
Dopo più di due mesi di
quarantena, si può dire che il timore che avevo manifestato
all’inizio – cioè che un’emergenza reale, dalle cause e
implicazioni innanzitutto politiche e sociali (la
destrutturazione
del Welfare e del sistema sanitario, perché “ce lo chiedeva
l’Europa”) potesse scivolare, come su una sorta di piano
inclinato, verso una qualche forma di stato di eccezione – si
è rivelata purtroppo abbastanza fondata. Dopo il primo
impatto, traumatico,
con il virus, sono emersi progressivamente errori, omissioni,
inspiegabili falle, e anche qualche scivolata (probabilmente
dovuti, almeno in parte, a
confusione, spiazzamento, cattivi consiglieri, più che a
intenzioni sbagliate). E soprattutto si intravedono, oggi, i
possibili effetti a lungo
termine, dal punto di vista democratico. Prima di ragionare
sul futuro, però, è bene fare con franchezza un elenco delle
cose che non
possono passare in cavalleria: la stigmatizzazione di Andrea
Crisanti, che ha salvato il Veneto, seguita da imbarazzati
silenzi e mezze ammissioni,
troppo tardive ed evasive, da parte dei “tecnici di governo”.
La non trasparenza dell’OMS, oggetto di molti condizionamenti
e
pressioni, che si è riflessa anche sulle direttive ondivaghe e
opache dei consulenti cui il governo si è affidato. Le cure
snobbate o
addirittura osteggiate e poi rivelatesi importanti e comunque
utili (plasma, eparina ecc.). La demonizzazione di persone
serie (spesso medici in prima
linea), semplicemente perché non allineati a una presunta
“verità” ufficiale (salvo poi ammettere a denti stretti che
avevano ragione: si veda il caso di De Donno a Mantova).
L’operazione di drammatizzazione mediatica (dopo una maldestra
rassicurazione
iniziale), per coprire una grave sottovalutazione all’inizio,
che ha imposto una soluzione estrema e generalizzata dopo, la
quale ha di fatto
scaricato quasi integralmente sui cittadini il peso della
risposta alla crisi.
1. La prova di Internet e dei social media
nell’emergenza del 2020: una
vittoria o un disvelamento? Qualcosa non torna
Pasquale Costanzo ha sempre affermato che Internet è strumento e non diritto, mezzo e non fine: un mezzo strumentale all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, e come tale insuscettibile di essere considerato oggetto di un diritto a sé stante.
Ragionando sul “posto” di Internet nell’ordinamento costituzionale italiano, egli ha invitato a resistere alla tentazione di riconoscere alle pur straordinarie caratteristiche della Rete «capacità nomopoietiche tali da accreditare senz’altro la comparsa di un nuovo, autonomo e, secondo taluni, fondamentale diritto individuale, identificabile con quello di accedere al mezzo»[1]. La rilevanza costituzionale di Internet comincia e finisce nel suo essere strumento, come tale «connotato dalla stessa libertà di qualsiasi altro mezzo idoneo ed efficace per l’esercizio di diritti costituzionalmente guarentigiati». Ciò significa che la natura servente di Internet non muta, e non deve mutare, qualunque sia la tipologia dei diritti che la Rete si accinge a servire (civili, politici, sociali, economici); ed anche quando l’accesso ad essa valga a contribuire alla rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comm 2, Cost.)”»[2].
Mai come oggi questo assunto si manifesta in tutta la sua esattezza, sobrietà, lungimiranza.
Eppure, allo stesso tempo, mai come oggi si ha la sensazione che qualcosa non torni.
Nel capitalismo di
Stato contemporaneo assume ormai un ruolo sempre più
importante la praxis e la regola
antiliberista della privatizzazione dei profitti e della
socializzazione delle perdite a favore dei grandi monopoli
privati. Si tratta di un segmento
della sfera politica borghese nella quale emerge con
particolar evidenza, a partire dal 1929, la funzione concreta
assai rilevante svolta da
quest’ultima in qualità di “espressione concentrata
dell’economia” (Lenin, 1921) e della politica-struttura,
intesa
come l’insieme delle azioni materiali degli apparati statali
che modificano e influenzano in prima persona, in modo più o
meno costante e
con effetti sensibili, proprio il processo di produzione delle
variegate formazioni economico-sociali di matrice capitalista.
A tal proposito l’inizio del 2020 ha mostrato una vera e propria orgia di aiuti statali e parastatali (quali le banche centrali degli USA, dell’Europa e del Giappone) a favore delle grandi imprese private, dei “too big to fail” delle metropoli imperialistiche, demolendo e ridicolizzando – come durante la gravissima crisi economica e finanziaria del 2007-2009 – per l’ennesima volta la logora favoletta relativa alle presunte virtù taumaturgiche del libero mercato e della sua presunta “mano invisibile”. Molto visibile e concreta, viceversa, si è rilevata la “mano” e la pratica politico-economica dell’amministrazione Trump, a favore della finanza e dei grandi trust statunitensi.
– Negli USA
Secondo Fabio Scacciavillani, professore di economia e commercio alla Luiss di Roma, il ruolo della banca centrale negli USA è di «garantire i profitti della Borsa», piuttosto che di «assicurare la stabilità dei prezzi».
Raniero Panzieri: Politica, etica e teoria come coordinate dell’azione
Nel 2021 ricorrerà il centenario della
nascita di Raniero Panzieri,
padre nobile dell’operaismo italiano e fondatore dei
Quaderni Rossi. Per l’occasione ombre corte pubblica Il lavoro e le
macchine. Critica dell’uso capitalistico delle macchine,
una raccolta di scritti di Panzieri a cura di
Andrea Cengia. Pubblichiamo qui un estratto
dall’introduzione. Ringraziamo l’editore e l’autore per la
collaborazione e ricordiamo
che il libro si può acquistare e ordinare direttamente sul sito di ombre corte,
in libreria e negli store online. Sosteniamo sempre
l’editoria indipendente, in modo particolare ora.
Rimettere in circolazione classici del pensiero critico e
militante è un progetto culturale e politico indispensabile
per ricominciare a
respirare.
* * * *
A quasi cento anni dalla sua nascita, vengono qui proposti alcuni articoli e saggi di Raniero Panzieri che, lungi dal rappresentare esaustivamente la sua intera produzione, hanno lo scopo di riaprire un dialogo con il suo patrimonio di esperienza politica, teorica e culturale. Senza entrare nel dettaglio della sua straordinaria, quanto difficile biografia, occorre ricordare brevemente che Raniero Panzieri, nato nel 1921, è stato all’origine un dirigente del Partito socialista italiano (Psi) appartenente alla corrente di Rodolfo Morandi con il quale ha sviluppato una forte intesa politica e culturale.
Durante l’esperienza di partito egli ha avuto modo di toccare da vicino la condizione dei braccianti nel sud Italia per poi giungere, negli anni Sessanta, a conoscere i destini delle industrie del nord, spesso popolate da molti braccianti di quel sud che Panzieri aveva ben conosciuto. Nel 2021 ricorrerà il centenario della nascita e questa raccolta di saggi guarda a quell’anniversario non certo con un atteggiamento “memorialistico” o “monumentale”.
Pubblichiamo un intervento di Silvio Valpreda, autore di Capitalocene, uscito per Add Editore
Il problema principale nello sviluppo dei sistemi di guida autonoma per veicoli è la risoluzione dei conflitti. Quando un’automobile controllata dall’intelligenza artificiale si trova di fronte a un ostacolo, il software deve trovare una soluzione. Quasi sempre però non c’è una sola soluzione possibile, ma ve ne sono molteplici. E sono tutte, in qualche modo sbagliate. O meglio contengono in sé una parte ingiusta.
Se, per esempio, il veicolo sta percorrendo una strada urbana a media velocità trasportando una persona anziana e improvvisamente un bambino attraversa la carreggiata senza che vi sia il tempo, considerate la massa, la velocità e l’aderenza dell’asfalto, di arrestare il mezzo in sicurezza, occorre scegliere tra due possibili soluzioni entrambe terribilmente ingiuste: investire il bambino o far uscire di strada l’anziano facendo andare il mezzo a cozzare contro un ostacolo.
In ognuno dei casi possibili, gli esiti sono potenzialmente mortali per uno dei due esseri umani coinvolti nell’inevitabile incidente.
Nel lontano 1971 il presidente americano Richard Nixon diede il via alla “guerra alla droga” come risposta al dilagare delle sostanze stupefacenti nella propria nazione. Era il culmine di una serie di sforzi americani che si andavano sviluppando da decenni, ma anche il frutto di un’ottusità di fondo, interessi di parte e oscure manovre politiche per combattere la sinistra pacifista e le persone di colore[i]. Ad una crisi sociale e politica che peggiorava di giorno in giorno, si rispose con una manovra securitaria che avrebbe prodotto nei 49 anni successivi una lunga sequenza di fallimenti, l’uccisione di centinaia di migliaia di innocenti e l’arricchimento non solo delle organizzazioni criminali, ma anche la creazione di un’economia basata su questa lotta, fra corpi federali, apparati di controllo, centri di riabilitazione e indotto collegato.
Nel 2001 gli attentati condotti da Al Qaeda contro gli Stati Uniti portarono alla proclamazione della “guerra al terrorismo” espandendo le precedenti modalità repressive con una magnitudo planetaria: un’impennata delle spese militari, nuove leggi invasive come il Patriot Act, nuovi apparati statali (The United States Department of Homeland Security), una serie di guerre fallimentari, di cui alcune tutt’ora in corso (Afghanistan) e la creazione di un’economia della sicurezza su scala globale.
1. Guardo Rete4 ogni tanto per capire gli umori e le mosse di chi ha governato questo Paese per anni e così mi è capitato di sentire (il 7 maggio) una intervista a Luca Ricolfi, sociologo e anima della Fondazione Hume. In modo sobrio, presumo perché piemontese, ha spiegato al pubblico che il nostro è un povero Governo, di incompetenti che di economia non capisce nulla perché privo di umanisti. Se infatti avessero letto i Promessi sposi del Manzoni avrebbero potuto facilmente capire come affrontare il problema tanto urgente delle mascherine. Come non sapere che il calmiere provoca scarsità? La soluzione invece è semplicissima, spiega Ricolfi: il governo deve comperare sul mercato le mascherine e poi rivenderle a 0,50 euro.
2. Mi viene da chiosare: – E che ora si arrangino coloro che pensano che parlare di economia di guerra per la crisi Covid non serva a nulla: eccovi serviti il liberismo in tempo di crisi! Non volete capire che tecnicamente siamo in guerra? Non volete capire che tecnicamente, per motivi oggettivi, ci vuole una politica industriale ed economisti e ministeri che sappiano pensare e gestire i prezzi amministrati? Bene, sorbitevi le lezioni di economia del Manzoni e di Ricolfi, banditori del libero mercato dal più fulgido bastione del libero mercato medesimo, il colosso Mediaset.
All’inizio di questa emergenza abbiamo descritto il coronavirus come un cigno nero capace di produrre una demarcazione tra il prima e il dopo, rendendo possibili politiche che fino a ieri sembravano irrealizzabili, ma che nel contesto emergenziale diventano non solo necessarie ma anche indispensabili per la salute e la sicurezza dei cittadini.
In queste settimane il governo ha messo in cantiere una serie di manovre straordinarie, sicuramente parziali e tardive, ma in netta controtendenza rispetto agli anni precedenti.
È bene comprendere però che non siamo di fronte ad un cambio di passo strutturale, ma a misure inevitabili in un contesto emergenziale per le quali, prima o poi, ci chiederanno il conto.
La crisi sanitaria sta avendo l’effetto detonatore su contraddizioni accumulatesi nel modello di sviluppo dominante i cui costi sociali si sommeranno, per fette sempre più larghe di popolazione, ai costi della crisi ambientale dentro un quadro già compromesso di crisi sistemica del modo di produzione capitalistico.
Se nessuna sottovalutazione della minaccia rappresentata dal Covid-19 è giustificata, altrettanto non lo è la psicosi collettiva che ci ammorba da più di due mesi.
“Oms: influenza nel mondo fino a 650mila morti l’anno”
“Oms: nel mondo ogni anno muoiono per fumo 7 milioni”
“Oms: malaria uccide oltre 400mila persone l’anno, specie bambini”
“Oms: Coronavirus: oltre 4 milioni di contagiati e 275mila morti nel mondo”
Stiamo quindi a queste cifre: i decessi per Convid-19 sono meno della metà di quelli morti l’anno precedente per l’influenza stagionale, sono poco più della metà di quelli morti per malaria, sono il 3,9% di quelli deceduti nel 2019 per fumo.
Più in generale, sempre l’Oms ci informa che nel mondo, i decessi per malattie croniche (cardiovascolari, respiratorie, cancro e diabete), sono ogni anno 15milioni. Di qui le salomoniche direttive dell’Oms per una migliore alimentazione, per un diverso modo di vivere. Detta in modo meno peloso: la madre di tutte le patologie è il modello sociale capitalistico che ci imprigiona.
Non si può
separare la politica monetaria da quella fiscale.
Ogni volta che ci si prova, le motivazioni di solito sono tutt’altro che innocenti e le conseguenze possono rivelarsi disastrose. Questa schizofrenia monetario-fiscale rappresenta spesso uno stratagemma per limitare il potere di uno Stato, subordinandolo a istanze antidemocratiche.
La moneta è un elemento fondante dei rapporti di potere non solo all’interno di uno Stato, ma anche fra gli Stati. L’architettura dei meccanismi di creazione e distruzione della moneta ha un effetto sulla possibilità di accedervi e, quindi, sulla sua distribuzione sociale.
In uno Stato capitalista, le banche, spesso private, sono autorizzate a operare in un altro circuito monetario che fa leva sulla moneta dello Stato. Il circuito inizia con la concessione del credito, che implica la creazione di depositi o di denaro bancario nel medesimo atto, e si chiude con il rimborso dei prestiti. Questo meccanismo conferisce un immenso potere alla classe capitalista perché gli permette di decidere quali risorse verranno mobilitate e quali attività economiche potranno realizzarsi. Ma allo stesso tempo, il sistema finanziario capitalista genera instabilità perché inanella cicli speculativi con periodi di depressione prolungati. Lo Stato capitalista crea categorie privilegiate che usufruiscono di un accesso privilegiato alla moneta per facilitare il processo di accumulazione.
Lo Stato dotato di sovranità monetaria può compensare l’instabilità del sistema finanziario con una rigorosa supervisione bancaria e agendo in chiave anticiclica grazie alla sua capacità di emissione illimitata che gli consente di pagare per i “cocci” quando scoppia una bolla.
1. Nel periodo in cui ho vissuto
nel campus dell’Università della Calabria accadeva, molto
spesso, cosi come
accadeva con i vecchi compagni di strada, nel piccolo borgo
silano, di accostarsi alla teoria del valore-lavoro di Marx
con un approccio intriso di
curiosità, interesse, sete di conoscenza unita a un’attitudine
a riconoscere la complessità del pensiero. Tutto ciò ci
portava a percepire, inconsapevolmente, le complicate
interpretazioni a cui questa teoria era stata sottoposta,
finendo per farci abbandonare il
campo. Anche perché si arrivava alla conclusione che bisognava
continuare ad indagare, a studiare ed approfondire non solo
l’opera del
pensatore tedesco, ma anche tutte quelle opere i cui autori si
erano cimentati, misurati con la coerenza della cosiddetta
legge del valore-lavoro.
Paradossalmente, è stato proprio quest’atto di uscir fuori
dallo schema, di non seguire un programma lineare, che ha
fatto riemergere il
bisogno di riprendere quel cammino, in realtà mai interrotto
completamente, e ricco di linfa vitale.
Complice di questo nuovo desiderio, di continuare ad indagare una teoria che ha dato luogo a molte controversie, in quella che viene definita una vera e propria «Babele del marxismo», nei suoi numerosi attacchi per scuotere la validità e quindi le fondamenta dell’intero impianto teorico che si regge su quella scoperta, è stato proprio un articolo di una delle menti più brillanti di quell’ateneo che, in qualche modo, mi ha colto in contropiede. L’articolo in questione è «Lavoro e tempo di lavoro in Marx», di F. Piperno, una persona che ha messo a disposizione del movimento operaio tutta la sua conoscenza scientifica. Piperno ha saputo guardare lontano ed è riuscito ad incidere nella politica, pagando un prezzo molto elevato. Quando nell’Università della Calabria fecero irruzione i gendarmi, sequestrarono e distrussero libri come «La rivoluzione terrestre». Egli, com’è noto, riuscì a rifugiarsi in Francia, evitando le maglie della rete del Teorema del 7 aprile.
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Pubblichiamo la traduzione del testo Pandémie logistique. La crise sanitaire depuis les infrastructures du capitalisme avancé scritto da ACTA. Una lettura utile e puntuale sul paradossale statuto della logistica emerso con evidenza in questa crisi, il suo essere presentata al contempo come causa della diffusione pandemica e come sua possibile 'soluzione'. Nell'articolo si discutono inoltre i conflitti che si stanno producendo nel "settore" logistico (che in Francia impiega ormai un quarto della forza lavoro), nella loro rilevanza 'essenziale' sia dal punto di vista del capitale che da quello di classe.
Ogni crisi - sia essa economica, politica o
sanitaria - aggrava e rende visibili
le strutture, le logiche profonde e le contraddizioni di una
società data. In quello che stiamo vivendo, la logistica si
sta affermando ancora
una volta come campo strategico e come “tallone d'Achille”
dell'economia globalizzata. Dai lavoratori nei magazzini
catapultati in
“prima linea” alle catene di fornitura globali che
diffondono il virus, dagli aerei da carico che consegnano
maschere dalla Cina agli
scandali sanitari nei magazzini, il settore della logistica
prende in prestito a turno l'immagine del salvatore e del
colpevole. Al fine di
individuare linee di analisi e prospettive di intervento
politico, a metà marzo è stata avviata un'indagine
collettiva, attraverso la
creazione di un Gruppo di indagine logistica (GEL). Questo
testo è la prima sintesi di un lavoro collettivo ancora in
corso.
* * * *
Pandemia just-in-time
Più che mai, l'attuale crisi sanitaria mette in evidenza la “logisticizzazione” del mondo. La pandemia segue le rotte del commercio mondiale e fa parte di una generazione di virus la cui nocività non è tanto contenuta in nuove forme biologiche quanto in modalità accelerate di trasmissione e circolazione. Viaggiando su esseri viventi o oggetti, su camion, autobus, aerei o navi da carico, nei mercati, negli aeroporti e nelle metropoli, il Covid-19 si inserisce in ogni poro (e porto) delle economie globalizzate. Segnando le infrastrutture del capitalismo di un’impronta virale, esacerba e rende visibile la loro nocività.
La dipendenza fondamentale del capitalismo dalle infrastrutture logistiche globali ha provocato reazioni politiche contraddittorie, che inizialmente hanno consistito nel brandire la chiusura delle frontiere, come se la pandemia fosse sensibile ai riflessi nazionalistici.
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Con la
sentenza del 5 maggio, la corte costituzionale tedesca ha
sostenuto che la BCE,
nell’attuare misure come il Q.E. voluto da Draghi dal 2015 che
applicavano il whatever it takes, abbia infranto la
misura della
proporzionalità nel sostenere i Paesi dell’eurozona. Non solo,
si è anche rivolta sia al governo tedesco, sia al parlamento
tedesco, rilevando che queste istituzioni nazionali non hanno
vigilato ed eccepito in merito, a difesa degli interessi
nazionali. Non solo. Si
è anche rilevato che la corte di giustizia europea non ha
vigilato sull’operato della BCE e non ne ha limitato l’azione.
Quindi
riassumendo, in una articolata e complessa sentenza, la corte
costituzionale tedesca, ossia il massimo organo giuridico
nazionale di un paese europeo,
anzi, del paese egemone in Europa, ha criticato
diverse istituzioni nazionali e internazionali: il parlamento
tedesco, il governo tedesco, la
BCE e la corte di giustizia europea. Nessuna di queste quattro
istituzioni, due nazionali, due europee, hanno fatto il
proprio dovere secondo la corte
costituzionale tedesca. Nonostante i numerosi trattati
europei, dice la corte tedesca, la sovranità spetta ancora
agli Stati nazionali che
hanno solo conferito mandati con la sottoscrizione dei
trattati, per spazi d’azione limitati che, qualora dovessero
risultare violati da parte
della azione della BCE, o del MES, che ne sostituisce l’azione
di politica monetaria attraverso la politica economica di
aggiustamenti
macroeconomici per i Paesi in difficoltà, la corte
costituzionale tedesca si riserva il compito di indagare e
chiedere spiegazioni.
Interessante che secondo la corte costituzionale tedesca, la
sovranità appartiene ancora agli Stati della UE, non è stata
ceduta a
titolo originario, ma solo con un mandato, che in quanto tale
è rivedibile. Si gettano le fondamenta per la Germanexit, in
un conflitto
istituzionale tra un Paese membro (e quale Paese!) e la Corte
Costituzionale europea delegittimata e messa sul banco degli
imputati. Lo stesso per la
banca centrale europea.
Economia e pandemia. Le imprese possiedono un patrimonio tra i più elevati del Gruppo dei 7. Il 20% più ricco delle famiglie possiede 6 trilioni di euro, pur nel il ristagno dell’economia
Di fronte alla recessione innescata dalla pandemia la domanda globale va sostenuta con robuste iniezioni di spesa pubblica, ancorché in disavanzo. Devono potenziarsi gli ammortizzatori sociali. Ciò vale in specie per chi senza cassa integrazione perderebbe il lavoro, per chi non lo ha ovvero era “in nero”, per i poveri come pure per chi – piccoli imprenditori e autonomi compresi – non era povero ma ha visto il suo reddito scemare e dispone di poco risparmio.
Lo Stato può spingersi sino a garantire parte dei prestiti che le banche accordano, in particolare alle imprese. Le banche devono però pur sempre acquisire dati veridici sul merito di credito dei richiedenti. Andrebbero inoltre temporaneamente sollevate dal rischio penale legato ai casi di fallimento degli affidati, che saranno frequenti, e delle revocatorie fallimentari.
Bellanova piange. Ma gli emigranti sanno che la ministra, mentre dichiara di far emergere il lavoro nero, ha un altro obiettivo. Nelle campagne, per il coronavirus, mancano gli schiavi e pensa, con il decreto, di arruolarne il numero necessario
Il tira e molla del governo Conte, sulla regolarizzazione dei migranti in agricoltura, è arrivato ad una conclusione. Dopo una guerra accanita tra le due componenti governative (PD e 5 Stelle), che rappresentano diverse associazioni di imprenditori del settore agricolo in contrapposizione tra di loro, il governo ha trovato un accordo e, come al solito, la montagna ha partorito un topolino.
Andiamo con ordine.
Da una parte, del tira e molla, c’era la ministra dell’agricoltura Bellanova, spinta ed appoggiata dagli interessi diretti della potente Alleanza delle Cooperative Italiane (Agci, Confcooperative, Legacoop ). Cooperative che gestiscono un fatturato di 35 miliardi di euro nel settore agricolo e che controllano il 35% della manodopera migrante impiegata nelle loro varie attività.
Si discute ancora molto sulla possibilità di usare i fondi europei del Mes effettivamente senza condizionamenti o meno.
Innanzitutto occorre precisare che, quando si parla di “non condizioni”, ci si riferisce a quelle legate ai “normali” prestiti che il Mes fa ai paesi che lo chiedono.
Queste condizioni sono di due tipi: una preventiva, che riguarda la possibilità o meno di un paese di accedere al credito accettando il controllo e le indicazioni sullo stato finanziario e sulla politica economica del paese; la seconda condizione in itinere, nel corso della durata del credito sino ad almeno la restituzione del 75% della somma, anch’essa riguarda l’accettazione di controlli e indicazioni stringenti sulla politica economica del paese da parte della Banca Centrale Europea (BCE), della Commissione Europea e del Fondo monetario internazionale (FMI), cioè della cosiddetta “troika”. Di fatto il paese viene commissariato dal punto di vista della politica economica con l’unico obiettivo di riuscire a restituire i soldi al Mes.
Dal Millenarismo alla Peste Nera: la paura torna ad essere lo strumento del Potere
Ormai siamo tornati al Medio Evo: l'esercizio del potere sugli uomini si fonda sulla loro paura.
Eclissate da secoli, battute dall'Umanesimo e dal Rinascimento, dall'Illuminismo e dall'Empirismo, dalla Ragione e dalla Scienza che hanno finalmente avuto la meglio sulla superstizione e sulla paura del futuro, la Fine del Mondo e la Morte tornano nuovamente a dominare la narrazione quotidiana.
Non ci sono nemici alle porte, né invasori. Gli immigrati dall'Africa sono compagni di viaggio, da compiangere e da ospitare amorevolmente: già fuggono dalla fame, dalla deforestazione e dal saccheggio violento delle loro terre.
Neppure dai potenti di turno dobbiamo difenderci e diffidare: sono loro, anzi, che ci difenderanno da un futuro terribile che prevedono, terribile. Eppure, sono gli stessi che depredano il Pianeta, senza sosta.
Sono loro, i nuovi Camaleonti della Storia.
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La pandemia in corso, oltre a una pluralità di ricadute di natura economica, sociologica e geopolitica, offre l’occasione di soffermarci sui processi di pensiero che si attivano nelle condizioni di emergenza più drammatiche. Il Covid-19 è un fenomeno parziale, interno a una rete complessa di eventi e di interazioni sistemiche che legano ecosistemi, gruppi umani e logiche culturali egemoni.
La tentazione più marcata, in questi mesi, è stata quella di semplificare da posizioni opposte la situazione in corso. Chi cerca con vigore di dimostrare che il virus è stato costruito in laboratorio per destabilizzare l’una o l’altra potenza mondiale, mi pare che sia alla ricerca di risposte unilineari come accade, all’opposto, nelle fila degli ammiratori della Scienza con la “s” maiuscola. Per quest’ultimi problematizzare quanto propinato dagli “esperti” di turno (esperti che, a dirla tutta, cambiano idea ogni giorno dimostrando che nel mondo della complessità lo schema causa-effetto coglie ben poco della realtà) è criminale di per sé. Ne segue l’invito, nemmeno velato, a smettere di pensare, a non articolare un discorso critico, insomma a obbedire alle disposizioni che giungono dalle autorità sanitarie e di governo.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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Ludovico Lamar: In morte della capacità critica
2020-04-07 - Hits 3381
Alberto Bagnai: La semplice macroeconomia del dopo crisi
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Thomas Fazi: La truffa del MES “senza condizionalità”
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Rob Wallace: Da dove è arrivato il Coronavirus, e dove ci porterà?
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Fabio Vighi: Covid-19 come sintomo: note sulla produzione di un virus
2020-03-18 - Hits 2287
Gian Carlo Blangiardo: Coronavirus: nel 2019 a marzo 15mila morti per polmoniti varie
2020-04-02 - Hits 2017
Piero Bernocchi: La Wuhan "de noantri"
2020-02-28 - Hits 1790
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
2020-04-24 - Hits 1742
Raffaele Sciortino: Appunti di ricerca sulla crisi da coronavirus (in progress)
2020-03-20 - Hits 1735
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Avevo chiuso l’ultimo post[1]
individuando come via di uscita dalla
ordalia[2]
chiamata dalla Germania un’uscita unilaterale della stessa, o
la resa latina (con conseguente
aggressione finale dei mercati ai più deboli). Certo ci sono
anche una serie di possibilità di mezzo e di rinvii, ma
rimandano solo
l’inevitabile definizione della battaglia finale per l’Europa
che è stata avviata.
Per rendere più chiaro il terreno di gioco e le poste designate interviene una delle voci più autorevoli della destra economica tedesca, ovvero Hans-Werner Sinn. In un breve articolo[3] su “Project Syndacate” diffida la Commissione dall’avanzare una procedura di infrazione verso la Germania, conferma la natura eminentemente politico-istituzionale dello scontro, e indica quale unica via di uscita la creazione di un’unione politica realmente indipendente, nella quale si parta dalla protezione militare e nucleare autoctona. Ovvero propone uno scambio di unione fiscale verso condivisione della capacità nucleare, e dei relativi eserciti, alla Francia.
Bisognerà richiamare un lontano antefatto. Quando terminò la Seconda guerra mondiale la Germania era distrutta fisicamente, umiliata moralmente, ed occupata militarmente da tutte le potenze alleate. Si avviò un lungo gioco egemonico e di confronto militare nel quale, fino al crollo sovietico, la posta principale era il controllo dell’Europa, per impedire che potesse passare nel campo avverso. Cruciale in questo gioco è sempre stato il controllo delle due potenze sconfitte, sia militarmente sia ideologicamente. Ovvero di Germania e Italia. Ma, ovviamente, soprattutto della prima. Non è affatto un caso che la “guerra fredda” abbia coinciso con la pace europea e con l’occupazione militare perdurante dei paesi di cui sopra citati. Ci sono alcuni corollari: l’Europa non è più da considerare il centro del mondo, dopo il “suicidio” determinato dalle due grandi guerre questo si è spostato fuori (inizialmente Usa e Urss, ed ora Usa e Cina, con la Russia a fare da terzo ballerino).
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Sí
vedrem chiaro poi come
sovente per le cose dubbiose altri s’avanza, et come
spesso indarno si sospira.
(Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto XXXII)
Cari ragazzi,
nel mese di marzo alcuni di voi hanno svolto un tema sul modo in cui la malattia nota come COVID-19 è entrata nella vostra vita. La traccia si concludeva con un’accorata lettera pubblicata a marzo su «Famiglia Cristiana» e presto diventata – conformemente allo spirito dei nostri tempi – virale. Pungolato dalle parole dell’autore, lo psicoterapeuta Alberto Pellai, in quei giorni ho cominciato anch’io a mettere per iscritto alcuni pensieri che andavo rimuginando sin dall’inizio della chiusura scolastica e che avrei voluto condividere con voi; mi ero però imposto il silenzio e una pausa di studio, anche per evitare di turbare la sensibilità di qualcuno nel clima apparentemente edificante di allora. L’evolversi degli eventi proprio nella direzione da me paventata mi ha indotto infine a rompere gli indugi e a completare le mie considerazioni, pur nella consapevolezza che, per vari motivi, non potrò inviarvele o esporvele personalmente. Quando un giorno vi giungeranno forse per via indiretta, vi sorprenderà vedermi esprimere in maniera tanto esplicita, come non era mai successo in precedenza. A scuola mi sono sempre limitato a suggerirvi ogni tanto fugaci spunti provocatori e velate allusioni a idee e argomenti controversi, ma il tempo della prudenza e del temporeggiamento è ormai passato da un pezzo: è giunto il momento di cominciare a parlare senza infingimenti, chiamando, con Giordano Bruno, “la verità per verità […], le imposture per imposture, gl’inganni per inganni”1, e dicendo liberamente – mi scuserete l’espressione, che cito dal letterato del Cinquecento Pietro Aretino – “pane al pane, e cazzo al cazzo”2. Se quello che scriverò vi sembrerà deludente, scriteriato, poco comprensibile o semplicemente noioso, siate indulgenti: potrete pensare che in fondo è opera di un povero “cervel pazzo”.
Con interventi di Umberto Curi, Fiorella Farinelli, Mirco Pieralisi. Walter Lapini, Maria Chiara Acciarini, Alba Sasso, Giuseppe Caliceti, Teodoro Margarita, Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo, Andrea Cerroni, Gianni Vacchelli, Ivan Cervesato, Vittorio Perego, Stefano Bertoldi, Anna Polo, Nicola Giua; (i siti da cui sono ripresi sono in calce a ogni articolo); le vignette sono di Lopez, Quino e Schulz
Premessa
Lungi dall’essere un’opportunità per cambiare paradigma, come alcuni sembrano suggerire, la Didattica a Distanza è solo la risposta immediata, necessaria e temporanea, ad una crisi sanitaria senza precedenti.
Non una scelta, ma uno sforzo collettivo; non un destino, ma una didattica dell’emergenza, generosamente disomogenea, a tratti improvvisata agli inizi, progressivamente più condivisa e organizzata col trascorrere delle settimane.
Una manifestazione di deontologia professionale, nel rispetto del compito educativo che la nostra Costituzione attribuisce agli insegnanti e, con modalità e profili diversi, alle figure genitoriali, all’intero corpo sociale. Una garanzia per il diritto-dovere all’istruzione, la cui tutela è ancor più necessaria – oggi – a scuola sospesa, costretta al solo spazio virtuale. Anche perché la tecnologia è una “cultura”, che non è in alcun modo neutra, ma che nasce situata e “situa” chi la usa. Come dimenticare poi lo stretto e ormai soffocante legame tra tecnologia ed economicizzazione/aziendalizzazione della scuola, nel regno della quantificazione e della misurabilità?
Nell’ipotesi di un ritorno nelle classi controllato, da parte di circa 8 milioni di studenti e quasi un milione di insegnanti, e nell’attesa di condividere, non appena possibile, luoghi e spazi fisici in presenza, pensiamo valga la pena sottolineare alcuni aspetti che fanno sì che la scuola possa essere ancora libera, viva e significativa: dentro e fuori le mura.
Un nuovo progetto raccoglie l'eredità della più longeva delle riviste operaiste. E rilancia gli assi principali: l’inchiesta storica e militante assieme all’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano
La rivista Primo Maggio
(1973-1989), fondata e animata da Sergio
Bologna, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni e
altri fu di gran lunga la più longeva delle riviste
«operaiste»
(Quaderni Rossi pubblicò dal 1961 al 1965; Classe
Operaia dal 1964 al 1967; Contropiano dal
1968 al 1971;
Rosso dal 1973 al 1979). Questa longevità la rende
una rivista meno legata alle contingenze politiche come
potevano essere le altre
– esposte ai capricci dei rapidi e imprevedibili
avvicendamenti storici e di fase – e con un respiro di
analisi più profondo. La
sua longevità le permise di attraversare due decenni di
segno opposto: prima quello dell’ascesa vorticosa e poi
quello del lento declino
del movimento operaio. E forse questa capacità di resistere,
raccogliere energie e produrre analisi anche procedendo contro
– ma
in molti casi anticipando: si pensi alle intuizioni sulla
crescente importanza della logistica così come del lavoro
autonomo – il corso
della storia rende quell’esperienza particolarmente
affascinante e utile per il presente.
Negli scorsi due anni un gruppo di militanti e intellettuali – in buona parte ricercatori/trici precari/e – di diverse generazioni ha fondato il collettivo Officina Primo Maggio con l’obiettivo di recuperare e rivisitare l’esperienza dell’omonima rivista degli anni Settanta e Ottanta: in particolare la centralità del metodo dell’inchiesta – storica e militante – l’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano. Ne avevamo parlato su Jacobin Italia con Sergio Bologna nello scorso gennaio. In quell’intervista Bologna ha insistito su un punto centrale del metodo della vecchia e nuova Primo Maggio:
Secondo alcuni – Giorgio Agamben su tutti[1] – l’ondata emotiva e le misure drastiche di contenimento dell’emergenza sanitaria mostrerebbero con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non alla ‘nuda vita’. Non abbiamo più cioè nessuna idea di cosa sia la vita, nel senso più pieno e ricco del termine. L’idea di salute sorpasserebbe qualunque altra, il puro sopravvivere sarebbe l’ultimo valore universalmente rimasto. Questo sarebbe il messaggio da trarre da queste settimane di quarantena. Ma è proprio così? C’è da dubitarne. Innanzitutto, come ha ben spiegato Luca Illetterati, quella che ad Agamben appare come la difesa della mera vita è in realtà protezione di quella medesima vita che si dà anche come vita sociale e quindi come vita politica (nel momento in cui la protezione di quella che viene considerata come la nuda vita è anche protezione della vita degli altri). Inoltre, quando diamo un giudizio sulla nostra esistenza lo facciamo sempre con riferimento ad un modello di vita ideale, mai prescindendone.
Tra qualche mese staremo qui a commentare il disastro economico e sociale nel quale ci troveremo e qualcuno darà la colpa a chi non ci ha avvertito per tempo. Ma come al solito, si tratterà di pura presa per i fondelli, “per tempo” è oggi e già oggi sappiamo perfettamente come andranno le cose. Anzi non da oggi, noi ne abbiamo parlato qui già più di un mese fa. Di cosa? Del fatto che per mesi non avremo domanda a sufficienza per sostenere l’offerta.
A parte il fatto che la “normalità” materiale non sappiamo quando mai tornerà stante che ieri abbiamo parlato di prospettive ancora lunghe per la diffusione del virus e stante che lo stesso WHO (13.05 Mike Ryan, capo del programma emergenze sanitarie WHO) avanza l’ipotesi possa diventare endemico, molto più tempo impiegherà la normalità psichica. La normalità psichica impiega molto più tempo ad esser recuperata perché la paura consiglia di rimanere all’erta anche dopo lo scampato pericolo. A volte impiega anni come nelle patologie da stress post-traumatico.
La “domanda” è la nostra propensione a spendere soldi per comprare cose. Sul piano materiale è data dai soldi che guadagniamo e dall’ammontare di quelli che abbiamo in banca, più un fattore decisivo: l’aspettativa.
Dopo infinite schermaglie è arrivato il provvedimento del governo Conte per la regolarizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati. Ed è un provvedimento-beffa.
Anzitutto i numeri. Per ammissione del governo ci sono oggi in Italia (almeno) 600.000 immigrati/e privi di permesso di soggiorno. Ebbene, il governo ha deliberato di regolarizzarne solo un terzo e a precise condizioni. Secondo la ministra degli interni Lamorgese, che d’ora in poi chiameremo LaSalvini, si tratterà di circa 200.000 persone (lo dice sul Corriere della sera di oggi, 14 maggio). Quindi il governo Pd-Cinquestelle ha deciso che gli altri 400.000 debbono restare irregolari, a completa disposizione del sistema delle imprese, incluse le intoccabili imprese della criminalità organizzata, che li supersfrutta beneficiando della loro irregolarità.
La feccia di destre e M5S ha sbraitato a squarciagola contro la presunta sanatoria. Ma il provvedimento sana, essenzialmente, una sola cosa: il supersfruttamento pregresso degli irregolari perché consente a chi lo ha attuato di farla franca sul piano penale e amministrativo pagando 400 euro e un’altra somma a forfait per i contributi non versati – somme che spesso questa genìa di negrieri fa pagare agli stessi immigrati/e utilizzando l’argomento molto persuasivo: vuoi regolarizzarti? E allora pagati la regolarizzazione!
Dopo le continue pressioni per le riaperture immediate delle fabbriche, gli industriali italiani se la prendono ora con la norma che include il contagio da Coronavirus sul posto di lavoro come fattispecie soggetta alla tutela prevista dalle norme antinfortunistiche dell’Inail, l’Istituto Nazionale infortuni sul lavoro. L’articolo 42 del decreto Cura Italia, al comma 2, prevede infatti che se un lavoratore viene contagiato dal Coronavirus, in analogia con tutte le situazioni epidemiche, il caso sarà iscritto nel registro dell’Inail come infortunio sul lavoro. Chi risulta positivo al contagio, pertanto, ha accesso a tutte le tutele del caso. L’assenza dal lavoro per quarantena o isolamento domiciliare – e l’assenza successiva, dovuta all’eventuale prolungamento della malattia – viene considerata come periodo di inabilità temporanea assoluta, indennizzato dall’Inail.
Questa norma ha avuto e ha validità non solo per il personale medico e infermieristico, senza dubbio il più esposto, ma anche per tutte le attività che comportano il costante contatto con il pubblico, come nel caso di farmacisti, cassieri o camerieri. In questa fattispecie, la norma non prevede la necessità di accertamenti medici, presumendo a priori che il contagio sia avvenuto sul luogo di lavoro.
La condizione del lockdown è stata una condizione strana. Non lo è di meno quella che è appena iniziata, nella quale siamo costretti a “parodiare” la vita “di prima”: sono infatti gli stessi gesti “di prima” quelli che dobbiamo fare uscendo di casa, come prendere la metro per andare a lavorare oppure bere un caffè, ma lo dobbiamo fare in modo circospetto, rivolgendo ad essi un’attenzione supplementare, quasi li dovessimo recitare piuttosto che effettuare. Se vogliamo essere responsabili, dobbiamo infatti porre attenzione ai gesti più ordinari. Dobbiamo, per così dire, guardarli mentre li facciamo. È come se dovessimo riapprendere a eseguire in modo riflesso delle azioni che prima procedevano spedite, automaticamente, nel sonno della coscienza vigile, la quale era rivolta a tutt’altro.
Mirava all’obbiettivo da realizzare, qualunque esso fosse, ad esempio, il lavoro che ci è stato assegnato e che ci identifica nella nostra identità sociale, e trascurava la microfisica dei gesti su cui esso si “impalca”. Si andava al lavoro senza dover far mente locale al fatto che per andarci bisognasse respirare, camminare, attraversare degli spazi fisici, incontrare degli altri esseri umani ecc.
La struttura di
classe della società italiana che la quarantena ha oggi
evidenziato in tutta la sua
virulenza e drammaticità, non nasce, ovviamente, con la
quarantena stessa, perché essa era già squadernata, e
pienamente
visibile, sin dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, se
non da ancora molto prima. Così come, d’altronde, erano
squadernati,
e pienamente visibili, alcuni mutamenti radicali (dei veri e
propri rovesciamenti) avvenuti, all’interno di essa, nei
riferimenti sociali di
destra e sinistra. Lo segnalava già Franco De Felice nella sua
ultima, grande, opera, pubblicata nel 1996 per la Storia
d’Italia
Einaudi, nella quale, ragionando in maniera lucida e
spregiudicata sulla nuova composizione sociale italiana, aveva
sostenuto che nel blocco
più protetto del nuovo quadro della competizione
internazionale, c’è molto più la sinistra che la destra, la
quale tende,
invece, a rappresentare i settori più colpiti[1]. Si tratta di
una situazione, questa, particolarmente anomala,
perché è una situazione che capovolge i tradizionali
riferimenti sociali di
destra e sinistra (all’interno della quale, come diceva molto
bene Mario Tronti, troppo spesso «vediamo una destra di popolo
che avanza in
Europa e in Occidente»), assegnando, ormai quasi stabilmente,
i salotti alla sinistra e le periferie
alla destra. Ma fino a
quando, si chiedeva ancora Tronti, potrà durare una situazione
come questa?[2]. E questa
domanda, posta da Tronti, che individuava con precisione il
rovesciamento avvenuto intorno ai rapporti tra classi
sociali e ideologie
politiche, risuona ancora di più oggi, come un
pericolo, in tutta la sua virulenza e drammaticità, perché
come ha scritto di
recente Dider Eriban, un importante sociologo francese, «la
quarantena evidenzia la struttura di classe della società»,
non solo
nel mondo del lavoro, come è evidente, ma soprattutto fuori di
esso, dove ci sono quelli che hanno perso tutto, e che «non
hanno
più niente».
In un primo approccio,
l’importanza eccezionale accordata agli effetti patologici
legati all’infezione da
coronavirus sembrerebbe un buon modo per mascherare il
fenomeno essenziale in atto: la distruzione della natura e la
rimessa in discussione del
processo di vita organica sulla Terra. Si tratta della
scomparsa di migliaia di specie e del blocco di tale processo
in atto da quasi quattro miliardi
di anni, che conducono ad un’immensa estinzione. Ora la Terra
è un corpo celeste eccezionale e nessun altro somigliante è
stato
scoperto a migliaia di anni luce. Come può la specie
escamotare* un
tale evento, se non a causa della sua follia,
rinchiudimento in un divenire, un’erranza, che la fa incapace
d’immaginare qualcosa di diverso, in particolare una via
d’uscita.
Essa si preoccupa solo di se stessa, ignorando che ciò che
subisce è una conseguenza della sua dinamica di separazione
dalla natura e
della sua inimicizia,1 sia interspecifica, che
infraspecifica.
Tale dinamica di mascheramento è vera, evidente, ma questa affermazione non implica una sottovalutazione del fenomeno che stiamo subendo. È ciò su cui vogliamo insistere e non intendiamo separare i due fenomeni, ma al contrario integrare ciò che riguarda la specie nel divenire della totalità del fenomeno vivente.
Il carattere più importante di questa pandemia è il suo contagio fortissimo a causa del virus stesso ma soprattutto a causa della sovrappopolazione e della distruzione della natura che riduce il numero delle specie possibili ospiti. Essa è vissuta come una terribile minaccia.
Ora, in diversi momenti del loro processo di vita uomini e donne si trovano, consciamente o inconsciamente, in presenza della minaccia che in certi casi può manifestarsi come una minaccia ben determinata.
A partire dagli
spunti contenuti nel libro Frammenti sulle macchine,
pubblicato per la
collana Input di DeriveApprodi, discutiamo con Salvatore
Cominu gli effetti che gli sconvolgimenti dell’emergenza
sanitaria ed economica avranno
sui processi di innovazione capitalistica, sulle prospettive
di rilancio dell’accumulazione, sulle possibilità di un
contro-uso della
crisi.
* * * *
È innegabile che la crisi da Covid rappresenti un acceleratore dei processi di ristrutturazione capitalistica – pensiamo ad esempio alla spinta alla digitalizzazione del lavoro o della formazione – e una ghiotta opportunità per i Big Tech e per le altre imprese che vengono solitamente raggruppate sotto la definizione di «capitalismo delle piattaforme». È altrettanto vero che la crisi ha mostrato le fragilità strutturali dell’organizzazione capitalistica odierna: siti web che non reggono il numero degli accessi, catene di distribuzione incapaci di gestire il quantitativo d’ordini, l’improvvisazione su didattica a distanza e smart working. Si può dire che negli ultimi anni si è aderito pedissequamente alle retoriche capitalistiche sottovalutando lo scarto che c’è tra di esse e quello che effettivamente vediamo?
L’innovazione tecnologica è anche hype, l’innovatore e il suo venture capitalist sono attori che dialogano con i mercati corporate e finanziari, sono produttori di retoriche che spingono le aspettative, enfatizzando le utilità per i compratori (le imprese, gli individui, le organizzazioni) e il valore atteso che alimenta, in ultimo, le convenzioni finanziarie.
Torna il nostro dossier “Coronavirus: sfide e scenari”, su cui oggi Andrea Muratore ci parla degli scenari a lungo termine aperti dalla pandemia e delle prospettive riguardanti le evoluzioni economiche, politiche e sociali indotte dalla pandemia in corso in tutto il mondo
L’epidemia di coronavirus
e le sue conseguenze per le società del mondo
globalizzato stanno,
giorno dopo giorno, acquisendo tutte le caratteristiche di una
svolta epocale. Di un contesto di
catalizzazione di dinamiche, scenari
e sviluppi già in atto, accelerati dall’incontro tra la pandemia
originatasi in Cina e un mondo globalizzato di cui
stavano, gradualmente, venendo in emersione spigolature e
contraddizioni. Come ha dichiarato in un’intervista alla rivista
francese Le Grand Continent la virologa Ilaria
Capua, il virus e i suoi
effetti corrono sfruttando la
velocità e l’iperconnessione, fisica e non, del nostro
sistema: “Attraverso le infrastrutture di
comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e
quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima
mettevano millenni ad accadere.
Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una
mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere
umano quando abbiamo
iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il
mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza
spagnola, che un
secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa
volta invece sono bastate un paio di settimane”.
Il coronavirus impatta come il temuto “cigno nero”, lo shock esogeno teorizzato nell’omonimo saggio di Nassim Nicholas Taleb e che in Italia è stata resa popolare dall’attuale presidente della Consob Paolo Savona. La tutt’altro che remota ipotesi di una malattia pandemica accelerata dai meccanismi della globalizzazione si trasforma in uno shock sistemico. Paradigmi consolidati sono saltati in poche settimane, dopo che le società occidentali si erano cullate nell’illusione che le strategie draconiane messe in campo dalla Cina di Xi Jinping fossero sufficienti a prevenire un’espansione del coronavirus oltre i confini dell’Impero di Mezzo.
La proprietà del controllore e quella del controllato non possono coincidere.
In questo periodo si parla spesso di banche, di finanza e di moneta: forse è bene sapere anche che cosa è e di chi è la Banca d’Italia, visto che in molti sono convinti che sia di proprietà dello Stato.
NON È COSÌ!
Senza entrare nel merito di aspetti giuridici ed economici che ci porterebbero lontano, possiamo dire che la modifica strutturale della Banca d’Italia è iniziata nel 1981 con la separazione tra lo Stato e la banca centrale che definì uno status diverso per cui essa non era più obbligata ad acquistare le obbligazioni che lo Stato emetteva ma non riusciva ad immettere sul mercato.
In pratica con tale modifica terminava la monetizzazione del debito pubblico italiano, cioè più banalmente la possibilità di stampare moneta per coprire le necessità dello stato senza fare ulteriore debito pubblico.
Poi con successive modifiche e soprattutto con l’ascesa dell’Euro e della BCE, il ruolo della Banca d’Italia si è del tutto modificato.
Mameli e Del Savio rappresentano bene il nucleo teorico della mia posizione sul populismo, ma non riescono a dare sufficiente conto della ragione per cui rifiuto la logica faziosa del populismo e un realismo politico senza appello alla normatività, a ragioni universalizzabili
E’ ragione di grandissima soddisfazione leggere recensioni intelligenti. Soprattutto quando in discussione vi è un proprio libro. Ringrazio dunque Matteo Mameli e Lorenzo Del Savio per la loro analisi del mio Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia (traduzione per il Mulino dall’edizione originale inglese uscita per Harvard University Press). La recensione mette in luce l’argomento centrale del lavoro e ne discute alcuni aspetti teorici, quelli soprattutto che più stanno a cuore a Mameli e Del Savio, ovvero il posto e il valore del populismo di sinistra. Il libro non discute i “generi” di populismo, ma vuole capire quale tipo di relazione il populismo instaura con la democrazia rappresentativa e costituzionale una volta conquistato il cuore del potere, ovvero una maggioranza elettorale e il governo. Non mi occupo per tanto di dire che cosa questo strano animale chiamo populismo sia, anche perché a detta dei suoi stessi estimatori non è un’ideologia ma un modo di essere del potere democratico.
