue parole e nei suoi atti. Anzi si possono persino iscrivere questi suoi comportamenti in una nuova categoria, che forse aiuta a comprendere meglio con chi abbiamo a che fare. Si è fin qui e tuttora usato nei confronti dei protagonisti della destra sparsi per più continenti, compreso il nostro, il termine “populismo” per delineare un distorto, ma non meno reale, rapporto con il popolo, basato su promesse demagogiche e sulla esaltazione di un decisionismo governativo rafforzato da un presidenzialismo nelle sue varie forme e accezioni, che lo trasformavano in un populismo autoritario.
Ha preso il via, in Germania, un progetto che sembra uscito direttamente dalle pagine di 1984 di George Orwell: la Beratungskompass Verschwörungsdenken, una linea di assistenza nazionale dedicata a chi è “colpito” o “preoccupato” dal cosiddetto “pensiero cospirazionista”. Presentata come una soluzione per combattere disinformazione ed estremismo, questa iniziativa, finanziata dal ministero della Famiglia (BMFSFJ) e dal ministero dell’Interno (BMI), solleva interrogativi inquietanti su dove finisca il “sostegno alla democrazia” e dove inizi il controllo del pensiero. Il ministero della Verità, per l’appunto.
Il progetto, attivo nell’ambito del programma federale “Demokratie leben!” dal marzo 2024, è gestito da enti come il Violence Prevention Network, dalla Fondazione Amadeu Antonio e dal modus – Zentrum für angewandte Deradikalisierungsforschung. Chiunque potrà contattare questo centro telefonicamente oppure online per ricevere una consulenza anonima. L’obiettivo dichiarato? Orientare chi cerca aiuto verso “offerte di consulenza adeguate” e, se necessario, indirizzarlo a strutture locali per un supporto più approfondito.
“Quel che s’avanza è uno strano soldato”, vien dall’Occidente ma non è una “guardia rossa” che “mostra un martello e una falce incrociati sul petto”, ma una “guardia bianca” questa volta con l’emblema della UE che marcia per la terza volta alla conquista della Russia, dopo la guerra civile russa seguita alla Rivoluzione d’Ottobre e dopo l’operazione Barbarossa promossa dal Terzo Reich. Tutte finite tragicamente per gli aspiranti conquistatori. La postura guerrafondaia della UE che oggi si contrappone alla prospettiva di pacificazione avviata da Trump e Biden, si sta spingendo fino a rivendicare autonomia e indipendenza da Washington non per liberarsi da una servitù ereditata dalla fine della seconda guerra mondiale, ma per sottrarsi a un processo di pacificazione e di distensione nel continente europeo.
Mi viene spontanea allora una domanda: a quale Potere è legata la postura guerrafondaia antirussa della UE talmente sfrontata da sfidare lo stesso governo statunitense, che secondo la vulgata corrente dovrebbe essere il dominus indiscusso dell’Occidente e cui non si potrebbe disobbedire? E talmente arrogante da sfidare le due più grandi potenze nucleari del mondo nel continuare la guerra alla Russia fino alla sua sconfitta, rigettando la prospettiva di pacificazione che sembra accomunare i governi russo e statunitense?
Delle due l’una: o il governo statunitense è l’espressione massima dell’egemonismo imperialista e globalista occidentale e allora l’attuale postura dell’UE sarebbe incomprensibile, oppure il governo americano non ne è la guida effettiva, ma esso avrebbe altri ispiratori che condizionano lo stesso governo attraverso quello che viene comunemente definito come il Deep State.
Sulla questione delle Foibe si continua ad alterare la verità dei fatti accaduti. La giornata del Ricordo, che si celebra il 10 febbraio, non è mai stata l’occasione per fare luce sulla verità e sui veri artefici di quelle terribili violenze che hanno visto centinaia di vittime innocenti. Al contrario si continua a fare revisionismo storico, avallato dai discorsi istituzionali delle più alte cariche dello Stato.
Non è semplice far luce sul quel periodo senza conoscere la storia, quella vera, non contraffatta strumentalmente per far passare nell’opinione comune il nemico come vittima e viceversa. Ma chi è la vittima e chi il nemico nella triste storia delle Foibe? Eric Gobetti è uno storico, studioso del fascismo, della seconda guerra mondiale, della Resistenza e della storia della Jugoslavia nel Novecento. Ha scritto diversi saggi sulla storia del Novecento, soffermandosi, in particolare, sulle dinamiche dei fatti, sulle cause e sugli effetti, sulle vittime e sui carnefici delle Foibe. Ha visitato molteplici volte quei luoghi e vi ha fatto ricerche e cercato testimonianze per portare alla luce la verità.
Dopo le ultime elezioni, i dirigenti del Partito Democratico erano stupiti che gli elettori, solitamente molto attenti all'economia, non avessero mostrato il giusto apprezzamento per il miracolo economico di Biden. Hanno citato i miliardi di dollari di denaro federale destinati alla crescita economica; hanno ripetuto cifre di crescita aggregata più robuste di quelle di altre economie avanzate; hanno mostrato che la spesa dei consumatori continuava a mostrare un vigore sorprendente; hanno notato che i redditi aggregati crescevano più velocemente dell'inflazione; e ci hanno ricordato i segni spesso citati dell'aumento del mercato azionario e del valore delle abitazioni.
Sconcertati dagli elettori che hanno ignorato la Bidenomics e anzi si sono lamentati dell'economia, gli esperti del Partito Democratico hanno dedotto che i cittadini sono semplicemente ignoranti dei fatti.
Oggi, forse più che mai, il mancato riconoscimento delle divisioni di classe sociale produce giudizi mal informati e arroganti come quelli che si sentono nei circoli del Partito Democratico. Sebbene i numeri aggregati raccontino una storia, non riescono a convincere del benessere economico delle classi e degli strati che compongono l'aggregato, anche se sono di gran lunga il segmento più grande di quell'aggregato. Potrebbe essere che la vittoria economica di Biden sia stata una vittoria per i più ricchi, i più generosamente compensati tra la popolazione statunitense, lasciando indietro la maggioranza dei cittadini (e degli elettori) statunitensi?
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
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Dwight Eisenhower, presidente degli
Stati Uniti, nel 1961 denunciò il pericolo rappresentato dal
“complesso militare-industriale”, riferendosi all’intreccio
di
interessi tra l’industria bellica, i rappresentanti del
Congresso e le Forze Armate, che poteva condizionare
profondamente la politica
statunitense. Pochi anni più tardi, nel 1966, uscì un
importante lavoro di due economisti statunitensi, Baran e
Sweezy, intitolato
Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura
economica e sociale americana, nel quale si
dimostrava che solo grazie alla spesa militare
e all’industria bellica il capitalismo Usa poteva
contrastare la sua crisi e contenere la disoccupazione.
In sostanza, la spesa bellica (e ancora di più le guerre) rappresentano una sorta di “keynesismo militare” che, come prevede la versione originale di Keynes, si basa sulla spesa pubblica per sostenere l’economia capitalistica. Soltanto che tale spesa, invece di essere indirizzata verso il settore civile (infrastrutture, Welfare state, ecc.), è indirizzata verso quello militare. La spesa militare rappresenta una tipologia di spesa pubblica che per il capitale è più accettabile, perché i finanziamenti statali vanno direttamente alle imprese e soprattutto perché gli investimenti pubblici non vanno a finanziare un concorrente dell’impresa privata. Ad esempio, un’ampia ed efficiente sanità pubblica rappresenta un pericoloso concorrente per la sanità privata.
Nel 2024 si è registrata una corsa dei fondi di investimento verso il settore della difesa statunitense. La ragione stava nella guerra in Ucraina e nel budget della difesa statunitense che è di gran lunga il più massiccio a livello mondiale, essendo pari a 913 miliardi di dollari (2023) contro i 313 miliardi della Ue, i 296 della Cina e i 109 della Russia[i]. Gli esperti prevedevano che la rielezione di Trump avrebbe determinato un ulteriore aumento della spesa militare, spingendo gli investimenti dei fondi anche nel 2025.
Il summit di
Londra che ha riunito molte nazioni europee più NATO, UE e
il presidente ucraino per discutere come gestire la
situazione dopo la rissa nello
Studio Ovale di venerdì scorso tra Volodymyr Zelensky e
Donald Trump ha varato iniziative che appaiono confuse e già
col fiato
corto.
A parte l’ormai consueto impegno degli europei a spendere di più per la Difesa e ad essere pronti ad “assumersi maggiori responsabilità”, come ha detto il premier britannico Keir Starmer, i punti salienti emersi al vertice di Londra sembrano celebrare più le divisioni tra gli alleati che unità d’intenti.
Francia e Regno Unito hanno avanzato la proposta di una tregua della durata di un mese mentre Starmer ha esposto i punti del piano britannico “volto a porre fine i combattimenti” in Ucraina, precisando che questo piano sarà discusso con gli USA e verrà attuato “insieme” a Washington. I leader presenti al summit hanno concordato su quattro punti.
I quattro punti
Il primo punto prevede di mantenere l’aiuto militare all’Ucraina durante la guerra e aumentare la pressione economica sulla Russia: quindi verranno inasprite le sanzioni a Mosca mentre gli Stati Uniti parlano apertamente di ripristinare relazioni commerciali con Putin. Inoltre è noto che l’Europa non ha più aiuti militari da offrire a Kiev mentre gli Stati Uniti potrebbero bloccare ogni fornitura dopo la lite con Zelensky alla Casa Bianca.
Il secondo punto sostiene che un accordo di pace dovrà garantire la sovranità e la sicurezza dell’Ucraina che dovrà partecipare ai negoziati. Un punto che meriterebbe chiarimenti poiché la sovranità dell’Ucraina non è mai stata messa in discussione ma nei negoziati è certo che Mosca imponga cessioni territoriali a Kiev. Inoltre, come ha più volte precisato Trump, l’Ucraina non è nelle condizioni di dettare condizioni.
Il lavoro
è la fonte di ogni ricchezza, dunque tutto va al lavoro
secondo le giuste proporzioni.
Non è vero, dice Marx. Un programma socialista non può permettere a tali espressioni borghesi di sottacere le condizioni che sole danno un senso al lavoro. Tanto valeva copiare tutto Rousseau.
Quali sono queste condizioni, e perché a Gotha si scrive più una sviolinata russoviana che un programma socialista?
Perché non basta parlare dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo per conferire al discorso una pertinenza marxista. Perché c’è un rigore della critica marxista che la distingue da ogni altra critica della miseria, della violenza, dello sfruttamento, che la distingue da una critica del male, di stampo russoviana, di un male che sopraggiunge con la storia, con lo straniero e l’estraniazione, con la violazione di un’innocenza originaria, con una intrusione che violenta e spezza un’intimità e una purezza originarie.
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è frutto della cultura di tipo occidentale, delle civiltà storiche. L’inizio della storia segna la differenza, la caduta e la decadenza: la partizione tra un mondo innocente e giusto e un mondo ingiusto – il mondo del male. Ciò che sta alla base di ogni russovismo è l’immagine di una comunità immediatamente presente a se stessa, senza differenza, comunità del viso a viso, nella quale tutti i membri vivono nella prossimità del passaparola, del porta a porta, del piccolo villaggio, della trasmissione orale e del contatto vissuto e non corrotto dalla dilazione e dallo strumento, dall’estraniazione -una comunità della volontà presente e vivente. Il terreno dell’autenticità è la relazione di vicinato nelle piccole comunità dove tutti si conoscono (e si controllano). La distanziazione, la dispersione del vicinato, sono la condizione dell’oppressione, dell’arbitrio, del vizio. Gli oppressori fanno tutti lo stesso gesto: rompono la presenza, la compresenza dei cittadini, l’unanimità del popolo radunato, il contatto e la partecipazione diretta: tengono i soggetti sparsi, isolati, nell’impossibilità di vivere nello spazio di una medesima parola, di un solo e medesimo scambio persuasivo, nel soffio di un respiro.
Dunque, l’umorista spento di cui nel video, fattosi canarino in gabbia dal cinguettio su comando, va facendo delle giravolte. “Ma sì, ma andiamoci lo stesso il 15 marzo per l’Europa… 800 miliardi? Un po’ troppi? Ma non ne abbiamo già speso quasi altrettanti per salvare Ucraina e democrazia ? Su, non formalizziamoci sui numeri…”
Da noi, nell’Italia di ospedali, scuole, università, strade, salari, tutti ottimali, con la dottrina Ursula von Bomben (copy Travaglio), quirinalizzata dal ripetente sul Colle, succede questo: 2025 + 7 miliardi di euro, 2026 +17 miliardi, 2027 +27 miliardi, 2028 + 37 miliardi.
VIVA L’EUROPA A TRAZIONE ARMATA FRANCO-BRITANNICO-TEDESCA, CON VIGORE E BUONUMORE ALLA TERZA GUERRA MONDIALE, MAGARI ATOMICA.
Ora che quei cagasotto di americani hanno mollato l’osso russo per le briciole palestinesi, si torna alle cannoniere di Sua Maestà. Che nostalgia!
Stavolta è la volta buona per il definitivo Grande Reset di Davos. Ce n’è voluto un po’, ma di emergenza in emergenza ci siamo arrivati:
Dice un proverbio degli indiani Dakota: “Quando il cavallo è morto, la cosa più intelligente da fare è scendere”. Quello che invece viene normalmente fatto è aumentare a dismisura le frustate affinché il cavallo riparta. Credo sia questa la cifra che ha spinto Michele Serra, autore satirico che questa volta si è incredibilmente preso sul serio, a chiamare una piazza per l’Europa, una piazza “emotiva” che esprima “l’orgoglio europeo”. Naturalmente, decine di fantine e di fantini sono immediatamente balzate a cavallo e, dimenticando la saggezza Dakota, hanno iniziato a incitarlo e a spingerlo. Una farsa, se non fossimo immersi nella tragedia.
Nell’immaginario collettivo, l’Unione europea è nata su tre valori fondanti: pace, giustizia sociale, democrazia. Ovviamente, si è sempre trattato di un immaginario intriso di cultura coloniale, perché il benessere dell’Europa era intimamente legato all’espropriazione e allo sfruttamento del sud del mondo. Tuttavia, dopo due devastanti guerre mondiali, l’idea che i Paesi europei si associassero per bandire la guerra, per costruire un Welfare che garantisse una serie di diritti sociali e per farlo in un contesto di democrazia, per quanto spesso formale più che sostanziale, aveva coinvolto milioni di persone dentro la speranza di un futuro più dignitoso. Che ne è stato di quelle promesse?
L’Europa della pace aveva già perso gran parte della sua ragion d’essere il 24 marzo 1999, quando il governo D’Alema si fece parte attiva dei bombardamenti sulla Serbia, nel contesto del conflitto nell’ex-Jugoslavia. Ma oggi quella ragion d’essere si è trasformata nel suo esatto contrario.
È la seconda volta nella mia vita che un giornale della famiglia Agnelli convoca una manifestazione. La prima fu la marcia dei 40.000 – a Torino nel 1980 – decisiva per sconfiggere noi operai Fiat che stavamo lottando contro le espulsioni di decine di migliaia di lavoratori. La seconda, oggi, è la convocazione della Piazza per l’Europa il prossimo 15 marzo. In questo caso parlano di Europa ma è del tutto evidente che la manifestazione ha il compito di opporsi alla trattativa che deve essere aperta per porre fine all’orrendo macello in corso in Ucraina. Scrivono Europa ma si legge guerra.
A Torino protagonista della convocazione fu Luigi Arisio, un “quadro intermedio” della Fiat, passato alla storia come il “capo dei capi”. Protagonista oggi è Michele Serra, anche lui stipendiato dalla ditta di quella famiglia e testimonia il passaggio dall’industria alla produzione immateriale negli investimenti della famiglia.
Oggi come ieri parole d’ordine altisonanti e accattivanti coprono una operazione reazionaria. Nel 1980 la manifestazione dei capi serviva a dare una mano al padrone a sconfiggere il movimento dei lavoratori e il sindacato dei consigli ma aveva al centro la parola d’ordine del “diritto al lavoro”. Oggi la parola d’ordine dell’Europa e della pace giusta serve unicamente a sostenere la prosecuzione della guerra e dell’orribile massacro in corso in Ucraina.
Mentre il
presidente USA sembra determinato a intavolare un
negoziato con Mosca, le élite politiche europee appaiono
paradossalmente ostili a una
pacificazione del vecchio continente
Il disastroso incontro del 28 febbraio fra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca è una chiara conferma del fatto che delicate contrattazioni diplomatiche non devono essere condotte in pubblico.
Scontri verbali anche aspri, che possono aver luogo fra leader di governo durante colloqui a porte chiuse, hanno tutt’altro impatto se si verificano durante una conferenza stampa davanti alle telecamere di tutto il mondo.
L’incontro pubblico fra i due presidenti è stato evidentemente mal preparato, ma diverse indicazioni fanno ritenere che il problema sia sorto dalla malaccorta sovrapposizione di due questioni di calibro differente: un accordo per lo sfruttamento di minerali e altre risorse naturali ucraine, e il raggiungimento di una pace duratura fra Mosca e Kiev.
La firma del primo non avrebbe dovuto creare particolari problemi dopo che l’iniziale bozza americana, che secondo alcune fonti equivaleva a una sorta di “accordo capestro”, era stata riveduta per rassicurare il governo Zelensky.
Ma la visita del leader ucraino a Washington (incerta fino all’ultimo) era divenuta l’occasione per discutere ben altro tema, quello della composizione del conflitto fra Russia e Ucraina, che Trump sembra seriamente intenzionato a portare a casa.
Vari indizi fanno ritenere che il negoziato fra la Casa Bianca e il Cremlino stia procedendo più speditamente di quanto trapelato sui mezzi di informazione. Quantomeno, questa sarebbe la convinzione di Trump. Sulla carta, il presidente americano sarebbe intenzionato a concludere un accordo in tempi relativamente brevi.
Cedric
Robinson (1940 – 2016), americano, nato in una famiglia
emigrata in California per sfuggire al terrore razziale
dell’Alabama, è
stato professore di Black Studies all’Università della
California fino alla morte. A lui dobbiamo il più importante
contributo
della seconda metà del Novecento al dibattito afro marxista
iniziato nell’interguerra (vedi il precedente post su
“Panafricanismo,
Marxismo, comunismo”). Black marxism (1), la sua
opera più importante, è un lavoro monumentale di cui
cercherò di
ricostruire le linee fondamentali. Senza seguire l’ordine
espositivo del libro, che del resto ha una struttura
rapsodica, affronterò,
nell’ordine, i seguenti temi: 1) critica dell'impostazione
logicistica (hegeliana) del cosiddetto marxismo storico e
dialettico; 2) le radici
storiche del capitalismo e il ruolo del razzismo nel
rapporto di sfruttamento capitalistico; 3) meriti e limiti
dell’analisi marxiana (e dei
movimenti politici a essa ispirati); 4) valorizzazione del
radicalismo afroamericano come via autonoma al superamento
del capitalismo.
I. Critica dell’impostazione logicistica (hegeliana) del materialismo storico
Robinson fonda la sua critica metodologica al cosiddetto materialismo storico e dialettico su un presupposto che chi scrive non può che condividere (2): occorre prendere congedo dal concetto di necessità storica ispirato dalla logica hegeliana e dalla teoria evoluzionista, in base al quale ogni modo di produzione è il prodotto delle contraddizioni interne di quello che lo ha preceduto. I capitalisti di una certa epoca, replica Robinson, non discendono da quelli dell’epoca precedente per una sorta di legge immanente alla storia; al contrario: ogni mutazione socioeconomica rompe la continuità storica – potremmo dire con Walter Benjamin (3) che è un “balzo di tigre”.
La fisica deve dirigere la sua rotta tra Scilla, l’astratto,
e Cariddi, il concreto…
James Clerk Maxwell
I
Circa la categoria storiografica di “rivoluzione scientifica” (d’ora in avanti RS) integrerei l’elenco dei protagonisti aggiungendo a Galilei, Descartes e Newton, per quanto riguarda la biologia, il massimo rappresentante della RS in campo medico, ossia l’inglese William Harvey (1578-1657), il cui merito è stato quello di aver avuto per primo una chiara visione della circolazione del sangue.
Ancora una volta, è Galileo che ha sintetizzato nel binomio delle “sensate esperienze” e delle “certe dimostrazioni” i caratteri del metodo scientifico moderno, che è costituito dall’uso sistematico del cosiddetto “metodo sperimentale” fondato sull’applicazione della matematica e sull’osservazione scrupolosa dell’esperienza. Il problema della conoscenza consisteva dunque nel determinare la via per giungere alla scienza oltrepassando il campo delle mere opinioni e le sole discipline, in cui fu conseguito per giudizio unanime questo scopo, furono la matematica, applicata all’astronomia, e la logica formale. La filosofia della scienza (d’ora in avanti FDS), che mosse i suoi primi passi tra ’600 ed ’800 per iniziativa degli stessi scienziati (Galileo Galilei, Isaac Newton), di alcuni filosofi come Gottfried Leibniz (1646-1716) e Immanuel Kant (1724-1804), protagonista della cosiddetta “rivoluzione copernicana” in filosofia, e del fondatore del positivismo, Auguste Comte (1798-1858), si concentrò pertanto sia sull’analisi dei fondamenti e dei metodi della matematica sia sull’analisi del metodo sperimentale. Il contatto con l’esperienza nelle teorie fisiche fu perciò ritenuto fondamentale, cosicché nei trattati di fisica moderni le proposizioni primitive (assiomi e postulati) devono possedere una loro evidenza, ma anche un aggancio con l’osservazione, come accade nel trattato di A. M. Ampère, Teoria matematica dei fenomeni elettrici unicamente dedotta dall’esperienza (1826).
Al Congresso, Trump voleva ribadire la sua presa di posizione sull'Ucraina dopo la lite con Zelensky. È arrivata la resa e ha parlato di altro...
Trump rivendica i suoi successi, veri o asseriti che siano, nel discorso al Congresso americano (simpatiche le scoperte degli sprechi scoperti dal Doge a trazione Musk). E ha prospettato le magnifiche sorti e progressive dell’Impero prossimo venturo, sciorinando di investimenti, dazi, ritorno all’ovile di Panama e accaparramento, “in un modo o nell’altro” della Groenlandia (dimenticandosi dell’acquisizione del Canada, ribadita più volte: significativo).
Ma non c’era bisogno di un discorso al mondo, tramite Congresso Usa, per lodare quanto fatto e ribadire cose già dette. L’impressione netta è che quando ha dato l’annuncio che avrebbe tenuto il discorso pensava di dire a ben altro e relativo alla clamorosa lite in mondovisione con Zelensky, che ha visto gli alleati europei pronti a spalleggiare il presidente ucraino e a offrire la propria ricetta per la “loro” pace ucraina, cioè la terza guerra mondiale (vedi conclusione).
Crisi che invece certamente meritava cotanto proscenio, perché l’America di Trump poteva apparire isolata e in ambasce e perché doveva spiegare la reazione tanto dura e immediata alle provocazioni di Zelensky (vedi Piccolenote). Per nulla intimidito, Trump si accingeva a reagire anche verbalmente, e a suo modo, a quanti gli avevano teso la trappola e pensavano di averlo messo in un angolo.
La manifestazione del 15 marzo a Roma, convocata dal quotidiano della Famiglia Elkann Agnelli, la Repubblica, mi provoca un rifiuto che precipita nel disgusto.
Il rifiuto totale è per la guerra, l’economia di guerra e per coloro che oggi ne proclamano la “necessità” per combattere la Russia. E la cosa insopportabile è che fanno tutto questo nel nome del superamento dei nazionalismi.
Costoro non si accorgono neppure che hanno semplicemente sostituito lo spirito patriottardo nazionalista con lo spirito patriottardo europeista. Mettete “Europa” al posto di “Italia” e tutto il resto del loro linguaggio attuale può essere preso pari pari dai comizi di D’Annunzio e dei mascalzoni che nel 1915 inneggiavano alla guerra.
“Dobbiamo reagire al disonore“, “dobbiamo proclamare la superiorità della nostra civiltà“, “dobbiamo armarci contro il barbaro aggressore“. E le fazioni devono sparire tutte davanti al comune destino. Spariscano dunque le bandiere di parte tranne quella della Patria. Così ieri si imponeva solo la bandiera bianco rossa e verde, oggi la Repubblica chiede di andare in piazza il 15 marzo solo con quella blu. Cambiano le bandiere, non la cialtroneria di chi le sventola.
La realtà è che un gruppo di governanti europei, che non sono tutta l’Europa e neppure tutta la UE, uniti nella NATO con Canada e Turchia, si sono trovati a Londra per protestare contro Trump.
L’Europa, che detesta Trump, si appresta a fare esattamente ciò che gli USA vogliono, convinta però di fare un dispetto al presidente americano. Cercando di comprendere qual è il nodo dell’intera questione, perché l’Europa non sa più come muoversi nel mondo.
C’è del paradossale, in questa levata di scudi delle leadership europee – pressoché al completo – contro l’amministrazione Trump, che tra l’altro conferma come queste siano largamente composte di incapaci, affetti da un infantilismo politico spaventoso pari soltanto alla loro arroganza.
E paradosso consiste nel fatto che, nella convinzione di fare un dispetto a Trump, si apprestano a fare esattamente ciò che Trump chiede, ovvero farsi carico in prima persona della difesa europea, poiché gli Stati Uniti non considerano più così rilevante questo teatro e vogliono indirizzare altrove le proprie risorse militari. Peraltro, a chi non fosse ottenebrato dalla propria incapacità cognitiva, era chiaro da tempo che questo fosse l’orientamento verso cui si stavano volgendo gli USA già quando Biden sedeva ancora alla Casa Bianca. Cosa questa più volte sottolineata, scrivendo del conflitto ucraino. Il che rende evidente che non si tratta di un capriccio del nuovo presidente, ma di un’evoluzione strategica americana alla quale Trump in questo ha apportato, se mai, soltanto il suo stile ruvido e spiccio.
Per una curiosa coincidenza nella serata di ieri Rai 5 ha trasmesso uno straordinario ed emblematico film di Costa Gavras: “Adulti nella stanza”. E’ stata una sorta di involontaria “cattiveria” verso l’appello di Michele Serra a sostegno di una “Europa più forte”
Il film infatti ricostruisce tutte le fasi in cui il governo Tsipras, e soprattutto il suo ministro dell’economia Varoufakis, sono stati costretti a negoziare con i vari apparati della troika europea (dall’Eurogruppo alla Bce) sul famigerato Memorandum d’Intesa (il MoU) con cui la Grecia è stata deliberatamente strangolata per rientrare dal debito.
Sono significative le varie sessioni degli incontri nella stanza dell’Eurogruppo in cui i ministri europei smantellano e brutalizzano ogni tentativo della Grecia di salvaguardare la propria popolazione già sottoposta a tagli del 40% di pensioni e salari, privatizzazioni selvagge, espropri delle case su cui la gente non riesce a pagare i mutui etc.
E’ un film non solo realizzato professionalmente da un grande regista, ma è anche una lezione pedagogica su cosa è “l’Europa reale” che le popolazioni hanno sperimentato sulla propria pelle dal Trattato di Maastricht in poi e con la Grecia – per ammissione dello stesso ministro tedesco Schauble – destinata a fare e a dare l’esempio a tutti coloro che non si adeguavano alle politiche di austerity imposte dalla Ue ai paesi aderenti all’Eurozona. I negazionisti europeisti in questi dieci anni hanno fatto di tutto per rimuovere e nascondere questa dimensione.
In questi tre anni la Ue aveva due opzioni: vincere la guerra o preparare la pace.
Invece la guerra l’ha persa e la pace non l’ha preparata. Anzi la Pace nella UE è vietata.
Questa la ragione del dramma esistenziale delle migliaia di “esperti”, “politici”, “giornalisti” che dal 2022 sono passati dalle peggiori malattie fisiche e mentali di Putin alle lavatrici rubate dai russi in mancanza di chip, alle vanghe, ai cavalli, ai calzini bucati dei soldati russi e persino scomodato nord coreani mai esistiti
Tutto questo ci ha portato la guerra in casa. Un ottimo lavoro di Confartigianato (dati 2022 luglio 2024) ha reso nudo il Re: Mancate esportazioni in Russia e Ucraina – 13,4 miliardi, Perdita export in Germania – 18,4, Maggiore costo delle importazioni di energia dall’estero 78,9 miliardi. Maggiori oneri finanziari per le imprese – 44,3 miliardi, – 7% la produzione industriale nazionale
In questo scenario fosco tutti, il Sindacato in primis, proseguono nella solita ricettina, raccontando la favoletta della solita “crisi congiunturale”. Il Sindacato poi è felicissimo di poter addossare al governo “fascista” ogni male tacendo sulle vere cause, la scelta della guerra, delle sanzioni e non ultime le politiche sociali sulla sanità, scuola, lavoro dei governi dei “compagni” da vent’anni a questa parte che hanno aiutato, accuratamente, tutto questo.
Il sonno della ragione genera mostri e li stiamo vedendo tutti.
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
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Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024
Come si comincia la
recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana
attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si
fa, fra
vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per
un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché
ostinarsi ad argomentare,
a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure
del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò
in cinque
passaggi “clinici”.
Malessere senza nome
È una questione estetica, ha a che fare con la percezione. Molti di noi avvertono in sé una dissonanza, la non-coincidenza fra quel che sentiamo e quel che siamo tenuti a pensare; fra quel che sappiamo e il modo in cui viviamo; fra i timbri della comunicazione e i sussulti del diaframma. A volte la distanza si fa insostenibile e ci si trova allora a fuggire dagli odori dei grandi magazzini; angosciati per le file di TIR in autostrada, di dentifrici al supermercato, di uomini armati in centro città; atterriti dalle rassicurazioni dei politici; perplessi per un biglietto aereo che costa meno di quello del treno per l’aeroporto; attraversati da improvvisi impulsi luddisti – e via dicendo, ciascuno secondo un proprio spettrogramma di sensibilità lese. È raro che la dissonanza arrivi a piena coscienza: più spesso se ne resta nelle retrovie del sentimento come scarto o angoscia senza nome, una fibrillazione da silenziare subito perché, se ascoltata, subito ci renderebbe incoerenti rispetto al mondo in cui viviamo. Folli, dunque, o più probabilmente depressi, intristiti a morte per qualcosa che sentiamo ma non sappiamo nominare.
Primo e secondo consulto
In linea con la strategia globale della modernità, ogni dissonanza è letta come disfunzione individuale.
Guerra in Ucraina: Tre anni, tre
lezioni
Ci sono alcune occasioni, fortunatamente rare, in cui ci si rende conto che è in corso una svolta storica. Si guarda il calendario e si prende nota della data: questo momento preciso rimarrà impresso nella storia. Invariabilmente, queste occasioni comportano un aspetto di orrore surreale: tutti ricordano dove si trovavano l’11 settembre, turbati e affascinati nel vedere le Torri Gemelle bruciare e poi crollare. Il tentativo di assassinio di Donald Trump del 13 luglio 2024 ha avuto la qualità dell’evento storico evitato per un pelo. Quel giorno, una frazione di centimetro ha fatto la differenza: invece di girare la storia, il Presidente ha girato la testa.
Il 24 febbraio 2022 è stato un altro giorno storico. Ormai noto come “Giorno Z” (dal nome dei contrassegni tattici “Z” sui veicoli russi), l’inizio della guerra russo-ucraina è stato un momento spartiacque nella storia mondiale, che ha riportato la guerra ad alta intensità in Europa per la prima volta dopo generazioni e segnalato il ritorno della politica delle grandi potenze.
L’anniversario della guerra di quest’anno – la terza Giornata Z – è stato il primo a verificarsi sotto la nuova amministrazione Trump e per molti è stato segnato dall’ottimismo che il nuovo Presidente degli Stati Uniti possa fare passi avanti verso una soluzione negoziata per porre fine alla guerra. Mentre l’amministrazione Biden si è accontentata di continuare a convogliare armi e fondi in Ucraina a tempo indeterminato, il Presidente Trump ha ripetutamente dichiarato di voler porre fine alla guerra. Il cambiamento di posizione dell’America è stato drammaticamente illustrato la scorsa settimana, quando il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky è stato cacciato senza tanti complimenti dalla Casa Bianca dopo uno scontro nello Studio Ovale.
Mentre il mondo attende il prossimo atto, vale la pena di fare un bilancio della storia fino ad ora e di considerare ciò che si è imparato da essa. Da tre anni di guerra si possono trarre tre lezioni.
Il libro Le capitalism cognitif. Le nouvelle grande trasformation di Yann Moulier Boutang offre una riflessione profonda e articolata sull’attuale fase del capitalismo, mettendo in luce un contrasto evidente tra la dinamicità del capitalismo e la stagnazione della politica. Negli ultimi decenni il sistema capitalistico ha subito una trasformazione radicale, espandendosi globalmente e penetrando in contesti un tempo considerati impermeabili, come la Cina, che pur mantenendo una struttura politica comunista, ha abbracciato un modello economico capitalista. Questo capitalismo non si limita a sopravvivere ma prospera, spostando confini e ridefinendo le regole del gioco. La sua forza risiede nella capacità di reinventarsi continuamente, di sfruttare nuove tecnologie e di creare nuovi mercati, anche in aree precedentemente inesplorate. La risposta della politica, invece, sembra paralizzata. La caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, eventi che avrebbero potuto aprire la strada a nuove idee e visioni politiche, hanno invece coinciso con una sorta di “pensiero unico” dominante, in cui il capitalismo è diventato l’unico sistema di riferimento. La politica si è ridotta a una gestione tecnica delle cose, perdendo la sua capacità di immaginare un futuro diverso. Autori come Fukuyama, con la sua teoria della fine della storia, hanno contribuito a diffondere l’idea che il capitalismo rappresenti il punto finale dell’evoluzione umana, un’era in cui i conflitti ideologici sarebbero stati sostituiti da una pacifica amministrazione tecnica. Questa visione si è rivelata illusoria: le guerre e i conflitti continuano a proliferare e il mondo è tutt’altro che pacificato. La politica, invece di rispondere a queste sfide con nuove idee, sembra ripiegarsi su se stessa, ripetendo vecchi schemi e rifugiandosi in nostalgie del passato. Si assiste a un ritorno ai nazionalismi, ai fondamentalismi religiosi e a forme di socialismo che sembrano più un’evocazione del passato che una proposta per il futuro.
Posso andare errando, ma l’avvento di Trump, Vance e la loro squadra alla Casa Bianca sembra sempre più non il solito, semplice, scontato avvicendamento intrasistemico tra Democrats e Republicans, cioè un avvicendamento rispettoso della tradizionale dialettica controllata del bipartitismo, bensì la vittoria di una fazione, quella del capitalismo industriale e produttivo portatrice di un modello economico veramente alternativo, che vuole la reindustrializzazione e il rilancio dell’economia reale, contro la fazione sinora dominante, quella del capitalismo finanziario, monetario, speculativo e sterile, che da decenni sottrae liquidità all’economia produttiva, agli investimenti, alla domanda interna, per destinarla a sostenere il gioco delle bolle e dei crack bancari a spese della popolazione generale, che via via si impoverisce e beneficio di una ristretta aliquota di super ricchi.
Impropriamente detta anche deep state, la fazione sconfitta da Trump è precisamente la fazione di Davos, del WEF, che domina ancora l’Europa e parla e agisce per bocca della Commissione Europea, della BCE, dei governi e dei capi di Stato di quasi tutti i paesi europei. Di essa fanno parte i vari partiti popolari, conservatori, liberali e soprattutto quelli sedicenti di sinistra, nonché il coro degli intellettuali e dei giornalisti mainstream. La sua sede è tra la City e Parigi, con metastasi a Bruxelles e Francoforte.
La situazione nel paese mediorientale continua
a restare instabile, e gli scontri feroci di
questi giorni – nella regione a maggioranza alawita di Latakia
– ne sono soltanto la più evidente manifestazione.
Proviamo a fare un quadro complessivo dello scenario siriano. A partire dall’esame dei diversi attori politico-militari.
Il regime di Damasco
Il nuovo regime guidato da Al Jolani (ex tagliagole ISIS, poi Al Qaeda, poi nel nuovo dress code in giacca e cravatta) cerca di ottenere lo sblocco delle sanzioni, precedentemente imposte soprattutto dagli europei, e di ottenere fondi dai paesi arabi sunniti, Qatar e Arabia Saudita in primis. In qualche misura, cerca anche di smarcarsi un po’ dal controllo turco.
I suoi problemi restano comunque la mancanza di risorse economiche, un paese devastato da anni e anni di guerra civile, il mancato controllo sull’intero territorio, e la mancanza di un vero e proprio esercito. Le varie formazioni jihadiste-democratiche (più di 100) riunite sotto la sigla-ombrello di Hayat Tahrir al-Sham, infatti, sono per lo più milizie prive di armamento pesante, e la sistematica distruzione preventiva della gran parte dei sistemi d’arma (di terra, aerei e navali) del vecchio esercito siriano, da parte dell’aviazione israeliana, impediscono lo sviluppo di adeguate capacità militari. Oltretutto, benché formalmente le varie milizie si siano riunite in un nuovo esercito, di fatto rispondono ancora ai diversi comandanti di ciascuna fazione, il che dà al governo centrale un controllo assai relativo su di esse. Poiché una parte non indifferente di queste formazioni armate è composta da fanatici islamisti, spesso nemmeno siriani o anche solo arabi (daghestani, tagiki, kirghizi, uiguri), le frizioni con le popolazioni non sunnite (alawiti-sciiti, cristiani, drusi) sono pressoché continue, e spesso sfociano in scontri armati.
In questo
scritto Andrea Pannone si domanda se l'enorme enfasi posta
nei giorni scorsi sulla nuova start-up DeepSeek e sulla
forza competitiva
dell’intelligenza artificiale cinese non abbia coperto,
almeno in parte, un’intenzionale strategia finanziaria
promossa dai grandi fondi
di investimento (i soliti BlackRock, Vanguard, State Street,
ecc.), di cui l’improvviso crollo del titoli di NVIDIA —
azienda leader nella
produzione di chip AI — a Wall Street, a fine gennaio, ha
rappresentato in realtà solo un tassello. Tale strategia,
qui si sostiene,
avrebbe innanzitutto lo scopo di rilanciare la fiducia
nell’AI (artificial intelligence) occidentale e nei titoli
delle principali aziende
tecnologiche americane, allo scopo di procrastinare il più
possibile l’innesco di una nuova grande crisi finanziaria.
* * * *
Il crollo (momentaneo) di NVIDIA
La vicenda che muove il nostro interrogativo è nota: il 27 gennaio 2025 il titolo NVIDIA, quotato sul Nasdaq, è stato travolto da un’ondata di vendite segnando a fine seduta un calo del 17% a 118,58 dollari (con un minimo a 116), dopo aver aperto a 124,80. Nvidia ha perso circa 589 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato, registrando la più grande flessione percentuale nella sua storia. Il 3 febbraio 2025, il titolo ha toccato un minimo di 110,20 dollari, dopo aver raggiunto un massimo annuale di 147,94 dollari il 7 gennaio dello stesso anno.
La versione dominante, con poche eccezioni, è che questa caduta sia stata influenzata in primo luogo dalla crescente concorrenza della Cina nel settore dell'intelligenza artificiale, paese in grado di mettere in discussione la leadership USA su questa tecnologia e sulle moltissime attività economiche che potrebbero beneficiarne dell’uso.
1. Innalzamento dell’obbligo
scolastico al 18° anno di età. Unificazione delle varie
tipologie della scuola secondaria superiore in un unico
Liceo che contempli
conoscenze generalizzate per tutti di materie
storico-letterarie (tra cui Greco e Latino), materie
scientifiche, logico-informatiche, linguistiche
(due lingue straniere), con la forte presenza di attività
teatrali, grafiche, musicali e sportive. L’aumento e la
diversificazione del
numero delle materie e delle molteplici attività
scolastiche sarà consentito da una scuola a tempo pieno,
aperta mattino, pomeriggio,
sera, tale da divenire il luogo permanente di una attività
non solo di istruzione ma di socializzazione e di incontro
(senza ovviamente
trascurare tempi e spazi dello studio individuale quale
momento indispensabile del processo formativo). Con
l’innalzamento
dell’obbligo scolastico all’età di 18 anni si provvederà
alla riorganizzazione/eliminazione della scuola media
inferiore,
vero buco nero dell’attuale scuola italiana, da cui gli
studenti escono ormai nella gran massa senza la padronanza
delle strutture
logico-grammaticali-sintattiche più elementari e dunque
senza una sufficientemente modesta capacità di scrittura e
di lettura. Di contro
ai pochi già immersi in una modalità preliceale e
individualistico-competiva di accumulazione di competenze.
2. Istituzione di un anno sabbatico generalizzato, e pagato con stipendio pieno, per tutti i docenti di scuola materna, primaria, media inferiore e secondaria superiore da trascorrere ogni 7 anni di insegnamento presso Università e Istituti di ricerca italiani e stranieri.
Nei giorni scorsi Michele Serra, star del giornalismo “dem”, ha lanciato dalle pagine di Repubblica, organo ufficiale del PD e degli atlantisti ovunque schierati, nonché bollettino di guerra dell’UE, un appello a scendere in piazza sotto le bandiere blu dell’ Unione europea per il prossimo 15 marzo. Una manifestazione apertamente a sostegno dei bollori di guerra, della corsa al riarmo dei 27 paesi dell’ Europa e, nei fatti, per un impegno militare diretto contro la Russia sul suolo ucraino: vale a dire in un conflitto che conta già centinaia di migliaia di morti ed è stato uno dei principali fattori del disastro economico e sociale che si sta abbattendo sui proletari in Italia e nel resto dell’ Europa.
L’economia di guerra che da 3 anni viene imposta dall’UE significa concretamente aperture di cassa integrazione, mobilità, procedure di licenziamenti collettivi, un attacco generalizzato ai salari già insufficienti e alle condizioni di vita delle fasce più deboli dei paesi europei. Oggi, con il venir meno del sostegno militare Usa conseguente al nuovo corso trumpiano, le sempre più traballanti liberaldemocrazie europee con in testa Ursula von der Leyen, compiono un ulteriore passo verso il baratro della guerra totale alla Russia, presentandosi come “tutor” di ultima istanza del governo fantoccio di Zelensky e apprestandosi a stanziare la cifra record di 800 miliardi per il riarmo generale sul vecchio continente.
Con l’adesione alla manifestazione guerrafondaia del 15 marzo a Roma, il PD (più derivati e addentellati vari al seguito) ha toccato il punto più basso della sua storia. Lo aveva già toccato, direte voi, e avete ragione. Ma questo è un vero e proprio punto di non ritorno. A poco valgono i tripli metaforici salti carpiati con cui i suoi dirigenti tentano di spiegare che loro sono per l’Europa ma contro il riarmo. Queste sono solo chiacchiere per gli ingenui che ancora ci cascano.
Ma il colmo è un altro. Dopo decenni in cui hanno fatto di tutto per distruggere ogni forma di vincolo sociale e comunitario, dal welfare alla famiglia alla solidarietà di classe, ogni forma di coscienza e di identità, dopo aver spappolato la società civile riducendola a una massa di consumatori/consumisti seriali e compulsivi e di “tiktoker” in cerca disperata di visibilità, ora hanno la faccia tosta – per bocca di uno dei loro intellettuali di punta, cioè l’ “antifascista” Antonio Scurati (mio padre partigiano si sta rivoltando nella tomba…) – di affermare in buona sostanza che in tutti questi anni è stata costruita una società di smidollati, dove non crescono più guerrieri (!!!). Tradotto, carne da cannone da mandare al macello, nel caso specifico in una guerra imperialista contro la Russia autocratica e patriarcale. E per cosa poi? Per difendere quei valori liberalprogressisti, tanto “carucci” e politicamente corretti, quegli stessi che hanno creato questa società composta da tante monadi “fluide” e “liquide” che ovviamente non hanno nessuna voglia né potrebbero, anche volendo, trasformarsi come d’incanto in “guerrieri”.
Per una curiosa coincidenza nella serata di ieri Rai 5 ha trasmesso uno straordinario ed emblematico film di Costa Gavras: “Adulti nella stanza”. E’ stata una sorta di involontaria “cattiveria” verso l’appello di Michele Serra a sostegno di una “Europa più forte”
Il film infatti ricostruisce tutte le fasi in cui il governo Tsipras, e soprattutto il suo ministro dell’economia Varoufakis, sono stati costretti a negoziare con i vari apparati della troika europea (dall’Eurogruppo alla Bce) sul famigerato Memorandum d’Intesa (il MoU) con cui la Grecia è stata deliberatamente strangolata per rientrare dal debito.