Da sempre contraria alla eccessiva matematizzazione dell’economia, la Robinson viene considerata come una dei più grandi e influenti economisti del Novecento
Agli inizi del secolo scorso gli studi economici non erano certo considerati una priorità per la popolazione femminile, in molti atenei l’accesso era consentito esclusivamente agli uomini. Eppure Joan Robinson viene considerata come una dei più grandi economisti del secolo ed il suo pensiero è stato fondamentale per molti aspetti della teoria economica. Nata Joan Violet Maurice nel 1903 a Camberley da una famiglia agiata, ne erediterà anche il carattere piuttosto frizzante e anticonformista. Il padre Sir Frederick Barton Maurice generale dell’esercito britannico viene ricordato per le aspre critiche pubbliche nei confronti dell’allora primo ministro Lloyd George per i suoi discorsi fuorvianti al Paramento durante la Prima Guerra Mondiale.
Joan si iscrive nel 1921 al Girton College di Cambridge, uno dei pochi riservati alle donne, completa tutti gli esami nel 1925 ma non riceve il diploma di laurea in quanto all’epoca il Girton non veniva considerato ufficialmente una Università (cosa che avvenne solo nel 1948), bensì una “istituzione per l’educazione superiore delle donne”. L’anno successivo si sposa con Austin Robinson, economista e docente all’Università di Cambridge nonché amico e collaboratore di John Maynard Keynes.
Lo scrittore Honoré de Balzac faceva dire ad un suo personaggio, papà Goriot, che come ciarlatani i Tedeschi non li batte nessuno. Questa sentenza di papà Goriot avrebbe dovuto seppellire la sentenza della Corte Costituzionale tedesca che ha espresso dubbi sulla costituzionalità del Quantitative Easing della Banca Centrale Europea.
Ma forse non era necessario papà Goriot e bastavano le evidenze. Nel 2016 il quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore” riconosceva una tantum che i maggiori vantaggi della politica di inondazione di liquidità e di acquisto indiretto di titoli pubblici operati dalla BCE erano andati alla Germania, compresi i suoi Lander.
Il Quantitative Easing è a costo zero per la Germania poiché si tratta di denaro creato dalla BCE ad hoc e inoltre è sempre la Germania ad avere i maggiori problemi bancari di credito in “sofferenza”. Deutsche Bank ha visto infatti regolarmente fallire i suoi tentativi di risolvere la questione dei crediti non riscuotibili con lo strumento della “bad bank”.
Per fortuna c’è il “Quantitative Easing”, che si è ulteriormente allargato, al punto da aggirare la questione delle garanzie sui titoli. Oggi la BCE lancia programmi di acquisto di obbligazioni “spazzatura” non solo degli Stati ma soprattutto di imprese. Ancora una volta è la Germania a giovarsene maggiormente.
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Niamey, 29 marzo 2020. Doveva essere seppellita giovedì mattina. Per evitare rischi di contaminazione la sepoltura è stata differita a data da destinarsi. Il suo corpo di sabbia giace in una cella frigorifera della camera mortuaria dell’Ospedale Nazionale, con tariffa doppia rispetto ai nazionali. Angela, morta di AIDS, lascia tre figli nel Paese che aveva lasciato prima di partire in migrazione, il Cameroun. Altre come lei avevano tentato l’avventura in Libia e in Algeria con la segreta speranza di raggiungere, un giorno, l’Europa. Era stata espulsa e assieme ad alcune donne, accolta e protetta in una delle abitazioni gestite dall ‘Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati a Niamey. Giace, silente, nel freddo artificiale della sua penultima dimora terrenale. Prima di tornare alla sabbia dalla quale, come tutti, un giorno era stata generata una cinquantina d’anni or sono.
I nostri corpi sono un incostante composto di sabbia e di vento che viene o va verso il mare. Passa dal deserto e si contamina di polvere con la quale siamo tutti impastati. Di questi tempi sono loro, i corpi, a tornare alla ribalta dopo aver fatto, altrove, esperienza di futile ed effimera dimenticanza. Tornano i volti e tornano i corpi.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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1. Cosa non ha
funzionato?
In questi ultimi tre mesi la vita di gran parte della popolazione mondiale è stata letteralmente stravolta dall’irruzione della pandemia da Covid-19. Tra proibizioni, quarantene, forme di controllo sociale iper-tecnologiche, bastonate, a seconda del paese, questa nuova realtà è subentrata a quella precedente all’improvviso creando panico sociale. Al tempo stesso le autorità e i media hanno cercato di spacciare i provvedimenti presi come inevitabili e i migliori possibili. Ma in realtà, se solo ci soffermiamo sulle modalità con cui per esempio il nostro governo ha affrontato questa pandemia, dobbiamo renderci conto che quello che è stato fatto sui cittadini italiani è un vero e proprio TSO di massa, con controlli polizieschi ossessivi, divieti di spostamento, sanzioni ad cazzum, a seconda dei tiramenti dei tutori dell’ordine che incontravi.
Prendiamo allora il Giappone, paese con una cultura della gerarchia piuttosto spiccata. Lì le cose stanno andando diversamente: ai cittadini nipponici è stato indicato, non ordinato, di evitare assembramenti e di uscire di casa il meno possibile e con attenzione. Trattando la gente come cittadini appunto, non come dei bambini imbecilli da criminalizzare. Sulle singole situazioni la polizia è intervenuta informando e invitando a evitare comportamenti rischiosi. Questo fa uno stato civile. Ma l’Italia abbiamo visto civile non è. E si è posta come la capofila di un “sorvegliare e punire” nel mondo occidentale, il laboratorio sociale di un vero e proprio stravolgimento antropologico del tessuto delle ordinarie relazioni sociali e interpersonali.
La crisi attuale, nata come
emergenza sanitaria, avrà effetti devastanti sul piano
economico e sociale, investendo la
costruzione stessa della UE. Per capire cosa ci prospetta il
futuro, occorre prendere in considerazione delle visioni
alternative rispetto ai luoghi
comuni del nostro tempo.
La MMT, spesso bollata come pseudo-scienza, è invece stata recentemente nominata nientemeno che da Mario Draghi come una nuova concezione da discutere in seno alla BCE. Perciò è possibile iniziare a ripensare alcuni concetti-guida sotto la sua prospettiva.
Per spiegare in modo semplice i principi esposti da teorie come la MMT o il Circuitismo occorre che tutti i cittadini, anche quelli che non si sono mai interessati all’economia, prendano piena consapevolezza di che cosa sia il “debito pubblico”, giacché tale argomento è stato l’assoluto protagonista della narrazione politica e giornalistica degli ultimi decenni: una vera costante, che ha finito col confondere molti.
Anzitutto va chiarito che il debito pubblico non è il debito dei cittadini, perciò ogniqualvolta ci si ritrovi a leggere che esso “pesi sulle spalle” dei cittadini (o delle generazioni future), quasi fosse un debito pro capite, si rammenti che cittadini e famiglie che acquistano titoli di debito pubblico non contraggono alcun debito privato, anzi, è vero l’opposto: divengono creditori verso lo Stato. Si potrebbe giustamente dire che al debito dello Stato corrisponda un credito di famiglie, banche, aziende, investitori e così via.
Ci si potrebbe chiedere quale sia la funzione del debito; ebbene, per rispondere a questa domanda ci si dovrebbe interrogare sulla provenienza della moneta e sul funzionamento del sistema economico tutto.
Presentazione dei curatori
Il presente volume delle Opere complete
di Marx ed Engels[1] intende anzitutto fornire la
traduzione completa dei cosiddetti «Quaderni di etnologia»
marxiani, forse più compiutamente denominabili come «Quaderni
etno-antropologici». Negli ultimi anni della sua vita, dal
1879 al 1882, Marx allargò infatti i suoi interessi anche alle
nuove scienze
umane dell’etnologia e di quella che oggi si usa chiamare
antropologia culturale o sociale, che si andavano rapidamente
sviluppando su uno
sfondo evoluzionistico e che offrivano preziosi elementi di
collegamento e confronto con il suo «materialismo storico».
Compilò
così corposi quaderni di Exzerpte o estratti con
citazioni, riassunti, commenti da opere soprattutto di Lewis
H. Morgan, John Phear,
Henry S. Maine, John Lubbock.
L’insieme di questi materiali di studio marxiani (conservati all’Istituto Internazionale di Scienze Sociali di Amsterdam, Quaderni B 156 e B 150), redatti parte in inglese e parte in tedesco e con molte abbreviazioni, rimase sconosciuto al pubblico fino all’edizione dell’americano Lawrence Krader del 1972 (ed. Van Gorcum, Assen) e a quella, interamente in tedesco e con le abbreviazioni sciolte, del 1976 (curata dallo stesso Krader e con «traduzioni» di Angelika Schweikhart per l’editore Suhrkamp di Frankfurt a.M.). Quest’ultima edizione, più leggibile e pur sempre fedele, viene seguita essenzialmente in questa edizione italiana. Una versione spagnola condotta su quella iniziale di Krader è stata pubblicata da José Maria Ripalda per gli editori associati Siglo XXI e Pablo Iglesias di Madrid nel 1988. Delle parti relative a Morgan e a Maine è uscita anche una versione italiana a cura di Politta Foraboschi per le Edizioni Unicopli, Milano 2008.
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Le specifiche e colossali contraddizioni interne dell’austerità predicata dai vertici di Fmi e UE
Sulla mancanza di effettive
giustificazioni economiche nei meccanismi di austerità
antipopolare previsti
da organismi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) o
l’UE vi è una letteratura ormai vastissima, data la
sostanziale assenza di
concreti riscontri storici all’ideologia neoliberista secondo
cui affidarsi al neoliberismo – rinunciando in gran parte o
addirittura del
tutto ai vari tipi di intervento pubblico indirizzati a
ovviare ai “fallimenti del mercato” – dovrebbe provocare
vantaggi economici
a tutte le classi sociali e a tutti i ceti.
Se vi è stato qualche momento e luogo in cui il passaggio al neoliberismo ha apportato vantaggi economici un po’ all’intera società, è stato semplicemente perché in quel luogo l’approccio politico-economico precedentemente dominante era divenuto così corrotto, incompetente e/o burocratizzato da causare gravi danni al fluire di tutta l’economia locale. Non è stato il neoliberismo quindi ad apportare quei vantaggi, ma semplicemente l’aver ridotto il peso e la portata di quei fenomeni di corruzione, di incompetenza e/o di eccessiva e inutile burocrazia. Quei vantaggi ci sarebbero stati – e pressoché certamente in una maniera nettamente più equilibrata tra i vari ceti sociali – anche con un approccio keynesiano lucido, onesto e capace di effettiva pragmaticità (che era appunto l’approccio rivendicato dallo stesso Keynes, il quale detestava sia quei fenomeni sia altre forme di allontanamento dalla pragmaticità produttiva come l’espandersi delle speculazioni finanziarie e l’insistere in economia su dei concetti ideologici senza mettersi profondamente a confronto con la concreta vita economico-produttiva del luogo).
L’ipocrita campagna mediatica che è montata su imbeccata della questura di Torino dopo l’intervento di alcuni compagni in via Balbo, mostra molto chiaramente quanto sia vuota la retorica giustizialista sullo spaccio. Il riempirsi la bocca di lotta alla criminalità e alla droga da parte dello stuolo di benpensanti che affollano le redazioni dei principali quotidiani nazionali e locali, fa il paio con la complice tolleranza delle forze dell’ordine nei confronti de lo smercio che investe i quartieri popolari, strumento sempre efficace nel momento in cui si voglia trovare la scusa buona per “intervenire” o ricevere qualche dritta senza grandi sforzi. A questi, poi, bisognerà aggiungere quanti portano in palmo di mano i vari Saviano di turno, sempre pronti a incensare i loro eroi quando si parla di autori di best-sellers molto remunerativi, ma altrettanto tempestivi quando si tratta di infamare quanti non trovano il limite invalicabile alle loro azioni nella carta stampata. Insomma, quando si tratta di dare addosso allo spacciatore di turno, magari sulla spinta dell’onda securitaria o complici delle sempre più frequenti svolte reazionarie si da fiato alle trombe e la “piaga sociale” dello spaccio viene sbattuta in prima pagina come nemico numero uno.
Secondo Jean-Claude Michéa «la peggiore delle illusioni in cui oggi può cullarsi un militante di sinistra è quindi quella di continuare a credere che quel sistema capitalista che egli afferma di combattere costituisca in sé un ordine conservatore, autoritario e patriarcale, i cui pilastri fondamentali sarebbero la Chiesa, l’Esercito e la Famiglia. Se si confronta questa prospettiva delirante con ciò che abbiamo realmente sotto gli occhi, ci si rende conto che poggia su una confusione micidiale fra le differenti figure proprie allo spirito borghese […] e allo spirito del capitalismo»[1].
Costanzo Preve, invece, notava che il neocapitalismo «ha liberalizzato la sua etica e il suo riferimento alla religione, e lo ha fatto spinto dalla sua intrinseca logica ad allargare la mercificazione universale dei beni e dei servizi, per cui oggi sono mercificati beni e servizi che la borghesia classica intendeva invece preservare dalla sua stessa attività mercificante. I marxisti sciocchi e superficiali naturalmente non capiscono questa distinzione elementare, e continuano a definire “forze conservatrici” le forze economiche e politiche capitalistiche, laddove ovviamente è il contrario. Esse non ‘conservano’ proprio nulla»[2].
Marco Veronese Passarella, 44 anni, veneto, è docente di economia presso l’Economics Division della Leeds University Business School. Fa parte della redazione di Economia e Politica ed è membro del gruppo Reteaching Economics. Lo abbiamo intervistato per la rivista Marx21 sull'attuale fase economica cercando di capire se dal suo punto di vista gli strumenti messi in campo dalle istituzioni europee siano o meno idonee per arginare la crisi, con un passaggio obbligato poi, sui trattati europei e sulle relazioni geopolitiche attuali e su possibili mutamenti di scenario.
* * * *
- Professore, tutto il mondo si avvia verso una recessione economica che forse non ha precedenti: è possibile e auspicabile uscire da questa crisi restando all'interno di rapporti di produzione capitalistici? Se sì, quali strategie economiche e politiche può mettere in campo uno Stato come il nostro?
- Non so se sia possibile. Di certo non è auspicabile. E tuttavia non vi sono, al momento, segnali di un superamento imminente dei rapporti di produzione capitalistici.
Nessuno vorrebbe stare al governo in queste condizioni… Però, se ci stai, qualcosa dovresti pur decidere.
E’ sconfortante vedere le “scelte” elaborate per la Fase 2, che da lunedì coincide più o meno con un “fate un po’ come cavolo vi pare”. Consigli, più che regole; richiesta di “responsabilità” avanzata genericamente a tutti, quindi in realtà – o sul serio – a nessuno.
Ma non è il destino cinico e baro ad aver determinato questa situazione. E’ invece l’impossibilità – fin dall’inizio della pandemia – di determinare scelte dando priorità alla salute dei cittadini anziché al business. Su questo siamo stati chiari fin dall’inizio e non ci ripeteremo. Anche perché le nostre peggiori previsioni si sono avverate da un pezzo…
Fin dall’inizio, insomma, si è scelta la linea suicida del “convivere con il virus”, che in realtà significa semplicemente “chi deve morire muoia, ma noi andiamo avanti come se niente fosse”.
E’ evidente – dai numeri di morti e contagiati della Fase 1 – che il contenimento del contagio è stato disastroso soprattutto là dove si è preferito tenere aperto tutto il più possibile, contrastando ogni dichiarazione di “zona rossa”, come nel bergamasco, nel bresciano, in varie altre aree del nord industriale.
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Tratti di arco degli ultimi 60 anni. Tratti di cosa siamo stati capaci partendo dalle migliori intenzioni.
Tutto è partito in data Berkley University, Beat generation, Movimento hippie, Pop Art, ’68, ’77, Compromesso storico, Brigate Rosse, il qualunquismo.
L’interruzione concretizzata in quei comportamenti, in quelle scelte, tendenze, idee e aspirazioni aveva tutta la ragione storica e dignità di ciò che esiste. Aveva tutta la necessità di fiorire.
Ha avuto molti meriti civili, culturali, ambientali, e politici. Ha sfondato le porte serrate dietro le quali si nascondeva il potere ottuso del bigottismo filogovernativo, del suo indottrinamento tout court.
Come se esistesse una grande legge invisibile chiamata del ciclo dell’avanguardia, quelle buone intenzioni tutte dedicate all’uomo, tutte critiche nei confronti di un sistema imperniato sull’avere, su valori non più rispettabili, si fecero travolgere ed integrare dall’onda di ritorno di quanto avevano creduto d’avere scansato.
55 miliardi, dicono.
Poco meno del cumulo del costo degli interessi sul debito
pubblico e circa la somma
che si spende ogni anno per l’istruzione. Questo è l’importo
totale del Decreto con il quale il governo Conte intende
tamponare
la caduta a picco del sistema economico italiano.
Stime di Bankitalia danno il Pil italiano, 1.750 miliardi, in
caduta del 5% nel
primo trimestre e previsioni ottimiste lo danno al -9% entro
la fine dell’anno. Si perderebbe valore aggiunto per 150
miliardi, almeno. Dentro
questo arretramento la parte maggiore la dovrebbe fare la
produzione industriale, della quale potremmo perderne un
quarto, e l’export. In misura
minore caleranno i consumi delle famiglie e l’occupazione. La
dinamica dei prezzi dovrebbe essere debole sui prodotti
energetici ed il prezzo
dei servizi, con riduzione del reddito dei relativi
lavoratori, in particolare autonomi, ma vedere una certa
inflazione dei prezzi alimentari, con
danno per i ceti più deboli.
In queste condizioni, come sta accadendo un poco in tutto l’occidente, la nostra società si sta violentemente divaricando su molteplici linee di frattura:
In primo luogo, tra coloro che sono connessi con le catene del valore in qualche modo, sia pure a diverso livello di centralità e valore aggiunto, e coloro che ne vivono al margine, impiegati in una insalata di lavoretti, di occasioni, espedienti, variamente visibili e variamente sommersi. I primi, i visibili, sono circa 25 milioni, solo 4 impegnati in attività manifatturiere e gli altri nel vastissimo e complesso mondo dei ‘servizi’. Qui si va dai 6 milioni di persone del commercio, i 5 milioni della Pubblica Amministrazione i 2,5 dei servizi di intrattenimento e 3,2 di attività professionali. I secondi sono stimati in circa 4 milioni di persone. Poi abbiamo i disoccupati effettivi, che dovrebbero essere 6 milioni.
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Il Covid-19 come catalizzatore-rivelatore di come funziona il mondo. Alcune considerazioni e alcune alternative
La
solidarietà
è la cura. La giustizia sociale è il vaccino.
Transnational
Institute
1. Alcune premesse metodologiche
Molti contributi, analisi e proposte, attorno alla pandemia e alla crisi in atto si sono prodotti nel mondo. Il pensiero nella sinistra mondiale è stato ed è ricco, fecondo di proposte. Ha delineato scenari, prospettive e alternative. La presente svolta storica avrà conseguenze di enorme portata.
La dialettica è materia scolastica, filosofica propriamente. L’attuale preoccupante passaggio storico mostra in modo perfetto cos’è questa cosa. Così ostica per l’intelletto comune, per il normale pensiero della vita quotidiana.
La deforestazione, la manomissione e la manipolazione di ecosistemi delicati e gli enormi allevamenti intensivi di animali per l’alimentazione umana (suini, polli, bovini ecc.) sono all’origine del sorgere e del mutare di virus patogeni nuovi per gli esseri umani. Come è avvenuto nel recente passato per lo Hiv, Ebola, l’influenza suina, l’influenza aviaria, la Sars e la Mers. La recente pandemia Covid-19 da Sars-CoV-2 rientra in questa fenomenologia.
Fenomeni della ecopredazione ai fini dell’accumulazione e del profitto sfociano processualmente in un fenomeno sanitario esplosivo. La pandemia non è destino cinico e baro. Era annunciata. È il risultato della logica perversa del sistema.
La sua enorme diffusione su scala mondiale, la mortalità indotta, l’enorme impatto sui vari sistemi sanitari, esistenti o non esistenti, come in molte aree del Sud del mondo, le gravi conseguenze economiche e sociali in corso, la messa in discussione degli assetti democratici e politici e della convivenza umana costituiscono un fenomeno inedito rispetto alle precedenti crisi sanitarie e alle precedenti crisi economiche.
Una lettura significativa degli
ultimi tempi è stata “La distruzione della ragione”,
pubblicata
nel 1954 e scritta da György Lukács.
In questo libro, l’autore sostiene che le filosofie irrazionalistiche sono una parte molto importante (seppur non l’unica) del fondamento ideologico delle politiche reazionarie. Nel seguente articolo proveremo a riassumere quanto osservato dall’autore, espandendo poi il discorso al fine di trarre qualche conclusione iniziale, che ci sarà estremamente utile per il futuro.
Il libro è stato completato nel 1954, durante il primo periodo “caldo” della Guerra Fredda. In questo periodo, Lukács era un intellettuale emarginato e dissidente a causa del suo forte marxismo hegeliano, contrapposto al “piatto” ed economicistico “marxismo” staliniano. Egli, come altri intellettuali del tempo (ad esempio Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Hannah Arendt) dovette rendere conto di come fosse stata possibile la barbarie nazista. Allora la sua ricerca si orientò verso il fondamento ideologico-filosofico del nazismo: l’irrazionalità.
I pensatori affrontati sono soprattutto tedeschi per motivi storici e sociali, ma l’autore fa notare a più riprese come il movimento irrazionalistico (ad esempio quello della “filosofia della vita” di Bergson, Dilthey e James) assuma portata internazionale, riflettendo una vera e propria epoca storica che coincise con le difficoltà di accumulazione del capitale, poco prima del suo “scatenamento imperialistico” nella Prima Guerra Mondiale e successiva “ricaduta” della Seconda Guerra Mondiale.
Una diagnosi sbagliata?
Mi ha colpito molto un articolo, breve e clamoroso, pubblicato dalla microbiologa e virologa Maria Rita Gismondo, una voce fuori dal coro, nella sua rubrica “Antivirus” su «il Fatto Quotidiano» del 3 maggio, e ancora di più mi ha colpito il silenzio che gli è stato riservato dai competenti tecnico-scientifici della medicina di potere e dai media. Riporto integralmente il testo:
Questo virus non finisce di stupirci. Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato di polmonite interstiziale: oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro. Al Sacco di Milano e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo ne sono state eseguite 70. È venuto fuori che la polmonite è un sintomo successivo, e forse anche meno grave, di quello che il virus provoca nel nostro organismo. Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici: SarsCoV2 colpisce soprattutto i vasi sanguigni, impedendo il regolare afflusso del sangue, con formazione di trombi. La polmonite ne è una delle conseguenze. Nella terapia di questi pazienti, ci siamo quindi focalizzati su uno e forse non il principale meccanismo patogeno del virus. I pazienti deceduti, al netto di altre patologie pregresse, avrebbero sofferto le conseguenze delle prime diagnosi sbagliate. Covid19 è una malattia vascolare sistemica. I polmoni non possono ventilare, malgrado l’insufflazione forzata di ossigeno, perché non vi arriva sangue. Addirittura i respiratori avrebbero peggiorato l’esito della malattia. L’ipotesi italiana è oggi confermata anche dagli Usa. Questa nuova conoscenza porta a una vera rivoluzione. La prima osservazione per fare diagnosi è quindi il livello di infiammazione. E i farmaci con cui intervenire immediatamente sono quelli che possono prevenire o curare infiammazione e formazione di trombi. Tutti farmaci già in uso e a basso costo. Chiuderemo definitivamente le terapie intensive Covid19?
L’emergenza sanitaria ha imposto all’Europa di gettare la maschera e di mostrarsi in tutto il suo splendore neoliberale: la crisi economica che stiamo affrontando verrà utilizzata per inasprire gli attuali rapporti di forza, e il debito sarà lo strumento per ottenere il risultato.
Non è certo la prima volta, dal momento che già la crisi del 2008 fu l’occasione per reprimere la riluttanza a offrirsi anima e corpo all’unica ideologia sopravvissuta al Novecento. Proprio per questo stupisce la perseveranza di chi ancora si rifiuta di aprire gli occhi, alimentandosi di un europeismo onirico, costruito sulle sabbie mobili di un sogno irrealizzabile, o peggio di un europeismo alla San Patrignano, al grido di “solo un vincolo esterno ci salverà”.
Repubblica ci offre oggi un saggio di come entrambe le forme di europeismo possano convivere. È un illuminante contributo di Andrea Bonanni, che se non altro possiamo apprezzare per l’affaccio offerto sui punti di riferimento del suo europeismo: quel Sebastian Kurz noto per la capacità di coniugare neoliberalismo e valori premoderni tanto cara alle democrature del nostro tempo.
Chiedere alla scienza di dare certezze assolute non solo è sbagliato, ma anche pericoloso
Non domandarci la formula che mondi possa
aprirti
sì qualche
storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti.
Così come il poeta Montale esorta a non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro, è bene che anche i politici (e il grande pubblico) non chiedano alla scienza la certezza assoluta, perchè la scienza non ha gli strumenti per fornirla. E se mai qualche persona di scienza, tradendo la propria professione e l’etica che la conduce, assecondasse il nostro bisogno naturale di certezza potrebbe solo arrecare danni gravi, soprattutto nei momenti di crisi come quelli che stiamo vivendo. In mancanza di teorie ben consolidate, affermare la correttezza di una ipotesi piuttosto che di un’altra genera una comprensibile confusione nel largo pubblico, che assiste a un’altalena di congetture avanzate anche da rispettabilissimi uomini di scienza che però si annullano a vicenda.
Dimmi con chi vai “in politica estera”, e ti dirò chi sei. Si potrebbe parafrasare così il famoso proverbio popolare, adattandolo a massima utile per la comprensione del portato ideologico di un partito, della forza di uno Stato, della collocazione di una regione.
Su questo per esempio cadrebbero tante illusioni, a dir la verità alimentate ad arte dai mass media di casa nostra, sulle reali ambizioni della Lega o del Movimento 5 stelle, a più riprese e a vario titolo inquadrate come forze antieuropeiste o progressiste.
La prima infatti in “Europa” sta da tempo negoziando l’entrata nel Partito popolare europeo (Ppe), quello per intenderci della Cdu della Merkel in Germania o del Fidesz di Orban in Ungheria (per la verità sospeso, ma non espulso, a fine 2019), non proprio esempi di antieuropeismo.
I secondi invece non hanno mai trovato un posto al sole nello scacchiere dell’Unione, respinti prima dall’Efdd di Farage poi dall’Alde di Macron, non certo due noti progressisti, sintomi delle lotte intestine che stanno esacerbando la discussione interna al Movimento, anche nei passaggi critici odierni.
E’ molto dubbia la verità di questa idea ormai entrata nel senso comune, secondo cui vivremmo in tempi apocalittici. L’impressione che se ne ricava dai vari discorsi che si rincorrono nell’infosfera è quella di una certa superficialità, di un cedimento generalizzato allo «spettacolo» dell’apocalisse, non certo di una sua assunzione in senso genuinamente profetico. L’immaginario di massa è ispirato dai film e le serie tv hollywoodiane, più che dal grande libro che Giovanni scrisse nel suo esilio a Patmos.
Il bisogno – perché di un bisogno si tratta – di introdurre l’anomalo discorso che qui proponiamo non nasce per iniziativa del virus, viene da più lontano e dal più profondo. E’ stato detto da una voce profetica del Novecento, e da questo partiamo, che la vera catastrofe è che le cose restino come sono. Si è oggi più semplicemente e comunemente abbacinati da un disagio di civiltà che sempre più investe le nostre esistenze fin nell’intimità, mostrandoci come il capitalismo sia diventato, se non lo è già sempre stato, un «modo di distruzione» piuttosto che un modo di produzione. Diremo allora che l’attuale pandemia globale ha solamente rivelato questo stato del mondo.
Virus sovrano e asfissia capitalistica secondo Di Cesare
Per quanto tempestivo, il nuovo libro di Donatella Di Cesare – Virus sovrano? L’asfissia capitalistica (Bollati Boringhieri, 2020) – non è esattamente un instant book. È sì un testo concepito e pubblicato in tempi stretti, sotto la pressione dell’evento che lo ha ispirato e che ancora incombe pesantemente sull’attualità. Ma non si tratta affatto di un’improvvisazione, di un estemporaneo esercizio d’opinione. Virus sovrano è anzitutto l’esempio di un metodo che ogni filosofo dovrebbe far suo oggi, al fine di stornare la disciplina dal commento autistico dei testi canonici. Caratteristica eminente di questa scrittura, infatti, è quella di mantenersi sempre in una stretta aderenza rispetto alle cose: la riflessione dell’autrice non fluttua al di sopra della fatticità, ma è sempre sostenuta da un piano ontologico forte. Per altro, proprio in virtù di questa prossimità al concreto, ella ha potuto rivendicare una vocazione politica della filosofia, come recita il titolo di un suo testo pubblicato da Bollati Boringhieri due anni fa.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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Ospitiamo con interesse questo testo di Silvio D’Urso, con la collaborazione di Marco Piccininni, che sottolinea la necessità di un'indagine sulla scienza medica, evidenziando come dietro l'ideologia della presunta "oggettività" di essa, vi siano in realtà interessi di classe contrapposti. Buona lettura!
Le nuove norme inerenti la riapertura delle
attività commerciali, di cui
Conte ha parlato nelle sue ultime conferenze stampa, sanno di
Fase 2 che precipitosamente si trasforma in Fase 3 e di
un’ostinata volontà
di tornare - a tutti i costi - alla vita “di prima”. Conte ci
assicura che questa decisione è stata presa sulla base di un
“rischio calcolato” in maniera scientifica, ma chiaramente in
questo calcolo la tutela di un sistema economico iniquo e
criminale, ha
giocato un ruolo fondamentale. Le decisioni sulle nostre vite
vengono elaborate e prese nel campo del dibattito scientifico
e medico, lontane da noi e
dalla nostra comprensione, sacrificando la salute sull’altare
del profitto. Questo momento storico lancia una sfida precisa
ai comunisti:
elaborare una critica politica della scienza medica che sia
rigorosa e all’altezza della fase.
Noi comunisti sappiamo bene che, se vengono chiesti dei sacrifici, questi non vengono chiesti nell’interesse di tutti, ma avendo a cuore la salvaguardia di un sistema politico ed economico ormai al collasso. Questa nostra consapevolezza, però, confligge con l’apparente univocità del discorso scientifico che viene impiegato per legittimare eventuali modi di gestione dell’emergenza. Nei proclami di questo o quell’esperto non si fa menzione di alcun interesse di classe, si parla solo di ciò che va fatto per il bene di tutti. Ebbene, se non possiamo accettare acriticamente una presunta neutralità del punto di vista scientifico, non possiamo nemmeno opporci ad esso con uno scetticismo incondizionato e settario.
L’autorità degli esperti non deriva, infatti, dalla loro personalità o da un grande carisma, né si può vedere nella scienza una pura espressione della soggettività o un semplice prodotto dell’ideologia dominante.
Uso e abuso della politica monetaria europea
Le misure di politica monetaria hanno sempre effetti di politica economica: la prima è una irrinunciabile componente della seconda. Proprio per questo l’Unione europea, competente in via esclusiva a dettare la politica monetaria, è riuscita ad imporre agli Stati membri scelte concernenti la politica economica, che pure è formalmente di loro esclusiva competenza. Determina cioè effetti in linea con l’approccio neoliberale alla spesa pubblica nel momento in cui stabilisce il costo e la disponibilità del denaro per promuovere la stabilità dei prezzi, e dunque per tenere bassa l’inflazione. Impedendo così di perseguire finalità contrastanti, come in particolare la piena occupazione, anche quando questa figura tra gli obiettivi di politica economica contemplati dalle Carte fondamentali nazionali: come affermato ad esempio nella Costituzione italiana (art. 4).
Se così stanno le cose, la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Quantitative easing, quello varato dalla Banca centrale europea sotto la Presidenza Draghi, non dice certo nulla di nuovo. Afferma che la misura, formalmente adottata per favorire il raggiungimento di un tasso di inflazione funzionale a ottenere la stabilità dei prezzi, produce effetti di politica economica. E non potrebbe essere altrimenti: l’acquisto di titoli sul mercato secondario inevitabilmente «migliora le condizioni di rifinanziamento degli Stati membri perché questi possono ottenere credito nel mercato finanziario a condizioni decisamente migliori», e questo «indubbiamente sgrava» il loro bilancio e aumenta gli spazi di manovra fiscale (sentenza del 5 maggio 2020).
Introduzione
La Rivoluzione Culturale che ebbe luogo in Cina tra il 1966 e l'inizio degli anni '70 fu un processo sociale altamente storico. L'analisi di questo fenomeno deve contare sul contributo di scienziati dei più svariati campi, come storici, sociologi, scienziati politici e filosofi. Lo studio di Charles Bettelheim (1913-2006) sulle trasformazioni sovrastrutturali in Cina poco prima della Riforma e apertura capitalista di Deng Xiaoping si concentra sull'organizzazione dell'economia cinese. L'economista francese fa parte di un gruppo di marxisti occidentali che si sono sforzati di osservare e comprendere le dinamiche capitaliste alla periferia del sistema, specialmente nel contesto dell'espansione della rivoluzione socialista dalla sua nascita in Russia nel 1917.
Come economista, Charles Bettelheim ha preso parte attiva ai dibattiti economici che vanno dalla NEP nella Russia sovietica, alla controversa contabilità alternativa dell’Uomo Nuovo di Che Guevara a Cuba negli anni '60 e agli aggiustamenti. della Cina alla fine del paradigma della pianificazione economica centralizzata, durante l'ascesa del capitalismo con caratteristiche cinesi.
Il libro di Bettelheim “La Rivoluzione Culturale e l’organizzazione industriale in Cina”, pubblicato nel 1973, è stato scritto a partire dalle note di due suoi studenti durante le sue lezioni tenute in Francia nel 1971 e nel 1972. Questo seminario è stato alimentato dalle osservazioni di Bettelheim in Cina nel 1971, quando visitò alcune unità produttive. Lo scopo del lavoro è di trarre conclusioni teoriche dai cambiamenti avvenuti nelle fabbriche a seguito della Rivoluzione Culturale.
Nel balletto delle cifre sapremo mai il reale
numero dei morti causati dal
Covid-19? Difficile da stabilire. Possiamo, però dare qualche
dato relativo, cercare di paragonare le situazioni. L’Italia
appare la
nazione al mondo più colpita dal virus, la Lombardia che conta
circa 1/6 della popolazione del Paese detiene il triste
primato del numero dei
morti: più o meno la metà di tutti i morti d’Italia.
All’interno di questa regione, la provincia di Bergamo detiene
il
record di decessi, circa la metà di tutti i decessi regionali
per Covid-19. Insomma, la Bergamasca, una provincia di circa
1.100.000 abitanti,
ha pressappoco gli stessi morti della Germania che di abitanti
ne ha oltre 83.000.000. Non esistono particolari
predisposizioni al contagio da parte
dei Bergamaschi rispetto al resto del mondo, né le
caratteristiche genetiche dei Bergamaschi sono poi così
diverse rispetto a quelle
degli altri abitanti del Paese o dell’Europa. Quindi le
spiegazioni dovranno essere ricercate altrove e forse varrebbe
la pena iniziare a fare
almeno alcune congetture. Questa ricerca, ovviamente, non può
essere esaustiva, sarà lunga e laboriosa né si potrà ridurre
alla ricerca di una sola causa: sicuramente per la Bergamasca
hanno influito diversi fattori ma sarà altresì importante
capire se e come
questi diversi fattori siano indipendenti tra loro e la loro
contemporanea concomitanza sia il frutto del fato, oppure,
come vuole la
probabilità, tali fattori non siano tra di loro concatenati e
interdipendenti.
Per cercare di orientarsi nel dedalo delle congetture e della notizie è bene fare ordine e procedere per punti.
Che succede in Europa?
Gli euroinomani esultano. M&M (Merkel e Macron) sembrano averli tratti d’impaccio. Strana Europa quella che si risolve nella resurrezione dell’asse a due del Patto di Aquisgrana. Ma la droga è droga, e quando c’è il rischio dell’astinenza non si va tanto per il sottile. Ecco allora il grido di gioia di tutti gli euristi di casa nostra. Uno per tutti il solito Fubini, che sulle pagine del Corriere annuncia l’inversione ad U: quella cancelliera che nel 2010 si accordò con Sarkozy per colpire i Piigs, stavolta i “maiali” li vuole aiutare accordandosi con Macron.
Questa la lieta novella che viene diffusa urbi et orbi. Ma siamo davvero di fronte ad un cambiamento reale? Gli euroinomani pensano di sì. Del resto la loro teoria prevede da sempre l’uso delle crisi per far passare quel che altrimenti non passerebbe. «L’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi», scrisse Jean Monnet. Era il 1976, le grandi crisi sono arrivate dal 2008 in avanti e non si può dire che questa profezia abbia avuto successo. Più esattamente, l’Europa (in realtà l’UE) è diventata famosa per la capacità di aggravare le crisi, non certo per quella di risolverle. Difficile che stavolta sia diverso.
Ci dicono che i Wu Ming abbiano preso il consueto granchio rossobruno. Capita anche ai migliori. Ne prendessero anche altri dieci, non ci sogneremmo mai di additarli alla pubblica vendetta in quanto rossobruni. Figuriamoci: sono compagni, con cui magari condividiamo ormai poco. Il problema è che per un decennio si sono intestati il ruolo di censori morali della sinistra non allineata. A cosa, non si capisce bene, visto che l’eclettismo la fa da padrone: soprattutto Foucault, un po’ di Zizek, tanta italian theory. L’importante, come detto, è stato marchiare di rossobrunismo tutto ciò che valicava il confine del rispettabile. Ovviamente, come ogni processo politico-culturale di questo tipo (e di questi tempi), l’operazione wuminghiana si è inserita su di un fenomeno esistente, sebbene dalle proporzioni notevolmente accresciute ad arte dagli accusatori: il rossobrunismo esiste effettivamente, ed è andato espandendosi in questi anni. Eppure, si trattava e si tratta soprattutto di un fenomeno marginalissimo e unicamente virtuale. Innalzarlo a problema decisivo dei nostri tempi, almeno a sinistra, ha fatto parte di un’operazione di costruzione del nemico utile, attraverso cui definire i campi dell’amicizia e dell’inimicizia.
Sta facendo molto discutere un post di Enrico Mentana* in cui il giornalista si chiede, a proposito del famigerato Meccanismo europeo di stabilità (MES), «perché si dovrebbe rinunciare a un prestito decennale senza condizioni a interesse 0,1% per un valore di 37 miliardi, nel momento di maggiore necessità di finanziamenti per il nostro paese»?
Insomma, dice Mentana, perché dovremmo prendere a prestito soldi dai mercati, a tassi decisamente più onerosi, se possiamo prenderli in prestito dal MES a un tasso praticamente pari allo zero, per di più "senza condizionalità"? Detta così sembrerebbe avere un senso. In verità, vi sarebbero ottime ragioni per opporsi al MES** anche se il prestito fosse così conveniente, a partire dal fatto che il MES "senza condizionalità" non esiste***. Peccato, però, che la storia del tasso annuo dello 0,1% – così come quella del MES "senza condizionalità" – sia una colossale bufala.
Lo 0,1%, infatti, è il cosiddetto "tasso marginale", che però – come si può leggere sul sito del MES**** – va sommato, oltre a tutta una serie di altri costi operativi, al "tasso base", cioè a quello che paga il MES per reperire sui mercati i soldi che a sua volta ripresterà (con una piccola cresta, ça va sans dire) agli Stati. Sommando questi vari costi si ottiene il tasso finale effettivo che andranno a pagare gli Stati.
La crisi sanitaria innescata dalla pandemia da Covid-19 inizia lentamente ad allentare la presa. Un’altra crisi, dalle implicazioni potenzialmente altrettanto tragiche, è tuttavia già entrata nelle nostre vite, una crisi economica e sociale dalle proporzioni enormi e che colpisce, come sempre è il caso, in maniera asimmetrica. A soffrire sono e saranno le classi popolari, piagate da disoccupazione, salari da fame e condizioni lavorative sempre più difficili.
In mezzo a questa tempesta, le istituzioni europee hanno adottato una strategia originale, che consiste nel provare a contrastare la crisi economica attraverso la propaganda. Di giorno in giorno, di settimana in settimana, si rimanda a un po’ più in là nel tempo il momento in cui l’intervento finale e risolutivo, da realizzarsi attraverso un finora fantomatico Recovery Fund, verrà proposto (sottolineiamo: non implementato, non messo in atto; stiamo ancora tutti aspettando una prima proposta).
Lo scenario è indubbiamente fosco, ma ecco materializzarsi un piccolo spiraglio di luce. Il famigerato Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), già strumento attraverso il quale si sono spezzate le reni alla Grecia, sarebbe diventato nel frattempo un po’ meno famigerato.
Da Mussolini ad Andreotti, da Baffi a Ciampi: la libertà dei capitali è pagata da imprese e lavoratori
E' tempo di guardare indietro, e molto, per mettere insieme tanti dettagli della vita politica ed economica dell'Italia, che sono legati insieme da un unico filo nero: la speculazione sui mercati valutari, e poi su quelli finanziari, ha messo con la schiena al muro la gran parte dei nostri governanti.
Mussolini, nel '26, si arrese. Impose la "Quota 90", l'obiettivo di riportare il cambio tra la Lira e la Sterlina al livello del 1923, quando aveva assunto il potere. La difesa della Lira divenne una priorità politica assoluta.
Era stato risanato il bilancio dello Stato, riportandolo in pareggio, ma per rendere meno pesante gli effetti dei tagli alle spese era stato aumentato il credito all'economia: le banche avevano finanziato la speculazione di Borsa, e c'era il timore che quei valori non reggessero. I capitali cominciarono a fuggire, peggiorando il cambio, superando quota 120.
Ci si domanda perché sia stata presa una decisione così drastica, che richiese una riduzione sanguinosa dei salari e dunque del tenore di vita delle classi più povere, contadini, operai ed impiegati. Mentre i salari venivano tagliati del 20%, i prezzi calavano solo del 10%: fu un massacro.
Non è semplice giudicare il Decreto Rilancio,
soprattutto a causa della natura eccezionale delle circostanze
cui è chiamato a rispondere. Eppure, è assolutamente
necessario cercare
di sviluppare un’analisi autonoma di questa misura, che dice
moltissimo sul futuro governo della crisi.
Partiamo dal principio. Il Decreto Rilancio comporta un indebitamento netto aggiuntivo rispetto al quadro preesistente che ammonta a 55 miliardi di euro. Le dimensioni del deficit aggiuntivo – un altro modo per definire l’indebitamento netto – risultano significative, soprattutto perché i 55 miliardi vanno a sommarsi ai 20 già previsti nel Decreto Cura Italia e, naturalmente, all’indebitamento netto programmatico, che era stato stimato nella Nota di Aggiornamento al DEF (NADEF) intorno ai 40 miliardi di euro per il 2020. Insomma, il disavanzo di bilancio complessivo per il 2020 è considerevole e stimato al 10,4% del PIL dai più recenti indicatori di finanza pubblica elaborati dal MEF, al netto di ipotetici nuovi interventi del Governo.
Depurando il disavanzo di bilancio dalla spesa per interessi (circa 60 miliardi, il 3,7% del PIL) – che sappiamo avere un effetto macroeconomico trascurabile – otteniamo un disavanzo primario pari al 6,8% del PIL. Siamo di fronte a uno stimolo fiscale netto di circa 110 miliardi di euro e, nonostante uno stimolo di tale portata non si verificasse da decenni, questo è ancora insufficiente vista l’enorme caduta della produzione, che l’Istat ha stimato al 29% nel mese di marzo.
C’è voluta una pandemia globale per costringere la classe dirigente di questo Paese a ricorrere a politiche fiscali espansive, possibili, peraltro, solo finché permane la ‘sospensione’ delle regole europee di Maastricht e del Fiscal Compact.
Genesi e
finalità della pandemia
Non e’ scopo di questa riflessione stabilire se la pandemia sia stata artificialmente creata dai nuovi padroni del mondo, o emerga spontaneamente dal caos della devastazione criminale della natura. Sia come sia l’imputato numero uno e’ il capitalismo, vuoi nella forma neo-liberista occidentale, vuoi in quella statalista cinese. Sia come sia la Pandemia e’ la nuova tecnica “miracolosa” per far si che il servo interiorizzi i comandi del Signore.
Se anche fosse, ma nessuno puo’ dirlo con certezza, che il virus sia stato modificato in un settore del laboratorio OMS di stanza a Wuhan, controllato da Inglesi e Americani, resta il fatto che la Cina e’ reticente e quindi complice, correa nel crimine.
La complicita’ tra neoliberisti e statalisti si realizza ugualmente se ipotizziamo, che la pandemia sia una falsa pandemia, utile ad entrambi i capitalismi per perfezionare e collaudare nuovi dispositivi di disciplinamento sociale. Ma lo e’ anche se ipotizziamo, al contrario, che il virus sia realmente presente, devastante ed espressione, come affermano i piu’ attenti ecologisti, del Global Warming, della deforestazione che restringe gli spazi di molti animali portatori del virus, e che annulla il naturale distanziamento tra loro e l’uomo.
In ogni caso e detto in termini marxiani, la pandemia pone sul banco degli imputati tout court il modo di produzione capitalistico, cioe’ un modello economico e sociale predatorio ed invasivo, nemico della salute pubblica, giunto per auto-combustione alla sua fase terminale e suicidaria.
Ci sono due laboratori dove si puo’ analizzare la pandemia, quello medico e quello politico sociale. Non essendo virologo posso solo inoltrarmi nel secondo campo.
Cinquant'anni dallo Statuto dei
lavoratori, una storia del lungo Sessantotto italiano che
inizia nel 1960, dura
fino al 1985, e ha cambiato profondamente tutta la società.
Parla lo storico del movimento operaio Sergio Bologna: «Nel
1970 quello
Statuto fu una conquista democratica, anche se la prassi
operaia era più avanti. A chi vuole scrivere oggi statuti
dei lavori rispondo che
prima bisogna cambiare prima i rapporti di forza tra
capitale e forza lavoro. Dopo potremo adottare nuove leggi.
Esiste già la Costituzione,
basta per tutelare il lavoro. Iniziamo a parlare di
conflitto e dal suo primo movimento: la resistenza»
* * * *
Il modo più proficuo per cogliere il significato dell’avanzata impetuosa della classe operaia, e la sua sconfitta, tra il 1960 e il 1985, è quello di mettersi nei panni di un giovane oggi alle prese con la precarietà. A Sergio Bologna, storico del movimento operaio e tra i fondatori della rivista Primo Maggio, potrebbe domandare dove sono finite le conquiste costate tanti sacrifici? Dove sono finiti tutti i diritti?
“Certo – risponde Sergio Bologna – parlando di quel periodo così lontano, ti viene la curiosità di sapere che percezione ha oggi un giovane lavoratore dei suoi diritti. È consapevole di avere dei diritti, sa cosa vuol dire difendere un diritto sul luogo di lavoro? Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori del maggio 1970 è stato un importante gesto di civiltà, il riconoscimento e la tutela dei diritti sindacali un passo avanti del sistema democratico. Eppure moltissimi quadri sindacali e le stesse correnti politiche a noi più vicine lo consideravano già vecchio, già superato.
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Una crisi economica senza
precedenti è ora iniziata. Il 23 aprile è stato comunicato che
nel corso delle
ultime cinque settimane, oltre 26 milioni di persone avevano
presentato domande di disoccupazione negli Stati Uniti. Questi
26 milioni facevano parte
dei 159 milioni di americani che erano stati impiegati a
febbraio, poco prima che le politiche per mitigare l'epidemia
di coronavirus avessero fermato
l'economia domestica. Picchi simili di disoccupazione si
verificano sostanzialmente in ogni paese del mondo.
Naturalmente, ora tutti "sanno" che la causa di questa crisi economica mondiale è la pandemia di COVID-19, e sarà difficile discuterne, allo stesso modo è difficile argomentare con l'idea che l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando nel giugno 1914 fu la causa della prima guerra mondiale, o gli embargo dell'OPEC furono la causa della crisi economica globale della metà degli anni '70, o la mancanza di regolamentazione e le frodi nei mercati finanziari furono la causa della Grande Recessione. L'idea che la nostra economia sia intrinsecamente stabile e che solo eventi esterni la spingano verso l'instabilità e la crisi è il principio guida dell'economia tradizionale ed è anche molto radicata nella psiche comune dei nostri tempi. Ma i fatti forniscono una prova evidente che è il contrario: la nostra economia è intrinsecamente instabile e tende a destabilizzarsi abbastanza frequentemente, circa una volta al decennio nei tempi moderni, con o senza innescare eventi come pandemie, "shock" nei mercati petroliferi o " frode "di banche e operatori finanziari.
Nell’infinita controversia con la Corte di giustizia dell’Unione Europea, la Corte costituzionale tedesca ha ragione nel sostenere che l’azione della Bce potrebbe aver violato il principio di “neutralità” della politica monetaria e i Trattati che ne disciplinano le attribuzioni. Ma questa ragione si fonda su un fatto che né i giudici di Lussemburgo né quelli di Karlsruhe possono ammettere: la Bce non può perseguire l’agognata neutralità semplicemente perché questa non esiste. E se non esiste la neutralità, non è ammissibile nemmeno l’indipendenza politica del banchiere centrale.
* * * *
«Pazzi al potere, che odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Per irriverente che possa sembrare ai benpensanti, solo il sarcasmo di Keynes può descrivere la genesi dei Trattati europei e della posizione che vi occupa la Banca centrale europea. I padri fondatori dell’unione monetaria ne hanno infatti edificato l’ordinamento “distillandolo”, per l’appunto, dagli alambicchi della teoria macroeconomica neoclassica nelle sue più aggiornate varianti, e in particolare da quel suo fondamentale caposaldo che è il principio di “neutralità” della politica monetaria.
La sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio ha aperto il vaso di Pandora delle contraddizioni dei tre pilastri della governance europea, giuridico, politico ed economico. Essa è una ferita inferta alla BCE, lasciata sinora sola ad affrontare gli effetti economici della pandemia, e la sua ombra ricade anche sull’iniziativa Merkel-Macron del recovery fund.
La sentenza ne ha avute per tutti, BCE, Corte di giustizia europea (CGE) e persino parlamento e governo tedeschi, colpevoli di non aver tutelato i propri cittadini.
Suo oggetto è stato il programma di acquisti di titoli pubblici e privati (PSPP) iniziato da Draghi nel 2015, più noto come quantitative easing, contestato da alcuni cittadini tedeschi. La Corte ha ritenuto l’intervento legittimo, ma sproporzionato rispetto all’obiettivo di far risalire l’inflazione al 2%. La BCE non avrebbe inoltre tenuto conto delle vittime collaterali del programma, come i fondi pensionistici (tedeschi) danneggiati dai tassi di interessi negativi e, soprattutto, dello sconfinamento della politica monetaria in quella fiscale col sostegno alle finanze pubbliche dei paesi ad alto debito, così sottratti alla frusta dei mercati e alle inevitabili manovre di aggiustamento.
Senza clamori, il governo sta iniziando ad emettere, su piccola scala, della “moneta fiscale”, con una operazione che mi pare molto apprezzabile.
Come abbiamo spiegato a varie riprese, possiamo parlare di “moneta fiscale” quando il governo emette un mezzo di pagamento che è disposto ad accettare per la estinzione di un debito fiscale, come il pagamento dell’Iva, dell’Irpef, o di tributi locali.
La nostra proposta suggeriva di introdurre una moneta fiscale in ogni Paese dell’Eurozona, come primo passo di una trasformazione dell’Euro da moneta unica a moneta comune, ma questo non è, per il momento, nelle intenzioni del governo.
Sembra invece confermato che alcune tipologie di moneta fiscale siano già disponibili: un bonus di (massimo) 500 euro per le vacanze per le famiglie con un reddito ISEE basso; un bonus bici fino a 500 euro che copre il 60% del costo di acquisto di biciclette o altri mezzi di mobilità sostenibile; il c.d. “ecobonus” al 110% per gli interventi di riqualificazione energetica e antisismica.
Il testo di Fabrizio Marchi “Contromano” scompagina stereotipi e dogmatismi del nostro tempo. Il progresso e l’illuminismo sono la religione non riconosciuta dell’occidente. Lo scientismo laicista epifenomeno dell’illuminismo ha fondato la religione della merce, poiché ha eroso ogni fondamento veritativo fino al trionfo del capitalismo e della mercificazione assoluta. Affinché la merce possa capillarmente diffondersi è necessario rimuovere ogni limite, per cui dietro la retorica dei diritti civili non si cela che il cannoneggiamento del capitale che rimuove ogni comunità, ogni identità e tradizione. Il capitalismo laicistizzato[1] ha raggiunto l’apogeo della sua espansione e della colonizzazione delle menti. La mercificazione totale necessita di essere puntellata da miti (femminismo, teoria gender, laicismo, diritti civili senza diritti sociali) che risultano essere i dogmi della liturgia del capitale. Non vi è nel testo di Fabrizio Marchi nostalgia per il passato, ma la passione per la verità che necessita di sottoporre a critica costruttiva i dogmi di una società che proclama la libertà e l’emancipazione e nello stesso tempo impedisce la dialettica e la discussione su se stessa. Discutere dei miti dell’occidente, oggi, è praticamente impossibile, l’occidente proclama la morte delle ideologie, per nascondere il trionfo dell’ideologia della merce, con tale operazione il capitale si ritrae da ogni confronto dialettico.
Via via che gli Stati si imbarcano nel de-confinamento, si comincia sempre più a parlare dei progetti che accompagneranno la crisi e che viene convenzionalmente chiamato rilancio economico. E questo, d'altronde, senza che nessuno abbia la benché minima idea se in autunno ci sarà una risorgenza del virus Sars-CoV-2 sotto forme eventualmente mutate. Sulle note di un falso «Grande cambiamento» (rilocalizzazione delle attività essenziali, sostegno ad un'economia senza carbone, ecc.), non si tratta solo di riprendere il più rapidamente possibile la «vita normale», ma di darsi un gran da fare, e mettercela tutta per tamponare una recessione che recentemente la Commissione europea ha paragonato a quella del 1929. I governi liberali che, di fronte ad un futuro incerto ed in nome della salvezza di vite umane, si sono indebitati per miliardi sono ora sul punto, spesso con enormi precauzioni, di presentare il conto facendo marcia indietro su alcune delle promesse fatta troppo alla leggera quando il processo di confinamento si trovava al suo apice. Ma ci si può aspettare altro da loro, intrappolati come sono in una contraddizione irrisolvibile tra l'imperativo della sicurezza e quello della crescita?
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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Militant: Le curve, la retta e la quarantena della politica. Stare a casa non basta/1
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Riceviamo e pubblichiamo questo contributo del 2013 sulla figura di Pietro Secchia
E’ il momento di vuotare il sacco (quasi
tutto).
Fra le tante ragioni ci sono quelle di risolvere alcuni stranissimi “misteri” della nostra situazione politica.
Provo ad elencarne alcuni, senza badare al loro ordine di importanza:
1. Il PCI è oggetto di una sistematica cancellazione dalla memoria collettiva, dalla storia d’Italia che non ha eguali per alcuna altra forza sociale e politica. Ciò si integra, paradossalmente, con una campagna di deformazione e denigrazione della sua storia e della sua identità che alcuni portano avanti, tuttora, quasi quotidianamente.
Ciononostante viene completamente eliminata una parte assai importante del PCI che è quella simboleggiata dalla figura e dall’opera del compagno Pietro Secchia. Una sorta di occultamento nell’occultamento (potremmo dire: una cancellazione al quadrato) veramente significativa.
Solo un mese fa, Giorgio Napolitano ha rilasciato un’intervista alla Repubblica di oltre un’ora, quasi interamente dedicata alla storia del PCI: sembra che Pietro Secchia, con tutto ciò che rappresenta e significa, non sia mai esistito.
2. Trenta-quarant’anni fa c’erano alcune forze di estrema sinistra dedite all’attacco, anche violento, contro il PCI. Nel migliore dei casi si giustificavano lamentando “l’accordo DC-PCI”. I discendenti politici di quelle forze, oggi, si coalizzano e si candidano con un partito (il PD) composto da esponenti del PCI e della DC e che è la principale componente degli attuali, maledetti, governi fondati sull’accordo PD-PDL.
Per uscire dalla crisi avremo bisogno di un rafforzamento dello Stato sociale: ripristino della funzionalità del sistema previdenziale, allargamento dell’intervento nella sfera sanitaria e nell’area assistenziale, oltre a una maggiore equità, dovranno essere gli elementi chiave per una ripresa dopo la pandemia
Nella pubblicistica, non solo accademica, un
tema ricorrente riguarda natura e
ruolo dello stato sociale, cui si attribuiscono, o
attribuivano, molte responsabilità per i problemi che
affliggono le economie dei paesi
avanzati, salvo poi ricredersi e chiederne il potenziamento
nei momenti di crisi sociale.
Per chiarire i termini del problema, in queste note toccherò alcuni punti essenziali: articolazione dello stato sociale fra componenti private e pubbliche, dimensioni dello stato sociale in Europa, problemi specifici dell’Italia e quadro di politica economica necessario per un buon funzionamento del sistema di welfare.
Tutte le società e tutte le epoche hanno affrontato i problemi connessi alle aree di intervento dello stato sociale (vecchiaia, invalidità, povertà e disoccupazione). Caratteristica dell’evoluzione degli ultimi 150 anni è stata l’istituzionalizzazione di queste funzioni, nel senso che un’estesa responsabilità pubblica è emersa per effetto dell’industrializzazione e del superamento della famiglia patriarcale, oltre che per il ridimensionamento del ruolo delle istituzioni ecclesiastiche. Nel secondo dopoguerra ha assunto rilievo il concetto di diritto di cittadinanza, realizzabile solo con una partecipazione consapevole di tutti i cittadini alla vita collettiva e certamente incompatibile con una situazione personale di deprivazione.
L’assunzione di una responsabilità collettiva ha tuttavia posto il problema dell’assetto più appropriato, dovendosi scegliere fra sistemi pubblici (in cui la responsività collettiva copre sia il momento del finanziamento dei servizi, sia quello dell’erogazione) o privati (anche se gli assetti privati richiedono comunque un concorso pubblico sotto forma di regolazione e di agevolazioni fiscali).
1. Dovrei essenzialmente parlare della crisi
del 1929. E’ ovvio che ogni
avvenimento storico ha una sua singolarità specifica e va
inquadrato nell’epoca del suo verificarsi. Do però per
scontata la
conoscenza di tutto il “contorno” storico della crisi del
1929, solitamente considerata la più grave delle crisi che
comunque, in
forme e con intensità diverse, coinvolgono il nostro sistema
sociale detto capitalistico e ne arrestano il tendenziale
sviluppo. Per larga
parte del 1800, nell’epoca del capitalismo detto di
concorrenza, le crisi erano fenomeni verificantisi all’incirca
ogni 8-10 anni con
caratteristiche molto simili fra loro. Negli ultimi decenni,
in specie dopo la seconda guerra mondiale, la situazione di
crisi appare meno regolare
nelle sue cadenze e nelle sue forme di manifestazione, ma ciò
non esclude che si cerchi sempre di cogliere le
caratteristiche comuni di
fenomeni diversi, comunque appartenenti alla “classe” di
quegli accadimenti in grado di interrompere lo sviluppo
capitalistico e di
provocare anche, come appunto nel caso del 1929, netti
arretramenti produttivi accompagnati da gravi sconvolgimenti
dei circuiti economici e
finanziari, e da sconquassi sociali di notevoli proporzioni
con le loro brusche ricadute politico-istituzionali (per tutte
si pensi all’ascesa
del nazismo nel 1933, non certo causata dalla crisi ma
senz’altro da questa favorita).
Prima di entrare direttamente nel discorso sulla crisi, con riferimento particolare a quanto accadde nel 1929 e anni successivi, voglio ricordare – poiché ciò avrà una sua utilità in seguito – la possibilità di catalogare tale fenomeno in due tipologie fondamentali. La prima trova la sua principale esemplificazione nel periodo 1873-96; si tratta di una sostanziale (lunga) stagnazione, non di un vero e proprio brusco tracollo economico-finanziario.
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La politica che troviamo su
giornali e televisioni è materia di competenza esclusiva di
ministri,
burocrati, capitalisti, parlamentari, giornalisti, sondaggisti
e accademici. Tutti gli altri sono invece meri spettatori,
costretti a subire le
decisioni prese in loro nome e chiamati, in quasi tutti i
sistemi vigenti, a tratteggiare una croce su una scheda
elettorale ad intervalli più
o meno regolari. La correttezza procedurale delle operazioni
di voto rappresenta il discrimine tra democrazie borghesi e
autoritarismo, mentre la
passività delle masse è l’elemento sul quale si fonda un
qualsiasi regime nel quale le classi proprietarie dei mezzi di
produzione
sfruttano a proprio vantaggio la stragrande maggioranza della
popolazione.
Gli eventi occorsi in Egitto tra il 25 gennaio 2011 e il 3 luglio 2013 dimostrano però come l’estraneità delle masse dall’arena politica non rappresenti in alcun caso un elemento ineluttabile. Gli sforzi delle classi possidenti e dei loro attendenti, per quanto ingenti, non sempre infatti riescono ad ottenere l’apatia delle masse. Quando la barriera che pone i subordinati in una posizione silenziosa e passiva crolla, scosse telluriche si sviluppano lungo tutte le articolazioni di una società. D’altronde, proprio l’irrompere violento delle masse sul terreno dove si decidono le loro sorti è il fattore che segna incontestabilmente l’avvio di un qualsiasi processo rivoluzionario. Non tutte le situazioni rivoluzionarie conducono però al successo della rivoluzione. Una questione cruciale in tal senso è quella del potere statale.
Esiste oggi tra le fila della sinistra movimentista una radicata convinzione che la conquista del potere da parte dei rivoluzionari sia un aspetto quantomeno secondario. Le varianti più oltranziste di questa vulgata giungono perfino a ritenere controproducente la presa del comando.
Il decorso della pandemia covid nella vita sociale ha ultimamente mostrato due tendenze tra loro contradditorie. La prima è quella dell’immediato desiderio del ritorno al “prima” alla “normalità” qualsiasi cosa effettivamente questo significhi. La seconda è la consapevolezza che non solo qualcosa è cambiato ma che i cambiamenti intervenuti sono destinati a permanere ma, anche qui, senza una reale percezione di cosa sia effettivamente mutato. Questo genere di contraddizioni è visibile nel nostro paese sulla questione del governo della vita notturna, che, oltre alla questione del virus, investe il tema della vita urbana, del consenso politico e anche della difficile connessione tra economie.
Già perchè quella che viene chiamata movida, trapiantando il termine spagnolo nel linguaggio giornalistico italiano, è tutto fuorché una abitudine frivola e senza conseguenze: è una night-time economy molto sviluppata tanto che, non molto prima della crisi covid, veniva stimata poco più del 4 per cento del pil nazionale praticamente il doppio del peso dell’agricoltura (2,2 per cento del Pil nel 2019). La night-time economy, come tutte le economie, subisce due tipi di regolazione: giuridica e morale.
E’ appena uscita l’edizione italiana di una raccolta di saggi di Manolo Monereo ed Hector Illueca dal titolo “Un progetto di liberazione. Repubblica, sovranità, socialismo” (Meltemi editore).
Monereo (già militante del PCE, da cui fu espulso per le sue critiche alla linea del partito durante la transizione democratica, poi dirigente di Izquierda Unida, infine deputato di Podemos per la circoscrizione di Cordoba) e Illueca (ispettore del lavoro e professore di diritto del lavoro, attuale deputato di Unidas Podemos eletto nella circoscrizione di Valencia) sono due noti esponenti della sinistra spagnola che, in questo lavoro, affrontano tre nodi cruciali del dibattito teorico contemporaneo:
Nemesi è uno straordinario romanzo breve dell’ultimo Philip Roth che racconta di una epidemia di poliomelite nel 1944 e dei suoi terribili lasciti, soprattutto tra i bambini.
L’angoscia della quarantena, le tragedie di morti premature, le menomazioni a vita dei sopravvissuti e il senso di colpa che comunque li accompagnerà per il resto della vita sono raccontati con una scrittura piana e implacabile come un metronomo.
Il racconto lascia una sensazione di estrema amarezza, l’amarezza per una vita che sembrava destinata alla felicità dopo un avvio tragico e che non riesce a sfuggire al suo destino di sofferenza.
Il protagonista Eugene Cantor, detto Bucky, è un ventenne forte e rigoroso, pienamente compreso e orgoglioso della responsabilità di gestire il campo estivo che fa svagare ed educa i ragazzi ebrei di Newark.
Orfano di madre e con un padre dall’etica discutibile, si erano presi cura di lui i nonni materni. Il nonno gli aveva tramesso il rispetto delle regole e della parola data, più con l’esempio di una vita semplice e lineare che con le parole.
Governare un mercato competitivo al suo interno, senza “arbitri” credibili e tanto meno legittimati democraticamente, è difficile. Ma la scommessa originaria dell’Unione Europea, dalla caduta del Muro in poi, era proprio questa.
L’unico avversario da battere erano i lavoratori, i loro movimenti, associazioni e partiti. I loro salari e i loro diritti, in definitiva, qualsiasi fosse il Paese di nascita. La deflazione salariale è stata l’architrave del mercantilismo export oriented ad egemonia teutonica…
E’ andata bene per quasi 30 anni, con irrobustimenti successivi delle sbarre della gabbia, tra politiche di austerità e iniezioni di liquidità per il sistema finanziario. Poi si è rotto l’equilibrio, la competizione interna fra capitali e Paesi si è fatto evidente e più difficile da gestire. Anche se i lavoratori rimanevano sotto il tallone di ferro.
La pandemia ha sconquassato un equilibrio già fragile. La prima reazione dell’establishment europeo è stato il solito: chi ha risorse le può spendere, chi ha troppo debito dovrà passare sotto le forche caudine.
Di fronte alla pandemia il capitalismo non ha nessuna intenzione di cambiare rotta. E lo Stato gli tiene banco offrendo garanzie a chi delocalizza, sottraendo risorse al Paese
Se fino a qualche settimana fa si poteva auspicare un cambiamento di rotta, oggi è sempre più chiaro che il capitalismo, con i suoi rapaci protagonisti, non ha nessuna intenzione di fare alcun passo indietro. Sconcerta che, dopo tutto il gran parlare mediatico della politica, lo Stato offra garanzie per l’accesso a finanziamenti bancari agevolati ad aziende, come la FCA/FIAT, che sottraggono risorse al paese delocalizzando investimenti, impianti, produzione e soprattutto sedi fiscali. Una grande rapina di risorse che dovrebbero essere destinate al pubblico.
* * * *
I) L’Unione Europea:
un polo imperialistico fondato sulle diseguaglianze
strutturali tra
Paesi
L’Unione Europea è un mostro giuridico-politico fondato su
trattati Internazionali improntati
all’iper-liberismo globalizzato, dominato dalla libertà
selvaggia del mercato e della concorrenza produttiva,
commerciale, finanziaria,
affermatasi negli anni Ottanta, sviluppatasi tra continue
crisi economico-finanziarie di fine secolo e rinnovatasi
nonostante la recessione iniziata
nel 2007-2008 che ha colpito i paesi del capitalismo reale.
“Sotto la crisi
cui è in preda il
mondo si possono scoprire gli indizi di una logica
all’opera e questo ci permette di conservare fiducia nello
sviluppo
futuro”
Figure dell’immanenza. Una lettura filosofica del I Ching, François Jullien
Pubblichiamo la traduzione dell’articolo: Crisi in Europa: l’audace offerta di von der Leyen per nuovi poteri, apparso nella sezione “the Big Read” del prestigioso quotidiano economico finanziario britannico “Financial Times”.
Si tratta di un articolo, scritto a “sei mani” dai tre corrispondenti del giornale a Bruxelles, che ricostruisce l’attuale dibattito nei centri decisionali dell’Unione Europea rispetto alla politica economica da adottare.
Un momento topico, quello che sta attraversando l’UE, che rischia di mettere in discussione le sue aspirazioni, o come si esprime un anonimo funzionario intervistato dai giornalisti: “una questione di sopravvivenza per il mercato interno e il progetto europeo”.
Il contributo fa emergere tra le righe lo stile di lavoro della presidente della Commissione Europea, mostrandoci quale sia il reale processo decisionale nelle “stanze dei bottoni” a Bruxelles. In un passaggio preceduto da ciò che i latini avrebbero definito captatio benevolentiae – “procurarsi la simpatia” – i giornalisti ci informano che:
“Tuttavia, questa attenzione ai dettagli è stata affiancata da ciò che alcuni critici vedono come una mancanza di coordinamento politico ai vertici della commissione e una dipendenza eccessiva da un piccolo gruppo di consulenti di fiducia – alcuni dei quali sono venuti con lei da Berlino – per condurre un gruppo amministrativo di 32.000 membri.”
“…quando tutto sembra perduto bisogna
mettersi tranquillamente
all’opera ricominciando dall’inizio.” Antonio Gramsci
“La Germania […] non potrà abbattere le proprie barriere senza abbattere le barriere generali del presente politico. Non la rivoluzione radicale è per la Germania un sogno utopistico, non la universale emancipazione umana, ma piuttosto la rivoluzione parziale, la rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia in piedi i pilastri della casa.” Karl Marx
Per affrontare la difficile costruzione di una prospettiva socialista e democratica davanti al disastro ambientale, sociale e politico del capitalismo contemporaneo è necessario intraprendere un serio e lungo lavoro di chiarificazione, iniziando da alcuni snodi fondamentali: in questa situazione di crisi e di confusione, la mancanza di chiarezza sui punti di partenza può infatti facilmente portare all’impotenza e alla subalternità. Ma questa fase può anche permetterci di chiarire meglio quali siano i punti necessari da cui partire.
La crisi iniziata nel 2008 e l’attuale epidemia da Covid-19 hanno reso definitivamente evidente l’inadeguatezza del concetto di “globalizzazione” proprio dalle ipotesi altermondialiste e liberali : l’ideale di uno spazio globale di integrazione tra diritti, democrazia e sviluppo economico si scontra con la realtà di un campo instabile e conflittuale, dominato dai capitali internazionali e reso geopoliticamente coeso anzitutto dall’egemonia militare statunitense[1]. In questo contesto, ogni ipotesi di piegare le vigenti istituzioni internazionali in senso democratico e solidale appare del tutto velleitaria e subalterna: queste istituzioni, infatti, dimostrano tanta capacità di indirizzo quanta è quella delle nazioni che se ne servono per portare avanti la propria agenda. Né è di più né di meno.
Molte volte, ho
accennato su questo blog a come l'aumento del debito globale
riduca la capacità delle economie
capitalistiche ad evitare collassi e a trovare un modo rapido
per poter recuperare . Come ha spiegato Marx, il credito è una
componente
necessaria per oliare le ruote dell'accumulazione
capitalistica, rendendo possibile il finanziamento relativo a
progetti più ambiziosi e
più ampi, nel momento in cui solo i profitti riciclati non
sono più sufficienti; e a fare circolare il capitale in
maniera più
efficiente per gli investimenti e la produzione. Ma il credito
diventa debito, e per quanto esso aiuti ad espandere
l'accumulazione di capitale, se i
profitti non si materializzano in una maniera che sia
sufficiente a soddisfare quel debito (vale a dire, a ripagarlo
insieme agli interessi per i
finanziatori) ecco che allora il debito diventa un fardello
che comincia a rosicchiare i profitti e la capacità di
espandersi del
capitale).
Per il resto, sono due le cose che accadono: per far fronte a quelli che sono gli obblighi per il debito esistente, le imprese più deboli sono costrette a chiedere più prestiti per coprire i servizi del debito, di modo che così il debito si impenna a dismisura. Inoltre, il ritorno per quello che è il rischio sul prestito per i creditori, ora può sembrare ancora più elevato, rispetto all'investimento in capitale produttivo, soprattutto se il beneficiario è il governo, un debitore molto più sicuro. In questo modo, la speculazione sulle attività finanziarie, fatta sotto forma di obbligazioni e di altri strumenti di debito, aumenta. Ma se c'è una crisi nella produzione e negli investimenti, questa forse è in parte causata dagli eccessivi costi dei servizi di debito, ed ecco che allora la capacità delle imprese capitaliste di riprendersi, e di dare inizio ad un nuovo boom, viene indebolita dall'onere del debito.
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Capitalismo astratto
Il terzo libro del Capitale di Marx pubblicato da Engels nel 1894 è sostanziale per comprendere dinamica ed effetti dei processi di capitalizzazione. L’analisi di Marx svela e rivela il fondamento veritativo del capitalismo finanziario. L’accumulo si struttura in assenza del capitale materiale, il quale è solo titolo di credito. Il capitale d’interessi si moltiplica in modo geometrico autoproducendosi, nuova divinità terrena che si autocrea e si autopone dal nulla, pertanto è ontologicamente ostile alla vita ed al lavoro. Divora i debitori, le loro vite e le muta in “interessi” con cui accumulare capitali, la cui genesi non è il lavoro, ma il tasso d’interesse. I debitori hanno perso il controllo del loro debito, sono oggetto di processi finanziari. La vendita dei titoli di credito è percepita dai capitalisti della finanza solo come fonte di investimento ed accumulo. Le vite dei debitori scompaiono dietro i titoli di credito, per lasciare al loro posto solo il calcolo degli interessi. Ogni debitore è così solo un numero, una data in scadenza, un nemico da cui astrarre la linfa vitale che tiene in vita il capitalismo finanziario. L’essere umano è trasformato in fonte per l’accumulo. Al capitalista non giunge nulla della sua sofferenza e della quotidiana tragedia per sopravvivere. Il debitore, in questo gioco, è sospinto nel suo olocausto, poiché se non sta al gioco del grande capitale è sospinto ulteriormente ai margini del sociale, è il paria da cui tutti fuggono. La violenza del capitalismo finanziario agisce secondo diverse direttive: dall’alto esige il pagamento con gli interessi in date non contrattabili, ma vi è, anche, la violenza orizzontale che fortifica l’automatismo finanziario. Il debitore subisce i sospetti del suo contesto di relazionale, lo si fugge e disprezza, poiché la religione del capitale non perdona gli sconfitti.
Un interrogativo tra i tanti sollevati dalla pandemia.
Se la capacità di assorbimento di uno shock negativo da parte di un’economia dovesse essere misurata dalla sua articolazione di poteri decentrati ci sarebbe da essere ottimisti sugli effetti della crisi pandemica sull’economia italiana. Eppure, la tesi che vorrebbe una governance contraddistinta da autonomia normativa e finanziaria dei poteri locali maggiormente in grado di assorbire sul proprio territorio shock esogeni, siano essi simmetrici o asimmetrici, dal lato della domanda o da quello dell’offerta, sembra essere sconfessata proprio dal caso italiano. A partire dagli anni Settanta, infatti, i mutamenti istituzionali in chiave “regionalista” sono stati progressivi (pur nelle discontinuità sempre rintracciabili nel lungo periodo) e, in parallelo, sono anche diminuite le nostre capacità di risposta agli shock globali.
È solo una coincidenza o qualcosa di più?
L’evidenza è che l’accettazione del prestito del MES ha il sostegno di un’agguerrita lobby interna. Mentre l’ex direttore del “Corriere della Sera”, Ferruccio De Bortoli, profetizza che alla fine i 5 Stelle “ingoieranno il rospo”, un esponente italiano di un fondo di investimento internazionale, Muzinich, già invita il governo a “spendere bene” i fondi del MES, dando quindi per scontato che a questi prestiti si finirà per accedere.
In base alla regola logica secondo la quale per riconoscere senso ad un’affermazione, questa dovrebbe averlo anche nel suo contrario, l’esortazione dell’esponente di Muzinich risulta quantomeno superflua. Sarebbe stato infatti strano consigliare al governo di “spendere male” i fondi del MES. Il punto però è che si tratta di spaccio di banalità a scopo propagandistico, cioè di sfacciato lobbying, e i “disinteressati consigli” corrispondono agli interessi di un fondo di investimenti come Muzinich, che avrebbe tutto il vantaggio a lucrare sul declassamento dei titoli del debito pubblico italiano che la sottomissione al MES automaticamente comporterebbe. Essere “assistiti” dal MES certifica infatti lo stato di indigenza e di bisogno di uno Stato e quindi consente ai sedicenti “Mercati” di imporre tassi di interesse più alti.
La Banca d'Italia ha pubblicato oggi i dati del Saldo delle Partite Correnti del mese di Marzo 2020. Quindi dati relativi ad un periodo di piena pandemia e a Lockdown già iniziato.
Il saldo del mese di Marzo si conferma positivo per ben 4miliardi e 136 milioni di euro. Questo nonostante un notevole crollo sia delle esportazioni che ovviamente del crollo dei flussi turistici. Crollo ampiamente compensato però da un crollo ancora maggiore delle importazioni.
Rispetto al Marzo del 2019 il surplus aumenta da circa 2,7 miliardi ai 4,1 che abbiamo visto. Negli ultimi 12 mesi possiamo addirittura parlare di vero e proprio boom: il surplus infatti si attesta a ben 57,7 miliardi di euro in notevole aumento rispetto ai 12 mesi precedenti (quelli che vanno da marzo 2018 a marzo 2019) quando era di 43,4 miliardi di euro.
L'Italia dunque - pandemia o non pandemia - si conferma per quello che è ormai da anni e anni : una inarrestabile macchina da soldi. Soldi per pochi ovviamente. A produrre un simile surplus è la popolazione (che fa i relativi sacrifici per ottenerlo, sacrifici fatti di salari e pensioni bassissime, di pochissimi diritti sociali e dunque di consumi ridotti all'osso).
Mentre stiamo chiusi in casa con sporadiche incursioni nel mondo di fuori, leggiamo analisi psicologiche che avvertono degli effetti traumatici del lockdown e analisi filosofiche che denunciano il rischio imminente dell’arrivo di un regime totalitario. Le accompagnano analisi economiche che prevedono una forte e lunga depressione. Tutte hanno le loro ragioni e tentano di governare il disordine montante della psiche individuale e quello possibile dei governi e dell’economia, ma offrono troppo spesso spiegazioni di default.
Questo inizio di secolo, che ha il suo battesimo con l’attuale pandemia, ha preso in contropiede chi dovrebbe saperlo leggere, se non altro per professione. Se alcuni filosofi ancora parlano di “stato d’eccezione”[1], molti scienziati hanno sofferto di “cognitive bias”, insistendo a paragonare questa malattia a una normale influenza[2]. Più in generale, siamo stati tutti colti impreparati, e ci vorrà tempo per capire perché. Senz’altro, benché le nostre vite individuali possano esserci apparse in sintonia con la nostra epoca – vite in transito, interconnesse, altamente medicalizzate, ad alto tasso tecnologico, con amici e famigliari sparsi in giro per il mondo –, il senso comune cui partecipiamo, l’immagine del mondo che fa da sfondo alle nostre analisi, si sono rivelati straordinariamente conservatori.
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Niamey, 9 maggio 2020. Il passato lunedì 4 maggio faceva particolarmente caldo fin dal mattino. Nulla lasciava presagire quanto sarebbe accaduto verso le 14 ora solare. Si vedeva il cielo cambiare colore e poi una grande nube giallo- marrone si avvicinava alla zona dalla quale si osservava il fenomeno. Pochi secondi e la tempesta di sabbia avrebbe avvolto la capitale Niamey creando qualcosa di simile ad una eclisse di sole. Per alcuni lunghi minuti Il buio è sceso sulla città assediata dalla sabbia e poco dopo una consistente pioggia è scesa abbondante per farsi perdonare della polvere, autentica protagonista dell’evento. La tempesta è una violenta perturbazione atmosferica che nasce quando forti raffiche di vento soffiano e sollevano la sabbia da una superficie asciutta. Secondo l’Organizzazione Metereologica Mondiale, OMM, nelle regioni aride o semi-aride come in Africa Occidentale, queste tempeste di sabbia e di polvere sono spesso provocate da forti temporali. Questi ultimi accrescono la velocità del vento su ampie zone, sollevano nell’atmosfera grandi quantità di sabbia e possono percorrere migliaia di kilometri.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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«il partito se li [i
piccolo borghesi
interventisti, ndr] rese nemici gratis,
invece di renderseli alleati, cioè li ributtò verso la
classe
dominante»
(Gramsci, Quaderno 3 (XX) § 44)
In questi giorni è impossibile per chi scrive non percepire il sentore di un disastro che si sta oramai definitivamente compiendo. L’Italia, in attesa di una misura economica tanto inadeguata quanto fuori tempo massimo come il Recovery Fund – la cui continua procrastinazione ne rileva l’essenziale inconsistenza, «fumo negli occhi»[i] di chi sarà costretto in ultimo a riconoscere il ricorso al MES come inevitabile -, si accinge a prostrarsi all’ennesima, forse ultima, richiesta di fedeltà a sua maestà l’Unione Europea, ovvero al mercato nella sua configurazione politica più propria, prima di scomparire del tutto come repubblica. Una repubblica fondata sul lavoro, dove la sovranità spettava al popolo, una repubblica mai nata, e che oggi sappiamo non nascerà. Per l’ennesima volta l’area del cosiddetto sovranismo costituzionale, democratico e socialista, sembra incassare una conferma storica e, al tempo stesso, scontare un’asfissia politica.
Il fatto è che a mobilitarsi sembrano essere ceti medi impoveriti, micro e piccoli imprenditori, commercianti, bottegai. E, a tradurre politicamente questa insofferenza, non pare disponibile altro da quella che Rolando Vitali, in un denso e argomentato articolo, definisce in termini di «intesa neocorporativa tra salariati e proprietari»[ii], fondata su un keynesismo nazionale che, mantenendo il quadro neoliberale, prevederebbe uno Stato-paracadute in difesa della media borghesia in crisi, ma, ovviamente, nessun tipo di difesa ed emancipazione del lavoro.
Continuiamo il dibattito non tanto sull’aspetto sanitario, quanto sulla gestione politica della crisi pandemica e sulle enormi implicazioni che stanno entrambe comportando. Di queste non vi è ancora una chiara percezione anche se una profonda inquietudine sta percorrendo l’intero paese [Giuseppe Germinario]
I fatti
dovrebbero ormai essere noti a tutti, visto dall’Italia,
osserviamo verso
la metà di gennaio una straordinaria campagna mediatica che
vede quelli che almeno allora c’apparivano come casi sporadici
in Cina
conquistare i titoli di prima pagina. Nel giro di due
settimane, senza apparentemente che succedesse qualcosa che
riguardasse direttamente il nostro
paese, ma soprattutto nel silenzio assoluto dei media, il
governo dichiara lo stato di emergenza, cosa che veniamo a
conoscere due settimane circa
più tardi, quando, siamo ormai a metà febbraio, si comincia a
creare un clima di panico che la stampa coltiva abilmente.
Quindi, proprio all’inizio della vicenda COVID-19, siamo in presenza di eventi incomprensibili, da una parte la stampa fa esattamente l’opposto di quanto ha fatto in tutte le altre occasioni, invece di minimizzare l’effetto di epidemie per contrastare ogni forma di allarmismo, fa l’esatto contrario, lo alimenta ad arte, dall’altra una decisione così delicata, rara e grave come la dichiarazione dello stato d’emergenza non solo non viene comunicata dal governo, ma viene oscurata dai giornali che non potevano ignorare quanto accaduto, visto che fa parte del loro mestiere controllare dettagliatamente l’operato del governo e nel contempo seguire ciò che viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Quindi, sanno, ma tacciono, e nessuno si è preso la briga di spiegarci perché.
Fatto sta che nelle settimane che ci separano da allora, si viene ad attuare un gigantesco piano di sospensione della costituzione con un governo che decide in assenza di qualsiasi controllo parlamentare, visto che addirittura nelle prime settimane il parlamento è rimasto chiuso ermeticamente, di operare attraverso il meccanismo del DPCM che ha la forma del provvedimento amministrativo, ma che è stato in questa occasione ripetutamente utilizzato per adottare decisioni politiche su temi tra l’altro della massima delicatezza.
Ho appena finito di leggere
un’interessante intervista rilasciata a Dagospia dal
professor Francesco Le Foche, clinico e
immuno-infettivologo molto esposto sul piano mediatico – come
del resto molti suoi colleghi scienziati. L’intervista appare
ai miei occhi
interessante soprattutto perché tocca un tema molto importante
e scottante, soprattutto alla luce della nostra recente
esperienza epidemica, e
cioè il ruolo sociale della scienza ai nostri giorni. La
circostanza è per me particolarmente “suggestiva” anche
perché proprio l’altro ieri ho riletto le Osservazioni
sulla scienza e la crisi scritte da Max Horkheimer nel
1932.
«Capire e descrivere una realtà vivente a partire dalla somma dei suoi frammenti inerti, significa mancare il nesso stesso della vita»: è soprattutto questo approccio riduttivo e scientista che Le Foche rimprovera a gran parte della scienza medica arruolata dal governo per fronteggiare e gestire la crisi socio-sanitaria che travaglia il nostro Paese ormai da tre mesi. La critica del professore ha richiamato alla mia testa i seguenti passi di Horkheimer: «La scienza ha a che fare con la conoscenza di ampie connessioni; ma la grande connessione da cui dipende la propria esistenza e la direzione del proprio lavoro, e cioè la società, essa non è in grado di comprenderla nella sua vita reale» (1). E non è in grado di comprenderla non a causa di un suo difetto di intelligenza, o a motivo di un limite intrinseco alla prassi scientifica in quanto tale, ossia considerata in astratto (operazione concettuale priva di senso), ma in grazia del ruolo sociale che la scienza ha nella società capitalistica. «La teoria marxiana della società annovera la scienza tra le forze produttive umane. […] Nella misura in cui si presenta come mezzo per la produzione di valori sociali, e cioè si esprime sotto forma di metodi di produzione, essa rappresenta anche un mezzo di produzione. La scienza collabora al processo della vita sociale come forza produttiva e mezzo di produzione» (p. 3).
La redazione della rivista internazionalista e antimperialista "Cumpanis", continuando la preziosa collaborazione con "L'Antidiplomatico", ci invia, come anticipazione, questo articolo che fa parte di uno "Speciale" del numero in uscita di "Cumpanis" dal titolo "Le basi materiali della crisi del movimento comunista in Italia". L'articolo è del direttore della rivista, Fosco Giannini
L’eurocomunismo è un paradosso.
Tanto è stata forte la sua azione negativa e disgregatrice sui quei partiti comunisti europei che l’hanno lanciato e sostenuto, quanto fragile è stato il suo pensiero politico e teorico.
L’azione dell’eurocomunismo ha contribuito notevolmente al processo di trasformazione del PCI in quel PDS che sarebbe poi giunto ad essere oggi il PD; la sua spinta ha accelerato i processi di involuzione politica, teorica e ideologica che erano già fortemente presenti nel PCI di Berlinguer facilitando di molto il percorso verso la “Bolognina”.
L’eurocomunismo si è offerto tra le più importanti basi materiali della crisi del Partito Comunista di Spagna (PCE) e della sua non insignificante perdita di autonomia e identità all’interno di Izquierda Unida. L’eurocomunismo ha offerto anche un importante contributo alle difficoltà che dalla fine degli anni ’70 in poi ha incontrato il Partito Comunista Francese.
Ma è qui il paradosso: pur avendo dispiegato tanta energia dissolutrice, dell’eurocomunismo – in virtù di quella particolata fatiscenza ideale e ideologica che l’ha contrassegnato- poco è rimasto nella memoria dei militanti comunisti degli anni ‘70 e quasi nulla è arrivato alla conoscenza delle nuove generazioni. Certo, esso ha influenzato e continua ad influenzare, in modo più o meno carsico, impianti politico-teorici come quello “bertinottiano” e di altre esperienze , italiane ed europee, della sinistra radical (con prospettive liberal, come nel caso del PD) ma la questione è che l’eurocomunismo in quanto tale, per la sua intrinseca debolezza teorica, come concreta esperienza politica, ha subito una sorta di rimozione storica, tant’è che oggi non pochi pensano all’eurocomunismo non tanto come al tentativo di sistematizzazione di un pensiero politico, ma, molto più banalmente, come all’agire dei partiti comunisti in Europa.
Questi quattro mesi di pandemia hanno strappato molti veli e segnalato molte vulnerabilità di sistema, prima di oggi rimosse o coscientemente occultate. Tra queste vi è la “questione settentrionale” ed è tempo che si porti alla luce e ci si metta mano, con ogni mezzo necessario.
In Italia da decenni affrontiamo la questione con una visione rovesciata, consentendo che la “questione meridionale” continui ad essere vissuta come l’unico aspetto dello sviluppo disuguale del nostro paese. Come se l’effetto possa consentire alla causa di continuare ad agire indisturbata nel tempo.
Ma dopo questi mesi in cui la localizzazione, la diffusione e la risposta alla pandemia di Covid 19 hanno rivelato geografie e comportamenti molto precisi, è tempo di rovesciare una visione falsata e obsoleta: il nostro paese ha una questione settentrionale alla quale mettere mano.
In questi mesi sono infatti emerse domande cui occorre cominciare a dare risposte. Perché i due focolai di coronavirus, quello in Veneto e quello in Lombardia si sono diffusi così velocemente? “C’è stata una non conoscenza dei sanitari che non sono stati in grado di riconoscere immediatamente i sintomi del virus”, ha commentato il commissario all’emergenza Angelo Borrelli. Vero o falso che sia, non risponde alla domanda.
Esistono termini che possono essere definiti come “inibitori del discorso”, in quanto capaci di bloccare il sereno dibattito non appena branditi, generalmente a mo’ di clava retorica, contro l’interlocutore.
La connotazione negativa, conferita loro dal pensiero egemone e dunque collettivamente accettata, li dota infatti di un forte potere intimidatorio. Di grande genericità o indeterminatezza, questi termini sono in realtà contenitori eterogenei in cui gli elementi più ridicoli o biasimevoli sono accomunati agli elementi più meditati, così da accomunarli nello stigma; quindi di scarso valore semantico ma di grande potenza polemica.
A titolo di esempio non esaustivo citiamo: sovranista, populista, no-vax, no-global, negazionista (del riscaldamento globale di origine antropica, che richiama il negazionismo dell’olocausto), rossobruno e via dicendo. Tutte etichette generiche che il mainstream ha caricato di senso spregiativo, ridicolizzante o annichilente; efficaci anatemi a chi obbietta il quadro cognitivo egemone, a prescindere dal contenuto dell’obiezione.
E’ una vera sconfitta cognitiva che l’epidemia o meglio le misure prese ufficialmente per contenerla si siano rifugiate sotto l’ala della scienza o meglio della pseudo scienza di Big Pharma e dei noti filantropi, sì perché la sua narrazione è tra le più assurde possibili e irte di numeri del tutto privi di senso. In questo barnum numerico il più rilevante “verme” è il numero dei contagi che diminuisce o si allarga a seconda dell’impatto che può avere sui piani di battaglia dell’nuovo ordine virale. Davvero strano che nessuno abbia notato l’assurdità di dare le cifre del contagio senza riferirlo al numero dei test effettuati: se un giorno, mettiamo caso, faccio 1000 test e trovo 200 contagiati, poi il giorno successivo ne faccio 2000 e trovo 300 positivi, ecco che viene annunciato un aumento dei contagi mentre in effetti c’è una diminuzione. Insomma siamo spettatori di una perversa ingegneria narrativa che dappertutto è stata venduta come basata sulla Scienza (con la S maiuscola) a cui la gente dovrebbe obbedire.
Democratizzazione, demercificazione e risanamento ambientale: sono le tre parole chiave di un manifesto internazionale – sottoscritto, tra gli altri, da Thomas Piketty, Saskia Sassen, Nadia Urbinati e James Galbraith – che, cinquant'anni dopo l’approvazione il 20 maggio 1970 della legge che ha introdotto elementi di democrazia aziendale in Italia, meriterebbe d’essere raccolto come nuovo punto di partenza per un’autentica rinascita delle politiche del lavoro
Che differenza corre tra Selvina, giovane immigrata pakistana che in piena pandemia pulisce gli sterminati spazi di un supermercato esponendo sé – e i familiari che la attendono a casa – al rischio di contrarre il letale Covid 19 e il suo capo, Maurizio, che gestisce gli appalti e i servizi a distanza, al chiuso del suo comodo ufficio?
Chi rischia di più tra Massimiliano, dipendente di una società di servizi sanitari a contatto quotidiano con il personale e i pazienti di numerosi ospedali lombardi e Agostino, amministratore unico il quale, tra le quattro mura della sede sociale, non fa altro che lamentarsi del blocco dei licenziamenti decretato dal governo fino ad agosto?
Come avevamo previsto, le lezioni universitarie si terranno dall’anno prossimo on line. Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.
Non c’interessa qui la conseguente trasformazione della didattica, in cui l’elemento della presenza fisica, in ogni tempo così importante nel rapporto fra studenti e docenti, scompare definitivamente, come scompaiono le discussioni collettive nei seminari, che erano la parte più viva dell’insegnamento. Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale.
Ben più decisivo in quanto sta avvenendo è qualcosa di cui significativamente non si parla affatto, e, cioè, la fine dello studentato come forma di vita. Le università sono nate in Europa dalle associazioni di studenti – universitates – e a queste devono il loro nome.
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In tanti mi hanno chiesto un commento sulla proposta di Recovery Fund della Commissione europea che a sentire gli europeisti nostrani sarebbe un evento di portata storica secondo solo al ritorno del Messia (ma forse pure meglio visto che che la tendenza del Cristo a creare vino dal nulla rischierebbe di generare inflazione).
Sarò breve, non solo perché oggi è il mio compleanno, ma perché sarebbe il caso di smetterla di sprecare inchiostro per commentare quelle che sono appunto proposte che poi dovranno passare al vaglio dei governi nel corso di trattative che dureranno mesi e alla fine dei quali della proposta iniziale rimarrà ben poco.
Ciò detto, poniamo che il piano della Commissione europea passi così com'è. Cosa prevede esattamente? Girano cifre molto fantasiose. Da ieri tutti gli organi di stampa parlano di 172 miliardi di "aiuti" per l'Italia, 80 dei quali addirittura a fondo perduto. Detta così sembrerebbe quasi un buon affare. «Una pioggia di soldi», l'ha definita l'ineffabile Enrico Mentana.
Il testo Da Marx al post-operaismo[1] offre una lettura
teorico-politica che ripercorre circa un secolo di riflessioni
filosofiche variegate tra loro, ma che esaminando gli sviluppi
della società
capitalistica contemporanea adoperano la metodologia marxiana
come chiave di lettura del presente, estrapolando però
contenuti e concetti
ereditati dalle diverse tradizioni del pensiero politico
moderno che l’opera di Marx ha generato. Si tratta di un
lavoro svolto da
«giovani leve», come scrive Giovanni Sgro’ nell’Introduzione,
le quali però si orientano decisamente verso la
comprensione di determinati filoni teorici che hanno tentato
di plasmare la prassi politica, cioè delle organizzazioni
operaie, dal momento che
posero all’attenzione delle loro analisi gli sviluppi politici
della stessa classe operaia.
Dall’analisi degli sviluppi filologici su L’ideologia tedesca, dalla quale però emerge un’accesa diatriba teorico-politica scatenatasi in un periodo storico particolare (quello degli anni Venti e Trenta del secolo scorso) tra gli interpreti marxisti sovietici e quelli tedeschi socialdemocratici per l’affermazione indiscussa dell’eredità marxiana, allo studio dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e all’elaborazione del concetto marxiano di «uomo bisognoso di una totalità di manifestazioni di vita umane» (p. 53), si giunge ai tedeschi Benjamin e Marcuse, influenzati dal clima di devastazione totale provocato dalla Prima guerra mondiale e dal consolidarsi dei regimi nazi-fascisti che condussero l’Europa al suo secondo suicidio. Ciò che accomuna i due pensatori tedeschi è la considerazione dello svilimento del soggetto rivoluzionario, vale a dire la discontinuità della riflessione della classe operaia nei termini delineati da Marx, come classe capace di emancipare tutta la società emancipando sé stessa.
Cecoslovacchia,
capitalismo e socialismo - Paul Sweezy
Il dibattito inizia con una pubblicazione di Paul Sweezy sulla questione dell'invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Unione Sovietica nell'agosto 1968. Uno degli argomenti addotti per giustificare tale invasione era che, senza di essa, la Cecoslovacchia sarebbe tornata al capitalismo, tornando così al blocco dei paesi imperialisti. Dopo aver mostrato le contraddizioni di questa decisione, l'autore concorda, tuttavia, che la Cecoslovacchia si stava effettivamente muovendo verso il capitalismo basato su tre caratteristiche: controllo della produzione da parte delle aziende stesse, coordinamento generale dell'economia attraverso il mercato e ricorso a stimoli e incentivi materiali personalizzati. Non è un caso, caratteristiche presenti anche nel restauro capitalista in Cina, anni dopo.
A quel tempo, l'economia ceca sarebbe un misto di "socialismo di mercato" (un termine che l'autore critica sostenendo di essere contraddittorio) e di una pianificazione amministrativa centralizzata ("modello" che è emerso in URSS ed esportato nei paesi dell'Europa orientale dopo la Seconda guerra mondiale). Tuttavia, l'autore afferma che, indipendentemente da questa doppia composizione, il paese stava rimuovendo del tutto gli ostacoli verso un'economia di mercato.
Paul Sweezy mostra anche che l'intero blocco dell'Europa Orientale, compresa l'Unione Sovietica, stava seguendo lo stesso percorso di regressione al capitalismo e afferma che un'alternativa sarebbe stata una rivoluzione culturale nel senso specifico dato a quel termine dai cinesi: “una vigorosa campagna mirata a mobilitare le masse, aumentare il livello di consapevolezza politica, ravvivare gli ideali socialisti, dare maggiore responsabilità ai produttori stessi a tutti i livelli decisionali”. (p. 21).
Folle
è l'uomo che parla alla
luna. Stolto chi non le presta ascolto.
William
Shakespeare
Con due gocce d'eroina s'addormentava il
cuore.
Fabrizio De
André
Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che
l'ordine presente
tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. E'
l'autoritratto del potere all'epoca della gestione
totalitaria delle condizioni di
esistenza.
Guy Debord
A prescindere dal nome velatamente romantico, il quale potrebbe rievocare una fuorviante prosa shakespeariana, l’Operazione Blue Moon, condividendo alla lontana la sola tragicità del drammaturgo, è stata la deliberata e massiccia diffusione dell’eroina in Italia, con sapiente gestione del mercato delle droghe soprattutto da parte del blocco dei servizi segreti occidentali con l’avvallo di molteplici organi istituzionali, in un determinato scenario storico quale era quello degli anni ’70, caratterizzato dal forte impatto di un conflitto politico e sociale scaturito da quella che, tra i paesi europei, può essere vista come la più lunga e intensa stagione del Sessantotto e delle sue ramificazioni.
Mi è già capitato di citarla, seppur fugacemente, in un precedente articolo sulla droga, allo stesso modo in cui gli ho anche dedicato il capitolo conclusivo di un libro.
Diffida degli annunci
di palingenesi sociale, Marco d’Eramo,
saggista e autore de Il selfie del
mondo. Indagine sull’età del turismo. L’idea
che dopo la pandemia il mondo dovrà
necessariamente cambiare, e in meglio, gli appare ingenua.
Così anche l’idea che la pandemia possa trasformare
un’economia
intrinsecamente espansiva come quella turistica,
riconducendola dentro parametri di sostenibilità sociale ed
ecologica. La bolla
dell’overtourism si è sgonfiata, ma tornerà presto a
crescere. Presto torneremo a consumare il pianeta, le città
globali
quanto gli angoli più sperduti. Perché “anche chi si estasia
per il canto degli uccellini in città sbava per andare in
aereo, riprendere l’automobile e lasciare dietro di sé
tracce chimiche”. E “il più grande esperimento di ingegneria
sociale della storia” – quello in cui siamo immersi a causa
della pandemia – “verrà presto
dimenticato”.