Sono significative le varie sessioni degli incontri nella stanza dell’Eurogruppo in cui i ministri europei smantellano e brutalizzano ogni tentativo della Grecia di salvaguardare la propria popolazione già sottoposta a tagli del 40% di pensioni e salari, privatizzazioni selvagge, espropri delle case su cui la gente non riesce a pagare i mutui etc.
E’ un film non solo realizzato professionalmente da un grande regista, ma è anche una lezione pedagogica su cosa è “l’Europa reale” che le popolazioni hanno sperimentato sulla propria pelle dal Trattato di Maastricht in poi e con la Grecia – per ammissione dello stesso ministro tedesco Schauble – destinata a fare e a dare l’esempio a tutti coloro che non si adeguavano alle politiche di austerity imposte dalla Ue ai paesi aderenti all’Eurozona. I negazionisti europeisti in questi dieci anni hanno fatto di tutto per rimuovere e nascondere questa dimensione.
“Sii forte”; “Sii coraggioso”; “Non avere paura”: dopo aver assistito alla scazzottata nello Studio Ovale dell’altro giorno, i leader europei volevano in tutti i modi fare in modo che il compagno Zelensky sentisse il loro sostegno incondizionato e lo stimolo giusto per non mollare l’osso. E cosa c’è di meglio che un bel messaggio motivazionale? Beh, chiaro: 4 messaggi motivazionali, da Dombrovskis a Costa, dalla Metsola alla Borderline, tutti uguali; un messaggio in codice?
Zele’, guarda, ti vogliamo bene, ma da quando c’hanno tolto l’USAID a fondi per la comunicazione stiamo messi maluccio e il massimo che ci possiamo permettere è un copincolla: figurati se ce n’abbiamo abbastanza per permetterti di continuare a fare la guerra a Putin; però oh, te tieni duro, eh? D’altronde, “la tua dignità onora il coraggio del popolo ucraino”; “non sarai mai solo, caro presidente”, tanto, contro le pale e i chip delle lavatrici basta il pensiero, no? Intanto, caro Zele, ti dispiace se strumentalizzo un altro po’ il martirio del popolo ucraino per farmi un po’ di cazzi miei? Perché sai, sono 20 anni che qui cerchiamo il modo per armarci fino ai denti, ma i cittadini europei sono dei rompicoglioni che non ti puoi immaginare: siccome l’economia va di merda da almeno 15 anni e non facciamo altro che tagliare i servizi sociali essenziali anno dopo anno, ci stressano che dicono che prima di spendere un altro 2% di PIL per comprare qualche ferrovecchio di qualche azienda militare statunitense decotta, tipo quel cesso a pedali dell’F35, ci sarebbero altre priorità, però ora con questa puttanata che, invadendo l’Ucraina, Putin ha dimostrato di essere una minaccia per tutta l’Europa, forse li stiamo convincendo che è urgente e che non si può fare altrimenti.
Sulla questione delle Foibe si continua ad alterare la verità dei fatti accaduti. La giornata del Ricordo, che si celebra il 10 febbraio, non è mai stata l’occasione per fare luce sulla verità e sui veri artefici di quelle terribili violenze che hanno visto centinaia di vittime innocenti. Al contrario si continua a fare revisionismo storico, avallato dai discorsi istituzionali delle più alte cariche dello Stato.
Non è semplice far luce sul quel periodo senza conoscere la storia, quella vera, non contraffatta strumentalmente per far passare nell’opinione comune il nemico come vittima e viceversa. Ma chi è la vittima e chi il nemico nella triste storia delle Foibe? Eric Gobetti è uno storico, studioso del fascismo, della seconda guerra mondiale, della Resistenza e della storia della Jugoslavia nel Novecento. Ha scritto diversi saggi sulla storia del Novecento, soffermandosi, in particolare, sulle dinamiche dei fatti, sulle cause e sugli effetti, sulle vittime e sui carnefici delle Foibe. Ha visitato molteplici volte quei luoghi e vi ha fatto ricerche e cercato testimonianze per portare alla luce la verità.
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
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Claudio Conti: Francia e Germania: caduta comune, ma in direzioni opposte
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«Fuori il
terrorismo dall’Università», a invocarlo nei primi giorni di
marzo era stata l’Unione dei Giovani Ebrei Italiani,
in un appello immediatamente
sottoscritto dai Radicali Italiani, da Sinistra
per Israele, dalle Comunità
Ebraiche in Italia, da giovani socialisti, da
Giovani di Forza Italia, da altre
associazioni cattoliche e associazioni
dell’Hasbara sionista, affinché
l’Università la Sapienza di Roma revocasse i permessi concessi
al
Movimento degli Studenti Palestinesi, di realizzare il 5
marzo, in Italia, presso l’Ateneo di Fisica, la presentazione
del libro autobiografico
di Yahya Sinwar “Le spine e il garofano” con la
partecipazione dell’editore Davide Piccardo della casa
editrice Editori
della Luce, di ispirazione islamica, che cura la
pubblicazione del libro in Italia.
L’appello « Fuori il terrorismo dall’Università » in cui si legge che « La Sapienza, una delle poche università ad aver contrastato i boicottaggi contro Israele e a essersi posta come baluardo della libertà accademica, ha ancora l’opportunità di impedire che si trasformi in una cassa di risonanza per il terrorismo », è divenuto da subito un caso politico nazionale la cui istanza è stata immediatamente sostenuta per giorni dalle principali testate dei quotidiani della liberal democrazia italiana – da la Repubblica, il Corriere della Sera, il Giornale e Il Messaggero – nel sostenerne le ragioni, riportando le richieste di Giovanni Donzelli e di Noemi Di Segni affinché la Facoltà di Fisica tornasse indietro sui propri passi e vietasse l’iniziativa.
Il libro autobiografico di Sinwar, scritto durante i ventidue anni di prigionia nelle carceri israeliane, è attualmente censurato e vietata la sua pubblicazione in moltissimi paesi occidentali e dell’Unione Europea, così non è appunto in Italia grazie a un editore italiano che si è convertito all’islamismo, e in Irlanda, la cui edizione in quarta di copertina riporta « poiché Al-Sinwar è stato martirizzato mentre combatteva coraggiosamente contro il genocidio israeliano a Gaza, il romanzo emerge come un pezzo di letteratura vitale per chi cerca di comprendere le tensioni in corso in Medio Oriente.
Michele Serra prova a convocare due piazze in una: la prima in favore dell’Europa realizzata, pronta a sacrificare il welfare in nome del militarismo; l’altra in favore dell’Europa idealizzata dalla retorica del centro-sinistra. Questa contraddizione potrebbe presto pervenire a un punto di rottura, aprendo la strada a una ulteriore e più decisa svolta reazionaria. Manifestare in favore dell’UE realizzata fingendo che somigli alla sua versione idealizzata rischia di legittimare la svolta a destra anche presso l’opinione pubblica democratica
La
manifestazione del prossimo 15 marzo è divenuta, al di là
delle intenzioni degli organizzatori e di chi in buona fede vi
ha aderito,
terreno di confronto tra due polarità difficilmente
conciliabili che convivono nell’ambito del blocco di potere e
consenso egemone in
Europa, rappresentato plasticamente dalla Große Koalitiontra
popolari, socialdemocratici e liberali che regge da decenni
sia le
istituzioni comunitarie sia i “sistemi dell’alternanza”
all’interno dei Paesi membri e a cui, a vario titolo, fa
riferimento
il mainstream del dibattito pubblico. Tale blocco è
oggi scosso dal cambio di strategia avvenuto alla Casa Bianca,
che determina il
venir meno di certezze che sembravano acquisite. La
manifestazione nata dall’appello “Una
piazza per l’Europa”,
firmato da Michele Serra sulla principale testata del
progressismo liberale italiano, figlia delle turbolenze di
questa fase, non fa che
riprodurne le contraddizioni. Lo stesso vale per il promotore
della mobilitazione, che nei giorni scorsi ha sentito
l’esigenza di correggere il tiro rispetto all’impostazione che
aveva originariamente inteso dare alla sua iniziativa.
Salta immediatamente all’occhio, infatti, leggendo l’appello del 27 febbraio, che non vi ricorra mai la parola “pace”. Tale assenza sembra intimamente coerente con l’impostazione dell’appello e con quella di chi, da subito, vi ha aderito con più entusiasmo. L’intima coerenza non è legata tanto alla circostanza – tutto sommato contingente – che Serra e il suo giornale siano apertamente schierati perché l’Europa continui a fare la guerra contro la Russia fino alla vittoria finale sul campo di battaglia. Il punto è che tutto l’impianto dell’appello scaturisce dalla necessità di esorcizzare il timore di una possibile fine dell’Occidente come “concetto politico-strategico”, che sarebbe ovviamente una conseguenza della rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca e della sua spregiudicata politica interna ed estera. Ma cosa può significare, nell’economia del ragionamento di Serra, “concetto politico-strategico”?
Sembra di poter rispondere che il fatto che l’Occidente cessi di essere un concetto politico-strategico (dal greco strategòs: comandante militare) significhi che esso non è più spendibile come concetto oppositivo-polemico (dal greco pòlemos: guerra).
Una riflessione sull’opera e il pensiero di Geoffrey Hinton, padre spirituale delle reti neurali e dell’apprendimento profondo
Credo che il Nobel del 2024 per la
fisica a Geoffrey
Hinton, un informatico, abbia due significati. Il primo
è scientifico, perché le reti neurali vengono
riconosciute come fondamento del successo delle intelligenze
artificiali generative. Il secondo, politico, è
nell’avvertimento che Hinton
ha pronunciato durante il discorso
di accettazione del premio: possiamo avere un enorme beneficio
dagli assistenti artificiali, ma dobbiamo
guardarci dai rischi cruciali a breve (l’inquinamento del
dibattito pubblico con contenuti creati per dividere, la
sorveglianza delle persone da
parte di regimi autoritari, le frodi informatiche) e a lungo
termine (le armi letali che decidono autonomamente chi
uccidere e il generale pericolo di
perdere il controllo dei sistemi autonomi, capaci di
assegnarsi da soli obiettivi e strategie).
Due macchine pensanti
Non era scontato che le reti neurali ad apprendimento profondo potessero funzionare, soprattutto non lo era quando Hinton, negli anni Settanta, iniziò il suo dottorato di ricerca. Il campo dell’intelligenza artificiale (IA) era occupato vittoriosamente dalla corrente simbolica che provava a riprodurre artificialmente il pensiero partendo da uno dei suoi prodotti: le frasi, le relazioni significative tra le proposizioni. La corrente connessionista voleva invece ricreare il modello della percezione biologica, proponendo sistemi matematici ispirati alle connessioni tra neuroni, da cui il nome.
Laddove la corrente simbolica provava a riprodurre artificialmente il pensiero partendo da uno dei suoi prodotti, quella connessionista voleva invece ricreare il modello della percezione biologica.
Possiamo scegliere come data di inizio del conflitto tra simbolici e connessionisti il 1958, quando le due parti credevano di aver posto le basi per la costruzione di una macchia pensante.
Occultata dalle intemperanze e improvvisazioni di Trump, comprese le oscenità sul cimitero dei vivi di Gaza e le nequizie deontologiche e morali di un sistema politico-mediatico italiota, sistematicamente depistatore e menzognero, dovremmo passare sopra la nuova Nakba che lo Stato terrorista dei soli ebrei sta infliggendo agli umani veri di Cisgiordania. Nakba che è ormai il quarto fronte aperto dai necrofagi impiantati dall’anglosfera in Medioriente, dopo Gaza, Libano, Siria. Paesi, popoli, che si vorrebbero frammenti di cadaveri per comporre la Grande Israele.
La troupe era composta da Sandra e me e nel documentario “Araba Fenice, il tuo nome è Gaza” potete vedere cosa abbiamo girato in Cisgiordania e, soprattutto a Hebron, oggi nuovo obiettivo della sostituzione etnica che faccia della Cisgiordania la Giudea e Samaria della mistificazione biblica.
Da Hebron che, con la pulizia etnica dilagante dal Nord della Cisgiordania al Sud, era rimasta relativamente fuori dalla furia stragista e devastatrice delle bande di coloni e dell’esercito, mi arrivano famigliari e care voci. Quanto di oppressione nazirazzista avevamo visto e documentato allora, si è duplicato, quadriplicato, esteso e potenziato fino ad assumere i tratti genocidi di Gaza. Dopo Nablus, Jenin, Tulkarem, e decine di centri abitati, dopo lo svuotamento della Valle del Giordano, anche Hebron deve scomparire.
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, sta spingendo per un piano che non solo è irresponsabile, ma anche potenzialmente catastrofico per il futuro dell’Europa: il cosiddetto RearmEurope, un progetto da 800 miliardi di euro per riarmare il continente in nome di una presunta minaccia russa. Tuttavia, questo piano non solo è basato su premesse discutibili, ma rischia di trascinare l’Europa in una spirale di tensioni e conflitti che nessuno vuole, distogliendo risorse preziose da priorità urgenti vista la crisi economica in cui langue il vecchio continente.
Una minaccia inesistente
L’idea che la Russia rappresenti una minaccia imminente per l’Europa è una narrazione che va sfatata. La Russia non ha alcuna intenzione di attaccare i paesi europei. Non ne avrebbe alcuno motivo logico, strategico o geopolitico. Al contrario, Mosca ha ripetutamente espresso il desiderio di dialogare e di normalizzare le relazioni con l’Occidente. La retorica bellicosa che viene alimentata da alcuni leader europei, tra cui von der Leyen, non solo è infondata, ma rischia di creare una profezia che si autoavvera, spingendo verso una nuova guerra che danneggerebbe tutti, soprattutto i cittadini europei. Un conflitto che potrebbe avere dei risvolti catastrofici.
STOP ai finanziamenti federali per qualsiasi college, scuola o università che consenta proteste illegali, scrive Trump su Truth il 4 marzo scorso. Gli Attivisti saranno imprigionati o rimandati definitivamente nel paese da cui provengono. Gli studenti americani saranno espulsi definitivamente o saranno arrestati. NIENTE MASCHERE! NO MASKS!
Nel mirino ci sono le prestigiose università della Ivy League (Harvard, Yale, Princeton, Columbia, Penn Pennsylvania, Dartmouth, Brown, Cornell – e Chicago, Duke, MIT, Stanford, Johns Hopkins, Caltech, note come Ivy Plus).
I leader come Trump, dice David Brooks su The Atlantic («Come l’Ivy League ha distrutto l’America»), capiscono che la classe operaia ha più risentimento per la classe professionale Nerd, con le sue lauree prestigiose, di quanto non ne abbia per i miliardari o i ricchi imprenditori.
I Liberal (“La Sinistra”) di oggi, scrisse qualche anno fa l’anarchico Graeber, ha come stelle polari quegli studenti che negli anni Sessanta frequentavano i college e che si battevano per una società senza egoismo. La loro battaglia radicale non ha portato a una società migliore. Non ha funzionato, dice Graeber, ma è stata offerta loro una sorta di compensazione: il privilegio di usufruire del sistema universitario per diventare persone che, nel loro piccolo, hanno avuto modo di guadagnarsi da vivere e allo stesso tempo ricercare la virtù, la verità, la bellezza, e soprattutto la possibilità di tramandare lo stesso diritto ai propri figli.
Tra le iniziative che la nuova amministrazione repubblicana aveva promesso per ripulire l’apparato di potere burocratico dentro il governo americano, altrimenti noto come “Deep State”, c’era e sembra esserci ancora l’impegno a rendere pubblici tutti i documenti ancora riservati del caso Jeffrey Epstein. Il primo tentativo, annunciato dal ministro della Giustizia (“Attorney General”), Pam Bondi, si è risolto però nei giorni scorsi in un completo fallimento. Il materiale pubblicato non ha aggiunto nulla di nuovo a quanto già si sapeva sui contatti ad altissimo livello del defunto finanziere di New York. Da allora, ci sono stati ulteriori sviluppi che, secondo il dipartimento di Giustizia, dovrebbero finalmente avvicinare la rivelazione dei “segreti” di Epstein.
Ci sono tuttavia solidissime ragioni per dubitare di questa promessa e ciò, tra l’altro, per via degli stretti rapporti di quest’ultimo con gli ambienti dell’intelligence di Israele e non solo. Quella pianificata dalla Bondi potrebbe essere quindi un’operazione di depistaggio da propagandare come una vittoria per la Casa Bianca, regolando al contempo una serie di conti con i settori anti-trumpiani del “Deep State” ma garantendo che i particolari relativi a ricatti, influenza politica e intrighi di intelligence che caratterizzano l’intera vicenda continuino a rimanere segreti.
Il ministro della Giustizia di Trump, meno di due settimane fa, aveva dunque anticipato rivelazioni esplosive sul caso Epstein, per poi cambiare tono subito dopo la diffusione dei documenti e la comprensibile delusione generata nel pubblico americano.
800 Miliardi di Euro. Ursula von der Leyen ci dice che dobbiamo spendere 800 miliardi di Euro in armamenti per difenderci dalla Russia. E pazienza se non ci saranno poi soldi per pensioni, sanità, scuole, università e altre quisquilie inutili.
Noi dobbiamo prepararci a fermare l’Orda d’Oro che scalpita alle nostre porte, alla testa un Tschingis Putin al quale manca solo l’elmetto con le corna per completare l’immagine di condottiero assatanato e voglioso di nuovi territori che i media dell’Europa Continental-Occidentale hanno divulgato (gli USA e UK-media sono magari di parte, ma non così spudorati).
Effettivamente, dopo averci raccontato che questo Putin un giorno si è svegliato e ha deciso di invadere l’Ucraina per soddisfare le sue voglie imperialiste e ci abbiamo creduto, ormai possono raccontarci qualsiasi cosa e ce la beviamo. Ci contano.
Ovviamente ci contano. D’altra parte il copione è sempre lo stesso: Metti paura alle masse con uno spauracchio qualsiasi, e queste sono disposte a seguirti in qualsiasi impresa, anche nel suicidio collettivo. E magari non si accorgono nemmeno che chi sventola lo spauracchio è gente che annulla elezioni, se vinte da chi non le piace, e rifiuta di sottoporre a un voto parlamentare la decisione di prepararsi alla guerra. E vabbè, pazienza. Per difendere la democrazia si fa questo e altro, no?
Io sono però convinta che sarebbe il caso di cominciare a difendere la nostra sopravvivenza come popolazione mondiale prima di una “democrazia” ormai fittizia.
Con il
titolo La nuova scuola capitalista arriva in Italia
un testo che Christian Laval, Francis Vergne, Pierre Clement e
Guy Dreux scrivevano nel
2011, dedicato ai processi di trasformazione neoliberale della
conoscenza e dell’istruzione, dalla scuola all’università, di
cui
gli autori, con sorprendente capacità di anticipazione e
lettura politica, intravedevano la coerenza e gli sviluppi. A
questo libro, nel 2022,
seguiva una riflessione che ne rappresenta il seguito ideale:
Educazione
democratica, che teorizza la costruzione di un modello
di scuola e università alternative e auto-governate.
Perché rileggere e diffondere oggi la nuova scuola capitalista? Cosa può dirci un lavoro in fondo piuttosto lontano nel tempo, proprio quando sembra che tutto acceleri e sfugga costantemente alla nostra capacità di “unire i puntini”? Proveremo a spiegarne le ragioni e il senso.
1) Le trasformazioni di oggi, le responsabilità politiche e le false argomentazioni
A partire dalla sua prima pubblicazione, la nuova scuola capitalista segnava in Francia una generazione di studiosi, di ricercatori e attivisti, a cui forniva strumenti di interpretazione sistematica di un complesso frammentato e contraddittorio di riforme, portate avanti con linguaggio e argomentazioni di tipo progressista, politicamente trasversale. Parallelamente, in Italia, scuola e università vivevano una analoga stagione di cambiamenti, con percorsi, referenti politici e tempi propri, sovrapponibile a quella tratteggiata dagli autori. Le diagnosi e le analisi politiche, tuttavia, tardavano a prendere forma e il dibattito nazionale restava (e in parte resta tuttora) ancorato a categorie e dicotomie (tradizione/innovazione; nozioni/competenze; baronaggio accademico/meritocrazia, autoreferenzialità/accountability…) del tutto incapaci di tradurre la ridefinizione dei rapporti di forza nel campo delle politiche educative, specie a livello internazionale, con organismi sovranazionali divenuti via via più ingombranti.
“L’Europa è pronta
ad assumersi le proprie responsabilità Rearm Europe può
mobilitare quasi 800 miliardi di euro per le spese per la
difesa per
un’Europa sicura e resiliente” ha dichiarato nei giorni scorsi
il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen
presentando un piano in cinque
punti per il riarmo dell’Europa e il sostegno militare
all’Ucraina esposto in una lettera inviata ai leader europei e
poi approvata dal
Consiglio d’Europa.
L’annuncio dell’ambizioso programma di riarmo della Ue, che si aggiunge al maxi fondo tedesco da 500 miliardi di euro che il leader della CDU tedesca (e probabile nuovo cancelliere) ha annunciato nei giorni scorsi, può essere abbinato all’annuncio giunto da Kiev che Volodymyr Zelensky non porgerà le scuse al presidente degli Stati Uniti Donald Trump dopo la rissa del 28 febbraio alla Casa Bianca. La ragione è che il presidente ucraino “ha avuto assolutamente ragione nella forma e nel contenuto” durante il colloquio, ha dichiarato il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak.
“Non si può fare nulla senza mettere sotto pressione la Russia. È impossibile ottenere risultati positivi aspettandosi che Mosca faccia deliberatamente delle concessioni… Ecco perché non ci scuseremo per un errore che non è mai esistito”, ha detto Podolyak, riaprendo le tensioni con Washington dopo che Zelensky aveva espresso “rammarico” per il pessimo esito del vertice alla Casa Bianca.
Le dichiarazioni di Podolyak lasciano intendere che Kiev stia puntando sull’Europa che annuncia un massiccio riarmo per ottenere forniture militari e garanzie di sicurezza dopo lo stop degli USA alle consegne di armi, munizioni, informazioni d’intelligence e supporto satellitare.
L’Ucraina ha chiesto chiarimenti al Pentagono circa lo stop agli aiuti militari e l’inviato statunitense per l’Ucraina, Keith Kellogg, parlando al Council on Foreign Relations di Washington ha difeso la decisione di Trump di sospendere gli aiuti e la condivisione di intelligence con Kiev, sottolineando che si tratta di “una pausa, non di uno stop definitivo. Il motivo per cui Zelensky è venuto alla Casa Bianca era per firmare un documento che stabilisse il percorso da seguire. Ma quel documento non è stato firmato“, ha detto Kellogg.
Stimolato
dal lavoro di traduzione del libro di K. Ochieng Okoth, RedAfrica
(1), negli ultimi mesi ho accompagnato i
lettori in una
esplorazione del pensiero radicale nero discutendo i lavori di
otto autori: Bouamama, Du Bois, Cabral, Rodney, Williams,
James, Padmore,
Césaire. Quest’ultimo lo avevo già incontrato, avendolo letto
in parallelo agli scritti di Franz Fanon; di Bouamama avevo
avuto
occasione di ascoltare una videoconferenza nel corso di un
recente convegno organizzato dalla Rete dei Comunisti; Cabral
lo avevo letto diversi anni
fa, ma a quel tempo ne avevo sottovalutato l'importanza, tutti
gli altri sono stati invece straordinarie novità, e ringrazio
Okoth per avermele
fatte conoscere.
Da marxista occidentale – ancorché eretico - ho cercato di entrare “in punta di piedi” in questo ambito ideale di cui ignoro molte cose, adottando lo stesso atteggiamento di rispettoso ascolto che che in passato ho assunto avvicinandomi al pensiero rivoluzionario asiatico e latinoamericano (nell’ultimo caso aiutato da alcuni viaggi in Sud America). Il confronto con gli autori rivoluzionari del Sud del Mondo implica affrontare una sfida fondamentale che consiste nel cercare di capire come sia avvenuto l’incontro fra una teoria come il marxismo – che accampa pretese universaliste ed eredita una serie di principi e valori razionalisti/progressisti/illuministi che lo connotano in senso eurocentrico - e tradizioni storiche, culturali, civili e religiose non meno antiche ma profondamente diverse dalle nostre.
Laddove questo incontro si è rivelato possibile e fecondo (per esempio in Cina, nel Vietnam, a Cuba) ha forgiato armi formidabili per la lotta antimperialista e anticapitalista, e ha contribuito a innovare una teoria irrigidita da schematismi e dogmatismi che l’hanno resa incapace di interpretare e contrastare l’offensiva neoliberista nei centri metropolitani. Il caso africano è più complesso, sia perché una serie di esperienze che avrebbero potuto imboccare nuove vie di fuga dalla “normalità” del dominio occidentale sono state stroncate sul nascere (2), sia perché i contributi teorici più ricchi e interessanti (spesso frutto del pensiero nero diasporico, antillano e nordamericano) sono stati rimossi e neutralizzati dall’accademismo postcoloniale: vedi in proposito il già citato libro di Okoth (3).
"L'intera meritocrazia è un sistema di segregazione sociale ed economica al contrario"
STOP ai finanziamenti federali per qualsiasi college, scuola o università che consenta proteste illegali, scrive Trump su Truth il 4 marzo scorso. Gli Attivisti saranno imprigionati o rimandati definitivamente nel paese da cui provengono. Gli studenti americani saranno espulsi definitivamente o saranno arrestati. NIENTE MASCHERE! NO MASKS!
Nel mirino ci sono le prestigiose università della Ivy League (Harvard, Yale, Princeton, Columbia, Penn Pennsylvania, Dartmouth, Brown, Cornell - e Chicago, Duke, MIT, Stanford, Johns Hopkins, Caltech, note come Ivy Plus).
I leader come Trump, dice David Brooks su The Atlantic («Come l'Ivy League ha distrutto l'America»), capiscono che la classe operaia ha più risentimento per la classe professionale Nerd, con le sue lauree prestigiose, di quanto non ne abbia per i miliardari o i ricchi imprenditori.
I Liberal (La Sinistra) di oggi, scrisse qualche anno fa l’anarchico Graeber, ha come stelle polari quegli studenti che negli anni Sessanta frequentava i college e che si battevano per una società senza egoismo. La loro battaglia radicale non ha portato a una società migliore. Non ha funzionato, dice Graeber, ma è stata offerta loro una sorta di compensazione: il privilegio di usufruire del sistema universitario per diventare persone che, nel loro piccolo, hanno avuto modo di guadagnarsi da vivere e allo stesso tempo ricercare la virtù, la verità, la bellezza, e soprattutto la possibilità di tramandare lo stesso diritto ai propri figli.
Niente come la guerra taglia via il chiacchiericcio e costringe a essere chiari. Sei favorevole o contrario? Voti i “crediti di guerra” – come fecero nel 1914 i partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale – oppure no? Vai in piazza per chiedere di prolungare la guerra o per dire basta subito?
Come ormai sanno tutti, Ursula von der Leyen ha varato il suo piano “ReArm Europe” da 800 miliardi perché «qualcosa di fondamentale è cambiato. I nostri valori europei, la democrazia, la libertà, lo stato di diritto sono minacciati. Vediamo che la sovranità, ma anche gli impegni ferrei, sono messi in discussione. Tutto è diventato transazionale. Il ritmo del cambiamento è accelerato e l’azione necessaria deve essere audace e determinata».
Una matassa di falsi e menzogne di cui si occupa magistralmente “Anonima Maltese”, mentre qui proviamo a dar conto di quel che sta succedendo.
Sorvoliamo momentaneamente anche sulla curiosa contraddizione per cui ci si vorrebbe riarmare per “difendere la democrazia” ma, per farlo, si aggirano le istituzioni democratiche e si procede “autocraticamente” (il “piano” non verrà votato né dall’inutile Parlamento europeo e neanche dai 27 Parlamenti nazionali). Tradotto: ci riarmiamo a nome di chi?
La crisi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa determinata dalle prime iniziative della presidenza di Donald Trump sta portando molti osservatori a mettere in dubbio l’alleanza transatlantica, fino a ieri intoccabile.
Guai a mettere in dubbio che gli interessi di noi italiani ed europei non coincidessero e anzi, fossero compromessi, da quelli statunitensi.
Da alcune settimane invece gli stessi fans dei destini comuni con gli USA (ma solo quelli di Biden e Obama?) sono i primi a mettere in dubbio non solo la solidità della NATO e dei rapporti con Washington, ma pure il rischio che i più moderni sistemi d’arma acquisiti negli Stati Uniti, F-35 in testa, si rivelino in realtà un punto di grande vulnerabilità della difesa europea.
Gli F-35 come cavalli di Troia
Molti esperti e osservatori hanno scoperto oggi che degli F-35 che quasi tutte le nazioni europee hanno acquisito, molti aspetti restano sotto stretto controllo statunitense, riducendo quindi la capacità operativa di impiegarli in contesti non condivisi con Washington.
Dopo la criminale uscita di Macron, uno in cui il complesso di Edipo si mescola con la Grandeur, che aveva detto – traduco per i peggior sordi che non vogliono sentire – di offrire agli Europei il suo “ombrello nucleare”, cioè con le sue maledette 290 bombe atomiche, scatenare un conflitto nucleare per “far vincere” la guerra al suo Zelensky, debbo confessare che non sapevo più a che Santo votarmi.
Pochi giorni prima, infatti, la autocrate a capo dell’Unione Europea – la VonDerQuarchecosa che ho condannato alla damnatio memoriae e quindi non nomino – aveva colto la palla al balzo e lanciato uno stupendo programmone che soddisfaceva appieno i suoi clientes, dal titolo “REARM Europe” o qualcosa di simile: 800 diconsi 800 miliardi di euro di nostri soldi spesi in armi, per provare a fare lei la Trump e “sostenere” Zelly, confermato “campione della democrazia“.
Perché Autocrate? Perché ha fatto in modo che questo suo bel piano-rapina non passasse dal Parlamento per l’approvazione. V
a beh: è il Parlamento Europeo, infestato da pseudopolitici giubilati in patria e strapagati per occuparsi di inutilitilia, ma dentro il quale sopravvivono persone dotate di un minimo di mancanza d’ignoranza, e che avevano detto che “costava troppo“.
Non che fosse una pazzia criminale, no: “costava troppo”.
L’Europa del 2023 sembra intrappolata in un paradosso storico. Mentre annuncia piani di riarmo da 800 miliardi di euro – una cifra superiore al Pil annuo di Paesi come Paesi bassi o Svizzera – ripete meccanicamente gli errori che portarono al collasso del 1914 e del 1939. Prima della Prima Guerra Mondiale, il continente viveva la Belle Époque: un’epoca di fiducia nel progresso, con investimenti in scienza, infrastrutture e cultura. La spesa militare rappresentava appena il 3-4% del Pil delle maggiori potenze (The Economics of World War I, Cambridge University Press), ma bastò un decennio di tensioni (1904-1914) per portarla al 10-15%, accompagnata da una rete di alleanze segrete e nazionalismi esplosivi. L'Europa della Belle Époque era un continente in bilico tra splendore e illusione, un mondo raffinato che sembrava destinato a non finire mai. Dall’ultimo ventennio dell’Ottocento fino al 1914, il Vecchio Continente conobbe un periodo di straordinaria crescita economica, progresso tecnologico e fermento culturale. Le città si trasformavano in metropoli moderne, illuminate dalla luce elettrica e percorse dai primi tram, mentre le classi borghesi godevano di un benessere senza precedenti. Parigi, Londra, Vienna, Berlino erano il cuore pulsante di un'epoca che celebrava l’arte, la moda, il divertimento e l’innovazione. Era il tempo del cancan al Moulin Rouge, delle operette di Offenbach, delle Esposizioni Universali che mostravano al mondo le meraviglie della modernità.
Andrea Del Monaco: Landini contro le due destre descritte da Revelli
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Dante Barontini: Zelenskij verso l’ammaina-bandiera, i giornalisti verso il manicomio
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Redazione Clarissa: La dichiarazione di Bashar Assad
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Servi dei padroni
Al giorno d’oggi essere servi è diventata una cosa pesante quanto mai prima. Uno si trova un padrone, lo riverisce, gli “spiccia casa”, per così dire, e soprattutto, gli evita di fare il lavoro pesante, il lavoro sporco, perché se lo accolla tutto lui. Si aspetterebbe quindi, se non fiumi di denaro e di elogi, almeno un contentino, una pacca sulla spalla. Macché: oggi ti prosciugano e poi ti licenziano come si faceva ai tempi di Mozart, ossia con un bel calcio nel chitarrino. E ti chiedono anche indietro i soldi. Guardate il povero Zelensky e soprattutto il suo sventurato popolo. Uno può dire di tutto al Manifesto, ma non può accusarlo di sbagliare le prime pagine: “Usa e getta” è il titolo perfetto, data la situazione.
E che dire dei servi di casa nostra? Guardate il nostro ineffabile presidente del consiglio, inciampato nella transizione dal padrone vecchio a quello nuovo. Se prima berciava “Kiev fino alla fine!” ora dovrà sibilare a denti stretti “E’ la fine di Kiev!”, e fare anche finta di non averlo detto. E guardate il suo vice, il Capitano (!) che guida la Lega e la cordata del Ponte e che più Trump parla di dazi, più lo elogia: poi se la vedrà lui con quel “Nord produttivo” che dovrebbe essergli tanto caro.
Sto buttandola troppo sul ridere? Forse sì: ma troppo scoperta è qui la natura intima del nazionalismo della destra italiana, che, come fece il fascismo, deve immediatamente gettarsi nelle braccia di un padrone ben più forte e feroce, perché ciancia di “ruolo decisivo” e di “grandi opportunità” senza aver prima costruito (e anzi dopo aver reso impossibile) il compromesso sociale e la conseguente base produttiva capaci di dare effettiva sostanza alla declamata sovranità.
Ci sono poi gli altri servi, quelli che litigano (per ora) col nuovo capo solo perché hanno nostalgia di quello vecchio. Prigionieri di se stessi e della retorica che hanno sciorinato per giustificare l’autolesionistica “operazione Ucraina” la sedicente sinistra e i sedicenti gruppi dirigenti europei devono addirittura ostacolare il possibile (ma tutt’altro che prossimo) accordo di pace e parlare di scontro a oltranza.
Lo
scenario globale è cambiato precipitosamente e radicalmente
con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Questo ha
provocato una
successione di incontri, riunioni, dichiarazioni, decisioni in
Europa, in svariati formati interni, parziali o esterni
all’Unione Europea, fino
alla curiosa idea di farsi rappresentare verso gli USA dal
premier UK Keir Starmer, in barba alla Brexit.
Nel contesto più istituzionale UE, in occasione del Consiglio straordinario del 6 marzo scorso dove i leader dell’UE hanno discusso dell’Ucraina e della difesa europea, anche su impulso delle discussioni nelle sedi più sopra menzionate, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha presentato una lettera sull’argomento della difesa europea.
Il Consiglio ha approvato la proposta della Commissione, come si legge nelle Conclusioni della sessione, e ha invitato la Commissione “a proporre fonti di finanziamento supplementari per la difesa a livello dell’UE, anche attraverso ulteriori possibilità e incentivi offerti a tutti gli Stati membri, sulla base dei principi di obiettività, non discriminazione e parità di trattamento degli Stati membri, nell’uso delle loro dotazioni attuali a titolo dei pertinenti programmi di finanziamento dell’UE, e a presentare rapidamente proposte in tal senso”.
Sulla proposta torneremo, sulla base dell’effettivo documento che sarà presentato al Consiglio, nel quale saranno chiariti gli obiettivi, i profili economici e l’effettiva capacità che l’UE potrebbe mettere in campo. Oggi restiamo sul piano politico e istituzionale, rendendo conto di quanto accade in queste ore al Parlamento Europeo. È stato scritto da più parti che il ricorso all’articolo 122, per l’approvazione di ReArm Europe è un grave nocumento alla democrazia, poiché esclude la discussione in Parlamento e il suo ruolo nel processo legislativo. Pare opportuno, in ogni caso, segnalare che l’attuale Parlamento è scarsamente rappresentativo, come ha ricordato Pasqualina Napoletano nell’incontro La nostra Europa promosso da Transform. Non è certo, insomma, che l’intervento del Parlamento avrebbe migliorato le cose, e infatti…
“Istanze di colloqui di pace
aumentano e una finestra di opportunità per la pace si va
aprendo – dichiara il Ministro degli Esteri della Repubblica
popolare cinese;
sebbene le parti abbiano posizioni diverse e sia difficile
trovare soluzioni semplici a questioni complesse, il dialogo
è sempre meglio dello
scontro e i colloqui di pace sono sempre meglio della
contrapposizione. […] La Cina sostiene tutti gli sforzi tesi
alla pace, incluso il
recente consenso raggiunto tra Stati Uniti e Russia”.
E così si squarcia il velo di Maya: l’incontro di Riad tra il segretario di Stato Usa Marco Rubio e il ministro degli Esteri della Federazione russa Sergej Lavrov (18 febbraio), i cui esiti sono stati successivamente valutati in termini positivi dallo stesso presidente russo, Vladimir Putin; i successivi incontri di Trump con Emmanuel Macron (24 febbraio) e con Keir Starmer (27 febbraio), nei quali erano emerse, rispettivamente, l’insofferenza verso i costi a carico degli Stati Uniti per sostenere l’Ucraina e l’indisponibilità degli Stati Uniti a impegnare propri contingenti direttamente in territorio ucraino (al di là della presenza militare statunitense già operativa sul campo, con funzioni tecniche, di supporto e addestramento); infine, il clamoroso incontro-scontro consumato tra Trump e Zelensky il 28 febbraio, hanno l’effetto di delineare due immagini simmetriche.
La prima, la contraddizione che si viene aprendo nel campo atlantico, segnata dal cambio di strategia degli Stati Uniti e dalla clamorosa inadeguatezza delle classi dirigenti europee nel sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della nuova fase. La seconda, l’apertura di una finestra di opportunità per la diplomazia, con uno spazio, difficilmente immaginabile fino a tre mesi fa, per un nuovo dialogo tra Stati Uniti e Federazione russa e una nuova opportunità di definire condizioni per un possibile cessate-il-fuoco e, in prospettiva, per la pace.
In attesa della risposta di Putin, che dovrebbe aderire motivando il sì come gesto di buona volontà, resta che per la prima volta si parla davvero di un cessate il fuoco. Zelensky non era presente all'incontro
Così da Jeddah arriva la notizia che l’Ucraina ha accettato una tregua di 30 giorni, durante i quali si dovrebbe procedere a uno scambio di prigionieri e ad altre iniziative umanitarie. Zelensky “è stato messo al suo posto”, esulta la Casa Bianca per bocca della portavoce Caroline Leavitt.
Un indubbio successo, infatti, per Trump, che ha rintuzzato la sfida del presidente ucraino e dei Paesi europei alla sua spinta per raggiungere la pace nel conflitto che dilania l’Ucraina, opponendo alla sua pressione le ragioni della guerra perpetua.
E, in effetti, si tratta di una svolta, precaria e minimale quanto si vuole, ma pur sempre di alto valore simbolico, dal momento che per la prima volta dall’inizio del conflitto la parola pace non riecheggia come un ignominioso insulto. Tanto che l’Europa si è subito accodata al carro, lodando l’intesa tra Kiev e Washington, anche perché Kiev ha rappresentato le istanze del Vecchio Continente.
Siamo di fronte per gli USA a un vero e proprio cambio di paradigma con relativa fine della globalizzazione
Da sempre sosteniamo – certamente non da soli - la tesi che uno dei cardini fondamentali della superpotenza americana è la borsa di Wall Street. Gli enormi squilibri commerciali in essere a partire dal 1971 vengono “sanati” grazie alle immissioni di dollari fatte dai paesi che nei rapporti commerciali con gli Stati Uniti presentano un avanzo strutturale. Questo sistema sostanzialmente nacque con l'istituzione del meccanismo instaurato da Stati Uniti e Arabia Saudita e noto con il nome di Petrodollaro che si sostanzia nell'obbligo da parte di Ryad di vendere il proprio petrolio in dollari e di reinvestire il surplus di valuta americana nella stessa Wall Street; in cambio Washington si impegnava a garantire protezione diplomatica e militare al trono della famiglia Saud.
Il meccanismo si è rivelato talmente efficace che piano piano è stato allargato a tutto il mondo, così da spingere grandi economisti (Marcello De Cecco in primis) a definire gli Stati Uniti come i “compratori di ultima istanza”, nel senso che, alla fine, tutto il surplus di merci prodotte veniva, in qualche modo, assorbita dal mercato americano; naturalmente alla tacita condizione che i paesi venditori reinvestissero i dollari in surplus ottenuti dagli USA nella stessa Wall Street. Insomma, si passò dal sistema del petrodollaro a quello dell' Every Things Dollars, ogni cosa in dollari.
1) Se l’EU rappresenta democrazia, pace, lavoro, allora sostenendo l’EU sostengo democrazia, pace, lavoro.
2) L’EU rappresenta democrazia, pace, lavoro.
Ergo: sostengo democrazia, pace, lavoro.
Il ragionamento è formalmente corretto, ma la verità della conclusione non dipende dalla correttezza del ragionamento formale, ma dalla verità delle proposizioni. Solo se esse sono vere, cioè corrispondono a stati di fatto della realtà esterna al ragionamento, è vera la conclusione.
Ovviamente sono “vere”: per sostenere la pace, l’EU partecipa a delle guerre e si riarma; per sostenere la democrazia è basata su una banca centrale svincolata da qualsiasi controllo e da un Parlamento che non conta niente, da una Commissione che fa gli interessi del grande capitale di alcuni dei suoi paesi a discapito di altri; per sostenere la solidarietà e il lavoro permette concorrenza sleale tra paesi membri grazie a disparità del sistema fiscale, fa arricchire alcuni a discapito di altri con PIL a zero, incrementi salariali minimi o addirittura negativi, deindustrializzazione, azzeramento progressivo dello stato sociale.
Queste lungimiranti politiche adesso presentano il conto di una debolezza strutturale rimarchevole di fronte a chi invece è forte davvero. Alla fine hanno perso tutti e l’EU, per come è nata, strutturata e coerentemente gestita, è un irriformabile conclamato fallimento… per sostenere il quale è necessario scendere in piazza!
Una leggenda che affonda nelle saghe nordiche, poi ripresa da altri autori in seguito, narra di un cavaliere senza testa che nel bel mezzo della battaglia si ritrova, di solito a cavallo, a continuare il combattimento sia pur privo della parte pensante del corpo. In questo modo semina il terrore tra i nemici ma pure lo sgomento tra i compagni di battaglia.
Le élite europee in queste settimane sono come il cavaliere senza testa della leggenda, continuano il combattimento prive di una parte essenziale, seminando terrore e sgomento tra le fila di compagni e avversari.
Fuor di leggenda, le élite europee si sono ritrovate d’improvviso senza quel punto di riferimento che per decenni le ha coltivate e nutrite, che ha guidato i loro passi e ha sorretto ogni loro gesto.
D’improvviso, come il cavaliere senza testa, si ritrovano ora a dover continuare la battaglia alla cieca, senza mai venir meno alla missione pre-stabilita.
Però alla cieca, senza una guida.
Emanuel Macron potrebbe rappresentare un braccio del cavaliere, Keir Starmer l’altro braccio, Ursula Von der Leyen una spalla, l’altra spalla Mark Rutte e via via gli altri. Sono parti importanti del corpo di un cavaliere, ma non sono la testa.
La testa è saltata. Il Presidente degli Stati Uniti, che ha sempre rappresentato la testa di questo schema, non è più al suo posto. E’ saltata e sta seguendo una sua orbita lontana dal corpo.
Circa dalla caduta del Muro, nel mondo occidentale i governi di "sinistra" sono un'emanazione diretta del Deep State atlantico, cioè di quell'insieme di poteri opachi (cioè non pubblici) dotati della massima disponibilità materiale e capaci di programmazione sul lungo periodo al riparo dai processi elettorali, e che dunque possono contare stabilmente su apparati amministrativi, militari, finanziari, mediatici per ottenere i loro scopi. Insomma: quelli che sono al potere anche quando non sono al governo.