* * * *
Un “guscio vuoto”, un “fondale di teatro” sul quale viene messo in atto lo spettacolo del turismo. È così che ne Il selfie del mondo descrive Roma, città devota al turismo che nelle ultime settimane, come molte altre, si è trasformata a causa della pandemia. Che impressione le fa vedere le quinte vuote?
L’immagine di Roma che abbiamo visto nelle scorse settimane rimane dentro l’immaginario turistico, e rimanda alla parte del mio libro sulla coscienza infelice del turista, il quale vuole sempre stare dove non ci sono altri turisti, dove non c’è lui. La sua massima ispirazione è stare dove non ci sono altri suoi simili, ma è impossibile. La Roma che si presenta ai nostri occhi è dunque doppiamente turistica, una sorta di spiaggia dei Caraibi dalla sabbia fine e immacolata, finalmente deserta, ma talmente deserta da non poter accogliere neanche gli abitanti. Riflette la stessa contraddizione del turismo in generale.
La dichiarazione congiunta di Austria, Olanda, Svezia e Danimarca stronca le illusioni del governo Conte in merito a una posizione più “accomodante” della Ue, che dovrebbe consentirci di incrementare la spesa pubblica per sostenere la nostra economia, provata dal coronavirus. Comunque vada a finire il confronto all’interno della Commissione, dobbiamo sapere fin d’ora che qualsiasi sia la formula con cui verranno concessi, se verranno concessi, gli “aiuti” comunitari, sarà al prezzo di “riforme” che, come in Grecia, si tradurranno automaticamente in tagli a salari, pensioni e spese sociali. La morte di Alesina (il celebrato portavoce dei dogmi neoliberisti al di là di ogni smentita empirica) non impedirà al suo spirito di continuare ad aleggiare come un avvoltoio sulle rovine del Paese.
La sberla delle Svizzere nordiche, capitanate da un’Olanda esperta in dumping fiscale, farà cambiare idea alle nostre élite partitiche, imprenditoriali e mediatiche, che da decenni accettano senza se e senza ma i vincoli esterni che ci vengono imposti dopo avere svenduto la nostra sovranità monetaria, anche a costo di rinunciare a parte del loro bottino?
I tempi in cui ci troviamo non sono facili: i popoli europei sono stretti tra la morsa a tenaglia della pandemia da un lato, e delle pericolose strade che portano al Mes dall’altro. Al momento, ad essere chiaramente visibili sono il terribile effetto del virus, e l’intransigente attaccamento delle istituzioni europee all’austerità che, seppur apparentemente ammorbidita da provvedimenti di corto respiro dettati dall’eccezionalità del momento, è pronta a riprendersi la scena non appena l’emergenza si sarà attenuata. Eppure, non c’è da star sereni neanche per l’immediato futuro. Se infatti tutti speriamo che il Coronavirus possa via via divenire un avversario più gestibile, già vediamo chiare avvisaglie dell’inasprimento dei toni per quanto riguarda la gestione delle spese necessarie alla gestione della crisi.
Si prospetta per l’Italia, così come per praticamente tutte le nazioni fortemente colpite dal virus, un fine d’anno segnato da cospicui aumenti dei deficit pubblici (il rapporto deficit/PIL salirà dall’1.6% all’11.1% per Italia, dal 2.8% al 10.1% in Spagna, e da un avanzo dell’1.4% a un disavanzo del 7% in la Germania).
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La descrizione dell’esecuzione capitale del re Carlo I Stuart, avvenuta il 30 gennaio 1649 per opera dei puritani di Oliver Cromwell (prima condanna a morte di una testa coronata da parte di un tribunale rivoluzionario dell’età moderna), merita di essere narrata sulla scorta delle maggiori opere storiografiche disponibili (Guizot, Gardiner, Trevelyan, Hill), perché costituisce una saggio non comune di quello stile che ha reso emblematica in tutto il mondo l’Inghilterra.
Carlo I Stuart uscì dalla sua camera a Whitehall verso mezzogiorno. Aveva mangiato poco prima una fetta di pane e bevuto un bicchiere di vino. Era accompagnato dal dottor Huxon, dal colonnello Thomlinson e da alcuni ufficiali repubblicani. Il patibolo era stato preparato in modo tale che il re dalla sala, attraverso un’apertura, passò direttamente sul palco. Il palco era stato rivestito di un drappo nero; il ceppo e la scure lucente collocati bene in vista; erano presenti una ventina di persone. Il re, arrivato là, pronunciò un discorso, non per il pubblico, che era troppo lontano, ma per la storia. Disse ciò che volle e per quanto volle. Finito il discorso, il re si rivolse al colonnello: “Badate che non abbiano a farmi del male. Di grazia, signore…”.
“Ricercare la strada per la comprensione della società e della via per i suoi mutamenti. La questione della democrazia per i lavoratori, del mutamento qualitativo del potere, del suo esercizio, sono oggi i terreni storicamente necessari per un’analisi che non si accontenti della mera descrizione didascalica dei fatti, ma che porti la sua scientificità alle necessarie conseguenze”. È questo l’obiettivo che si propone, fra gli altri, l’ultima fatica di Luciano Vasapollo, docente di economia alla Sapienza e caposcuola marxista di fama internazionale, che, con Joaquin Arriola e Rita Martufi, ha dato alle stampe, proprio nei giorni scorsi, Volta la carta… nel nuovo sistema economico monetario: dal mondo pluripolare alle transizioni al socialismo, pubblicato da Edizioni Efesto (Roma). Si tratta di un corposo e sistematico trattato di analisi del ciclo economico attuale, con la finalità, tuttavia, di aprire la strada ad un’approfondita riflessione sulla necessità del suo superamento.
Vasapollo affronta un tema dirimente, ossia della questione monetaria, cui dedica un grande spazio in Volta la carta…. Infatti, “oggetto della speculazione finanziaria possono essere anche i diversi tipi di cambio monetari e attualmente la quasi totalità delle cripto valute”. Sono temi di grandissima attualità, che gli autori affrontano in un’ottica ampia, al di là dell’economicismo imperante.
Cadono le foglie di fico e si vede tutto. C’è proprio poco, diciamolo subito!
Sotto le giaculatorie sulla “libertà di stampa”, in un Paese in cui ben pochi giornali – in genere molto minori – sono in mano a “editori puri” (imprenditori che fanno dell’editoria il proprio business principale, in termini di fatturato e ricavi), si cela una realtà servile piuttosto squallida.
La situazione è peggiorata – anche se non sembrava possibile – con il doppio salto mortale della proprietà di Repubblica-L’Espresso e La Stampa. Con Debenedetti – da una vita proprietario del giornale fondato da Eugenio Scalfari – che prima compra il quotidiano torinese da sempre proprietà della famiglia Agnelli, poi (sotto la pressione dei figli) rivende tutto… agli Agnelli.
I quali, con la classe che li contraddistingue da sempre, cambiano il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, proprio nel giorno della mobilitazione nazionale in suo favore, minacciato più volte da fascisti rimasti fin qui sconosciuti (bisogna ammettere che la vista della polizia italiana è su questo fronte particolarmente deficitaria…).
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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Dopo aver adottato nel 2013 il Piano Industria
4.0, il governo
tedesco avviò nel 2015-16 un processo di consultazione tra i
vari attori sociali per conoscere la loro opinione sulle
conseguenze che la
rivoluzione digitale avrebbe potuto avere sul mercato del
lavoro. Fu redatto un Libro Verde a cura del
Ministero degli Affari Sociali, retto
allora dalla Ministra Andrea Nahles (che sarebbe diventata
anche segretaria della SpD), dove si esplicitava una serie di
problemi ai quali imprese,
associazioni, sindacati, chiese, enti vari avrebbero dovuto
dare risposta. Ma il valore dell’iniziativa stava nelle
dichiarazioni programmatiche
contenute. Il governo non chiedeva il parere degli stakeholders
con un atteggiamento passivo o “neutrale”, ma dichiarava
apertamente quale ottica avrebbe seguito nell’accompagnare la
rivoluzione digitale. Dalla serie di citazioni tratte dal
testo si può
capire l’orientamento politico ed etico cui erano ispirate.
1. «Non si tratta d’intervenire solo sui fenomeni a margine e sulle conseguenze indesiderate dei processi, anche se è comunque necessario farlo», si tratta di andare oltre e lo stato deve intervenire per “plasmare” il processo secondo il quale la tecnologia possa diventare un mezzo per realizzare le nostre aspirazioni a una vita migliore e a un migliore modo di lavorare.
Questa forte presa di posizione contro un laissez faire, questo non voler lasciare le cose alle forze del mercato si accompagna alla reiterata affermazione che se le macchine debbono sostituire una parte del lavoro umano, «si pone il problema di come distribuire gli incrementi di produttività che ne conseguono».
È da poco uscito, per i tipi di
Meltemi, “Un progetto di
liberazione. Repubblica, sovranità, socialismo”, un
libro di Manolo Monereo e Hector Illueca.
Monereo, militante del PCE, imprigionato e torturato durante
la dittatura, ne viene espulso per le sue critiche
all’atteggiamento arrendevole
del partito nella transizione democratica. A metà degli anni
80 aderisce a Izquierda Unida, di cui diventa uno dei
massimi dirigenti sotto la
gestione di Julio Anguita (da poco scomparso).
Successivamente è consulente per i governi progressisti
dell’America latina prima di
ritornare in Spagna, dove aderisce a Podemos e viene eletto
deputato per la circoscrizione di Cordoba. Nel 2018 decide
di non ricandidarsi, in
dissenso con la proposta di formare un governo di coalizione
fra Podemos e il Psoe. Illueca è ispettore del lavoro e
professore di diritto del
lavoro, attuale deputato di Unidas Podemos eletto nella
circoscrizione di Valencia. Queste scelte differenti sono il
motivo per cui l’analisi
della recente storia politica spagnola dei due autori si
ferma al 2018, in quanto non avrebbero potuto esprimere
giudizi condivisi sull’operato
del governo Sanchez – Iglesias. Il testo che segue
riproduce, quasi integralmente, quello della mia
Introduzione al libro.
* * * *
Gli scritti contenuti in questo volume ci aiutano a capire in che misura le sfide che il popolo spagnolo si trova oggi a fronteggiare somiglino a quelle con cui anche noi italiani dobbiamo fare i conti. Ma soprattutto ci aiutano capire che, per affrontarle, dovremo liberarci di quelle che Monereo e Illueca chiamano “idee zombie”, riferendosi a concetti come globalizzazione, europeismo, mondo senza barriere e confini, idee “impossibili da uccidere perché l’immaginario sociale continua a rimanere ancorato al passato”.
file:///C:/Users/Fulvio/Desktop/Mascherine%20minori.pdf Per primissima cosa, in linea con l’argomento del pezzo, vi invito vivamente a leggere questo appello in difesa dei minori aggrediti dall’operazione virus.
https://youtu.be/rvNMLEK_XW0 Paolo Rossi “Era meglio morire da piccoli”
Fuori i mocciosi! O dentro!
Di occasioni per parlare della guerra di sterminio agli anziani, condotta dagli apostoli del Messia Coronavirus, ce ne sono state offerte fin troppe, sostenute dall’abbagliante evidenza della considerazione in cui venivano tenuti questi soggetti, inutili, costosi, improduttivi, spesso acrimoniosi e, oltre tutto, depositari di insidiose memorie. Molte di meno ne abbiamo avute per misurare il grado di ostilità impiegato per liberarsi di un’altra categoria di umani costosi, parassitari e spesso smanierati: i mocciosi.
Non è la prima volta, se partiamo dall’episodio della strage degli innocenti di Erode che ci hanno rifilato quelli della bibbia e che si emula ininterrottamente, fino all’uranio sui bimbi iracheni e serbi, fino al fosforo sui ragazzetti di Gaza, ai massacri dell’Isis in Siria, alle sanzioni ai bambini di mezzo mondo. Ma una frode così colossale, come quella inflitta da una branco di lupi (chiedo scusa ai lupi veri) a uno sconfinato gregge di pecore (chiedo scusa alle pecore vere), a me pare ci sia stato solo una volta, circa duemila anni fa, quando al pensiero molteplice, tollerato, produttivamente e felicemente dibattuto, ci venne imposto con il trucco, il raggiro e una violenza sanguinaria come mai prima nella storia umana, il pensiero unico ancor prima che l’esserino umano avesse un pensiero..
Uno spirito acuto ha detto che a Osama bin Laden hanno sostituito il Sars-Cov-2, riferendosi alle misure autoritarie e riduttrici dei diritti civili assunte per la cosiddetta “Guerra al terrorismo” (leggasi “guerra all’umanità”), una guerra che vedeva riuniti, da un lato, Stati e loro terroristi e dall’altro Stati e popoli vittime, con tra queste ultime in primissima posizione bambini e adolescenti.
In questi giorni riaprono perfino le palestre,
con energumeni sudati che
sprigionano umori in ambienti chiusi. Ma scuole e università
no, ci mancherebbe: classi pollaio, insegnanti anziani, piani
di ripresa mai
stilati, rischi e timori del tutto indeterminati. E in fondo
che fretta c’è? Che diavolo volete? Tanto non producete
reddito, lo
stipendio vi arriva lo stesso e una lezione si può fare anche
attraverso il computer, mentre uno spritz o una corsa sul
tapis-roulant (ancora)
no. Così il senso comune traveste da ragioni
tecnico-economiche un dato primariamente politico, in cui
l’ossessione securitaria di oggi
si fonde con il mirato, sistematico svilimento delle
istituzioni formative che sta massacrando scuola e università
da almeno due decenni. E
allora teniamole proprio chiuse, queste pericolose
istituzioni, perché tanto si può fare lezione da casa: magari
anche in autunno, e poi
tutto l’anno prossimo, come ha già annunciato la gloriosa
università di Cambridge, e poi chissà. Così potremo
realizzare il sogno della preside Trinciabue, in un corrosivo
romanzo di Roald Dahl: «una scuola perfetta, una scuola
finalmente senza
bambini!».
Di cosa significhi insegnare nell’era del Covid-19 si sta discutendo da mesi, strappando faticosamente piccole porzioni di un dibattito pubblico monopolizzato da virologi superstar e dilettanti allo sbaraglio. Da parte mia, ho cercato di farlo in un e-book gratuito pubblicato da Nottetempo, Insegnare (e vivere) ai tempi del virus, mentre si moltiplicano gli interventi su blog, social e anche giornali mainstream. Torno dunque sulla questione per fissare solo quattro punti sintetici, conclusi da altrettanti impegni ad agire subito (in corsivo). E se non ora, quando?
“Il futuro del lavoro? E già qui, grazie al Covid 19”. No, non siamo diventati matti nè ci trastulliamo con i paradossi. Il fatto è che con, e dentro, la pandemia di coronavirus, nel mondo del lavoro sono intervenute in pochissimo tempo delle profonde modifiche ai processi, alle strutture e ai luoghi fisici della produzione.
La pandemia è stato il fattore scatenante ma, secondo un’analisi elaborata della Columbia University, il nuovo modo di lavorare, nato con l’emergenza, è destinato a durare ed a caratterizzare il prossimo futuro.
Secondo un’analisi del preside della Columbia University, Jason Wingard, pubblicato dal sito americano Quartz, molte soluzioni adottate dalle imprese per far fronte ai problemi determinati dal lockdown sono state sorprendentemente innovative. Il titolo è già tutto un programma: “Il futuro del lavoro è qui, grazie al Covid 19”.
Secondo Wingard, figure come impiegati, amministrativi, funzionari, con la crisi pandemica sono stati semplicemente catapultati direttamente in un mondo del lavoro sul quale da tempo erano in orso tentativi di ristrutturazione (e di destrutturazione, che non è affatto la stessa cosa, aggiungiamo noi).
Siamo arrivati al giorno in cui il Consiglio europeo dovrebbe affrontare il tema del Recovery Fund, sempre che la Commissione porti effettivamente al tavolo una propria proposta, dopo che la scorsa settimana Angela Merkel ed Emmanuel Macron hanno di fatto già presentato una sorta di loro bozza su cui non sono mancati i dissensi da parte di Olanda, Austria, Svezia e Danimarca. Il premier Conte punta molto sul Recovery Fund, dato che ha parlato di una “svolta storica” dal momento che Francia e Germania si sono accordati per “500 miliardi a fondo perduto”. Sergio Cesaratto, professore di Economia monetaria europea all’Università di Siena, non sembra condividere lo stesso entusiasmo del presidente del Consiglio: “Questa svolta mi sembra del tutto relativa e dagli effetti minuscoli, fatta salva l’opposizione di Austria e Olanda, dato che Danimarca e Svezia sono anche fuori dall’Eurozona. Questi Paesi dicono che non vanno dati soldi a fondo perduto, ma piuttosto erogati dei prestiti. Ma il Recovery Fund già consiste di risorse da restituire! Di fatto si tratta già di prestiti”.
* * * *
Conte ha parlato però di fondo perduto…
La verità è che verrà utilizzato il bilancio europeo 2021-27 per restituire ai mercati i soldi che verranno stanziati. L’Italia dovrebbe ricevere di più di quella che è la sua quota di versamenti nel bilancio Ue, quindi semmai a fondo perduto sarà solo la differenza tra queste due cifre.
Sinceramente, da parte mia, avrei potuto definire “ricca di contenuti filosofici” una colazione fatta con Gilles Deleuze o Michel Foucault. Evidentemente non è la stessa cosa per la ministra dell’istruzione Lucia Azzolina, estasiata da una colazione insieme a Diego Fusaro (“Una colazione ricca di contenuti filosofici. Bisognerebbe iniziare tutte le mattine così”), accompagnata per di più da un selfie. E, intendiamoci, non importa se questa foto o questa dichiarazione sono di una settimana o di un anno fa: non cambia assolutamente nulla. I “contenuti filosofici” sono sempre gli stessi, evidentemente considerati ‘arricchenti’ da chi sta alla guida del ministero della Pubblica Istruzione. Ma di che si tratta? Ebbene, come è stato dimostrato in un articolo su Codice Rosso (Fusaro, poco rosso molto bruno), la tendenza culturale e politica di cui Fusaro è il sostenitore possiede diverse caratteristiche. Cerchiamo di riassumerne i punti principali (si rimanda comunque alla lettura dell’articolo): il punto di partenza delle tesi di Fusaro è la convinzione che esista un “perverso disegno” che avrebbe come obiettivo “la sostituzione programmata della popolazione europea con il nuovo esercito industriale di riserva dei migranti provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo”.
"Ci stanno rubando milioni di dollari che servirebbero al popolo venezuelano in questa pandemia, negando l’accesso al presidente Maduro e al governo bolivariano."
Samuel Moncada, storico, politico e diplomatico venezuelano, è rappresentante permanente del Venezuela presso le Nazioni Unite. In precedenza, è stato rappresentante alternativo del Venezuela presso l’Organizzazione degli Stati americani (OSA), da cui il Venezuela si è ritirato ad aprile del 2017.
Durante l’ultimo programma web delle BRICS-PSUV, collegandosi dagli Stati Uniti, Moncada ha risposto alle domande della vicepresidente dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC), Tania Diaz, e a quelle di Leo Robles, direttore del giornale El Ciudadano. Tema del confronto, l’accerchiamento del Venezuela da parte dell’imperialismo e il ruolo della destra golpista che, in piena pandemia, spinge per un’invasione esterna.
Moncada ha poi ulteriormente sviluppato la sua analisi in questa intervista, nel momento in cui il governo bolivariano è riuscito nuovamente a rompere l’assedio imperialista accompagnando l’arrivo delle navi iraniane in Venezuela.
Le prese di posizione di Giorgio Agamben a proposito della gestione dell’emergenza sanitaria hanno prodotto discussioni estenuanti, esponendo il loro autore alla volgarità della società cinica in cui viviamo. In un mondo disincantato e ormai memeizzato, gli alti lai del filosofo romano, le sue lamentazioni, sono stati liquidati come geremiadi. È successo di nuovo con l’intervento Requiem per gli studenti, che Agamben ha pubblicato su queste pagine. Riflessioni durissime, nelle quali Agamben paragona chi non si rifiutasse di praticare la cosiddetta ‘didattica a distanza’ a quei professori che giurarono fedeltà al regime fascista. E invita gli studenti a non iscriversi alle università così trasformate, ma a costituire nuove universitates studentesche.
Personalmente, non condivido la lettura che Agamben ha dato del Covid-19 e di come è stato affrontato. Il suo polittico, pubblicato a puntate sul suo blog sul sito dell’editore Quodlibet, dove sono confluiti i suoi interventi scritti anche altrove (a partire dal primo, criticatissimo, sul manifesto), a mio avviso risente dei limiti del suo pensiero. Ché gli scritti di questi mesi non sono solo d’occasione, ma rappresentano una messa alla prova di alcuni dei punti fondamentali delle sue tesi, disseminate in libri molto letti, che ne hanno fatto uno dei pensatori più apprezzati al mondo.
Dialoghiamo oggi con il professor Marco Giaconi sui grandi temi dell’agenda politica italiana, sul ruolo della classe dirigente e sull’inserimento delle sfide del Paese in un’ottica strategica. Buona lettura!
Professor Giaconi, la fase attuale sta
segnando una grande evoluzione nel contesto
degli equilibri economici e politici internazionali. Come
vede lo scenario nel suo complesso alla luce degli sviluppi
degli ultimi mesi?
Molti hanno fatto già osservazioni pertinenti. La Federazione Russa ha ancora un basso, in rapporto alla popolazione, tasso di infezione, 365 casi per milione, secondo i dati più recenti del Parlamento Europeo. Ma la reazione ospedaliera e politico-sanitaria al Covid-19 è stata particolarmente lenta, in Russia, con un sistema sanitario che è ancora evidentemente a bassi livelli di efficienza. Comunismo e Burocrazia, anche se oggi Putin è tutto meno che un “compagno”, lo diceva sempre Gaetano Salvemini, vanno sempre in coppia e si chiamano tra di loro. Come abbiamo visto anche noi in Italia. Senza spesa pubblica a gogò, niente socializzazione, vera o soprattutto presunta. Sempre per Mosca, la stabilità finanziaria è però sostanzialmente garantita, dato che il loro debito pubblico è oggi al 15%, mentre la media della UE è, ricordiamo, all’80%. Con riserve auree e di monete forti che stanno intorno ai 500 miliardi di usd. Dureranno certamente, i russi, e si prenderanno, in futuro, e senza particolari pressioni, le aree marginali della UE ai loro confini. Primo limite della geopolitica occidentalista, oggi: lottare contro la Russia, poi anche e simultaneamente contro la Cina, tentare infine una espansione in India e nel Sud-Est asiatico, ma il tutto senza soldi e con idee geopolitiche piuttosto vetuste. Né Mosca né Pechino, oggi, sono il classico dentifricio che non si può rimettere nel tubetto.
La didattica a distanza, partita
alla fine di febbraio con tanta buona volontà da parte dei
docenti e, inevitabilmente, non poca
improvvisazione, si è trasformata in un treno lanciato a
gran velocità sui binari della scuola del futuro, senza
nemmeno il tempo di un
rodaggio che ne valuti la solidità e la tenuta di strada. Da
modalità emergenziale, cui ricorrere per non interrompere la
relazione
educativa con gli studenti, è stata già promossa a modalità
ordinaria da assumere per imboccare la via virtuosa
dell’innovazione, anche quando cesserà quello stato
d’eccezione che ne ha giustificato l’uso.
L’utilità della didattica a distanza, partita alla fine di febbraio con tanta buona volontà da parte dei docenti e, inevitabilmente, non poca improvvisazione, si è trasformata nel giro di appena due mesi, senza nemmeno avere avuto il tempo di un rodaggio che ne valuti la solidità e la tenuta di strada, in un treno lanciato a gran velocità sui binari della scuola del futuro. Peccato che, sotto la spinta di venti fortissimi, rischi di deragliare per avere preso il binario sbagliato: da modalità emergenziale, cui ricorrere per non interrompere la relazione educativa con gli studenti in questa precisa situazione indotta dall’epidemia da Covid 19, è stata già promossa a modalità ordinaria da assumere per imboccare la via virtuosa dell’innovazione, anche quando cesserà quello stato d’eccezione che ne ha giustificato l’uso.
Malgrado la notevole capacità di reagire ad una circostanza eccezionale dimostrata oggi dagli insegnanti e nonostante il profluvio di riforme di cui è stata teatro negli ultimi decenni, la scuola, per la composita squadra di esperti dell’educazione a vario titolo che occupano la scena pubblica, rimane sempre indietro, non è mai all’altezza delle aspettative che la società le assegna di volta in volta, deve continuare a dimostrare la sua disponibilità ad adeguarsi alle richieste che premono da tutte le parti, anche in modo contraddittorio.
Sulle
prospettive del dopo Covid, Stamptoscana si
rivolge all’economista
Joseph Halevi. Halevi è nato a Haifa nel
1946 da madre lucchese e ha studiato a Roma, dove si è
laureato nel 1975 in
filosofia con una tesi in economia. Sempre nel 1975 ha
lasciato l’Italia e ha insegnato economia alla New School
for Social Research a New York
e alla Rutgers University nel New Jersey. Ha anche insegnato
per svariati anni alle Università di Grenoble, di Nizza e di
Amiens. Nel periodo
compreso fra il 1990 e il 2012 è stato collaboratore del
Manifesto. Dal 2009 insegna economia nel programma Master di
giurisprudenza presso
l’ International University College a Torino.
* * * *
D. Quale sarà il problema o i problemi più immediati che dovremo affrontare nella fase del dopo coronavirus?
R. La risposta dipende molto dall’angolatura con cui si guarda a tutta la vicenda del Covid 19. Partirei da una visione che combini sia la dimensione di classe che quella strutturale che specificherò dopo una breve premessa. L’aspetto economico principale di questa crisi consiste nel fatto che è la prima vota che il sistema si blocca sia dal lato della produzione, cioè dell’offerta, che dal lato della domanda. Il blocco della produzione ha a sua volta prodotto il blocco degli investimenti che, sommato ai licenziamenti di massa, ha fatto precipitare le economie occidentali in una recessione molto simile ad una grande depressione.
Questo è successo nei paesi sviluppati. Le ripercussioni su quelli molto più poveri che, in maniera mistificante, vengono chiamati mercati emergenti, sono state disastrose. Le catene di valorizzazione – già meccanismi di sfruttamento acuto negli ‘emergenti’ e di precarizzazione del lavoro nei paesi ‘avanzati’ – si sono a loro volta disarticolate sia sul piano produttivo che su quello finanziario.
Quelli
che appaiono
come custodi
della vita
sono
stati
in origine
guardie del
corpo della morte
Freud, Al di là del principio di piacere
A rimetterci la pelle, e l’identità, in seguito alla scoperta dell’al di là del principio di piacere, è il piacere stesso. Dopo il ’20, da un punto di vista psicoanalitico, esso resta privo di una definizione, perché quella classica, e fechneriana, messa in campo da Freud sin dai tempi del suo Progetto per una psicologia scientifica non è più praticabile. Il piacere come scarica o diminuzione della tensione ha mostrato la sua parentela con la morte o, a dir meglio, con quella pulsione di morte intravista da Freud al cuore di ogni organismo[1].
Si è detto variamente come il testo del ’20 sia un libro la cui funzione è, soprattutto, decostruttiva[2]. Si tratta, in modo particolare, di indeterminare le opposizioni classiche. In primo luogo, quella tra vita e morte. Poi quella tra piacere e dispiacere. Eppure, questa indeterminazione non è un obiettivo scientemente perseguito da Freud. La sfumatura tra i contrari è, bensì, l’effetto inatteso delle nuove evidenze offerte dalla clinica dei reduci di guerra. I loro sogni, com’è noto, intaccano la tesi per cui la funzione onirica è una funzione di appagamento del desiderio inconscio in quanto, a tornare in essi, è proprio l’evento traumatico denunciato come fonte di sofferenza nello stato di veglia.
Questo è un caso, tra tanti, in cui lo spiacevole si congiunge enigmaticamente a un piacere, che è, anzitutto, piacere della ripetizione dello spiacevole. Ve ne sono altri, tuttavia, in cui è il piacere, la sua ricerca, a mostrarsi solidale con la produzione di dolore.
A Fondo perduto, ci sono solo i versamenti dell’Italia all'UE: altri 14,2 miliardi di euro
I nuovi "aiuti europei", di cui si parla tanto in questi giorni, non saranno altro che i soliti Fondi erogati sotto stretto controllo dalla Commissione, con procedure talmente cavillose che non si riescono mai a spendere tutti.
Da qualche settimana questi Fondi sono stati ribattezzati: ora va di moda chiamarli "Grants", per distinguerli dai "Loans": questi sarebbero invece dei prestiti come quelli erogati dal MES, il cosiddetto Fondo "Salva Stati".
Per fare vedere che l'Unione europea ci aiuta davvero, che è generosa con chi ha bisogno, ormai si dice che beneficeremo di erogazioni a "Fondo perduto", come se si trattasse di un regalo. E' una Bufala, e vedremo perché.
Si comincia con i fiocchetti: non si parla più "Recovery Fund", un termine che fa troppo pensare alla crisi in corso.
Il programma proposto dalla Commissione, che si riferisce agli anni 2021-2027, andrà ad integrare il Quadro finanziario che riguarda il medesimo periodo. Il titolo è roboante: "Europe's moment: Repair and Prepare for the Next Generation", fa tanto insegna da bar che invita ad un aperitivo a prezzi scontati, da Happy hour.
In tutti i paesi, la gestione della pandemia ha seguito la consueta pratica di gestire i perpetui disastri sanitari e ambientali: lasciare vivere (biopolitica) e lasciar morire (tanatopolitica). Le morti effettive per pandemia si aggiungono ai quasi 58 milioni di morti ignorati ogni anno in tutto il mondo (647 mila in Italia nel 2019), spesso a causa di disastri sanitari, ambientali ed economici
Al di là delle apparenti differenze tra i vari paesi, la pandemia di Covid19 è stata governata allo stesso modo e più o meno con gli stessi risultati. Apparentemente le autorità pubbliche hanno oscillato tra una mobilitazione pseudo-zelante e la fiducia nella cosiddetta “immunizzazione di gregge”. Ma ovunque lo stato di deterioramento della sanità pubblica a seguito delle misure neoliberiste dell’ultimo decennio e delle privatizzazioni ha portato il personale della sanità pubblica a non essere in grado di affrontare la pandemia con efficacia e senza rischi (fra altri vedi qui). Il risultato è stato che le strutture sanitarie pubbliche sono diventate luoghi di contaminazione e centinaia di operatori sanitari e ausiliari sono morti a causa di Covid19 e hanno contaminato tanti pazienti ricoverati. A ciò si aggiunge la clamorosa mancanza di dispositivi di protezione individuale (DPI) e persino di strumenti essenziali (respiratori, bombole di ossigeno ecc.), nonché di luoghi negli ospedali atti a separare gli infetti dagli altri.
Socialismo di mercato o “capitalismo assoluto”? La natura del sistema cinese è oggetto di intensa discussione. Due libri appena pubblicati esplorano le trasformazioni di imprese e mercati da un lato, e delle forme di controllo politico dall’altro
In queste settimane è stato pubblicato un importante libro sulla Cina, scritto da Alberto Gabriele, studioso del paese asiatico, dal titolo Enterprises, Industry and Innovation in the People’s Republic of China. Questioning Socialism from Deng to the Trade and Tech War, Springer, Singapore, 2020 (recensito su questo sito qui).
Lo sviluppo cinese, un fenomeno molto rilevante
Indubbiamente la crescita economica e tecnologica del paese asiatico, a partire in particolare dal 1978, ha assunto un’importanza fondamentale non solo per quel paese; essa ha anche rappresentato, più in generale, una pietra miliare nella storia economica e politica contemporanea. In pochi decenni la Cina è diventata la seconda economia del mondo – o forse la prima, a partire già da alcuni anni, se si adotta per misurare il Pil il criterio della parità dei poteri di acquisto, secondo almeno le stime della Banca Mondiale – e i suoi progressi nel campo tecnologico la portano a insediare ora da vicino anche in questa area gli Stati Uniti.
Intervista al segretario nazionale del Partito della Rifondazione comunista, Maurizio Acerbo – a cura di Alba Vastano – “Prima la vita. Sempre. Il primato dell’economia è in realtà quello del capitalismo, del profitto. Se dobbiamo affrontare la crisi andiamo a tassare le cassette di sicurezza, mettiamo nelle mani dell’Agenzia delle Entrate le informazioni in possesso dell’Associazione Banche Italiane, mettiamo una patrimoniale sulle grandi ricchezze, tagliamo le spese militari che per Costituzione non dobbiamo far guerra a nessuno”
Nessuno, forse, in questo status di pandemia, sa bene in che fase siamo. Il virus viaggia indisturbato fra noi e colpisce come prima, nella fase 1? C’è da fidarsi dei bollettini di Arcuri che ci prospettano ogni giorno un saliscendi dei contagi che fa contemporaneamente sperare che è tutto finito e l’attimo dopo no? Oppure Il virus, grazie al distaccamento sociale, durante il lockdown si è indebolito e sta a cuccia fino a nuova possibile ondata autunnale?
Intanto, con la fase 2 iniziata il 18 maggio e senza consapevolezza scientifica di quanto il virus possa ancora diffondersi e mietere vittime, dopo aver fatto un timido capolino all’esterno, dalle case si esce a frotte. E finalmente si torna alla presunta normalità del prima Covid. E in una settimana è già movida. Già febbre del sabato sera.
Agamben ama provocare. Tende i concetti fino all’estremo, radicalizza gli esempi, forza le analogie. Ma così ci aiuta a pensare. Possibile che si sia persa la coscienza del ruolo della provocazione intellettuale, dell’invettiva, del J’accuse? Quali tempi di piatta omologazione, di moralistica indignazione senza morale, che ignora l’enormità dell’abisso sul quale ci stiamo sporgendo, denunciano questa rimozione? Su un’altra scala, Agamben fa quello che faceva Pasolini con la poesia, nella scrittura e nel cinema: profetizza, intuisce apocalitticamente, mette in guardia. Pensa un’alterità come salvezza dal naufragio. Grandi momenti della storia intellettuale sono segnati dall’invettiva, dal paradosso, dalla denuncia. Di fronte a un rischio esiziale – il transito di tutta la vita, e del sapere, su piattaforme digitali antisociali lo è – è giusto, anzi necessario, gridarlo alto e forte, anche con l’iperbole. Si può criticare e denunciare per altra via: con nettezza, ma distinguendo. Personalmente, sento questa strada più mia. Soprattutto, credo sia giusto mantenere aperto l’orizzonte della lotta, e non dare tutto per perduto, definitivamente. Resterebbe solo la possibilità di rifugiarsi in nuovi monasteri, dove salvare dal naufragio l’eredità di una tradizione, o coltivarne una nuova. Una prospettiva spiritualmente elitaria, la cui disperazione talvolta comprendo, ma che rifuggo.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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Si sta(va) allineando
una tempesta perfetta. L’impatto economico della
pandemia iniziava a mordere le economie
europee, moltiplicando i disoccupati e rendendo necessarie
ingenti spese[1]. La sfida strategica tra i
grandi attori mondiali si stava scaldando, promettendo
significativi rallentamenti strutturali del grado di
interconnessione economica e
difficoltà a tenere i piedi in tutte le scarpe, come piace al
modello nordico[2]. La Corte Costituzionale
tedesca, tra la costernazione generale, aveva buttato un
martello nelle ruote dentate della macchina europea[3].
Questa tempesta agiva su una nave parecchio malridotta e peraltro anche mal progettata. Una nave da guerra che si proponeva come transatlantico, senza avere cabine per tutti, servizi adeguati e scialuppe di salvataggio all’occorrenza. Una nave che aveva recentemente subito la defezione della quota inglese dell’equipaggio e nel quale tra i ponti superiori ed inferiori non si cessava mai di litigare. Peraltro, assai poco funzionale anche come nave da guerra, dato che non sapeva dove voler andare e vagolava incerta in mezzo al mare, mentre gli ufficiali, chiusi nella loro stanza erano costantemente impegnati nei loro bracci di ferro.
Avevano costruito questa strana nave in mare aperto, varata come una semplice nave appoggio delle più solide flottiglie nazionali negli anni cinquanta (quando la guida della portaerei americana era indiscussa), ma si era via via allargata ma senza mai tornare nel bacino di carenaggio. L’unica volta che avevano provato a farlo i referendum di mezza Europa avevano fatto immediatamente desistere. Ma quando era passato il momento storico (il naufragio della flotta avversaria nel 1989), si era pensato di trasformarla in nave da guerra. Una nave da guerra che parlava di pace (ovvero un classico).
Dalla caduta del Pil all’aumento del debito, della povertà e delle disuguaglianze, fino alle trasformazioni del lavoro, della produzione e dei mercati internazionali: ciò che sta succedendo nel mondo a causa della pandemia. E ciò che possiamo ragionevolmente attenderci nel prossimo futuro
Da diversi
mesi si moltiplicano gli scritti sulle conseguenze del
coronavirus: si
diffondono le previsioni, si moltiplicano appelli, speranze o
previsioni più o meno negative. Nessuno può veramente sapere
cosa
succederà nei prossimi mesi e anni. In questo contributo ci
limiteremo a individuare alcuni, e solo alcuni, tra i fatti
economici e sociali che
stanno accadendo e che è molto probabile che accadano nel
prossimo futuro.
Caduta del Pil, disoccupazione, povertà
Il Pil. È indubbio che il Pil di moltissimi paesi cadrà ulteriormente nei prossimi mesi, e ancora forse nei prossimi anni, sino al caso probabilmente estremo, almeno nel breve termine, dell’India, paese per il quale Goldman Sachs stima come plausibile una riduzione del Pil del 45% nel secondo trimestre del 2020. L’economia del Sudafrica dovrebbe contrarsi del 23,5% nello stesso periodo, secondo la banca Absa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la Fed valuta che una ripresa piena dell’economia ci sarà soltanto verso la fine del 2021. È poi noto che per l’Italia le previsioni sono di una caduta del Pil nel 2020 intorno al 9,5%, mentre per l’Eurozona in generale, secondo la BCE, dovrebbe oscillare tra l’8% e il 12%.
La Banca Mondiale stima che, a livello mondiale, il Pil si ridurrà del 5% nel 2020 (Wheatley, 2020). Faranno plausibilmente eccezione alcune realtà asiatiche, dalla Cina alla Corea del Sud, paesi che, avendo vinto rapidamente il virus, sono ora in rilevante ripresa, sia pure ancora con qualche problema qua e là. Notizie molto recenti ci dicono poi che, almeno in Europa, si assiste con lo scoppio della pandemia a un forte aumento dei risparmi delle famiglie, una misura precauzionale che potrebbe però contribuire a rallentare la ripresa.
«Non potete
aspettarvi che gli imprenditori si
mettano a varare programmi di ampliamento mentre stanno
subendo perdite. È la comunità organizzata che deve trovare
modalità
intelligenti di spesa con lo scopo di dare il calcio di
inizio al pallone […] Non riuscirete mai a far quadrare il
bilancio pubblico con misure
che riducono il reddito nazionale […] è il peso della
disoccupazione e la caduta del reddito nazionale che stanno
buttando
all’aria il bilancio. Voi badate alla disoccupazione che il
bilancio baderà a se stesso!»
(John Maynard Keynes, conversazione radiofonica del 4/1/1933).
«All’epoca della grande crisi […] i capitalisti hanno combattuto costantemente gli esperimenti volti ad accrescere l’occupazione per mezzo della spesa pubblica in tutti i paesi, con l’eccezione della Germania hitleriana. Non è facile spiegarsi tale posizione. È chiaro infatti che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori ma anche ai capitalisti, poiché i loro profitti si accrescono. D’altra parte la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide sui profitti in quanto non richiede la istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i capitani d’industria si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia “la ripresa artificiale” che lo Stato offre loro? [….]. Il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi di combattere qualsiasi forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi economiche, appartiene al passato. Attualmente non si pone in questione la necessità dell’intervento pubblico in tempo di crisi».
(Michal Kalecki Aspetti politici del pieno impiego, 1943).
A differenza di Kalecki, Keynes era convinto che il pieno impiego potesse essere conseguito e mantenuto costantemente nel quadro di un’economia capitalistica e, benché poco incline ad occuparsi del lungo periodo, fantasticava di un mondo in cui pochissime ore di lavoro al giorno avrebbero assicurato a tutti un’esistenza libera e felice grazie alla crescita continua della produttività, un mondo pacifico perché la piena occupazione in tutti i paesi avrebbe eliminato le cause economiche della guerra; la rendita sarebbe gradualmente scomparsa (“eutanasia del rentier”) quindi il profitto si sarebbe ridotto a pura remunerazione del rischio e del lavoro di direzione.
Premessa
L’uso sistematico della disinformazione strategica, nei riguardi dell’epidemia da coronavirus, è stato lo strumento più importante per riuscire a creare l’attuale clima di paura e di micidiale insicurezza nella popolazione. Una vera e propria epidemia di informazioni artatamente subdole, ambigue, spesso appositamente gonfiate, altre volte false, surrettizie, subliminali. Quasi sempre prive di ogni fondamento razionale, prima ancora che scientifico. Una campagna martellante di notizie date con lo scopo di pompare dosi sempre più massicce di paura e di angoscia in una opinione pubblica atterrita, incapace di distinguere e fare un minimo di scelte critiche. Che accetta ormai supinamente ogni imposizione, ogni sopraffazione dei suoi diritti, quando non è essa stessa addirittura a chiedere ancora più restrizioni. Una sorta di “infodemia” ben più grave della modesta epidemia in atto, la cui sorgente di infezione è proprio il Governo e la sua vasta corte di tecno-scientisti a caccia di fama, potere e lauti guadagni. In verità, senza questi mestatori, millantatori di pseudo verità scientifiche, difficilmente si sarebbero potute creare le condizioni per ingenerare una psicosi collettiva così irrazionale. Va aggiunto subito anche il ruolo decisivo che hanno svolto i grandi mass-media (giornali, tv nazionali e locali, radio, ect) nel creare la situazione surreale che stiamo vivendo da quattro mesi a questa parte. Con grande compiacenza, essi hanno amplificato a dismisura la pletora di informazioni distorte e tendenziose, quando non le hanno inventate direttamente essi stessi.
Sulla rivolta di Minneapolis, nel frattempo tracimata in ribellione sociale in tutto il paese, si sono come di consueto formati due campi ideologici della sinistra inutile. Da una parte il rioters di professione, immarcescibile prodotto dell’Occidente post-novecentesco, a cui la rivolta americana provoca brividi di godimento proprio perché ne valorizza il lato “impolitico”, “disorganizzato”, “insorgente” e, quindi, svincolato completamente da quel Novecento che, al contrario, presentava la politica come fatto mediato da un pensiero e da un’organizzazione strutturati; al lato opposto il “marxista” smaliziato, pronto a derubricare le rivolte americane a “riot” in quanto non ne scorge l’azione politica consapevole di un qualche “partitocomunista” o “sindacatodiclasse” alle sue spalle o alla sua testa. Ambedue questi atteggiamenti raccontano della crisi della sinistra, almeno di quella italiana.
In primo luogo, la rivolta di Minneapolis va riconosciuta per quello che è: una lotta di classe. Non altro, non di meno. Non è una rivolta semplicemente “antirazzista”, sicuramente non nei termini e nel valore che tale concetto ha in Europa, per ragioni storicamente determinate.
La notizia più importante del giorno ce la dà Milano Finanza: la Commissione Colao istituita al di là di qualsiasi processo democratico, per fare un piano anticrisi - ha presentato il suo Dossier.
Il Punto fondamentale descritto dall'articolista di MF è il seguente: "Il sostegno all'economia dovrebbe passare attraverso la creazione di un Fondo per lo Sviluppo che avrà una dotazione compresa tra i 100 e i 200 miliardi di euro. Lo Stato, le regioni, le province e i comuni conferiranno al Fondo immobili, partecipazioni in società e titoli. (...) Secondo quanto si apprende verrà poi sondata anche la possibilità di attingere a parte delle riserve auree di Bankitalia. E' previsto che il fondo verrà gestito da CdP. Le sue quote dovrebbero essere messe a garanzia dei crediti erogati alle imprese e dunque assegnate alle banche e vendute agli investitori internazionali e alla stessa Bce". Cosa possiamo dedurre? Vediamo brevemente:
1.Che lo stato dovrà dare fondo a tutto il suo patrimonio (quello che è rimasto dopo il grande saccheggio degli anni 90).
Il recente caso dei 6,3 miliardi di euro di garanzie pubbliche richiesti da Fiat-Chrysler (FCA) a copertura del rischio di insolvenza su un debito contratto con Intesa-SanPaolo ha accesso un dibattito politico sul ruolo delle società multinazionali nei sistemi economici contemporanei. Persino commentatori di orientamento manifestamente liberista (si veda, ad esempio, l’uscita dell’economista Francesco Giavazzi) hanno mostrato un certo imbarazzo sulla vicenda FCA e sulla propensione delle grandi società a succhiare risorse pubbliche ricordando come le imprese multinazionali ogni anno sottraggano immense risorse fiscali agli Stati dove operano tramite la fissazione della propria sede legale in Paesi a fiscalità privilegiata.
Questa massiccia elusione fiscale praticata dalle grandi società si realizza non solo attraverso i noti paradisi fiscali extraeuropei (Isole Cayman, Bermuda, Bahamas, Singapore, etc.), ma anche e soprattutto all’interno dello spazio europeo dove, data la libera circolazione dei capitali vigente tra i Paesi membri, vi è l’enorme vantaggio di spostamento della sede all’estero a costi limitati, anche quando in quel Paese la società considerata svolge un’attività economica marginale o nulla.
Sul Recovery Fund abbiamo già scritto la scorsa settimana, a commento della proposta Merkel-Macron. Dopo quella decisiva imbeccata, ieri l’altro la Commissione Ue ha annunciato il suo progetto. Un fondo di 750 miliardi (md), rappresentato da un mix di prestiti (250 md) e di sovvenzioni (500 md, di cui quelli che andranno direttamente agli stati sono meno di 400).
Sulla parola “sovvenzione” è bene fare subito chiarezza. Senza dubbio è questa la traduzione corretta del termine inglese “grant” usato dall’Ue. Nella lingua italiana possono esserci però due tipi di sovvenzione, quella a “fondo perduto” (elargizione) e quella concessa come prestito a condizioni vantaggiose. Nel caso del Recovery Fund scordatevi pure il “fondo perduto”, che proprio non c’è, salvo che nelle dichiarazioni degli esponenti del governo e nelle solite grida d’appoggio dei pennivendoli di mestiere. In quanto alle presunte “condizioni vantaggiose” ne parleremo più avanti.
Prima, però, è necessario un passo indietro. Ai politici ed ai media piace molto l’annuncio. Ma l’esperienza ci insegna come tra l’annuncio e la decisione effettiva intervengano spesso differenze sostanziali.
In questi ultimi mesi di pandemia, è emersa con lampante evidenza una realtà che dovrebbe farci interrogare. Il mondo della cultura, tanto mainstream quanto “indipendente”, è in larghissima parte un puro e semplice megafono delle istanze liberali. Intanto, intendiamoci su questo termine: con liberalismo non intendo la dottrina classica – per dare un’indicazione temporale grossolana, dalle prime elaborazioni teoriche di Adam Smith fino alla dichiarazione dei diritti umani del ’48 – ma quella impostasi dopo il trentennio d’oro del capitalismo keynesiano, a partire dalla metà degli anni ’70. In quest’ultimo quarantennio abbiamo vissuto un ribaltamento dei paradigmi preesistenti, sia in campo economico – attraverso privatizzazioni, indebitamento sistematico di Stati e privati, precarizzazione del mondo del lavoro, predominio del capitalismo finanziario su quello manifatturiero – che politico-culturale (mondialismo, scientismo, progressiva condanna dei valori tradizionali a favore di nuovi “stili di vita”).
Il libro di Domenico Losurdo è
stato pubblicato nel 2013 e rappresenta in qualche modo
l’estensivo scavo archeologico dal quale viene tratta la tesi
storico-ricostruttiva ad
ampio raggio presentata nella sua ultima opera, “Il
marxismo occidentale”[1]. La tesi di fondo
è che la lotta di classe ha forme molteplici, includenti sia
lo scontro tra lavoro e capitale nel luogo della produzione e
nella
società, sia quello per la liberazione dalle forme di
oppressione presenti nel mondo e, finanche, quello tra
nazioni.
I due padri del marxismo, ovvero Karl Marx e Friedrich Engels, nelle loro opere e lettere, non hanno mai espresso in modo sistematico la tesi che Losurdo cerca di desumere dal loro lavoro, ovvero la connessione tra liberazione della classe operaia e liberazione nazionale. Ciò è onestamente riconosciuto, ma lo storico ritiene svolga un ruolo centrale nel loro pensiero ed a tal fine compie una profonda operazione di ricostruzione, andandone ad individuare le tracce nei testi e nella complessiva storia del marxismo.
Questa è la tesi, per certi versi paradossale, ma reputo ben fondata, del testo.
I due processi di liberazione articolano le tre forme di emancipazione per le quali i due filosofi lavorano: la “emancipazione umana”, la “emancipazione politica” e la “emancipazione universale”. Questa triplice emancipazione è il prodotto di un’azione sviluppata durante diversi decenni e avendo sempre di mira una costante attenzione alla politica estera, pungolata dalla turbolenta politica internazionale del tempo. Tempo che va dall’assestamento post guerre napoleoniche alla crisi del 1848 e poi alla progressiva creazione dei blocchi di potere, con stati guida e stati satellite di interposizione, che condurranno alla Prima guerra mondiale.
La prassi è
sempre sincrona alla teoria, alla comprensione, la quale è
sempre un atto intellettuale, ovvero “intus legere”:
capire significa leggere dentro, astrarre la verità dalla
contingenza, apparentemente costituita da frammenti, da
situazioni frammentate. In realtà esse hanno il loro senso nel
substrato che dà
significato all’empirico. Il periodo attuale, ormai
trentennale, ha la sua verità nella tecnocrazia di
sistema. La
tecnocrazia è altro dalla scienza: essa ha il fine di
trasformare ogni ente in fondo per il plusvalore. La
crematistica risponde alla
legge della tecnocrazia globale, entifica popoli e culture al
fine di trasformare ogni esistente in plusvalore da consumare
ed immettere sul mercato.
Il nichilismo è diventato la legge dell’occidente globale. Gli
esseri umani si differenziano dagli altri enti, solo poiché
ricoprono una doppia natura storicamente indotta: produttori e
consumatori. Il tempo ciclico della produzione esige che vi
siano consumatori: senza la
doppia natura innestata dal sistema tecnocratico
l’economicismo non reggerebbe. La tecnocrazia non è un
fenomeno naturale, la sua
pervasività capillare è sicuramente favorita da condizioni
storiche, ma curvare queste ultime per teleologie di questo
genere è
possibile solo in presenza di lobby organizzate per tali
finalità. La democrazia boccheggia sotto i colpi di gruppi di
privilegiati che
costruiscono progetti per i popoli utilizzando il loro immenso
potere economico per determinare le decisioni degli Stati. Il
gruppo
Bilderberg è la cupola finanziaria all’interno della
quale non lavorano solo finanzieri, ma anche manager,
giornalisti e
carrieristi che in nome “del martello dell’economia” sono
disponibili a mettere in pratica cinici propositi:
«Stando alle notizie raccolte, la conferenza del Bilderberg sarebbe organizzata da una commissione permanente, detta anche Comitato Direttivo (Steering Committee), della quale fanno parte alcuni membri di circa diciotto nazioni differenti.
Il principale paradigma della
visione dialettica si può racchiudere in questa massima: nulla
è perenne
se non il cambiamento. Non lo è, evidentemente, nemmeno il
capitalismo. Sappiamo però che il capitalismo, rispetto alle
formazioni
sociali che lo hanno preceduto, si distingue per il suo innato
dinamismo, per la sua intrinseca tendenza ad adattarsi alle
diverse circostanze, per la
sua capacità di superare in avanti anche le crisi più
devastanti. Il capitalismo è infatti un organismo mutante, per
sua natura
condannato a incessante metamorfosi. Le crisi, tanto più se
profonde, segnano sempre il passaggio da uno stadio ad un
altro.
Il 2020 sarà ricordato come un anno spartiacque tra un periodo e un altro, come data storicamente periodizzante, come la linea che separa il vecchio dal nuovo.
Sappiamo cos’è il vecchio che ci lasciamo alle spalle: il lungo ciclo segnato dal combinato disposto di globalizzazione estrema, neoliberismo e iper-finanziarizzazione. Cosa sarà il nuovo, l’addiveniente, non è dato sapere con certezza. Con certezza sappiamo che la storia non soggiace a nessun principio teleologico per cui essa sarebbe organizzata e procederebbe in vista di un fine (sia esso socialismo o qualsiasi altra cosa si voglia intendere per fine); sia che tale principio dipenda da una volontà provvidenziale esterna alla storia, sia che esso sia concepito come immanente ad essa. Di contro alla concezione meccanicistica del rapporto causa effetto, oggi sappiamo che da una determinata causa possono risultare effetti diversi. Non si tratta solo di “probabilismo”, per cui dall’evento A non si può dedurre come assolutamente certo l’evento B.
Che sia, quello attuale, un
periodo confuso e di magra per le sparute forze ideali che si
richiamano al comunismo è
fuori discussione. Che si allunghi perciò la lista di chi
scrive necrologi nei confronti degli oppressi e sfruttati,
pure. Che gli
intellettuali e professoroni di “sinistra” facciano la fila
per la respirazione bocca a bocca al capitalismo in crisi,
passi, è una
storia che si ripete. Ma che si pretenda addirittura di
impartire lezioni su cosa sia o debba essere un movimento di
massa, beh, è troppo!
Dunque, per dirla con Totò, ogni limite ha una pazienza! E in
certi casi la si perde, come in questo periodo, nei confronti
di personaggi
circondati da aureola di cartone.
Mi riferisco al professor Gianfranco La Grassa, un nome una garanzia, che in un articolo su questo sito suona la campana a morto per la lotta degli oppressi e sfruttati. Dopo un corposo articolo in cui cincischia fra autori alla ricerca del tempo che fu, scarta l’economia – da “bravo” economista - per ergersi a consigliere politico e sparare nel mucchio. Sentiamolo: «[…] Sottolineo che si deve attaccare a più non posso l’economicismo, l’assenza totale di ogni analisi dell’evoluzione politica e sociale in quest’epoca di sempre crescente disordine e conflittualità internazionale». Ovvero in una fase di caos dell’economia e della politica, molti direbbero della “geopolitica”, come se a un certo punto la storia la facesse la geografia piuttosto che le forze sociali in rapporto ai mezzi di produzione, ecco che il professorone tira fuori dal profondo dell’anima liberaldemocratica l’anatema: «Non si cerchi però, nel breve (e forse medio) periodo, di voler riproporre la “riscaldata minestra” del conflitto sociale o addirittura “di classe”».
Il neo presidente di Confindustria Bonomi, dalle pagine de La Repubblica della famiglia Agnelli, lancia un proclama al paese: tutto il potere ai padroni.
Questa è la sintesi di una lunga intervista nella quale il finanziere milanese, reduce dai disastri della Lombardia di cui la sua organizzazione condivide la responsabilità con la classe politica, chiede che tutte le risorse pubbliche e private vadano alle imprese ed ai loro profitti.
Bonomi minaccia un milione di licenziamenti se non si farà come dice lui. Cioè basta coi contratti nazionali, coi diritti, coi salari, con il reddito di cittadinanza.
Anche a CgilCislUil e a Landini, che in questi anni con gli industriali hanno concordato tutto, il presidente di Confindustria dice “basta”.
“Sono 25 anni che in Italia cala la produttività“, afferma Bonomi, e state certi che non pensa al fallimento della sua classe imprenditoriale, ma agli “operai sfaticati”. Basta guardare il lavoro dallo specchietto retrovisore, sintetizza il leader dei padroni e noi sappiamo da decenni questa modernità cosa vuol dire: più lavoro con meno salario.
Non mi sarei mai permesso in altri tempi di esprimere un’opinione su problemi della scuola italiana a causa di una competenza che non mi riconosco. Leggendo però e ascoltando quel che la ministra pro tempore (speriamo breve), il presidente del Consiglio e altri esponenti della strana maggioranza dicono e disdicono, mi rendo conto che non solo ce n’è di assai più incompetenti di me, ma che sovrabbondano – e in posizioni politico-istituzionali di rilievo – quelli che Benedetto Croce definirebbe senz’altro «farnetici dissertanti».
La scuola italiana è allo stremo da decenni. Dopo quarant’anni di malgoverno clerico-democristiano di quella che non a caso Luigi Russo chiamava «Minerva oscura» – il famigerato ministerone trasteverino – tutti pensavamo che essendo stata ridotta la scuola in macerie non si potesse che ricostruirla. E invece ci sbagliavamo. Nell’ultimo quarto di secolo si è lavorato a sbriciolare ulteriormente quelle macerie; e magari anche a pisciarci sopra.
Come nella migliore tradizione degli insegnamenti volti al culto del sacrifico da imporre oggi per avere frutti succulenti domani, i fautori dell’austerità stanno seminando in tempi non sospetti quello che domani germinerà in un nuovo roboante richiamo alle virtù della disciplina di bilancio.
In una fase drammatica come quella che stiamo attraversando a causa della pandemia, sarebbe inopportuno e controproducente scagliarsi contro la spesa corrente, necessario tampone ad una drammatica situazione. Perché però non trovare nuove e seducenti strade per far passare i soliti, dannosi e pericolosi messaggi riguardanti la necessità di fare austerità?
Sembra essere questo il pensiero che guida le recenti uscite di tanti volti noti nel dibattito pubblico nostrano. Abbiamo recentemente visto come una presunta sensibilità ambientalista possa essere un efficace strumento di persuasione. Chi infatti non vorrebbe un programma politico basato sul concetto di sostenibilità sociale ed ambientale? Eppure questo messaggio, ampiamente condivisibile, è usato per riportare in voga la richiesta di austerità, messa nello stesso calderone della sostenibilità sotto l’etichetta di ‘sostenibilità economica’.
Se si può capire che la paura atavica della peste favorisca una paralisi cognitiva che fa il gioco del grande capitale con un virus che va e viene, che sparisce e ricompare a seconda delle convenienze politico affaristiche, non si comprende in alcun modo come possa essere motivo di un nuovo orgasmo eurpeista per il cosiddetto Recovery Found, appena ribattezzato con termini inglesi da pubblicità ingannevole come New Generation Found e per la gioia dei decerebrati aumentato da 500 a 750 miliardi. Davvero non si può concedere la buona fede a chi dolosamente proclama e a chi crede che questo possa risollevare le sorti del’economia italiana colpita e affondata da una manica di mentecatti che ha chiuso tutto sparando numeri fasulli su morti e contagiati ancora più di quanto non si faccia nel resto del mondo e che adesso con le mascherine prodotte e importate dai famigli degli stessi parlamentari, con il ridicolo “distanziamento sociale”controllato da 60 mila percettori di reddito di cittadinanza, sta devastando anche il turismo davvero per nulla.
Forse è più facile descrivere questo “fondo di nuova generazione” che esprime tuttavia un vetusto propagandismo del nulla con uno specchietto per non allodole: la chiarezza dei fatti e delle cifre trasforma in piombo l’oro fasullo delle “scelte rivoluzionarie” diffuso dai mascherinomani in tutti i sensi.
La scienza, in campo medico e biologico, diventa strumento del potere. Un potere che può diventare smisurato e incontrollabile se l'emergenza Covid-19 continua
Ogni uomo è un untore, in atto o in potenza. Chi non è già stato ancora contagiato, diventa untore per il solo fatto di avvicinarsi a chi è positivo, anche se costui non mostra sintomi di malattia. Neppure chi è già guarito si salva: può essere ancora un agente di trasmissione del virus, e dunque untore, e forse anche ammalarsi nuovamente.
Questo è il sillogismo su cui si basa la Safetycracy, il nuovo paradigma del potere basato sulla protezione della vita, sull’uso strumentale della scienza in campo medico e biologico da una parte e degli strumenti tecnologici di connettività e di intelligenza artificiale dall’altra.
La pandemia di coronavirus ha già determinato uno shock socio economico globale molto più profondo di qualsiasi guerra convenzionale, con miliardi di persone confinate per settimane dentro le proprie abitazioni, la vita di relazione annullata, l’attività produttiva ridotta al minimo. I governi impongono il confinamento, ovvero il distanziamento sociale, per evitare il diffondersi del contagio: indossare una mascherina per coprire naso e bocca, per proteggersi e per proteggere, potrebbe diventare una regola sanitaria imposta a tutti.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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Una delle questioni più importanti, per chi voglia operare politicamente in un qualsiasi Paese, è capirne la natura. Uno degli aspetti più importanti a questo scopo è stabilire quale sia la collocazione del Paese nell’economia-mondo, per usare un termine caro a Wallerstein. In termini marxisti, bisogna scendere dall’astrattezza del modo di produzione capitalistico alla sua concretizzazione, cioè alla formazione economico-sociale storicamente determinata. Secondo Wallerstein l’economia-mondo è spazialmente gerarchizzata, essendo divisa in tre zone: una alta, il centro, una media, la semiperiferia, e una bassa, la periferia1. Lenin definiva il capitalismo, giunto alla fase più alta di sviluppo, come imperialismo. Anche per Lenin l’imperialismo si divide in una metropoli imperialista, costituita da Stati centrali dominanti e da una periferia, costituita da Stati subalterni e dipendenti dai primi. Naturalmente operare politicamente in un Paese centrale o periferico o semiperiferico è molto diverso, richiedendo un approccio diverso. La struttura economica e di classe è diversa. Ad esempio, nei Paesi centrali il capitale è meglio organizzato e i suoi rapporti di produzione sono più radicati e più forti. In più di un secolo di storia le rivoluzioni sono avvenute in Paesi periferici e semiperiferici (se intendiamo la Russia del 1917 come Paese semiperiferico). Si tratta di un problematica già presente in Gramsci, quando distingue la “Rivoluzione in Occidente” da quella appena svoltasi in Russia. Fra l’altro Gramsci fu ispirato direttamente da Lenin che si rendeva conto delle specificità della rivoluzione nei Paesi avanzati.
Sul finire del giorno, una giovane
donna è distesa sull’erba, immobile, e dietro di lei campi e
colline
deserti incontrano il lago all’orizzonte. Il sole è al
tramonto, e i colori della campagna si accendono e vibrano
nell’attimo prima
che la luce sparisca lasciando il posto alle tenebre. In primo
piano il corpo della donna è bianchissimo e nudo, e sui di lei
veglia in modo
minaccioso una volpe. La donna tiene in mano un fiore reciso e
su tutto regna il silenzio. Si sente soltanto, in lontananza,
un brusìo sommesso
e forse un suono di campana: separato e distante un corteo si
incammina nel sentiero sbilenco. È il modo in cui, alle soglie
della
modernità, Paul Gauguin dipinge la perdita della
verginità.
Si tratta di un dipinto cupo e carico di rimandi simbolici, secondo il canone pittorico di Pont-Aven. La verginità perduta è il passaggio dall’innocenza infantile alla corruzione dell’età adulta, e inaugura il tramonto della vita individuale. La ragazza distesa, la cui espressione malinconica è ben lontana dalla serenità delle modelle tahitiane del pittore, ha le gambe leggermente incrociate, in un gesto di pudore che contrasta la nudità esposta conferendo all’immagine la forza dell’ossimoro.
La volpe che domina la sua figura è il simbolo della lussuria, come Gauguin stesso scrisse in una delle sue lettere, e il fiore che tiene in mano il simbolo della sua purezza ormai corrotta. Il gruppo di persone molto lontano dietro di lei ricorda una processione che celebra un rito: è il rito del passaggio all’età adulta variamente celebrato in ogni società conosciuta.
Il corpo non più vergine della donna è congiunto alla terra, secondo un topos della letteratura occidentale che associa il femminile alla forza cieca e selvaggia della natura. A questa immagine fa da contraltare quella, tipica delle rappresentazioni religiose, dell’”eterno Femminino che ci trae verso l’alto”, secondo una formula di Goethe.
Un’analisi sulla fase, sui nuovi modi di produzione del capitale e su alcuni errori del “bertinottismo”.
Come contributo al dibattito e alla collaborazione tra comunisti, riceviamo e pubblichiamo questo articolo che uscirà sul prossimo numero della rivista Cumpanis edita dalla Città del Sole e diretta da Fosco Giannini.
Nel nome
della ragionevolezza e del buon senso, da più di trent’anni si
viene invitati a rassegnarci all’immutabilità dello stato
delle cose esistenti: “non ci sono alternative e, in ogni
caso, i mercati
non le consentirebbero”. Così si sentenzia e, a chi obietta,
si agita il monito della Grecia che, solo per aver tentato
modesti
aggiustamenti, fu umiliata. Alla signora Thatcher, a suo
tempo, fu affibbiato il nomignolo di “Tina”, che era poi
l’acronimo del suo
motto “there is no alternative” [non c’è alternativa]
da allora assunto come motto da tutto l’Occidente. E fu
una resa incondizionata senza ribellioni che, in
trascinamento, portò all’affermazione, non contrastata, che
non esistono le classi e,
pure le categorie di destra e sinistra, vanno archiviate con
tutto il Novecento.
Oggi, se si permane in questa condizione di sudditanza, anche la lotta alle disuguaglianze, che sono il portato della resa, non esce dagli appelli di poche anime belle e dagli inascoltati sermoni di un Papa, sempre più isolato. Forse è arrivato il momento almeno di domandarci una buona volta che cos’è mai questo stato delle cose esistenti che, per dogma, deve restare inalterato. Ci aiuta a decriptarlo, tra i pochi, il filosofo marxista István Meszáros che, nella sua recente e monumentale opera, sono 913 densissime pagine (Oltre il capitale, Ed. Punto Rosso, 2016), ci racconta del folle divario che, nel tempo, si è venuto a configurare tra gli USA e il resto del mondo, secondo cui gli Stati Uniti d’America, che hanno una popolazione inferiore al 5% relativamente a quella mondiale, consumano da soli il 25% di tutte le risorse del pianeta.
"In questi giorni, la stampa occidentale, anche quella di «sinistra», esprime il suo entusiastico appoggio ai rivoltosi di Hong Kong e rievoca Piazza Tienanmen. In effetti conviene prendere le mosse da questa tragedia per analizzare le manovre messe in atto dall’imperialismo contro la Repubblica popolare cinese. Riproduciamo qui, per gentile concessione dell'autore, alcune pagine di un libro di Domenico Losurdo appena pubblicato da Carocci". Con questa premessa di un'attualità imbarazzante, Marx 21 nel 2014 rilanciava un estratto fondamentale dell'intellettuale marxista che vi riproponiamo oggi nel giorno dell'anniversario dei fatti di Tiananmen del 4 giugno 1989. E' la migliore risposta possibile alle centinaia e centinaia di fake news sino-fobiche che leggete in questi giorni in cui il cuore dell'imperialismo è in fiamme
1. Un terrorismo
dell’indignazione coniugato al
passato
Oltre che al presente, il terrorismo dell’indignazione può essere coniugato al passato. È possibile per così dire impiccare a un’immagine, vera o falsa e comunque accuratamente e strumentalmente selezionata, un concorrente, un potenziale nemico, un nemico da screditare o, più esattamente, da additare al pubblico ludibrio dell’opinione pubblica internazionale. Nel ricordare ogni anno la tragedia di Piazza Tienanmen, agli inizi di giugno i media occidentali ripropongono immancabilmente il fotogramma del giovane cinese che, disarmato, fronteggia con coraggio un carro armato dell’esercito. Il messaggio che si vuole trasmettere è chiaro: a sfidare la prepotenza e il dispotismo è un combattente della libertà al quale l’Occidente non si stanca di rendere omaggio e che solo in Occidente può trovare la sua patria elettiva.
Ma realmente tutto è così evidente? Realmente non c’è spazio per il dubbio e la sfumatura? Voler riflettere un po’, prima di introiettare e far proprio il messaggio manicheo che viene proposto o che si cerca di imporre, è solo sinonimo di atteggiamento sofistico e di sordità alle ragioni della morale? Il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione è in agguato. Chi voglia evitare di cadere in trappola farebbe bene a esitare per un attimo e a porsi alcune domande, prima di giungere a una conclusione non solo frettolosa ma soprattutto imposta prepotentemente dall’esterno.
“E se invece quella con il ceto medio fosse un’alleanza necessaria e senza scadenza?”[1] è l’interrogativo con cui si chiude un recente articolo di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti, dopo aver analizzato in maniera profonda lo scombussolamento della tradizionale divisione in classi sociali operato dalla vittoria del neoliberalismo.
Alla domanda che pongono i due autori se ne potrebbe aggiungere un’altra: che cos’è la classe media?
Uno dei capisaldi della tradizione marxista, al netto di tutte le differenze tra correnti e ramificazione d’ogni sorta, è sempre stato quello di concepire il proletariato operaio come soggetto rivoluzionario che avrebbe portato al superamento del sistema capitalistico.
Possiamo definire questa posizione, da parte del marxismo occidentale, largamente arbitraria; come ci ricorda, infatti, Costanzo Preve, non era in realtà possibile inferire con certezza ciò dal pensiero di Karl Marx.
In Marx, ad esempio, troviamo il concetto di lavoratore cooperativo collettivo associato, che va dal direttore di fabbrica fino all’ultimo manovale, e accanto ad esso troviamo il cosiddetto general intellect, cioè le potenze mentali sprigionate dallo stesso sistema capitalistico; la loro alleanza, in un passaggio marxiano, viene ipotizzata come possibile altro soggetto rivoluzionario capace di superare il modo di produzione capitalistico[2].
Abbiamo dovuto aspettare lunghi mesi, è vero. Ci sono stati momenti di sconforto, perché i Paesi cattivi e frugali del nord Europa sembravano poter mettere a repentaglio il sogno di un Europa solidale e benevola. Ma poi, proprio quando sembrava tutto finito, quando la speranza si stava affievolendo anche nei più ben disposti, ecco il colpo di scena. L’Europa s’è desta. O no?
Abbiamo tutti letto, nella settimana appena trascorsa, cronache entusiaste, storie di riscatto, racconti di fiumi di denaro in arrivo, mezzi di informazione – o presunti tali – che già iniziavano a fare i conti su come spenderlo. La realtà dei fatti, purtroppo, è anche questa volta drammaticamente diversa. Proviamo a fare un po’ di ordine.
Il 27 maggio la presidentessa della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha finalmente annunciato la proposta per il rilancio delle economie europee colpite dalla crisi da COVID-19, il tante volte vagheggiato Recovery fund, ora rinominato Next Generation EU. Si tratterebbe di un programma temporaneo e transitorio – che, a scanso di equivoci, si trova ancora ad uno stadio di proposta scritta su un pezzo di carta – e che passerà ora al vaglio del Parlamento e del Consiglio Europeo, invitati ad esaminare la proposta per poter raggiungere un eventuale accordo entro l’estate 2020, secondo le stime più ottimistiche.
Il 2 giugno è un giorno strano. Oggi, infatti, ricorre sia l’anniversario della nascita della Repubblica, nel 1946, che quello di uno dei peggiori attentati alla vita della Repubblica, avvenuto il 2 giugno del 1992.
Quel giorno i massimi vertici dell’economia italiana – il presidente della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, il ministro del bilancio Beniamino Andreatta (i due che dieci anni prima avevano siglato il tragico “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro), il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, i vertici dell’Eni, dell’IRI, delle grandi banche pubbliche e delle varie aziende e partecipate di Stato – si incontrarono al largo di Civitavecchia sul panfilo della regina Elisabetta, il “Britannia”, con la crème de la crème della grande finanza internazionale per pianificare a tavolino il saccheggio dell’economia italiana, in primis attraverso la privatizzazione e la liquidazione, a prezzi di saldo, degli straordinari patrimoni industriali e bancari dell’Italia, che avevano fatto la fortuna del nostro paese nel dopoguerra.
All’inizio degli anni Novanta, infatti, la quasi totalità del settore bancario e oltre un terzo delle imprese di maggiore dimensione in Italia erano ancora in mano pubblica: un’eresia intollerabile nel momento in cui si andava imponendo in tutto l’Occidente il dogma del liberismo e del mercatismo selvaggio.
Se non puoi più promettere il paradiso, spalanca le porte dell’inferno. Mi piacerebbe poter dire che si tratta di una antica perla di saggezza è invece è una considerazione talmente innestata nel presente da parere inattuale: è quasi una costante che quando le grandi illusioni falliscono il potere costituito non passa ad obiettivi più modesti, ma al loro esatto contrario. Una ritirata progressiva porterebbe alla crisi di paradigma e alla contestazione degli assetti di potere, mentre il ribaltamento improvviso delle prospettive è talmente scioccante da annichilire ogni reazione. Situazioni simili sono studiate in psicologia sperimentale, ma anche al di fuori della provetta ce ne sono parecchi esempi e forse il più vicino nel tempo è quello della battaglia di Stalingrado e il successivo celebre discorso di Goebbels sulla guerra totale: il regime hitleriano avrebbe potuto minimizzare la disfatta, ma ben presto lo stesso avvicendamento delle truppe al fronte avrebbe spalancato la verità e la gente, sottoposta a bombardamenti quotidiani e a continui sacrifici, si sarebbe chiesta che fine avessero fatto il Reich Millenario, l’infallibilità del Führer, le folgoranti vittorie degli anni precedenti per le quali aveva sopportato ogni tipo di vessazione. Si sarebbe insomma creato uno spazio per i generali, impazienti di mettere fine alla guerra e impossibilitati a condurla con criterio incalzati e minacciati dai deliri di Hitler.
Pur essendo stato, da giovane, un discreto cinefilo, da anni non mi dedico più con costanza al rito della sala buia. Sono tornato al cinema l’altro anno, per vedere Joker. Certo, se ne sentiva parlare tanto ed anche qui su facebook molti sentivano il bisogno di trasformarsi in recensori cinematografici. Ma non mi sarei certo mosso per questo. Quello che mi incuriosiva, al punto da muovermi, quindi mi incuriosiva evidentemente tanto, era seguire la classifica degli incassi americani.
Joker infatti, registrava incassi stupefacenti, sin dall’inizio, e solo per il “bocca a bocca” in quanto le prime critiche uscirono tardi e non furono particolarmente esaltanti, anche il numero delle sale era limitato e quindi tanto incasso, da subito, per poche sale, faceva “fenomeno popolare” di per sé. Oltre a ciò, si notava nella classifica un fenomeno curioso, poi confermato dalla chiusura 2019. Joker, oltretutto classificato R ovvero vietato ai minori di 17 anni non accompagnati (e registrando tra l’altro il primato d’incasso di tutti i tempi per un film R-rated) e stante che sin dall’inizio non era certo nelle intenzioni della produzione fare un blockbuster, si è infine classificato 8° in USA su poco meno di 800 titoli.
Demolire il mito del “modello
Milano”. Sembrerebbe una buona cosa, se fatta con ragionamenti
di spessore in grado di
recuperare quella stagione irripetibile di pensiero critico al
quale alcuni docenti della Facoltà di Architettura del
Politecnico di Milano
hanno dato il loro contributo negli anni Settanta con la
rivista Quaderni del territorio. Aggredire il
“modello Milano” con
superficialità fa soltanto il gioco di quelli che hanno
governato la città nei suoi periodi più bui. Si viene indotti
a queste
riflessioni da un lato da certe prese di posizione (v.
l’articolo di Lucia Tozzi su Lo stato delle città,
n. 3, ottobre 2019),
dall’altro da letture come Against Urbanism di
Franco La Cecla che, pur mettendo in risalto alcuni percorsi
perversi delle politiche
urbane e la mitologia degli “archistar”, è ancora largamente
insufficiente ad affrontare determinate problematiche tipiche
degli
spazi metropolitani.
Probabilmente lo sguardo dell’urbanista ha acquistato la valenza di “sguardo generale” alla fine dell’Ottocento, quando i piani regolatori urbani hanno iniziato a fare scuola e quindi i suoi criteri di giudizio si sono poco alla volta imposti come scienza della città e della società che la vive. È indubbio che molte trasformazioni sociali nella città possono essere ricondotte a scelte urbanistiche, è indubbio che la disposizione dell’abitare determina in maniera notevole le stratificazioni sociali ma è altrettanto vero che l’epoca che stiamo attraversando, in particolare l’epoca che ha visto la nascita dell’informatica e di Internet, ha prodotto degli agenti di trasformazione sociale che sembrano assai più potenti del fattore urbanistico nel cambiare le persone e il loro modo di pensare e di agire.
Paura del
contagio da superfici, oggetti, tastiere di computer, borse
della spesa,
abiti… Una certa giustificazione c’è: ottimi lavori
scientifici dimostrano che, in condizioni sperimentali
controllate, il
maledetto SARS-CoV-2 riesce a sopravvivere per un certo tempo
[1-2-3]. E tuttavia, la probabilità di infettarsi toccando
superfici, tastiere,
maniglie, sedili è infinitamente piccola, risibile nella vita
reale.
Anche una certa logica scientifica c’è: SARS-CoV-2 è un virus a trasmissione respiratoria e col suo respiro un infetto, anche asintomatico, emette miliardi di quegli ormai famosissimi droplets, le microgoccioline di vapore acqueo che possono anche veicolare cellule epiteliali del nostro apparato boccale, cioè un epitelio in continuo rinnovamento. Queste goccioline restano sospese nell’aria per un certo tempo per poi cadere a terra o sulle superfici che circondano l’infetto. Alcune di queste goccioline contengono anche cellule dove è attiva la replicazione del virus.
Così, un malcapitato può avere la sfortuna di raccogliere con le mani queste goccioline fresche, prima che si disidratino con la conseguente morte del loro contenuto. E tuttavia, raccoglierle con le mani ancora non garantisce l’infezione al malcapitato, nemmeno se si mette le mani in bocca: infatti il virus non si trasmette per via cutanea né per via orale, basta la saliva a farlo fuori! Tuttavia il nostro sfortunato cittadino potrebbe creare inavvertitamente un aerosol sbattendo le mani (o in altro modo a me sconosciuto) o, meglio ancora, potrebbe sfregarsi gli occhi, allora sì permettendo l’introduzione nel suo organismo di cellule ancora vive (ma quante?). Insomma infettarsi raccogliendo il virus da una superficie richiede una sequenza di improbabili eccessive, sfortunatissime, rare combinazioni.
I problemi sono sempre politici,
mai tecnici. La vita è un divenire, la sola cosa stabile al
mondo è il cambiamento. Per
gli antichi greci, progenitori del nostro sapere filosofico,
la politica era un flusso, un animale instabile i cui spiriti
ferini occorreva
addomesticare affinché essa potesse servire i bisogni nobili
dell’uomo, l’unico ente per il quale il futuro è
indeterminato.
L’Unione Europea – lo riconoscono persino gli indecifrabili difensori dei suoi misfatti – presenta ampi spazi di miglioramento, per usare un eufemismo. Essa produceva guai su guai anche prima dello scoppio dell’epidemia. Ora – dopo aver preso coscienza della finta operosità di quelle istituzioni davanti al crollo delle economie post-Covid e aver finalmente scoperto che nei Trattati istitutivi è assente ogni riferimento a un’Europa Federale – la disillusione di molti si va convertendo in un mesto disincanto. Sembra così evaporare l’effimera chimera di un’Europa politicamente unita, creatura immaginifica a lungo sopravvissuta nelle anime semplici degli abitanti al Sud delle Alpi, vittime di un’autoflagellazione sconsiderata, complessi di colpa per sprechi e inefficienze, che seppur innegabili non sono la causa del nostro declino. In Italia, tale fustigazione autoinflitta ha risparmiato alle oligarchie tedesche persino il fastidio di investire sulla tutela di quel marchio contraffatto chiamato Unione (si fa per dire) Europea.
La ragione prima per la quale uno Stato Europeo degno di tal nome non vedrà mai la luce è l’assenza del demos, vale a dire di un popolo europeo, la cui linfa insostituibile – se fosse esistita – si sarebbe da tempo mobilitata per partorirlo.
L’ispirazione liberista della normativa dell’Unione Europea sugli aiuti di stato in epoca di pandemia. Il ruolo del capitalismo monopolistico di stato dipende dai rapporti di forza fra le classi
Timori e tremori
Carlo Bonomi, eletto il 20 maggio scorso Presidente di Confindustria, nel suo discorso di investitura ha tracciato un programma dell’organizzazione (cfr “Il Sole - 24 Ore” del 21 maggio). Alcune cose importanti le ha già ottenute, altre si appresta a ottenerle. “Su nostra richiesta, lo Stato ha imboccato la via più rapida e naturale per sostenere imprese e lavoro: non prorogare i pagamenti ma abbonare le tasse, come avverrà con l’Irap”. Sorvolando disinvoltamente sui macroscopici interventi in favore delle imprese contenuti nel decreto legge 19 maggio 2020 n.34 (cosiddetto decreto ‘Rilancio’), Bonomi invoca “un credibile programma di riduzione strutturale del maxidebito pubblico”. Che strano! Ha chiesto, e ottenuto, centinaia di miliardi di sovvenzioni, abbuoni, crediti fiscali, garanzie pubbliche, tutti interventi effettuati a debito, e ora chiede un rientro credibile del nostro debito? Ma sì, egli pensa che gli altri dovranno stringere la cinghia per lui e quelli come lui.
“Per riprendere la via degli investimenti” egli prosegue “due sono i caposaldi: la ripresa e il potenziamento di ‘Industria 4.0’ e l’affiancamento di analoghi incentivi per ‘Fintech 4.0’”. La politica dovrà tagliare la spesa corrente e raddoppiare gli investimenti pubblici “nel campo delle infrastrutture di trasporto e logistiche, nella digitalizzazione e produttività dei servizi”. Quindi, riassumendo, nella visione ‘strategica’ di Bonomi abbiamo uno Stato (“la politica”) che abbona le tasse, trasferisce in vario modo 105/110 miliardi di euro (su 155) alle imprese con il decreto ‘Rilancio’, soldi per lo più procurati a debito, e che si impegna a ulteriori cospicue sovvenzioni.
Orizzontarsi in mezzo a questa crisi non è per niente facile, lo capiamo. Infinite le variabili (economiche, sanitarie, belliche, ecc) di cui bisogna tener conto. Spesso senza avere neppure informazioni precise su mote di queste variabili.
In più, c’è questo ordine che arriva dall’alto e impone di chiamare le cose con nomi che significano altro, ma molto più rassicuranti. Come chiamare “democrazia” un luogo in cui l’esercito spara sui propri concittadini e dove si progetta di dichiarare “terroristi” gli antifascisti…
Specie in materia di cose economiche e di “aiuti europei” la disinformazione nascosta dietro “paroline dolci” è pressoché universale. Persino in qualche settore di compagneria che si ritiene ben informato.
E allora è forse il caso di farci aiutare nell’analisi dei fatti, documenti e numeri alla mano, in modo che esprimere opinioni, dopo, sia una prova di indipendenza intellettuale anziché di asservimento al chiacchiericcio mainstream.
Gregory Claeys: Marx e il marxismo, ed. orig. 2018, trad. dall’inglese di Alessandro Manna, pp. 450, € 33, Einaudi, Torino 2020
Un titolo è un titolo, per di più se fedelmente tradotto. Ma la congiunzione presente in quello del libro di Gregory Claeys è forse un po’ ingannevole. Meglio sarebbe stato: Marx prima e dopo il marxismo, anche se non sarebbe bastato per sfuggire alla logica, more solito, del “tradimento”. Che non è forse la principale preoccupazione dell’autore del lavoro qui in discussione e che, tuttavia, serpeggia liberamente tra le molte pagine di un’opera che si presenta come una storia del marxismo a partire da Marx, senza però esserlo davvero. A dispetto della mole, molte sono le assenze (questione sempre opinabile), troppe le semplificazioni per uno storico del pensiero politico qual è Gregory Claeys. Il quale, infatti, pur strutturando il proprio testo in due parti distinte, che sembrerebbero giustificare la tradizionale ricostruzione di una dottrina, tra fondazione e interpretazioni, ragiona sul passato guardando in realtà al presente – certo, non all’attualità, che è altra cosa –, al fine di stabilire quanto di Marx sia utile salvarsi.
Dove sta la speranza politica degli italiani?
Mentre continuiamo a subire gli strascichi delle restrizioni causate dall’epidemia del Covid-19 e mentre siamo nel pieno della crisi economica causata da tali restrizioni, gli italiani continuano ad essere delusi dalla politica, prima di tutto per l’assoluta incapacità di comprendere e di dare risposte ai problemi degli italiani.
Secondo i recenti sondaggi pubblicati da Open.online il 40% degli italiani oggi o non andrebbe a votare o non voterebbe nessuno degli attuali partiti in Parlamento. L’insoddisfazione è grande.
A questi italiani si aggiungono quelli che votano il “meno peggio”, turandosi il naso.
Naturalmente esistono anche i “fans”, coloro che per partito preso, quasi per fede calcistica, continuano ad avere fiducia nel proprio “partito del cuore”. Sono persone che cercano nella realtà dei fatti prima di tutto delle conferme alle proprie convinzioni, senza avere una percezione corretta dei “fatti politici”.
Siamo appena agli albori di una crisi economica devastante, che esige ora più che mai l’esercizio di un punto di vista di parte, dalla parte del lavoro. Il conflitto c’è ed è agito dall’alto. Un nuovo prevedibile giro di vite sul lavoro è già in atto. È solo col conflitto che si può rispondere, unendo forze e intelligenze
Con lo stato d’emergenza innescato dalla pandemia, sembra essersi scalfita la cortina fumogena che dai primi anni Ottanta del secolo scorso si è abbattuta sulla classe operaia, e sul mondo del lavoro tutto, determinandone “la fine” come soggetto sociale e politico. Nei mesi trascorsi abbiamo scoperto una verità cristallina eppure non scontata. Ossia che, se sostanzialmente scomparso dai radar delle narrazioni, delle analisi, del dibattito politico, il lavoro produttivo, non produttivo, di riproduzione non ha certamente cessato di esistere.
Non lo si dirà mai abbastanza. Nella prima fase del lockdown, è stato il lavoro di milioni di donne e uomini a tenere in piedi senza garanzie di sicurezza il paese, consentendo a una parte della popolazione di tutelare salute e soddisfare bisogni al sicuro delle proprie case. E per decreto abbiamo scoperto essere “essenziali” categorie di lavoro malpagate, svilite, spesso precarizzate e oltraggiate, da un quarantennio di attacco al lavoro senza quartiere.
L’ineffabile Romano Prodi ha dichiarato a DiMartedì che il «il ritorno alla lira» sarebbe «assolutamente un suicidio». Ora, che Prodi senta il bisogno di fare la difesa d’ufficio dell’euro è comprensibile: d’altronde fu proprio il suo governo, nel 1996, ad avviare le procedure per l’ingresso dell’Italia nell’euro.
Ma proprio per questo dovrebbe avere la decenza di non parlare. Cosa accadrebbe in caso di uscita dall’euro, infatti, non lo sappiamo: molto dipenderebbe da come verrebbe gestita la cosa, e alcuni degli economisti più brillanti del pianeta ci hanno indicato la strada su come gestire e minimizzare l’impatto di una transizione dall’euro a una nuova valuta nazionale.
Quello che invece sappiamo per certo sono gli effetti che ha avuto l’ingresso dell’Italia nell’euro.
Fino alla fine degli anni Ottanta, l’Italia è stato il paese d’Europa con la più elevata crescita media. Poi, tra l’inizio e la metà degli anni Novanta, quel trend non ha solo subìto una brusca frenata, ma ha addirittura conosciuto una drammatica inversione di tendenza che dura fino ai giorni nostri, relativamente in particolare alla produzione industriale, alla produttività e al PIL pro capite: tutte variabili che fino a quel momento avevano registrato un tasso di crescita superiore o pari a quello della Germania e degli altri partner europei.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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1. Le parole
Il termine Industria 4.0 è stato coniato in Germania e indica sia un insieme di tecnologie applicate alla produzione industriale per aumentare la produttività, sia una precisa strategia politica del governo tedesco per mantenere e rafforzare la competitività del proprio sistema manifatturiero.
Il progetto di Industria 4.0 si è rapidamente diffuso, diventando in breve tempo un programma di politica industriale per tutti i governi europei. In effetti si tratta di una strategia per la trasformazione del settore manifatturiero, che utilizza un insieme di tecnologie in grado di modificare i processi di produzione, in particolare grazie a strumenti di comunicazione, connettività, raccolta ed elaborazione dati. Indubbiamente anche la robotica e l’automazione di nuova generazione possono essere considerate parte di Industria 4.0, ma i fenomeni di automazione, anche spinta, dei processi produttivi, sono conosciuti e praticati da decenni. La vera novità della trasformazione in corso è la connettività come portato delle Information and Communication Technologies (ICT): se strumenti di lavoro, impianti, stabilimenti e prodotti sono connessi, allora possono comunicare direttamente tra loro e con sistemi centralizzati (questo è il punto fondamentale!) di raccolta ed elaborazione dati, a una velocità tale da poterlo fare in continuo e in tempo reale.
In questo modo i processi produttivi diventano interamente computer-driven.
L’aumento della computerizzazione dei sistemi manifatturieri e l’utilizzo delle tecnologie di rete e ICT consente infatti di integrare tutte le parti del sistema in un network informativo.
Medicina
agli ordini, o Medicina libera
Si parva licet componere magnis (se ci è permesso di confrontare il piccolo con il grande), la bomba che ha messo in crisi l’assetto viraldispotico e tecnoscientifico del nostro paese si potrebbe definire la sineddoche della sollevazione popolare che sta mettendo a ferro e fuoco almeno 40 dei 50 Stati della Federazione nordamericana. Quanto alla bomba, se è perfettamente adeguato dare del “bomba” al generale Pappalardo, bravo a trasformare in oro di visibilità la paglia coltivata nei cervelli di un po’ di arrabbiati, i suoi gilet arancioni non sono che il mortaretto che deve distrarre dal grosso botto con cui altri hanno scardinato il castello di carte false su cui da quattro mesi si erge il coronavirus.
Prima di addentrarci alle fiamme che bruciano quanto resta del più potente e violento paese del mondo, lasciatemi dire di questo ordigno finito tra i piedi dei congiurati col coltello ficcato nella schiena del popolo italiano. Tutto stava precedendo serenamente verso l’annunciata (e perciò programmata) seconda ondata della pandemia, vuoi a fine giugno, vuoi a ottobre, quando uno, che ai colleghi virologi da salotto tv e da comitato tecnico-scientifico, sta come l’Apollo del Belvedere sta ai finti Modigliani pescati a Livorno, decideva di dire basta! Il virus è morto, il virus non c’è più, lo spettacolo è finito, buonanotte ai musicanti.
Alberto Zangrillo, primario di terapia intensiva del S. Raffaele, sarà il medico di Berlusconi ma è anche il primatista italiano di studi epidemiologici pubblicati nelle più autorevoli riviste mediche del mondo.
L’Osservatorio
Globalizzazione torna a conversare con Alessandro
Aresu, analista di “Limes” e saggista,
confrontandosi con lui sulla sua più recente pubblicazione,
“Le potenze del capitalismo
politico. Stati Uniti e Cina”, edito da “La Nave di
Teseo” e incentrato sullo studio delle
dinamiche cruciali per la
determinazione dei rapporti di forza nell’era contemporanea.
Tra rivalità tecnologica, uso “geopolitico” del
diritto,
corsa agli investimenti e sfida commerciale Washington
e Pechino sono ora le uniche potenze in grado di governare
gli strumenti del
“capitalismo politico”, che incardina le priorità
dell’economia nell’agenda della sicurezza nazionale
delle due
grandi potenze.
* * * *
Nel suo saggio lei definisce il capitalismo politico “la compenetrazione di economia e politica in un tutt’uno organico” in cui, inevitabilmente, sono le priorità e i ritmi della seconda a dettare i tempi. Stati Uniti e Cina sono i due attori che hanno la capacità di portare avanti un vero e proprio capitalismo politico: come si somigliano e come divergono, nei sommi capi, i loro approcci?
In Cina esiste il Partito Comunista, negli Stati Uniti c’è l’apparato militare e di sicurezza. Nel primo caso il “titolare” del capitalismo politico è un soggetto di 90 milioni di membri, che influenza in modo decisivo tutta la società. Nel secondo caso, non siamo in un sistema autoritario perché ci sono libertà politiche, ma alcune decisioni cruciali sono comunque prese dall’apparato militare, generando un allargamento del dominio della sicurezza nazionale rispetto al funzionamento dei mercati. Un’altra formula del “tutt’uno organico” si ha nelle modalità di controllo e nella pervasività di talune aziende digitali nelle nostre vite, di cui si potrebbe parlare a lungo.
L’idea di un ritorno della Tragedia nelle nostre vite è dell’amico Nicolò Bellanca. Un testo molto simile a questo è stato pubblicato su “Effetto Cassandra” il 13/03/2020 col titolo: Il ritorno del Fato. Cosa fare quando nessuna scelta è soddisfacente?
Si chiana “triage”.
E’ ciò che viene fatto nei reparti di emergenza quando
l’afflusso dei malati o dei feriti supera le capacità
ricettive della
struttura. I medici decidono allora chi soccorrere prima e chi
dopo, se sarà ancora vivo. Ho sempre pensato che sia la cosa
più brutta
che possa capitare di fare ad un dottore, ma accade e i
medici, come gli altri professionisti dell’emergenza
(pompieri, militari, poliziotti,
ecc.), sono almeno in parte preparati ad affrontare queste
situazioni.
Noi gente normale no, ma non per questo possiamo esimerci dal fare delle scelte quando anche non-scegliere avrà comunque delle conseguenze.
Sta infatti svanendo la straordinaria bolla di pace e benessere che ha avvolto l’occidente per 70 anni, rendendoci completamente impreparati ad affrontare il concetto stesso di “tragedia”.
Non mi riferisco qui alle crisi di isterismo collettivo che ci travolgono ad ogni minima difficoltà, bensì all’incapacità di sostenere il peso della responsabilità di scelte che, qualunque cosa si decida di fare o di non fare, provocheranno gravi danni e sofferenze. Al di fuori della nostra fatiscente bolla, questo tipo di situazioni è invece frequente ed è stato magistralmente illustrato in molti capolavori della filosofia e della letteratura antica.
E’ la dinamica del Fato: gli uomini non sono semplicemente trascinati da un “destino beffardo”; al contrario sono chiamati a fare delle scelte le cui conseguenze saranno però ineluttabili, tanto che neppure Zeus le potrà modificare.
Quante volte in questi anni ci siamo sentiti dire che dovevamo tagliare la spesa pubblica (che non vuol dire rifarvi sull’impiegato delle Poste che vi ha tenuto in fila per ore, ma vuol dire – ormai dovremmo averlo capito – tagliare i fondi alla sanità, all’istruzione, al welfare ecc., insomma segare il ramo su cui siamo tutti seduti), fare le “riforme strutturali” (che nel gergo europeo non vuol dire “ridurre la burocrazia”, che sarebbe anche utile, ma ridurre i diritti dei lavoratori, come il fatto di non poter essere licenziati senza giusta causa, vedi articolo 18) ed eleggere governi “responsabili” (ovverosia governi che taglino la spesa pubblica e facciano le riforme), perché altrimenti sarebbe salito “lo spread” (che rappresenta la differenza tra i tassi di interesse sui titoli di Stato italiani e quelli tedeschi)?
Quante volte ci siamo sentiti dire che i tassi di interesse li decidono “i mercati”, le nuove divinità del nostro tempo, e che i governi non possono fare altro che cercare di compiacerli per mezzo delle suddette politiche, offrendo loro in sacrificio tagli e riforme strutturali, pena il default?
Che l’intento delle varie riforme del passato, in ultimo della cosiddetta “Buona scuola” di Renzi, fosse quello di trasformare gradualmente il funzionamento della scuola in un’impronta di tipo aziendale, è purtroppo una cosa risaputa. Il preside è diventato una figura modellata sul manager, mentre i vari docenti e gli stessi alunni sono sempre più stati considerati come “risorse umane”, anche per mezzo dell’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro. La scuola, come del resto l’università, da luogo di stampo umanistico in cui vengono messi in gioco, in modo sinergico, il sapere e l’apprendimento, è ormai una realtà in cui predominano gli aspetti burocratici e formali, all’interno di un sistema modellato sui meccanismi di produzione capitalistica e asservito all’ostentato utilizzo delle cosiddette ‘nuove tecnologie’.
Sembra proprio che l’emergenza dovuta alla diffusione del Coronavirus abbia rappresentato un significativo colpo di grazia per gli ultimi baluardi di resistenza di qualsiasi forma di sapere autentico all’interno delle strutture scolastiche.
Il mio intuito – quindi una miscela di esperienza empirica, sensazioni, impressioni, modestissime conoscenze e informazioni sparse qua e là e capacità, presunta, di “odorare” gli eventi e di osservare lucidamente la realtà (ammesso che ne sia capace) – mi spinge a pensare che il mondo capitalista occidentale stia declinando. E’ un declino ideologico, culturale e sociale, non tecnologico o militare. Lo è, in parte, economico, ma anche questo aspetto (che ha cause estremamente complesse che non possono essere affrontate in un breve post e non ne avrei neanche le competenze) non è, a mio modo di vedere, separabile dal primo.
Il mondo capitalista occidentale sta declinando perché non ha più un collante ideologico e culturale sul quale una società civile (come si suol dire) può fondarsi. Una società, infatti, non può affondare le proprie radici (solo) sul feticismo della merce, sul consumismo, sull’individualismo (e la corsa, il più delle volte la speranza, dell’arricchimento personale) e sull’edonismo sfrenati come unica fonte di senso.
In "Come pagare il costo della guerra" (1940), l’economista inglese annoverava due misure: l’introduzione di un reddito di base e della tassa patrimoniale
Quando i grandi banchieri che, senza offesa alcuna, potremmo definire le vestali del finanzcapitalismo, arrivano a citare Keynes, vuole proprio dire che le cose per il sistema dominante non vanno affatto bene.
Se poi a farlo è addirittura il governatore di una banca centrale, come nel caso di Ignazio Visco, allora significa che l’inquietudine sul futuro è profonda.
Del resto Visco non ha risparmiato ai pochi udenti in carne ed ossa per le note precauzioni antivirus le nude e dure cifre della realtà.
Nelle sue tradizionali Considerazioni finali ha scelto di fare riferimento agli scenari più negativi che tanto il Fmi, quanto i vari centri studi europei, come quelli casalinghi, hanno in queste settimane tracciato.
Così che è apparso poco più che un training autogeno quel “insieme ce la faremo” finale, unito però all’avvertenza di evitare ogni “ottimismo retorico”.
Lo scontro tra Cina e sostenitori dell'Occidente sull'isola va letto in chiave di classe
Hong Kong è un paradosso. Uno dei tanti che ci propone la storia. Una città-regione autonoma iperliberista all'interno del territorio di uno Stato fondato nel '49 da Mao Zedong, a seguito di quella epocale Rivoluzione.
Ogni tanto gli squilibri internazionali tra le classi creano situazioni bizzarre e apparentemente senza uscita dalle quali è comodo districarsi invocando la tradizione, il colore preferito delle bandiere, il ruolo del nemico straniero o di casa, ecc. In questo senso gli articoli precedenti sul tema pubblicati da questo giornale sono assai utili per evitare facili letture ideologiche di questa crisi asiatica.
Nel caso specifico, poi, la scena del paradosso è di per sé particolare perché si tratta di un'enclave creata dal colonialismo britannico dopo la prima delle due oscene Guerre dell'Oppio (1839-42): ovvero due conflitti condotti dall'Impero della Sua Graziosa Maestà Britannica per imporre alla Cina della dinastia Quing di consumare la droga prodotta in India. Tra le eredità acquisite dagli inglesi ci fu proprio la sovranità sul “Porto Profumato”.