I governi di "destra", invece, intrattengono con questi apparati un rapporto conflittuale, almeno all'apparenza. Questa conflittualità, sebbene abbia un fondo di verità, non deve nascondere la sostanziale convergenza, data anche da una convivenza forzata ai vertici delle istituzioni e dalla crisi generale delle democrazie, per cui qualsiasi formazione in origine antielitaria, finisce oggi per essere cooptata all'interno di un sistema che sa elargire lauti premi ed efficacissime punizioni.
Si noti che non stiamo parlando davvero di destra e sinistra nel significato di una volta. Sono, queste, semplici bandierine ornamentali, non più reali dei filtri di Instagram. Ogni potere organizzato della storia deve creare un Nemico dal quale il popolo viene protetto.
Nat Cohn, Generoso Pope, Frank Costello, Bonanno, Gambino…una infanzia interessante
Premessa
C’è un vecchio film di Rossellini ‘La presa del potere di Luigi XIV’ che è assai istruttivo: ci mostra come la corte di Versailles, lo sfarzo e i suoi eccessi, tutte le manfrine di balli e intrighi non fossero semplici decadenza e corruzione ma strumenti di un disegno preciso: costringere i veri detentori del potere, i nobili e proprietari terrieri, che generavano e controllavano ricchezze e soldati, a venire a corte per ottenere i ‘favori’ del re e nel contempo dissanguarsi a suo favore, travasandogli ricchezze e creando una reale centralità di potere.
Anche nel caso di Trump non conviene fermarsi alle apparenze buffonesche del personaggio. La presa del potere di Donald II è altrettanto abile e decisa.
1- le elezioni
Anche se il margine di vantaggio di Trump nel voto popolare è stato relativamente piccolo (come si consolano gli opinionisti dem) di fatto è la continuazione di una tendenza in atto da tempo (come avevano avvertito i sondaggisti più attenti) che ha portato i Maga-repubblicani a conquistare percentuali sempre maggiori degli immigrati latini di seconda generazione e anche ad aumentare la quota di neri e asiatici; che hanno votato anche in modo apparentemente paradossale per il blocco delle nuove immigrazioni.
La ragione è semplice: queste nuove generazioni hanno tutte un interesse principale, ed è il denaro; sono diventati americani completi, dove tutte le complessità culturali e di sangue vanno in secondo piano rispetto alla motivazione dominante: avere successo/soldi.
Ed è questo grande corpo con un solo parametro di controllo, quindi facilmente influenzabile e controllabile, che ha portato Trump alla vittoria, e ce lo lascerà a lungo.
Oltre il Neoliberismo. Considerazioni in margine a un libro sulle recenti mutazioni del ruolo dello Stato
1. Sebbene il dibattito sulle torsioni
subite dalla forma di Stato nell’ultimo quarantennio nei Paesi
a capitalismo maturo sia stato intenso, non si può dire che
abbia fatto
ancora chiarezza circa la configurazione dei poteri emersa
all’esito di queste trasformazioni. Resistono, infatti, nella
letteratura scientifica
così come nell’opinione pubblica, un certo numero di luoghi
comuni sul tema duri da sradicare. Pertanto, fa molto piacere
trovare in
libreria un volume come Lo Stato del potere. Politica e
diritto ai tempi della post-libertà di Carlo Iannello,[1]
in cui si cerca con pazienza di tracciare un filo conduttore
tra i fatti che hanno segnato questo processo di
trasformazione, di rendere quindi analiticamente trattabile la
magmatica materia di cui questa storia è composta, e infine di
fare i conti con
le questioni interpretative ancora aperte nel dibattito.
Per comodità espositiva, conviene preliminarmente riassumere la tesi proposta nel libro in poche proposizioni chiave: (1) Nell’esperienza dello Stato sociale, incardinata nello schema del costituzionalismo novecentesco, si è incarnata l’aspirazione della società a mettere sotto controllo il capitale, a limitarne le potenzialità eversive dell’ordine economico e sociale manifestate nella prima metà del secolo e a orientarne la straordinaria capacità di generazione di ricchezza materiale verso obiettivi e modelli di allocazione delle risorse democraticamente scelti dai cittadini; (2) Questa esperienza si interrompe grosso modo all’inizio degli anni 80 del secolo scorso, quando il capitale reagisce all’erosione della profittabilità, egemonizza il dibattito pubblico con una lettura della crisi del decennio precedente che mette il focus sull’inflazione delle aspettative redistributive della classe lavoratrice, e capovolge il ruolo dello Stato, funzionalizzandolo a un progetto di sottomissione dell’intera società alla logica mercantile.
In risposta ad
alcune domande e, talvolta, a qualche fraintendimento su
alcuni concetti della "Critica
della Dissociazione del Valore" e della "Teoria Critica",
quella che segue è una presentazione dei diversi termini di
"Astrazione Reale" e
"Dominio Senza Soggetto" (come dice Marx); concetti questi,
che di solito usiamo nella Nuova Critica Anticapitalistica.
Quella che segue è
quindi una semplice esposizione dei concetti di “Astrazione
Reale” e di “Dominio senza Soggetto” (sempre per dirla con
Marx)
che abitualmente utilizziamo. Questa esposizione si articola
brevemente intorno alla questione dell'individuo e della
classe, e alla necessaria
Critica del “materialismo storico”, in quanto esso appare
legato al pensiero borghese, e in contrasto con il modo in
cui i concetti di cui
sopra vengono di solito affrontati nel sotto-pensiero
marxista tradizionale.
* * * *
Il materialismo storico non può essere applicato in quanto tale, dal momento che esso ignora il meccanismo fondamentale costitutivo delle società umane fino a oggi. Nel capitalismo, la produzione materiale, il lavoro e il consumo di merci – vale a dire, "l'economico" – non coincidono con quelle che sono le possibilità che corrispondono a un processo metabolico dell'essere umano con la natura. Detto in altri termini, il capitalismo non ha come obiettivo la soddisfazione dei bisogni umani concreti, come la casa o il cibo.
La democrazia muore a Bucarest
“Il ringhio del bassotto”: Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
Video integrale (su Odysee): La democrazia muore a Bucarest
I vampiri, dal grande Christopher Lee e prima e poi, venivano innocuizzati col paletto piantato nel cuore. Roba di Transilvania oscura. Roba di Romania nera nera. Solo che il vampiro ha rovesciato le cose e il paletto l’ha piantato lui nel cuore. Di Calin Georgescu. Cioè della Romania, della democrazia. Delle libertà fondamentali. Sulle cui ossa, già ben sgranocchiate dal nazifascismo e indi giustapposte a Ventotene, si sono piantate le fondamenta dell’Unione Europa, più rimasugli ammuffiti di Impero Britannico.
Grandiosa rivincita. Assistita e coadiuvata da una bella banda della Magliana, più Falange Armata, più Banda dell’Uno Bianca, più tutti i servizi segreti con succursali private: pali, autisti, spioni, fornitori delle armi, logistici, giureconsulti alla Nordio per assicurare ai picciotti prescrizioni lunghe due vite. Insomma Ursula von der Leyen, Starmer, Macron, Costa, Merz, Tusk, tutti questi che sul bavero hanno il logo banderista e Zelensky con al collo la Croce di Ferro di Primo Grado.
Col paletto nel cuore, la Romania, cioè le sue istituzioni democratiche, si sono giocate un probabilissimo presidente ultradestro, cospiratore fascista, nazionalista e sovranista (orrore!), all’orecchio di Putin che, con Tic Toc, ha martellato le sinapsi di milioni di rumeni fino a convincerli a votare il mostro estremista putiniano che non voleva far fare alla Romania la fine dell’Ucraina, gloria dei popoli, altare della democrazia, monumento alla libertà.
Nel 1927 Julien Benda scrisse Il tradimento dei chierici, cioè degli intellettuali, che fu poi ripubblicato e portato a maggiore visibilità nel 1946. Lo scrittore nel saggio stigmatizzava l’intellighenzia del suo tempo che aveva rinunciato alla ricerca della verità e della bellezza, abbracciando le ideologie nazionaliste oppure comuniste, scegliendo di divenire funzionali a una parte, a una politica partigiana sulla base di presupposti aprioristici.
Leggo le dichiarazioni degli intellettuali del centrosinistra, di coloro i cui libri invadono le librerie Feltrinelli e sono pubblicizzati, a prescindere dal contenuto e dal vero valore letterario o saggistico, in modo esagerato a svantaggio di tanti altri autori. Come non pensare a Julien Benda? Gli intellettuali scendono in campo per una visione intrisa di suprematismo bianco, in base alla quale l’Europa sarebbe democratica e avrebbe una civiltà superiore rispetto a quella di tanti altri Paesi, Cina, Russia, l’intero Sud globale. L’America di Trump viene demonizzata come se essa non fosse un prodotto e per molti versi la continuazione dei quella di Biden.
Pasolini affermava: “Io sono un intellettuale, quindi so”. Anche lui credeva che la funzione primaria dell’intellighenzia fosse andare oltre le apparenze e il linguaggio del potere. Cercare la verità intesa come l’interpretazione più vicina alla realtà. È terrificante osservare come gli uomini di cultura ripetano parole vuote di significato.
L'opinione pubblica occidentale, proprio come alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, sembra estensivamente preda di decadimento cognitivo. Il déjà-vu di una retorica tanto razionalmente vuota, quanto esplosiva
Esiste un detto latino che recita: “Quos vult Iupiter perdere, dementat prius” (“Giove fa prima perdere il senno a quelli che vuol mandare in rovina.”)
Ecco, io non so se ci abbiano messo lo zampino Giove, Odino, Jahvé, Ahura Mazda o altri sùperi.
Mi astengo da un’analisi delle probabili cause, anche se credo che molto ci sarebbe da dire sui processi tecnologici e sociali di annichilimento mentale che hanno avuto luogo negli ultimi decenni.
Sia come sia, oggi l’opinione pubblica occidentale, proprio come alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, mi sembra estensivamente preda di decadimento cognitivo.
Se andate a rileggere i toni e gli argomenti sui giornali degli anni 1900-1914, trovate elzeviri infiammati da una retorica tanto razionalmente vuota, quanto esplosiva. Al tempo intellettuali critici come Karl Kraus dalle pagine della “Fackel” cercarono di far ragionare, con sagacia e sarcasmo, la borghesia colta (la maggior parte della popolazione rimaneva esclusa dalla fruizione intellettuale).
Ma fu tutto inutile.
“Che nessuno parli mai più di intellettuali’, gli schifosi amplificatori delle più allucinanti propagande, funzionali a se stessi perché schiavi del Potere che sostengono caricandolo a parole inique e violentissime. Che nessuno parli mai più di ‘intellettuali’”. Così lo scrittore Aldo Nove martedì 11 marzo, sulla sua bacheca Facebook – ah, i social: causa e soluzione di tanti, anche se non tutti i problemi, giusto per citare Homer Simpson, che però parlava di birra. Nove si riferisce ad Antonio Scurati, novello esteta della guerra, lo Jünger da scrivania. Noi ci aggiungeremmo Michele Serra, mobilitatore di piazze europeiste per supportare il restyling di Repubblica (puramente grafico, visto che il prodotto addirittura peggiora: sempre più bellicista, sempre più conformista, sempre più fariseo). Ma ha ragione, Nove? No, non ha ragione.
Gli intellettuali possono avere ancora un ruolo fecondo, finché esisteranno nicchie di ostinati che daranno al pensiero un valore e non soltanto un prezzo. A patto di rispettare tre caratteristiche 1) L’intellettuale deve essere impegnato. È la pre-condizione, necessaria anche se non sufficiente. Data per scontata la distinzione scolastica con i lavori manuali (via via sempre più ridotti dall’avanzare della tecnologia, e per altro destinati a ridursi ancora con la cosiddetta intelligenza artificiale), un intellettuale nel senso moderno del termine nasce più o meno a fine Ottocento, con il celebre “J’accuse” di Émila Zola sull’affare Dreyfus.
Prima dell'incontro tra americani e ucraini in Arabia Saudita, l'attacco a Mosca - Il piano di pace franco-britannico: un escamotage per far proseguire la guerra
Iniziano i negoziati a Jeddah tra americani e ucraini. Ieri è arrivato anche Zelensky, dopo aver inviato una missiva di scuse formali a Trump. Poche le possibilità che si arrivi a un compromesso, questo primo summit può rappresentare al massimo un primo approccio alla questione. A segnalare le scarse possibilità, a meno di positivi imprevisti, due fattori.
Anzitutto, l’arrivo di Zelensky è coinciso con il più massivo attacco di droni contro Mosca. Diversi i velivoli intercettati, poche le vittime, ma l’attacco non aveva altro scopo se non quello di far dilagare la paura nella capitale russa, costringendo Putin a ordinare un contrattacco massivo. Una strage di civili ucraini da ostentare alla pubblica opinione mondiale renderebbe più improbo all’amministrazione Trump far digerire un accordo.
In questo, c’è il precedente di Bucha, quando la messinscena dei civili ucraini brutalmente uccisi dai russi inflisse un vulnus alle trattative in corso a Istanbul, vanificate del tutto quando, pochi giorni dopo la propalazione delle asserite atrocità russe, Boris Johnson costrinse Zelensky a far saltare il tavolo.
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Fulvio Grimaldi: Democrazia all’occidentale: guerre, golpe, criminalità politica organizzata
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Enrico Palandri: Noi e il capitalismo
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Alessandro Volpi: C’è BlackRock dietro l’assalto di Unicredit al sistema bancario europeo
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Fulvio Grimaldi: Finalmente uno Stato Islamico come si deve. Il nostro agente a Damasco
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Per comprendere le
ragioni della sceneggiata napoletana andata in onda nella sala
ovale della Casa Bianca il 28 febbraio scorso, conviene
guardare a quanto successo in
Germania solo qualche ora più tardi: Friedrich Merz,
cancelliere in pectore ed ex dirigente BlackRock, annunciava
un pacchetto da 900 miliardi
– il doppio del bilancio federale annuale – per difesa e
infrastrutture. (In un bollettino del 24 febbraio, la
stessa BlackRock prevedeva che il voto tedesco avrebbe
consentito un aumento della spesa). Pochi giorni dopo, Merz
confermava proposte
“radicali” (la più grande revisione di politica monetaria dai
tempi della riunificazione del paese, con annessa riforma
costituzionale) mirate ad allentare le regole sull’accumulo di
debito al fine di consentire una maggiore spesa per la difesa
e rilanciare
l’economia – in barba al rigore fiscale imposto more
teutonico a tutti i paesi della UE negli ultimi 20
anni, con particolare
riferimento all’accanimento sadistico sulla Grecia.
Basta dunque unire i puntini, e prendere sul serio l’assunto per cui tutto ciò che accade oggi, soprattutto ma non solo in materia di geopolitica, dev’essere ricondotto al primum movens del capitalismo contemporaneo: il debito. Zelensky litiga con Trump a favore di telecamera (“questo sarà perfetto per la TV”, si lascia scappare the Donald). Passano poche ore e l’ex cabarettista torna in Europa per buttarsi (sempre a favore di telecamera) tra le braccia della “coalizione dei volenterosi” (sic!): un’ammucchiata di funerei governanti per l’occasione capitanata dal britannico Keir Starmer. Nel frattempo, come un cane di Pavlov, scatta l’indignazione (molto mediatica) dell’Europa progressista contro il tradimento dell’America illiberale, cialtrona, e populista di Trump e Vance. E, approfittando del clamore generale, in Germania si allentano i cordoni fiscali e si oliano le stampanti: più debito für uns und für alle! Come ai tempi del Covid non ci sono alternative, perché il nemico è alle porte.
Mentre a Berlino si pensa a uno stimolo di quasi un trilione di euro, a Bruxelles Ursula von der Leyen estrae dal cilindro il progetto Re-Arm Europe. In sintonia, dunque, i cinici funzionari del capitalismo di crisi propongono di eliminare le restrizioni alla spesa in deficit se questa spesa viene utilizzata per la difesa.
“Qualunque cosa si faccia per abbassare
la spesa pubblica è ben fatta eccetto che per alcune
spese molto
selezionate come quelle per la difesa militare di cui
abbiamo reale necessità” M.F.
Questa affermazione è di Milton Friedman, definito “l’eroe della libertà” consigliere delle politiche economiche dello stato minimo del dittatore Pinochet ed evidentemente ispiratrice delle politiche della Ue.
La loro reale emergenza è, come vedremo, la minaccia di crollo del sistema finanziario speculativo occidentale. Per rinviare il collasso hanno bisogno di disinnescarlo dando in pasto al mostro finanziario bolle su bolle. A questo fine viene dirottato il risparmio dei piccoli privati, per alimentare l’ennesima bolla finanziaria, quella degli armamenti, costruendo titoli ad hoc in grado di attrarre gli investimenti dei piccoli privati a favore dei grandi privati della finanza di guerra.
Rearm Europe è un piano di 800 miliardi che dovrebbe servire per la difesa comune europea già passato a larga maggioranza nel Parlamento italiano. Se si considera che nel 2024 l’Unione Europea ha destinato complessivamente 400 miliardi di dollari al settore della Difesa (senza contare il trilione di dollari statunitensi in spesa militare) e che, nello stesso periodo, la Russia ha speso poco più di 140 miliardi di dollari per la difesa si comprende come Rearm Europe abbia tutt’altri fini rispetto a quelli dichiarati.
Dal punto di vista narrativo, per imporre il riarmo ai paesi dell’Unione si utilizza il tradimento di Trump e il fantomatico pericolo dell’imminente invasione russa. Si ricorre poi all’art.122 del Trattato europeo che prevede misure per affrontare situazioni di emergenza economica e calamità naturali bypassando il Parlamento [5].
La Commissione Europea fornirà una garanzia solo su 150 miliardi di questo totale (debito comune europeo 150 miliardi di euro). I restanti 650 miliardi di euro dovranno essere raccolti dai singoli stati.
Due
precisazioni preliminari. Anzitutto, il “noi” di cui qui si
parla è fortemente ipotetico, ben più di quello cui fa
allusione
il titolo (un’antica polemica del PCC col PCI), e in ogni caso
lo usiamo affiggendovi sempre un grande punto interrogativo.1
Inoltre,
Ottolina TV la seguiamo quotidianamente, è una torcia accesa
nella nebbia venefica dell’odierno disorientamento del mondo.
Un piccolo
gruppo di compagni che con grande generosità sono stati capaci
di auto-organizzarsi in modo esemplare. È con sentimenti di
amicizia
politica che vogliamo manifestare le nostre divergenze su
alcuni temi cruciali, o per dirla con Lenin, su “alcuni
problemi scottanti del nostro
movimento”, beninteso “nostro” nel senso di un desiderio da
realizzare.
Ci sono in particolare due grandi problemi irrisolti, che proponiamo di discutere nello spirito della “giusta soluzione di contraddizioni in seno al popolo”: uno è il “che fare?” immediato, l’altro è la prospettiva storica, o meglio il bilancio dell'esperienza storica di altri tentativi di “abolizione dello stato presente delle cose” in epoca moderna. (Ci scusiamo per l’abbondanza di citazioni classiche ma speriamo che aiutino a capirci).
#tuttiacasa
La parola d’ordine di Ottolina – un hashtag, per stare al passo coi tempi – è oggi “Tutti a casa”. Avete perso la guerra, dunque andate via tutti, ma proprio tutti, precisa Marrucci per chi non avesse capito bene. A parte una serie di problemi operativi (chi, quale noi, e come, manda a casa tutti?), c’è un problema politico, e in una certa misura perfino logico. Ciò che vogliamo deve venire prima di ciò che non vogliamo. Non vogliamo più questo governo, bene, ma che cosa vogliamo politicamente? E come vogliamo conseguirlo? Senza mettere al primo posto un enunciato affermativo, il nostro sarà solo un grido di dolore, incapace tuttavia di alleviare la nostra impotenza. Non si cede alla seduzione del “pensiero magico” (bersaglio polemico di Ottolina) quando si esaltano le virtù palingenetiche della distruzione?
L’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti ha determinato una frattura tra la nuova oligarchia al potere e gli apparati che sono comunemente chiamati dagli analisti indipendenti ‘Stato Profondo’. Per decenni il partito democratico e quello repubblicano statunitensi si sono alternati al Governo, esprimendo una variabile valoriale, ma condividendo essenzialmente i pilastri della politica estera ed economica. Man mano, infatti, che la democrazia statunitense diveniva una plutocrazia nella quale, per poter fare politica bisognava avere l’appoggio delle lobbies della finanza e della lobby di Israele, le differenze tra i due partiti, espressione di una oligarchia omogenea, concernevano i diritti civili, il gruppo LGTBQ, le divisioni tra un pensiero più tradizionalista e quello liberal.
I nuovi oligarchi, Trump, Musk, i rappresentanti dei petroliferi e delle startup che hanno bisogno di liquidità sono degli outsider rispetto agli apparati burocratici del dipartimento di Stato e del Pentagono, delle agenzie di sicurezza, delle agenzie per la cooperazione allo sviluppo come USAID, dei think tank come la National Endowment for Democracy (NED). Sebbene siano stati eletti grazie alla lobby di Israele, ai sionisti cristiani ed evangelici, essi rappresentano i perdenti della globalizzazione, i “nowhere” da opporre agli “everywhere”, che in Europa si sono riversati nei partiti della destra radicale da Le Pen a Meloni, a Orban, a Vox, agli svedesi democratici, ai veri finlandesi, ai neonazisti olandesi, ad Alternative fur Deutchland, a Georgescu, il candidato rumeno a cui gli apparati dello Stato Profondo hanno tolto il diritto di candidarsi alle elezioni.
«C’è un aggressore e c’è un aggredito». Lo slogan più martellante degli ultimi anni vive una seconda giovinezza. Applicato fino a ieri al solo tema della guerra, oggi viene riciclato nel campo delle politiche commerciali. L’odierno aggressore è infatti Trump, che si è messo a brandire l’arma dei dazi anche contro l’Unione europea. Che provocata reagisce, approvando uguali e contrarie misure protezioniste a danno di una lunga lista di prodotti made in Usa.
A prima vista sembra una classica reazione da manuale. Persino Adam Smith, precursore della dottrina del libero scambio, ammetteva la rappresaglia protezionista contro provvedimenti restrittivi stranieri.
Smith però si premurava di aggiungere che la risposta dell’aggredito dovesse puntare alla «rimozione dei dazi o delle proibizioni che l’hanno originata». La contemplava cioè quale arma tattica, per indurre l’aggressore a ravvedersi e a ripristinare i liberi commerci. Gli sherpa dell’Ue insistono a dire che questo è esattamente l’obiettivo della reazione protezionista europea: metter paura a Trump, per indurlo a più miti consigli. La speranza è che il nuovo presidente americano torni al vecchio friend shoring: imporre dazi a tutti, tranne agli amici europei.
Ma nelle stanze del potere gli scettici ormai sgomitano. Mario Draghi è tra questi. A suo avviso, l’Ue deve elevare barriere commerciali e finanziarie non come tattica contingente ma come strategia di lungo periodo.
Di fronte al delirio bellicista
in atto nell’Unione Europea, viene da chiedersi se non siamo
ormai di fronte a un caso macroscopico di psicopatologia
politica: sono in atto
tutti i meccanismi difensivi descritti da Freud. Il primo è la
negazione: del reale, del contesto, delle proprie pulsioni
distruttive ecc., che
ormai si è spinta a un punto tale, psicotico, da divenire
denegazione, forclusione (cioè perdita del rapporto con la
realtà,
tipico della psicosi). Poi la proiezione, lo spostamento, la
scissione, la rimozione, l’idealizzazione di sé. Del resto,
proprio Freud in
Il disagio della civiltà, ma anche nel suo
epistolario-dialogo con Einstein, aveva tematizzato lo sfondo
psicoanalitico della guerra.
A tale sfondo si accompagna anche una robusta dose di
infantilismo politico, che contribuisce ad alimentare una
deriva fanatica e irrazionale che
sacrifica i veri interessi dei popoli europei, e la loro
stessa volontà, al mantenimento di un falso Sé europeista.
Quindi
c’è il cinismo, ci sono gli interessi (anche inconfessabili),
ma è in gioco una questione esistenziale, identitaria dalle
implicazioni profonde, che toccano il lato oscuro della
costruzione europea.
C’è sicuramente un elemento di distruttività (introiettata), legato a una vera propria sindrome ossessivo-paranoide (castronerie antistoriche come il paragone Putin-Hitler, l’idea che siamo in pericolo perché l’Europa sta per essere invasa dalla Russia, ipotesi priva di qualsiasi fondamento politico, anche banalmente dal punto di vista pratico-militare). L’Europa è inconsciamente angosciata innanzitutto da se stessa. L’UE oggi custodisce l’ortodossia ideologica neoliberale e globalista. L’America di Trump è tecno-mercatista, ma anti-globalista. Su questa base accetta il pluriverso mondiale, puntando a un modus vivendi nelle relazioni internazionali, e cerca di guadagnare dei vantaggi strategici posizionandosi al meglio nella competizione globale. Inoltre ha messo in discussione i dogmi liberal e chiuso con il fanatismo woke. Rispetto alla decisiva questione ucraina, punta a una pace possibile, realistica. Mentre l’UE, umiliata innanzitutto da se stessa, dai propri madornali errori, dalla propria cecità, è preda dell’isteria.
Questo è un discorso che ho tenuto al Sanctuary for Independent Media. Grazie a loro per avermi ospitato e per aver permesso al mio team di caricare questo discorso che ho tenuto su The Chris Hedges Report. Visita il loro canale YouTube, dove è stato trasmesso originariamente, qui.
Il mio vecchio
ufficio a Gaza è un cumulo di macerie. Le strade intorno, dove
andavo a prendere un caffè, ordinavo un maftool o un manakish,
mi
tagliavo i capelli, sono ridotte in macerie. Amici e colleghi
sono morti o, più spesso, sono scomparsi, l'ultima volta si
sono sentiti
settimane o mesi fa, senza dubbio sepolti da qualche parte
sotto le lastre di cemento rotte. I morti non si contano. Sono
decine, forse centinaia di
migliaia.
Gaza è una terra desolata con 50 milioni di tonnellate di macerie e detriti. Ratti e cani frugano tra le rovine e le pozze fetide di liquami sporchi. Il fetore putrido e la contaminazione dei cadaveri in decomposizione emergono da sotto le montagne di cemento in frantumi. Non c'è acqua pulita. Poco cibo. Una grave carenza di servizi medici e quasi nessun rifugio abitabile. I palestinesi rischiano di morire a causa di ordigni inesplosi, lasciati dietro di sé dopo oltre 15 mesi di attacchi aerei, raffiche di artiglieria, colpi di missili e scoppi di carri armati, e di una varietà di sostanze tossiche, tra cui pozze di liquami e amianto.
L'epatite A, causata dal consumo di acqua contaminata, è dilagante, così come le malattie respiratorie, la scabbia, la malnutrizione, la fame e la diffusa nausea e vomito causati dal consumo di cibo rancido. Le persone vulnerabili, compresi i neonati e gli anziani, insieme ai malati, rischiano la condanna a morte. Circa 1,9 milioni di persone sono state sfollate, pari al 90% della popolazione. Vivono in tende di fortuna, accampati tra lastre di cemento o all'aperto. Molti sono stati costretti a spostarsi più di una dozzina di volte. Nove case su 10 sono state distrutte o danneggiate. Condomini, scuole, ospedali, panetterie, moschee, università - Israele ha fatto saltare in aria l'Università Israa a Gaza City con una demolizione controllata - cimiteri, negozi e uffici sono stati cancellati. Il tasso di disoccupazione è dell'80% e il prodotto interno lordo si è ridotto di quasi l'85%, secondo un rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro dell'ottobre 2024.
Cominciamo da
cosa non è ReArm Europe, il piano sul riarmo
continentale proposto alla Ue dalla commissaria Ursula von der
Leyen: NON
è una strategia immediatamente funzionante di riarmo e NON è
una proposta che ha la certezza di essere accolta dai mercati
finanziari.
Già su questi due piani piuttosto che di fronte alla
produzione di ordine -militare, della creazione di valore –
siamo di fronte alla
immissione di disordine, e persino di caos entro un conflitto,
quello russo-ucraino, che produce dinamiche caotiche proprio
per il fatto di essere
guerra. Per non parlare delle dinamiche di caos e conflitto
immesse dentro la struttura della Ue, e nel rapporto tra stati
membri, che emergono,
paradossalmente, proprio dopo i richiami all’ordine europeo e
militare della commissaria Ue.
La proposta di von der Leyen ha avuto un forte impatto sul piano della comunicazione mediale, impossibile altrimenti con i media europei militarmente occupati da anni. Si tratta però di un effetto annuncio che rivela anche che la Ue è attraversata, come già accaduto per il piano europeo per l’intelligenza artificiale, da una fase di decisionismo teatrale senza forza politica reale, tutto piegato sull’effetto annuncio che finisce per riflettere le criticità strutturali della governance multilivello chiamata Unione Europea. Il piano di riarmo tramite indebitamento dei singoli stati, proposto dalla commissaria Ue, 800 miliardi in 4 anni di cui 150 a sostegno europeo diretto con il resto raccolto sui mercati, appare confuso e frammentario. Questo perché già sul piano sul quale vorrebbe essere decisivo, quello militare, le materie prime necessarie alla produzione di sistemi d’arma, indispensabili a ReArm Europe, sono in molti casi difficili da reperire sul mercato e la lievitazione dei costi industriali in atto può ridurre seriamente l’effetto boom economico atteso da queste misure. ReArmEurope presenta quindi diverse criticità strutturali qui sintetizzate in cinque questioni chiave.
La prima questione che von der Leyen non affronta, in contrasto con un effetto annuncio giocato sulla notizia della decisione, è quella delle competenze in materia di difesa che rischiano di rendere immediatamente inefficace la portata strategica di ReArmEurope.
Appare improprio accusare di essere "no pax" la manifestazione indetta per il prossimo 15 marzo dal giornalista Michele Serra. Allo stato attuale infatti non si configura alcuna ipotesi di pace, dato che, per farsi prendere sul serio dalla Russia, l’amministrazione Trump dovrebbe mettere sul tavolo questioni come il ritiro non solo delle sanzioni ma anche dei missili nucleari dall’Europa. Ammesso e non concesso che Trump voglia davvero affrontare certi temi, andrebbe comunque ricordato che essi sono solo in parte nella sua disponibilità, per cui dovrebbe vedersela col Congresso e, soprattutto, con le lobby che lo controllano. Al momento l’unico cambiamento significativo tra Biden e Trump sta nello “story telling”, cioè si è lasciato da parte un trionfalismo bellicistico ormai screditato e perdente, per adottare una narrazione affaristica che si spaccia come “vincente”, ma solo perché rimane ancora sul piano dell’annuncio e dello spot pubblicitario. Non si può escludere in assoluto che in futuro arrivino dei veri cambiamenti, ma per ora il messaggio di Trump e soci consiste nel mantra auto-celebrativo del “se ci fossi stato io - ora ci sono io”. Adesso ci vengono a raccontare che il video porno-affaristico su Gazaland avesse un intento satirico; ma, persino se fosse vero, rimarrebbe comunque il fatto che Trump ha ritenuto che quell’iperbole fosse funzionale al suo culto della personalità. Prima di stabilire se l’avvento di Trump abbia portato una palingenesi oppure una catastrofe, occorrerebbe vedere se i cambiamenti ci sono davvero o parliamo di nulla.
Siamo tutti all’inferno, ma alcuni sembrano pensare che non ci sia qui altro da fare che studiare e descrivere minuziosamente i diavoli, il loro orrido aspetto, i loro feroci comportamenti, le loro infide trame. Forse si illudono in questo modo di poter scampare all’inferno e non si rendono conto che ciò che li occupa interamente non è che la peggiore delle pene che i diavoli hanno escogitato per tormentarli. Come il contadino della parabola kafkiana, essi non fanno che contare le pulci sul bavero del guardiano. Va da sé che nemmeno sono nel giusto coloro che all’inferno passano invece il loro tempo a descrivere gli angeli del paradiso – anche questa è una pena, in apparenza meno crudele, ma non meno odiosa dell’altra.
La vera politica sta tra queste due pene. Essa comincia innanzitutto col sapere dove ci troviamo e che non ci è dato sfuggire così facilmente alla macchina infernale che ci circonda. Dei demoni e degli angeli sappiamo quello che c’è da sapere, ma sappiamo anche che è con una fallace immaginazione del paradiso che è stato costruito l’inferno e che a ogni consolidamento delle mura dell’Eden fa riscontro un approfondimento dell’abisso della Gehenna. Del bene conosciamo poco e non è un tema che possiamo approfondire; del male sappiamo soltanto che siamo stati noi stessi a costruire la macchina infernale con cui ci tormentiamo.
1) Se l’EU rappresenta democrazia, pace, lavoro, allora sostenendo l’EU sostengo democrazia, pace, lavoro.
2) L’EU rappresenta democrazia, pace, lavoro.
Ergo: sostengo democrazia, pace, lavoro.
Il ragionamento è formalmente corretto, ma la verità della conclusione non dipende dalla correttezza del ragionamento formale, ma dalla verità delle proposizioni. Solo se esse sono vere, cioè corrispondono a stati di fatto della realtà esterna al ragionamento, è vera la conclusione.
Ovviamente sono “vere”: per sostenere la pace, l’EU partecipa a delle guerre e si riarma; per sostenere la democrazia è basata su una banca centrale svincolata da qualsiasi controllo e da un Parlamento che non conta niente, da una Commissione che fa gli interessi del grande capitale di alcuni dei suoi paesi a discapito di altri; per sostenere la solidarietà e il lavoro permette concorrenza sleale tra paesi membri grazie a disparità del sistema fiscale, fa arricchire alcuni a discapito di altri con PIL a zero, incrementi salariali minimi o addirittura negativi, deindustrializzazione, azzeramento progressivo dello stato sociale.
Queste lungimiranti politiche adesso presentano il conto di una debolezza strutturale rimarchevole di fronte a chi invece è forte davvero. Alla fine hanno perso tutti e l’EU, per come è nata, strutturata e coerentemente gestita, è un irriformabile conclamato fallimento… per sostenere il quale è necessario scendere in piazza!
Una leggenda che affonda nelle saghe nordiche, poi ripresa da altri autori in seguito, narra di un cavaliere senza testa che nel bel mezzo della battaglia si ritrova, di solito a cavallo, a continuare il combattimento sia pur privo della parte pensante del corpo. In questo modo semina il terrore tra i nemici ma pure lo sgomento tra i compagni di battaglia.
Le élite europee in queste settimane sono come il cavaliere senza testa della leggenda, continuano il combattimento prive di una parte essenziale, seminando terrore e sgomento tra le fila di compagni e avversari.
Fuor di leggenda, le élite europee si sono ritrovate d’improvviso senza quel punto di riferimento che per decenni le ha coltivate e nutrite, che ha guidato i loro passi e ha sorretto ogni loro gesto.
D’improvviso, come il cavaliere senza testa, si ritrovano ora a dover continuare la battaglia alla cieca, senza mai venir meno alla missione pre-stabilita.
Però alla cieca, senza una guida.
Emanuel Macron potrebbe rappresentare un braccio del cavaliere, Keir Starmer l’altro braccio, Ursula Von der Leyen una spalla, l’altra spalla Mark Rutte e via via gli altri. Sono parti importanti del corpo di un cavaliere, ma non sono la testa.
La testa è saltata. Il Presidente degli Stati Uniti, che ha sempre rappresentato la testa di questo schema, non è più al suo posto. E’ saltata e sta seguendo una sua orbita lontana dal corpo.
Nel 1927 Julien Benda scrisse Il tradimento dei chierici, cioè degli intellettuali, che fu poi ripubblicato e portato a maggiore visibilità nel 1946. Lo scrittore nel saggio stigmatizzava l’intellighenzia del suo tempo che aveva rinunciato alla ricerca della verità e della bellezza, abbracciando le ideologie nazionaliste oppure comuniste, scegliendo di divenire funzionali a una parte, a una politica partigiana sulla base di presupposti aprioristici.
Leggo le dichiarazioni degli intellettuali del centrosinistra, di coloro i cui libri invadono le librerie Feltrinelli e sono pubblicizzati, a prescindere dal contenuto e dal vero valore letterario o saggistico, in modo esagerato a svantaggio di tanti altri autori. Come non pensare a Julien Benda? Gli intellettuali scendono in campo per una visione intrisa di suprematismo bianco, in base alla quale l’Europa sarebbe democratica e avrebbe una civiltà superiore rispetto a quella di tanti altri Paesi, Cina, Russia, l’intero Sud globale. L’America di Trump viene demonizzata come se essa non fosse un prodotto e per molti versi la continuazione dei quella di Biden.
Pasolini affermava: “Io sono un intellettuale, quindi so”. Anche lui credeva che la funzione primaria dell’intellighenzia fosse andare oltre le apparenze e il linguaggio del potere. Cercare la verità intesa come l’interpretazione più vicina alla realtà. È terrificante osservare come gli uomini di cultura ripetano parole vuote di significato.
L'opinione pubblica occidentale, proprio come alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, sembra estensivamente preda di decadimento cognitivo. Il déjà-vu di una retorica tanto razionalmente vuota, quanto esplosiva
Esiste un detto latino che recita: “Quos vult Iupiter perdere, dementat prius” (“Giove fa prima perdere il senno a quelli che vuol mandare in rovina.”)
Ecco, io non so se ci abbiano messo lo zampino Giove, Odino, Jahvé, Ahura Mazda o altri sùperi.
Mi astengo da un’analisi delle probabili cause, anche se credo che molto ci sarebbe da dire sui processi tecnologici e sociali di annichilimento mentale che hanno avuto luogo negli ultimi decenni.
Sia come sia, oggi l’opinione pubblica occidentale, proprio come alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, mi sembra estensivamente preda di decadimento cognitivo.
Se andate a rileggere i toni e gli argomenti sui giornali degli anni 1900-1914, trovate elzeviri infiammati da una retorica tanto razionalmente vuota, quanto esplosiva. Al tempo intellettuali critici come Karl Kraus dalle pagine della “Fackel” cercarono di far ragionare, con sagacia e sarcasmo, la borghesia colta (la maggior parte della popolazione rimaneva esclusa dalla fruizione intellettuale).
Ma fu tutto inutile.
La crisi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa determinata dalle prime iniziative della presidenza di Donald Trump sta portando molti osservatori a mettere in dubbio l’alleanza transatlantica, fino a ieri intoccabile.
Guai a mettere in dubbio che gli interessi di noi italiani ed europei non coincidessero e anzi, fossero compromessi, da quelli statunitensi.
Da alcune settimane invece gli stessi fans dei destini comuni con gli USA (ma solo quelli di Biden e Obama?) sono i primi a mettere in dubbio non solo la solidità della NATO e dei rapporti con Washington, ma pure il rischio che i più moderni sistemi d’arma acquisiti negli Stati Uniti, F-35 in testa, si rivelino in realtà un punto di grande vulnerabilità della difesa europea.
Gli F-35 come cavalli di Troia
Molti esperti e osservatori hanno scoperto oggi che degli F-35 che quasi tutte le nazioni europee hanno acquisito, molti aspetti restano sotto stretto controllo statunitense, riducendo quindi la capacità operativa di impiegarli in contesti non condivisi con Washington.
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Dalle promesse
elettorali alle ingiunzioni televisive in mondovisione, Trump
ritira provvisoriamente – sembra – i dazi a Messico e Canada.
Si pone il
problema se sappia, anche rivolto a chi gli suggerisce o stila
i suoi proclami, di cosa stia minacciando e soprattutto con
quali conseguenze
potrebbero avviarsi i prodromi di una guerra commerciale che
non si sa contro chi alla fine potrebbe ritorcersi. Anche
quotidiani Usa scrivono che una
guerra sui dazi è una cosa stupida, che la vittoria non potrà
essere di nessuno e che a rimetterci sarà solo il lavoro di
base in
ogni settore produttivo.
Le ultime notizie poi, danno per cancellati i guadagni ottenuti nel post elezioni (bitcoin), per provocate ritorsioni ai dazi del 25% imposti a Messico, Canada e del 20% a Cina, dando un via inflazionistico dagli esiti incerti, proprio negli Usa. La motivazione eufemisticamente “fittizia”, addotta all’imposizione dei dazi, riguarderebbe il flusso di fentanyl che questi Paesi inviano negli Stati Uniti, cui farebbe seguito l’attacco protezionista provocando un’ulteriore ritorsione senza più fine. L’avvio di questa guerra commerciale, per primo solo con l’alleato canadese, ricorda la favola del lupo e dell’agnello di antica saggezza, nel coraggioso belato di Trudeau per non diventare “mai” il 51° Stato americano.
Il crollo delle borse e il prezzo dei bitcoin che avrebbe dovuto creare una “riserva strategica” di criptovalute negli Usa, segnano un primo risvolto alle risoluzioni di Trump, cui si affiancano i guai alla Tesla e a quelli possibili dei robotaxi e robot del futuro non ancora pronti di E. Musk. Se negli ultimi cinque mesi, in Cina – il più grande mercato del mondo – le vendite delle auto con la T sul cofano sono crollate, come pure la quota di mercato di Tesla in Cina al di sotto del 5%, la cinese BYD di Shenzhen vende a più del 161%.
Per quanto poi concerne l’impatto che le tariffe doganali al 25% in più si avrebbero in Italia dopo il 2 aprile, i settori più colpiti potrebbero essere vini, auto di lusso, yacht e moto, farmaci e componenti elettronici con un costo tra 4 e 7 miliardi di euro (calcolo di Prometeia, istituto di previsioni economiche).
Recensione di Giorgio Monestarlo a «La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione europea» (Castelvecchi, 2025)
Il libro di Piero Bevilacqua è
piccolo (per pagine) ma grande per saggezza e radicalità.
Bevilacqua è uno storico di razza, attento conoscitore
dell’agricoltura
e dell’economia italiana, meridionalista e pioniere della
storia ambientale.
Collocandosi in una corrente che critica e demistifica l’interpretazione ufficiale della guerra in Ucraina, Bevilacqua in realtà si muove su un piano che non è tanto quello dell’approfondimento geopolitico del conflitto quanto quello di una serrata rilettura della storia statunitense ed europea dal dopoguerra ai giorni nostri. In altri termini, “la guerra mondiale a pezzi” acquista nelle pagine di Bevilacqua il significato di rilevare, in modo chiaro, la natura di un processo storico pluridecennale che è giunto al suo compimento e che coincide in sostanza con il progetto di predominio statunitense edificato, con successi e fallimenti, all’indomani della vittoria sui nazifascisti e della spaccatura con l’Urss, momento cruciale di quella volontà di dominio unipolare che ha mosso con ferrea continuità la politica di Washington. Di qui la netta contrapposizione di Bevilacqua tra la cultura e il sapere che la storia può offrire per formare una coscienza critica degna di questo nome e invece l’informazione giornalistica che, tranne poche eccezioni, risponde non tanto al bisogno di verità ma piuttosto alla creazione del consenso che questo o quel decisore politico o economico di volta in volta impongono come presunto, e in realtà esattamente opposto, interesse generale.
Anche per questo motivo Bevilacqua rivendica il bisogno di storia che attraversa in lungo e in largo la nostra società: la storia spiega la complessità, la storia è in grado di smascherare l’occultamento della verità su cui si regge il potere, occultamento che è tanto più invadente quanto più il potere traballa.
Ci conducono, come se fossimo agnelli, al macello. I cittadini dell'Europa occidentale sono stati agnelli per molto tempo. Un agnello è mansueto anche quando finge di non esserlo e mostra i suoi denti da erbivoro ai lupi e ad altra fauna: i lupi che sono liberi nel mondo, e le iene che guidano il gregge, lo sanno, ed è per questo che stanno preparando l´olocausto per questo gregge di pecore con i denti scoperti. Ursula e Sanchez sono erbivori guidati da lupi molto feroci nell'ombra.
Sarà l'olocausto degli europei, con la complicità - attiva o passiva - della cosiddetta sinistra.
Uno dei riferimenti teorici della sinistra spagnola, Manolo Monereo, in una recente intervista per la pubblicazione “El Viejo Topo” [numero di marzo 2025, in dialogo con Miguel Riera], ha sostenuto, con una grande dose di realismo, che la vera sinistra non esiste più. Ci può essere la destra e l'ultradestra, o la sinistra neoliberale (woke, progressista, arcobaleno, postmoderna o come la si voglia chiamare). E quest'ultima non è certo la vera sinistra. È semplicemente l'ala “progressista” della destra neoliberista di sempre.
In questa intervista, Monereo propone una traversata del deserto, cioè una lenta e faticosa ricostruzione della sinistra, assumendo - ancora una volta - tutti i suoi valori irrinunciabili (repubblicanesimo, socialismo, uguaglianza tra cittadini e tra territori), ma, dice, senza spendere un solo minuto per criticare la sedicente ma falsa sinistra, oggi e di recente al potere in Spagna e in altri paesi europei.
A proposito di Georgescu, occorre ribadire un pochino l'ABC della politica, cioè come funziona la politica. Io non so fino a che punto queste cose siano chiare, anche a chi si considera "anti-sistema" (anti-Nato, anti-UE, anti-tutto).
Questo breve riepilogo dei "fondamentali", può essere riassunto come segue: ma dove vai, se una pistola non ce l'hai (cosa che non consiglio eh, vostro onore).
Mettiamola giù semplice. Esistono "blocchi" di potere, sistemi di potere consolidato, composti da complessi militari-industriali-finanziari, che ricadono sulle democrazie nazionali moderne come "vincoli esterni", limitazioni di sovranità.
Non vanno immaginati come Moloch occulti perfettamente organizzati e privi di conflitti interni, ma non vanno nemmeno intesi come serpenti senza testa incapaci di dare forma al caos.
Significa che, qualunque sia la direzione politica intrapresa dalle democrazie, sostenute da maggioranze elettorali, esiste un "indirizzo di fondo" che semplicemente non può essere sottoposto al vaglio elettorale.
C'è quindi un insieme di obiettivi politici che può essere conseguito senza disturbare quell'equilibrio di potere; e c'è un insieme di obiettivi politici che NON può essere conseguito senza disturbare quell'equilibrio di potere, quando cioè si contraddice direttamente quell' "indirizzo di fondo".
“Mala Tempora” Antonello Sacchetti intervista Fulvio Grimaldi:
https://www.youtube.com/watch?v=chof0wBiLsw
Il tema è l’informazione nell’inverno del nostro scontento. Un inverno ormai lungo alcuni decenni.che io, dato l’infortunio di un’anagrafe - ἀναγραϕή «registro» (ἀναγράϕω «registrare») – smisurata, ho avuto in sorte di vedere nel suo dispiegarsi fino ai limiti dell’attuale glaciazione.
Il Vietnam, sfuggito al controllo di un complesso politico-militar-mediatico ancora in fase di rodaggio dopo la cementificazione nazifascista, ha suonato il primo campanello d’allarme. Voci dal sen imperialista fuggite ci raccontavano di un feroce imperialismo, bombardamenti stragisti, My Lai, napalm, agente orange e perfino di ragioni ed eroismo dei cattivi.
Tutto questo ha poi risuonato nelle menti, nei cuori e nelle marce di una generazione, facendone prosperare l’intelligenza e la coscienza. E mettendo in crisi un apparato oligarchico e disciplinare che tornava a riprovarci dopo la debacle nazifascista in Europa e diventava cinico, onnipotente e impunito in virtù di quella “vittoria della democrazia”.
Da lì, anni ’80-’90, ricordate, dopo la grande paura, il Sistema che si attrezza affinchè tutto questo non debba mai più ripetersi e, quindi, la ripartenza in contropiede a mandare a ogni possibile nuovo attacco e a prendere alle spalle la nostra difesa.
Della manifestazione del 15 marzo in Piazza del Popolo a Roma molte cose possono essere notate, molti particolari inquietanti, ma uno sguardo complessivo, di cornice ci consegna credo un’immagine chiara del suo significato.
Si tratta di una piazza prevalentemente composta di anziani e qualche persona di mezza età - e questo di per sé non sarebbe niente di male – se l’età avanzata corrispondesse a un avvenuto processo di maturazione. Purtroppo quello che invece colpisce è proprio la totale inconsapevolezza nei partecipanti della propria collocazione storica e del concetto guida che li doveva accomunare in quella piazza: l’Europa.
Da un lato c’erano quelli che proponevano una visione romantica dell’Europa culturale. Certo, si poteva trovare un alfiere meno imbarazzante di Vecchioni, autore di un discorso che al tempo stesso trasudava razzismo culturale e manifestava una raccapricciante superficialità, affastellando nomi celebri come figurine dei Pokemon, senza neppure rendersi conto che praticamente tutti i nomi fatti (Hegel, Marx, Leopardi, Manzoni, ecc.) erano letteralmente agli antipodi di tutto quanto quella piazza esprimeva.
Ma già il fatto di pensare che la tradizione culturale europea e le politiche dell’Unione Europea avessero qualcosa a che spartire è indice di una sprovvedutezza rimarchevole, visto che da trent'anni l’intera spinta dinamica delle “riforme culturali europee” sono state all’insegna di un'americanizzazione spinta dei modelli di formazione.
La “linea rossa” tra la Casa Bianca e il Cremlino raramente è stata così al centro dell’attenzione mondiale. Bisogna risalire alle fasi acute della “Guerra Fredda” per trovare analogie credibili…
Annunciata da Trump e confermata da Peskov, il portavoce di Putin, ci sarà quindi tra poco la telefonata che potrà cominciare a cambiare il corso della guerra in Ucraina.
Cominciare, perché non c’è alcuna possibilità che il “cessate il fuoco” possa essere annunciato già oggi. La chiacchierata sarà comunque decisiva per ristabilire “normali rapporti” tra Stati Uniti e Russia, dopo anni di ostilità totale degenerati appunto nella “guerra per procura” che va avanti dal 24 febbraio 2022.
Per quanto riguarda i temi al centro del confronto appare chiaro che un cessate il fuoco potrà arrivare solo dopo aver fissato una serie di punti preliminari, niente affatto semplici da delineare.
Il problema principale è quello del futuro dei territori attualmente sotto il controllo russo, ossia la Crimea (annessa alla Russia dal 2014, dopo un referendum con maggioranza “bulgara”, peraltro pienamente corrispondente alla composizione etnica della regione) e i quattro oblast del Donbass (Donetsk e Lugansk, “autonomizzatisi” undici anni fa e per questo attaccati militarmente da Kiev, più Kherson e Melitopol, quasi del tutto occupati nel corso della guerra).
Apparentemente viviamo tempi confusi! Sicuramente la pensano così molti imprenditori, altrettanti sedicenti (nonostante la carica formale) responsabili finanziari e, certamente, tutto il pubblico comune, diremmo così: “l’uomo della strada”.
Trump è pazzo! Si sente risuonare nelle conversazioni più o meno amichevoli e spesso “da bar” o, altrettanto spesso, nei consigli d’Amministrazione: tutti sono focalizzati sui dazi, sule barriere al commercio internazionale, linfa vitale di un mondo economico sempre più integrato. Moltissimi non guardano assolutamente, però, al quadro più generale, alla “Big Picture”.
A questo punto per gli osservatori che non si fermano alla prima impressione diventa difficile non ricordare il famoso detto: “guardare il dito che punta alla luna”! Ecco secondo me è una delle frasi più belle e significative mai coniate dal genere umano. Perché? Perché guardare il dito è sempre la cosa più facile, visto che lo sguardo lo incontra per primo, piuttosto che “rilevare con i nostri sensi” un pianeta, una massa enorme ….anzi, quella massa enorme che gli sta dietro: la Luna!
Una piccola digressione: i cinesi dicevano – e forse lo dicono ancora – che il modo migliore per nascondere qualcosa è lasciarlo in vista a tutti per molto tempo ….. alla fine nessuno lo noterà! Ebbene spesso in economia politica succede la stessa cosa: se la Luna è sempre in cielo nel momento in cui la indichi le “anime povere” saranno attratte solamente dal dito! Molti dei mali di questo mondo probabilmente discendono da ciò..…
La riconversione bellica, Smantellamento del welfare a vantaggio del warfare
L’Unione europea,
che ha già subito la rottura dei rapporti con la Russia
imposta dagli USA (si pensi al sabotaggio USA del
North Stream) causa
prima della incipiente recessione economica,
sotto l’ipnosi indotta dalla volontà inglese – che
intervengono per
sabotare ogni trattativa di pace – e del sistema delle lobby
da cui sono governati, piuttosto che riattivare la
diplomazia con la
Russia, negoziando con essa il ripristino
dell’architettura di sicurezza europea, ha varato la
risoluzione
0146/2025 che pretende di portare l’Europa in
guerra con la Federazione Russa schierandosi
incondizionatamente con Kiev, impegnandosi a
fornire più armamenti e a revocare i precedenti
limiti sull’uso delle armi fornite autorizzando a usarle per
colpire in
profondità la Russia, rimuovendo le gravi conseguenze
inscritte nella nuova dottrina nucleare russa.
Il punto 32 della risoluzione invita esplicitamente gli Stati membri a prepararsi per “le evenienze militari più estreme“ e sottolinea la necessità di ridurre gli ostacoli presenti nelle legislazioni nazionali e dell’UE che potrebbero compromettere le esigenze di difesa e sicurezza europee. Come è noto sono già state proposte modifiche alla legge 185/1990 sul commercio di armi in Italia che mirano a ridurre la trasparenza e i controlli sull’export di armamenti [1].
L’art. 11 dalla Costituzione che ripudia la guerra in generale ed in particolare come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, è, per fortuna, intangibile perché parte dei primi dodici articoli che non possono essere né rimossi né riformabili. Questi articoli sono considerati il cuore della Costituzione e non possono essere modificati nemmeno attraverso il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138.
Nel 2025, il debito pubblico italiano in scadenza che dovrà essere rinnovato, ammonta a circa 350 miliardi di euro. Si tratta di titoli di Stato che necessitano di essere rifinanziati per mantenere la stabilità economica del paese.
Premessa
“La guerra è pace la pace è guerra” questo slogan, che Orwell attribuisce all’immaginario regime totalitario che descrive in 1984 non è più un parto della fantasia dello scrittore inglese: la “neolingua”, creata per manipolare le coscienze dei cittadini cambiando il significato di ogni parola nel suo opposto, è ormai la lingua ufficiale dell’Unione Europea lanciata verso la Terza guerra mondiale. Una lingua che non viene più parlata solo dagli oligarchi di Bruxelles, ai quali già dovevamo l’affermazione secondo cui nazismo e comunismo sono un’unica cosa, ma anche dai media, dagli intellettuali e, soprattutto, dai leader politici europei di destra e di “sinistra”, a partire da quei Democratici italiani che, nati dalla conversione del PCI in partito liberale, si sono progressivamente evoluti in ala militante del liberal fascismo europeo, come abbiamo potuto constatare durante la manifestazione dello scorso 15 marzo, dove, fra lo sventolare di bandiere dell’Unione e dell’Ucraina nazista, abbiamo ascoltato inneggiare alla superiorità della civiltà “indoeuropea” (cioè ariana!) del Vecchio Continente, in perfetta sintonia con l'ideologia razzista e suprematista bianca (ribattezzata “democrazia” dalla neolingua).
Grande è la confusione sotto il cielo, ma la situazione, almeno qui da noi, non è, come auspicava Mao a suo tempo, eccellente. Al contrario: è pessima, soprattutto per i gruppuscoli neo, post comunisti e per una sinistra radicale che non riescono a organizzare uno straccio di opposizione popolare alla guerra che infuria dall’Ucraina al medio Oriente e che già richiede, se non – finora - un tributo di sangue, pesanti sacrifici in materia di reddito e diritti sociali e civili anche alle nostre latitudini.
1. Il rapporto tra classe
sociale e organizzazione politica
La storia dell’epoca borghese dimostra che l’analisi teorica e l’organizzazione pratica della lotta di classe tanto più tendono ad avvicinarsi e a fondersi, quanto più diviene stretto il nesso fra spontaneità e coscienza, fra classe sociale e organizzazione politica. Può accadere allora - come accade nella fase attuale - che il rapporto fra classe sociale e organizzazione politica, tanto per la borghesia quanto per il proletariato, anche se in termini radicalmente diversi, essendo per l’una un problema vitale di conservazione del potere e per l’altro un problema vitale di conquista del potere, diventi un nodo storico che deve essere sciolto politicamente nel breve periodo, a partire sia dallo stato presente dei rapporti sociali sia dal grado attuale di sviluppo delle forze soggettive. Nell’epoca dell'imperialismo e delle rivoluzioni proletarie, nel periodo del revisionismo e del crollo dei regimi socialisti da esso diretti, ma anche, per quanto concerne l’Italia, nel momento attuale, in cui si manifestano i tipici connotati di una crisi organica delle classi dominanti, un discorso sul partito capace di coniugare il rigoroso modello leniniano con le soluzioni organizzativi offerte dal presente può incidere con forza sulla coscienza politico-ideologica del proletariato e sulla stessa disarticolazione del potere borghese.
La premessa da cui occorre muovere nell'inverare la prospettiva generale, che emerge dalla crisi mondiale del capitalismo, è la distinzione, stabilita da Lenin, tra la lotta economica (che è la lotta contro i singoli capitalisti o contro i singoli gruppi di capitalisti per migliorare le condizioni di lavoro degli operai) e la lotta politica (che è la lotta contro il governo per affermare ed estendere i diritti delle masse lavoratrici). Tale premessa teorica è stata poi concretizzata, attraverso la prassi marxista-leninista della lotta di classe, in una unità indissolubile tra i due momenti.
Da sempre sostengo la tesi secondo la quale la vera causa scatenante del conflitto in corso in Europa è il rischio bancarotta di alcuni paesi che sotto l'aspetto della posizione finanziaria netta hanno accumulato passivi sostanzialmente impagabili. In particolare a vivere questa situazione sono la Francia e la Gran Bretagna che non a caso sono i Paesi che più spingono per l'invio di truppe in Ucraina sotto la falsa bandiera delle truppe di pace.
L'anno scorso scrissi un articolo che provava a spiegare come Mario Draghi nella sua proposta illustrata all'Ecofin di Gend del 24 Febbraio 2024 (dove era l'ospite d'onore), ritenesse che il modo di coniugare gli interessi della Francia, grande debitrice dell'Unione Europea con quelli della Germania, grande creditrice, era quello di procedere a un grande riarmo europeo che coniugasse l'offerta francese (che è il più grande esportatore di armi della EU) con le enormi risorse finanziarie presenti nei paesi nord europei e in particolare in Germania.
Ipotizzavo anche che la UE avrebbe forse costituito un veicolo privato ad hoc, come il MES, dove avrebbero fatto confluire i finanziamenti a fronte dell'emissione di obbligazioni private; oppure ancora magari la UE avrebbe optato per far confluire le risorse in una sorta di Ente Europeo per il Riarmo direttamente dagli Stati che si sarebbero finanziati con l'emissione di speciali titoli di stato “di scopo”.
Pubblichiamo la registrazione della presentazione del libro di Andrea Guazzarotti che si è svolta ad Urbino il 20 marzo (Aula 1 - Scienze politiche) con gli interventi di Camilla Buzzacchi, Antonio Cantaro, Federico Losurdo, Tonino Pencarelli e Alessandro Volpi
Assolverò il mio compito di introduttore di questo seminario di presentazione del libro di Andrea Guazzarotti in meno di dieci minuti (link per la registrazione). Un libro con un titolo assai impegnativo Debito e democrazia. E un sottotitolo, Per una critica del vincolo esterno, “militante”, come si addice al nostro pubblico, fatto in prevalenza di studenti di un corso di laurea in Scienze Politiche.
I primi due minuti della mia introduzione sono occupati da tre domande che rivolgo ai nostri tre ospiti che presenteranno e discuteranno Debito e democrazia.
a) Prima domanda. Il debito pubblico fa male o fa bene alla società e all’economia?
b) Presumo che i nostri ospiti risponderanno che la mia prima domanda è mal posta e molto probabilmente diranno: dipende. E qui viene la mia seconda domanda: esiste un debito pubblico buono e un debito pubblico cattivo, come anche recentemente ha sostenuto Mario Draghi?
Per capire ciò che succede nel mondo occorre guardare le crisi che attraversano il suo centro: gli USA. Ciò vale a maggior ragione per noi, colonie europee dell’impero. Occorre quindi staccare lo sguardo dal chiacchiericcio giornalistico e propagandistico, che è colpevolmente concentrato su fatti inessenziali quali la retorica dei valori e delle libertà occidentali minacciate dall’asse autoritario immaginario Trump-Putin, per smascherarne la portata ideologica. Ideologia va intesa in senso marxiano come falsa coscienza, per la quale si indicano problemi ideali mancando clamorosamente il bersaglio, cioè i veri interessi che si muovono sotto la coltre offuscante della propaganda.
Si tratta nello specifico di illuminare la guerra intestina tra le oligarchie finanziarie statunitensi per comprendere la vera posta in gioco e non farsi abbagliare dai clamori delle opposizioni democrazie contro autocrazie, valori popolari e tradizionali contro dittatura dell’ideologia woke e altre amenità. L’elezione di Trump è stata un terremoto, questo è chiaro a chiunque, ma non appena si chiede perché, ecco che le idee non sono più così chiare. Trump preoccupa e scuote non perché da adesso gli USA diventano un’oligarchia dato che i più ricchi del mondo prendono direttamente il governo, non perché la bontà umanistica e altruista degli USA viene meno (si veda la chiusura dell’USAid). È da almeno cinquant’anni che gli USA sono un sistema oligarchico, non è certo questa la novità, il punto dirimente sta piuttosto nel vedere quale fazione dell’oligarchia statunitense ha preso il potere.
Il delirio “europeista” si vede nettamente sulla cartina che il Corriere della Sera – ex quotidiano del “salotto buono” della borghesia italiana, ora riconvertito al “patriottismo di Bruxelles” – pubblica ieri mattina per illustrare le intenzioni del premier britannico Starmer, che appare il più determinato ad andare avanti con la guerra in Ucraina “fino alla vittoria”.
In questi giorni appare inchiodato alla sua scrivania, con davanti uno scenografico computer all-in, in videoconferenza perenne. Interlocutori privilegiati, non si sa quanto entusiasti, diversi leader europei, il nuovo premier canadese, altri ancora da trovare, per metter su una “coalizione dei volenterosi” che metta soldati e armi per una spedizione in Ucraina.
Una definizione sfortunata, oltre che poco fantasiosa, perché richiama direttamente quella convocata da “Dabliu” Bush nel 2003 per attaccare l’Iraq di Saddam Hussein, accusato (falsamente, fu ammesso poi) di possedere “armi di distruzione di massa”. Una coalizione che si forma su una menzogna spudorata, insomma, non appare il massimo della serietà.
L’analogia non sembra turbare Starmer, sedicente “laburista” alla canna del gas in Gran Bretagna, dove sta smantellando il poco welfare rimasto dopo esser stato costruito un tempo proprio dai laburisti e ampiamente demolito dalla Thatcher, prima, e poi da quell’altro criminale di guerra di Tony Blair. E si conferma lancia in resta contro la Russia ogni volta che apre bocca.
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Lo scontro fra Trump e
Zelensky, e per interposta persona con l’Unione Europea, ha
assunto forme inaspettatamente virulente per tutti ed ha fatto
emergere la vera
questione che nel tempo è stata rimossa nella discussione a
sinistra. Ma alla fine ha anche mostrato la natura profonda
della contraddizione:
quella tra interessi imperialistici divaricanti in Occidente.
Dunque grande è la confusione sotto il cielo e la situazione è eccellente! Ma come interpretare questa improvvisa precipitazione nelle relazioni transatlantiche? Come collocare questa netta discontinuità dentro l’apparente egemonia e dominio mondiale euroatlantico a trazione statunitense, apparentemente irreversibile fino al Novembre scorso?
Le interpretazioni che stanno fiorendo sono molteplici: dalla follia mercantilista di Trump alla influenza della “tech oligarchy” composta dagli uomini più ricchi della terra, dalla subordinazione dei gruppi dominanti dell’UE agli USA al “riscatto militare” che deve sancire l’emancipazione europea da uno Stato non più amico, ma divenuto repentinamente antidemocratico nell’arco di una campagna elettorale.
Insomma la “Fine della Storia” sta ottenebrando le migliori menti occidentali, le quali non riescono e non vogliono risalire alle cause strutturali di questa contraddizione, pure manifestatasi già da molto tempo. Anzi rifiutano proprio di affrontarle, limitandosi a “sezionare” in infiniti e noiosissimi dibattiti televisivi o interviste giornalistiche gli aspetti formali, reversibili spesso nell’arco di 24 ore, di carattere politico-etico, di minaccia da parte delle “pericolosissime autocrazie”, oppure di carattere economico contingente.
Anche “a sinistra” non emergono analisi particolarmente brillanti, ondeggiando tra un pacifismo militarista-europeista, alla PD, ed un pacifismo ipocrita come quello dei 5Stelle che al governo avevano votato il finanziamento per le armi all’Ucraina e l’acquisto degli F35, e oggi lucrano elettoralmente sulle contraddizioni del campo largo. Come diceva Totò, adesso si “buttano a sinistra”.
Pubblichiamo il testo integrale della relazione del Prof. Antonio Martone, redattore de L’Interferenza, al convegno dal titolo “Una lettura alternativa della questione di genere. Per una critica di classe del femminismo” promosso da L’Interferenza e dall’Associazione “Uomini e Donne in Movimento” e svoltosi a Roma sabato 15 marzo
Il femminismo
di Marcuse
Nel 1974, Herbert Marcuse formulava una riflessione ambiziosa quanto al legame tra femminismo e trasformazione sociale:
“Io credo che dobbiamo pagare per i peccati di una civiltà patriarcale e del suo potere tirannico: la donna deve diventare libera di determinare la propria vita, non come moglie, né come madre, né come amante o compagna di qualcuno, ma come un essere umano individuale. Sarà una lotta fatta di scontri aspri, di tormento e di sofferenza (psichica e fisica)”[1].
Perché Marcuse aveva scritto parole tanto forti contro il patriarcato? Presto detto, per il filosofo tedesco il femminismo non rappresentava soltanto un particolare movimento ma costituiva una forza più generale, potenzialmente rivoluzionaria nella sua capacità di contribuire alla liberazione dell’essere umano nella sua totalità. Nel fermento politico degli anni Settanta, egli vedeva dunque nella lotta per l’emancipazione femminile un elemento inscindibile da un più ampio processo di trasformazione sociale.
Per rinforzare la sua tesi, egli infatti aggiungeva:
“Le potenzialità, gli obiettivi del movimento di liberazione delle donne si spingono però molto al di là di esso, in regioni impossibili da raggiungere nel quadro del capitalismo, e di una società di classe. La loro realizzazione richiederebbe un secondo livello, nel quale il movimento trascenderebbe il quadro nel quale si trova ora ad operare. In questo stadio, ‘al di là dell’uguaglianza’, la liberazione implica la costruzione di una società governata da un differente principio di realtà, una società nella quale la dicotomia costituita tra il maschile e il femminile è superata nei rapporti sociali e individuali tra esseri umani”[2].
Secondo questa prospettiva, pertanto, per la sua stessa dinamica, il femminismo non si esauriva nelle lotte per l’uguaglianza formale, ma doveva mirare a una ridefinizione radicale della società. Al di là del rapporto fra generi, vi era l’essere umano nella sua essenza, ed era questa la vera posta in gioco della rivoluzione femminista.
Il Manifesto di Ventotene è
senza dubbio un testo tra i più citati nel discorso pubblico,
ma anche tra i meno letti da coloro i quali amano richiamarlo.
Questo restituisce
la recente lite scomposta tra i dirigenti del Piddì e la
Presidente del consiglio: i primi impegnati ad accreditarlo
come una celebrazione
dell’Europa sociale e democratica, la seconda a stigmatizzarlo
come socialista e dunque antidemocratico.
Entrambi sbagliano: il Manifesto di Ventotene è un inno all’Europa neoliberale e il suo estensore più famoso, Altiero Spinelli, un pensatore confuso e opportunista. Tanto che molto probabilmente ci saremmo dimenticati di entrambi, se solo la sinistra storica in crisi di identità dopo l’implosione del blocco socialista non ne avesse abusato per rimpiazzare i punti di riferimenti ideali caduti in disgrazia. È del resto il testo scritto da antifascisti al confino, che qua e là parla di Europa sociale. Non importa dunque se lo fa a sproposito e soprattutto in assenza di riscontri con il complessivo impianto del Manifesto, così come con il percorso politico di Spinelli. È comunque buono a riorganizzare il fondamento ideale della sinistra orfana del socialismo attorno a retoriche vuote e buone per tutte le stagioni, come sono quelle che evocano un non meglio definito europeismo. E buono soprattutto a far dimenticare che esso fa rima con neoliberalismo[1].
Federalismo neoliberale
Il primo riscontro della vicinanza tra il Manifesto di Ventotene e il neoliberalismo lo ricaviamo dalle letture che più hanno ispirato i suoi autori: gli interventi di Luigi Einaudi ospitati sul Corriere della sera tra il 1917 e il 1919 con lo pseudonimo di Junius e gli scritti dei federalisti anglosassoni. Spicca tra questi ultimi Lionel Robbins: un autore di formazione liberale, esponente della Scuola austriaca, i cui testi giungono agli autori del Manifesto proprio da Einaudi.
In coda alla piazzata guerrafondaia del 15 marzo, forse dovevamo ancora sentire il discorso peggiore di tutti, perché il più mellifluo, il più sinuoso.
Ieri sera ho ascoltato il monologo di Benigni su Raiuno fin dove sono riuscito. Per quanto stomachevole mi sono fatto forza e sono arrivato abbastanza avanti, perché penso che l’organicità di Benigni al potere e alle sue gerarchie di riferimento lo renda sempre rappresentativo. Infatti ho trovato nel suo monologo un vero prontuario del nuovo nazionalismo paneuropeo.
Nessuna sorpresa, Benigni è organico al cento-sinistra imperialista da sempre, ma in questo momento è utile capire come si sta compattando il nuovo nazionalismo paneuropeo dissimulandosi proprio nella narrazione dell’Europa come spazio di democrazia, pace e libertà culminato, niente di meno che, nell’UE, a sentire il soldatino comico di Ursula von der Leyen. Il quale, senza ritegno, e senza quasi prendere fiato, continua a propinare a una platea di benpensanti fuori dalla Storia, assuefatti alle forme dell’indottrinamento salottiero, la musichetta degli Stati Uniti d’Europa, di Altiero Spinelli, del manifesto di Ventotene.
“Non è un gioco” ha balbettato Zelensky nel pieno del furore trumpiano mentre lo stava asfaltando con il suo “non hai le carte buone”, “non sei nelle condizioni di dettare alcunché” e “hai parlato fin troppo”.
Cercava di dire che la guerra è una cosa seria, come se il “gioco” della guerra non lo fosse. La guerra è un gioco in tutti i sensi meno in quello che Zelensky credeva: che sia una stupidaggine per divertire i bambini. Trump glielo ha spiegato meglio con il suo “stai giocando d’azzardo (gambling) con la Terza guerra mondiale”. Il gioco non è la metafora o l’allegoria della guerra, è la sua struttura fondante. La differenza fra i trastulli, i passatempi, i solitari e il gioco sta nei giocatori, negli strumenti e nella posta. Nel gioco della guerra gli attori sono gli Stati, gli strumenti sono le risorse (umane e materiali) la posta è la vita o la morte dello Stato e delle popolazioni. Se Zelensky dimostra di non sapere a che gioco sta giocando, chi siano i giocatori e che cosa comporti la vittoria o la sconfitta non può lagnarsi del fatto che Trump glielo spieghi. Ogni gioco ha le sue regole e la stessa teoria scientifica “dei giochi” è valida solo a certe condizioni. La prima e più importante è quella della Razionalità dei contendenti. Poi i giochi possono essere a somma zero oppure diversa da zero, e i giocatori più o meno cooperativi, ma il criterio della razionalità è fondamentale.
1.
Al posto di una
premessa
Robert Musil si è posto questo problema: perché il moderno scienziato, poniamo il fisico relativista oppure il quantistico, non vive all’altezza delle sue teorie? Perché invece di sperimentare la vita come sperimenta le teorie, conduce perlopiù la più sciatta delle esistenze terrene? Per Musil si tratta di una questione etica: nella scienza moderna manca il riflesso etico. Va però osservato che appoggiarsi a una “concezione”, una qualsiasi, e tanto più una concezione etica, è un rimedio peggiore del male. «Avere una concezione, avverte Kierkegaard, […] presuppone una sicurezza e un benessere nell’esistenza pari all’avere su questa terra moglie e figli […]»1.
Di che colore è la vita quotidiana mentre penso alla fissione dell’atomo? Che cosa cambia, nelle mie bige giornate, se mi persuado della efficacia del paradosso di Schrödinger? Beh, credo che dovrebbero cambiare parecchie cose. Del resto, una teoria che non investe la vita e la lascia da parte, la chiude tra parentesi, che specie di teoria è? Ecco un problema che Musil, scienziato e matematico, si pone da filosofo. È la ragione (sia detto di passata) per cui scrive l’Uomo senza qualità.
Ma la questione si pone a maggior ragione con il tema in parola: Marx e la rivoluzione. Se da marxista ritengo che tutta la teoria di Marx ruota attorno all’asse della rivoluzione, perché allora mi limito a discuterne nelle riviste e nei convegni anziché scivolare, certo molto problematicamente, anzi disperatamente, verso la soglia della lotta armata? Questo aut-aut, di primo tratto assai rozzo, riguarda più o meno tutte le teorie, ma in modo particolare quelle filosofiche. Althusser lo ha precisato bene: la filosofia è l’aspetto politico di una teoria2. Musil direbbe che la filosofia, e più ancora la narrativa filosofica, è l’aspetto etico di una teoria. In quel che segue non tratterò del conflitto tra etica e politica, tanto meno del madornale equivoco di una politica sottoposta al controllo dell’etica. Etica e politica sono realtà incomponibili. Ma il senso di questa opposizione fondamentale è immanente alla serie delle polarità messe qui in discussione.
Elles ont pâli, merveglieuses,
Au grand soleil
d’amour
chargé,
Sur le bronze
des mitrailleuses
Ā travers Paris insurgé!
Sono
impallidite,
meravigliose,
nel gran sole
carico d’amore,
sul bronzo delle mitragliatrici
attraverso
Parigi insorta!
Arthur Rimbaud, Le mani di Jeanne Marie
Nel XIX secolo, le città occidentali divengono lo spazio di amplificazione e di espressione della grande industria capitalistica, il contesto sociale in cui essa raduna e distribuisce i proletari e in cui forgia, attraverso le merci e il consumo, un mondo sociale per i diversi strati della borghesia, modellandone costumi, gusti e ambizioni, e spartendo le tipologie di questi, nonché i mezzi di accesso alle loro condizioni, secondo le gerarchie, più o meno fluide, delle ricchezze e del prestigio. La cosiddetta agglomerazione fece grandi balzi, accrescendo una migrazione rurale che già nel secolo precedente aveva mutato l’aspetto delle città attraverso l’ingrossamento dei sobborghi. Nel XIX secolo la fabbrica segnò il cupo avvenire delle città che, per concomitanti circostanze ambientali e legislative, erano precocemente divenute centri industriali, ma l’irruzione delle fabbriche nelle aree urbane non si limitò ai luoghi che avevano già subito le sconvolgenti alterazioni della contiguità tra miniera e opificio, passato dall’energia idrica al carbone. Tutto il secolo è risucchiato da questa tendenza, e la moltiplicazione degli slums ne è una manifestazione ricorrente e massiccia. Infatti, la fabbrica riduce l’ambiente urbano a un materiale da produzione, facendo ruotare uomini e cose intorno ai suoi scambi con la società che la circonda e che, nei giochi prospettici del panoptismo, si fonde con essa. Fabbriche, ferrovie e slums si avvolgono, allora, in un’unica trama.
Nel suo libro Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso
un nuovo paradigma di accumulazione Andrea Fumagalli
caratterizza l’economia capitalista come un sistema monetario
di produzione e non come di semplice scambio. Questo approccio
sottolinea la
preminenza della produzione e dell’accumulazione rispetto allo
scambio e alla realizzazione del valore. Il motore della
produzione è
l’investimento che rappresenta l’accumulazione privata di
capitale e dipende dalle decisioni imprenditoriali capaci di
influenzare
dinamicamente il progresso tecnologico e l’uso dei fattori
produttivi determinando il successo del processo di
accumulazione e la distribuzione
della ricchezza, sia in termini quantitativi che qualitativi.
L’investimento per Fumagalli non si limita a determinare il
livello di consumo e
risparmio. Esso assume la forma di un biopotere che condiziona
il lavoro e, di conseguenza, il controllo sui corpi e sulle
menti degli individui. Non
si tratta però di un potere assoluto per via del vincolo
prodotto da fattori come le modalità di finanziamento e le
aspettative sulla
domanda finale dei beni. Mentre il finanziamento è un fattore
noto a priori, le aspettative sono formulate in condizioni di
incertezza e non
sono completamente quantificabili, nonostante i tentativi di
teorizzarle matematicamente. Queste aspettative, influenzate
da variabili psicologiche,
sono cruciali per le decisioni imprenditoriali. L’obiettivo
dell’accumulazione capitalistica è la generazione di
plusvalore
monetario, ciò rende l’economia capitalista intrinsecamente
monetaria. La moneta, in particolare come moneta-credito,
svolge un ruolo
centrale in questo processo. Lo studio del capitalismo,
quindi, deve considerare i meccanismi di finanziamento, i modi
di produzione e la fase di
realizzazione, riflettendo il ciclo del capitale monetario
descritto da Marx e ripreso da interpretazioni eterodosse
keynesiane.
Nel 1975 gli Stati Uniti avviarono un processo di liberalizzazione delle commissioni finanziarie con l’obiettivo di potenziare il finanziamento dell’economia attraverso i mercati azionari.
Frustrazione e debolezza, essenzialmente c’è questo dietro la ripresa della guerra in Medio Oriente. L’attacco statunitense contro lo Yemen, totalmente a freddo (anche se era stato preannunciato il blocco delle navi collegate a Israele, non c’era stato ancora nulla di fatto), è chiaramente un messaggio diretto all’Iran, che nella sua logica semplicistica Trump considera il mandante di Ansarullah.
Tutto nasce da un doppio errore di valutazione da parte statunitense. Quello di poter imporre a Teheran un accordo non solo sul nucleare ma anche sugli armamenti strategici (missili ipersonici), e quello di poter ottenere questo risultato attraverso una diplomazia discreta e una serie di minacce nerborute. A tal fine, Washington ha chiesto a Mosca di fare da mediatrice con la Repubblica Islamica, ed ha inviato una lettera attraverso canali diplomatici terzi. Ma ha anche accompagnato questi passi con la solita minaccia (pubblica) di inasprimento delle sanzioni e quant’altro. Il risultato è stato che l’Iran non solo ha respinto la lettera al mittente, ma lo ha fatto con un aperto tono di sfida, sostanzialmente dichiarandosi pronto ad affrontare le minacciate conseguenze, quali che fossero, e a rispondere adeguatamente.
Ovviamente questo è suonato come uno schiaffo, agli occhi di Trump, che insiste nel portare avanti la sua politica internazionale facendo continuamente ricorso alle minacce, cosa che può andar bene forse con Panama, ma di certo non con una media potenza regionale, che tiene testa da 40 anni agli Stati Uniti.
La crisi del capitalismo viene affrontata con la guerra. L’Unione europea se ne fa strumento ai danni degli interessi dei propri popoli. Di fronte agli evidenti nessi fra la guerra e l’attacco senza precedenti alle condizioni dei lavoratori occorre lavorare per una loro presa di coscienza e promuovere lotte con parole d’ordine adeguate alla fase.
La crisi del capitalismo
Da molti decenni il capitalismo sta attraversando una profonda crisi da cui non riesce a venirne fuori.
La risposta pare essere quella del riarmo e della guerra.
I capitalisti hanno sempre preferito che si spenda per il riarmo piuttosto che con il Welfare per diversi motivi: a) Le commesse pubbliche sono rivolte direttamente alle imprese e non al settore pubblico; b) il Welfare assicura alcune certezze ai lavoratori e con ciò rende meno pressante il ricatto occupazionale, inoltre il clima di guerra favorisce il disciplinamento sociale e le politiche repressive; c) infine gli armamenti sono funzionali a supportare politiche imperialiste.
Dalle promesse
elettorali alle ingiunzioni televisive in mondovisione, Trump
ritira provvisoriamente – sembra – i dazi a Messico e Canada.
Si pone il
problema se sappia, anche rivolto a chi gli suggerisce o stila
i suoi proclami, di cosa stia minacciando e soprattutto con
quali conseguenze
potrebbero avviarsi i prodromi di una guerra commerciale che
non si sa contro chi alla fine potrebbe ritorcersi. Anche
quotidiani Usa scrivono che una
guerra sui dazi è una cosa stupida, che la vittoria non potrà
essere di nessuno e che a rimetterci sarà solo il lavoro di
base in
ogni settore produttivo.
Le ultime notizie poi, danno per cancellati i guadagni ottenuti nel post elezioni (bitcoin), per provocate ritorsioni ai dazi del 25% imposti a Messico, Canada e del 20% a Cina, dando un via inflazionistico dagli esiti incerti, proprio negli Usa. La motivazione eufemisticamente “fittizia”, addotta all’imposizione dei dazi, riguarderebbe il flusso di fentanyl che questi Paesi inviano negli Stati Uniti, cui farebbe seguito l’attacco protezionista provocando un’ulteriore ritorsione senza più fine. L’avvio di questa guerra commerciale, per primo solo con l’alleato canadese, ricorda la favola del lupo e dell’agnello di antica saggezza, nel coraggioso belato di Trudeau per non diventare “mai” il 51° Stato americano.
Il crollo delle borse e il prezzo dei bitcoin che avrebbe dovuto creare una “riserva strategica” di criptovalute negli Usa, segnano un primo risvolto alle risoluzioni di Trump, cui si affiancano i guai alla Tesla e a quelli possibili dei robotaxi e robot del futuro non ancora pronti di E. Musk. Se negli ultimi cinque mesi, in Cina – il più grande mercato del mondo – le vendite delle auto con la T sul cofano sono crollate, come pure la quota di mercato di Tesla in Cina al di sotto del 5%, la cinese BYD di Shenzhen vende a più del 161%.
Per quanto poi concerne l’impatto che le tariffe doganali al 25% in più si avrebbero in Italia dopo il 2 aprile, i settori più colpiti potrebbero essere vini, auto di lusso, yacht e moto, farmaci e componenti elettronici con un costo tra 4 e 7 miliardi di euro (calcolo di Prometeia, istituto di previsioni economiche).
Recensione di Giorgio Monestarlo a «La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione europea» (Castelvecchi, 2025)
Il libro di Piero Bevilacqua è
piccolo (per pagine) ma grande per saggezza e radicalità.
Bevilacqua è uno storico di razza, attento conoscitore
dell’agricoltura
e dell’economia italiana, meridionalista e pioniere della
storia ambientale.
Collocandosi in una corrente che critica e demistifica l’interpretazione ufficiale della guerra in Ucraina, Bevilacqua in realtà si muove su un piano che non è tanto quello dell’approfondimento geopolitico del conflitto quanto quello di una serrata rilettura della storia statunitense ed europea dal dopoguerra ai giorni nostri. In altri termini, “la guerra mondiale a pezzi” acquista nelle pagine di Bevilacqua il significato di rilevare, in modo chiaro, la natura di un processo storico pluridecennale che è giunto al suo compimento e che coincide in sostanza con il progetto di predominio statunitense edificato, con successi e fallimenti, all’indomani della vittoria sui nazifascisti e della spaccatura con l’Urss, momento cruciale di quella volontà di dominio unipolare che ha mosso con ferrea continuità la politica di Washington. Di qui la netta contrapposizione di Bevilacqua tra la cultura e il sapere che la storia può offrire per formare una coscienza critica degna di questo nome e invece l’informazione giornalistica che, tranne poche eccezioni, risponde non tanto al bisogno di verità ma piuttosto alla creazione del consenso che questo o quel decisore politico o economico di volta in volta impongono come presunto, e in realtà esattamente opposto, interesse generale.
Anche per questo motivo Bevilacqua rivendica il bisogno di storia che attraversa in lungo e in largo la nostra società: la storia spiega la complessità, la storia è in grado di smascherare l’occultamento della verità su cui si regge il potere, occultamento che è tanto più invadente quanto più il potere traballa.
Della manifestazione del 15 marzo in Piazza del Popolo a Roma molte cose possono essere notate, molti particolari inquietanti, ma uno sguardo complessivo, di cornice ci consegna credo un’immagine chiara del suo significato.
Si tratta di una piazza prevalentemente composta di anziani e qualche persona di mezza età - e questo di per sé non sarebbe niente di male – se l’età avanzata corrispondesse a un avvenuto processo di maturazione. Purtroppo quello che invece colpisce è proprio la totale inconsapevolezza nei partecipanti della propria collocazione storica e del concetto guida che li doveva accomunare in quella piazza: l’Europa.
Da un lato c’erano quelli che proponevano una visione romantica dell’Europa culturale. Certo, si poteva trovare un alfiere meno imbarazzante di Vecchioni, autore di un discorso che al tempo stesso trasudava razzismo culturale e manifestava una raccapricciante superficialità, affastellando nomi celebri come figurine dei Pokemon, senza neppure rendersi conto che praticamente tutti i nomi fatti (Hegel, Marx, Leopardi, Manzoni, ecc.) erano letteralmente agli antipodi di tutto quanto quella piazza esprimeva.
Ma già il fatto di pensare che la tradizione culturale europea e le politiche dell’Unione Europea avessero qualcosa a che spartire è indice di una sprovvedutezza rimarchevole, visto che da trent'anni l’intera spinta dinamica delle “riforme culturali europee” sono state all’insegna di un'americanizzazione spinta dei modelli di formazione.
Per capire ciò che succede nel mondo occorre guardare le crisi che attraversano il suo centro: gli USA. Ciò vale a maggior ragione per noi, colonie europee dell’impero. Occorre quindi staccare lo sguardo dal chiacchiericcio giornalistico e propagandistico, che è colpevolmente concentrato su fatti inessenziali quali la retorica dei valori e delle libertà occidentali minacciate dall’asse autoritario immaginario Trump-Putin, per smascherarne la portata ideologica. Ideologia va intesa in senso marxiano come falsa coscienza, per la quale si indicano problemi ideali mancando clamorosamente il bersaglio, cioè i veri interessi che si muovono sotto la coltre offuscante della propaganda.
Si tratta nello specifico di illuminare la guerra intestina tra le oligarchie finanziarie statunitensi per comprendere la vera posta in gioco e non farsi abbagliare dai clamori delle opposizioni democrazie contro autocrazie, valori popolari e tradizionali contro dittatura dell’ideologia woke e altre amenità. L’elezione di Trump è stata un terremoto, questo è chiaro a chiunque, ma non appena si chiede perché, ecco che le idee non sono più così chiare. Trump preoccupa e scuote non perché da adesso gli USA diventano un’oligarchia dato che i più ricchi del mondo prendono direttamente il governo, non perché la bontà umanistica e altruista degli USA viene meno (si veda la chiusura dell’USAid). È da almeno cinquant’anni che gli USA sono un sistema oligarchico, non è certo questa la novità, il punto dirimente sta piuttosto nel vedere quale fazione dell’oligarchia statunitense ha preso il potere.
Socrate, Spinoza, Cartesio e, ancora, Hegel;
addirittura Marx: voi, miseri beduini, che vi lamentate
tanto perché 16 mila anni
fa vi si tagliava la testa nelle miniere del Congo Belga e
si infilava su un palo per spaventare le cornacchie, ce li
avete avuti? Su, citami lo
Shakespeare della Guinea Bissau, il Pirandello
dell’Indocina, il Leopardi della Ande: sapete una sega voi,
popo’ di lanciatori di
banane!