Stesura provvisoria – febbraio 2019
1 - Introduzione
Le politiche economiche messe in atto in Italia negli ultimi anni, in piena coerenza con quanto suggerito dalla commissione europea e con quanto realizzato in altri Paesi europei, si fondano essenzialmente su due assi: consolidamento fiscale e riforme strutturali. Il consolidamento fiscale viene raggiunto attraverso compressioni di spesa pubblica e aumento dell’onere fiscale, con riduzione, in particolare, della spesa sociale e per servizi di welfare e con aumento della tassazione – peraltro sempre meno progressiva – soprattutto a danno dei lavoratori. Le c.d. riforme strutturali riguardano i processi di privatizzazione e liberalizzazione e, soprattutto, ulteriori misure di precarizzazione del lavoro.
L’obiettivo di questa nota è (i) dar conto del fallimento di queste misure in relazione all’obiettivo dichiarato di generare ripresa della crescita economica e aumento del tasso di occupazione; (ii) articolare la proposta di un maggior intervento pubblico finalizzato a far diventare lo Stato occupatore e innovatore di prima istanza. Si tratta di una proposta tratta dalla tradizione teorica postkeynesiana (Minsky, in particolare) e ripresa nei tempi più recenti dagli studiosi della modernmoney theory. Su quest’ultimo aspetto, verrà articolata una critica ‘simpatetica’, basata sulla convinzione in base alla quale lo Stato, in un assetto capitalistico, non è un attore ‘neutrale’ rispetto ai rapporti di forza esistenti e verificati nel mercato del lavoro. Tutt’altro. Le politiche economiche risentono profondamente del conflitto capitale-lavoro (incluse le rendite finanziarie) e dei conflitti intercapitalistici. In tal senso, la proposta in oggetto, più che essere criticata sul piano ‘tecnico’ (possibili effetti inflazionistici, eventuale aumento del debito pubblico), dovrebbe tener conto della natura intrinsecamente di classe delle scelte di politica economica.
L'opus magnum
di Isaak Illich Rubin fu originariamente pubblicata nel 1923.
Il libro è intitolato “Saggi sulla teoria del valore di
Marx”.
Il lavoro di Rubin subì per quasi mezzo secolo una sorta di
ostracismo. Solo negli anni '70, con la traduzione inglese di
Fredy Perlman e Milos
Samardzija, il cosiddetto "mondo occidentale" ha avuto
accesso a questo lavoro fondamentale. Quei privilegiati che
avevano avuto accesso al
libro prima degli anni '70, come Roman Rosdolsky, riconoscono
la sua "densità" e rilevanza per il rilancio del
marxismo e le epurazioni
dalla visione grezza e rudimentale delle tesi scolastiche
postulate dal marxismo volgare, in particolare sull'approccio
marxiano riguardante il
problema del valore e la tematica del feticismo delle merci.
La teoria del valore marxista di Isaak Rubin è il tentativo più riuscito di differenziare il problema marxista dal valore da quello proposto dagli economisti classici. A differenza dei classici, Marx non assume il valore come l'essenza della naturalezza della società, ma come espressione di una società in cui l'individuo esiste solo come produttore di valore di scambio, il che implica l'assoluta negazione della sua esistenza naturale. Pertanto, la produzione di valore di scambio include già la coercizione dell'individuo.
Il lavoro di Rubin rimane attuale, come punto di partenza, per un'efficace comprensione della questione del valore, nonché delle connessioni tra la teoria del feticismo e il processo di reificazione. Come Lukács e Korsch, anche Rubin ha sollevato l'asticella delle discussioni all'interno della tradizione marxista. La rilevanza di questo lavoro è innegabile. Pertanto, negli anni '20 significava un originale tentativo di interpretare il lavoro marxiano.
Se
vi è una chiara e durevole eredità nel contagio pandemico è la
rinnovata dimostrazione di quanto il welfare, la
sicurezza, la
condivisione dei rischi e il rilancio economico siano
interconnessi. Una pandemia simile, che ha condotto già
alla stasi l’economia
mondiale per un anno intero, rischia di avere conseguenze di
lungo periodo nel senso di livelli di crescita nulli o
irrilevanti. La realtà che,
senza mutamenti drastici, potrà proporsi è l’effetto combinato
di un passato a bassa crescita, dello shock da virus, del
sempre
possibile ritorno del contagio e del protrarsi, per quanto
sempre più ridotto, delle misure anti-virus.
A questo va aggiunto che, dopo il momento, ancora lontano, in cui il contagio potrà dirsi scongiurato, attendono i medesimi assetti sociali prodotti dall’economia di questi decenni: ceti dipendenti e medi con capacità di spesa e sicurezze vilipese. Ciò perché, nel momento in cui ufficialmente scatterà il dopo-pandemia, ci attenderà pur sempre una globalizzazione concentrata sul motore dell’apertura dei mercati, ma dimentica dell’altro motore ancora più fondamentale costituito dalla somma delle domande interne. In aggiunta, va scongiurato che lo sviluppo, dopo il Covid, dimentichi l’altra e maggiore sfida, che è quella climatica e ambientale. Ad esempio, l’ansia potrebbe condurre verso una disastrosa esplosione del trasporto privato.
Per nuova egemonia del welfare va dunque inteso non solo il grande potenziamento, come diremo ampiamente, di una sanità che sconfigge le ansie, ma anche la scelta strategica più generale per il consumo pubblico, senza escludere i trasporti.
Scopo di
queste note è tornare a definire i termini di una rivoluzione
democratica che riproponga obiettivi e strumenti di una lotta
sociale
e politica coerente con una strategia di attacco ad un
capitalismo, che ripropone sempre e comunque una dittatura di
classe, avvalendosi anche di
più “moderne” manifestazioni del rapporto tra capitale
finanziario e capitale industriale per proseguire il suo
dominio
sociale.
Vale la pena accompagnare l’indagine sui punti di forza essenziali e irrinunciabili, perché si possa parlare con un minimo di attendibilità di lotta ideale e politica, affinché il movimento democratico, come portatore dei valori della classe degli sfruttati ed alienati, possa attestarsi non già semplicisticamente e subalternamene nell’agone politico-istituzionale, ma, al contrario, proporsi come portatore di una interpretazione di esigenze storiche profonde di rivoluzione culturale e sociale, facendole valere come leva antagonistica non alle forze di “governo” della società capitalistica, ma all’insieme della struttura del capitalismo e dei suoi rapporti con le istituzioni.
Ciò comporta la ripresa di una discussione che, in modo non separato ma strettamente interdipendente, conduca l’analisi critica dell’attuale fase cosiddetta “postmoderna”, “postfordista” e “postindustriale” – con tutti i suoi specifici contenuti volti a demistificare la tesi secondo cui, a causa della rivoluzione tecnologica, il lavoro sarebbe ormai obsoleto; il capitale, in quanto transnazionale, sarebbe sempre più “astratto”, e, a sua volta, anche lo stato-nazione sarebbe assorbito in una sorta di empireo, che renderebbe inutile, perché priva di presupposti reali, la lotta sociale e politica sul territorio.
Nel Consiglio Direttivo di giovedì 4 giugno la Banca Centrale Europea (BCE) ha deciso un nuovo potenziamento del suo programma di acquisti di titoli pubblici dei Paesi europei, il cosiddetto Quantitative Easing (QE): si tratta dell’ennesimo ampliamento dell’arsenale messo in campo dalla banca centrale per fare fronte alla pandemia di Covid-19, con un programma dedicato, il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), che entro il giugno 2020 impegna la banca centrale ad acquistare 1.350 miliardi di euro aggiuntivi rispetto all’originario QE varato nel lontano 2015. Il principale effetto di tali acquisti è quello di garantire alla BCE il sostanziale controllo dei tassi di interesse sul debito pubblico. Si sta diffondendo l’idea che la potenza di fuoco del QE rappresenti di per sé una garanzia per il debito pubblico di tutti gli Stati membri: si ritiene che il costo del nostro debito pubblico sia tanto minore quanto maggiori siano gli acquisti della BCE, a prescindere da come tali acquisti siano distribuiti tra i titoli di Stato dei diversi Paesi. Questo equivoco riposa sull’ignoranza del meccanismo attraverso cui la BCE distribuisce i suoi acquisti tra i titoli di Stato dei diversi Paesi membri, ed è utile ad alimentare il mito dell’Europa solidale e di una BCE impegnata a proteggerci con tutta la sua autorità dalle tempeste finanziarie.
Secondo alcuni commentatori non sarebbe il caso di fare troppe distinzioni, nel Recovery Fund, tra trasferimenti a fondo perduto e prestiti, perché anche in questo secondo caso stiamo comunque parlando, di fatto, di un finanziamento "in deficit", che dunque dovrebbe essere benvenuto anche da una prospettiva "keynesiana". Se si pensa che la spesa in deficit ("a debito") sia la risposta giusta alla crisi – affermano costoro – perché lamentarsi se i fondi arrivano sotto forma di prestiti, che peraltro otterremmo a tassi di interessi più convenienti di quelli che attualmente paghiamo sui nostri titoli di Stato?
Secondo la stessa logica, dicono, non ha molto senso fare il bilancio tra fondi versati e fondi ricevuti nel calcolo del saldo netto dei trasferimenti a fondo perduto: se i soldi arrivano ora – si fa per dire –, ma devono essere rimborsati lungo un arco di tempo relativamente lungo, il paese ricevente dovrebbe comunque beneficiare del classico moltiplicatore keynesiano, indipendentemente dal saldo netto finale tra entrate e uscite.
Ora, c’è un fondo di verità in questa argomentazione: nelle condizioni date, indebitarci nei confronti della UE, da un punto di vista strettamente finanziario (e tralasciando dunque la questione delle famigerate condizionalità), è indubbiamente più vantaggioso rispetto all’indebitarci "sui mercati". La domanda che dovremmo porci, però, è la seguente: perché ci troviamo in questa situazione?
Da più parti, si sottolineano gli errori e i limiti strategici dell’attuale governo e della classe dirigente che esprime. I motivi di critica non mancano. Ma il tono complessivo appare spesso forzato. Soprattutto, evidenti sono i presupposti e le finalità di tale campagna trasversale (che coinvolge intellettuali à la page, grandi giornali, esponenti del mondo economico): la matrice è confindustriale. Paradossalmente, cavalca anche umori e rimostranze (legittime) di matrice “populista”, rispetto ai gravi ritardi (reali!) del sostegno ai lavoratori non garantiti e all’indecisione politica che ha portato a una delega esorbitante ai tecnici. Credo che sia necessario sottrarsi a questa tenaglia – governo Conte si o no – per sottolineare con forza un dato politico lampante ed urgente: occorre costruire un’alternativa. Entrambe le proposte politiche che si delineano (quella di centro-destra e quella di centro-sinistra) sono gravemente deficitarie e portatrici di guasti, e il punto non può essere quello di pesare al bilancino il meno peggio. Anche perché NON è più tempo di mali minori, di bicchieri mezzo pieni, di turarsi il naso. Basta porre delle questioni chiare, per capire che la risposta non può venire né dall’attuale maggioranza né dall’attuale opposizione. Ad esempio: qual è la posizione rispetto alla persistente radicale inadeguatezza dell’UE di fronte a una crisi che sarà peggiore di quella del 2008?

Nel suo ultimo libro, “Capitalism, Alone”, Branko Milanovic descrive l’imminente scenario globale che vede opporsi in una sorta di scisma le due forme di capitalismo “liberale” e “autoritario”, i cui modelli culminanti si trovano rispettivamente a occidente e a oriente. Se prima queste due facce della stessa medaglia avevano trovato il modo di convivere in un rapporto di “complementarità”, adesso il conflitto è alle porte e le contraddizioni sono pronte a esplodere investendo le vite di tutti noi.
Nel 1921 Walter Benjamin scrisse Capitalismo come religione, intuendo un secolo fa quello che sarebbe avvenuto poi in futuro, una sorta di rito laico perenne privo di qualsiasi forma di autocoscienza e che, nell’arco dei secoli, ha inibito qualsiasi forma di alternativa e si è imposto come canone unico nell’ordinamento politico-economico.
Ma come tutte le grandi religioni monoteiste, dice Branko Milanovic, anche il capitalismo sta andando incontro a un suo scisma interno.
La chiesa cristiana si divise tra cattolici e ortodossi nel primo scisma d’oriente del 1054; poi nel medioevo la chiesa cattolica a sua volta si scisse di nuovo con la riforma protestante. E l’islam si divise tra sciiti e sunniti.

Niamey, maggio 020. L’ipocrisia è un’epidemia che passa di solito inosservata tra le pieghe della realtà. Un buon esempio di ciò è la recente celebrazione del compleanno numero 57 dalla creazione dell’Unione Africana da parte delle autorità istituzionali italiane. Etimologicamente la parola ipocrita, derivata dal greco antico, allude all’attore di teatro e a ragione si può affermare che l’ipocrisia è quanto definisce i commedianti, recitino o meno a soggetto. Il presidente Sergio Mattarella, il ministro degli Esteri Luigi di Maio e la vice ministra agli Esteri Emanuela del Re, hanno offerto, ognuno a suo modo e con modalità proprie, un gratuito spettacolo sulla scena nazionale. Cosciente o incosciente, la coreografia scelta in questa circostanza, bene evidenzia l’immaginario che alcune delle massime autorità della Repubblica perpetuano sul Continente Africano. In effetti, se vogliamo essere onesti, dovremmo proprio partire da lì, dal rispetto nei confronti di questo Continente e dalla presunzione di considerare l’Africa come un ‘partner’, per usare la parola delle signora Del Re. Un paese come l’Italia che ha l’ardire di instaurare un’operazione di questo tipo con un continente di 54 paesi riconosciuti e un paio d’altri in condizione di clandestinità amministrativa, recita.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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Su “La fionda” si sta
svolgendo un dibattito di grande interesse che ha preso avvio
il 21
maggio con un articolo[1] di Rolando Vitali, per poi
alimentarsi in particolare con il denso articolo[2]
di Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti del 27 maggio, e al
momento concludersi con il pezzo[3] del 4 giugno di Lorenzo
Biondi. La posta di questo scambio è l’analisi strategica del
presente e delle forze che in
esso si muovono, e quindi l’identificazione delle azioni
politiche e relative alleanze. Dunque, è una posta di primaria
importanza.
Per confrontarsi con queste posizioni bisognerà ricostruire gli argomenti portati, in particolare dall’articolo centrale, e descrivere cosa sta accadendo in questa fase, quale è la forza che muove la situazione, come si può tentare di reagire ad essa.
Parte prima: l’argomentazione.
L’articolo di Melegari e Capoccetti, che svolge un ruolo centrale di sistemazione delle analisi e dei concetti, muove dal corretto sentore di un disastro incombente sul paese per dedurne l’urgenza di un’azione e, insieme, da quella che chiama “asfissia politica” dell’area del sovranismo costituzionale, democratico e di ispirazione socialista, al quale sente di appartenere. Ed al quale sono diretti, di converso, gli strali polemici di Vitali. Chiama “asfissia”, ovvero la mancanza di fiato e quindi di vita, “politica” la condizione nella quale si respinge l’energia vitale degli unici che effettivamente si muovono. Questa mossa è prodotta, a loro parere, da una non ben chiara, ritrosia a comprendere, o ad accettare, che la presunta dicotomia tra la piccola borghesia ed i ceti dei lavoratori dipendenti proletari sia stata ormai definitivamente superata, o almeno confusa, dalle trasformazioni neoliberali seguite al crollo del “compromesso keynesiano”.
La
videoconferenza del duo Merkel-Macron del 18 e la relazione
della von der Leyen al
Parlamento UE del 27 maggio scorso rappresentano probabilmente
un punto di svolta nelle linee di condotta della Unione
Europea, almeno nelle
intenzioni dei due principali protagonisti dell’agone
comunitario. Un punto di svolta, ma nella continuità.
Lo stile
adottato nelle due iniziative non poteva essere più stridente.
Alla esposizione asciutta, insolitamente sintetica rispetto
alla ricorrente
tentazione logorroica di Macron, dei primi, confacente al
pragmatismo di due capi di stato ha corrisposto la stucchevole
e rozza retorica intrisa di
lirismo della seconda, nelle vesti consapevoli di una facente
funzioni. Paradossalmente l’iniziativa non ha goduto del
clamore di tanti
precedenti dal tono ben minore. È l’indizio che è in corso una
battaglia politica vera tra i vari paesi europei e
all’interno degli schieramenti politici nazionali; battaglia
la cui virulenza sta affievolendo la antica sicumera delle
classi dirigenti
più europeiste. In Italia la reazione degli schieramenti
politici dominanti all’evento è stata più chiassosa, ma ha
confermato una volta di più l’attendismo e la passività del
ceto politico e della relativa classe dirigente nostrani. Gli
uni
hanno plaudito soddisfatti con la sola riserva della
sollecitazione sui tempi di attuazione troppo lunghi; gli
altri hanno mostrato scetticismo sulla
sincerità e sulla attuabilità della proposta, visti il
contesto politico dell’Unione e la tempistica legata alle
procedure e ai
canali di finanziamento e distribuzione. Toccare moneta per
credere!
Il tempo in effetti è un fattore di grande importanza. Lo è per i paesi particolarmente più esposti con il debito pubblico, privi di sovranità monetaria e legata ai vincoli dei trattati e delle decisioni comunitarie, l’Italia in primo luogo.
I.
Introduzione
Questo scritto vuole essere l’inizio di un lavoro di discussione critica di alcuni punti della visione femminista del mondo e della storia. Credo sia giusto provare a fare questo lavoro perché il femminismo (e più in generale, il “politicamente corretto”) è ormai diventato uno dei pilastri ideologici delle moderne società occidentali, e mi sembra doveroso esaminare criticamente i fondamenti razionali di tale visione del mondo e indicarne le debolezze. È curioso il fatto che questo lavoro critico sembra negletto, almeno all’interno del mondo intellettuale “ufficiale” (in particolare nell’accademia). Esiste certamente una produzione intellettuale di critici del femminismo (che si esprime tramite libri e, soprattutto, sul web), ma si tratta di elaborazioni che restano marginali e minoritarie. Sembra cioè che, mentre nel mondo intellettuale occidentale si può essere individualisti o comunitaristi, keynesiani o antikeynesiani, pro-Stato oppure pro-mercato, marxisti o antimarxisti, non si possa essere antifemministi. Questo è di per sé un tema interessante di riflessione, ma non è il tema di questo scritto. Preciso solo che, per quanto mi riguarda, “antifemminismo” non significa contestazione della tesi dell’uguaglianza fra gli esseri umani e della sostanziale unità del genere umano. Non è questo che intendo parlando di “critica del femminismo”; intendo piuttosto la critica di una interpretazione del mondo e della storia. Intendo cioè dire che nel mondo intellettuale contemporaneo vi è una notevole produzione di tesi e affermazioni di tipo femminista che riguardano la realtà degli esseri umani, presenti e passati, e che mi sembra un lavoro necessario quello di prendere in esame alcune di queste affermazioni per saggiarne la solidità, e rifiutarle se appaiono infondate. È questo il compito che mi propongo, in questo intervento e in altri che seguiranno.
Mentre il Brasile è già il secondo
paese per numero di contagi di Covid-19, nonostante mantenga
l’indice più basso di tamponi del Sudamerica (0.62ogni 1000 abitanti), e veleggia
ormai spedito verso il secondo posto anche per numero di
morti, una crisi politica sempre più acuta si innesta, e si
potenzia vicendevolmente,
con la crisi epidemica. Non si tratta di una semplice crisi
“di governo”, è la crisi della democrazia liberale brasiliana.
Da alcuni anni, con la crescita esponenziale dell’estrema destra in tutto il mondo, si sprecano i paragoni tra il presente momento storico e quella che Eric Hobsbawm ha chiamato “Era della Catastrofe” (1914-45), e sulla possibilità o meno di parlare di fascismo contemporaneo. Il problema si pone a partire da due domande. La prima: le diverse espressioni della nuova destra, dal trumpismo negli USA al lepenismo in Francia, da Lega e FdI in Italia a Vox in Spagna, da Jair Bolsonaro in Brasile a Narenda Modi in India, da Viktor Orbán in Ungheria a Rodrigo Duterte nelle Filippine, da Tayyip Erdogan in Turchia al governo golpista ucraino, si possono tutte definire alla luce dell’espressione “neofascismo”? La seconda: laddove questi personaggi e forze politiche sono giunti al governo, hanno portato alla creazione di regimi politici fascisti?
E’ difficile dare risposte univoche a queste domande. E’ però evidente che esistono alcuni elementi comuni al di là delle specificità dei singoli contesti, considerando che anche i fascismi storici furono esperienze ben più eterogenee tra loro di quanto l’adozione di modelli “classici” faccia sembrare. E che, tanto nel caso dei fascismi storici come in quello delle nuove destre, si tratta di fenomeni che appaiono in momenti di turbolenza globale e di profonda crisi di riproduzione sociale del capitalismo.
“In nulla vogliamo somigliare alla Cina”: questa secondo Panebianco la lezione che andrebbe tratta dalla tragedia della pandemia. Nemmeno sul piano dell’efficienza che lo Stato cinese ha dimostrato nel limitare il numero delle vittime? Assolutamente no, perché quell’efficienza è frutto dell’autoritarismo e dello statalismo che soffocano il mercato assieme alle libertà politiche e civili (che secondo i liberali alla von Hayek come Panebianco sono un tutt’uno).
Poco importa – il nostro non lo dice ma lo pensa – che la libertà in salsa lombarda (che ha voluto dire, fra le altre cose, privatizzazione della sanità e sistematica distruzione della capacità di assistenza pubblica) sia costata 15.000 morti (senza contare quelli stroncati da altre malattie, perché gli ospedali potevano occuparsi solo dei contagiati dal virus) e che in altre grandi culle della libertà, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, senza dimenticare il Brasile di Bolsonaro, il bilancio sia stato dieci volte più pesante. La guerra allo “statalismo” varrà pure qualche sacrificio (soprattutto se a morire sono i vecchi, che con le loro pensioni appesantiscono quella spesa pubblica che resta in cima alla lista degli anatemi).
Atomizzazione e polarizzazione: distanziamento sanitario e mobilitazioni di massa
Il processo di manipolazione continua.
Dopo aver imposto il ferreo distanziamento sociale, giustificato dalla necessità di evitare il contagio del Covid-19, il sistema di potere deve incanalare subito lo stato di generale inquietudine e la paura per il futuro economico che si sta radicando nell'animo di milioni di persone in Occidente, evitando a tutti i costi che si trasformi in rabbia contro i governi stessi che non agiscono tempestivamente.
E' tutto inutile, perché le rassicurazioni non bastano, le promesse tardano a concretizzarsi, ed anche le fideistiche prospettive del Recovery Fund e della Next Generation UE si afflosciano: serviranno mesi perché questi piani si attivino.
Nel frattempo, dopo aver chiamato a raccolta le Task Force di esperti, ora si convocano per consultazioni addirittura gli "Stati Generali": richiamano un ben triste precedente, visto che ne conseguì la Rivoluzione Francese.
Domani saranno passati circa tre mesi dall’inizio della crisi epidemica e dall’entrata in lockdown del Paese. Tre mesi che, come scriveva qualcuno che di rivoluzioni ne capiva, potrebbero davvero valere come anni, a dimostrazione che il tempo della politica non scorre mai in maniera lineare. La crisi epidemica ha avuto quanto meno il “merito” di dimostrare, qualora ce ne fosse ancora il bisogno, l’assoluta insostenibilità del sistema economico dominante. Da anni la comunità scientifica ammoniva sulla inevitabilità di un evento pandemico di questa portata e quello che era in discussione non era tanto il “se”, ma piuttosto il “quando” si sarebbe manifestata una nuova pandemia. E questo perché la corsa all’accumulazione capitalistica tende a generare le condizioni sociali ed ecologiche affinché eventi del genere si verifichino con sempre maggiore frequenza. Eppure le classi dominanti si sono dimostrate sorde a questi appelli, ed anzi hanno contribuito a rendere ancora più fragili i sistemi sanitari nazionali attraverso i processi di spoliazione e privatizzazione che sono stati portati avanti in questi decenni di controriforme neoliberiste, tanto dalla destra quanto dalla cosiddetta “sinistra”.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa corrispondenza dagli Stati Uniti in merito alle attuali rivolte
Cari compagni, mi chiedete la mia opinione sulla natura e le caratteristiche del movimento I can’t breathe, le eventuali similitudini con quello del 2012 BlackLivesMatter e le differenze con quello del 2011 Occupy Wall Street. Mi ponete quindi la questione di quale potranno essere gli sviluppi e gli esiti dell’attuale rivolta.
Prima di rispondere alle vostre domande occorre una premessa.
Non dovreste confondere la questione razziale negli Usa con quella che voi europei chiamate questione dell’immigrazione. Anche qui siamo alle prese con il problema dell’immigrazione di massa, ma essa si sovrappone ad una divisione antica, alla segregazione della minoranza afro-americana, che ha una sua specifica dimensione, differenti e profonde radici storiche.
Una ferita profonda, quella della discriminazione razziale la quale, malgrado i mutamenti avvenuti, lì resta ed esercita un peso enorme sulle dinamiche sociali. Se escludiamo una minoranza integrata (che ha cioè un lavoro stabile, un reddito, può godere di alcuni diritti sociali e di cittadinanza) la maggioranza degli afro-americani rappresenta una vera e propria sotto-classe che sopravvive nella miseria, nella più brutale emarginazione sociale, in veri e propri ghetti putrescenti ai bordi delle grandi metropoli.
Le “Considerazioni Finali” del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, hanno ottenuto l’effetto di sconcertare persino i commentatori più critici e smaliziati, che hanno dovuto confrontarsi con troppe incongruenze. Visco ha presentato come un dato positivo l’attuale equilibrio della bilancia commerciale, come se ciò indicasse una vitalità dell’esportazione. In realtà il grosso delle importazioni non riguarda i beni di consumo, bensì le materie prime necessarie alla produzione, perciò un equilibrio della bilancia commerciale nel caso italiano rappresenta un chiaro indizio di deindustrializzazione. Una ripresa produttiva non potrebbe che passare per un deficit commerciale; uno squilibrio che non assumerebbe aspetti drammatici a causa degli attuali prezzi bassi delle materie prime, ma che comunque dovrebbe verificarsi per segnalare un risveglio delle imprese.
Ipocritamente Visco dichiara di voler scongiurare prospettive di deflazione, cioè di caduta dei prezzi, ma tutto il suo discorso va nel senso opposto. La sua idea di rifinanziare un’economia allo sfacelo a colpi di debito pubblico e privato, non configura uno sviluppo ma appunto una strozzatura da debiti, che rimarrebbero poi inalterati in futuro nel loro valore a causa della mancanza di inflazione.
Sarà la Banca centrale europea a determinare l’ingresso dell’Italia nel Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Ecco come
L’Italia, grazie al governo Conte,
entrerà – o meglio,
dovrà entrare – nel Mes per non vedersi rifiutare gli
acquisti di Btp dalla Banca centrale europea. È un
rovesciamento di
prospettiva: finora gli avversari del vincolo esterno si
sono opposti al Mes contando sugli acquisti della Bce. C’è
la Bce, dunque il Mes
non ci serve. Ma se la Bce dovesse interromperli? Lo
scenario è l’ingresso dell’Italia nel Mes come contropartita
degli acquisti:
il nostro paese dovrebbe entrare nel Meccanismo europeo di
stabilità per consentire la prosecuzione degli acquisti
illimitati. Con Alessandro
Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica
di Milano, cominciamo dalla fretta che Christine Lagarde ha
messo ieri alla Commissione. La
presidente della Bce ha chiesto di approvare rapidamente il
Bilancio 2021 e il Recovery Fund. Come dire, sbrigatevi,
perché il gioco non
può continuare.
* * * *
Da Lagarde è arrivata una sorta di “fate presto” con il Recovery Fund. È così decisivo?
Beh, decisivo per chi? Bisogna distinguere. Ci sono paesi messi meglio e paesi messi peggio. Noi, naturalmente, siamo tra quelli messi peggio. Se pensa che solo una settimana fa Visco ha preannunciato un calo del 13% sul Pil, si ha la misura della situazione.
Obiezione: a che cosa ci servono i prestiti di Recovery Fund e Mes se la Bce sta facendo gli “straordinari”?
A rigore non dovrebbe servire a nulla. La Bce sta facendo quello che avrebbe fatto la Banca d’Italia prima del divorzio Ciampi-Andreatta del 1981. Che è poi quello che stanno facendo tutte le banche centrali del mondo. Solo che lo deve fare di nascosto, coprendosi dietro cortine fumogene.
I nostri
quattro lettori sanno che
non siamo usi a piaggerie. Ma quando – in ambito teorico o
pratico – qualcosa di proficuo, valido o stimolante da altri
viene fatto, e
fortuna vuole che ce ne giunga notizia, non esitiamo certo a
darne atto.
È già da qualche tempo che avevamo intenzione di parlare del libro di Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios, Trieste 2019). Si tratta di un contributo importante per la teoria comunista, uno dei rari provenienti dall’arido contesto italiano. Contributo importante – dicevamo – perché riesce a tenere assieme, in una visione articolata e di ampio respiro, il corso economico del modo di produzione capitalistico nel decennio inaugurato dalla crisi mondiale del 2008, con quello delle relazioni internazionali e della lotta di classe nelle sue forme di manifestazione peculiari, in un fertile tentativo di comprendere come questi diversi piani agiscano gli uni sugli altri. In ciò risiede la differenza rispetto alla gran parte della pubblicistica consacrata a questi temi ognuno per sé, non da ultimo per la capacità dell’Autore di intuire il punto di caduta verso cui si dirige il movimento reale – nel bene e nel male, ovvero nei suoi esiti possibili tanto potenzialmente sovversivi quanto eventualmente disastrosi.
La rilevanza accordata al piano delle relazioni internazionali non mancherà di far storcere il naso a qualcuno, e vale la pena spendere qualche parola al riguardo per difenderne la legittimità. In termini generali, la rinnovata intensità della contesa nell’arena geopolitica è in tutta evidenza un tratto saliente del periodo aperto dalla crisi del 2008. Tutte le questioni che la mondializzazione, nella sua fase ascendente, sembrava aver spazzato via per sempre tornano all’ordine del giorno in forme anche inedite. È in questo quadro complessivo che si inscrive il cosiddetto “ritorno della geopolitica”: guerra dei dazi fra Cina e Stati Uniti, tensioni crescenti all’interno dell’Unione Europea fra paesi del Sud e paesi del Nord, riconfigurazione in divenire di tutta l’area denominata MENA (Middle East North Africa)… la lista non è esaustiva, ma basta a rendere l’idea.
Per affrontare la gravissima crisi del
coronavirus il governo italiano dovrà
contare soprattutto sulle proprie forze senza attendere
passivamente gli “aiuti” della Unione Europea. Se il governo
Conte si
affiderà al nuovo Recovery Plan, ridenominato Next Generation
EU, rischia di morire in pochi mesi travolto da proteste e
ribellioni sociali. Il
grande rischio è che il piano di “aiuti” europei, il Next
Generation EU, se verrà, arriverà troppo tardi e troppo
poco per salvare l’economia italiana, che quest’anno potrebbe
perdere anche più di 200 miliardi di PIL. Il governo Conte
nutre
delle aspettative eccessive sul “Piano di Rinascita” – come lo
ha ridenominato Conte – proposto dalla Commissione UE. Le
cifre
vere si sapranno solo alla fine, ma molti indicano che il
piano europeo è poco più che fumo negli occhi e che, anche
nelle migliori
delle ipotesi, non può risolvere i problemi dell’economia
italiana.
Robero Perotti su Repubblica, Federico Fubini sul Corriere della Sera e Wolfgang Munchau sul Financial Times hanno cominciato a fare i conti (peraltro solo provvisori): ma tutti avvertono che il decantato Next Generation non è certamente manna dal cielo. È quantitativamente insufficiente per l’Italia e arriverà quando prevedibilmente la crisi del coronavirus sarà cessata da un bel pezzo.
L’unico vero incisivo sostegno viene e verrà dalla Banca Centrale Europea, che però può solo fornire nuova moneta di riserva alle banche e abbassare così gli interessi sul debito pubblico; ma non può – a causa dei vincoli del Trattato di Maastricht – dare soldi direttamente agli stati e all’economia reale, alle imprese e alle famiglie, e quindi non può portarci fuori dalla crisi.
Al punto in cui siamo
dire ancora qualcosa di sensato sulla pandemia appare cosa
piuttosto impervia. Approfitto di questo
intervento leggermente fuori tempo per fare qualche
riflessione che esula necessariamente, viste le mie
scarsissime competenze, dal piano strettamente
epidemiologico e sanitario.
Al di là dei tentativi di identificare alcuni nodi che hanno caratterizzato questo tempo – penso ad Agamben, a Esposito o a Badiou solo per citare alcuni esempi significativi – cercherei piuttosto, al netto delle emergenze, dei numeri e delle curve di diffusione, di cogliere alcuni aspetti sintomatici.
Il cosiddetto lockdown, ha fatto emergere infatti certi discorsi che hanno attraversato non solo i politici, che di professione si incaricano di utilizzare determinate retoriche, ma soprattutto la società civile e l’opinione pubblica, e che hanno messo in luce un diffuso sentimento di disagio per il nostro stile di vita.
La quarantena ha obbligato un po’ tutti, eccetto ovviamente chi svolge le professioni sanitarie, a riconsiderare criticamente la dinamiche in continua accelerazione della nostra vita, cosa che comporta una certa dose di iniquità. Una sorta di strisciante mistica della lentezza ha così invaso le nostre menti, tanto da farci considerare il virus oltre che un pericolo, anche come un’occasione provvidenziale, un aiuto a riumanizzare le nostre giornate.
Su una direttrice affine si sono articolate le riflessioni che hanno evidenziato il nesso tra abusi ambientali e insorgenza della pandemia. Per l’ecologismo, e non solo, questo evento era atteso.
Una lunga riflessione sulla fase attuale di crisi vista nella prospettiva dei comunisti
Premessa
Ad avermi spinto a scrivere questo articolo è stata senz’altro la voglia di veder tornare i comunisti nuovamente competitivi nell’arena politica. Lontano dall’idea di redigere un improbabile “ricettacolo” politico, ho cercato – ed è questa la prima caratteristica di queste pagine – di stimolare il lettore comunista ad un’auto-riflessione sulle modalità della propria personale attività di militanza, e del contesto nel quale essa è inserita. Una delle ragioni della vastità degli argomenti trattati, così come della grande varietà degli input forniti nonché del modo disorganico con cui vengono forniti, sta proprio nel carattere pedagogico di questo lavoro, che lascia ai lettori parte della responsabilità di collegare dati e riferimenti e trarne indicazioni utili, semplici idee, ma anche riflessioni autonome. Partendo da una descrizione critica della situazione politica ed economica attuale (La situazione attuale, La gestione capitalista della crisi) si passa a considerare l’odierno attivismo comunista, mostrando alcune ragioni delle nostre difficoltà politiche e tentando di individuare problematiche e insufficienze da risolvere (L’atteggiamento dei comunisti oggi). Nell’ultima sezione (Proposte pratiche), analizzando le recenti innovazioni tecnologiche del sistema produttivo e i mutamenti organizzativi che queste stanno generando al suo interno, si individuano nella “rete delle competenze” e nell’accorciamento della filiera produttiva due elementi fondamentali per riflettere in maniera innovativa su come articolare le future lotte politiche. Se questo, in breve, è lo scheletro di questo lavoro, il suo obiettivo dichiarato (nel finale) è quello di stimolare ulteriori contributi da parte di altri militanti.
“Quel ritardo appare doloso, volto a precostituire una condizione di crisi di liquidità”: non usa mezzi termini Alberto Bagnai, economista e senatore della Lega, in un’intervista al quotidiano La Verità, parlando dei ritardi del governo, e specificatamente del ministero dell’Economia, nell’emettere una dose adeguata di Btp nelle prime fasi della crisi sanitaria ed economica legata alla pandemia di coronavirus.
Nel corso dei primi mesi del 2020 l’Italia ha avuto non poche difficoltà a star dietro alla domanda di titoli di Stato nel corso di una serie di emissioni che hanno visto un differenziale tra l’offerta delle emissioni e la richiesta degli investitori a favore della seconda per oltre 190 miliardi di euro. Indicativo, in tal senso, il boom del Btp Italia studiato dal Tesoro che ha mobilitato oltre 14 miliardi di risparmio delle famiglie. Da più parti la richiesta di aumentare le emissioni di Btp, che consentono un finanziamento favorevole grazie anche alla sponda della Banca centrale europea, è stata avanzata come soluzione più adatta per procacciarsi risorse contro la crisi: ma il Tesoro ha troppe volte tergiversato, muovendosi con incertezza e senza affondare.
(Dedicato a mia moglie, texana del confine quindi "quasi latina", ma italiana da quasi quaranta anni)
La potente dinamica storica nella quale siamo capitati, impone una riflessione sull’aggregato che chiamiamo “Occidente”. Il termine è un relativo, c’è sempre qualcuno alla tua destra o sinistra stando su un meridiano della Terra, tutto sta a stabilire dove poni il tuo punto. Dalla fine dell’ultima guerra, l’unica potenza superstite vincitrice e per altro l’unico grande stato rimasto intatto, anzi cresciuto e potenziato, furono gli Stati Uniti d’America. Gli USA decisero allora di formare un blocco occidentale organizzato, il cui centro era posto in un punto imprecisato dell’Atlantico.
Sebbene oggi ai più paia naturale ed oggettiva questa partizione, sarà bene ricordare che nella prima parte del ‘900 ed ovviamente prima ancor di più, Occidente era limitato all’Europa centro-occidentale. Il resto era ritenuta una appendice anglofona dei britannici (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda) ed una appendice latina centro-sud americana, residuo del colonialismo iberico con una spruzzata di francese ed una goccia di olandese, più qualche migrante italiano.
Per favore state seri. Ascoltate Mattarella, riflettete su Conte, ripassatevi gli espertoni ed aspettate il vaccino. Si lo so, forse non si farà mai (come per altri virus), ma bisogna aspettarlo lo stesso. Meglio se lo fate con la mascherina. E’ vero, per lo più hanno ben stampigliato sopra che non sono né Dpi né tantomeno dispositivi medici. Ma che importa, indossarle ed aspettare bisogna, è una questione di fede. L’importante è rimanere seri, sempre seri. Se vi riesce, naturalmente…
In verità seri lo saremmo anche noi. Se non fosse per loro… Che siano politici, giornalisti, tecnici o scienziati, gli attuali dispensatori di consigli al “popolo-bambino” sono odiosi ed insopportabili. Gente che farebbe incazzare anche un ghiro in letargo. Gente convinta di poterle sparare senza freni, che per questi signori è la bellezza del Covid!
Oggi, però, non li prenderemo sul serio. Che qualche volta è preferibile prenderli semplicemente in giro. Ci limiteremo perciò a segnalare tre autentiche, quanto amare, bufale.
La sinistra novecentesca sacrificava nel suo orizzonte ideale la libertà sostanziale a favore dell’eguaglianza (o se si preferisce della giustizia), mentre la destra prediligeva la difesa della libertà formale, trascurando il valore dell’eguaglianza, così pregiudicando l’essenza della libertà, che non è tale se non è accompagnata dalla giustizia sociale. Il pensiero odierno unificato dal piccone demolitorio del Muro di Berlino (che ha tragicamente mandato in soffitta l’impegno idealistico novecentesco verso una società libera dall’alienazione capitalistica) non consente più di distinguere i valori della cosiddetta sinistra da quelli della destra. Mentre il proletariato e la borghesia di un tempo vengono sostituiti da moltitudini atomizzate di dominati, che si agitano sia all’interno di quel che resta dello Stato nazionale che nell’arena mondializzata (dove i rapporti di forza sono tutti a favore del capitale finanziario), la sinistra sopravvissuta ha ammainato la bandiera del riscatto sociale allineandosi ai valori del capitalismo liberista.
Se è indubbio che il XX secolo abbia generato tragedie e conflitti, inclusi nazismo e comunismo reale, esso tuttavia è stato anche il tempo delle battaglie del lavoro e dei tormenti politici che hanno consentito la costruzione dello stato sociale e la tutela di tanti beni collettivi di cui ancora oggi beneficiamo.
Se si hanno chiari i termini della lotta di classe, si sa che la sfacciataggine delle classi dominanti aumenta quanto più diminuisce il potere di chi dovrebbe contrapporglisi. Indignarsi serve a poco se non ci si organizza per cambiare le cose. Smascherare l’ipocrisia delle corporazioni mediatiche che servono il potere di quelle economiche è tuttavia un compito da prendere molto sul serio, a fronte dell’importanza crescente che i media hanno assunto nei conflitti di nuovo tipo.
Un esempio paradigmatico è costituito dalla recente “conferenza internazionale dei donatori”, organizzata via web dalla Spagna e dall’Unione Europea. Vi hanno partecipato oltre 60 paesi di tre continenti, tra i quali gli USA, il Canada e il Giappone e altri stati che non appartengono alla UE, come la Svizzera, così come ONG e organizzazioni internazionali quali l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).
Al centro, nuovamente, la questione dei “migranti e rifugiati venezuelani”. L’aiuto, però, non verrà erogato al governo bolivariano, ma a quei paesi, come la Colombia, l’Ecuador, il Perù o il Brasile, che sostengono gli Stati Uniti e la sovversione interna in Venezuela. Infatti, il legittimo governo del Venezuela, quello di Nicolas Maduro, non è stato neanche invitato.
Roberto Buffagni: Epidemia coronavirus, due approcci strategici a confronto
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La crisi da coronavirus
ha colto di sorpresa l’Unione europea. Quest’ultima era ancora
alle prese con la crisi
del debito pubblico iniziata nel 2009 e con un sistema
bancario molto esposto su questo fronte. Nel campo
dell’economia reale, poi, diversi
paesi erano in recessione e, nonostante i livelli favorevoli
dei tassi d’interesse, gli investimenti rimanevano compressi
dalle basse
aspettative di crescita e dalle difficili situazioni
patrimoniali delle imprese. Sul mercato del lavoro,
l’arretramento sul fronte dei salari e
dei diritti, in un contesto di precarietà diffusa, non ha
affatto stimolato la crescita — come promesso dalle ricette
neoliberiste
— ma, al contrario, ha compresso ulteriormente la domanda. Il
blocco della produzione e le conseguenti tensioni sui mercati
finanziari innescati
dall’emergenza coronavirus si inseriscono in questo contesto
di crisi preesistente.
Prima del coronavirus, l’Unione aveva affrontato la crisi del debito pubblico di singoli stati o, sarebbe più corretto dire, di singole banche. Nel caso della Grecia, ad esempio, la gestione della crisi da parte delle istituzioni europee fu un’abile manovra per salvare le banche francesi, tedesche e olandesi più esposte sui titoli del debito greco e far pagare tutto ai lavoratori greci. Perché una cosa è certa nei rapporti interni all’Unione: gli stati e i capitali nazionali non hanno tutti lo stesso ruolo e lo stesso peso. Dicendo di salvare lo stato greco, in realtà si salvavano le banche dei paesi europei più forti. Il tutto imponendo dure riforme contro i lavoratori greci redatte direttamente dalle istituzioni internazionali.
Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, l’Italia ha un forte debito pubblico, ma poco debito privato: nell’insieme ha una posizione più solida di altri paesi europei. Una mappa per non perdersi nel labirinto del debito, della finanza pubblica, delle politiche di bilancio
Nelle Considerazioni
finali del governatore della
Banca d’Italia Ignazio Visco sul 2019, un passo è dedicato al
confronto fra la situazione debitoria del nostro Paese e
quella di altri
Paesi dell’area euro. In particolare, nelle parole del
governatore, “la posizione netta sull’estero dell’Italia ha
raggiunto
un sostanziale equilibrio”. “La ricchezza netta, reale e
finanziaria delle famiglie italiani è elevata. Il debito delle
famiglie
è basso nel confronto internazionale ed è concentrato presso i
nuclei con una maggiore capacità di sopportarne gli oneri“.
“Nel complesso il debito era pari al 110 cento del Pil, oltre
50 punti in meno del valore medio dell’area dell’euro”.
Nella figura qui sotto è rappresentato il debito pubblico e privato in percentuale del prodotto interno di vari Paesi. Il debito pubblico italiano è pari al 130 % del Pil, contro poco meno del 100 % di Francia e Spagna; è invece sensibilmente inferiore in Olanda e Germania (intorno al 50 %). Il quadro è radicalmente diverso se si esaminano i debiti finanziari delle famiglie e delle imprese. In Olanda si raggiunge lo straordinario livello del 250 %, in Francia il 200 %, il 150 % in Spagna; infine, Italia e Germania si collocano intorno al 100%.
Questi dati devono essere ulteriormente elaborati se si vuole ottenere una descrizione più precisa della situazione finanziaria dei diversi Paesi, e individuare le opzioni di politica economica e istituzionale appropriate.
E’ mia opinione, infatti, che le analisi correnti tutte concentrate sul rapporto debito pubblico prodotto interno non rappresentino in modo compiuto la situazione finanziaria o le prospettive economiche e finanziarie che possono derivarne.
Dal negazionismo all’economia di guerra. La
crisi
Il confindustriale è uomo pratico. Un secolo di addomesticamento nel capitalismo italiano ha reso mediocri le sue ambizioni. Decenni di gestione industriale l’hanno trasformato in un individuo refrattario a ogni avventura. Verrebbe perciò da sé credere che quest’abitudine a porsi solo problemi che può facilmente risolvere abbia portato il confindustriale a essere un capitalista discretamente realista. Non è così. Certo, il confindustriale per sua natura non può che detestare la fantasia, ma allo stesso tempo non si può nemmeno dire che apprezzi sempre la realtà!
A chi legge forse basteranno due istantanee del mese di marzo 2020 per suffragare questa nostra convinzione, restituendoci un perfetto spaccato della parabola schizofrenica che ha vissuto il povero confindustriale, che si è trovato prima a dover negare e poi pervertire la realtà. Il giorno 11, Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, dall’interno di una zona rossa del paese in cui si fa la fila anche per essere cremati, non esita a dichiarare: “Le fabbriche sono oggi il posto più sicuro”! È difficile per il confindustriale ammettere che qualcosa possa smuovere la sua realtà, che qualcosa possa sospendere i suoi profitti e la sua fetta di potere acquisito ormai tramandato per generazioni: questo lo manda su tutte le furie. Infatti, il confindustriale non si arrabbia solo per i soldi, a irritarlo davvero è l’idea che lo Stato possa dirgli cosa fare e che i suoi dipendenti poltriscano a casa, senza poterli licenziare. Non può proprio sopportarlo. Non può sopportarlo al punto che, dovendo fare i conti con la sua realtà, molti e molte dei suoi dipendenti non hanno poltrito mai, anzi. Nella lombarda Confindustriopolis, fiore all’occhiello della produzione nazionale, il 40% di operai e operaie non ha mai giovato del lockdown nazionale sulle poltrone di casa: il lavoro loro non si è mai interrotto.
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Testo per l’Accademia marxista presso la CASS - Chinese Academy of Social Sciences
1. Due linee
contrapposte. Il Covid-19 è un terreno di scontro tra
progresso e reazione
È opinione comune che la pandemia, tuttora in corso, segni un punto di svolta nella storia mondiale, per cui si parlerà di un mondo prima e dopo il Covid-19. La pandemia ha aperto nel mondo una fase di crisi, che riveste caratteri generali, comuni a tutti i Paesi e si interseca con caratteri particolari propri di ciascun Paese. Come è stato per ogni crisi nella storia dell’umanità, anche questa crisi è aperta sostanzialmente verso due soluzioni antitetiche:
Verso uno sbocco progressivo, che farà fare un importante passo avanti nel percorso storico dell’umanità, verso la realizzazione di quegli ideali di libertà, uguaglianza, solidarietà, sviluppo onnilaterale della persona umana (Marx) che furono alla base della rivoluzione francese del 1789 e poi delle rivoluzioni socialiste del XX secolo.
Oppure uno sbocco regressivo, che bloccherà per una fase storica lo sviluppo umano, che costituirà un arretramento nelle istituzioni politiche, economiche, sociali, che produrrà maggiore disuguaglianza, maggiore povertà, maggiori ingiustizie sociali, accrescendo il pericolo di guerra.
Il Covid-19 è un terreno di scontro tra progresso e reazione.
Già nel corso di sviluppo della pandemia e della sua diffusione con ritmi, tempi, modalità ineguali nelle varie aree e Paesi del mondo e del contrasto ad essa, si sono manifestate due opposte tendenze:
Continua nel Regno Unito la grande battaglia civile di abbattimento delle ignobili vestigia di un passato sconcio.
Sono state abbattute alcune statue di personaggi minori (Rhodes, Dundas, Colston, Milligan) e deturpate altre, tra cui quelle di Winston Churchill e David Hume. Tutti personaggi in forma o misura variabile tacciabili di ‘razzismo’.
Ora, premesso, che nessuno di questi personaggi (con l’eccezione di Hume) compaiono molto in alto nella mia lista dei personaggi storici stimabili, queste manifestazioni (precedute da tempo da altre simili negli USA) sono il segno di una crisi culturale profonda, di cui dovremmo fare problema.
Il problema di fondo qui è abbastanza semplice.
La cultura liberale moderna, quanto più essa regna incontrastata, tanto più si dimostra intollerante precisamente quanto le più retrive culture della storia.
Con un difetto in più: tale intolleranza si unisce all’infinita presunzione di essere la crema della storia, il frutto compiuto del Progresso, incarnato nelle baggianate mainstream di giornata.
È passato mezzo secolo da quando nelle strade e nelle università si tifava per il rifiuto del lavoro. Non si trattava di un misero slogan contro il capitalismo. Dietro di esso operava un desiderio più potente, che spingeva per un ritorno indietro, verso uno stadio di incorrotta unione.
Più che un viaggio, era un salto mortale dalle miserie e dai patemi di una vita circoscritta in un corpo, verso un infinito di pace, amore e libertà.
A concedere il lasciapassare per questo regno adamitico era stato Herbert Marcuse, con i suoi libri «Eros e Civiltà» e, soprattutto, «L’uomo a una dimensione». È in quest’ultimo libro (7 edizioni della traduzione italiana in meno di un anno) che Marcuse resuscita un frammento dei Lineamenti di Marx, facendolo diventare il motto per una schiatta di studenti perdigiorno.