Fino a poco tempo fa, se una qualsiasi persona sprovvista di certificazione dell’ASL si fosse pronunciata in questo modo, sarebbe stata sommersa di insulti ed esposta alla gogna mediatica; sabato scorso, invece, è stata osannata da una moltitudine di ultra settantacinquenni prelevati dalle RSA dalla Coop in cambio di un maxi sconto sul prossimo acquisto di pannoloni monouso. Il palco della manifestazione dei Repubblichini è stata una vera e propria apoteosi di suprematismo eurocentrico, manco fossimo a metà dell’800, una sfilata di vecchi maschi bianchi appartenenti alle finte élite finto-democratiche e finto-progressiste che facevano esattamente quello che i vecchi rincoglioniti hanno sempre fatto: inventarsi un passato idilliaco messo a repentaglio da immaginarie invasioni barbariche. Non poteva che finire così; lo diciamo da anni: l’uomo bianco ha dominato il pianeta per 5 secoli, si è macchiato di ogni forma di crimine e, attraverso il crimine e la violenza, ha rapinato tutti gli altri. E, grazie a questa rapina sistematica, ha nutrito dinastie di Vecchioni, di Serra, di Augias e di Scurati, ai quali veniva concesso il lusso di non lavorare nemmeno mezza giornata in tutta la loro vita in cambio di un po’ di propaganda sulla superiorità del giardino ordinato; e ora che i barbari alla favoletta del giardino ordinato hanno deciso di non prestare più nessuna attenzione, con la complicità di mix di farmaci non sempre dosati alla perfezione (perché non ci sono più le badanti di una volta) non possono che sbroccare male e sparare minchiate orientaliste a casaccio.
Fino al ritorno di
Trump andavano per la maggiore varie teorie sul
Superimperialismo transazionale, ora il castello di carte è
miseramente crollato, le
contraddizioni interimperialistiche, che si ritenevano
superate tornano prepotentemente al centro della scena.
Da un po’ di tempo in qua, da più parti, si cercava di celebrare il funerale di Lenin, non quello fisico, avvenuto un secolo fa, ma quello politico.
C’era chi sosteneva che il pensiero di Lenin non fosse più attuale, “salvando” solo l’elaborazione sulla Nep, facendo un parallelo tra quella esperienza e il modello attuale del socialismo cinese, senza capire, tra l’altro, che la situazione politica, sociale, internazionale, ecc. dell’Unione Sovietica degli anni ‘20 e quella cinese degli anni ‘80 sono incomparabili.
Senza entrare eccessivamente nel merito, la scelta cinese del socialismo di mercato è nata da un bilancio dell’esperienza cinese nei primi 30 anni di esistenza della Rpc, dalla crisi dell’Unione Sovietica che fu attentamente studiata dal gruppo dirigente cinese, come fu studiata anche l’esperienza della Nep, ma anche quella dell’autogestione Jugoslava, ecc.
Chiudendo questa breve parentesi, che andrebbe sviluppata in uno specifico articolo, torno al tema che intendevo affrontare.
L’ultima versione del “Superimperialismo” fa riferimento alla teoria del 1%, secondo questa teoria meno del 1% della popolazione dei paesi a capitalismo sviluppato, composta da miliardari, principalmente legati al capitalismo finanziario, formerebbe una specie di superclasse transnazionale, ma a predominanza anglo-americana, che determinerebbe le politiche degli Stati nazionali.
“Speranza forza sociale” è un testo che già nel
titolo è trasgressivo rispetto all’ordine
costituito. Nella gabbia d’acciaio del nostro tempo la
“speranza” non è accolta e non è pensata; è stata
sostituita con le “merci” che assediano i consumatori. In una
realtà pianificata a immagine e somiglianza del consumo
illimitato
per l’accumulo di risorse finanziarie, anche gli stessi
cittadini non sono più tali ma “clienti” sempre più simili a
merci prodotte in serie. Nella gabbia d’acciaio l’immensa rete
informatica agisce su ogni punto dello spazio (comunità
territoriali) e del tempo (coscienze) per fagocitarci e nulla
sembra esistere al di fuori della rete. La grammatica del
nostro tempo è la
disperazione, poiché l’esistenza si sciupa e si dilapida nella
violenza e nell’insensato. Eppure l’assoluto (il capitalismo)
che incombe ha i suoi punti ottici di resistenza e di azione
che dimostrano che la coscienza umana è condizionabile, ma non
è
determinabile, malgrado le tempeste della storia è “libera”.
La libertà è manifesta nel cupo dolore di molti. La
resistenza consapevole, anche di un numero esiguo di
oppositori all’ordine costituito, dimostra che nella “gabbia
d’acciaio”
la speranza c’è e le sbarre che appaiono invalicabili sono in
realtà miseramente umane e non sono l’assoluto dinanzi al
quale bisogna chinare il capo e abdicare a ogni progettualità
politica. Nella gabbia d’acciaio non vi è solo la passione
triste
della resilienza, ma abita anche colui che ancora sa guardare
e scorgerà la presenza reale della speranza nel presente. Vi è
un
contropotere che silenziosamente e lentamente sta avanzando,
malgrado i trombettieri abbiano proclamato “la fine della
storia”.
Il testo composto da una serie di saggi è dedicato a Gustavo Esteva1 scomparso nel 2022. L’impegno di Gustavo Esteva per la speranza è durato quanto la sua esistenza e l’ha testimoniata con le sue opere e con le sue parole. Gustavo Esteva fu “intellettuale deprofessionalizzato”, ovvero egli da uomo che viveva la speranza, sapeva bene che la speranza non è nell’intellettuale chiuso nel suo ruolo ieratico che indica l’orizzonte verso cui marciare, è pane condiviso, è parola che diviene prassi, solo la coralità del dolore e la progetttualità discussa dal basso può far emergere la dimensione della speranza nella distopia della gabbia d’acciaio.
Una delle più grandi sòle gonfiate, cucinate e rifilate da quella pseudo-Europa che è l’Ue di Bruxelles è lo scritto “Per un’Europa libera e unita”, alias il Manifesto di Ventotene. Praticamente ignorato fino agli anni ’80, quando coincidenza volle che l’egemonia neo-liberale ne facilitasse il recupero in funzione legittimante a favore dell’unione monetaria e finanziaria, il testo che Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni redassero nel 1941, al confino sull’isola del Tirreno, rappresenta un esempio da manuale di mito di copertura. Proprio così: un paravento a scopo ideologico, che serve ad attribuire una veste nobile alla realtà, molto meno nobile, del disegno “europeista”, di matrice ordoliberista tedesca, con il decisivo avallo dell’atlantismo americano. Per forza è stato innalzato a riferimento fondativo e citato a ogni piè sospinto, e oggi viene rilanciato in gran pompa distribuendolo come dépliant con il giornale Repubblica nell’adunata di Michele Serra: perché è il prodotto intellettuale più adatto per alzare la cortina fumogena che dura da più di quarant’anni.
Prima di tutto, si presta a essere avvolto in un’aura mitizzante. Spinelli, Rossi e Colorni erano segregati dal regime di Mussolini in quanto antifascisti, e l’antifascismo torna sempre buono in quanto parola magica, abbracadabra che disattiva i cervelli per far palpitare il cuore della Resistenza. Che poi l’antifascismo retorico occulti alla vista l’impianto di fondo, solidamente centrato sugli interessi dei Paesi più forti (Germania mercantilista in testa) e orientato dogmaticamente a demolire i diritti sociali, beh, questo, prima che un’abile strumentalizzazione degli stregoni Ue è un problema, anzitutto mentale, degli antifascisti da maniera.
È dal 2022 che non si vedeva uno schieramento così compatto e aggressivo dei principali opinionisti di fede “progressista” contro quello che essi immaginano come una sorta di collateralismo putiniano.
Questa volta il loro attacco si è rivolto contro la Schlein, rea di aver schierato, o di aver tentato di schierare, il PD su posizioni di contrasto al ReArm Europe proposto dalla von der Leyen.
Per orientarsi in questo scontro, che si dice mini dalle fondamenta la credibilità (in progressione) della Schlein, del PD, dell’Italia nel consesso europeo e della stessa UE, occorre chiedersi, con mente serena, di che si tratta e chi abbia ragione.
Il ReArm Europe della von der Leyen si fonda tutto su di una doppia premessa: la minaccia russa verso l’intera Europa e il prossimo abbandono americano del vecchio continente alle mire espansionistiche di Putin.
Non è necessario essere esperti di geopolitica per capire che entrambe queste premesse sono radicalmente insostenibili.
L’idea di una minaccia russa verso l’intera Europa è – come i più autorevoli analisti geopolitici non hanno mancato di illustrare – assolutamente priva di fondamento: se ci son voluti ben tre anni perché la Russia riuscisse ad affermare la propria supremazia sull’esercito ucraino (ancorché sostenuto dall’Occidente), come si può pensare che si proponga di muovere guerra all’intera Europa o anche solo ai paesi baltici, l’una e gli altri protetti – come sono – non solo dall’ombrello NATO ma anche dalla clausola di difesa reciproca dell’art. 42 del Trattato UE?
Mentre l’iniziativa negoziale USA nei confronti di Mosca evidenzia le sue debolezze, l’UE continua ad avvitarsi nella sua spirale autodistruttiva che compromette democrazia e prosperità interna
La proposta di
un cessate il fuoco preliminare senza condizioni in Ucraina,
avanzata da Washington, e il frenetico tentativo dei vertici
europei di organizzare il
riarmo del vecchio continente, rappresentano paradossalmente
due facce della stessa medaglia: quella di un Occidente in
piena crisi strategica,
progressivamente logorato dalle crescenti faide interne tra le
sue arroganti, quanto incompetenti e corrotte, élite
politiche.
L’acceso scontro verbale dello studio ovale fra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky, aveva fatto presupporre l’intenzione di Washington di strappare dure concessioni a Kiev.
La proposta negoziale emersa dall’incontro fra la delegazione USA e quella ucraina a Gedda, in Arabia Saudita, invece segna apparentemente una vittoria di quest’ultima.
L’offerta consiste in un cessate il fuoco di 30 giorni, eventualmente prolungabile e in apparenza senza specifiche condizioni annesse, per avviare negoziati fra le parti finalizzati al raggiungimento di una pace duratura.
L’annuncio ha segnato la ricucitura dei rapporti fra Washington e Kiev deterioratisi in occasione della recente visita di Zelensky alla Casa Bianca, come confermato dalla decisione americana di riattivare l’invio di armi e la condivisione di informazioni di intelligence con l’Ucraina, sospesi solo pochi giorni prima.
L’iniziativa avvantaggia nettamente Kiev, le cui forze armate sono in difficoltà su gran parte del fronte ucraino e in rotta su quello russo di Kursk. Un cessate il fuoco permetterebbe loro di riprendere fiato, ed eventualmente di riarmarsi grazie alla ripresa del flusso di aiuti militari americani.
Pubblichiamo l'introduzione e la postfazione del volume Giulio Chinappi, Vanna Melia, Alessandro Pascale, Pietro Terzan Sul compagno Stalin. Il libro può essere scaricato in formato PDF al seguente link: https://intellettualecollettivo.it/sul-compagno-stalin/
Nel corso del
Novecento, poche figure storiche hanno suscitato dibattiti
tanto accesi e polarizzanti quanto quella di losif
Vissarionovic Dzugasvili, meglio
conosciuto come Stalin. L’immagine di Stalin è stata oggetto
di numerose interpretazioni, spesso antitetiche: da un lato,
un leader
capace di trasformare l'Unione Sovietica in una superpotenza
industriale e militare; dall'altro, un dittatore associato a
repressioni politiche e
sacrifici umani. Questo libro, intitolato Sul compagno
Stalin, si propone di offrire una prospettiva
equilibrata e non agiografica sulla
figura di Stalin, ponendo tuttavia particolare attenzione agli
aspetti positivi della sua leadership, spesso oscurati da una
narrazione dominante che
tende a demonizzarlo, equiparando addirittura il comunismo
sovietico al nazismo tedesco e lo stesso Stalin ad Adolf
Hitler.
Uno degli obiettivi principali di questo libro è contrastare tale forma di revisionismo, oggi sostenuta persino da documenti istituzionali1, che non solo è storicamente infondata, ma rappresenta anche un insulto alle decine di milioni di vite sacrificate dall'Unione Sovietica nella lotta contro il nazifascismo. Non possiamo infatti mancare di ricordare come l'Armata Rossa e l'Unione Sovietica abbiano avuto un ruolo centrale nella sconfitta di Hitler e dei suoi alleati, un contributo senza il quale l'esito della Seconda guerra mondiale sarebbe stato drammaticamente diverso. Ricordare e analizzare questo aspetto è essenziale non solo per rendere giustizia alla storia, ma anche per comprendere l'importanza del modello sovietico nella resistenza contro una delle ideologie più distruttive del XX secolo.
La Seconda guerra mondiale, conosciuta in Russia come la Grande Guerra Patriottica, rappresentò per l’URSS una prova di sopravvivenza nazionale e ideologica.
L’operazione delle Forze Armate Ucraine nel Kursk sta volgendo al termine perché i suoi obiettivi sono stati raggiunti. A meno che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, quando il 6 agosto lanciò l’offensiva sul territorio russo, non avesse in mente di decimare le proprie truppe e agevolare l’avanzata russa sul fronte del Donbass, queste sue parole di ieri suonano cinicamente tragicomiche.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha letteralmente implorato a Putin di risparmiare la vita a migliaia di soldati ucraini “completamente circondati”.
“Sarebbe un massacro orribile, uno di quelli che non si vedeva dalla seconda guerra mondiale”, ha scritto venerdì pomeriggio in un post di Truth, lasciando intendere di aver parlato con il presidente russo.
Vladimir Putin ha risposto che se Kiev darà ordine alle sue truppe di arrendersi e deporre le armi, le loro vite ed un trattamento dignitoso saranno garantiti. È evidente che Washington e Mosca abbiano concordato la resa delle forze armate ucraine in territorio russo, come presupposto primo del cessate il fuoco.
Le trattative tra la Casa Bianca e il Cremlino
Al consiglio di Sicurezza Putin ha riferito che la situazione nei rapporti tra Russia e Stati Uniti sta “iniziando a muoversi”.
Con il voto favorevole del parlamento europeo al piano di riarmo (419 SI, 204 NO, 46 astenuti) credo si possa dire che, simbolicamente, con oggi, la democrazia in Europa è andata; appassita prima, oggi i petali secchi sono caduti.
Non è stata sostituita, come molti temevano, da una dittatura.
La storia prende sempre forme diverse e sorprendenti.
No, questa volta la democrazia è stata sopraffatta dalla conquista delle istituzioni e dei media, dall'interno, da parte dell'oligarchia finanziaria e dei suoi stipendiati.
Oramai la manovra di aggiramento è compiuta.
I canali a disposizione per la popolazione per esprimersi in termini politicamente significativi sono stati tutti o chiusi o neutralizzati. Un po' è avvenuto con modifiche delle leggi elettorali, un po' rendendo il processo democratico contendibile solo a chi aveva finanziamenti significativi a disposizione, un po' occupando a tutti i livelli il sistema mediatico (ed espellendo chi non si adeguava a scrivere sotto dettatura), un po' sopprimendo la terzietà della magistratura, capillarmente politicizzata.
Gli anni post-pandemici hanno reso evidente la disturbante continuità nelle strategie politiche: dalla comunicazione propagandistica alle priorità economiche, dalla militarizzazione di ogni piega della vita all’uso sfacciato della necropolitica, dalla criminalizzazione del dissenso alla manomissione del bene pubblico. A livello alto, una linea ininterrotta collega Covid-19, Ucraina e Gaza; a livello medio, essa unisce le politiche vaccinali del blocco atlantico, la corsa al riarmo dell’UE e la soppressione delle ricerche accademiche su disuguaglianza, razzismo e violenza strutturale; ma anche a livello spicciolo, su quella stessa linea inciampiamo ogni volta che sentiamo erosi i margini della vita quotidiana, dei legami di affetto e di senso, dell’autonomia individuale e collettiva. È qui che dobbiamo allenarci per tornare a sentire che niente può giustificare l’abbandono del minimo sindacale che ci rende umani: la cura dei nuovi nati, la cura delle ecologie collettive, il saluto ai morti. In questo articolo, apparso sui siti greci Kosmodromio e Edromos, due antropolog* dell’università di Atene mettono a confronto le politiche pubbliche e sanitarie in risposta a un tragico incidente ferroviario con quelle che, pochissimi anni prima, hanno deciso della vita dell’intera nazione (Stefania Consigliere)
Il 28 febbraio 2023 la Grecia ha vissuto uno dei disastri ferroviari più gravi della sua storia, quando un treno passeggeri si è scontrato frontalmente con un treno merci vicino a Tempe, nella Grecia centrale. La collisione si è verificata poco prima di mezzanotte, sulla tratta Atene-Salonicco e ha causato un grave deragliamento e un enorme incendio che ha avvolto diverse carrozze, portando alla morte orribile di decine di passeggeri.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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La guerra, per Israele, è molto
più di un atto fondativo, è uno status,
una condizione immanente.
Le classi dirigenti sioniste, già molto prima della creazione di Israele, erano consapevoli di rappresentare un corpo estraneo, in Palestina, e solo in virtù della convinzione che quella terra fosse stata promessa loro da dio se ne ritenevano in diritto di occuparla. La consapevolezza di questa estraneità insanabile ha fatto sì che, sin dal primo momento, lo stato ebraico si concepisse – e si attrezzasse – come un organismo plasmato in funzione della guerra. Nella rappresentazione romantica di un socialismo suprematista (riservato cioè ai soli ebrei, escludendo gli arabi) che si realizzava nei kibbutz, il prototipo dell’uomo nuovo era rappresentato – idealmente e iconograficamente – con la zappa e il mitra in spalla. E infatti i primi venticinque anni di Israele sono segnati dalle guerre con i paesi arabi vicini: la guerra del 1948, la guerra di Suez del 1956, la guerra dei sei giorni del 1967 e la guerra del Kippur del 1973.
E se le prime due vedono lo stato ebraico non ancora pienamente assimilato nel sistema di dominio globale statunitense (nel ‘56 fu Washington a imporre lo stop), le successive si svolgono in un contesto che vede Israele non più soltanto come insediamento coloniale europeo, ma come avamposto della potenza egemonica americana.
Da quel momento in avanti, anche grazie ai continui e massicci aiuti statunitensi, la potenza militare israeliana si affermerà come predominante nella regione e, con la guerra del ‘73, si chiude la stagione degli scontri che oppongono Israele ai paesi arabi vicini, mentre si apre quella della Resistenza palestinese, a sua volta segnata da una serie di fasi acute (la guerra del Libano del 1982, la prima e seconda intifada e ripetute guerre nella striscia di Gaza).
A differenza dei paesi arabi, però, che nella prospettiva israeliana costituivano (e in parte costituiscono) una minaccia latente, destinata a manifestarsi ciclicamente, la Resistenza del popolo palestinese si caratterizza – pur all’interno di un andamento oscillante – come una costante, che conoscerà appunto alcune fasi particolarmente acute, ma che non verrà effettivamente mai meno.
Non
semplicemente nuovi problemi, ma il
problema dei problemi è emerso con la crisi iniziata nel
2007-2008: l’incapacità della società contemporanea di
affrontare
i problemi, quelli, in particolare, causati dal suo stesso
funzionamento. Nonostante gli evidenti fallimenti, sfociati
clamorosamente nella crisi,
l’ideologia neoliberale sembra piuttosto rafforzata che
indebolita. Essa, anzi, benché gli interessi a cui conviene
siano solo quelli di
una piccola minoranza, tende a determinare non solo la
politica economica, ma l’assetto complessivo della società,
fin nei suoi
fondamenti costituzionali. L’esigenza di riforme
antidemocratiche, tipica della trasformazione neoliberista,
è chiaramente emersa fin
dall’inizio, durante la crisi della fase di accumulazione
del dopoguerra.
1. Da una crisi all’altra
È emblematico, al riguardo, il Rapporto alla Commissione Trilaterale[1]. Ed è significativo che un prodromo della svolta neoliberista sia stata la politica adottata da Pinochet in Cile dopo il golpe del 1973, il quale valse come monito per qualunque paese si azzardasse a non adottare la tendenza ‘giusta’ per risolvere la crisi. Nel 1978, in Cina, Deng Xiaoping promosse la liberalizzazione – entro un regime politico illiberale. L’affermazione definitiva delle politiche neoliberiste è avvenuta con i governi Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e Reagan negli Stati Uniti d’America nel 1980, orientati in primo luogo ad abbattere il potere conquistato dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. Non senza successo. I bollettini del Bureau of Labor Statistics del Department of Labor degli Stati Uniti documentano la costante diminuzione degli operai e impiegati iscritti ai sindacati: dal 20,1% nel 1983 all’11,1% nel 2014.
In Europa, il "guerrafondaismo"
è arrivato al suo culmine.Tutto è cominciato con gli Stati
Uniti che, sotto la presidenza di Trump,
hanno deciso che
non vale la pena spendere soldi per proteggere militarmente le
capitali europee dai potenziali nemici. Trump vuole impedire
che gli Stati Uniti
paghino la più parte del finanziamento della NATO - la quale
fornisce la propria potenza militare - e inoltre vuole mettere
fine al conflitto
Russia-Ucraina, in modo da poter così concentrare la strategia
imperialista degli Stati Uniti sull'emisfero occidentale e sul
Pacifico, con
l'obiettivo di "contenere" e
indebolire l'ascesa economica della Cina. La strategia di
Trump ha gettato nel panico le
élite dominanti europee, improvvisamente preoccupate che
l'Ucraina perda contro le forze russe, e che pertanto tra non
molto Putin sarà
ai confini della Germania o - come sostengono sia il premier
britannico Keir Starmer che un ex capo
dell'MI5, sarà
«per le strade della Gran Bretagna».
Qualunque possa essere la validità di questo presunto
pericolo, si
è venuta però a creare l'opportunità, per i militari e i
servizi segreti europei, di "alzare la posta"
e chiedere così la fine di quei cosiddetti "dividendi
di pace" che avevano avuto inizio dopo la
caduta della temuta
Unione Sovietica, e in tal modo avviare ora il processo di
riarmo. Kaja Kallas, alta rappresentante
della politica estera dell'UE, ha
spiegato il modo in cui vede la politica estera dell'UE: «Se
insieme non siamo in grado di esercitare abbastanza
pressione su Mosca,
allora come possiamo affermare di poter sconfiggere la
Cina?» Per riarmare il capitalismo europeo,
sono stati offerti diversi
argomenti: Bronwen Maddox, direttrice di Chatham
House, il "think-tank" per le
relazioni
internazionali che rappresenta principalmente le opinioni
dello stato militare britannico, se n’é venuto fuori
con l'affermazione che «la spesa per la "difesa" è
il più grande beneficio pubblico per tutti, poiché essa
è necessaria per la sopravvivenza della "democrazia"
contro le forze autoritarie». Ma c'è un
prezzo da pagare per
difendere la democrazia: «il Regno Unito potrebbe
dover prendere in prestito di più per poter pagare le
spese per la difesa
di cui ha così urgente bisogno.
Il 18 marzo scorso Mario Draghi è stato ascoltato dalle Commissioni di Camera e Senato a proposito del suo Rapporto sulla competitività europea [1] presentato nel settembre del 2024.
Dopo il preambolo ormai d’obbligo sui rischi per la sicurezza in Europa, Draghi ha spiegato l’importanza dell’investimento nella difesa comune (anche alla luce delle recenti proposte della Commissione [2]) non tanto come una necessità legata alle preoccupazioni per l’imminente calata degli Unni, quanto piuttosto come una necessità legata al tentativo di rianimare lo sviluppo industriale e tecnologico europeo in una fase caratterizzata dal protezionismo degli USA i quali, contestualmente, conducono politiche molto aggressive di attrazione di investimenti in un’ottica di re-shoring e di re-industrializzazione. Draghi ha anzi fatto capire piuttosto chiaramente che quella dell’invasione russa è in realtà solo una scusa:
«L’Europa avrebbe dovuto comunque affrontare, comunque combattere la stagnazione della sua economia e assumere maggiori responsabilità per la propria difesa in presenza di un minore impegno americano da tempo annunciato» [3].
È chiarissima, ad esempio, la preoccupazione per il ritardo tecnologico europeo in un ambito sempre più rilevante come quello dell’Intelligenza Artificiale.
Il suprematismo europeista ha rotto! Scusate la brutalità, ma qualcuno doveva pur dirlo. Non se ne può più dello spettacolo patetico che sta dando l’intellighenzia del ceto medio semikolto. Serrano i ranghi i vecchi guru della sinistra imperiale per fabbricare un sogno che non c’è, non c’è mai stato e che non sarà: l’Europa dei popoli.
Con i fiori di una nuova ideologia calata dall’alto adornano le gelide sbarre della gabbia europea fabbricata a colpi di austerità, le catene del vincolo di bilancio e dei parametri di Maastricht. Per mobilitare gli spiriti, per accettare sacrifici, la guerra o il cappio del debito per le prossime generazioni, è necessario farci sentire un soggetto della storia a cui è assegnato un grande fine. Sulla nuova identità militarista dell’Europa è necessario costruire una nuova identità europea: suprematista.
Il nuovo suprematismo è maschio, bianco, eterosessuale e anziano. Ha il volto rassicurante di Roberto Benigni, Roberto Vecchioni, Corrado Augias o Jovanotti. Dietro l’apparato ideologico composto dai pifferai magici della civiltà europea, ci sta il partito trasversale della guerra. E sono sempre loro, quelli che nel ‘900 hanno portato l’Italia alla distruzione, ma come gatti son riusciti sempre a cadere in piedi. Indenni e al loro posto.
Nel 1980 posero fine a decenni di lotte operaie e al progresso sociale con la marcia dei 40.000. Adesso con 30.000 persone in piazza del Popolo vogliono porre fine alla nostra democrazia costituzionale e trascinarci in un’economia di guerra. Parola d’ordine: riconversione industriale.
Negli ultimi mesi, l’aria si è fatta elettrica. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha rilasciato una delle sue perle: l’Unione Europea sarebbe stata "creata per fregare gli Stati Uniti". Boom. Poco dopo, un dazio del 25% sui beni europei – auto tedesche in testa – ha riportato indietro l’orologio al tempo delle guerre tariffarie. E Bruxelles? Ha risposto promettendo ritorsioni da 26 miliardi di euro, salvo poi guadagnare tempo. Ma facciamo attenzione: non stiamo assistendo semplicemente a una scaramuccia tra superpotenze. C’è molto di più sotto la superficie. Queste "guerre commerciali" sono, in realtà, la versione globale di un vecchio scontro che conosciamo bene: una guerra di classe.
Guardiamoci intorno. Da un lato, economie esportatrici come la Germania, la Cina, e in misura minore l’Italia. Dall’altro, i grandi consumatori a debito, Stati Uniti in primis. Perché? Perché in troppe economie i salari vengono compressi per tenere basso il costo del lavoro, mentre la produzione cresce e si accumula nelle mani di pochi. La ricchezza si concentra, la domanda interna non decolla, e allora si cerca sbocco fuori dai confini. Le guerre commerciali, così, diventano il sintomo esterno di una malattia interna: la sproporzione di potere e reddito tra classi sociali.
E chi meglio dell’Italia può testimoniare questo meccanismo?
Youtube -Mondocane video di Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=0f-szdTNZOs
Alla base di questa Europa non c’è il Manifesto socialista di Ventotene, c’è Maastricht: un trattato iperliberista basato sulla piena libertà dei mercati e della finanza
Il problema è che questa volta – e mi dispiace molto ammetterlo – ha qualche ragione anche la non antifascista Giorgia Meloni, e non solo sul Manifesto di Ventotene – che proclamava (in maniera contraddittoria) una rivoluzione socialista violenta e perfino la dittatura di un solo partito per instaurare una federazione democratica europea – ma soprattutto sul fatto che il mito della federazione europea non è realizzabile, e se lo fosse non sarebbe democratico. In Europa è sempre stato aperto il dibattito su un’alternativa: costruire gli Stati Uniti d’Europa, copiando il modello americano, o invece realizzare una Confederazione tra Stati sovrani e democratici, come voleva per esempio il presidente francese De Gaulle. L’Unione Europea nata a Maastricht costituisce un ibrido contraddittorio e fallimentare tra questi due sistemi molto differenti.
Lo Stato federale è uno Stato sovrano che ha un unico governo centrale, un unico esercito, delle sue autonome entrate fiscali, una moneta unica e una sola politica estera. Lo Stato federale finanzia con le sue entrate ampi fondi di perequazione in modo da promuovere la convergenza tra i singoli Stati. La democrazia federale presuppone una società civile organizzata, forte e omogenea, e una forte coesione sociale e culturale. In uno Stato Federale democratico – come negli Usa, in Canada, ecc – si vota ovviamente a maggioranza.
È il titolo più appropriato per la prossima
kermesse europeista dem, se dopo Michele Serra a Roma, fosse
Roberto Vecchioni a organizzare a Milano un raduno
guerrafondaio di pacifinti, con tutte
le corbellerie tutt’altro che “di sinistra” che ha detto dal
palco di piazza del Popolo. Ed è dai tempi di piazza Venezia
nel
1941 che non si vedeva un’adunata di questo tipo e per un
antico scopo che torna in auge su scala continentale.
L’unica differenza è che gli adunanti di allora non erano dei beoti in totale confusione come oggi, e, come i loro capi di allora, Benito in testa, sapevano benissimo che era l’ora di spezzare le reni alla Grecia. Reni, che se ben ricordo, le spezzarono Draghi e gli euroburocrati nel 2015 con una guerra economica nel nome dell'”Europa” che non faceva prigionieri. Era già da allora che si potevano capire gli interessi dominanti e i veri obiettivi delle misure draconiane europeiste che avrebbero potuto colpire ogni paese dell’UE non in linea con i vincoli di bilancio e con le regole tutte improntate a favorire il mercato sopra ogni diritto sociale.
Interessi e obiettivi che sono anche di oggi, e che oggi come allora vengono perseguiti a prescindere da ogni altra questione, di emergenza in emergenza creata ad arte, travalicando anche i patti sociali su cui si sono rette le democrazie liberali novecentesche e avviando l’era dell’autoritarismo liberista euro-autocratico. Ma la massa per lo più vetusta a piazza del Popolo che si è lasciata trasportare dalla retorica marinettiana degli Scurati, dal suprematismo filosofico-letterario dei Vecchioni, dalla pletora di starlette tra Piff, Littizzetto e Jovanotti, con vecchi saggi alla Augias, locomotive gucciniane lanciate contro la giustizia e la pace, una massa da gnocco fritto alle feste de l’Unità trasportata da pullman dell’associazionismo piddino tra CGIL, ANPI, COOP, ecc., ovviamente come “Alice tutto questo non lo sa”. Chi è andato alla kermesse promossa dal produttore di armi che possiede La Repubblica c’è andato credendo di essere alla solita sfilata buonista e c’ha capito punto nulla, fidandosi dei soliti volti televisivi. E invece…
La polemica recente sul Manifesto di Ventotene tra la Presidente del Consiglio Meloni e il Pd riporta quel documento al centro dell’attenzione. Sebbene molta parte della sinistra abbia sempre esaltato il Manifesto come espressione di una posizione progressiva e di sinistra, è invece importante chiarire come il Manifesto rappresenti una posizione regressiva e anti-democratica, che prefigura tutti i problemi da cui è afflitta la Ue odierna. Per questa ragione proponiamo la lettura di ampi estratti dei primi paragrafi del libro di Domenico Moro, “Eurosovranità o democrazia? Perché uscire dall’euro è necessario”, edito da Meltemi
Oggi, in tutti i paesi europei, le politiche
economiche e sociali e gli stessi meccanismi della democrazia
rappresentativa sono ingabbiati dai vincoli dei trattati
europei e dall’euro.
Dinanzi alla peggiore crisi economica dal 1929, i vincoli
europei hanno drasticamente ridotto gli investimenti pubblici,
impedendo di compensare il
crollo degli investimenti privati, come si faceva nelle crisi
precedenti.
Tuttavia, i dati statistici non ci restituiscono completamente il quadro europeo. Mai, prima d’ora, si era visto in Europa un tale distacco tra cittadini e sistema politico, con un astensionismo che arriva fino alla metà dell’elettorato. La tradizionale alternanza tra centro-destra e centro-sinistra è venuta meno, facendo saltare i meccanismi della democrazia rappresentativa. Partiti che hanno fatto la storia dei loro Paesi e dell’Europa, come i partiti socialisti francese, tedesco, spagnolo, olandese e greco, si sono ridotti ai minimi storici e in qualche caso sono scomparsi dalla scena politica. Alle ultime presidenziali francesi, per la prima volta dal dopoguerra, nessuno dei due tradizionali partiti principali, il socialista e il repubblicano, è riuscito ad accedere al ballottaggio. Invece, partiti critici verso l’Ue e l’euro, sono nati o, se già esistenti, sono cresciuti un po’ dappertutto, raccogliendo una quantità di consensi fino ad ora impensabile al di fuori dei classici centro-sinistra e centro-destra.
Discorso tenuto all'Hillsdale College nel luglio 2022 (in blu collegamenti cliccabili)
Salve a tutti, grazie per essere qui e un
ringraziamento speciale a Douglas Jeffrey e Matt Bell per
avermi invitato a parlare all'Hillsdale College. Spero di
chiarire cosa sta accadendo in
nome del transgenderismo, perché sta accadendo e chi ne trae
profitto. Ho iniziato a fare ricerca su questo tema perché mi
sono
allarmata per la censura subita da chi cercava di criticarlo.
Questo accadeva quasi dieci anni fa. Ciò che è emerso in modo
evidente
è che veniamo manipolati e surrettiziamente preparati ad
accettare cambiamenti radicali nell'evoluzione umana,
progettati da coloro che si
trovano ai livelli più alti della società e che investono
nelle industrie biotecnologiche, farmaceutiche, tecnologiche e
finanziarie.
Per prima cosa, situiamoci nel tempo.
Come specie, stiamo iniziando una nuova fase dell'evoluzione umana, che emerge dall'era dell'informazione e del digitale. Il futuro vedrà ulteriori sviluppi nella raccolta di dati umani per costruire sistemi sempre più grandi di intelligenza artificiale e di ingegneria, biotecnologia, transumanesimo e la creazione di sistemi sempre più grandi di realtà virtuale, o realtà sintetiche. Nell'ultimo decennio, tutte le grandi aziende - le organizzazioni internazionali per i diritti umani e quelle non governative, le case di investimento globali, le banche, le istituzioni mediche, gli studi legali, i governi e gli enti educativi - hanno "scoperto" simultaneamente che il mondo naturale e le centinaia di migliaia di anni di evoluzione umana attraverso il dimorfismo sessuale in qualche modo hanno sbagliato. C’è stato un grande errore. Si sta diffondendo l'idea che la scienza abbia scoperto che esistono centinaia, forse infiniti, sessi e che per manifestare il pieno potenziale nell'espressione di questi sessi alternativi, l'umanità abbia bisogno dell'intervento del complesso medico-industriale. Inoltre il complesso medico-industriale è così illuminato da mettere a tacere chiunque ostacoli i suoi sforzi per la diversità di espressione.
La disfatta ucraina nella regione russa di Kursk conferma che saranno i russi a dettare le condizioni negli eventuali negoziati che gli staff di Donald Trump e Vladimir Putin stanno mettendo a punto. Considerazione che potrebbe spiegare la riluttanza di Volodymyr Zelensky (e degli europei) ad accettare il “verdetto” del campo di battaglia.
Zelensky e il generale Oleksandr Syrsky (poco amato dai militari che gli attribuiscono troppi “sissignore” al presidente che sono costati il sacrificio inutile di decine di migliaia di militari da Bakhmut a Kursk) escono indeboliti dalla disfatta nel saliente di Kursk che potrebbe avere un effetto destabilizzante sul morale delle esauste truppe di Kiev.
Dall’agosto scorso gli ucraini hanno impiegato in questa regione una dozzina di brigate equipaggiate dall’Occidente, sacrificando in 8 mesi, secondo stime russe, circa 70 mila uomini tra morti e feriti e 7mila veicoli, artiglierie e altri pezzi di equipaggiamento. Mezzi che i canali Telegram dei blogger militari russi hanno mostrato distrutti, danneggiati o abbandonati in immagini che illustrano questo articolo.
Secondo if0nti citate dal magazine Forbes tra il materiale abbandonato a Kursk dalle forze ucraine in fuga ci sarebbero una decina di carri armati M1A1 Abrams, oltre a cingolati Bradley e obici da 155mm M-777.
Il ministro tedesco della difesa uscente – e forse futuro – Boris Pistorius (SPD) ha sottolineato di fronte a una sala gremita che si tratta di “decisioni di importanza storica”. Stiamo affrontando “una delle più grandi, se non la più grande, sfida politica alla sicurezza nella storia del nostro Paese”, ha affermato il socialdemocratico. Sembra di essere tornati al 1914, quando il Partito Socialdemocratico (SPD) tedesco votò appunto i crediti di guerra, mandando a morte milioni di proletari che diceva fino al giorno prima di voler difendere. “Chiunque esiti oggi, chi non abbia coraggio oggi, chi pensi che potremo permetterci questo dibattito per mesi a venire, sta negando la realtà”. La pace in Europa sarebbe in pericolo e la Germania avrebbe il “compito di leadership” di difendere questa “Europa libera e democratica”, ha affermato il leader della SPD Lars Klingbeil. Ci mancava poco che esclamasse “Deutschland über alles”… Anche il probabile futuro cancelliere federale si illude nel vedere nella Repubblica Federale Tedesca il ruolo di potenza egemone emergente: “La nostra decisione odierna non determinerà solo le nostre capacità di difesa nei prossimi anni, ma forse anche nei prossimi decenni”, ha annunciato Merz. E i Verdi, un tempo partito anti-militarista, non sono da meno, anzi sembrano a tratti proprio i più forsennatamente guerrafondai, a dimostrazione della natura opportunista di questa formazione politica.
«Per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica». (Altiero Spinelli. Diario europeo (1948-1969), Il Mulino, Bologna, 1989, p. 175)
Il discorso su Spinelli per noi si chiude qui. Uno dei tanti casi di presunti rivoluzionari che col tempo hanno cambiato casacca.
* * * *
Ho sempre considerato l’adagio per cui “Ogni popolo ha il governo che si merita” l’ultimo rifugio degli ignavi, la foglia di fico dei reazionari che tendono a difendere e giustificare l’ordine esistente. L’adagio ci dice infatti che sarebbe vano non solo agire ma sperare che le cose possano andare diversamente: c’è chi sta sopra e comanda, mentre chi sta sotto deve rassegnarsi e subire. Tuttavia l’adagio, per quanto contenga un pregiudizio, ha una sua euristica efficacia quando parla di tempi ordinari, di stabilità sociale e di ristagno politico. In temi storici di burrasca, l’adagio perde la sua validità: la consonanza tra popolo e governo diventa dissonanza, l’armonia precipita in contrasto latente.
Misure restrittive e sistemi sociali scadenti sono la causa principale dell’eccesso di mortalità a livello internazionale da Covid-19. Il dibattito è stato “avvelenato” fin dall’inizio della pandemia, politici e media “ignoranti” hanno “dettato” la narrazione. John Ioannidis, esperto di sanità e statistico di fama internazionale, ha espresso forti critiche alle misure governative contro il coronavirus. Con i lockdown, molti Paesi si sono suicidati, ha affermato il professore di medicina e scienza dei dati biomedici alla Stanford University in un’intervista al giornalista tedesco Bastian Barucker. (19 marzo) Le misure restrittive hanno portato a “gravi disastri nel nostro sistema educativo” e a “gravi problemi di salute mentale”, ha spiegato Ioannidis
I lockdown hanno portato a un “aumento significativo dei decessi correlati all’alcol”, all’interruzione dei trattamenti contro il cancro, a un aumento dei decessi per malattie cardiovascolari e a “una crisi economica”, riducendo così il “benessere sociale”. La decisione di imporre i lockdown è stata sbagliata perché il 60 percento dei numerosi modelli utilizzati per calcolarne l’efficacia indicava che aumentavano il numero di contagi. Anche i modelli che indicavano una riduzione dei casi hanno mostrato solo una piccola efficacia positiva. Ioannidis conclude quindi che i lockdown restrittivi sono stati “estremamente dannosi”.
Mentre i capi di stato di governo convergono su Bruxelles per il vertice che dovrà approvare il ReArmEurope – il piano da 800 miliardi proposto da Ursula von der Leyen per moltiplicare le spese militari nel Vecchio Continente – nei corridoi della finanza ci si comincia a chiedere, più concretamente, da dove tirar fuori tutti quei soldi.
Com’è noto, l’Unione Europea non prevede un debito comune da finanziare sui mercati. Ergo, ogni paese deve indebitarsi in solitudine. E come sempre c’è chi può (la Germania di Friedrich Merz, che ha appena varato un mega-piano da 1.000 miliardi per armi e infrastrutture) e chi proprio non può (tutti gli altri, chi più chi meno).
Il problema non è di buona volontà soggettiva, ma “di mercato”: qualche ente finanziario (banca, assicurazione, risparmiatore privato, ecc) presterebbe soldi a un paese già fortemente indebitato?
Avviene tutti i giorni, certamente, ma a tassi di interesse molto più alti (è questo il famoso spread – il differenziale – tra titoli tedeschi, i più garantiti, e quelli di altri paesi). Il che significa spendere molto di più o acquistare molte meno armi, mettendo oltretutto ogni singolo paese davanti alla scelta di dover spendere per il militare togliendo altre risorse a istruzione, sanità, pensioni, ecc.
Le banche internazionali già esistenti – come la Banca europei per gli investimenti (Bei) – hanno limiti statutari precisi per quanto riguarda il finanziamento del riarmo, e dunque non sono utilizzabili neanche estendendo il loro ambito di intervento con qualche “interpretazione” lassista dello statuto.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Solo una sana e consapevole autocritica salva
il rivoluzionario dallo stress e dalla coazione catodica. Fra
i lettori appassionati di storia del
Pci, qualcuno si ricorderà che l’educazione nelle scuole del
partito, Frattocchie su tutte, prevedeva il rito sadico
dell’autocritica davanti ai “compagni”. In pratica, scontando
il gusto cattolico per la confessione, l’allievo era tenuto a
dichiarare quanto e perché non si era dimostrato all’altezza
dei criteri, allora molto esigenti, in fatto di coerenza e
serietà,
anche sul piano privato. Non si valutava, infatti, solo il
profitto nello studio, ma anche la diligenza, la disciplina,
la reputazione. Era
un’eredità staliniana che oggi considereremmo ai limiti della
violenza psicologica, oltre che di un bacchettonismo un po’
ridicolo.
Tuttavia, un indubbio valore formativo lo aveva: abituava il
futuro funzionario votato a rappresentare la Causa ad
anteporla a sé, ammettendo i
propri limiti e difetti e dando agli altri spunti di
riflessione a sua volta autocritica. Era un esercizio di
autocoscienza di gruppo.
Ai nostri giorni, imparagonabili a quei tempi di partiti-chiese e impegno politico missionario, si è sbracato finendo nell’eccesso diametralmente opposto. Oggi vale tutto e il suo contrario. La sfera politica, intesa latu sensu come spazio pubblico in cui chiunque può intervenire con un semplice post sui social, è diventata una cosa grottesca e tribale, stilisticamente incrociabile tra i raccontini Harmony, l’aruspicina delle proprie viscere e il filmetto splatter dove il sangue scorre rigorosamente virtuale. In un’abissale distanza rispetto a quel remoto addestramento monacale, l’attuale politica, vista sul piano organizzato di leader, associazioni e propaganda, aderisce completamente alle modalità del Marketing, vero e unico Intellettuale Collettivo che di tale degrado rappresenta il motore d’alimentazione. Non si preoccupa minimamente di formare gli elementi attivi, attivisti, quadri, staff, e men che meno gli stessi capi. E per forza: che importanza può avere la preparazione al campo di lotta, se la lotta è filtrata da una cornice che impone i canoni semplicistici di un infantilismo indotto?
Tra gli anni
’90 e il 2016, all’epoca della iper-globalizzazione a egemonia
americana, il mondo ha assistito a un processo di divisione
del lavoro su
scala planetaria. La specializzazione di distretti industriali
e aree economiche nelle attività in cui ciascuna godeva dei
maggiori
“vantaggi comparati” (in termini di sviluppo, risorse, lavoro
o logistica) è stata una dei motori dell’accelerazione
tecnologica degli ultimi decenni.
La possibilità di ridurre l’investimento nelle infrastrutture produttive, spostando le lavorazioni in luoghi caratterizzati da costi inferiori (pensiamo alla supply chain asiatica di Apple), ha permesso all’industria dell’hardware di liberare immensi capitali da investire nell’innovazione. Tra i settori che hanno cavalcato più intensamente queste dinamiche c’è quello dei microchip (o semiconduttori): l’oggetto tecnologico alla base di tutte le tecnologie, dal banale termostato ai sistemi di guida delle testate nucleari, dalle batterie dei veicoli elettrici ai server per l’addestramento delle intelligenze artificiali.
Negli ultimi trent’anni, le aziende di chip dal maggiore valore di mercato, quasi tutte americane, hanno iniziato ad appaltare gran parte della loro attività di manifattura all’estero, in paesi come Taiwan e la Corea del Sud, dove hanno trovato personale qualificato (i chip richiedono ingegneri molto formati in tutte le fasi della lavorazione) con un costo del lavoro decisamente inferiore. Ha così preso piede, soprattutto nella regione dell’Indo-Pacifico, il modello delle “foundry”: aziende di manifattura avanzatissima, che fabbricano chip per conto di aziende occidentali, le quali possono così concentrarsi sulla curva dell’innovazione, che nei chip si incarna nella celebre “legge di Moore” (ovvero l’osservazione che il numero di transistor contenuti in un chip raddoppia ogni due anni).
Avendo essi avuto una minima eco, raccolgo qui alcuni post recenti da facebook sulla guerra in Ucraina e manifestazioni "pacifiste" per salvarli dalla dispersione
14 febbraio.
Rilanciavo un post del 20 marzo 2022 dove anticipavo conclusioni poi verificatesi.
20 febbraio
Cortocircuiti (apparenti e reali)
La guerra in Ucraina l'hanno voluta vari governi degli Stati Uniti. L'idea parte da lontano, ma diventa più concreta con l'espansione NATO verso est, il colpo di stato di Maidan, le devastazione in Donbass e poi la guerra vera e propria (non per dire che altrimenti in Ucraina sarebbe stato il paradiso terrestre, beninteso, ma ciò non significa non guardare in faccia la realtà).
Sin da Maidan è un processo in cui gli USA scavalcano l'Europa (fuck the UE) e poi via Boris riscavalcano i tentativi di trattativa di Germania e Francia che evidentemente avevano capito l'andazzo.
L'obiettivo primo era rompere la connessione oriente/occidente con la via della seta che arrivava fino in Portogallo; correlatamente distruggere la Germania/Euro/farraginose-ambizioni-imperialiste-europee portandole alla condizione di vassalli stabilita con la fine della II guerra mondiale. Idealmente far crollare la Russia, ma pare irrealistico che si immaginassero di sconfiggerla sul campo (a meno di non fare ben altra guerra ovviamente). Che l'Ucraina e nemmeno l'UE partecipino alle trattative di pace la dice lunga su chi fossero i reali attori.
La definizione dell'orto di casa insomma, che il capitalismo al crepuscolo americano (vale a dire non valorizzante ma depredante) ha bisogno di tenersi ben saldo perché lo deve spolpare.
Allo stesso tempo far paura un po' a tutti: chi sgarra si becca una guerra (via terzi o diretta a seconda dei casi). Il governo US vince anche solo destabilizzando le varie aree, affinché non si organizzino per creare circuiti alternativi al Sacro Graal (il dollaro che trasforma i debiti fuori controllo in risorsa).
Siamo al 26esimo anniversario dell’attacco NATO alla Serbia. Serbia riluttante a farsi mutilare del suo arto kosovaro a fini di impiantarci Bondsteel, la più grossa base USA d’Europa e di diventare la soluzione finale per la Jugoslavia. Un anniversario segnato da micce accese in tutti i Balcani, micce che paiono correre verso barili pieni di esplosivo.
Sergio Mattarella, che l’istituzione consacra rappresentante di tutti gli italiani (anche di quel quasi 70 per cento che non condivide la sua passione per la guerra e in difesa del governo golpista e dittatoriale dell’Ucraina), ripete a giradischi rotto che grazie all’UE abbiamo avuto 70 anni di pace in Europa. Lo ripete da protagonista, con D’Alema premier e i Comunisti Italiani di Diliberto e Rizzo soci di governo, della prima guerra NATO (rifiutata dall’ONU) di europei contro europei. Per la precisione, di europei aggressori contro europei aggrediti, neutrali e, colpa anche maggiore, socialisti, del tipo Cogestione.
Lo spazio aereo e marittimo che permetteva i 78 giorni di bombardamenti a tappeto, anche all’uranio impoverito, su 7 milioni di donne, uomini, vecchi e bambini serbi, era il nostro. E nostre erano le basi da cui decollavano i bombardieri. E nostro era il mare attraversato dalle navi militari e anche da qualche mercantile della Caritas scoperto pieno di armi. Armi d’offesa per i terroristi e trafficanti di droga e organi dell’UCK, al comando del poi sentenziato criminale di guerra Hashim Thaci, fidanzato morganatico di Madeleine Albright, Segretaria di Stato USA con il democratico Clinton.
Incredibilmente Die Linke, l'unico partito di sinistra tedesco che ha raggiunto il quorum del 5 per cento e ha rappresentanti nel parlamento, si è unito ai guerrafondai nella loro rincorsa all'inutile riarmo.
Questi ultimi giorni sono storici per la Germania, non in senso positivo.
Il parlamento tedesco ha modificato il freno costituzionale al debito per consentire enormi spese militari illimitate, indipendentemente da quanto profondamente porteranno il bilancio federale in rosso.
Ma la cosa gravissima è che nessuna spesa sarà destinata a investimenti in ospedali, assistenza, istruzione, asili nido, pensioni, tecnologie verdi, insomma allo Stato sociale.
In questi giorni il parlamento tedesco ha stabilito che quando si tratta di finanziare la vita e la felicità dei cittadini, l’austerità resta fondamentale perché sancita nella costituzione tedesca. Al contrario gli investimenti nella morte sono stati resi possibili e illimitati senza più la morsa costituzionale dell’austerità.
La ragione di fondo per questo cambiamento sconvolgente alla Costituzione tedesca è semplice: i produttori di automobili tedeschi sono ormai troppo poco competitivi.
Non riescono più a vendere con profitto le loro auto né in Germania né all’estero.
Dal depistaggio dei dissensi politici relativi al “riarmo” europeo e alla riesumazione del Manifesto di Ventotene quale veleno contro la piazza pro Europa, il salto in Parlamento (19 marzo) è stato altamente acrobatico. Al di là dell’umana manifestazione emotiva del parlamentare Fornaro, lo sdegno di trovarsi di fronte a parole fascistoidi da parte della Presidente del Consiglio ha determinato sì un tafferuglio, ma nessun chiarimento postumo, politicamente doveroso e umanamente necessario, sul significato “dittatura del partito rivoluzionario” interpretato come negazione del superiore vessillo appropriato di “democrazia”.
Lo spettacolo di Benigni del giorno dopo, come sempre misurabile solo a colpi di share (5 milioni di spettatori), ha glissato sui cardini politici concettuali trattati come “idee superate”, attribuendo ai “nazionalismi” – chissà come formatisi, basta nominarli! – la condanna di essere “il carburante di tutte le guerre”, cui ha fatto seguito tutto un repertorio da comunista pentito a democristiano fan di De Gasperi, ultimando poi con un’omelia pacificante tra ideali “fratelli” d’Europa. “Democrazia” non è riduttivamente solo libertà di circolazione delle idee, come lo show del narratore richiede, è molto di più: è pari opportunità sociale ai reali conflitti di classe di cui non s’ha nemmen da far menzione!
Le reali possibilità di una pace in Ucraina esistono. Non sarà una pace giusta per l’Ucraina perché raramente la storia ha conosciuto paci giuste. La pace è tuttavia sempre necessaria. Non è retorica immedesimarsi nei ragazzi al fronte e nei loro genitori che ogni giorno sperano in un cessate il fuoco. Le ultime morti prima della pace sono sempre le più atroci.
La neutralità dell’Ucraina è stata la ragione principale di questa guerra. Lo aveva capito George Kennan nel 1997 quando vinsero i falchi al Dipartimento di Stato, cancellando le speranze dell’Osce e puntando, in un quadro unipolare, sull’espansionismo della Nato come alleanza militare offensiva fino ai confini con la Russia.
Lo aveva capito Henry Kissinger che nel 2014 preannunciò il conflitto con la Russia se non si fosse ribadita la neutralità di Kiev.
Nel 1997 Brzezinski nella Grande Scacchiera e nel 2019 la Rand Corporation con il documento Extending Russia avevano puntato sullo smantellamento della Federazione russa. Le multinazionali occidentali premevano per accaparrarsi le immense materie prime e le terre rare.
Per i neo-conservatori Usa la sconfitta della Russia attraverso l’Ucraina avrebbe evitato il pericolo di una saldatura euroasiatica e la vittoria a spese di Washington del modello economico ed energetico fondamentale per la potenza tedesca ed europea. Perché Calenda e tutti gli altri guerrafondai non studiano le vere cause delle dinamiche internazionali?
Dopo le guerre successive alla dissoluzione dell’Impero romano, dopo dunque i conflitti medioevali tra i popoli cristiani, la novità rappresentata in età moderna dalla nascita degli stati centralizzati e autonomi richiese l’elaborazione di nuove forme della convivenza e del diritto, le quali ebbero compimento e ratificazione nelle paci di Westfalia del 1648 che chiusero la fase violentissima delle guerre di religione. Con questo e con alcuni successivi trattati nacque lo Jus Publicum Europaeum, il quale costituì «un capolavoro della ragione umana» per la sua capacità di porre fine ai «massacri delle guerre tra fazioni religiose» e limitando i conflitti alla forma della «semplice guerra tra gli Stati» come guerra circoscritta e guidata da regole che evitassero il coinvolgimento distruttivo delle popolazioni. L’esito fu costituito dal «fatto sorprendente che per due secoli non si ebbe sul territorio europeo nessuna guerra di annientamento» (Carl Schmitt, Il Nomos della terra, Adelphi 1991, p. 177).
Poi arrivarono i ‘valori’, vale a dire il ritorno a guerre combattute in nome di principi assoluti e sacri. Nel Medioevo tali principi si riferivano alle verità teologiche. Con la Rivoluzione francese e le guerre napoleoniche essi si fondavano su principi etici, riassunti nella formula dei ‘diritti dell’uomo’.
I.
Le violente reazioni polemiche con cui politici, intellettuali e giornalisti occidentali di ogni colore ideologico (ad eccezione di qualche minoranza) hanno replicato alle accuse di genocidio allo stato israeliano, sono la conferma che tali accuse – più che fondate – toccano un nervo scoperto, in quanto mettono in questione un mito alimentato e condiviso da tutti i regimi liberal-democratici euroatlantici. Per inciso, che le accuse siano più che fondate non è testimoniato solo dal numero spaventoso di vittime di ogni età e sesso provocate dal terrorismo aereo praticato dal governo di estrema destra di Netanyahu, ma da quei rari intellettuali israeliani che, come Ilan Pappé (1), denunciano da tempo le pratiche criminali del regime sionista.
Di più: lo conferma il significato originario – prima che venisse mistificato da decenni di propaganda ideologica – del termine genocidio, coniato, come ricorda lo storico Leonardo Pegoraro (2), dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin negli anni della Seconda Guerra mondiale. Costui definì genocidio la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico, non riferendosi solo all’annientamento fisico delle vittime, ma anche alla soppressione delle istituzioni di autogoverno, alla distruzione della struttura sociale e della classe dirigente, al divieto di usare la propria lingua, alla privazione dei mezzi di sussistenza, alla criminalizzazione di una determinata fede religiosa, all’umiliazione e la degradazione morale. Mi pare chiaro che molti, se non tutti, questi criteri si applicano ai crimini che vengono quotidianamente perpetrati contro la popolazione palestinese.
Partendo da tale definizione, Pegoraro contesta la testi “unicista” che attribuisce alla Shoah l’attributo di unico evento storico suscettibile di essere definito genocidio. La cultura e la prassi genocidaria, argomenta, esistono fin dalla più lontana antichità, come testimoniato dall’Iliade e (lupus in fabula) dall’agghiacciante invito divino del Deuteronomio che recita: “Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei” (20:16-17).
La riflessione dell'analista italo-inglese sulla rimozione del candidato Călin Georgescu dalle presidenziali rumene
L’alleanza di estrema destra rumena AUR è favorita nei
sondaggi in vista delle presidenziali di maggio. Un exploit
che si
è verificato dopo le manovre dei palazzi di Bucarest, che
hanno estromesso dalla corsa elettorale il candidato filo
Trump Călin Georgescu.
Il 9 marzo, la Commissione elettorale rumena ha escluso
Georgescu, sovranista e critico dell’Unione Europea, dalle
imminenti elezioni. Un fatto
senza precedenti, che segue un evento altrettanto
straordinario: l’annullamento, lo scorso novembre, a opera
della Corte costituzionale rumena,
del primo turno delle stesse elezioni presidenziali, in cui
Georgescu era risultato il vincitore. Krisis ha chiesto
all’analista Thomas Fazi,
acuto osservatore delle dinamiche all’interno dell’Unione
Europea, di commentare la débâcle rumena. Secondo Fazi, il
caso
rumeno segna un pericoloso precedente che potrebbe ripetersi
in altri Paesi. E in altri schieramenti politici.
«Il rigetto della candidatura di Călin Georgescu in Romania è un precedente che sarebbe inquietante anche se non avesse visto la partecipazione attiva della UE e di alcuni dei principali governi europei». Non usa mezzi termini, Thomas Fazi. Il saggista italo-inglese, figlio dell’editore Elido Fazi, 42 anni, acuto osservatore delle dinamiche politiche e della sovranità nazionale all’interno dell’UE, commenta quanto sta accadendo in Romania. Il 9 marzo, la Commissione elettorale di Bucarest ha estromesso dalle nuove elezioni presidenziali del 4 maggio Călin Georgescu, il candidato critico dell’Unione europea favorito nei sondaggi.
L’Europa è il cuore di tenebra dell’orrore che chiamiamo storia, scrive Franco Berardi Bifo in questo prezioso esercizio di critica e autocritica
Credevamo
Credevamo che fosse finito l’orgoglio demente
delle bandiere
al
vento
Credevamo che
fossero passate di moda
quelle parole idiote
che trasformano
gli imbecilli in assassini.
Credevamo si
fosse esaurita
la passione di
distruggere per poi ricostruire,
e la passione di
uccidere per non morire.
Credevamo che
nie wieder significasse “Mai più”
e non “fino alla prossima volta”.
Credevamo che il
genocidio
fosse cosa di
un’epoca passata.
E per alcuni è più uguale che per altri. Per scoprirlo basta leggere il cosiddetto Joint White Paper for European Defence, appena pubblicato dalla Commissione Europea e dall’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
La distruzione di vite umane e la violenza bruta sono l’aspetto più visibile e drammatico di un conflitto, di ogni conflitto, ma a fianco di ciò che accade alla luce del sole si agitano dinamiche più profonde, che contribuiscono a spiegare perché ciclicamente il vento del bellicismo più sguaiato torna a fare mostra di sé. È notizia di pochi giorni fa l’appello lanciato dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ad armarsi e partire, rimettendo (parzialmente) in discussione il dogma dell’austerità di bilancio per ‘riarmare l’Europa’. Adesso il White Paper permette di chiarire con più precisione i contorni di questa operazione e, soprattutto, di fare luce su quali interessi economici si muovano e soffino sul fuoco della guerra alle porte.
Il documento si apre facendo sfoggio di retorica di grana grossa – siamo circondati dalla minaccia rappresentata da Stati autoritari come Russia e Cina; c’è la prospettiva di un conflitto su larga scala all’orizzonte – e provando a convincere il lettore che il riarmo auspicato è negli interessi di tutta la popolazione europea, poiché il nostro stile di vita e le nostre prospettive di prosperità sono messe a repentaglio dall’incertezza causata dalla rottura dell’ordine internazionale e dalle minacce esterne.
E’ evidente ormai anche ai meno svegli, come l’iniziativa a piazza del Popolo di sabato scorso, promossa da Michele Serra, pagata a quanto pare dal sindaco PD Gualtieri e gestita dagli armieri di Stellantis che possiedono La Repubblica e la Leonardo, sia stata una kermesse tutta a vantaggio del riarmo e dell’allarmismo bellico. Un’allerta del tutto creato ad arte (la Russia non ha né interesse, né intenzione di invadere l’Europa…) e che abbisogna di mobilitazioni popolari e quindi di retorica. Il riarmo che riguarderà non un esercito europeo comune ma i singoli stati, vede già pericolosissimi 1000 mld di euro in Germania e la proposta di 800 mld di euro fatta dagli euroburocrati per conto della Von Der Leyen, che significa consegnare alla finanza rapace con capitali di rischio i soldi dei risparmiatori europei, ma soprattutto tagli feroci ai servizi più essenziali per la cittadinanza come la sanità, l’istruzione, le opere pubbliche di manutenzione del territorio, ecc.
Sulla sfilata oscena di nani e ballerine di regime in quota PD, ho già scritto su Carmilla qui. Aggiungo solo che, come sostiene il Marrucci su Ottolina tv, il rispolvero del Manifesto di Ventotene, mai considerato per la costruzione della gabbia europea e concentrato di elucubrazioni socialisteggianti più vicine alla massoneria fabiana che a una visione pur dignitosa di un azionismo antifascista, è la foglia di fico di questa congerie di pacifinti guerrafondai piddini, completamente allineati all’opzione GB-Macron-Kallas di escalation bellica, salvo alcuni timidi distinguo della Schlein che nel partito conta come il due di coppe quando briscola è bastoni. Per cui di tale manifesto e delle gite dannunziane a Ventotene ce ne frega il giusto.
Grazie professore di averci concesso questa intervista che si ricollega a quella che ci ha concesso nel marzo del 2023. Parleremo sempre di Ucraina, e più nello specifico delle conseguenze di questa guerra per l’Europa e più in generale sui cambiamenti, repentini e per un certo verso imprevisti, sull’Ordine Mondiale. Inizierei con il fare un bilancio su questi ultimi tre anni di guerra, a partire dall’ingresso delle truppe russe in Ucraina nella cosiddetta “operazione militare speciale”.
Dunque nell’ottica di Mosca l’Ucraina come ex repubblica sovietica rientrava a pieno titolo nelle sfere di influenza della Russia. Dal punto di vista russo era dunque più che legittimo intervenire per riportare all’ordine una “repubblica ribelle“, troppo protesa verso l’Occidente?
Non credo si debba parlare di repubblica ribelle. La preoccupazione della Russia è nata dalla ripetutamente minacciata adesione dell’Ucraina alla NATO. Poi dagli accordi economici tra Unione Europea e Ucraina sullo sfruttamento delle risorse minerarie dell’Ucraina: infatti, nel luglio 2021, l’allora vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič incontrò a Kiev il primo ministro ucraino Denys Shmyhal, per sottoscrivere il partenariato strategico sulle materie prime ucraine. Nel novembre 2021, ad esempio, la European Lithium Ltd. di Vienna (società di esplorazione e sfruttamento minerario) creava una joint venture con la Petro Consulting Llc (azienda ucraina basata a Kiev), che dal governo locale aveva ottenuto i permessi per estrarre il litio da due depositi (Shevchenkivske nel Donetsk e Dobra, nella regione di Kirovograd), vincendo la concorrenza della cinese Chengxin.
Un certo disimpegno da parte degli USA rispetto alla NATO (che non implica affatto l'abbandono dei presidi a stelle e strisce presenti sul territorio europeo: gli Stati Uniti hanno bisogno di un'Europa subalterna e funzionale ai loro interessi nell'area) sta spingendo le élite europee orfane dei Dem in direzione di una risposta che possa coniugare capitalismo finanziario e negazione degli errori madornali fatti da molti anni a questa parte.
Il piano di riarmo, battezzato in maniera ipocrita "Prontezza", produrrà una bolla clamorosa di investimenti e profitti nel campo dell'industria militare. Da un lato si pensa di ravvivare l'economia con un rilancio del settore sicurezza/difesa, poi evidentemente si ambisce - cosa irrealistica oltre ogni misura - a indicare il cammino verso un'unificazione politica dell'UE (o quantomeno al coordinamento stabile di iniziative congiunte prese da un nucleo di paesi volenterosi: una specie di NATO europea come spiegava quel personaggio che è Carlo Calenda in uno scontro rovente con Marco Travaglio nel programma Accordi & Disaccordi). Che l'obiettivo degli eurocrati sia la guerra con la Russia entro il 2030, o che lo spauracchio serva solo al progetto di "rafforzamento" della coesione UE tramite un nemico esterno, in entrambi i casi l'Unione europea si dimostra cieca alle vere esigenze dei cittadini. I leader che ci sgovernano da anni, non possono ammettere di aver perso in Ucraina e di aver sbagliato tutto con le loro politiche di appoggio incondizionato a Zelensky (politiche dettate direttamente da Washington e assimilate integralmente da fanatici inclini alla russofobia permanente), allora si atteggiano a nobili statisti e provano a cogliere l'occasione per tramutare un disastro nel rilancio del sogno europeista.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Cosa c’è di logico o di ragionevole, nella proposta di spendere una cifra enorme per riarmare l’Europa? Niente.
1. Premessa dei “riarmisti”. L’Europa deve essere pronta a difendersi da un nuovo attacco della Russia. Si mente sapendo di mentire. Niente fa pensare a una simile eventualità. La Russia ha un territorio vastissimo e una densità abitativa bassissima. Ha risorse energetiche e materie prime in tali quantità da esportarne una gran parte. Se anche avesse mire imperiali, ma niente lo dimostra, sarebbero ampiamente soddisfatte da ciò che è. Quindi non ha alcun interesse a occupare altre terre, cosa che le arrecherebbe soltanto un mare di guai. Al contrario, ha tutto l’interesse ad avere buoni rapporti con l’Europa, com’è stato fino a ieri, per ragioni economiche del tutto evidenti, e per ragioni di sicurezza, visto che è stata lei vittima di aggressioni da parte di paesi europei in più occasioni e visto che gli impegni solenni di non espansione della Nato sono stati sistematicamente disattesi.
2. Strategie dei “riarmisti”. Prima ipotesi. Costruire un esercito europeo. Lo dicono con grande serietà prestigiosi leader di molti paesi. Siamo nel campo della fantapolitica. L’UE non è uno Stato, non ha una politica estera, non ha una politica fiscale, né una politica industriale, e anche tante altre politiche che dovrebbero essere comuni, tali non sono. Come sia possibile pensare a un solo esercito sotto un unico comando è semplicemente ridicolo.
La mercificazione ai fini della valorizzazione
del capitale invade nuovi campi della vita sociale: le
public utilities, i
beni comuni, le scienze, la formazione dell’opinione
pubblica, il “tempo libero”. La politica tende a sparire –
nel suo
significato proprio di organizzazione democratica della
società ai fini del benessere dei suoi membri. È la
decadenza della democrazia,
cioè della libertà “positiva”: della capacità politica degli
individui, cioè della loro consapevolezza e della
loro possibilità di contare. La devastazione dell’ambiente
umano comporta ovviamente una diminuita capacità di
percepire, spiegare
e contrastare la devastazione dell’ambiente naturale.
Tramontata la politica dell’economia del benessere, è in auge quella del benessere dell’economia: una politica asservita al fine della valorizzazione capitalistica, la quale, tuttavia, non cessa di essere compromessa dalle sue stesse contraddizioni e da un ambiente – umano e naturale – gravemente danneggiato e potenzialmente ostile. La guerra è parte integrante di questo quadro. Le guerre sono tanto confacenti alla “crescita” quanto disastrose per l’ambiente.
Sommario: L’ecologia nel materialismo di Marx, Adattamento o collasso, La società del denaro, Marx nell’epoca neoliberale
* * * * *
La questione ecologica – cioè il problema del rapporto fra l’esistenza umana socialmente organizzata e l’ambiente naturale – s’impone ai nostri giorni in modo sempre più evidente.
A dispetto del titolo, ironico e scanzonato, l’articolo
di Alain Bihr, J.M. Heinrich, R. Pfefferkorn e Y.
Thanassekos
tratta di una questione molto importante: la
guerra NATO/Russia in Ucraina e la sua possibile
sospensione. Diciamo “sospensione”,
non “pace”, perché quest’ultima, intesa come un’organica
conclusione del conflitto, ci sembra largamente
irrealistica,
se non impossibile. Quello che si va prospettando è dunque
un congelamento delle attività belliche, che asseconda gli
interessi
immediati sia della Russia che, sul versante opposto, degli
USA, capofila dello schieramento occidentale.
Il testo collettivo che pubblichiamo ha il pregio di sottolineare alcuni punti importanti, tanto “ragionevoli” quanto mistificati e sommersi dalla martellante propaganda di guerra USA/NATO/UE e dalla russofobia isterica di cui è intrisa: primo fra questi, quello che qualifica la guerra tuttora in corso come un conflitto fra Russia e Nato, e non fra Russia e Ucraina. A seguire, gli autori richiamano alcune delle principali contraddizioni della propaganda occidentale: tale è, ad esempio, la tesi circa la pretesa intenzione di Mosca di invadere i paesi confinanti e addirittura l’Europa occidentale, nonostante, dopo tre anni di guerra, essa sia riuscita a conquistare, con notevoli sforzi, appena un quinto del territorio ucraino. E che dire dello stridente contrasto fra gli strepiti odierni sulla mancanza di sufficienti mezzi militari per contrastare la Russia e la ribadita volontà di sostenere lo sforzo bellico di Kiev affinché riconquisti i territori perduti?
Il ReArm Europe/Readiness 2030 nei fatti supporta un nazionalismo militare estremo ed evidenzia il ri-emergere delle forze centrifughe europee finora sopite dall'ombrello statunitense e dalla guerra fredda. Ora l’Europa si risveglia come un insieme di singole potenze, che potenze non sono più e la cui reputazione non è certo adamantina fuori dai propri confini
Qual è la
realtà della reazione “europea” al veloce cambiamento impresso
dalla Casa Bianca alle relazioni internazionali?
Ciò che emerge principalmente è un’incoerenza generale tra le intenzioni dichiarate e la realtà delle posizioni e dei programmi. Questa sorta di dissonanza cognitiva riguarda tutte le opzioni politiche presenti in Europa. Un europeismo che supporta politiche nazionaliste contrasta un nazionalismo operativamente nemico della propria sovranità nazionale, mentre i pochi pacifisti espongono argomenti sparsi e poco pertinenti.
Gli Stati europei sembrano risvegliarsi, dopo ottant’anni di pace, in un mondo in cui sono poco rilevanti, senza rendersi conto di quanto effettivamente lo siano.
Consideriamo per ora soltanto l’aspetto economico. La quota del prodotto lordo europeo nel 2024 è scesa a un modesto 14% rispetto a quella mondiale. Il fatto che gli Stati Uniti discutano apertamente di limitare le proprie basi militari all’emisfero occidentale, ritirandosi quindi da Europa e Asia, non è una boutade dell’amministrazione Trump. Rappresenta un cambiamento degli equilibri di potenza. La stessa quota USA di prodotto lordo è oramai solo del 17% (Stephen Peter Rose, “A Better Way to Defend America”, Foreign Affairs, 14 marzo 2025).
Anche se la potenza economica è soltanto un aspetto della potenza degli Stati, queste derive strutturali cambiano i loro interessi, il loro peso relativo e la sostenibilità delle loro politiche di potenza. L’amministrazione Trump è oggi un riflesso di una deriva strutturale preesistente a cui aderisce in modo pericoloso e imprevedibile.
Stiamo vedendo gli effetti della fine del breve e disastroso “momento unipolare” seguito all’epoca della guerra fredda (John J. Mearsheimer, “Bound to Fail: The Rise and Fall of the Liberal International Order”, International Security, Spring 2019).
Ci chiedevamo a Villa Paradiso perché così tanto livore verso una casa di quartiere che ha ospitato iniziative d’ogni tipo, persino due primarie del PD. Hanno escogitato persino la storiella dei poveri anziani nel quartiere e che occorreva un “welfare di prossimità” (sai cosa le frega degli anziani alla junta cemetificatrice…), per terminare una storia pluridecennale di questo luogo, come opera di killeraggio ad hoc verso gli ultimi gestori, cioè noi.
Certo che lo sapevamo, che dava fastidio una controinformazione libera sulla guerra in atto e a pezzi dall’Ucraina alla Palestina, sentendo le altre voci e non solo la propaganda di regime. Ma ora il motivo, ossia le acque putride in cui il PD si è inoltrato con il suo atlantismo a prescindere, è emerso in tutto il suo perfido fulgore. Tanta censura fatta dalla Picierno, vicepresidente del Parlamento Europeo, verso ogni voce dissenziente, tacciata di comodo e inappellabile “putinismo”, si spiega con una scelta di campo che non è nell’interesse dei cittadini ma di lobbies che operano a Bruxelles.
Follow the money, portale di inchieste giornalistiche, ha scoperto la poca trasparenza della Picierno nell’opera di lobbyng dell’Israel Defense & Security Forum (1), composta da 35mila di ex militari e riservisti israeliani di estrema destra, interessati a perorare la causa e il business sionista in Europa.
La brusca affermazione di Heidegger nell’intervista allo «Spiegel» del 1976: «Solo un Dio ci può salvare» ha sempre suscitato perplessità. Per intenderla è innanzitutto necessario restituirla al suo contesto. Heidegger ha appena parlato del dominio planetario della tecnica che nulla sembra in grado di governare. La filosofia e le altre potenze spirituali – la poesia, la religione, le arti, la politica – hanno perduto la capacità di scuotere o comunque di orientare la vita dei popoli dell’Occidente. Di qui l’amara diagnosi che esse «non possono produrre alcun cambiamento immediato dell’attuale stato del mondo» e l’inevitabile conseguenza secondo cui «solo un Dio ci può salvare». Che in questione sia qui tutt’altro che una profezia millenaristica è confermato subito dopo dalla precisazione che dobbiamo prepararci non solo «per l’apparizione di un Dio», ma anche e piuttosto «per l’assenza di un Dio nel suo tramonto, per il fatto che noi andiamo a fondo davanti al Dio assente».
Va da sé che la diagnosi di Heidegger non ha perduto oggi nulla della sua attualità, è, anzi, se possibile, ancora più inconfutabile e vera. L’umanità ha rinunciato al rango decisivo dei problemi spirituali e ha creato una sfera speciale in cui confinarli: la cultura. L’arte, la poesia, filosofia e le altre potenze spirituali, quando non sono semplicemente spente ed esaurite, sono confinate nei musei e in istituzioni culturali di ogni specie, dove sopravvivono come svaghi e distrazioni più o meno interessante dalla noia dell’esistenza (e spesso non meno noiose).
Se la politica moderna si è esaurita, cosa ci ha consegnato la postmodernità? È su questa domanda che s'interroga Andrea Rinaldi nella recensione a Iperpolitica (Not Nero Editions) di Anton Jäger. Invece di crogiolarci nei rimpianti, ci dice l'autore, è fondamentale indagare la nostra società e pensare a un esperimento di politica alternativa
Il sonno
della ragione, è risaputo, genera mostri. Il sonno della
ragione politica ci ha recentemente consegnato l’uomo più
ricco del mondo che saluta il suo pubblico con un braccio
teso, in un'esplicita posa nazi-fascista.
A sonnecchiare non è una supposta razionalità assoluta dei buoni, ma la politica per come l’abbiamo intesa nel Novecento. È difatti auto-evidente che il miliardario sotto acidi non sia simile neanche un po’ ai noti dittatori europei a cui fa riferimento. L'avvento del potere di Hitler e Mussolini è avvenuto nel contesto della politica di massa e di una stratificazione sociale meno rigida, cosa che ha permesso a due «ignoti» di arrivare a governare due imperi. Oggi è invero impossibile pensare a uomini di simile influenza che nascono dal nulla della classe lavoratrice: la politica degli attuali anni Venti è legata indissolubilmente al potere economico, alla sua riproduzione e alla sua idolatria. Musk è difatti il figlio dello sfruttamento, della speculazione e del peggior colonialismo occidentale, da cui ha ereditato non solo un capitale senza limiti e un’istruzione d’élite, ma anche la posizione privilegiata da uomo bianco naturalizzato statunitense. E questa posizione la vediamo plasticamente nella sua idea di mondo: razzista, repressiva, liberista, anti-statale, imperialista. Un'idea funzionale ai suoi affari, che confeziona per il grande pubblico richiamando categorie della vecchia politica, come il fascismo.
Riprendendo il saluto romano, l’altro aspetto da sottolineare – di questa iconografia politica dei nostri tempi – è che se Mussolini e poi Hitler avevano costruito il loro saluto su una storia, una simbologia, un’organizzazione, un’ideologia politica, Musk costruisce il suo gesto sul nulla, sull’impeto lisergico di un momento, come un semplice meme, una battuta tra amici: la provocazione di un ragazzino edgy che vuole irritare il professore di sinistra.
È tutto qui, in questa orrenda immagine, il nostro problema. Il nazi-fascismo ci disgusta e ci fa orrore e in questa fase sottolinea ancora, una volta, la morte di una politica fatta di organizzazione, progetto, conflitto, classe, lotta.
È
ormai chiaro come la luce del giorno. Gli attuali dirigenti
europei sono sotto l’effetto di una duplice e devastante
sconfitta. Hanno perso
la guerra contro la Russia, sostenuta con il sangue ucraino
e in appoggio subalterno agli USA. E ora si
trovano umiliati da una nuova
amministrazione americana, che ha cambiato strategia e li
tiene lontani da ogni trattativa indirizzata alla pace.
Ma le élites del Vecchio Continente hanno preso atto di un’altra e certo più grave sconfitta: l’Unione Europea ha fallito nei sui compiti fondamentali. Il Rapporto Draghi del 2024 ne costituisce la piena certificazione: gli obiettivi di successo competitivo sul piano economico e tecnologico non sono stati raggiunti. USA e Cina ci distanziano di 10 anni. E il bilancio complessivo degli ultimi trent’anni è drammatico: le disuguaglianze sociali in Europa si sono ingigantite; è dilagato il lavoro precario; ampie fasce di ceto medio e popolari si sono impoverite; molte conquiste di welfare del dopoguerra sono state colpite; gli spazi di partecipazione democratica si sono ristretti; i partiti politici di massa sono degradati a cordate elettorali; le formazioni di destra ormai contrastano quasi alla pari (quando non sono già al governo) le forze politiche che avevano fondato l’Unione. La democrazia è minacciata in tutto il Continente.
Di fronte a tale scenario i ceti dirigenti UE cercano di sottrarsi alle loro responsabilità infilandosi in un altro e più devastante errore: il programma ReArm Europe. In verità il progetto persegue vari fini che per brevità qui non indico. Ma esso tenta di fondare la propria legittimità su due colossali menzogne: la Russia ha mosso guerra all’Ucraina per le sue mire imperiali; la Russia minaccia di invaderci. Dunque, documentare la falsità di questa narrazione illumina il progetto di riarmo in tutta la sua fallacia, quale tentativo di una élite colpevole, subalterna e inadeguata, di conservare il potere malgrado il proprio fallimento. Appare ormai evidente che l’Europa può avviarsi a un nuovo corso solo attraverso l’emarginazione del ceto politico che, dopo trent’anni perduti, vuole sfuggire alle proprie responsabilità trascinandoci in una strada di immiserimento sociale e d’imbarbarimento civile. Esponendoci al rischio di una guerra mondiale.
Ricevo e pubblico volentieri questo articolo dell'amico Piero Pagliani che tenta di analizzare lo a dir poco fluido scenario geopolitico globale che si prospetta dopo la sconfitta dell'Ucraina e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Uno scenario che vede da un lato l'arduo tentativo degli Stati Uniti di porre fine a una guerra che loro stessi hanno provocato, dall'altro un'Europa sull'orlo di una crisi di nervi che vaneggia di riarmo. (ps. Il titolo è dell'autore il sottotitolo è mio) [Carlo Formenti]
Dopo un primo giro di dichiarazioni
d'assaggio tra Usa e Russia (Usa: i negoziati sono iniziati.
Russia: non ne abbiamo notizia. Usa: Putin accetterà la nostra
proposta di tregua.
Putin: non accetteremo nessuna tregua se non si eliminano alla
radice i motivi della guerra, eccetera) si era arrivati
all'accordo per un cessate il
fuoco di 30 giorni che riguardava però solo le infrastrutture
energetiche. Il Cremlino lo aveva evidentemente accettato pur
di concedere uno
spazio di manovra al nuovo inquilino della Casa Bianca (e al
suo incoercibile narcisismo) per non indebolirlo all'interno e
questa sospensione non
cambiava nulla per la SMO (Operazione Militare Speciale) che
andava avanti spedita.
Due giorni dopo ci avrebbe pensato Zelensky, imbeccato verosimilmente da Londra, il suo custode più stretto, a infrangere l'accordo bombardando un hub energetico in Russia ... ma di proprietà di compagnie statunitensi. Due giorni prima Steve Witkoff, il negoziatore americano, aveva annunciato che in Ucraina ci sarebbero state finalmente le elezioni presidenziali. Trump (il Trump collettivo, bisogna sempre pensare in questi termini) aveva capito che il cocainomane ucraino controllato su un lato dall'MI6 e sull'altro dai neonazisti locali doveva essere definitivamente estromesso dai giochi.
Io penso che in quel momento Zelensky sia diventato veramente un “dead man walking”, come lo definisce l'analista militare russo-statunitense Andrei Martyanov: «Persone come lui vengono eliminate». Ne sono convinto da tempo, per un semplice motivo: sa troppe cose, conosce troppe schifezze e non si lascia in giro chi sa troppo ed è diventato inutile.
Qui non esiste più nessun confine tra legalità e illegalità, tra proibito e ammesso. Nelle alte sfere dell'establishment statunitense e occidentale girano soldi e potere in misure colossali con un controllo democratico che da decenni è ridotto al lumicino.
Andrebbe fatta un po’ di chiarezza sul Piano Riarmo-Europa, che è stato ribattezzato Prontezza 2030 per volontà dell’italiana Meloni e del socialista spagnolo Sánchez e che nella sostanza resta quello che è: l’instaurazione di un’economia di guerra, grazie alla quale gli Stati europei mobilitano 800 miliardi di euro contro i due “nemici strategici” che sono Russia e Cina, oltre a Corea del Nord, Iran, parti imprecisate dell’Africa.
La parola ReArm scompare dal titolo, ma non dal testo, scritto da due baltici: l’estone Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera, e il lituano Andrius Kubilius, commissario alla Difesa.
Le minacce russe e cinesi sono molteplici, stando al Libro Bianco Ue: è in pericolo “la libertà d’azione nell’aria e nello spazio”; crescono le “minacce ibride con attacchi informatici, sabotaggi, interferenze elettroniche nei sistemi di navigazione e satellitari, campagne di disinformazione, spionaggio politico e industriale, armamento della migrazione”. Armamento della migrazione è orrenda traduzione di Weaponisation of Migration, migrazione usata come arma dai summenzionati nemici.
Come ai tempi della guerra antiterrorista globale scatenata dopo l’attentato al Qaeda del 2001 (ma pensata anni prima), il nemico esistenziale “minaccia il nostro stile di vita e la capacità di scegliere il nostro futuro attraverso processi democratici”. Quale stile? Se è lo stile basato sulla giustizia sociale e il pluralismo delle idee, il Riarmo lo squassa: il Welfare sarà ancor più decurtato e agli apparati militari-industriali sarà affidata la cosiddetta way of life.
Questa è la risposta all’articolo uscito il 26 marzo sul Manifesto, a firma di Giuliano Santoro, che il nostro direttore editoriale ha inviato alla direzione del giornale, la quale ha deciso di non pubblicarla. Bell’esempio di democrazia e pluralismo, non c’è che dire!
Caro Direttore,
ti chiedo ospitalità per alcune puntualizzazioni sull’articolo No alla follia bellica: il M5S lancia la piazza e le mozioni sul riarmo, firmato da Giuliano Santoro e pubblicato in data 26 marzo.
Si tratta di un articolo malevolo e pieno di pregiudizi, banalizzazioni e semplificazioni. Associare, seppur indirettamente, me e la Fionda (la rivista che dirigo insieme ad Alessandro Somma), a Vannacci e a Casa Pound è profondamente scorretto, perché si tratta di una falsificazione allusiva, che confonde le acque ed evita di confrontarsi seriamente con le analisi e le idee che proponiamo.
Il tema della sovranità è di ben altra portata rispetto al cosiddetto “sovranismo”: ridurre la prima a quest’ultimo è intellettualmente risibile. La sovranità democratica è scolpita nell’articolo 1 della Costituzione italiana: vorrà dire qualcosa? Il concetto di sovranità, senza il quale la storia dello Stato moderno non è neppure concepibile, e che indica l’esistenza politica di una collettività, la sua indipendenza, deve essere innanzitutto conosciuto e compreso.
È tempo di un
sano e impietoso esame dei tanti lati oscuri della storia
dell’Unione, preludio indispensabile per una azione politica
autonoma. Ogni
riferimento alla Cina e al nascente universo dei Brics è
voluto. Tutto il resto è noia, peggio complicità.
Ci sono due modi con cui usualmente si parla dell’integrazione europea, delle sue finalità, del suo presente, del suo futuro. Un primo modo è quello di demonizzare eventi e vicende che ne sono all’origine. Un secondo è quello di monumentalizzare quegli eventi e quelle vicende. Approcci entrambi sbagliati, forieri di scelte improvvide. Dovrò per forza di cose confrontarmi con entrambi questi due approcci ideologici, ma mi sforzerò di farne venire alla luce un terzo: storicizzare sempre il discorso, parlare dell’Europa reale, dei suoi lati oscuri non meno che dei suoi lati luminosi.
Grande è la confusione sotto il cielo
Oggi questo approccio non è di moda. Grande è la confusione sotto il cielo. E, con buona pace del compagno Mao, la situazione non è affatto eccellente. A noi tocca fare opera di pulizia nell’oceano di propaganda, di bugie e veleni che vengono quotidianamente sparsi. Ci tocca, se desideriamo realmente costruire un’Unione che i popoli europei possano sentire come loro.
Mettetevi comodi, siate pazienti. Alcuni resteranno delusi. Parlerò male della destra, ma sarò critico e sferzante anche con la sinistra. Con la sinistra che flirta con l’Europa retorica, con l’Europa delle anime belle al centro delle fintamente letterarie rappresentazioni di queste settimane. L’Europa da talk show, da cabaret. L’Europa che si pone la domanda sbagliata – perché non siamo stati invitati da Trump al tavolo delle trattative tra Russi e Ucraini? – invece di chiedersi perché non siamo stati noi a convocare quel tavolo il giorno dopo l’inizio della sciagurata operazione militare speciale di Vladimir Putin.
Howard Zinn, nato nel 1922 e morto nel 2010, è stato uno scrittore radicale americano newyorkese di inclinazioni socialiste libertarie e provenienza da una famiglia di immigrati ebrei europei (dall’Austria e dalla Siberia). Dagli anni Sessanta prese parte attivamente al movimento per i diritti civili, sia nel ruolo di docente di storia sia in quello successivo di docente di scienze politiche. Prese posizioni coraggiose e personalmente costose contro la discriminazione razziale e la guerra del Vietnam[1].
Il suo testo più famoso, Storia del popolo americano da 1492 a oggi[2], è uno straordinario affresco dell’intera storia degli Stati Uniti, fino ai primi anni di Bush junior, descritta sotto il profilo della storia popolare. Ovvero della storia delle lotte e mobilitazioni popolari e delle diverse forme di oppressione che sono state praticate nella storia del paese. È quindi, e soprattutto, una storia dei dispositivi di controllo sociale e di formazione e dominio delle élites e di formazione e sfruttamento di sempre nuove ineguaglianze e colonie interne. Anzi di controllo proprio rendendo funzionali le ineguaglianze interne tramite il sistematico spostamento su altro della natura economica di queste.
La storia prende ovviamente le mosse dai viaggi di Colombo, soprattutto del secondo viaggio la cui complessa organizzazione e l’alto costo (ben 17 navi) rendeva necessario garantire l’immediato profitto. Ovvero, chiaramente, aprire un canale di approvvigionamento di schiavi e oro. Colombo tenta di adempiere al mandato, in un paese ricchissimo di risorse naturali ma non sviluppato in senso occidentale, soprattutto garantendo i primi. E quindi occupando militarmente Haiti, che viene selvaggiamente sfruttata e nella quale si attua in poco meno di un secolo un vero e proprio assoluto sterminio. Una popolazione locale stimabile in 250.000 abitanti viene ridotta praticamente a zero, grazie a uno spietato ipersfruttamento in piantagioni intensive.