Il motto, così come è presentato da Marcuse – riassumo alla buona – preconizza un futuro in cui la ricchezza, tutto il ben di Dio che vediamo intorno a noi, dalle arance ai pomodori, dalle automobili ai telefonini, non sarà più prodotta dalle mani dei lavoratori, ma sarà prodotta da macchine.
Il prof. Giovanni Marco Giuliano ha realizzato un’impresa singolare, che nel suo stesso costituirsi diventa emblema di una visione dei rapporti sociali. Non ha scritto un libro, ma ne ha letti e studiati tanti; non ha firmato una pubblicazione, ma ha lasciato parlare le proprie letture dedicando anni della sua vita alla costruzione di uno strumento di lavoro, di studio, di curiosità.
In altri termini, ha lasciato che la sua individualità si dissolvesse in un servizio per altre soggettività, ha accettato di divenire strumento. E questo, in termini generali, è un atto politico.
Finalmente, grazie a questo sforzo personale, è stata realizzata per la prima volta una raccolta digitale, ragionata ed esaustiva, di tutte le principali citazioni dirette di alcuni grandi classici del marxismo (Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao).
Il sito (citazionimarxiste.it) è di semplice consultazione, e impressionante utilità. Nonostante la sua riservatezza, non ho resistito, e ho chiesto all’autore di rilasciare un’intervista per Contropiano.
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Niamey, giugno 2020. L’operazione militare francese nel Mali, il cuore del Sahel, era stata battezzata Serval, nome di un felino selvatico originario dell’Africa sub sahariana. Fermare l’avanzata dei presunti djhadisti verso la capitale del Paese era stato il pretesto dell’intervento, iniziato nel mese di gennaio del 2013 e terminata l’anno seguente. Il mese di agosto del 2014 l’operazione Serval è stata sostituita dall’operazione Barkhane, nome di una particolare duna ‘migrante’ col vento nel deserto sahara-saheliano. Costituita da una forza francese di circa 5 mila militari ha la sua sede principale nella capitale del Tchad, N’Djamena. Lo scopo affermato dell’operazione è quello di fare in modo che gli Stati del Sahel acquisiscano la capacità di assicurare, in modo autonomo, la loro sicurezza. La strategia riposa, almeno sulla carta, su un approccio globale (politico, sicuritario e dello sviluppo). L’operazione Barkhane è di natura anti-insurrezionale contro i gruppi terroristi armati di ispirazione djihadista. Nel frattempo le forze in campo si sono moltiplicate in modo proporzionale ai soldi, ai militari e ai gruppi armati. Si prospetta una guerra di lunga durata che oltre a migliaia di morti ha creato centinaia di migliaia di sfollati, rifugiati e intere zone abbandonate dallo stato. Il panmilitarismo continua a proporsi come profezia che si (auto) avvera: chi di spada ferisce di spada perisce, sta scritto.
All’inizio delle misure introdotte anche in Italia dalla pandemia da SARS-CoV2 ad un tratto tutti si sono resi conto di vivere in un sistema fragilissimo sia dal punto di vista sanitario, dove le strutture territoriali e pubbliche sono state penalizzate, sia dal punto di vista sociale ed economico.
Il blocco di molte attività ha fatto subito capire che ci sarebbero stati problemi molto gravi da superare.
Anche a Firenze l’ondivago sindaco Dario Nardella prima si è scagliato contro chi raccomandava prudenza (Firenze non chiude!), poi si è dovuto piegare alla realtà che ha visto fermarsi il mondo, arrivando, con una disinvolta inversione ad U, a solenni proclami per impedire il contagio in una ridicola gara di severità con molti altri amministratori di tutto il paese.
Il sindaco di Firenze, in un primo momento, pareva anche essersi reso conto dei gravissimi limiti delle scelte urbanistiche e sociali della sua giunta e di quelle che lo hanno preceduto: la monocultura del turismo si è inceppata e la crisi si è abbattuta sulle finanze comunali, oltre che su centinaia di migliaia di cittadini.
La risposta globale alla crisi da coronavirus ha visto, da una parte, la richiesta incondizionata del ritorno a una fantomatica ‘normalità’, e dall’altra l’intervento massiccio delle banche centrali impegnate nell’esercizio, ormai dilagante, della creazione di fiumi di denaro dal nulla. Ma mentre il futuro torna al passato e la crisi si naturalizza, il capitalismo va esaurendo i conigli da estrarre dal proprio cilindro
Nel mettere
in ginocchio la catena di montaggio globale, il virus ci ha
posto di fronte a una
scelta ontologica, di quelle che capitano una sola volta nella
vita: o tornare alle condizioni preesistenti, o iniziare a
politicizzare forme di
socializzazione alternative a quelle che ci hanno portato il
contagio. Per quanto rivelatasi illusoria, l’apertura dello
sguardo sul possibile
di ‘un altro mondo’ è stata senza dubbio l’unica conseguenza
entusiasmante dell’isolamento da pandemia. In questo
senso, però, è significativo osservare come tutti i dibattiti
mediatici su Covid-19 siano stati predefiniti dal mandato
ideologico del
ripristino dello status quo ante. Per quanto la
crisi possa aver prodotto, nel nostro immaginario, scenari
sociali diversi da quelli imposti
dalla circolazione del capitale, in modo fin troppo
prevedibile ha trionfato l’esigenza del ritorno al business
as usual. Almeno una
cosa, dunque, è certa: la risposta globale alla pandemia
conferma la nostra rinuncia a mettere in discussione le basi
materiali e ideologiche
di una società del lavoro ormai avviata all’implosione.
Evidentemente, si dirà, non siamo ancora pronti a investire
energie e
passioni politiche nella progettazione di un altro modello
sociale – ma, si potrebbe controbattere, se non ora, quando?
L’irresistibile
bisogno di ‘normalità pre-covidiana’ sembrerebbe ratificare la
nostra perversa sottomissione ai diktat di una forma esausta
di
razionalità economica che continua a essere vista come l’unica
strada percorribile, nonostante le voragini che ormai ci
inghiottono. In
estrema sintesi, l’accumulazione capitalista deve continuare ad
absurdum.
L’esasperazione
del modello basato sui profitti generati da un eccesso di leva
finanziaria e da una finanza fuori controllo ha fallito. E ha
prodotto il risultato opposto: la nazionalizzazione del
sistema causata da eccessi di
speculazione finanziaria, esattamente quanto accaduto dopo la
crisi del 1929
La fine del lockdown può certamente indurre a pensare che la crisi sia ormai in fase di superamento e da qui in avanti possiamo iniziare a scontare una ripresa dell’attività economica ed un ritorno alla normalità. Ma in realtà, la crisi inizia adesso.
Più passa il tempo e più emerge chiara la sensazione che il settore finanziario non sembra aver capito l’impatto e le implicazioni di lungo periodo di questi eventi né di quello che accadrà all’economia reale.
Sebbene le analisi di consenso si concentrino in prevalenza sui rischi di ricadute dovute a possibili ritorni del contagio, è molto più importante pensare alle conseguenze economiche che ci attendono senza ulteriori ipotesi.
Ipotizzare altri danni provenienti dai rischi di un ritorno dei contagi non credo sia un esercizio utile, anche perché se dovesse accadere, tutti siamo consapevoli di quello che potrebbe accadere. È molto più interessante invece cercare di capire cosa ci si puo’ attendere, dando per scontato che il problema pandemico sia risolto, e ipotizzando quindi uno scenario “virus free”.
L’economia mondiale è arrivata all’appuntamento con il Covid 19 nella peggiore delle situazioni possibili, con alta vulnerabilità al debito e alla leva finanziaria speculativa, e la pandemia ha avuto un effetto catalizzatore su tutta una serie di problemi che ormai erano evidenti da tempo.
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Lasciamo un attimo le miserie del nostro
presente e proviamo a riprendere il filo
delle grandi questioni di fondo. Visto che negli ultimi anni
si è più o meno ricominciato a parlare con una certa forza di
socialismo e
neosocialismo, e visto che, contrariamente a quanto pensano i
nostri battaglieri anti-sovranisti, vi sono innumerevoli
persone
dall’indiscutibile profilo democratico che si riconoscono
apertamente anche in principî schiettamente “comunisti”,
vorrei
azzardarmi a gettare alcuni sguardi che esplicitino e
chiariscano aspetti e concezioni provenienti da queste
tradizioni nei quali possano riconoscersi
anche i moderni socialdemocratici, e che mi sembrano più utili
ad orientare una politica ispirata a tali concetti – per altri
e molti
ovvi aspetti ormai irrimediabilmente compromessi e
irricevibili. Qui cercherò di restare su un piano ancora
generale e limitato ad alcuni
principi economici, data l’impossibilità di presentare
compiutamente e in poche pagine tra i concetti più discussi e
dibattuti
degli ultimi due secoli.
La ripresa di un’idea di comunismo e socialismo che sia capace di integrare in sé anche i valori democratici fondamentali della nostra tradizione europea (dall’Habeas Corpus alla divisione dei poteri e alle libertà di movimento, associazione, parola, espressione, religione, ecc.), cioè che non corra il rischio di ammiccare e prestare il fianco a forme sempre latenti di negazione del pluralismo, deve a mio avviso basarsi in particolare sui concetti di democrazia radicale, e di democrazia economica.
La merce fu il punto di partenza di Marx per la
sua critica al capitalismo.
Può essere definito come il prodotto del lavoro umano mediato
dallo scambio. E ciò che chiamiamo "forma delle merci" non è
altro
che la trasformazione dei prodotti del lavoro in merci. Ma la
merce sarebbe un elemento caratteristico, specifico o
addirittura esclusivo del modo di
produzione capitalista? Quando e dove il prodotto del lavoro
umano è apparso per la prima volta in forma di merce?
Queste domande sono importanti, poiché la teoria di Sohn-Rethel si basa sul presupposto che la forma delle merci ha assunto un ruolo importante, come nesso sociale, sia nell'Antica Grecia che nel capitalismo. La domanda a cui dobbiamo rispondere, quindi, è: come possono gli stessi elementi (merce e denaro o forma di merce) costituire allo stesso tempo la sintesi sociale dell'Antica Grecia e del capitalismo, e di conseguenza offrire forme di conoscenza diverse, rispettivamente la filosofia greca e la scienza moderna? Questo problema ci impone di abbandonare la teoria di Sohn-Rethel o, al contrario, possiamo specificarla in modo che questa incoerenza possa essere risolta?
Sembra consensuale concepire l'emergere delle merci molto prima dell'emergere del capitalismo. E non solo per la merce, ma anche per il denaro. Tuttavia, la data esatta è molto difficile da specificare. Lo scambio di merci, secondo Engels, risale "a un'era precedente a tutta la storia scritta, che risale in Egitto ad almeno 3.500, forse 5.000 anni, a Babilonia, a 4.000 e forse 6.000 anni prima della nostra era".
Sohn-Rethel calcola che il denaro è diventato necessario dal VI secolo a.C. nelle transazioni verso l'estero per l'acquisizione di cereali da Naukratis e Ponto e per l'acquisizione di olio d'oliva e vino dall'Attica.
I miei ricordi di 15/20 anni fa, quando ero un libero pensatore appena diventato adulto in cerca della mia dimensione, mi riportano alle manifestazioni di piazza contro la guerra in Iraq, che portarono per le strade di mezzo mondo lo stupefacente numero di 110 milioni di persone, al G8 di Genova del 2001, con il suo carico di conflitti e drammi, ma anche con la partecipazione di migliaia e migliaia di persone da tutto il mondo, mosse dalla ferrea volontà di trovare una via diversa dalla globalizzazione neoliberista (e, a posteriori, si può dire che avessero ragione da vendere); ripenso all’epopea della lotta No TAV, partita nei primi anni ’90 con un agguerrito comitato locale e trasformatasi nel tempo in un modello di resistenza esportabile ovunque. E tanti altri sono gli esempi che potrei fare, di lotte territoriali o universali poco “mainstream”, perlopiù sgradite al potere e stigmatizzate dai media, che nella mia adolescenza e nella mia prima giovinezza richiamavano masse ragguardevoli, incuranti dell’ostilità del sistema, mosse dal desiderio di costruire un mondo più giusto.
Con piacere vi presentiamo questa traduzione di un pezzo di David P. Goldman apparso su “Asia Times” in cui si analizza la ripresa delle economie e dei sistemi asiatici dopo la crisi del coronavirus. Possiamo parlare di maggio 2020 come del mese in cui ufficialmente è iniziato il “secolo asiatico”? Nell’articolo Goldman spiega perchè non si tratta di un’ipotesi così azzardata
Gli storici dell’economia potrebbero indicare la data d’inizio del “secolo asiatico” nel maggio 2020, quando la maggior parte delle economie asiatiche hanno ripreso il sentiero della piena occupazione mentre l’Occidente languiva nel lockdown dovuto alla pandemia di coronavirus. L’Asia è gradualmente emersa come una zona economica tanto integrata quanto l’Unione Europea, sempre più isolata da shock provenienti dagli USA o dall’Europa.
I dati quotidiani di Google sulla mobilità utilizzano la geolocalizzazione degli smartphone per determinare il numero di persone che si recano a lavoro e rappresentano di gran lunga le più accurate e aggiornate indicazioni sull’attività economica. Al 13 maggio Taiwan, Corea del Sud e Vietnam erano tornate alla normalità, Giappone e Germania rimanevano il 20% sotto il normale, mentre Stati Uniti, Francia e Regno Unito erano paralizzati. Google non può acquisire letture simili in Cina, ma le evidenze indicano che il Paese è sulla stessa pista di Taiwan, Corea del Sud, Vietnam.
Qualche sera fa, mentre sorseggiavo il bicchiere della staffa in un bar di montagna, sono stato avvicinato da un tizio del posto – alquanto alticcio a dire il vero – che dopo aver inneggiato a passati regimi ha preso a insolentire il governo Conte, reo (a suo dire) di fare politiche “comuniste” favorendo chi non ha voglia di lavorare ed affossando le imprese. Il mio improvvisato interlocutore é risultato essere un piccolissimo imprenditore (lui stesso ha affermato di non avere alcun dipendente) dall’aspetto trasandato, ma emergeva da ogni sua parola la fierezza di appartenere alla classe dei produttori.
Al netto di certe colorite professioni di fede gli stessi toni e contenuti del discorso udito in osteria li ho ritrovati nella famosa intervista rilasciata dal Presidente di Confindustria Bonomi, che ha accusato l’esecutivo di regalare soldi a pioggia a chi non fa nulla per meritarli anziché sostenere le imprese in difficoltá e – evocato con compiacimento lo spettro di massicci licenziamenti futuri – ha reclamato l’adesione dell’Italia al MES. Costi quel che costi, tanto – sará stato il suo retropensiero – a pagare gli interessi saranno chiamati, come di regola accade, i percettori di redditi fissi.
Se le misure della cosiddetta fase 2 divenissero strutturali, ne potrebbe conseguirebbe uno stravolgimento nel settore turistico ed un inimmaginabile decadimento della qualità di vita dei lavoratori
Si possono fare alcune semplici riflessioni inerenti il futuro prossimo, con particolare riguardo alla società occidentale in cui viviamo nella quale si è assistito, negli ultimi decenni, ad una progressiva diffusione in tutti gli strati sociali di un certo modello di consumo, in cui viaggi, spettacoli, "cultura" e "grandi eventi" hanno avuto un peso crescente a livello di stile di vita e di giro d'affari: il solo turismo costituisce oggi il 13% del PIL italiano, cui va aggiunto l’indotto e senza contare l’industria “culturale”, cinema, spettacoli, teatro, fiere e grandi eventi.
Si pensi al prezzo del biglietto degli aerei ridottosi progressivamente con la nascita di compagnie aeree low cost, con sedili sempre più ravvicinati e posti riempiti sempre al 100% (e oltre, con l’overbooking), alla diffusione delle crociere a prezzo “abbordabile”, ai pacchetti turistici economici, all'incremento dell'offerta dei treni ad alta velocità.
Un recente studio ha esaminato la letteratura accademica che ha indagato sugli effetti occupazionali delle politiche di deregolamentazione del lavoro tra il 1990 e il 2019. Risultato: lo slogan liberista non ha solide basi scientifiche. Anzi, la “flessibilità” invocata ancora oggi da Confindustria e da alcuni esponenti di governo comporta depressione dei salari e deflazione da debiti. Intervista a uno degli autori, l’economista Emiliano Brancaccio
“Confindustria e alcuni consiglieri del governo vorrebbero fronteggiare la crisi con dosi ulteriori di precarizzazione del lavoro. Ma la ricerca scientifica ha dimostrato che questa ricetta non favorisce l’occupazione e alimenta solo le disuguaglianze”. L’economista Emiliano Brancaccio contesta alla radice la proposta di Marco Leonardi -consigliere del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri- di sospendere le causali sui contratti a tempo determinato per stimolare le assunzioni. Intellettuale critico abituato a confrontarsi con i massimi esponenti dell’ortodossia economica, nel marzo scorso Brancaccio ha pubblicato sul Financial Times un appello per un “piano anti-virus” finalizzato a contrastare la grande crisi con strategie alternative rispetto alle ricette liberiste prevalenti.
Ludovico Lamar: In morte della capacità critica
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Nel corso della storia le guerre e le epidemie
hanno periodicamente sconvolto le
strutture economiche e sociali create dall’uomo. Secondo la
maggior parte degli studiosi questi shock hanno avuto un
effetto sia distruttore che
equilibratore, spazzando via enormi ricchezze e quindi
riducendo le disuguaglianze accumulatesi nel tempo. Oggi non
sappiamo ancora quali saranno gli
effetti del Coronavirus. C’è chi sostiene che i ricchi sono
meglio attrezzati ad affrontare gli sconvolgimenti innescati
dal contagio, e
che quindi le disuguaglianze aumenteranno ulteriormente nel
prossimo futuro. Altri invece intravedono la possibilità che
una società
più giusta ed equilibrata possa emergere dalla crisi.
Thomas Piketty è uno di questi. Circa sette anni fa usciva nelle librerie di mezzo mondo la traduzione di un voluminoso libro intitolato Il capitale nel ventunesimo secolo. Sarebbe diventato uno dei fenomeni editoriali del decennio, con centinaia di migliaia di copie vendute, elogiato da celebrità e premi Nobel. Nonostante le dimensioni (circa mille pagine), Il capitale nel ventunesimo secolo è un esempio interessante di scienza sociale accessibile al lettore medio. Utilizzando decine di grafici e pochissima teoria, Piketty sostiene una tesi molto semplice: dopo un periodo di declino nella parte centrale del ventesimo secolo, la disuguaglianza nell’accumulazione del capitale, all’interno della maggior parte dei paesi del mondo, è tornata ad aumentare in maniera vertiginosa, e continuerà a farlo.
Nel contesto della recessione seguita al crollo dei mercati finanziari, il successo del Capitale nel ventunesimo secolo non è difficile da spiegare. Il messaggio principale — la disuguaglianza è aumentata molto — è accompagnato da un’altra tesi largamente condivisa: la disuguaglianza è aumentata troppo, e dobbiamo intervenire rapidamente per invertire o almeno fermare questo trend.
Mi è stato chiesto
dalla redazione della nuova rivista Cumpanis un
contributo sulla storia del PCI, con il
tentativo di identificare le “degenerazioni”
dell'organizzazione. “Degenerazione” è in effetti una brutta
parola, che
esprime in sé un netto giudizio politico negativo. È
comprensibile che su questo tema si sia preferito utilizzare
in passato un
più neutro “mutazioni genetiche”, cercando di mantenere un
giudizio descrittivo più che valoriale. D'altronde che ci sia
stata complessivamente una degenerazione è innegabile. Basta
ricordare l'adeguato sarcasmo con cui Costanzo Preve ha
denunciato il passaggio
“da Gramsci a Fassino” per rendere innegabile questo giudizio
negativo. Forse è più corretto parlare di un susseguirsi e di
un intrecciarsi di mutazioni genetiche, che sfociano in alcuni
punti di svolta, veri e propri passaggi storici, in cui è
avvenuto un
cambiamento identitario, con un salto quantitativo e
qualitativo, che rende il partito complessivamente sempre meno
adatto ad affrontare la crisi
generale del movimento comunista internazionale degli anni
'80. L'insieme di queste mutazioni genetiche ha portato nel
tempo ad una degenerazione,
cosa acquisita quanto meno nel movimento comunista nostrano.
C'è molta divisione invece sull'identificazione e sull'entità
delle varie
mutazioni genetiche avvenute nel corso della storia del
movimento comunista italiano. Tali divisioni analitiche si
riverberano purtroppo in divisioni
politiche che rendono molto più difficile l'azione egemonica
in seno al totalitarismo “liberale” in cui siamo immersi.
Dopo oltre 10 anni di militanza partitica e ricerca storico-politica, non posso certo pretendere di poter esaurire un lavoro di ricerca vastissimo, sul quale molti compagni si sono dedicati con profitto sicuramente maggiore negli ultimi anni.
![]()
L’astratto
e il concreto sono sincretici, in quanto l’astratto è
il movimento di astrazione dal concreto. Ogni teoria è
elaborata secondo un doppia movimento: il concreto è
analizzato nelle sue
innumerevoli variabili in movimento, ma vi è la necessità di
astrarre da esse gli elementi principali riconfigurati in
strutture
stabili, in tale maniere sono sistematizzati. Le categorie che
un autore ci offre e dona non sono applicabili in modo
pedissequo al concreto, ma
devono essere curvate alle diverse condizioni socio-storiche,
in cui si è situati e che differiscono dal contesto
dell’autore. Vi
è sempre uno scarto tra l’autore ed il lettore, il quale
dev’essere attraversato con la fatica della
riconcettualizzazione.
Costanzo Preve nella lettura di Marx si è posto l’obiettivo di approssimarsi all’autore giudicandolo come autore classico della storia della filosofia. Le categorie e scoperte marxiane non riassumono l’intero del reale, ma consentono di utilizzare paradigmi interpretativi astratti dal reale concreto, i quali devono essere mediati dalle contingenze, e specialmente, devono fungere da forza plastica per elaborare nuovi processi dialettici e di significato. Non pochi marxisti, rileva Preve, nel loro dogmatismo hanno trasformato la parola di Marx in formule da applicare al reale concreto con l’effetto inevitabile di sclerotizzare la pluralità dei modelli organizzativi viventi nella storia in categorie insufficienti alla lettura del reale, la conseguenza è stata una scissione tra partito e storia reale, tra intellettuali e popoli, tale contraddizione adialettica ha favorito il fallimento dell’esperienza comunista:
I meno scemi si erano chiesti come mai, di fronte al tracollo dell’economia reale fermata dal Covid – Pil sotto zero, utili distrutti, imprese che chiudono o rivedono drasticamente le previsioni, ecc – le borse potessero continuare a stabilire record positivi, come se la questione non le riguardasse.
In fondo, dicono i manuali del neoliberismo, i valori azionari rappresentano le attese sui profitti delle aziende. Addirittura con codificazioni “ottimali” (il price/earnings, ovvero il rapporto tra prezzo dell’azione e ricavi futuri è considerato “normale” se oscilla intorno a 16/1).
Ieri la tregua è finita e tutte le borse mondiali hanno subito mazzate da paura. A Wal Street il Dow Jones ha perso il 6,9%, il Nasdaq -5,27. Quelle europee erano cadute grosso modo nelle stesse dimensioni: Madrid – 5,04%, Parigi -4,71, Milano -4,81, Francoforte -4,47, Londra -3,99. Quelle asiatiche, molto più differenziate tra loro, si erano mosse nello stesso solco.
Stamattina tutti più calmi, ma la tendenza è comunque al ribasso, anche se moderato. Nessun “rimbalzo”, insomma. Solo intorno a mezzogiorno ci sono stati timidi recuperi che hanno portato “in terreno positivo”.
In Italia da tempo è aperto il dibattito sull’adesione del Paese alle nuove linee di credito del Meccanismo europeo di stabilità. Il Mes fornirebbe 36 miliardi di euro per programmi di potenziamento del sistema sanitario: cifra che da un lato coprirebbe gli oramai celebri 37 miliardi di euro di tagli ai finanziamenti di cui i governi partecipati o diretti dal centrosinistra si sono resi responsabili nello scorso decennio ma dall’altro aprirebbe numerosi scenari problematici. Il Mes, come è noto, garantirebbe prestiti a basso tasso d’interesse che finirebbero per rendere subordinati nel rimborso i titoli di Stato di cui l’Italia ha conosciuto un’eccedenza di domanda e non garantisce la certezza che le condizionalità in termini di riforme strutturali non siano inserite in un secondo momento.
Il Meccanismo non è ancora stato attivato ma c’è già chi si porta avanti e immagina come spendere i miliardi che potrebbero arrivare. “M&M – Idee per un Paese migliore”, l’associazione presieduta da Fabrizio Pagani che riunisce centinaia tra manager, imprenditori, professionisti, accademici, assieme alla Fondazione Cerm – Competitività, Regole, Mercati, presieduta da Fabio Pammolli, ha messo in campo un articolato piano che intende presentare all’esecutivo per indicare la migliore utilizzazione possibile dei prestiti del Pandemic Crisis Support del Mes.
Information is power. But like all power, there are those who want to keep it for themselves. Aaron Swartz, Guerrilla Open Acces Manifesto (2008)
Una delle domande che ci assilla in questa fase di crisi acuta dovuta alla diffusione del Covid 19 è: quando – e se – arriverà il vaccino. Solo con la sua scoperta sembra oggi possibile superare completamente la condizione emergenziale che stiamo vivendo. La domanda sui tempi, che viene continuamente ripetuta a studiosi e ricercatori di vario genere, lascia però inevasa un’altra questione – a mio avviso – molto più rilevante: in quale maniera si arriverà a produrre il vaccino? In modo alquanto schematico si possono ipotizzare due strade per la messa a punto di un vaccino efficace.
La prima presume che tutti gli studi dei diversi gruppi di ricerca sparsi per il mondo ed i risultati via via conseguiti sul vaccino – oltre che, evidentemente, sulle terapie di cura efficaci – vengano tra loro condivisi, in modo tale che ciascuno possa trarre beneficio delle conoscenze alle quali sono giunti gli altri, accelerando in questa maniera i tempi per arrivare al risultato auspicato.
Si discute attualmente su quanti e quali finanziamenti l’Italia riceverà dall’Unione europea e a quali condizioni.
Da Bruxelles arrivano messaggi tranquillizzanti. Ma poiché tali finanziamenti saranno forniti per la maggior parte sotto forma di prestiti, diversi economisti avvertono che c’è il pericolo di un forte indebitamento e di una ulteriore perdita di sovranità economica.
L’attenzione politico-mediatica si concentra quindi sui rapporti tra Italia e Unione europea. Tema importante, che non può però essere separato da quello dei rapporti tra Italia e Stati uniti, di cui in parlamento e sui grandi media nessuno discute.
Si continuano così a ignorare le implicazioni del piano di «assistenza» all’Italia varato il 10 aprile dal presidente Trump (il manifesto, 14 aprile 2020).
Eppure l’ambasciatore Usa in Italia, Lewis Eisenberg, lo definisce «il più grande aiuto finanziario che gli Stati Uniti abbiano mai dato a un paese dell’Europa occidentale dal 1948, dai tempi del Piano Marshall».
Karl Marx (1818-1883), come Adam Smith (1723-1790) e l'economia inglese classica, ritenevano che il lavoro fosse la fonte di tutta la ricchezza della civiltà. Solo il lavoro produttivo aggiunge valore e genera profitto nel processo di trasformazione della natura, creando beni e servizi per soddisfare la domanda del mercato di consumo. Molte persone pensano che i robot, sostituendo l'occupazione umana, entrerebbero nella teoria del valore. Tuttavia, i robot (non importa quanto siano simili alle persone) entrano nella parte che rappresenta il capitale nel processo di produzione.
Indubbiamente, i robot aumentano la composizione tecnica e la composizione organica del capitale e, a lungo andare, invece di generare valore, possono semplicemente contribuire alla riduzione del tasso di profitto complessivo dell'economia capitalista. Vediamo cosa ci dice il modello marxista della teoria del valore.
Nel regime capitalista, il processo di produzione è costituito da due elementi: lavoro (T) e capitale (K). Il lato di lavoro dell'equazione (T) è diviso in due parti: lavoro retribuito (v) e lavoro non retribuito o plusvalore (m).
In mezzo al caos, alla crisi globale incombente, al dolore e alla sofferenza, c’è almeno una cosa che tutti hanno colto: c’è qualcosa di sbagliato nell’economia
«Il Capo dello Stato ha deciso di
istituire una commissione di esperti internazionali per
prepararsi alle grandi sfide», ha
scritto Le Monde il 29 maggio e i giornalisti hanno
aggiunto: «Si è deciso di preferire una commissione omogenea
per
profili e competenze, per raccogliere le opinioni degli
accademici sulle grandi sfide. Ma il loro lavoro non sarà che
un mattone tra gli altri,
non esaurirà gli argomenti’, hanno rassicurato dall’Eliseo».
Perché non mi sono sentito affatto
«rassicurato»? Mi è tornata alla mente la Restaurazione, alla
quale la Ripresa dopo il lockdown è
probabile che assomigli sempre più: come per i Borboni del
1814, è molto probabile che la suddetta commissione,
quantunque composta da
menti eccelse, non abbia «dimenticato nulla e non abbia
imparato nulla».
Sarebbe invece un peccato dissipare troppo rapidamente tutti i benefici di ciò che Covid-19 ha mostrato essere essenziale. In mezzo al caos, alla crisi globale incombente, al dolore e alla sofferenza, c’è almeno una cosa che tutti hanno colto: c’è qualcosa di sbagliato nell’economia. In primo luogo, naturalmente, perché sembra che se ne possa interrompere il funzionamento in un colpo solo. Non appare più come un movimento irreversibile, che non dovrebbe mai rallentare, né, naturalmente fermarsi, pena il disastro. In secondo luogo, perché tutti coloro che si sono trovati rinchiusi in casa hanno capito che i rapporti di classe, che si sosteneva seriamente che fossero stati cancellati, sono divenuti visibili come ai tempi di Dickens e di Proudhon: alla gerarchia dei valori è stato inferto un duro colpo, che aggiunge un nuovo significato alla famosa massima evangelica: «I primi (in cordata) saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi (nella corvée)»[1] (Matteo,19-30)…
Non ce ne
voglia l’ignaro e simpatico felino, ma l’immagine è perfetta.
In Borsa il “rimbalzo
del gatto morto” descrive la ripresa, modesta e temporanea, di
un titolo destinato a ricominciare alla svelta la sua corsa
verso il basso. Che
è esattamente quello che sta facendo l’economia italiana, nel
suo complesso, dal 2008.
Nella figura sopra questo fenomeno è evidentissimo. Il primo “rimbalzo del gatto morto” si registra nel 2010-2011, poi seguito da una nuova recessione e da una sostanziale stagnazione fino al 2015. Qui inizia la ripresina del 2016-2018, il secondo balzo del micio deceduto, che ci condurrà alla stagnazione del 2019, fino alla catastrofica situazione attuale. Quando il grafico dell’Istat riporterà il tracollo in corso, il disastroso andamento dell’economia italiana risulterà ancora più chiaro.
Ma perché iniziare un articolo sulle prospettive economiche attuali con queste considerazioni? Primo, perché il passato, specie se non si cambia strada, ci parla inevitabilmente del futuro.
Secondo, perché la crisi del Covid è sopraggiunta quando l’economia italiana (e non solo) era già sull’orlo di una nuova recessione. Terzo, perché (come vedremo) tutte le previsioni economiche del momento indicano al massimo un nuovo rimbalzo del gatto morto. Quarto, perché gli effetti di lungo periodo dell’appartenenza all’eurozona solo questo consentono.
Pubblichiamo questa analisi
mentre ci prepariamo a scendere a Roma per la manifestazione
nazionale del 10 giugno davanti al MIUR che
abbiamo costruito insieme agli studenti medi
dell’Opposizione Studentesca d’Alternativa e alle strutture
sindacali delle educatrici delle
funzioni locali, della scuola, dell’università e della
ricerca della USB pubblico impiego. Una data che è il punto
di arrivo di un
percorso avviato in questi mesi di lockdown dalla campagna
blocco affitto e utenze per giovani, studenti e precari e
successivamente dai coordinamenti
regionali per il diritto allo studio. Appuntamento che
rappresenta una convergenza su una progettualità di lungo
periodo di forze
rappresentative di tutti i soggetti che compongono il mondo
dell’istruzione, dell’alta formazione e della ricerca che
lottano per un nuovo
sistema formativo e di gestione della ricerca e dei saperi
svincolati dalle esigenze del mercato e costruito a partire
da una comprensione profonda
della funzione di crescita generale e collettiva della
società. Un punto di resistenza per un rilancio complessivo
delle lotte nel mondo della
formazione verso un autunno di lotta!
* * * *
In questo contributo analizziamo come la situazione emergenziale legata al diffondersi del Covid-19, virus con il quale probabilmente dovremo fare i conti ancora per diverso tempo, sia un’occasione per accelerare il processo di esclusione sociale e aziendalizzazione dell’istruzione universitaria.Un processo al quale dobbiamo saperci opporre fermamente.
Infatti, quando parliamo degli effetti che la crisi del Coronavirus avrà sull’Università e in generale sulle nostre vite dobbiamo tenere a mente le lapalissiane parole di Vittorio Colao, designato dal governo Conte per guidare la task force della cosiddetta “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese dopo la pandemia sanitaria. Ossia, «abbiamo l’opportunità di fare in ognuno di questi campi cose che avrebbero richiesto molto più tempo. Mai lasciarsi sfuggire una crisi»[1].
Elisabetta Teghil, Mai contro sole, Bordeaux 2018
«La
“vera
democrazia” si attuerà quando saremo tutt* colpevol*.»
La nostra società si sta esprimendo ed ha compiuto atti importanti nella realizzazione dello sfruttamento illimitato. Questa violenza strutturale si è incarnata nell’ideologia neoliberista che è una sorta di macchina infernale e che è stata veicolata attraverso la divinizzazione del potere dei mercati. Sotto gli occhi di tutti ci sono gli effetti di questa nuova organizzazione sociale a partire dalla miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate e lo straordinario aumento del divario fra i redditi. Quindi, un’affermazione scomposta della vita personale intesa come una sorta di darwinismo che instaura la lotta di tutti contro tutti, il cinismo come norma, la ricchezza come premio di questa selezione, la traduzione nella vita quotidiana con l’assuefazione alla precarietà, all’insicurezza e all’infelicità che permea l’esistenza. Con una precarizzazione così diffusa da ridurre il lavoratore/trice a mano d’opera docile sotto la permanente minaccia della disoccupazione. L’aspetto paradossale è che questo ordine economico e sociale si spaccia e si promuove sotto il segno della libertà e addirittura come società armoniosa.
E’ questo un momento storico che produce un inaudito cumulo di sofferenze. Tutto ciò a partire dal dominio assoluto della flessibilità con contratti a tempo determinato, con assunzioni ad interim, con una concorrenza spietata, non più quella tradizionale fra imprese, ma oggi all’interno della stessa impresa tra lavoratore e lavoratore con l’individualizzazione del rapporto salariale, con l’introduzione di colloqui preassunzione e successivamente di valutazione individuale. La valutazione permanente con una forte dipendenza gerarchica, con lo spacciare i lavoratori come categoria di operatori autonomi, con l’estensione a tutti del ”coinvolgimento” si traduce in un iperinvestimento sul lavoro e in una perenne condizione di insicurezza che tende ad abolire i riferimenti e le solidarietà collettive.
Nonostante lo scoppio dell’ennesima crisi economica (questa volta innescata da un virus) abbia – almeno a parole – messo in discussione – e quindi in crisi – molti dei pilastri su cui si è basata la politica economica degli ultimi 30/40 anni, le soluzioni proposte sono nel segno della piena continuità delle politiche liberiste e ordoliberiste.
In estrema sintesi, poco Stato e al servizio del privato.
Eppure la Storia, anche recente, ci racconta un’altra realtà. Ci racconta del fallimento del modello economico dominante. O meglio, del fallimento per la stragrande maggioranza dei lavoratori, degli artigiani e delle PMI. Un grande successo, invece, se visto dal portafoglio del 10% più ricco della popolazione. Ancora di più dell’1%. Per non parlare dello 0,1%.
Eppure è lo Stato il motore dell’innovazione, non il privato. È lo Stato che può mediare il conflitto sociale, facendo diminuire le disuguaglianze. È il mercato interno la vera ricchezza di un Paese, non quello estero. È la tutela del lavoro a far aumentare la produttività, non la sua precarizzazione. Sono i salari dignitosi a far girare l’economia di un Paese, non la globalizzazione dei prodotti a basso costo.
“Se si perdono i ragazzi più difficili la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati (Don Milani)”.
Da alcuni giorni è stato approvato il decreto scuola con il quale di fatto si legifera di salvare questo strano e osceno anno scolastico. Ovviamente l’indecenza viene coperta con la solita vuota retorica scolastica che elogia l’obbiettivo di aver messo gli studenti al centro degli interessi della repubblica, che è stata comunque garantita, nonostante l’epidemia, la qualità dell’istruzione e il diritto allo studio. Nel decreto si stabiliscono tra l’altro, la modalità dello svolgimento degli esami di stato sia per scuola media che per le superiori, l’abolizione del voto nella scuola primaria con il ritorno al giudizio descrittivo, il concorso per la messa in ruolo degli insegnati, il conferimento fino al 31/12/2020 di poteri commissariali ai sindaci per intervenire sull’edilizia scolastica, i nuovi percorsi abilitanti per i neo laureati, modifiche alle graduatorie per i supplenti e altro. La ministra dell’ istruzione ha commentato:
“È un provvedimento nato in piena emergenza che consente di chiudere regolarmente l’anno scolastico in corso. Il testo è stato migliorato durante l’iter parlamentare grazie al lavoro responsabile della maggioranza di governo. Con l’obiettivo di mettere al centro gli studenti e garantire qualità dell’istruzione. Ora definiamo le linee guida per settembre, per riportare gli studenti a scuola, in presenza e in sicurezza”.
Con un commento in calce di Nicola Volpe
Ho appena letto questi due articoli, il primo dell’amico Diego Melegari e di Fabrizio Capoccetti e il secondo di Lorenzo Biondi.
Non condivido la loro tesi che è di fatto la stessa. Che cosa fanno, semplificando in estrema sintesi e se volete anche banalizzando (la comunicazione sui social impone purtroppo il ricorso a messaggi brevi, rapidi e molto semplici…) questi amici e compagni?
Tirando (molto…) per la giacchetta il Preve e soprattutto il Marx-pensiero, ci dicono che siccome ormai il proletariato è morto – nel senso che non esiste più nei termini e nelle forme storiche in cui lo stesso Marx lo ha conosciuto ed individuato come soggetto “ontologicamente” ed oggettivamente rivoluzionario e quel che ne resta è stato prima castrato e “imborghesito” dalla socialdemocrazia (questo loro non lo hanno scritto ma è nelle cose, ed è anche vero sotto un certo profilo) e poi spappolato (anche ideologicamente) dal liberalismo e dal neoliberalismo – bisogna cambiare completamente il soggetto di riferimento potenzialmente rivoluzionario (quel potenzialmente pesa come un macigno…) e forse “oggettivamente” rivoluzionario (pensano loro).
Antiper, Dal razzismo biologico al razzismo culturale. Riflessioni a partire da Pierre-André Taguieff, Le racisme | Trad. it. di F. Sossi, Il razzismo, Raffaello Cortina, Milano, 2016
Nel linguaggio contemporaneo il termine razza sta diventando obsoleto mentre quello di razzismo viene usato in un numero sterminato di contesti come sinonimo di espulsione, rigetto, ostilità, odio… Occorrerebbe pertanto cercare di individuare alcuni criteri che ci permettano di comprendere meglio questo fenomeno che (solo) apparentemente sembriamo conoscere così bene.
Per prima cosa occorre dire che il razzismo non si presenta mai allo stato puro. Non esiste il razzismo “in astratto”. Il razzismo che esiste, esiste in una grande varietà di forme diverse, sempre implicite nel nazionalismo, nell’imperialismo (coloniale e non), nell’etnicismo, nel cosiddetto “darwinismo sociale” e in molti altri fenomeni.
Se ad esempio consideriamo ciò che sta avvenendo in questi giorni negli Stati Uniti osserviamo che il razzismo ha caratteristiche del tutto peculiari a quella situazione storico-sociale: marcate disuguaglianze economiche e sociali, una certa distribuzione del potere tra i ceti dominanti e le minoranze (in particolare quella nera), una spaventosa concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi… Questi elementi sono poi legati a doppio filo ad una lunga storia di segregazione contro la popolazione nera e più in generale contro le minoranze.
Era francamente difficile immaginare un piano così desolante come quello presentato da Colao. Le 121 slide di cui si compone colpiscono soprattutto per l’assenza di un’idea portante, capace di tenerle insieme, che non sia il logoro canovaccio di ciò che è già stato e che si vuole continuare a fare esistere. Proprio in una situazione come l’attuale vi sarebbe bisogno di un indirizzo chiaro.
E coraggioso tale da rompere con una continuità non solo improponibile ma suicida. Il piano si articola in sei grandi capitoli, i cui titoli già indicano come non ci si voglia discostare da una normalità malata.
Da un lato dominano banalità e genericità. Cosicché assistiamo ad affermazioni difficilmente contestabili perché prive di contenuti valutabili. Può forse qualcuno sostenere che la Pubblica amministrazione non debba essere alleata di cittadini e imprese? Dall’altro lato si cade in affermazioni sconcertanti, come quella di considerare il turismo, l’arte e la cultura semplicemente un “brand del Paese”.
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Fabio Rontini: La tesi di Costanzo Preve che spaventa i marxisti italiani
2020-03-18 - Hits 1793
È ormai innegabile quanto la
lettura che si fa di Guy Debord, spesso, porti con sé il peso
di una serie
infinita di approssimazioni, vuoi per una certa attitudine
alla distrazione di alcuni lettori (non sempre in buona fede)
che non gli cedono il giusto
posto tra le letture marxiste e vuoi perché, sia lo stesso
personaggio che il proprio enunciato, risultano spesso
criptici o, comunque,
rivestono quell’alone misterioso di chi si è tenuto a debita
distanza, non facendosi avvicinare se non da pochi e facendosi
comprendere
solo da chi lo leggeva cogliendo i suoi intenti «di nuocere
alla società spettacolare»; a tal riguardo davvero «non ha mai
detto nulla di eccessivo»[1] e, dal lato della barricata
da
cui poteva vantare di essersi posto, ha semplicemente detto
ciò che andava detto, senza mezzi termini o sterili
avvitamenti.
Sono del parere che le frasi più suggestive per meglio comprendere Debord, sia nella persona che nel pensiero, siano state pronunziate da chi lo conobbe personalmente. Mario Perniola lo ha definito in più occasioni «il pensatore più estremista della seconda metà del Novecento». Gianfranco Sanguinetti, a ben ragione, afferma che «senza la teoria dello spettacolo elaborata da Debord questo mondo rimarrebbe del tutto incomprensibile e incerto». Ma lungo una vita intera in cui le amicizie, seppur importanti, si sono sempre rapidamente succedute una dietro l’altra tra allontanamenti, spesso ingiustificati o proprio incomprensibili, dure critiche e tristi rotture, la più bella frase su Debord, a parer mio, è quella massima che scrisse a suo tempo Asger Jorn, l’unica amicizia che mantenne intensamente sino alla fine, senza mai separarsene o allontanarsene[2], in un sincero e continuo scambio di affetto e stima reciproca: «Guy Debord n’est pas mal connu; il est connu comme le mal»[3].
Le risorse messe in campo per contrastare gli effetti della crisi più grave del dopoguerra sono incomparabilmente minori di quelle varate da Stati Uniti o Giappone. Si continuano a seguire regole fallimentari: quando verrà chiesto all’Italia di tornare all’austerità, dovrà essere il nostro governo a prendersi la responsabilità di rifiutare
Ciò che maggiormente ci colpisce
della pandemia del coronavirus è che conosciamo le conseguenze
della malattia in molti, troppi casi irreparabili, ma non ne
conosciamo il rimedio. La scienza medica ha bisogno di tempo.
Il coronavirus
c’impone in altri termini una fase più o meno lunga
d’incertezza.
Non possiamo dire altrettanto delle sue conseguenze economiche. Conseguenze devastanti dal punto di vista sociale. Vi è un consenso sul fatto che si tratti della più grave crisi economica del dopo guerra. Il crollo dell’economia, la disoccupazione, il disagio sociale non si sono mai manifestati con altrettanta rapidità e ampiezza.
1. La pandemia ha investito l’intero pianeta e non ha risparmiato i paesi abituati a una condizione di benessere. La reazione dei governi è stata tuttavia diversa. Sono indicativi i casi degli Stati Uniti e del Giappone.
Negli Stati Uniti, Trump aveva inizialmente deliberato per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della pandemia un intervento di mille miliardi di dollari, un intervento manifestamente inadeguato. Il partito democratico ha imposto un investimento di risorse prossimo a 3000 miliardi di dollari. In sostanza, una mobilitazione di risorse pari a poco meno del 15 per cento del reddito nazionale. Per avere un termine di confronto, nel corso della crisi del 2008-2009, Paulson, ministro del tesoro di Bush, e poi Barack Obama, eletto alla presidenza, misero in campo 1500 miliardi per il salvataggio del sistema bancario e la ripresa dell’economia.
Ancora più significativo e stupefacente è l’intervento del governo giapponese che, avendo stanziato inizialmente risorse equivalenti a mille miliardi di dollari, nelle settimane successive le ha aumentate fino a un ammontare equivalente a 1700 miliardi – una dimensione equivalente a circa il 30 per cento del reddito nazionale giapponese.
Alessandro, benvenuto.
Te lo dice uno che ti segue da molti anni, ti conosce e del quale ricevi regolarmente i lavori, scritti e filmati, con particolare attenzione al Movimento 5 Stelle e a quello che tutti non possono non aver percepito come il progressivo declino e allontanamento dalle premesse sulle quali era nato ed era arrivato a prendere il 33% del voto espresso da italiani non rassegnati.
Sei rientrato sulla scena pubblica con l’intervista in cui ha chiesto, come legittimamente spetta a te, figura di primissimo piano del Movimento, come anche a qualunque degli iscritti, un convegno nazionale, congresso o assemblea costituente che sia. Mi auguro che tu sia arrivato in tempo massimo. Just in time, come ci fa dire la degenerazione linguistica che da diffusori di civiltà ci ha reso colonizzati da inciviltà. Appena in tempo, dal punto di vista della rappresentanza istituzionale dei 5Stelle, visto il progressivo radicamento di molta parte di essa, non nei principi, ma nelle poltrone sulle quali, a volte indebitamente, li ha insediati un’elezione che spesso si è trasformata in privilegio e poi in abuso.
Da quando si è diffusa nella rivolta di Minneapolis la pratica della distruzione di statue (specialmente quella di Cristoforo Colombo) in larga parte dell’asin/istra social italiana è scattato il classico riflesso condizionato (di cui è espressione esemplare la parola d’ordine “imbrattiamo la statua di Montanelli!”); non potendo emulare le cose più interessanti della rivolta americana (ovvero una mobilitazione radicale contro il razzismo e l’ingiustizia sociale che coinvolge milioni di persone, soprattutto giovani, trasversalmente alle comunità), l’asin/istra ha deciso che poteva comunque emulare (a chiacchiere) quelle meno interessanti.
Ora, quand’è che l’abbattimento di statue erette da un regime diventa davvero interessante? E’ chiaro: quando è l’espressione dell’abbattimento del regime che ha eretto le statue. Diversamente, invece che ad un atto di potenza, questo abbattimento può addirittura assomigliare ad un atto di impotenza. Non sono in grado di colpire l’oppressione di classe e ne colpisco i simboli; non sono neppure in grado di colpire i simboli maggiori e ripiego su quelli minori, più facili da raggiungere.
Un luogo comune ricorrente è che esistano molte ideologie tra loro in conflitto. In realtà in ogni epoca l’ideologia è unica, quella dominante, mentre le ideologie alternative difficilmente raggiungono lo stadio di opposizione, anzi, rimangono al livello di astrazione, per cui gli stessi che affermano di professarle in effetti si attengono all’ideologia dominante.
L’ideologia attualmente dominante può essere identificata nel politicamente corretto, che costituisce una sintesi del liberismo finanziario globalista con la retorica morale della “sinistra”, in nome di una presunta comune lotta ai “populismi” ed ai “nazionalismi”, etichette indifferentemente appiccicate a chiunque metta in discussione le gerarchie coloniali, ed anche a chi semplicemente finga di farlo per riscuotere consensi elettorali.
Un esempio di questa sintesi del politicorretto ce la fornisce l’economista “bocconiano” Roberto Perotti, il quale, a proposito degli sperati finanziamenti del “Recovery Fund”, ammonisce gli Italiani a non trasformare quei finanziamenti europei, che non sono “gratis”, in spesa facile, in occasione di “mangiare”, secondo gli “atavici” mali italiani. L’accesso al palcoscenico finanziario sovranazionale deve essere quindi accompagnato da una palingenesi morale.
Esiste sempre una distanza strutturale tra la teoria e la pratica, tra la teoria e il reale (Nicos Poulantzas, L’Etat, le Pouvoir le socialisme)
A partire dalla pubblicazione di un denso articolo di Rolando Vitali apparso il 21 maggio, sul rapporto tra Stato, egemonia e organizzazione, la Fionda ha iniziato ad ospitare un interessante dibattito sull’analisi strategica del presente, nonché sulle possibili alleanze tra forze sociali e politiche, utili all’affermazione delle istanze più care al campo socialista e, oggi, rivendicate soprattutto dall’area del cosiddetto sovranismo costituzionale e democratico.
Nel momento stesso in cui si registra in modo più evidente la crisi del neoliberalismo e della globalizzazione come destino, le trasformazioni neoliberali seguite alla crisi del “compromesso keynesiano” sembrano avere a tal punto scompaginato il piano sociale da rendere estremamente problematica la ricomposizione di un blocco storico in grado di sostenere una politica capace di rimettere al centro lo Stato e i diritti sociali.