Cosa dice veramente un testo che governo e opposizione tirano ciascuno dalla sua parte e in molti difendono perlopiù, almeno a giudicare da quel che dicono, senza averlo letto né contestualizzato
In
un’esilarante scena di “Brian di Nazareth” il protagonista
del film, fintosi predicatore per sfuggire ai soldati
romani che lo
considerano un pericoloso militante antimperialista,
messosi in salvo, cerca di seminare anche la piccola folla
assiepatasi per seguire il suo
strampalato sermone. Rincorrendolo questi suoi “adepti”
trovano un sandalo perso per strada dal fuggitivo, si
convincono che sia un
segnale del “maestro” e proseguono in corteo agitando aste
e bastoni, in cima ai quali hanno legato i propri sandali,
improvvisamente
assurti a simbolo di una nuova fede.
La polemica politica del giorno ricorda la scena dei Monty Python: la Meloni inciampa su una citazione ad capocchiam del Manifesto di Ventotene, che l’opposizione raccoglie e trasforma in simbolo delle virtù repubblicane e occasione di imbastire una polemica surreale buona ad allontanare l’attenzione delle cose importanti. A migliaia insorgono a difesa di un libello che, a giudicare da quel che dicono, perlopiù non hanno letto; il dibattito politico riscopre Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e, dopo la manifestazione convocata da Serra con un post riservato agli abbonati di Repubblica, arriva pure il flash mob europeista su un’isoletta raggiungibile dalla terraferma con due corse di aliscafo al giorno o imbarcazione privata: dalla vocazione maggioritaria alla vocazione skipper.
Ciascun contendente, naturalmente, tira Spinelli e Rossi dalla sua parte sorvolando sui due punti fondamentali di quel testo che tutti citano: il modello sociale che vi è delineato e il contesto storico internazionale in cui nasce e si sviluppa il movimento federalista europeo. Perché, scriveva nel 1915 uno che la rivoluzione due anni dopo l’avrebbe fatta sul serio, “se la parola d’ordine degli Stati Uniti repubblicani d’Europa, collegata all’abbattimento rivoluzionario delle tre monarchie europee più reazionarie, con la monarchia russa alla testa, è assolutamente inattaccabile come parola d’ordine politica, resta sempre da risolvere la questione del suo contenuto e significato economico” (Lenin, “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, 1915).
Alla Commissione Europea ci hanno spiegato che dobbiamo armarci fino ai denti perché incombe la minaccia di un’invasione da parte della prima o seconda potenza nucleare del pianeta.
Poi ci hanno raccomandato di tenere scorte necessarie per 72 ore (perché 72 e non 48 o 96? Boh.)
Fino a questo punto c’erano tutti gli elementi per credere che stessero prendendo maledettamente sul serio una minaccia che il buon senso comune reputa del tutto remota.
Ma poi, ecco che arriva un video.
Protagonista, da attrice consumata, la Commissaria Europea Hadja Lahbib (Commissaria specificamente per la parità, la preparazione e la gestione delle crisi, dunque non una che passava di là).
Il video è assolutamente sconcertante.
Il tono è lieve, salottiero, con un sottofondo da piano bar con aperitivo; si succedono umorismo e garbatezza; e si squaderna un incredibile pressapochismo in tutto ciò che viene detto (se qualcuno avesse la tentazione di prenderlo sul serio).
Infatti – esattamente come nel caso di minaccia bellica – se qualcuno volesse davvero “prepararsi a una crisi” deve prepararsi a una crisi specifica.
La politica moderna si è fondata su una concezione lineare del tempo, ereditata dalla filosofia illuminista e dalle teorie del progresso. Questo modello, che prevedeva un’evoluzione costante e razionale delle istituzioni e delle società, ha dominato il pensiero politico occidentale fino alla fine del XX secolo. Tuttavia, la contemporaneità ha introdotto un elemento di caos che sembra aver dissolto la linearità temporale, sostituendola con una frammentazione dei significati e delle narrazioni. La questione cruciale, dunque, non è scegliere tra il progresso e il disordine, ma comprendere chi sta utilizzando il caos e con quale finalità.
Il concetto di progresso, dalla Rivoluzione Francese alla modernizzazione industriale, implicava un’idea di continuità e di miglioramento strutturale. Anche le ideologie novecentesche, pur con esiti diversi, hanno condiviso questa premessa: il marxismo nella sua teleologia storica, il liberalismo nella sua fiducia sconsiderata nel mercato. Tuttavia, con l’avvento della globalizzazione, dell’accelerazione tecnologica e della crisi degli stati-nazione, la linearità storica si è incrinata. Il tempo politico appare oggi discontinuo, soggetto a un’accelerazione incontrollata, mentre il discorso pubblico si frammenta in una molteplicità di narrazioni contraddittorie.
Incredibilmente Die Linke, l'unico partito di sinistra tedesco che ha raggiunto il quorum del 5 per cento e ha rappresentanti nel parlamento, si è unito ai guerrafondai nella loro rincorsa all'inutile riarmo.
Questi ultimi giorni sono storici per la Germania, non in senso positivo.
Il parlamento tedesco ha modificato il freno costituzionale al debito per consentire enormi spese militari illimitate, indipendentemente da quanto profondamente porteranno il bilancio federale in rosso.
Ma la cosa gravissima è che nessuna spesa sarà destinata a investimenti in ospedali, assistenza, istruzione, asili nido, pensioni, tecnologie verdi, insomma allo Stato sociale.
In questi giorni il parlamento tedesco ha stabilito che quando si tratta di finanziare la vita e la felicità dei cittadini, l’austerità resta fondamentale perché sancita nella costituzione tedesca. Al contrario gli investimenti nella morte sono stati resi possibili e illimitati senza più la morsa costituzionale dell’austerità.
La ragione di fondo per questo cambiamento sconvolgente alla Costituzione tedesca è semplice: i produttori di automobili tedeschi sono ormai troppo poco competitivi.
Non riescono più a vendere con profitto le loro auto né in Germania né all’estero.
I.
Le violente reazioni polemiche con cui politici, intellettuali e giornalisti occidentali di ogni colore ideologico (ad eccezione di qualche minoranza) hanno replicato alle accuse di genocidio allo stato israeliano, sono la conferma che tali accuse – più che fondate – toccano un nervo scoperto, in quanto mettono in questione un mito alimentato e condiviso da tutti i regimi liberal-democratici euroatlantici. Per inciso, che le accuse siano più che fondate non è testimoniato solo dal numero spaventoso di vittime di ogni età e sesso provocate dal terrorismo aereo praticato dal governo di estrema destra di Netanyahu, ma da quei rari intellettuali israeliani che, come Ilan Pappé (1), denunciano da tempo le pratiche criminali del regime sionista.
Di più: lo conferma il significato originario – prima che venisse mistificato da decenni di propaganda ideologica – del termine genocidio, coniato, come ricorda lo storico Leonardo Pegoraro (2), dal giurista polacco di origine ebraica Raphael Lemkin negli anni della Seconda Guerra mondiale. Costui definì genocidio la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico, non riferendosi solo all’annientamento fisico delle vittime, ma anche alla soppressione delle istituzioni di autogoverno, alla distruzione della struttura sociale e della classe dirigente, al divieto di usare la propria lingua, alla privazione dei mezzi di sussistenza, alla criminalizzazione di una determinata fede religiosa, all’umiliazione e la degradazione morale. Mi pare chiaro che molti, se non tutti, questi criteri si applicano ai crimini che vengono quotidianamente perpetrati contro la popolazione palestinese.
Partendo da tale definizione, Pegoraro contesta la testi “unicista” che attribuisce alla Shoah l’attributo di unico evento storico suscettibile di essere definito genocidio. La cultura e la prassi genocidaria, argomenta, esistono fin dalla più lontana antichità, come testimoniato dall’Iliade e (lupus in fabula) dall’agghiacciante invito divino del Deuteronomio che recita: “Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Hittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei” (20:16-17).
La riflessione dell'analista italo-inglese sulla rimozione del candidato Călin Georgescu dalle presidenziali rumene
L’alleanza di estrema destra rumena AUR è favorita nei
sondaggi in vista delle presidenziali di maggio. Un
exploit che si
è verificato dopo le manovre dei palazzi di Bucarest,
che hanno estromesso dalla corsa elettorale il candidato
filo Trump Călin Georgescu.
Il 9 marzo, la Commissione elettorale rumena ha escluso
Georgescu, sovranista e critico dell’Unione Europea,
dalle imminenti elezioni. Un fatto
senza precedenti, che segue un evento altrettanto
straordinario: l’annullamento, lo scorso novembre, a
opera della Corte costituzionale rumena,
del primo turno delle stesse elezioni presidenziali, in
cui Georgescu era risultato il vincitore. Krisis ha
chiesto all’analista Thomas Fazi,
acuto osservatore delle dinamiche all’interno
dell’Unione Europea, di commentare la débâcle rumena.
Secondo Fazi, il caso
rumeno segna un pericoloso precedente che potrebbe
ripetersi in altri Paesi. E in altri schieramenti
politici.
«Il rigetto della candidatura di Călin Georgescu in Romania è un precedente che sarebbe inquietante anche se non avesse visto la partecipazione attiva della UE e di alcuni dei principali governi europei». Non usa mezzi termini, Thomas Fazi. Il saggista italo-inglese, figlio dell’editore Elido Fazi, 42 anni, acuto osservatore delle dinamiche politiche e della sovranità nazionale all’interno dell’UE, commenta quanto sta accadendo in Romania. Il 9 marzo, la Commissione elettorale di Bucarest ha estromesso dalle nuove elezioni presidenziali del 4 maggio Călin Georgescu, il candidato critico dell’Unione europea favorito nei sondaggi.
E’ evidente ormai anche ai meno svegli, come l’iniziativa a piazza del Popolo di sabato scorso, promossa da Michele Serra, pagata a quanto pare dal sindaco PD Gualtieri e gestita dagli armieri di Stellantis che possiedono La Repubblica e la Leonardo, sia stata una kermesse tutta a vantaggio del riarmo e dell’allarmismo bellico. Un’allerta del tutto creato ad arte (la Russia non ha né interesse, né intenzione di invadere l’Europa…) e che abbisogna di mobilitazioni popolari e quindi di retorica. Il riarmo che riguarderà non un esercito europeo comune ma i singoli stati, vede già pericolosissimi 1000 mld di euro in Germania e la proposta di 800 mld di euro fatta dagli euroburocrati per conto della Von Der Leyen, che significa consegnare alla finanza rapace con capitali di rischio i soldi dei risparmiatori europei, ma soprattutto tagli feroci ai servizi più essenziali per la cittadinanza come la sanità, l’istruzione, le opere pubbliche di manutenzione del territorio, ecc.
Sulla sfilata oscena di nani e ballerine di regime in quota PD, ho già scritto su Carmilla qui. Aggiungo solo che, come sostiene il Marrucci su Ottolina tv, il rispolvero del Manifesto di Ventotene, mai considerato per la costruzione della gabbia europea e concentrato di elucubrazioni socialisteggianti più vicine alla massoneria fabiana che a una visione pur dignitosa di un azionismo antifascista, è la foglia di fico di questa congerie di pacifinti guerrafondai piddini, completamente allineati all’opzione GB-Macron-Kallas di escalation bellica, salvo alcuni timidi distinguo della Schlein che nel partito conta come il due di coppe quando briscola è bastoni. Per cui di tale manifesto e delle gite dannunziane a Ventotene ce ne frega il giusto.
Un certo disimpegno da parte degli USA rispetto alla NATO (che non implica affatto l'abbandono dei presidi a stelle e strisce presenti sul territorio europeo: gli Stati Uniti hanno bisogno di un'Europa subalterna e funzionale ai loro interessi nell'area) sta spingendo le élite europee orfane dei Dem in direzione di una risposta che possa coniugare capitalismo finanziario e negazione degli errori madornali fatti da molti anni a questa parte.
Il piano di riarmo, battezzato in maniera ipocrita "Prontezza", produrrà una bolla clamorosa di investimenti e profitti nel campo dell'industria militare. Da un lato si pensa di ravvivare l'economia con un rilancio del settore sicurezza/difesa, poi evidentemente si ambisce - cosa irrealistica oltre ogni misura - a indicare il cammino verso un'unificazione politica dell'UE (o quantomeno al coordinamento stabile di iniziative congiunte prese da un nucleo di paesi volenterosi: una specie di NATO europea come spiegava quel personaggio che è Carlo Calenda in uno scontro rovente con Marco Travaglio nel programma Accordi & Disaccordi). Che l'obiettivo degli eurocrati sia la guerra con la Russia entro il 2030, o che lo spauracchio serva solo al progetto di "rafforzamento" della coesione UE tramite un nemico esterno, in entrambi i casi l'Unione europea si dimostra cieca alle vere esigenze dei cittadini. I leader che ci sgovernano da anni, non possono ammettere di aver perso in Ucraina e di aver sbagliato tutto con le loro politiche di appoggio incondizionato a Zelensky (politiche dettate direttamente da Washington e assimilate integralmente da fanatici inclini alla russofobia permanente), allora si atteggiano a nobili statisti e provano a cogliere l'occasione per tramutare un disastro nel rilancio del sogno europeista.
La
guerra, per Israele, è molto più di un atto fondativo,
è uno status, una condizione immanente.
Le classi dirigenti sioniste, già molto prima della creazione di Israele, erano consapevoli di rappresentare un corpo estraneo, in Palestina, e solo in virtù della convinzione che quella terra fosse stata promessa loro da dio se ne ritenevano in diritto di occuparla. La consapevolezza di questa estraneità insanabile ha fatto sì che, sin dal primo momento, lo stato ebraico si concepisse – e si attrezzasse – come un organismo plasmato in funzione della guerra. Nella rappresentazione romantica di un socialismo suprematista (riservato cioè ai soli ebrei, escludendo gli arabi) che si realizzava nei kibbutz, il prototipo dell’uomo nuovo era rappresentato – idealmente e iconograficamente – con la zappa e il mitra in spalla. E infatti i primi venticinque anni di Israele sono segnati dalle guerre con i paesi arabi vicini: la guerra del 1948, la guerra di Suez del 1956, la guerra dei sei giorni del 1967 e la guerra del Kippur del 1973.
E se le prime due vedono lo stato ebraico non ancora pienamente assimilato nel sistema di dominio globale statunitense (nel ‘56 fu Washington a imporre lo stop), le successive si svolgono in un contesto che vede Israele non più soltanto come insediamento coloniale europeo, ma come avamposto della potenza egemonica americana.
Da quel momento in avanti, anche grazie ai continui e massicci aiuti statunitensi, la potenza militare israeliana si affermerà come predominante nella regione e, con la guerra del ‘73, si chiude la stagione degli scontri che oppongono Israele ai paesi arabi vicini, mentre si apre quella della Resistenza palestinese, a sua volta segnata da una serie di fasi acute (la guerra del Libano del 1982, la prima e seconda intifada e ripetute guerre nella striscia di Gaza).
A differenza dei paesi arabi, però, che nella prospettiva israeliana costituivano (e in parte costituiscono) una minaccia latente, destinata a manifestarsi ciclicamente, la Resistenza del popolo palestinese si caratterizza – pur all’interno di un andamento oscillante – come una costante, che conoscerà appunto alcune fasi particolarmente acute, ma che non verrà effettivamente mai meno.
Non semplicemente nuovi problemi, ma il problema dei
problemi è emerso con la crisi iniziata nel 2007-2008:
l’incapacità della società contemporanea di affrontare i
problemi, quelli, in particolare, causati dal suo stesso
funzionamento.
Nonostante gli evidenti fallimenti, sfociati
clamorosamente nella crisi, l’ideologia neoliberale
sembra piuttosto rafforzata che indebolita.
Essa, anzi, benché gli interessi a cui conviene siano
solo quelli di una piccola minoranza, tende a
determinare non solo la politica economica,
ma l’assetto complessivo della società, fin nei suoi
fondamenti costituzionali. L’esigenza di riforme
antidemocratiche, tipica
della trasformazione neoliberista, è chiaramente emersa
fin dall’inizio, durante la crisi della fase di
accumulazione del
dopoguerra.
1. Da una crisi all’altra
È emblematico, al riguardo, il Rapporto alla Commissione Trilaterale[1]. Ed è significativo che un prodromo della svolta neoliberista sia stata la politica adottata da Pinochet in Cile dopo il golpe del 1973, il quale valse come monito per qualunque paese si azzardasse a non adottare la tendenza ‘giusta’ per risolvere la crisi. Nel 1978, in Cina, Deng Xiaoping promosse la liberalizzazione – entro un regime politico illiberale. L’affermazione definitiva delle politiche neoliberiste è avvenuta con i governi Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e Reagan negli Stati Uniti d’America nel 1980, orientati in primo luogo ad abbattere il potere conquistato dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. Non senza successo. I bollettini del Bureau of Labor Statistics del Department of Labor degli Stati Uniti documentano la costante diminuzione degli operai e impiegati iscritti ai sindacati: dal 20,1% nel 1983 all’11,1% nel 2014.
In Europa, il
"guerrafondaismo" è arrivato al
suo culmine.Tutto è cominciato con gli Stati Uniti che, sotto
la
presidenza di Trump, hanno deciso che non vale
la pena spendere soldi per proteggere militarmente le
capitali europee dai potenziali nemici.
Trump vuole impedire che gli Stati Uniti paghino la più
parte del finanziamento della NATO - la quale fornisce la
propria potenza militare - e
inoltre vuole mettere fine al conflitto Russia-Ucraina, in
modo da poter così concentrare la strategia imperialista
degli Stati Uniti
sull'emisfero occidentale e sul Pacifico, con l'obiettivo
di "contenere" e indebolire
l'ascesa economica della Cina. La
strategia di Trump ha gettato nel panico le élite
dominanti europee, improvvisamente preoccupate che
l'Ucraina perda contro le forze russe, e
che pertanto tra non molto Putin sarà ai confini della
Germania o - come sostengono sia il premier britannico Keir
Starmer che
un ex capo dell'MI5, sarà «per le strade della
Gran Bretagna». Qualunque possa essere
la validità
di questo presunto pericolo, si è venuta però a creare
l'opportunità, per i militari e i servizi segreti europei,
di
"alzare la posta" e chiedere
così la fine di quei cosiddetti "dividendi di
pace" che
avevano avuto inizio dopo la caduta della temuta Unione
Sovietica, e in tal modo avviare ora il processo di
riarmo. Kaja Kallas, alta
rappresentante della politica estera dell'UE, ha spiegato
il modo in cui vede la politica estera dell'UE: «Se
insieme non siamo in
grado di esercitare abbastanza pressione su Mosca,
allora come possiamo affermare di poter sconfiggere la
Cina?» Per riarmare il
capitalismo europeo, sono stati offerti diversi argomenti:
Bronwen Maddox, direttrice di Chatham
House, il
"think-tank" per le relazioni
internazionali che rappresenta principalmente le opinioni
dello stato militare britannico, se n’é venuto fuori
con l'affermazione che «la spesa per la
"difesa" è il più grande beneficio pubblico per tutti,
poiché essa
è necessaria per la sopravvivenza della "democrazia"
contro le forze autoritarie». Ma c'è un
prezzo da pagare per
difendere la democrazia: «il Regno Unito
potrebbe dover prendere in prestito di più per poter
pagare le spese per la difesa
di cui ha così urgente bisogno.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Come i pretendenti di Penelope, già avvolti dalla fine che
era stata loro preparata, imperversavano nei palazzi
oscuri e ridevano
d’un riso inconsulto,1
così anche costoro [gli esponenti
prototipici della “terza epoca”] ridono avventatamente,
perché nel loro riso è l’arguzia eterna dello spirito
universale che ride di loro stessi. Noi tutti vogliamo
concedere loro questo piacere, e ci guardiamo dal togliere
la benda dai loro
occhi.
J. G. Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, Quinta lezione.
1. Il periodo storico
Quando pubblicò nel 1798 un suo saggio dove Dio veniva fatto coincidere con l’ordinamento morale del mondo, la reazione degli ambienti conservatori e reazionari tedeschi nei confronti di Fichte, considerato allora, insieme con Schelling, il massimo rappresentante dell’idealismo trascendentale, fu immediata e si tradusse in una serie di accuse di ateismo e in un’accesa polemica che, alla fine, costrinse il filosofo a dimettersi dall’università di Jena e a trasferirsi in quella di Berlino. Si chiuse così in modo burrascoso e sfortunato un periodo molto importante della vita di Fichte, caratterizzato tra l’altro dall’incontro, estremamente fecondo per il romanticismo allora in via di formazione, con alcuni dei suoi primi protagonisti, come Novalis e i fratelli Schlegel.
Recatosi quindi a Berlino nel 1799, Fichte entrò in contatto per breve tempo con l’ambiente massonico, mentre duraturo e intenso fu il suo rapporto con i circoli romantici. A questo periodo appartengono tre opere che costituiscono le trattazioni più limpide e accessibili della sua concezione della filosofia e dei suoi rapporti con la vita: La missione del dotto, Lo Stato commerciale chiuso e un’ampia esposizione divulgativa della sua “dottrina della scienza”, il cui titolo prometteva, per l’appunto, un Rapporto chiaro come il sole al gran pubblico sulla vera natura della filosofia più recente. Frutto di conferenze tenute a Berlino nei primi anni dell’Ottocento è l’opera di cui si cercherà di riassumere e commentare le linee portanti in questo articolo: Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters, vale a dire I tratti fondamentali dell’epoca presente (1806). 2
1. Pur nella
cupezza dei tempi, non dovremmo sorprenderci della sorpresa
con cui prendiamo atto dell’instabilità mentale delle nostre
classi
dirigenti. Del resto, queste, ahimè, non sgorgano dal vuoto
cosmico (riflessione questa lecita e sconfortante!), essendo
esse il riflesso di
popolazioni frantumate da deficit etico, propaganda,
intorpidimento televisivo e decadimento mentale da smartphones,
che sta per telefoni
intelligenti! Di tutta evidenza, quando non si ha
la cosa, si ha il nome!
Il congelamento delle masse nella passività, obiettivo primario del ceto dominante, è oggi uno stato di fatto, la sua granitica immodificabilità un valore strategico.
Quanto sopra premesso, facendo leva sull’indulgenza del lettore per la sintesi eccessiva a ossimorico dispetto della lunghezza del testo, si tenterà di gettare uno sguardo sulla Risoluzione Rearm Europe, un testo[1] di profonda cultura strategica con cui il Parlamento europeo il 12 marzo scorso punta a dirottare verso il settore delle armi e la difesa europea quelle risorse pubbliche, di cui, come noto, i paesi europei abbondano, consentendoci di respingere (nel 2030!) quei milioni di cosacchi ammassati alle frontiere d’Europa, intenzionati a sottometterci.
Va detto che gli scenari enigmatici con cui siamo confrontati sono destinati a restare tali, se non si condivide almeno un aspetto preliminare: la specie umana dalla quale provengono le classi dominanti (di cui gli onorevoli che siedono sugli scranni di Strasburgo sono espressione diretta) si occupa forse di alta politica, ma non degli interessi e dei bisogni dei popoli.
Orbene, il Parlamento europeo – assai costoso (se nemmeno per quei parlamentari il denaro fa la felicità, figuriamoci la miseria!), ma in compenso pressoché inutile – dove la futilità riflessiva si coniuga con corruzione etica e materiale– approva solitamente risoluzioni che contano come il famigerato due di coppe.
Riprendiamo da Alternative per il socialismo n. 75 l’editoriale di Alfonso Gianni, ringraziando per la condivisione
Nel cercare di
analizzare cosa significhi la netta vittoria elettorale di
Trump sia per il suo paese che per il resto del mondo, come è
necessario fare,
bisognerebbe in primo luogo sbarazzarsi, o almeno mettere da
parte, alcune caratterizzazioni che sono state appiccicate al
personaggio e che non ci
sono d’aiuto per comprendere a fondo la natura del fenomeno.
Quale quella di essere un avventurista incline alla violenza
in ogni campo; di
interpretare il suo ruolo come messianico; di adottare
atteggiamenti e dichiarazioni a dir poco sopra le righe; di
ostentare il suo corpo ferito in
un’immagine ricercata e diventata iconica; di brutalizzare il
suo stesso agire politico; o addirittura di essere poco più di
un
“comico naturale”. In particolare dovremmo essere noi, nativi
e abitanti dell’italico stivale, a essere sufficientemente
vaccinati
da simili devianti interpretazioni, avendo assistito increduli
– senza necessariamente rammentare le posture mussoliniane,
riportate
all’attenzione da ricostruzioni romanzate e filmiche – al
nascere e allo svilupparsi del fenomeno, pur ben diverso, del
berlusconismo e
sapendo quanto ci sia costata l’altera sottovalutazione della
sua fondata pericolosità, almeno al suo primo manifestarsi. Ma
scorrendo
anche autorevoli commenti offerti dal mainstream
nostrano sembra riconfermarsi l’acuto detto secondo cui la
storia è una ottima
maestra, ma non ha scolari.
Intendiamoci non si può negare che The Donald, rispetto alla sua prima apparizione come presidente sulla scena della storia statunitense e quindi mondiale, abbia accentuato aggressività e decisionismo nelle sue parole e nei suoi atti. Anzi si possono persino iscrivere questi suoi comportamenti in una nuova categoria, che forse aiuta a comprendere meglio con chi abbiamo a che fare. Si è fin qui e tuttora usato nei confronti dei protagonisti della destra sparsi per più continenti, compreso il nostro, il termine “populismo” per delineare un distorto, ma non meno reale, rapporto con il popolo, basato su promesse demagogiche e sulla esaltazione di un decisionismo governativo rafforzato da un presidenzialismo nelle sue varie forme e accezioni, che lo trasformavano in un populismo autoritario.
Dalle ultime notizie sappiamo che il decaduto presidente dell’Ucraina Zelensky ha ricevuto la nuova bozza dell’accordo genericamente definito sulle terre rare, ma che concerne ben altro. Ha dichiarato che l’Ucraina pagherà per i rifornimenti Usa futuri e non per quelli passati, come del resto era stabilito all’inizio della guerra.
In effetti, quando si è cominciato a parlare di pace, l’ignaro Zelensky aveva proposto al presidente Trump, che fa sempre il furbo, di dare i minerali critici e le terre rare del suo paese in cambio della continuazione dei rifornimenti umanitari, armamentistici, di intelligence da parte degli Usa. Il suo “alleato” aveva colto la palla al balzo e gli aveva comunicato che intanto l’Ucraina avrebbe dovuto pagare tutto quello che aveva già ricevuto, prefigurando un accordo, reso pubblico a fine febbraio, che implicava lo sfruttamento congiunto e indefinito (Usa/Ucraina) delle "risorse naturali" ucraine di proprietà del governo, in cambio delle quali gli Usa davano alquanto vaghe garanzie di sicurezza. Accordo che poi non è stato firmato. Ora la nuova bozza prevede un controllo totale da parte degli Usa su tutte le risorse minerarie del paese, insieme al controllo delle infrastrutture (porti, ferrovie, strade, impianti di lavorazione) e il trasferimento dei profitti generati da queste attività a un fondo di investimento gestito con gli Stati Uniti. Inoltre, gli Usa esigono persino una sorta di Jus primae noctis, ossia che le loro multinazionali siano le prime a ricevere le proposte di investimento, e ciò ovviamente ai danni di quelle dei paesi europei, che hanno designato Macron e Starmer a rappresentare l’Ue nei negoziati sulla guerra, da cui finora sono stati esclusi.
Il tema è rognoso, come si vede dalle reazioni. Ma non impossibile da affrontare razionalmente.
Come ormai tutti sanno, ieri Marine Le Pen, leader storica del partito fascista francese Rassemblement Nationale, è stata condannata a oltre a quattro anni di reclusione (due condonati, due da scontare con il braccialetto elettronico), una multa di 100mila euro e cinque anni di ineleggibilità con esecuzione immediata.
Di fatto, le è preclusa la possibilità di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali, nel 2027, con i sondaggi che al momento la davano in vantaggio di almeno 10 punti su tutti i possibili rivali.
Fatto l’augurio che sempre ripetiamo nei confronti dei fascisti (“ogni male possibile!”), proviamo a vedere cosa significa e quali possono essere le possibili conseguenze.
Le reazioni delle destre europee sono ovviamente furiose. Da Orbàn a Salvini, dal capo spagnolo di Vox, Abascal, al padre della Brexit britannica, Farage, a Fratelli d’Italia (con Foti), è tutto un digrignar di denti. Sostenuti come sempre da Trump e un Elon Musk più fuori di cranio del solito («Quando la sinistra radicale non riesce a vincere con un voto democratico, abusa del sistema giudiziario per mettere in prigione i suoi oppositori. Questo è il loro modus operandi in tutto il mondo»).
Sono cresciuto in un contesto in cui "i valori dell'occidente" erano perlopiù "i valori dell'occidente cristiano" ed erano una rivendicazione politica della destra estrema, fascista e postfascista.
Sempre più vero che se vivi abbastanza ne vedi di tutti i colori. Ripensavo a Vecchioni e al suo discorso rivolto a quella piazza voluta da Michela Serra.
Lasciamo perdere il disgusto etc, faccende che riguardano le reazioni a caldo. Guardiamo piuttosto ai significati profondi.
Chi al tempo rivendicò i valori dell'occidente, per ragion ideologica, metteva in disparte i valori dell'occidente greco, per esempio - anche se in realtà parlare di occidente greco è un controsenso, perché l'area della lingua greca è stata più mediterranea che europea, essendosi estesa ai suoi tempi prevalentemente in Asia (Anatolia, Medio Oriente) e nord Africa (Egitto). E anche l'occidente latino veniva lasciato cadere in disparte con i suoi impresentabili Plauto, Catullo, Apuleio e Giovenale.
Nello stesso modo Vecchioni fa finta di scordare fin troppe cose (l'algebra e la filosofia arabe, la matematica indiana, la letteratura cinese), compresi gli americanissimi Melville, Hawthorne, Poe, Hemingway e tanti, tanti altri. Poi se vogliamo guardare al "nemico", la grande letteratura e la grande musica russe sono patrimonio della cultura universale, da Pushkin a Shostakovich e Prokofiev- considerata l'insistente presenza di Prokofiev nei nostri media fino all'altro ieri la cosa è particolarmente grottesca.
Recentemente il Consiglio regionale della Toscana ha approvato una proposta di legge d'iniziativa popolare a favore del suicidio medicalmente assistito, unica a vedere la luce dopo analoghi tentativi che l'hanno preceduta senza successo in altre regioni, indipendentemente dal colore politico dei rispettivi governi. Nel 2019 la Corte Costituzionale si era espressa per la regolamentazione di questa materia, invitando in seguito più volte il Parlamento a colmare il vuoto legislativo.
Ad uscire dallo stallo ci ha pensato la regione Toscana con una mossa a doppia valenza di opportunismo politico e di atto dovuto. In autunno si terranno le elezioni per il rinnovo del governo regionale e, a ben guardare, la larga maggioranza che ha approvato la legge sul "fine vita", nell'occasione ha potuto sperimentare la tenuta del cartello elettorale del cosiddetto campo largo. Ma al netto dell'illazione di cinismo, va riconosciuto ai consiglieri toscani il merito di aver riportato l'attenzione su un diritto caduto in ostaggio dell'ignavia politica (anche in questo caso senza distinzione di schieramento) indicando in sei scarni articoli i ruoli, i tempi e le procedure di attuazione nel perimetro stretto delle indicazioni della Consulta. Un passo che ha rinnovato l'immagine della Toscana paladina dei diritti e della dignità della persona fin dai tempi del Granduca di Lorena, primo Capo di Stato al mondo ad abolire la pena di morte. C'è dunque di che rallegrarsi ma anche molto su cui riflettere, non prima però di aver ripercorso come si è arrivati alla sentenza del 2019.
Non conosciamo gli
storici o scrittori contro cui il famoso professore e storico
Ernesto Galli della Loggia scaglia i suoi dardi a proposito di
una definizione –
sua e di suoi colleghi – sul modo di concepire la storia e,
ovviamente, di raccontarla, in modo particolare quando si
scrive per libri di
insegnamento nelle scuole superiori.
La querelle riguarderebbe la definizione «Solo l’Occidente conosce la storia», usata dal Galli della Loggia e altri professori e storici, messi sotto accusa da altrettanti – a noi sconosciuti – critici che avrebbero criticato il gruppo di esperti, capeggiato dal noto editorialista del Corriere della Sera scrivendo «Ma come si può mai pensare, oibò, che esistano popoli o civiltà senza storia»?! « E allora la Cina ad esempio, anche la Cina non avrebbe avuto una storia »? dicono i critici mandando su tutte le furie il professore e il gruppo col quale starebbero stilando nuovi libri di testo di storia.
Ora l’arguto professor Ernesto Galli della Loggia, parte lancia in resta, definendo in malo modo quelli che criticano senza conoscere la differenza tra – attenzione bene! – l’espressione « Solo l’Occidente conosce la storia » e quella dei suoi critici che darebbero per supposta una frase diversa, ovvero « Solo l’Occidente ha » o « avrebbe avuto una storia ». Povero professore, con chi è costretto a confrontarsi. Ma, si sa che fra le umane genti albergano anche molti “ignorantelli” che non hanno lo stesso livello di conoscenza dello storico ed editorialista in questione. Passi se in buona fede, se poi in malafede, beh, peggio che andar di notte. E sia.
Noi non prendiamo – nel caso specifico – le difese dei suoi critici, lo faranno se ritengono di doverlo fare loro, mentre ci interessa molto più da vicino non trasfigurare il pensiero del Galli della Loggia, no, ma cercare di interpretarlo letteralmente, come lui cerca di chiarire nello scritto pubblicato martedì 25 marzo dove, riportiamo l’intero periodo, senza sintetizzarlo, e dunque letteralmente ci è dato leggere: « Il fatto è che, almeno per chi ha una qualche confidenza con la lingua italiana, l’espressione “solo l’Occidente conosce la storia” , “conosce” » arguisce il professore « non “ha” » tiene a precisare l’importanza del verbo « lungi dal significare “solo l’Occidente ha avuto una storia e tutti gli altri no”, significa » udite! udite! poveri ignorantelli da quattro soldi! « ciò che nelle frasi immediatamente successive del documento viene a lungo spiegato ».
Poco tempo fa
Mario Draghi, rivolgendosi ai commissari dell’UE, ha
lanciato un grido d’allarme – fate qualcosa! (https://volerelaluna.it/commenti/2025/02/28/draghi-noi-e-langoscia-quotidiana-che-ci-pervade/)
– di fronte alle prospettive inquietanti dell’economia
europea.
Il rapporto sulla competitività, che era stato redatto sotto il suo coordinamento, indicava tre prospettive di rilancio: provare a colmare il divario nella ricerca tecnologica nei confronti di USA e Cina, in particolare rispetto all’intelligenza artificiale; costruire un piano congiunto per la decarbonizzazione, da un lato, e la crescita della competitività, dall’altro, in modo che uno sviluppo troppo rapido e rigido della prima non andasse a impattare negativamente sulla seconda; e, infine, finanziare un imponente riarmo, definito diplomaticamente difesa, per attivare una forte domanda pubblica. La debolezza delle proposte era tutta nel fatto che i capitali privati europei da molti anni non vengono investiti nell’industria del continente, ma migrano, nella misura di 500 miliardi di euro nel solo 2024, oltre Atlantico nel paradiso valutario, finanziario e fiscale del dollaro.
La Commissione europea, stimolata a fare qualcosa purchessia, ha agito sull’unica leva che può in qualche misura controllare: togliere i vincoli sul debito pubblico – quelli fissati dal trattato di Maastricht – per permettere una forte spesa in campo militare ai diversi stati che formano l’Unione (150 miliardi di euro che possono essere attinti dai fondi comuni e altri 650 miliardi di possibile debito pubblico nazionale). Ora sorprendentemente tutti scoprono che le nazioni europee si muovono in ordine sparso per potenziare i loro eserciti senza costruire una improbabile difesa comune: in primo luogo la Germania ha ottenuto con un artificio istituzionale di far approvare dal Parlamento della scorsa legislatura, ormai sostanzialmente decaduto, una modifica costituzionale che ha rimosso il vincolo del debito pubblico e permetterà un gigantesco piano di riarmo (circa 400 miliardi di euro) e un forte investimento nelle infrastrutture (altri 500 miliardi di euro).
Il raggiungimento di una prospettiva
di pace che fermi il massacro in corso da almeno 11 anni in
Donbass e da oltre tre nelle regioni sudorientali ucraine,
dove va avanti il conflitto
voluto dalla passata amministrazione yankee, insieme a UE e
NATO, costituirebbe, per definizione, una «pace ingiusta...
una pace predatoria,
ostentatamente punitiva». Parola di qualcuno che, pur in età
ormai matura, “continua” quella “lotta” iniziata in
anni giovanili contro ogni percorso che partisse, a quei
tempi, a est dell'Elba; una “lotta continua” rinnovata oggi,
come sembra essere
il caso del signor Paolo Mieli, contro ogni tragitto che inizi
a est del Dnepr. Perché è un assioma: oltre quelle
longitudini,
socialismo o capitalismo che sia, non possono vivere che
“aggressori”, i quali, nel caso odierno, non mirano ad altro
che a imporre
«un trattamento punitivo per l’Ucraina».
Anche se, a quanto è dato sapere, nel “complotto” russo-americano, non sembra si faccia cenno ad alcuna, doverosa, eliminazione della junta neonazista di Kiev, ma si tratti invece di portarla a un cessate il fuoco effettivo, ammesso che le elezioni chieste da Mosca, con la formazione di un governo temporaneo sotto egida ONU, possano determinare un vero mutamento del regime majdanista, con un qualsiasi “anti”-Zelenskij di facciata. Sono ancora nitide nella memoria le promesse elettorali del nazigolpista-capo, di metter fine alla guerra in Donbass, che gli avevano guadagnato la vittoria su Petro Porošenko.
E l'assioma di cui sopra, si estende oggi ai «prossimi colpi dei russi» che verranno, si dà per scontato, «contro l’insieme degli Stati europei»: cinquant'anni fa, si rideva al cinema con “Mamma li turchi”; oggi c'è ben poco da ridere, non foss'altro che per il tono “serioso” con cui si cerca di convincerci che, mutata la latitudine degli “aggressori”, il pericolo è altrettanto mortale, tanto da dover dotarsi del carosellistico “kit di sopravvivenza”, un bignami del Preparadeness Union Strategy per quei tre giorni che, ci si racconta, sarebbero sufficienti per difendersi dalle atomiche de “li nuovi turchi” iperborei.
Qui di seguito alcuni frammenti di quanto è detto nel video.
E’ sempre il metodo collaudato nei secoli: minaccia, paura, sottomissione. Un tempo per sistemare le cose bastava una parola: inferno.
Anni 80, la rivincita: AIDS. Subito dopo la grande paura degli anni ‘70, quella volta paura dei padroni, quando le istruzioni dall’alto al basso, dai pochi ai tanti, iniziarono a subire un’inversione a U. Come fare? Ma ce lo insegnano gli antichi, come tutto il resto: divide et impera. Nello specifico rendendo nemici, o quanto meno sospetti, fra di loro i due (principali) generi umani. I produttori di gomma, in crisi dopo il chewing gum, i sanitari, in crisi d’astinenza dopo Spagnola e colera, tornarono tra i potenti della Terra.
Anni 2000: in rapida successione terrorismo, Covid, clima. Una pandemia dopo l’altra. A volte si affiancavano e sovrapponevano, quando si pensava che l’effetto “soluzione finale” riguardo a libertà e vivibilità di popoli e cittadini riottosi, era a portata di mano.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu continua a insistere sul fatto che Israele realizzerà i piani di pulizia etnica di Trump per Gaza, affermando domenica quanto segue sulla “fase finale” del suo programma:
“Hamas deporrà le armi. Ai suoi leader sarà permesso di andarsene. Ci occuperemo della sicurezza generale nella Striscia di Gaza e permetteremo la realizzazione del piano Trump per la migrazione volontaria. Questo è il piano. Non lo nascondiamo e siamo pronti a discuterne in qualsiasi momento”.
Il suggerimento di Netanyahu che il piano di Trump per la rimozione dei palestinesi da Gaza sarebbe “volontario” è fuorviante in due modi distinti.
In primo luogo, è insensato rendere deliberatamente e sistematicamente inabitabile un luogo e poi affermare che chiunque lasci quel posto se ne andrà volontariamente. Gli esperti israeliani hanno portato avanti questa narrazione fin dai primi giorni dell'assalto, ed è palesemente falsa: dire alle persone che possono andarsene o morire di fame è esattamente come costringerle ad andarsene sotto la minaccia delle armi.
In secondo luogo, il piano di Trump per la pulizia etnica di Gaza non è “volontario”. Trump ha esplicitamente detto che “tutti” i palestinesi saranno rimossi dall'enclave e non potranno tornare, il che ovviamente significa necessariamente che chi vuole restare non potrà farlo. Netanyahu dice di voler realizzare il piano di Trump, e il piano di Trump è una pulizia etnica forzata.
Con l'avvento dell'amministrazione Trump abbiamo visto una enorme svolta nelle politiche fiscali e commerciali del Paese alle quali si legano quelle altrettanto importanti in ambito di politica estera e militare. Sicuramente il passo relativo alla politica fiscale che può definirsi eclatante è l'istituzione del Department of Government Efficiency (DOGE) guidato da Elon Musk. Si tratta di una sorta di ministero a tempo che ha la funzione di ridare efficienza alla macchina amministrativa federale degli Stati Uniti. Il modo in cui il DOGE opera lo abbiamo visto tutti: il ridare efficienza alla macchina amministrativa si sostanzia in una “cura all'Italiana”, ovvero il taglio di quelli che al pubblico vengono presentati come inaccettabili sprechi.
Noi italiani di fronte a questa operazione non possiamo che sorridere amaramente; sappiamo bene che gli sprechi sono sempre le spese che riguardano gli altri, possibilmente quelli dell'elettorato della parte politica al momento soccombente. Conosciamo anche bene la retorica tipica di queste operazioni che si sostanzia nel dare in pasto ai mass media compiacenti i casi limite, così da creare consenso sociale nei confronti di questo genere di operazioni.
Ma ciò che più lascia stupefatti è il vedere l'Iperpotenza americana ridotta come un'Italietta qualsiasi a dover fare tagli sulla carne viva della spesa dello stato (che dal punto di vista macroeconomico significa “domanda aggregata” e dunque PIL). È chiaro che siamo di fronte a uno snodo della storia assolutamente fondamentale, e soprattutto assolutamente pericoloso. E' evidente che la condizione finanziaria della nazione (e sottolineo, nazione, non Stato) statunitense è in una situazione di grave pericolo, come ampiamente scritto su questo diario di bordo tenuto su l'AntiDiplomatico.
Spesso sento dire a politici e giornalisti, ma anche a economisti e operatori finanziari, che sarebbe di grandissima utilità “fare in modo che venga investito in Italia il risparmio che oggi invece defluisce all’estero”.
E come non di rado avviene, constato che questa affermazione riflette parecchia confusione in merito alla contabilità nazionale, per non dire in merito alla pura e semplice ragioneria (leggasi partita doppia).
Vediamo un po’. Gli italiani detengono risparmio investito all’estero? Certo che sì. Secondo i dati Bankitalia, al 30.9.2024 i residenti italiani possedevano la bellezza di 3.925 miliardi di attività patrimoniali estere: azioni, obbligazioni, aziende, immobili eccetera.
Naturalmente ci sono anche attività patrimoniali italiane possedute da stranieri, e anche in questo caso l’importo è ragguardevole, ma inferiore: 3.660 miliardi.
La differenza tra questi due importi è la cosiddetta NIIP (Net International Investment Position) che è quindi positiva (eccesso di investimenti italiani all’estero rispetto agli investimenti esteri in Italia) per 265 miliardi.
Come si è formato questo eccesso ? La causa principale sono gli scambi di beni e servizi. Nel 2024, l’Italia ha registrato un surplus (eccesso di esportazioni rispetto alle importazioni) pari a 59 miliardi. E surplus di queste dimensioni sono da alcuni anni una caratteristica strutturale della nostra economia.
Sono sempre stata convinta di essere una persona estremanente ottimista. So, e me lo dico ogni mattina, che per continuare a credere nella rivoluzione, nella liberazione, bisogna riuscire a restare sempre romantici, e coltivare nonostante tutto una incondizionata fiducia verso il mondo. Leggere Wisam Rafidieh ha confermato e dato solidità politica a questo approccio spassionato e appassionato all’umanità. Ho anche sempre pensato che questo amore e questa fiducia si esprimessero spesso – e a volte soprattutto – attraverso una rabbia – che non è odio – ma è, appunto, la trasformazione dell’indignazione in azione determinata, convinta, indefessa. Non mi spaventa essere arrabbiata, non lo nascondo, anzi, spesso lo dimostro e lo comunico, ispirata proprio da quella inspiegabile, inconscia, convinzione che dal confronto e addirittira dallo scontro sincero e non-apologetico, possa ripartire l’analisi, la mobilitazione, la costruzione anche microscopica di un percorso rivoluzionario.
Oggi però no. Oggi mi sento sconfitta. La mia rabbia non è più motore. È disgusto.
Difficile da spiegare senza banalizzare. Non sono le immagini, le ennesime, le stesse, da un anno e mezzo a questa parte. Non è la stessa, forte indignazione per il silenzio assordante. Non è la constante e sempre più radicata consapevolezza del sistema; del marcio; dello squallido macchinone che continua a opprimere e perpetrare violenza e repressione di ogni tipo, in ogni geografia. Non è la bruciante frustrazione per l’incapacità di troppi di vedere fino in fondo la raffinata oppressione del sistema e comprendere le radici profonde delle ingiustizie che viviamo.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Il professor Zhok espone la sua tesi: per
sopravvivere, il libero mercato deve crescere. E, quando si
ferma, l’ultima
risorsa è il conflitto.Il docente di Filosofia morale alla
Statale di Milano si inserisce nel dibattito su guerra e
riarmo con una lettura
molto critica del capitalismo. Secondo l’analisi di Andrea
Zhok, il libero mercato, per sopravvivere, richiede una
continua crescita. Quando la
crescita si arresta, il sistema entra in crisi. E le
soluzioni tradizionali – innovazione tecnologica,
sfruttamento della forza lavoro,
espansione dei mercati – non bastano più. In questa
prospettiva, sostiene Zhok, la guerra diventa l’extrema
ratio, offrendo al
sistema economico un meccanismo di distruzione,
ricostruzione e controllo sociale.
* * * *
Il nesso tra capitalismo e guerra è non accidentale, ma strutturale, stringente. Nonostante la letteratura autopromozionale del liberalismo abbia sempre cercato di spiegare che il capitalismo, tradotto come «dolce commercio», era una via preferenziale verso la pacificazione internazionale, in realtà questo è sempre stata una conclamata falsità. E questo non perché il commercio non possa essere viatico di pace – può esserlo – ma perché l’essenza del capitalismo NON è il commercio, che ne è solo uno dei possibili aspetti.
L’essenza del capitalismo consiste in uno e un solo punto. Si tratta di un sistema sociale idealmente acefalo, cioè idealmente privo di guida politica, ma guidato da un unico imperativo categorico: l’incremento del capitale a ogni ciclo produttivo.
Una lettura
originale della figura di Ludwid Wittgenstein, uno dei
filosofi più originali
ed enigmatici del Novecento. Andrea Di Gesu sottolinea gli
aspetti «terapeutici» del suo pensiero, volti a liberarci
dalla
necessità metafisica di un fondamento trascendente per i
nostri significati, e le riletture politiche che hanno
accolto il fattore linguistico
nei fondamenti dei loro quadri teorici. Per approfondire
rimandiamo al testo dello stesso Andrea Di Gesu,
Wittgenstein e il pensiero politico
(DeriveApprodi, 2025).
* * * *
Ludwig Wittgenstein (1889-1951), unanimemente considerato tra i pensatori più importanti della filosofia del Novecento, ne è anche una delle figure più enigmatiche. Se la traiettoria accidentata della sua vita, nonché la sua personalità estremamente singolare, hanno senz’altro contribuito all’enigma, sarebbe un errore – o quantomeno, una semplificazione – ridurre quest’ultimo allo stereotipo del genio tormentato e sofferente. L’enigma Wittgenstein risiede piuttosto nella struttura stessa della sua filosofia: nella difficoltà persistente di coglierne il disegno complessivo, nell’apparente disorganicità dei suoi movimenti concettuali, nella peculiarità del suo stile letterario. Così come nella mole gigantesca di studi, interpretazioni e riletture che ha generato, e che, motivata da tale enigmaticità, ha contribuito a ispessirla almeno nella stessa misura in cui l’ha, talvolta, diradata.
Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889 da una famiglia dell’altissima borghesia asburgica, di origine ebraica ma convertita al protestantesimo: il padre, Karl, è uno dei più importanti capitani d’industria dell’Impero. Ultimo di otto fratelli, cresce in un ambiente d’eccezione: il palazzo di famiglia è uno dei fulcri della vita culturale viennese dell’epoca, frequentato da intellettuali e artisti del calibro di Klimt, Mahler, Brahms, Freud.
USA ed Europa si trovano a proprio agio con un uso sproporzionato della forza in grado di provocare un numero incalcolabile di vittime civili. Anche laddove le finalità strategiche appaiono nebulose
Ciò che
sta avvenendo a Gaza non resterà confinato a Gaza, si potrebbe
dire, perché è il sintomo di un malessere più generale che
sta erodendo la civiltà occidentale. Proviamo a spiegare.
La rottura del cessate il fuoco nella Striscia, da parte di Israele, coincide con un tentativo di accentramento del potere senza precedenti all’interno dello Stato ebraico, a opera del governo Netanyahu.
Che nessuna di queste notizie occupi le prime pagine dei giornali in Europa e negli USA è un dato rilevante, a sua volta indizio di una crisi non solo democratica, ma di civiltà, nella quale sta sprofondando (a prima vista senza accorgersene) l’intero Occidente.
Questo torpore è motivato dal fatto che tali eventi si inseriscono in un quadro globale nel quale è l’Occidente stesso a registrare una deriva illiberale e ad aver progressivamente scardinato ogni aspetto di quel diritto internazionale del quale fino a ieri si ergeva a difensore.
Così, oggi sono gli Stati Uniti a parlare apertamente della possibilità di annettersi territori o Stati sovrani come la Groenlandia e il Canada.
E, paradossalmente, gli alleati europei accusano Washington di tradimento e slealtà, non tanto per simili grottesche rivendicazioni, ma per il fatto di voler negoziare la fine di un conflitto come quello ucraino, che ha arrecato enormi danni all’Europa e ancor più gravi potrà provocarne qualora dovesse proseguire.
La notte del 18 marzo, Israele ha rotto il cessate il fuoco con un violentissimo bombardamento che ha ucciso in poche ore oltre 400 palestinesi. Il bilancio delle vittime è salito a oltre 700 il giorno successivo.
Queste cifre, tralasciate da gran parte della stampa occidentale, hanno lanciato un messaggio inequivocabile alla popolazione di Gaza.
L’episodio della tiratina di capelli di Romano Prodi alla giornalista, con lo scontato complemento di indignazione a comando, in sé è irrilevante, ma ha l’utilità di dimostrare ancora una volta che le destre, quando fa loro comodo, adottano il politicamente corretto; anzi, ci sguazzano più e meglio delle sedicenti “sinistre”. Chi avrebbe mai pensato che il ministro dell’Istruzione e del “Merito” (?), Giuseppe Valditara, fosse un campione dell’inclusione, un “woke” in incognito? E invece sì, visto che ha decretato lo stanziamento di settecentocinquanta milioni di euro per le scuole parificate, allo scopo di favorire l’inclusione degli studenti. Prima lo stanziamento era di soli settecento milioni, ma per essere sicuro dell’inclusione, Valditara ci ha messo cinquanta milioni in più.
A non essere ancora persuaso della vocazione woke di Valditara, è il pedagogista Dario Ianes, il quale contesta al ministro di aver espresso implicitamente la tesi secondo cui sarebbe stata l’inclusività a far scadere i contenuti della didattica. Il pedagogista Ianes però è in grado di offrirci la vera soluzione al problema, cioè fare corsi di formazione per docenti, in modo da prepararli all’inclusività. Per le orecchie del ministro questa è musica; infatti Valditara non sapeva più quale balla escogitare pur di stanziare soldi per corsi di formazione dei docenti. Ultimamente Valditara s’era inventato persino un corso per preparare gli insegnanti ai rischi dell’intelligenza artificiale. Se non fosse arrivato Ianes a fornirgli un assist a così alta carica valoriale, magari Valditara si sarebbe fatto sgamare ricorrendo a qualche pretesto ancora più demenziale.
Dollaro I paesi esportatori mettono da parte dollari, ma gli Usa con le barriere commerciali e finanziarie ne frenano il libero utilizzo. La fiducia nel biglietto verde così è destinata a calare
È il gran «giorno della liberazione», come Trump ama chiamarlo: vale a dire, una nuova ondata di barriere doganali con cui l’America indebitata verso l’estero punta a limitare gli afflussi di merci provenienti dal resto del mondo. Definirla «liberazione», in effetti, suona ironico.
Per decenni gli Stati uniti hanno potuto importare senza freni dall’estero anche in virtù dell’esorbitante privilegio di emettere dollari, la valuta più richiesta per i pagamenti internazionali. È quello che gli economisti chiamano il «grado di libertà in più» della politica economica americana: una forza monetaria che è anche espressione di una più vasta egemonia imperiale, nel senso che la moneta dominante si è fatta largo anche grazie al controllo politico-militare delle aree in cui si diffondeva. Risultato: il mondo portava i beni all’America, e questa in cambio lo ingozzava di banconote.
Proprio quel «grado di libertà» della politica americana, tuttavia, è oggi messo in discussione. Come riconosciuto da Larry Fink e da altri insider del capitalismo statunitense, è possibile che l’egemonia monetaria dell’America stia volgendo al termine. Del resto, se i paesi esportatori accumulano dollari e gli Stati uniti alzano barriere commerciali e finanziarie che impediranno il libero utilizzo di quegli stessi dollari, per quanto tempo ancora ci si potrà fidare del valore universale del biglietto verde? A ben vedere, proprio la politica protezionista americana accelera la crisi egemonica americana.
Pier Giorgio Ardeni: Le classi sociali in Italia oggi, pp. 288, € 20, Laterza, Roma-Bari 2024
Questo di Pier Giorgio Ardeni è anzitutto un doveroso ricordo della pubblicazione, cinquant’anni fa, del Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini, “il primo tentativo di collegare e corroborare una teoria della struttura di classe con i dati statistici disponibili”; di ciò che ha significato spingere una discussione allora prevalentemente teorica in direzione della ricerca empirica, orientata da assunti teorici ma capace di sollecitarne critiche e modifiche. Era stato un punto di partenza per domande e problemi su un tema cruciale, che negli anni successivi si sono poi complicati, per questo anche offuscati, e che vanno riproposti con la stessa decisione e intelligenza di allora.
Dove sono finite le classi sociali, che Sylos Labini nelle sue tabelle ci aveva per così dire fatto toccare con mano? I cambiamenti di economia e società sono stati tali che si è arrivati anche a dubitare di poter usarne il concetto. Ardeni non crede che siamo a questo punto: riparte da Sylos Labini per un libro che “non è [una]storia delle classi sociali, ma una riflessione sulla struttura sociale italiana oggi e su come si è evoluta dal dopoguerra, sulla discussione intorno a essa e anche su come i termini di quel dibattito sono cambiati nel corso del tempo”. Questa riflessione a vari livelli, aderente ai dati delle ricerche, è il motivo d’interesse del libro.
Il 23 marzo, nella sala Consiglio di Siderno è stato presentato il libro ‘Il mito del dollaro’ alla presenza di Giuliano Marrucci, coautore con Vadim Bottoni.
L’evento, moderato da Nicola Limoncino e introdotto da Antonio Sgambelluri, è stato organizzato dal Movimento per la Rinascita Comunista e Comunisti uniti per Siderno. L’evento era rivolto principalmente ai giovani, ma anche a tutta quella fascia di popolazione che non si riconosce più nei partiti che negli ultimi decenni si sono avvicendati al governo, aldilà del colore politico. Si è discusso dei principali problemi che da tempo affliggono l’occidente a causa del paradigma incentrato sulla supremazia del dollaro, partendo dagli accordi di Bretton Woods, che prevedevano cambi di tasso stabili, l’oro come standard di riferimento della conversione del dollaro per equilibrare i pagamenti internazionali, quando però vi era ancora una forte presenza dello Stato nell’economia, fino ad arrivare ai nostri giorni in cui possiamo ormai constatare che la democrazia è diventata una parola vuota, che serve per mantenere una propaganda gestita a livello mediatico da una stampa servile e finanziata da agenzie internazionali, create ad hoc dal potere finanziario. Il Welfare, la scuola e la sanità sono stati distrutti, le imprese si sono convertite in società che speculano in borsa, mentre vengono continuamente distrutti milioni di posti di lavoro o si schiavizzano milioni di giovani, spogliandoli nella dignità, costretti ad accettare salari da fame, o qualche misero sussidio, senza prospettive sul futuro.
A che cosa serve la scuola in una società di massa? La premessa di questa domanda è che la massa è una soggettualità, qualcosa con cui le classi dirigenti devono fare i conti. L’altra premessa è che le società sono divise in classi e che in fasi determinate della riproduzione umana nella natura alcune di esse hanno una funzione di guida che esercitano con gli strumenti del dominio e della direzione, forza e consenso differentemente modulate a seconda delle fasi. Ciò non è necessariamente sempre negativo: classi progressiste nella storia hanno prodotto avanzamenti significativi egemonizzandone altre. Una volta la si chiamava col suo nome: lotta di classe ed egemonia di classe. Parlare della scuola al di fuori della fase attuale di sviluppo del modo di produzione capitalistico e senza tenere ben presente qual è la posta in gioco del conflitto di classe significa semplicemente non parlare del problema1.
Semplificando all’estremo, nella fase progressiva del modo di produzione capitalistico e della classe che ne esercita la soggettualità – la borghesia – l’emancipazione delle masse aveva una funzione, sia come alleato contro la feudalità, che come forza-lavoro necessaria e qualificata. L’ideologia democratica e radicale che accompagnava questo fenomeno sbandierava i diritti universali dell’uomo e del cittadino e quindi rivendicava la sua partecipazione alla vita politica, per la quale era necessaria non solo una formazione tecnica, ma anche umana in senso lato: cittadino e lavoratore. La scuola di massa doveva produrre questa figura. La domanda è: nella fase che chiamo crepuscolare del modo di produzione capitalistico c’è bisogno del cittadino-lavoratore di massa? La risposta è no. Le esigenze di produzione, a causa dell’automazione, e di controllo, per la complessità dei processi gestibili solo a livello apicale, richiedono un numero limitato di individui mentre il sistema ne produce una pletora infinitamente crescente che dunque resta strutturalmente esclusa e che non sarà mai integrata.
Si vive in tanti modi, si muore in
tanti modi. Dare forma alla propria fine è un modo per
ricomporre la forma della propria vita, e per consentire a chi
resta di ereditarla senza
sfigurarla. Non è da tutti: ci vuole del talento, e il dono
del tempo necessario per poterlo fare. Mario
Tronti, uno degli intellettuali comunisti più originali
e influenti del Novecento italiano ed europeo, è morto il 7
agosto 2023 a
novantadue anni, dopo una malattia abbastanza veloce da
sottrarcelo senza che noi – le sue “amicizie politiche”, come
gli piaceva
chiamarci – ce ne rendessimo conto, ma abbastanza lunga da
fargli licenziare il libro a cui stava lavorando. “Questo è
pronto”, aveva detto consegnandolo a sua figlia Antonia pochi
giorni prima di andarsene. Il testo è ora in libreria per il
Saggiatore, a
cura di Giulia Dettori, titolo (hegeliano) Il
proprio tempo appreso col pensiero, sottotitolo
(scarno) “libro politico postumo”. La copertina bianca con
sopra il tronco di un
albero rosso riproduce la ginestra essiccata che Tronti aveva
fatto verniciare nel giardino della sua casa di Ferentillo
dove si rifugiava a scrivere,
ma funziona anche come citazione cromatica del quadro di El
Lissitzky del 1920 sulla rivoluzione bolscevica, Spezza
i Bianchi col cuneo rosso, di cui Tronti teneva sempre
una copia bene in vista
sulla scrivania e che ricorre anche in quest’ultimo scritto.
1.
Si tratta di un testo intenzionalmente, non accidentalmente, postumo, come prova un appunto dell’agosto 2021, risalente a ben prima della malattia, ritrovato per caso in uno dei tanti quaderni su cui Tronti annotava di tutto e posto ora in esergo al testo: “Un libro volutamente postumo, lasciato forse non finito. Scrivo non alcune pagine, ma alcune righe al giorno, e non tutti i giorni… un distillato di pensiero”. Un lascito ereditario dunque, affidato performativamente a un testo che (anche) sul tema dell’eredità ruota.
Un esame chiaro e senza retorica di come, in caso di guerra nucleare strategica o tattica, la quasi totalità della popolazione civile sarebbe abbandonata a se stessa dalle élite italiane che, volenti o nolenti, non si interesserebbero del destino dei loro governati.
L’Italia un Paese senza difesa nucleare, biologica e chimica. Protezione e vie di fuga
L’Italia, per la sua posizione geopolitica e la presenza di basi Nato, terrestri e aereonavali, disseminate lungo il suo territorio, con la presenza di alcune di bombe atomiche strategiche e tattiche, sarebbe tra i primi bersagli di un attacco nucleare in un conflitto globale. Nondimeno, a differenza di altri Paesi, non dispone di alcuna infrastruttura adeguata per proteggere la popolazione civile dalle conseguenze di attacchi nucleari, anche solo tattici. Milioni di italiani sarebbero lasciati completamente esposti alla devastazione e soprattutto al fallout radioattivo, cioè la ricaduta di particelle radioattive disperse nell’ambiente dopo l’esplosione di una bomba atomica. Trasportate dai venti, queste particelle contaminano suolo, aria e acqua, causando gravi danni alla salute e agli ecosistemi. La portata del fallout varia in base all’altitudine dell’esplosione, alla potenza dell’arma e alle condizioni meteorologiche.
Dossier del Nyt sul conflitto ucraino: tanto colore, una verità finora negata
Il New York Times rivela retroscena inediti del sostegno Usa all’Ucraina in un corposo dossier nel quale si spiega che è andato ben oltre l’invio di armi e il supporto di intelligence. Quanti hanno aderito alla narrazione mainstream in effetti potrebbero avere più di una sorpresa nello scoprire che tutto ciò conferma in pieno quel che finora tutti i media mainstream hanno bollato come propaganda russa: quella ucraina è una guerra per procura contro la Russia.
Così, infatti, il NYT: “L’Ucraina è stata, in un contesto più ampio, una rivincita in una lunga storia di guerre per procura tra Stati Uniti e Russia: in Vietnam negli anni ’60, in Afghanistan negli anni ’80, in Siria tre decenni dopo”.
In realtà, i paragoni sono del tutto inappropriati. L’invasione del Vietnam fu contrastata da Russia e Cina solo in modalità difensiva e solo dopo che l’esercito statunitense ebbe a estendere la guerra al Vietnam del Nord, loro alleato, essendo in precedenza il confronto limitato ai soli Vietcong, che non godevano del supporto delle due potenze (lo rivelerà lo stesso New York Times con i Pentagon Papers).
Ricordate quando sembrava impossibile che, da un giorno all'altro, fossimo dichiarati tutti agli arresti domiciliari per la pandemia? "Ma no, non succederà mai", dicevamo, 'non può accadere in un occidente culla della civiltà e della democrazia che si sospendano, sic et simpliciter, tutti i diritti costituzionali e umani in nome dell'emergenza.
Paura, criminalizzazione, bollettini di guerra, coprifuoco, discriminazione, conflitto orizzontale, costante terrore, ci vennero imposti dal piccolo schermo a reti unificate. E sempre pensando "non ci credo, è un incubo, non è possibile' ci è stato imposto il lasciapassare, la tessera di regime per poter lavorare, prendere i mezzi pubblici, persino un caffè al banco..
Ve lo ricordate, vero? Ecco: non lo dimenticate, perché si ripeterà.
Quella è stata, temo, solo la prova del nove, per tastare la nostra "resilienza" neoliberista.
Cos'è la resilienza?
È un termine mutuato dalle scienze naturali per tastare la capacità dei metalli di assorbire i colpi.
Nella politica neoliberista indica il continuo adattamento dell'individuo a situazioni sempre mutevoli, liquide, instabili; dalla perdita del lavoro alle crisi sistemiche, sanitarie, belliche.
Essere resiliente neoliberista significa, quindi, ignorare o disconoscere le cause di una crisi, dell'austerità, della guerra, della disoccupazione, per provare a superare da soli, soggettivamente, il pericolo del fallimento personale di fronte allo smantellamento dello stato sociale.
…il mondo non è minacciato dalle persone che fanno il male, ma da quelle che lo tollerano
Albert Einstein
…Gaza: siamo gli assassini più spietati ed efficienti del pianeta. Solo per questo dominiamo i Dannati della Terra.
Chris Hedges
…Uno Stato binazionale: non si può pensare di vivere opprimendo un altro popolo in eterno. Gli ebrei dovrebbero accettare di non essere più maggioranza nel nuovo Stato. L’alternativa è la guerra
Ilan Pappè, storico israeliano
…Netanyahu è un criminale e dovrebbe dimettersi
Noa, cantante e attivista per la Pace
La guerra in Ucraina è persa per l’Occidente. Il paese guida, gli Stati Uniti, sta ripetendo il copione afghano: avendo capito di non poter vincere… sceglie di uscire dalla guerra, negozia con il nemico e… tira sberle ai vassalli che hanno seguito pedissequamente i “consigli/ordini” ricevuti negli anni, per far loro capire che le “regole” sono cambiate e a decidere sono sempre loro.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Mettere
l’elmetto alla “generazione fiocco di neve”
Il collega Marco Maurizi l’ha sintetizzato alla perfezione: «La borghesia liberale è passata da “un brutto voto potrebbe condurre alla morte dei nostri fragili figli” a “preparatevi a vivere in un bunker” nel giro di poche settimane». E davvero, ultimamente, con una intensità esplosiva dopo il fallito incontro nello Studio ovale tra Trump e Zelensky, non era possibile accendere la tv su un talk show politico, leggere un corsivo sui quotidiani, aprire Facebook, senza sentire o leggere una Gruber, un Giannini, un Mentana, un Augias, un Flores d’Arcais – sto facendo intenzionalmente solo nomi di opinionisti progressisti – farsi portavoce dell’ineluttabilità dell’ora presente e dell’unica strada tracciata davanti a noi: il riarmo.
Tutto ciò che poteva disturbare questa adesione all’ananke veniva o contestato con accanimento o intenzionalmente taciuto: Schlein è stata screditata come leader inaffidabile, semplicemente perché ha osato non allinearsi a un Partito socialista europeo che si è reso subito disponibile a sostenere le proposte di Ursula von Der Leyen; nessuno ha concesso il minimo spazio alla speranza che una qualche forma di opposizione interna a Trump saprà forse riorganizzarsi oltreoceano nei prossimi quattro anni e ci si è affrettati a dichiarare l’Europa orfana di papà Stati Uniti, esortandola a crescere e a imparare a fare a botte da sola; ovunque si è evocata la Conferenza di Monaco e hitlerizzato Putin, come se questi intenda entrare domani a Parigi coi panzer. Persino una rivista moderata (nei molti sensi del termine) come Il Mulino, ha sostenuto con perfetto tempismo l’idea di reintrodurre un esercito di leva.
Soprattutto, giorno dopo giorno, si è profilato davanti ai nostri occhi un soggetto – i valori europei – sovrastorico, metafisico, mitico, nel quale si confondevano Europa geografica e storica ed Unione dei trattati, Europa e umanesimo-illuminismo-libertà-democrazia-civiltà, Altiero Spinelli e Mario Draghi/Christine Lagarde, Europa e iniziative egemoniche di Macron e di Starmer (che dell’Unione non fa nemmeno parte).
Alle 16.00 del 2
aprile 2025, ora di Washington, Trump ha annunciato dal Rose
Garden della Casa Bianca l’entrata in vigore immediata di dazi
sui beni importati
del 20% per l’Europa, del 34% per la Cina, del 10% per la Gran
Bretagna e in modo differenziato per moltissimi altri paesi. A
ciò si
aggiunge il dazio del 25% sulle automobili prodotte
all’estero. Ricordiamo che tali dazi si sommano a quelli già
emessi
sull’acciaio e sull’alluminio. Sono entrati in vigore alle
0:01 di sabato ora di Washington (le 6:01 in Italia) i dazi aggiuntivi del 10% imposti
dall’amministrazione Trump
su gran parte dei prodotti che gli Stati Uniti importano dal
resto del mondo: questa soglia minima universale, da cui sono
esenti determinati
prodotti, si aggiunge ai dazi già esistenti. La Cina ha già
adottato le proprie contromisure: verranno applicati dazi
sulle merci Usa
del 34% a partire dal 10 aprile.
Di fatto è la pietra tombale sulla globalizzazione degli anni ’90 e dei primi 2000, basata sul Washington Consensus a matrice Usa: una realtà che ora appare del tutto diversa se non rovesciata.
1. La possibile logica di Trump
Per cercare di capirne la logica (perché le decisioni di Trump non sono frutto di follia), occorre partire da due dati fondamentali per la sostenibilità dell’economia statunitense.
Il primo riguarda il saldo della bilancia commerciale americana, che nell’anno 2024 ha toccato il massimo storico, raggiungendo un valore 1.210 miliardi di dollari con un aumento di 148 miliardi [+14%] rispetto al 2023. La bilancia commerciale americana mostra un saldo negativo con tutti i maggiori partner commerciali degli Stati Uniti, ovvero Cina, Messico, Canada, Vietnam e il blocco dei paesi dell’Unione Europea, non a caso i paesi più colpiti dai dazi di Trump.
In un quadro di “diplomazia muscolare”, dichiarazioni impulsive e contraddittorie, e nebulosità dei reali obiettivi diplomatici, i negoziati sull’Ucraina potrebbero finire presto in un vicolo cieco
A poche
settimane dall’avvio dei negoziati per la risoluzione del
conflitto ucraino, lo sforzo diplomatico del presidente
americano Donald Trump sta
incontrando numerosi ostacoli.
Le ragioni sono molteplici.
Trump ha il merito di aver iniziato una trattativa impensabile fino a pochi mesi fa, alla luce dell’intransigenza di Kiev e dei suoi alleati occidentali riguardo alla prospettiva di aprire un dialogo con Mosca.
Ma le strategie negoziali della Casa Bianca sono state spesso incoerenti, talvolta dilettantesche, essenzialmente di natura transazionale e utilitaristica, oltre che poco attente alle posizioni dei suoi recalcitranti alleati.
A ciò bisogna aggiungere che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi sostenitori europei hanno fatto di tutto per boicottare il negoziato.
La strategia di Trump si è concentrata sul tentativo di giungere a un cessate il fuoco iniziale di trenta giorni finalizzato all’avvio di vere trattative di pace.
Ma, in assenza di una definizione chiara degli obiettivi finali del negoziato, una tregua di questo genere avvantaggia la parte perdente nel conflitto: Kiev avrebbe modo di riorganizzarsi, ricevere munizioni e armamenti, e mobilitare nuovi uomini.
Da qui la cautela di Mosca. Il 13 marzo, il presidente russo Vladimir Putin ha chiarito che “partiamo dalla posizione che questa cessazione debba portare a una pace a lungo termine ed eliminare le cause di questa crisi”.
Furono i
supplizi d’ogni genere, la tortura,
i roghi, le forche, a darci feroci abitudini. I
governanti, invece di educarci, ci hanno resi così barbari
perché essi lo sono. Ora
raccolgono i frutti.
Gracco Babeuf
«Allora egli disse: “Ora, però, chi ha una borsa la prenda, e così anche la bisaccia; e chi non ha una spada, venda il mantello e se ne compri una.» Questo è quanto si legge in un passo del vangelo secondo Luca (22, 36): è un comando dettato da Gesù Cristo, che fa riflettere, e non è da escludere che, in una società che è tanto più religiosa quanto più è malata, lo stesso Luigi Mangione lo abbia tenuto presente.
Tutti ormai conoscono il caso di Luigi Mangione, ingegnere informatico di 26 anni e creatore di videogiochi, che si è costruito una pistola con una stampante 3d e l’ha usata per uccidere l’amministratore delegato di United HealthCare, una delle più grandi società di assicurazione sanitaria degli Usa, che opera anche in altri paesi, Italia compresa.1 Nel “manifesto” 2 in cui Mangione ha spiegato la motivazione del suo atto egli afferma che esso è una vendetta per la pratica diffusa con cui le assicurazioni sanitarie private cercano di risparmiare sulla pelle dei pazienti quanto più è possibile: una realtà, questa, a cui i medici si sono, peraltro, completamente adeguati.
Mi capita di incontrare persone del
ceto medio, anche molto cortesi e istruite, capaci per certi
aspetti di esibire una certa umanità nei confronti dei
consimili, che di
improvviso mi fanno gelare il sangue nelle vene, pronunciando
espressioni relative al genocidio di Gaza di chiara
approvazione della carneficina in
corso, anche dell’omicidio dei bambini. “Beh poi crescono e
divengono terroristi”: questo affermano.
Mi sembra evidente che l’umanità sia destinata a ripetere i propri crimini. Gli ebrei venivano considerati ladri e persone infami, non potevano indurre a compassione. Ugualmente i bambini di pochi anni trucidati da Israele non possono ispirare alcuna pietà, appartenendo essi alla categoria subumana dei terroristi. La barbarie avanza. Il noi e il loro ritorna prepotente. Il cattivo di turno è cangiante, ora islamista, ora russo, ora palestinese. C’è sempre una buona ragione per escluderlo, demonizzarlo, massacrarlo.
E’ vero a Gaza i bambini sopravvissuti agli stermini israeliani hanno buone chances di combattere Israele con la lotta armata. Non vi sono canali politici. Difficile combattere una potenza occupante con altri metodi. Craxi, Andreotti e Barak avevano compreso come soltanto la fortuna permettesse ad alcuni di essere rispettabili cittadini e trasformasse altri in criminali. Essi non si stancavano di ammettere che se fossero nati in una prigione a cielo aperto, sarebbero divenuti anch’essi terroristi. La razionalità vorrebbe che al fine di eliminare il pericolo terrorista si cancellassero le sue cause profonde in Palestina. Sarebbe essenziale porre fine all’assedio di Gaza, all’occupazione illecita della Cisgiordania. La logica è tuttavia messa di lato, si preferisce puntare sugli istinti di appartenenza e la sempre viva tendenza a escludere chi è considerato straniero, diverso.
Con riferimento alla Russia il metodo non è differente. Si fotografa l’istantanea, spiace dirlo anche da parte degli analisti più seri. Mosca ha invaso la Crimea, ha invaso l’Ucraina. Quindi è uno Stato imperialista. Putin ha osato dire che non ci sono differenze tra nazione ucraina e nazione russa.
Il rapporto 2025 dei servizi segreti statunitensi avverte che l'alleanza anti-Occidente si consolida. Ma l’Iran (per ora) rinuncia all'atomica
L’Annual Threat Assessment, redatto dall’ufficio diretto
da Tulsi Gabbard, dipinge un mondo ad alta tensione. Russia,
Cina, Iran e Corea del Nord si saldano in un’alleanza sempre
più solida contro l’Occidente. Pechino resta la minaccia
maggiore, con
ambizioni militari, tecnologiche e globali. Mosca,
nonostante le sanzioni, ha ribaltato le sorti della guerra
in Ucraina e condivide il know-how
militare con gli alleati. L’Iran rallenta (per ora) sul
nucleare, ma investe su droni e missili. Pyongyang riduce la
dipendenza da Pechino
grazie al sostegno di Mosca. Mentre l’asse si consolida,
Washington rischia di essere trascinata in una spirale di
conflitti.
* * * *
«Un insieme eterogeneo di attori stranieri sta prendendo di mira la salute e la sicurezza degli Stati Uniti, le infrastrutture critiche, le industrie, la ricchezza e il governo». Con queste parole allarmanti esordisce l’Annual Threat Assessment, la valutazione annuale statunitense delle minacce nazionali per l’anno 2025 pubblicata a marzo. Redatto dall’Office of the Director of National Intelligence, diretto da Tulsi Gabbard, individua e valuta l’entità delle minacce ai cittadini, allo Stato e ai suoi interessi economici e di sicurezza. Il rapporto, realizzato con la collaborazione dell’intera comunità d’intelligence statunitense, sottolinea che «gli avversari statali e i movimenti non governativi a essi riconducibili stanno cercando di indebolire e sostituire il potere economico e militare degli Stati Uniti in tutto il mondo».
Per quanto concerne alle organizzazioni non statali, l’attenzione si concentra sui cartelli della droga messicani, colombiani e centroamericani, oltre che sui gruppi dell’integralismo islamico, sui pirati informatici e sugli organismi di intelligence para-statali.
Docente all’Università
Bordeaux-Montaigne, specialista di Nietzsche e studiosa di
Foucault, Barbara Stiegler è molto presente nel dibattito
politico francese, in
particolare per le sue riflessioni sul “macronisme”, il
sistema di potere legato al presidente della Repubblica,
Emmanuel Macron. Ha
scritto Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico
e La democrazia in pandemia. È qui a Biennale
Democrazia per parlare
delle sue ricerche, che conduce da molti anni, sulla storia
del neoliberalismo.
“Neoliberalismo e democrazia: la pace è la guerra e la guerra è la pace”: il titolo della lezione di Barbara Stiegler, che sostituisce quello annunciato (“Una lotta disperata, ma con molto fair play. Società e politica ai tempi del neoliberismo”) è un esplicito riferimento alle parole che, nel mondo creato da George Orwell in 1984, significano il contrario di quello che dicono.
“Il neoliberalismo fa un discorso di pace o di guerra?” Con questa domanda Stiegler comincia la sua riflessione. Prima di rispondere ci offre alcuni punti di riferimento storici: Il neoliberalismo, nato negli anni Trenta del Novecento, è una delle conseguenze della crisi economica del ‘29 e della crisi del liberalismo classico. I neoliberali ritengono necessario un più marcato intervento dello Stato nell’economia e in tutti gli ambiti della vita sociale, combattono i fascismi e si fanno promotori della pace mondiale, condizione necessaria per la creazione di un mercato globale.
“Ma oggi, e in modo davvero sorprendente – afferma Stiegler – i nuovi neoliberali sono i primi a volerci preparare mentalmente alla guerra.” E ci offre due esempi di questo “incredibile capovolgimento”: Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea: entrambi si fanno sempre più sostenitori di un “discours guerrier”.
Stiegler tiene a precisare che questo discorso di guerra non si è manifestato in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma ha cominciato ad affermarsi durante gli anni dell’emergenza Covid.
Il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno in comune tre cose, oggi. La prima è posizionarsi entrambi contro il piano di riarmo europeo: i contiani scendendo in piazza a Roma (a un mese da quella indetta da Michele Serra & C – e pagata dai cittadini romani – a sostegno dell’Europa guerrafondaia), i salviniani minacciando di non votare in parlamento assieme alla maggioranza di centrodestra di cui fanno parte. La seconda è aver vissuto, nel ciclone degli ultimi sei anni, vite sostanzialmente parallele: vincitori assoluti alle elezioni del 2018 (rispettivamente con il 31% e il 17% dei voti), si sono poi ridotti a percentuali ospedaliere, subendo un crollo costante (15% e 8% nelle politiche 2022, e 9% e sempre 8% alle europee 2024). La terza, più importante, è di essere ambedue caratterizzate dalla ricerca di un centro di gravità permanente che hanno trovato, d’accordo, ma standoci parecchio scomodi, recalcitranti a svolgere la parte di ruote di scorta dei partiti egemoni dei due campi: a sinistra, il Pd, e a destra, Fratelli d’Italia. Il guaio di fondo che li accomuna, infatti, è non sapere bene qual è la loro identità. Ossia qual è la loro funzione, nell’attuale quadro della politica italiana. A che serve, oggi, il Movimento 5 Stelle? A che serve, oggi, la Lega?
Se si riformula l’interrogativo domandandosi a chi servono, ovviamente la risposta viene facile: a Giuseppe Conte, Matteo Salvini e alle loro cerchie di fedelissimi.
«Siamo gli uomini
vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano
l'un l'altro
La testa piena
di paglia...»
(T. S.
Eliot, "Gli uomini vuoti")
Chiamerò "mia generazione" il suo segmento anagrafico e sociale sessantottino, che voleva fare la rivoluzione vietando di vietare e ora è primatista nelle censure e nelle proibizioni.
La mia generazione esulta se Călin Georgescu, candidato romeno alla presidenza, viene arrestato. Persona che politicamente può non piacere, ma il cui vero crimine è la scarsa propensione a far la guerra alla Russia.
La mia generazione esulta se Marie Le Pen viene dichiarata ineleggibile. Non è una politica incantevole ma soprattutto è sospetta di intesa col nemico.
Meglio tifare per Raphaël Glucksmann, il patron del raggruppamento di sinistra anti Le Pen, sostenitore di Kiev "fino alla vittoria". Conosce il mondo. Era stato consigliere del presidente georgiano Mikheil Saak'ashvili, che poi divenne governatore dell'oblast della stuprata Odessa dopo la Maidan, la piazza di Kiev diretta e finanziata dagli Usa e infuocata dai neonazisti con l'aiuto dei cecchini georgiani che sparavano sulla folla e sui poliziotti per renderla incandescente.
Dollaro I paesi esportatori mettono da parte dollari, ma gli Usa con le barriere commerciali e finanziarie ne frenano il libero utilizzo. La fiducia nel biglietto verde così è destinata a calare
È il gran «giorno della liberazione», come Trump ama chiamarlo: vale a dire, una nuova ondata di barriere doganali con cui l’America indebitata verso l’estero punta a limitare gli afflussi di merci provenienti dal resto del mondo. Definirla «liberazione», in effetti, suona ironico.
Per decenni gli Stati uniti hanno potuto importare senza freni dall’estero anche in virtù dell’esorbitante privilegio di emettere dollari, la valuta più richiesta per i pagamenti internazionali. È quello che gli economisti chiamano il «grado di libertà in più» della politica economica americana: una forza monetaria che è anche espressione di una più vasta egemonia imperiale, nel senso che la moneta dominante si è fatta largo anche grazie al controllo politico-militare delle aree in cui si diffondeva. Risultato: il mondo portava i beni all’America, e questa in cambio lo ingozzava di banconote.
Proprio quel «grado di libertà» della politica americana, tuttavia, è oggi messo in discussione. Come riconosciuto da Larry Fink e da altri insider del capitalismo statunitense, è possibile che l’egemonia monetaria dell’America stia volgendo al termine. Del resto, se i paesi esportatori accumulano dollari e gli Stati uniti alzano barriere commerciali e finanziarie che impediranno il libero utilizzo di quegli stessi dollari, per quanto tempo ancora ci si potrà fidare del valore universale del biglietto verde? A ben vedere, proprio la politica protezionista americana accelera la crisi egemonica americana.
A che cosa serve la scuola in una società di massa? La premessa di questa domanda è che la massa è una soggettualità, qualcosa con cui le classi dirigenti devono fare i conti. L’altra premessa è che le società sono divise in classi e che in fasi determinate della riproduzione umana nella natura alcune di esse hanno una funzione di guida che esercitano con gli strumenti del dominio e della direzione, forza e consenso differentemente modulate a seconda delle fasi. Ciò non è necessariamente sempre negativo: classi progressiste nella storia hanno prodotto avanzamenti significativi egemonizzandone altre. Una volta la si chiamava col suo nome: lotta di classe ed egemonia di classe. Parlare della scuola al di fuori della fase attuale di sviluppo del modo di produzione capitalistico e senza tenere ben presente qual è la posta in gioco del conflitto di classe significa semplicemente non parlare del problema1.
Semplificando all’estremo, nella fase progressiva del modo di produzione capitalistico e della classe che ne esercita la soggettualità – la borghesia – l’emancipazione delle masse aveva una funzione, sia come alleato contro la feudalità, che come forza-lavoro necessaria e qualificata. L’ideologia democratica e radicale che accompagnava questo fenomeno sbandierava i diritti universali dell’uomo e del cittadino e quindi rivendicava la sua partecipazione alla vita politica, per la quale era necessaria non solo una formazione tecnica, ma anche umana in senso lato: cittadino e lavoratore. La scuola di massa doveva produrre questa figura. La domanda è: nella fase che chiamo crepuscolare del modo di produzione capitalistico c’è bisogno del cittadino-lavoratore di massa? La risposta è no. Le esigenze di produzione, a causa dell’automazione, e di controllo, per la complessità dei processi gestibili solo a livello apicale, richiedono un numero limitato di individui mentre il sistema ne produce una pletora infinitamente crescente che dunque resta strutturalmente esclusa e che non sarà mai integrata.
Si vive in tanti modi, si muore in
tanti modi. Dare forma alla propria fine è un modo per
ricomporre la forma della propria vita, e per consentire a chi
resta di ereditarla senza
sfigurarla. Non è da tutti: ci vuole del talento, e il dono
del tempo necessario per poterlo fare. Mario
Tronti, uno degli intellettuali comunisti più originali
e influenti del Novecento italiano ed europeo, è morto il 7
agosto 2023 a
novantadue anni, dopo una malattia abbastanza veloce da
sottrarcelo senza che noi – le sue “amicizie politiche”, come
gli piaceva
chiamarci – ce ne rendessimo conto, ma abbastanza lunga da
fargli licenziare il libro a cui stava lavorando. “Questo è
pronto”, aveva detto consegnandolo a sua figlia Antonia pochi
giorni prima di andarsene. Il testo è ora in libreria per il
Saggiatore, a
cura di Giulia Dettori, titolo (hegeliano) Il
proprio tempo appreso col pensiero, sottotitolo
(scarno) “libro politico postumo”. La copertina bianca con
sopra il tronco di un
albero rosso riproduce la ginestra essiccata che Tronti aveva
fatto verniciare nel giardino della sua casa di Ferentillo
dove si rifugiava a scrivere,
ma funziona anche come citazione cromatica del quadro di El
Lissitzky del 1920 sulla rivoluzione bolscevica, Spezza
i Bianchi col cuneo rosso, di cui Tronti teneva sempre
una copia bene in vista
sulla scrivania e che ricorre anche in quest’ultimo scritto.
1.
Si tratta di un testo intenzionalmente, non accidentalmente, postumo, come prova un appunto dell’agosto 2021, risalente a ben prima della malattia, ritrovato per caso in uno dei tanti quaderni su cui Tronti annotava di tutto e posto ora in esergo al testo: “Un libro volutamente postumo, lasciato forse non finito. Scrivo non alcune pagine, ma alcune righe al giorno, e non tutti i giorni… un distillato di pensiero”. Un lascito ereditario dunque, affidato performativamente a un testo che (anche) sul tema dell’eredità ruota.
Con l'avvento dell'amministrazione Trump abbiamo visto una enorme svolta nelle politiche fiscali e commerciali del Paese alle quali si legano quelle altrettanto importanti in ambito di politica estera e militare. Sicuramente il passo relativo alla politica fiscale che può definirsi eclatante è l'istituzione del Department of Government Efficiency (DOGE) guidato da Elon Musk. Si tratta di una sorta di ministero a tempo che ha la funzione di ridare efficienza alla macchina amministrativa federale degli Stati Uniti. Il modo in cui il DOGE opera lo abbiamo visto tutti: il ridare efficienza alla macchina amministrativa si sostanzia in una “cura all'Italiana”, ovvero il taglio di quelli che al pubblico vengono presentati come inaccettabili sprechi.
Noi italiani di fronte a questa operazione non possiamo che sorridere amaramente; sappiamo bene che gli sprechi sono sempre le spese che riguardano gli altri, possibilmente quelli dell'elettorato della parte politica al momento soccombente. Conosciamo anche bene la retorica tipica di queste operazioni che si sostanzia nel dare in pasto ai mass media compiacenti i casi limite, così da creare consenso sociale nei confronti di questo genere di operazioni.
Ma ciò che più lascia stupefatti è il vedere l'Iperpotenza americana ridotta come un'Italietta qualsiasi a dover fare tagli sulla carne viva della spesa dello stato (che dal punto di vista macroeconomico significa “domanda aggregata” e dunque PIL). È chiaro che siamo di fronte a uno snodo della storia assolutamente fondamentale, e soprattutto assolutamente pericoloso. E' evidente che la condizione finanziaria della nazione (e sottolineo, nazione, non Stato) statunitense è in una situazione di grave pericolo, come ampiamente scritto su questo diario di bordo tenuto su l'AntiDiplomatico.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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