Il razzismo non è un fenomeno solo statunitense ma è alla base del pensiero liberale. Aver abolito lo schiavismo non ha intaccato i meccanismi dello sfruttamento dei lavoratori
1. Come spiega efficacemente Domenico Losurdo in vari suoi studi, la tradizione liberale da sempre ha combinato astratta uguaglianza e libertà con una teoria della classe dominante, secondo la quale esse valgono solo per un circolo di eletti. Credo efficace riportare qualche passo documentario della sua Controstoria del liberalismo dove la crudezza, la ferocia, la “banalità del male” ante litteram, appaiono in tutta la loro drammaticità:
“Proprio in questo ambito il processo di de-umanizzazione ha raggiunto punte difficilmente eguagliabili. In Giamaica, nel britannico impero liberale di metà Settecento, vediamo all’opera un tipo di punizione di per sé eloquente: «uno schiavo era obbligato a defecare nella bocca dello schiavo colpevole, che poi era cucita per quattro o cinque ore»”
Roba per stomaci forti, come la “cronaca” statunitense di inizio novecento che segue:
“Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.
Oggi sull’Osservatorio Globalizzazione abbiamo il paicere di intervistare il politologo Carlo Galli, professore di storia delle discipline politiche all’Alma Mater-Università di Bologna e già deputato nella XVII legislatura
OG: Professor Galli nel suo saggio
“Sovranità” appare
emblematica espressione “Sovranità è
democrazia? Oggi si”: quali sono le funzioni economiche,
politiche e sociali che, oggigiorno, impediscono il pieno
esercizio della
sovranità?
CG: La sovranità dello Stato oggi è fortemente limitata da una serie di determinazioni giuridiche, economiche e politiche; quelle politiche sono i trattati derivanti dalle nostre scelte di grande politica internazionale, per esempio l’adesione alla NATO. Sotto il profilo giuridico la sovranità di un paese e anche dell’Italia è limitata da trattati che regolano alcuni comportamenti internazionali del paese: il nostro ingresso nell’Onu ci ha privato dello Ius ad Bellum che peraltro era già messo in discussione nella nostra Costituzione. Poi ci sono motivazioni di carattere economico: la nostra adesione ai trattati che istituiscono l’Euro ci ha privato della sovranità monetaria. Sono privazioni in qualche modo volontarie perché giungono a compimento con un voto del Parlamento. Tuttavia, sono limitazioni, e quelle che i cittadini sentono maggiormente oggi sono quelle economiche. Lo Stato italiano resta sovrano come tutti gli Stati che fanno parte dell’unione europea, ma con una cessione di sovranità monetaria: è venuto meno quello gli economisti chiamano il signoraggio, il comando politico sulla moneta, cessato nel 1981 con il cosiddetto divorzio fra ministro del Tesoro e la Banca d’Italia. E ciò consegna lo Stato ai mercati.
Riceviamo e pubblichiamo come contributo alla discussione
In un
periodo drammatico come questo di scombussolamento
economico, sanitario e di equilibri
politici nazionali e internazionali, sarebbe importante
che da parte dei comunisti italiani si ponesse di nuovo il
problema concreto di come
affrontare le prospettive.
Sicuramente quelli che si ritengono comunisti pensano di avere un'opinione sulle cose che stanno avvenendo e gli interventi su Marx XXI lo dimostrano, ma il loro pensiero non si è trasformato ancora in un progetto politico che sia collegato alla situazione. Si rischia così di rimanere legati a una concezione di nicchia dell'impegno politico e di esprimere solo esigenze di analisi dei problemi senza trasformare questa analisi in un'ipotesi di lavoro e verificarla nella realtà.
I comunisti possono fare in Italia solo questo oppure si può (e si deve) fare un passo avanti? E' su questo che si dovrebbe aprire la discussione.
Certamente le sconfitte subite a partire dagli anni '90 del secolo scorso hanno lasciato il segno e molti compagni sono cauti e, giustamente, evitano di ricorrere a formazioni partitiche virtuali che possono soddisfare solo le manie di protagonismo di qualche cattivo maestro. Ma allora domandiamoci: qual è il ruolo oggi dei comunisti italiani? Sono destinati solo a mantenere viva una tradizione storica, oppure affinchè questa tradizione abbia un'incidenza reale, devono saper coniugare il loro punto di vista col corso degli avvenimenti?
Noi siamo ovviamente per la seconda ipotesi. La condizione però è che si mettano in chiaro alcuni punti essenziali su cui una nuova prospettiva si può aprire, il primo dei quali riguarda proprio il modello delle relazioni tra comunisti, cioè la forma in cui rapportarsi per superare la sconfitta e riprendere un cammino che non sia di pura testimonianza.
Nel
ragionare sugli scenari post-pandemia, ciò che accadrà nelle
città è decisivo. Non soltanto perché il 55% della popolazione
planetaria è urbanizzato; né soltanto perché
dalle città proviene il 75% del PIL globale, ottenuto
consumando più di due terzi dell’energia e provocando il 70%
delle emissioni
inquinanti.[1]Ma anche e
soprattutto perchénei contesti urbani è più facile,
relativamente a contesti nazionali o sovranazionali,impostare
e
condurre grandi battaglie a favore dell’eguaglianza.
Questa tesi non è banale e, per (provare a) dimostrarla, occorrerebbe scrivere un intero libro.[2]Qui essa sarà saggiata lungo due tappe espositive: nella prima, illustreremo che cosa è successo nel corso della pandemia; nella seconda, valuteremo la portata di alcune idee e sperimentazioni sociali, che in anni recenti hanno cercato di realizzare forme radicali di rigenerazione urbana.
Le misure di “distanziamento sociale”, o meglio di “isolamento spaziale”, sono state il modo più diffuso per contenere il contagio virale. Ma se, assecondando questo approccio, ognuno di noi deve allontanarsi dagli altri, in quanto gli altri possono contaminarlo, il contesto più pericoloso dal quale fuggire è quello in cui massimamente si addensano le relazioni intersoggettive: la città. La ragione è apparentemente ovvia: accatastare le persone l’una sopra l’altra in palazzi e uffici, e imballarle in bus e vagoni della metropolitana, crea un terreno fertile ideale per le malattie trasmissibili.[3]In termini di filosofia sociale, la pandemia è stata quindi affrontata con il criterio per cuiHomo homini virus(l’uomo è veleno per l’uomo): la forma d’intervento più appropriata, per “svelenire” la società, consiste nello spezzare o almeno nel sospendere i nessi tra le persone, e tra le persone e i luoghi di vita.
Con a seguire articoli di Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Davide Viero, Martina Di Febo, Paolo Mottana, Enrico Euli, Federico Bertoni, Giorgio Agamben
Le lodi delle magnifiche
sorti e progressive della didattica a distanza le
lascio fuori da questo spazio, perché a
essere larghi, di tutte le considerazioni possibili, quelle a
favore sono al massimo il 5%.
Sento già gli entusiasti della dad (sempre minuscola) fremere, chi si contenta frema e goda.
Mi ricordano quei chirurghi che, alla domande dei parenti del malato, rispondono che l’operazione è andata bene, ma il paziente è morto.
Per la dad è lo stesso, l’operazione, per chi voleva guadagnare, in tutti i sensi, è andata bene, peccato che la scuola è morta, per quest’anno.
Ho avuto accesso ai risultati di un questionario inviato alle studentesse e studenti delle scuole superiori.
Indico alcune risposte significative.
Alla domanda che cosa ti piace di più della dad le risposte più frequenti sono state: non devo uscire e sto a casa in pigiama, e poi si studiano molte meno cose che a scuola.
Chiunque può capire perché qualcuno ami la dad, motivi chiaramente di ordine culturale, non ci sono dubbi.
Alla domanda se è più facile imbrogliare i docenti a scuola o con la dad, il 99,9% delle studentesse e degli studenti (senza mettersi d’accordo) risponde che con la dad è più facile imbrogliare (quale docente non ha visto ombre di genitori, gli occhi verso il telefonino o il libro, se la videocamera era accesa?)
L’omicidio di George Floyd a Minneapolis il 25 maggio ha innescato una sollevazione generale. Una conflittualità sociale dispiegata e duratura come nessun’altra da decenni, violenta e non violenta, afroamericana e non, di uomini e donne di “colori”, età e condizione diverse. Una ragnatela di centinaia di manifestazioni di massa, constatava il New York Times il 7 giugno, che ha avvolto gli Stati Uniti in un «coerente movimento nazionale contro il razzismo del sistema». Gli afroamericani sono alla testa della protesta, come lo erano stati negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, quando l’ultimo loro grande movimento aveva imposto cambiamenti radicali – contro il razzismo istituzionale e contro la povertà – nella società statunitense. Ma dopo quest’ultimo mezzo secolo di reazione la storia si deve ripetere. E stavolta la rabbia per gli omicidi da parte delle polizie locali, già allora scintilla delle rivolte urbane, è esasperata dall’innalzamento drammatico della disoccupazione e dalla devastazione dei contagi da Covid-19 degli ultimi mesi.
La polizia è violenta sempre, ma il numero degli afroamericani ammazzati dai poliziotti negli anni recenti – gli ultimi noti tra marzo e maggio: George Floyd in Minnesota, Ahmaud Arbery in Georgia (da ex poliziotti), Breonna Taylor in Kentucky e Manuel Ellis nello stato di Washington – è insopportabilmente alto: 755 tra il 2017 e oggi, quasi la metà dei bianchi (1308), nonostante che i neri siano il 13% della popolazione.
L’analisi dell’Istat sullo stato dell’economia italiana è arrivata puntuale ed è una doccia fredda. Le valutazioni dell’Istituto Nazionale di Statistica prevedono per l’anno in corso, il 2020, un crollo del Pil dell’8,3% su base annua, causato soprattutto dalla forte contrazione della domanda interna (-7,2 %). A trainare nell’abisso l’economia italiana, dopo due mesi di lockdown totale e riaperture che procedono a rilento, tra misure di sicurezza elevatissime ed entrate praticamente azzerate, sono sia il crollo degli investimenti ( -12,5%) sia la drastica riduzione del consumo da parte delle famiglie italiane (-8,7 %). Sempre l’Istat, nello stesso rapporto, indica una possibile ma parziale ripresa nel 2021 (+4,1%) che tuttavia non sarebbe minimamente sufficiente a garantire ai lavoratori ed alle fasce più deboli della società di venire fuori dal baratro in cui ci si sta avviando. Il ministro dell’economia Gualtieri mostra positività: “i dati Istat confermano sostanzialmente le previsioni del governo e indicano una possibilità concreta di una ripresa già nel terzo trimestre, colgo segnali di ripartenza” in una triste somiglianza con “la luce in fondo al tunnel” dell’allora presidente del consiglio Mario Monti.
«Industria 4.0 Più liberi o più sfruttati?» di Matteo Gaddi (Edizioni Punto Rosso: pag 246 euro 17) non è un libro di facile lettura, anche perchè costellato da una molteplicità di termini in inglese, ritenuti indispensabili per illustrare meticolosamente la dinamica dei nuovi processi lavorativi. Certamente, se dovesse essere ristampato, sarebbe utile un ampliamento dello stringato “Glossario” contemplato nell’appendice del libro.
Al di là di questa amichevole critica, per un delegato o un dirigente sindacale la fatica spesa per la sua lettura sarà più che abbondantemente ricompensata dalla comprensione di cosa si cela dietro alla retorica – sbandierata a destra e a “sinistra” – della cosiddetta industria 4.0.
La ricerca promossa dalla Fiom-Cgil di Milano e dalla Fondazione Claudio Sabattini, attraverso una puntuale ricognizione di alcune multinazionali (ABB, Alstom Transport, Siemens, Kone Industria e Thales Alenia Space) e di aziende appartenenti ai settori dell’ICT (IBM, NTT Data, Italtel, Toshiba), della manifattura (Fluid-0-Tech, STM, Magneti Marelli, Mapal ) e dell’impiantistica (Sirti, Engle, Kone) si è posta l’obiettivo – come sostiene Roberta Turi, segretaria generale della Fiom di Milano – di evitare la subalternità alla «narrazione del mondo delle imprese e delle istituzioni», per ripartire dal disvelamento della concreta condizione dei lavoratori e delle lavoratrici, poichè la stessa ha subìto purtroppo un occultamento di proporzioni inaudite.
L’assassinio di George Floyd, le sue parole mentre moriva soffocato sotto il ginocchio del poliziotto a Minneapolis, hanno avuto un forte impatto anche simbolico in questi tempi di coronavirus - un male che ti toglie, letteralmente, il respiro. L’asfissia del quarantaseienne afroamericano è diventata quella di tutti gli oppressi dal sistema capitalista, messo a nudo da questa pandemia. E il ginocchio del poliziotto, usato per bloccare a terra la sua vittima, è stato rappresentato migliaia di volte in tutte le piazze che hanno denunciato la violenza razzista, strutturale al modello nordamericano, e senza freni dopo l’arrivo di Trump.
A fianco di quella immagine, ne emerge però un’altra, ignorata o vilipesa dai grandi media occidentali perché indica un messaggio di resistenza all’oppressione: il ginocchio a terra del soldato del popolo che, fucile in spalla, attende con coraggio l’attacco del nemico per respingerlo. “Ginocchio a terra, fucile in spalla” è infatti una delle esortazioni con cui si concludono le manifestazioni o i comizi in Venezuela.
Un indirizzo avviato dal movimento di ufficiali progressisti guidati da Hugo Chavez, culminato con la sua vittoria elettorale alle presidenziali del 1998, e consolidatosi poi nella rivoluzione bolivariana con l’unione civico-militare.
Marx afferma che nell'economia politica l'accumulazione originale assume lo stesso ruolo del peccato originale nella teologia.
La spiegazione del perché ci sono persone che non hanno bisogno di sudare per mangiare che dà "peccato economico" è semplice e ha il carattere dell'aneddotico: "In tempi molto remoti ..." - racconta - c'erano due tipi di persone; da un lato c'era una minoranza "laboriosa, intelligente e parsimoniosa", dall'altro una maggioranza di "uomini pigri senza camicia che sprecavano tutto ciò che avevano e anche di più".
L'ovvia conseguenza di questo tipo di favola della cicala e della formica era, ovviamente, lo stato attuale delle cose. Apparentemente, l'ingiustizia di questo stato non è sfuggita alle coscienze di coloro che hanno proclamato la favola poiché, dopo tutto, altrimenti non spiegherebbe la necessità di collocare la sua giustificazione negli annali della "storia".
Quindi, per l'economia politica, "le uniche fonti di ricchezza sono state fin dall'inizio la legge e il "lavoro"". Per Marx, invece, nella vera storia della proprietà “conquista, schiavitù, rapina e omicidio svolgono un ruolo importante; violenza, in una parola ”.
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Carlo Formenti: Coronavirus. Chi è il vero nemico?
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Andrea Zhok: L’orizzonte delle scelte nell’epoca del coronavirus
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Intorno al Covid-19 si susseguono da mesi colpi di scena, rivelazioni e successive rettifiche. Grande è la confusione sotto il cielo. Ma non siamo ai tempi di Mao e quindi la situazione non è affatto eccellente. Cerchiamo di collegare alcuni puntini
1. Oms:
«Il contagio da parte
di
asintomatici è molto raro»…anzi «non
sappiamo». Maria
Van Kerkhove, direttrice del team tecnico dell’Organizzazione
mondiale della
sanità (Oms) per la risposta al coronavirus (1),
lunedì 8 giugno osa affermare:
«Ci sono casi di persone infettate che sono asintomatiche, ma
i paesi che stanno monitorando in modo dettagliato i contatti
non stanno trovando
da questi casi una trasmissione secondaria». Gli «esperti di
salute pubblica» insorgono, capitanati dall’Harvard Global
Health
Institute. E così l’Oms aggiusta il tiro il giorno dopo: «La
maggioranza dei casi di trasmissione che conosciamo si
verifica, con
le droplets, da parte di chi ha sintomi. Ma ci sono
persone che non sviluppano sintomi, e non abbiamo ancora
risposta sulla questione di quanti
infettati non abbiano sintomi». Alcune ricerche stimano la
probabilità di infezioni da asintomatici (e più spesso
pre-sintomatici)
con modelli probabilistici, senza documentare direttamente la
trasmissione. Comunque la frase rivelatrice dell’esperta
dell’Oms è:
«Per ogni risposta che troviamo alle domande, ne sorgono altre
dieci». La risposta è sempre: dipende (dalle circostanze): un
luogo
chiuso affollato e in una zona ad alta carica virale è un caso
specifico, non generalizzabile (vedi ai punti 10 e 12).
E a proposito dei modelli probabilistici..
2. «Falliti i modelli epidemiologici, meglio non usarli più nelle decisioni politiche». Il virologo Guido Silvestri, ribadendo – sulla sua rubrica social Pillole di ottimismo – quanto aveva già affermato circa il fallimento dei modelli matematici nel prevedere l’andamento reale dell’epidemia, spiega (2):
Inoltre: L'OMS, l’Azzolina, il virus: un circo e tre clown ... La rivoluzione colorata torna a casa
Statue abbattute. “Chi controlla
il
passato, controlla il futuro; chi controlla il presente
controlla il passato” (George Orwell).
Covid-19: tocca agli studenti
Come spesso, diamo un’occhiata in casa e poi ce ne andiamo fuori. In casa abbiamo fatto tremare i penati con la risata omerica, fatta però tra denti digrignanti, innescata da un paio di labbra rosso-cardinale, con sotto una ministra dell’Istruzione, dalle quali era uscito la formidabile, per quanto lugubre, battuta di scolari sotto plexiglass. Affine ad Alcmeone che, uccisa la madre, fu privata del senno dalle Erinni, Lucia Azzolina, avendo ucciso l’Istruzione, madre sua e di tutti noi, aveva subito analoga sorte. E fu la pazzia a dettarle deliri che solo degli irresponsabili come noi potevano prendere per barzellette. Tipo, facciamo che metà studia da remoto, e l’altra in presenza. E giù cataratte di ghignate. Facciamo che voi entrare alle 8, voialtri alle 10, e voi laggiù a mezzogiorno. E visto che studenti come pesci nella boccia di plexiglass non vi stanno bene, facciamo che di plexiglass gli mettiamo solo una visiera da astronauta.
Mancano duecentomila insegnanti? Abbiamo altrettanti supplenti votati alla supplenza eterna E voi, ragazzi, andate a studiare sui prati, sotto i ponti, a gennaio sul laghetto ghiacciato, nei cinema e nei musei. Con plexiglas sul muso. Così, se ci cadete sopra, vi tagliate la carotide, ma vi salvate dal virus.
Isolamento fisico come laboratorio vivente di un avvenire – altamente redditizio – deprivato per sempre di qualsiasi contatto fisico
Nel corso
del briefing quotidiano sul coronavirus del governatore di New
York Andrew
Cuomo di mercoledì 6 maggio, per alcuni brevi istanti, la cupa
smorfia che ha riempito i nostri schermi per settimane si è
rapidamente
trasformata in qualcosa che assomiglia a un sorriso.
«Noi siamo pronti, ci siamo completamente dentro», ha ciangottato il governatore. «Siamo newyorkesi, quindi siamo aggressivi su questo problema, siamo anche ambiziosi a tale riguardo (…) Ci rendiamo conto che il cambiamento non soltanto è imminente, ma può essere veramente un amico se facciamo le cose come vanno fatte. »
L’ispirazione per queste vibrazioni insolitamente positive veniva dalla visita in video dell’ex CEO di Google Eric Schmidt, che si è unito al briefing del governatore per annunciare che sarà a capo di un panel per reinventare la realtà post-Covid dello Stato di New York, con un’enfasi sull’integrazione permanente della tecnologia in ogni aspetto della vita civile.
«Le priorità di ciò che stiamo cercando di seguire» , ha dichiarato Schmidt, «riguardano la sanità a distanza, l’apprendimento da remoto e la banda larga (…) Dobbiamo cercare soluzioni che possano essere usate adesso e poi accelerate per utilizzare la tecnologia e per fare le cose al meglio». Per non avere dubbi sul fatto che gli obiettivi dell’ex presidente di Google fossero del tutto benevoli, il suo sfondo video presentava una coppia di ali d’angelo d’oro incorniciate.
Cade a fagiolo la polemica interna al M5S scoppiata ieri tra Alessandro Di Battista e Beppe Grillo, per presentare il primo contributo della nuova penna dell’Osservatorio Globalizzazione: Mirta Quagliaroli; attivista ed ex consigliere comunale grillina che ci parlerà delle cause dei persistenti problemi alla struttura interna al M5S. Buona lettura!
La forte ascesa del M5S che lo ha portato al governo nel 2018 sostenuta dalla voglia di cambiamento pare essere già da tempo scemata nei sondaggi. Mentre il M5S sviluppava idee e modi idealizzati di intendere la politica e la società, le aspettative e le speranze che erano state riposte dai sostenitori grillini si infrangevano inevitabilmente contro la complessità dei fatti nella gestione della res pubblica. Succede sempre ai movimenti nati dalla protesta e dai comitati di cittadini nei territori sulle tematiche più disparate (dall’ambiente ai vaccini, al 5G ecc..). Le proteste aggregano e portano consensi ai movimenti che poi trasformatisi in forme partitiche perdono forza a causa della complessità del governare.
Stati generali a porte chiuse. E se non è difficile capire il “clima” delle discussioni, c’è invece una blindatura molto severa sul “cosa” si stia discutendo lì dentro.
Sul piano politico, la scelta di Conte di mettere in scena una “dieci giorni” di confronto sulle scete economiche da fare nei prossimi mesi è sicuramente un tentativo di mettere al riparo l’esecutivo dalle tensioni quotidiane e perciò dalla perdurante icertezza sulla sua stabilità.
Per riuscirci, è stata convocata “L’Europa” – nelle persone di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, e Cristine Lagarde, alla guiida della Bce. Ma anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, il segretario generale dell’Ocse, Ángel Gurría, e la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva.
Uscire dalle secche dello sterile battibecco tra deficienti, tipico dello scambio di battute quotidiane della “politica italiana”, era del resto l’unico modo per “alzare l’asticella” della discussione, chiarendo che la posizione dell’Italia è inchiavardata in un sistema internazionale che ne determina sia il destino che le scelte quotidiane.
Le classifiche mondiali di Stati per Pil danno l’Italia oscillante tra il settimo e il nono posto nella graduatoria per Pil nominale e attorno al decimo per Pil a parità di potere d’acquisto: la crisi del coronavirus e la conseguente recessione economica rischiano di impattare sul Paese con una durezza tale da farci sprofondare, alla fine del 2020, in seguito a un crollo del Pil che istituzioni come il Ministero del Tesoro, la Banca d’Italia e l’Ocse prevedono destinato ad aggirarsi tra l’9 e il 14%.
Una recessione talmente tanto dura da portare a un possibile sorpasso da parte di un’altra nazione estremamente provata dalla pandemia, il Brasile, in cui la corsa del contagio e l’insipienza del presidente Jair Bolsonaro non si sono fino ad ora riverberate in uno shock economico pari a quello europeo.
Nonostante alcune notizie confortanti sul fronte dei finanziamenti via Btp, l’Italia rischia. Rischia in primo luogo per la sua intrinseca vulnerabilità legata alla dura prova della pandemia e ai timori di una seconda ondata. Ma anche per l’evoluzione della situazione sul piano politico ed economico in Europa, col Recovery Fund che non dovrebbe arrivare prima del 2021 e il Meccanismo europeo di stabilità che appare sempre più un’incognita da cui stare alla larga.
La parola “teoria” ha un’etimologia molto affascinante. Come molte di quelle che usiamo, specialmente nel lessico scientifico, viene dal greco ed è riconducibile a due termini, theá (spettacolo) e oráo (vedere). In origine significava proprio questo: assistere a uno spettacolo. Anche la parola “teatro” ha alle stesse radici. Solo in età ellenistica “teoria” diventa un sinonimo di contemplazione, conoscenza—la nostra teoria, appunto. È interessante, questo passaggio dal concreto al concetto, perché ci spiega che la teoria, come in un teatro, ci permette di guardare lo “spettacolo” degli eventi da una prospettiva più elevata, creando una cornice che tenga insieme le parti, anche quelle lontane dal centro della scena. Mettendo le ali allo sguardo della mente, la teoria ci permette di abbracciare le cose, di com-prenderle, prenderle insieme e connettere le cause con gli effetti, traendone una forma di sapere. Anche (anzi proprio) sacrificando i tratti singolari, la teoria generalizza, universalizza, e così facendo diventa adoperabile per spiegare casi diversi.
Certo, non tutte le teorie sono uguali. Quando i casi da spiegare sono complessi, la semplificazione è una strategia facile.
Luigi Vinci, 1895-1914 La prima grande crisi epistemologica del marxismo. La lezione mancata, Punto Rosso, 2018, pp. 457, € 20.00
Il socialismo è una
necessità o una possibilità? Attorno al grande problema
dell’oggettività, tanto della realtà quanto dei suoi processi
sociali, si è istituito un confronto che ha attraversato
tutto il marxismo. Oggi il problema è a prima vista inattuale:
il campo del marxismo è residuale nella politica e
profondamente venato
di soggettivismo nelle sue proposizioni teoriche: il
socialismo è pensato tutto all’interno di una prassi politica
contingente. Ci
ricorda però Luigi Vinci, in questo suo testo multiforme e
pericolante, che così non fu per una lunga epoca del movimento
operaio. Da
Marx fino (almeno) allo scoppio della Grande guerra – e
soprattutto lungo tutta l’esperienza della II Internazionale –
la teoria
politica della socialdemocrazia costruiva la propria forza
organizzativa e narrativa pienamente dentro il campo del
determinismo storico. Il
famigerato “crollismo” altro non era che la fiducia in
processi sociali teleologici: il capitalismo era destinato ad
essere superato, a
prescindere dall’azione del movimento operaio.
Il contesto storico appariva indubbio: la II Internazionale origina all’interno di una lunga depressione economica che confermava, addirittura accentuandole, le principali determinazioni marxiane. Tra il 1873 e il 1895 la crisi non rendeva solamente più manifeste le contraddizioni del capitalismo; moltiplicava nel numero e nella coscienza quel proletariato che avrebbe inevitabilmente sostituito la borghesia al potere. La società sembrava destinata a ridurre le proprie specificazioni sociali lasciando sul terreno le sole due classi in lotta: borghesia e proletariato. La prima in ritirata, la seconda in espansione. L’azione organizzata del movimento operaio procedeva abolendo le leggi antisocialiste, costruiva sindacati e, tramite questi, migliorava le condizioni di vita di milioni di lavoratori salariati; parimenti, i primi rappresentanti socialisti venivano eletti nei parlamenti nazionali, acquisivano forza di condizionamento. Lo Stato repressivo diveniva anche interlocutore politico. La storia sembrava per compiersi, era questione di anni.
Abstract. Gli scioperi dei corrieri milanesi di Amazon hanno acceso i primi segnali di conflitto in uno dei settori più sconvolti dalla digitalizzazione, il lavoro di consegna a domicilio. L’introduzione degli algoritmi si basa su un vecchissimo imperativo, saturare i tempi di lavoro calcolando automaticamente le rotte di consegna e quindi tempi e distanze: una forma di “taylorismo digitale”. Attraverso un’analisi delle modalità di mobilitazione e dei contenuti di lotta dei corrieri milanesi, si mostra l’evolversi del conflitto in un settore chiave dell’e-commerce
Introduzione
La mobilitazione dei drivers di Amazon costituisce un caso rilevante nel panorama lavorativo e sindacale contemporaneo attraversato dai nuovi processi di digitalizzazione [1]. Gli scioperi e le azioni di protesta dei corrieri milanesi mettono in luce problematiche e tendenze di un settore, quale quello delle consegne a domicilio, la cui organizzazione è stata ristrutturata dalle innovazioni digitali che hanno permesso l’avvento dell’e-commerce di massa.
Questo contributo parte da una domanda specifica. Che cosa mostrano le lotte dei drivers riguardo alla nuova relazione tra autonomia e controllo sul lavoro allo stadio attuale di riconfigurazione tecnologica? Dalla stessa domanda ne consegue un’altra: questo caso si identifica o si discosta dal modello generale di impresa Amazon, che tiene insieme diversi attori, quali clienti, altre imprese di fornitura e lavoratori (dalla logistica di magazzino a quella delle consegne)? Il modello è definibile come «taylorismo digitale», estensione di alcuni punti del tradizionale taylorismo e riedizione della one best way attraverso le nuove tecnologie digitali che rendono possibile: 1) calcolare e intensificare in maniera automatizzata tempi e ritmi della prestazione di lavoro, 2) ridurre deviazioni e tempi morti dovuti ad autonomia e discrezione nell’espletamento della funzione lavorativa. In ultima, l’applicazione degli algoritmi permette di superare la compresenza spazio-temporale in un luogo e il tramite di un supervisore umano per il monitoraggio.
È uscito il piano del “Comitato di esperti in materia economica e sociale” diretto da Colao. Fra i 102 punti presentati come sintetiche “schede” c’è molto di liberale e poco di sociale, salvo qualche cenno alla cassa integrazione, alla ricerca e alle infrastrutture, e a qualche proposta di incentivo e semplificazione condivisibile, prevale nettamente l’accento ripetitivo e ossessivo sull’aiuto alle imprese private, piccole e grandi. L’impresa figura come la vera protagonista, se non il committente, di questa proposta di politica economica e fiscale, è accudita e assecondata con tutti gli attrezzi noti del liberismo, deregulation, semplificazione. I veri nemici della ripresa, dicono i suggeritori del governo, sarebbero burocrazia e tasse, lacci e lacciuoli.
Ma non banalizziamo: nei suggerimenti per rimuovere ogni freno allo sviluppo non si legge tanto l’abbattimento di intralci, quanto la qualificazione di intralci per disposizioni che piuttosto sanzionano comportamenti illeciti sul piano fiscale, lavoristico, ambientale. Quindi obiettivi di politica sociale ed economica elaborati nei decenni scorsi a tutela di beni di rilievo costituzionale (equità fiscale, diritti dei lavoratori, tutela dell’ambiente) sono degradati a intralcio burocratico e freno allo sviluppo.
Ragionando sul libro “Pandeconomia. Le alternative possibili” di Tonino Perna, ossia i frutti avvelenati del neoriformismo
Mentre la pandemia da coronavirus non ha ancora esaurito il suo carico di morte e lo stesso numero di contagiati a livello mondiale non accenna a diminuire, spuntano come funghi, assolutamente avvelenati per i proletari, saggi e libri che tentano di spiegare le origini di questa crisi epocale, proponendo delle soluzioni “alternative” al disastro economico che sta lasciando in eredità il Covid-19. E’ lungo questo crinale che si colloca anche l’ultimo lavoro di Tonino Perna, appena pubblicato da Castelvecchi, “Pandeconomia. Le alternative possibili”, un agile libro che tenta di interpretare l’ultima grande crisi che ha investito il mondo intero. Perna, una delle firme più in vista del giornale “Il Manifesto”, ha suddiviso in tre parti il suo pamphlet. La prima è dedicata alla storia della pandeconomia, attraverso una breve rassegna dei più importanti eventi pandemici che hanno investito il mondo occidentale nei secoli scorsi; la seconda parte si concentra ad analizzare la pandeconomia al tempo del coronavirus, mentre l’ultima parte delinea gli scenari futuri e le possibili alternative che la stessa pandemia offre.
Riccardo Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione economico-politica, Torino, Rosenberg & Sellier, 2020
Per presentare l’ultimo libro di Riccardo Bellofiore, Smith Ricardo Marx Sraffa, e consigliarne la lettura non inizierò direttamente dal contenuto, ma dall’origine di questo libro. Infatti, i saggi contenuti nel libro non sono nuovi, ma sono nati dal 1983 ad oggi in modo indipendente, e riveduti e modificati per questa pubblicazione. Il libro quindi si aggiunge ad una serie di volumi che Bellofiore sta pubblicando in questi ultimi anni ed in cui potremmo dire che sta riorganizzando la sua elaborazione teorica. Anni in cui sta scrivendo una serie di veri e propri “testamenti teorici”, suddivisi in tematiche, del suo ampio percorso culturale. A mio parere, si tratta di strumenti necessari a quei giovani studiosi e/o militanti politici che si pongano nella scia di una visione, come sottolinea più volte Bellofiore, eretica dell’economia, o come dice nel libro stesso, eretica della scienza sociale e della critica del capitale.
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Alla fine la montagna
ha partorito un topolino: il “comitato di esperti in
materia economica
e sociale” presieduto da Vittorio Colao, già
amministratore delegato di Vodafone, ha consegnato al governo
il Piano
di rilancio deputato a dettare la linea sull’uscita
dalla crisi. Certo, le reazioni del mondo politico non sono
state quelle attese. I
partiti che compongono la maggioranza di Governo – con
l’eccezione di Italia Viva – hanno reagito con
freddezza al Piano Colao, il cui destino è a questo
punto incerto. Sarà davvero la base di partenza su ci si
articolerà il
piano di ‘riforme’ da presentare all’Europa per avere accesso
al già famoso Recovery
fund (ora Next Generation EU)? Oppure finirà riposto e
dimenticato in un cassetto?
La risposta è ancora incerta, ma non per questo è meno importante analizzarne il contenuto. D’altronde, l’entusiasmo scatenato in Salvini e nella Lega, fino alle bizzarre esternazioni della macchietta Bagnai (maestra, maestra, mi hanno copiato il piano!!!), fornisce un’utile indicazione di quanto le linee guida contenute nel Piano Colao siano in linea con i desiderata del padronato del nostro Paese. Proviamo, quindi, ad andare al di là del circo quotidiano offerto dalla politica nostrana, per analizzare l’impianto generale ed alcune delle misure cruciali contenute in questo catalogo degli orrori.
Si parte a bomba. La prima proposta (1.i) è lo scudo penale a favore delle imprese in caso di contagio Covid dei propri dipendenti: detta così sembrerebbe già sufficiente per chiudere tutto e dare fuoco al malloppo. Lo scudo esclude la responsabilità penale per quelle aziende che, nominalmente, rispettano e hanno rispettato le norme in materia di sicurezza, pattuite tra parti sociali.
La crisi sanitaria ed economica disvela scenari catastrofici in contrasto con la fiducia che ci vogliono inoculare. Forse il disvelamento alimenterà la forza consapevole di opporsi in quelli che sono stati spinti al basso della piramide sociale
Nel 1917 qualcuno scriveva La catastrofe
imminente…, ma forse
l’espressione poteva ben riferirsi a quel momento storico, ora
che stiamo per uscire dalla pandemia, nonostante la situazione
critica di Paesi
come gli Stati Uniti e il Brasile, e possiamo forse sentirci
più tranquilli; ma le cose stanno veramente così? In effetti,
almeno qui
nel Lazio dove scrivo, la gente si muove tranquilla ed ha
ricominciato il consueto consumismo, magari più attento.
Analizzerò brevemente alcuni aspetti delle ipotetiche conseguenze della pandemia che si è rovesciata sui paesi capitalistici avanzati e che per questo è stata sempre sulla cresta dell’onda, nonostante la persistenza di epidemie “minori” (per la nostra ottica) in altri continenti.
Qualcuno si ricorderà che la cosa è iniziata con accuse reciproche da parte di Cina e Stati Uniti a proposito della diffusione del virus, della mancanza di tempestività etc., tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha dato vita ad un’indagine “indipendente” sulle cause, sulle misure adottate, sulla diffusione delle informazioni.
Nel retroscena è stata collocata l’ipotesi dell’arma biologica, anche se questo non ci deve far dimenticare che le grandi potenze hanno numerosi laboratori proprio per produrre questo genere di agenti patogeni subdoli e sostanzialmente a buon mercato.
Ovviamente non si fa più menzione del fatto che è proprio la struttura dell’industria agroalimentare e dell’allevamento, connessa alla devastazione della natura, alle rapide forme di inurbamento e di inquinamento, che sta proprio alla base del famoso “salto di specie” attraverso cui un virus, ubicato in un corpo animale, si trasforma ed attacca l’uomo, dando luogo ai fenomeni pandemici a causa degli altri aspetti della globalizzazione (rapidità di spostamenti): non se ne fa menzione, appunto, proprio perché si sarebbe messa in crisi la struttura capitalistica stessa.
Estratti da Le ménage à trois de la lutte des classes. Classe moyenne salariée, prolétariat et capital, Éd. de l’Asymétrie, Toulouse 2019, pp. 293-299
A margine del
movimento partito da Minneapolis in seguito all'uccisione di
George Floyd, ed estesosi ad un gran numero di città
statunitensi e non,
pubblichiamo alcuni estratti di Le Ménage à trois de la
lutte des classes, uscito in Francia nel dicembre 2019, e in
fase di traduzione
in italiano. Non è che un piccolo contributo alla messa a
fuoco del proteiforme movimento ancora in corso. Avremo modo
di riparlarne in maniera
più circostanziata prossimamente. Nel frattempo, per chi
volesse procurarsi il volume di cui sopra, segnaliamo che è
possibile ordinarlo
sul sito della casa editrice: https://editionsasymetrie.org/ouvrage/le-menage-a-trois-de-la-lutte-des-classes/.
* * * *
Negli ambienti attivisti, e anche in quelli comunizzatori, la sommossa è stata spesso caricata di un significato immediatamente sovversivo o rivoluzionario. Ora, nel corso degli ultimi decenni, la sommossa si è banalizzata, senza mai trasformarsi in un’insurrezione propriamente detta (ritorneremo su questa terminologia). Inoltre, nel corso delle nostre ricerche, ci è parso chiaro che anche la classe media salariata (CMS) possa dare vita a delle sommosse (Venezuela 2014, Algeria da diversi anni ormai, etc.). Conviene dunque, a nostro avviso, rimuovere questa ambiguità attraverso una definizione più stretta della sommossa, distinguendola dall’insurrezione. Ecco un primo approccio, che si tratterà poi di precisare:
il termine sommossa [émeute, NdT] verrà riservato a delle sollevazioni più limitate, in particolare perché non coinvolgono il processo di lavoro generale, e non comportano quindi alcuna possibilità di superamento. La sommossa attacca, distrugge, saccheggia la proprietà solo nella sfera della realizzazione, e si interessa unicamente alle merci della sezione II della produzione sociale (mezzi di sussistenza).
La cosa più interessante che avviene durante le crisi sistemiche è il rovesciamento delle posizioni nella testa dei “decisori”. I particolare, in questi mesi, tutti i campioni del neoliberismo sono diventati improvvisamente keynesiani. Magari senza neanche pensarci…
Paolo Savona, oggi presidente della Consob – autorità di controllo della Borsa – è uno di questi, probabilmente uno dei più acuti. Uno che ha cominciato la carriera nell’Ufficio Studi della Banca d’Italia, poi al Mit di Boston, quindi direttore di Confindustria – quando Agnelli volle alla presidenza Guido Carli, ex governatore di Bankitalia – a lungo al fianco di Ugo La Malfa e lui stesso iscritto al Partito Repubblicano.
Un “tecnico” con idee politiche di centrodestra, insomma, tanto da esser proposto come ministro del tesoro nel primo governo Conte e poi dirottato agli Affari Europei per l’opposizione di Mattarella.
Il suo discorso di ieri, l’annuale “messaggio al mercato”, è stato notevole per temi trattati e soluzioni proposte. Tutte rigorosamente “non convenzionali” rispetto allo sciocchezzaio neoliberale che trasuda dalle riunioni dell’Unione Europea o dai media mainstrem nostrani.
Di fronte ai limiti del liberismo, Keynes pensava all’intervento pubblico soprattutto in termini di investimenti per garantire il massimo dell’occupazione, Beveridge era interessato piuttosto a trasferimenti e servizi pubblici contro le incertezze del mercato
Il dibattito sullo Stato sociale ha una storia lunga, che risale a molto prima della nascita del Welfare State così come lo conosciamo dal secolo scorso, le cui idee ispiratrici si sono succedute in varie forme. In realtà non è facile darne una definizione precisa e univoca; possiamo dire che gli obiettivi sono genericamente quelli di sostenere il tenore di vita, ridurre le disuguaglianze, tenendo a freno la crescita dei costi, prevenendo comportamenti opportunistici e disonesti, facendo in modo che questi fini siano raggiunti contenendo le spese e gli abusi di potere da parte di chi amministra il sistema.
Il cammino che porta al perseguimento di questi obiettivi in Inghilterra comincia con le riforme del 1906-14, ma l’impegno concreto in questa direzione avviene solo con la legislazione del 1944-48, favorita dagli avvenimenti della Seconda guerra mondiale e degli anni immediatamente successivi.
L’Italia è uno stato ed ogni stato serve a proteggere e fornire condizioni di possibilità per la popolazione che ci vive. Lo stato è cioè un veicolo adattivo, il soggetto che deve trovare il miglior adattamento al mondo di un dato tempo, per quel popolo. Lo stato italiano è in tre crisi contemporaneamente.
La prima è la crisi dimensionale che condividiamo con più o meno tutti gli stato europei. Gli stati europei sono mediamente più piccoli della media mondiale. Europa è solo il 7% della superficie delle terre emerse ma ha il 25% degli stati. Quando si sono cominciati a formare gli stati in Europa nel XVI secolo, il mondo – per quanto riguardava le logiche di contesto – era l’ Europa e quindi era secondo quella logica che s’andavano a formare gli stati. Oggi la logica è quella del mondo, con diciassette volte la popolazione di allora e molta più complessità.
La seconda crisi è di ordinatore ed anche questa la condividiamo con molti stati europei. Infatti, in Europa ci siamo dati un doppio ordinatore riservando a gli stati quello politico e donando al sistema comune quello economico, col risultato di avere politiche impotenti perché non hanno la sovranità monetaria ed economie acefale poiché non hanno una politica che possa indirizzarle.
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Niamey, 14 giugno 2020. Perché era nero o perché umano. Forse le due cose messe assieme con una vistosa prevalenza della prima, vista la reazione in America e altrove in seguito all’efferata uccisione per soffocamento di George Floyd a Minneapolis. Il movimento Black Lives Matter, la vita dei neri importa, ha ‘contaminato’ buona parte del mondo suscitando reazioni, interrogativi e accuse sul ruolo delle polizie e più ancora sul latente razzismo che non finisce di minare l’umana avventura. Reazioni al Covid, alle politiche neoliberali fasciste di Donald Trump, l’impatto dei mezzi di comunicazione, il ruolo degli Stati Uniti e non ultima l’indignazione del ‘morto di troppo’ hanno creato un clima sociale che l’abbattimento di statue sospette esprime a meraviglia. D’altra parte qualcuno scrisse che, al momento di abbattere le statue è sempre meglio lasciare intatto il piedistallo, per il prossimo idolo. Le manifestazioni sono spuntate un po' dovunque e financo in Africa qualcosa, con qualche ritardo, si è mosso. Nulla di particolarmente eclatante ma almeno sufficiente a farla uscire dalla clandestinità nella quale si trova in queste circostanze.
Diversi
punti di vista sulla stagnazione
La scuola stagnazionista della Monthly Review, ora proseguita con il contributo di Fred Magdoff e John Bellamy Foster, fa riferimento alle analisi suggerite da Paul Baran e Paul Sweezy negli anni '60. È proprio a loro che Foster e Magdoff si rivolgono per spiegare la simbiosi tra stagnazione e finanziarizzazione dell'economia, il punto focale delle loro analisi sulla crisi del 2007. In Sweezy la tendenza al sottoconsumo e, quindi, alla stagnazione come "la norma verso cui tende la produzione capitalista" derivava dal presupposto che gli investimenti e il consumo capitalistici sarebbero cresciuti in proporzione al reddito e che, pertanto, la quota dei salari avrebbe dovuto diminuire.
Poiché ha anche ipotizzato che la percentuale del consumo capitalista in termini di reddito sarebbe diminuita, Sweezy ha dedotto un aumento della percentuale di investimenti in reddito. Supponendo che la produzione di mezzi di consumo fosse proporzionale alla crescita degli investimenti, Sweezy dedusse che l'offerta di mezzi di consumo sarebbe cresciuta prima della domanda di mezzi di consumo, causando un eccesso cronico di capacità. Questa è la teoria del sottoconsumo e della stagnazione di Sweezy. L'errore teorico, come sottolineato da Shaikh, consiste nel considerare il dipartimento I come un input del dipartimento II e, pertanto, l'economia capitalista punta alla produzione di beni di consumo.
Per Baran e Sweezy la tendenza della moderna economia capitalistica alla stagnazione è legata all'emergere di monopoli e oligopoli. Nel loro libro del 1968, Monopoly Capital, Sweezy e Baran sostengono che gli oligopoli hanno vietato la concorrenza sui prezzi. Di conseguenza, la teoria generale dei prezzi appropriata per questa economia divenne "la teoria tradizionale dei prezzi del monopolio classico e neoclassico", ora elevata al livello di un caso generale e non più speciale.
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Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.
Giambattista Vico, La scienza nuova, Degnità XIVª.
La democrazia borghese contro la rivoluzione socialista: il caso tedesco
La nazione europea in cui le crisi e i conflitti del primo dopoguerra si manifestarono nella forma più netta e, nel contempo, più drammatica fu senza dubbio la Germania. In questo paese la sconfitta militare aveva determinato la disgregazione dell’impero guglielmino e posto la necessità di una profonda trasformazione dello Stato. In quello che, a partire dall’età bismarckiana, si presentava come un regime semi-assolutista e semi-parlamentare, l’impero si era basato su una compenetrazione talmente stretta fra l’imperatore e l’esercito che l’intero sistema politico e sociale finiva con l’articolarsi intorno all’autorità del sovrano e alla possente struttura dell’esercito, nel mentre il parlamento era ridotto a svolgere un ruolo decisamente subalterno.
Quando le ostilità cessarono, nel breve giro di due settimane questi pilastri crollarono.
All’indomani delle mobilitazioni
per la morte di George Floyd negli Stai Uniti, del funerale in
pompa
magna, degli inni di rito, delle migliaia di arresti e di
centinaia di feriti, tentiamo un minimo bilancio e una breve
riflessione sulla questione del
razzismo.
Che ancora ai giorni nostri si possa uccidere un uomo, per un presunto biglietto di venti dollari falso, mentre grida al poliziotto bianco, che gli comprime il ginocchio sulla carotide di non riuscire a respirare, appare ai più qualcosa fuori dal mondo, del mondo civile s’intende, il mondo occidentale, civile per eccellenza, come i popoli d’Europa, i primi “civili” e civilizzatori della storia moderna. Dunque negli Usa accadono tuttora fatti esecrabili, di chiaro stampo razzista, un marchio di fabbrica moderno che rimuove le delicatezze dei rapporti degli europei del passato, oltre che del presente, nei confronti del resto del mondo. Se poi accadono sotto la presidenza di un fenomeno da baraccone come il rozzo Trump, beh tutto si spiega. Come dire? Questi americani non riescono proprio a superare un certo stadio di primitivismo nei confronti degli uomini di colore.
Per non appesantire la lettura di queste poche note raccontiamo un piccolo episodio capitato in una scuola elementare di Roma, dove una bidella che lavorava in un liceo, viene invitata a recarsi presso l’istituto dove la figlia di 9 anni frequentava la quarta classe e aveva dato della «sporca negra» a una bambina di colore sua coetanea nella stessa classe, che invece di piangere l’aveva strattonata e tirandola per i capelli l’aveva sbattuta a terra. La bidella si precipita all’istituto e cerca di spiegare alla propria figliola che non bisogna essere razzisti e indicando la bambina di colore dice: «vedi lei ha due mani, due piedi, due braccia, due gambe e una testa, proprio come te. E’ colpa sua se è nera?».
La pubblicazione dei dati sulla pandemia relativi al 15 giugno ha spaventato i cittadini lombardi, poiché su 303 nuovi casi dichiarati ben 259 sono stati in Lombardia, con una percentuale del 85% sul dato nazionale. Ancor più impressionante se si considera che i tamponi effettuati sono stati ancora una volta meno che nei giorni precedenti. In pratica, la percentuale di casi della Lombardia diventa sempre più importante, percentualmente, sul totale nazionale.
Cifre che indurrebbero qualsiasi amministratore regionale di buone intenzioni a dimettersi, e a liberare della sua presenza i dieci milioni di abitanti della Lombardia che sono praticamente ostaggio di una giunta tecnicamente incapace ma che soprattutto non vuole uscire dal solco politico venticinquennale tracciato da Formigoni, Maroni e Fontana. Fatto confermato anche dalla nomina a direttore generale della sanità Lombarda di Marco Trivelli, già manager del periodo formigoniano, in cui il binomio tra Comunione e Liberazione e Sanità lombarda divenne quasi proverbiale arrivando sino a oggi.
Propaganda. Questa è la chiave per comprendere la vicenda che domina il dibattito politico italiano sui principali media. Il quotidiano spagnolo ABC pubblica un documento dove si evincerebbe che il governo venezuelano avrebbe finanziato nel 2010, l’allora piccolo, Movimento 5 Stelle con la cifra di 3,5 milioni di euro. Tutta la vicenda appare inverosimile. Così come il quotidiano che ha realizzato il presunto ‘scoop’.
Abbiamo utilizzato il termine propaganda perché la vicenda in questione possiede tutti i crismi dell’operazione propagandistica realizzata per imporre all’Italia l’agenda del blocco unico liberale e liberista che avversa il Venezuela. E avversa anche il Movimento 5 Stelle nonostante una sua oggettiva ‘normalizzazione’.
Il cavallo di troia utilizzato è il quotidiano franchista, monarchico e già simpatizzante del nazismo ABC. Un media non nuovo a queste operazioni come svelato dal giornalista spagnolo Fermando Casado nel libro ‘El ABC de la CIA’.
Casado spiega in riferimento alle notizie sul Venezuela diffuse dal quotidiano spagnolo:
«Quella che in realtà si nasconde dietro il quotidiano ABC è un’intima collaborazione con i servizi di intelligence statunitensi.
La frase: “Non importa se il gatto è bianco o nero, purché catturi i topi” è attribuita a Deng Xiaoping. Ma compare in un testo del 1977 che era un anno prima che Deng diventasse segretario del PCC e compare addirittura in un discorso alla gioventù comunista del ’62, quindi forse è un classico "detto cinese". Nella metafora, il topo è la prosperità dell’intera società, il gatto è il modo per ottenerla.
Nel 1978 Deng diventerà il capo del gigante povero cinese e da allora condurrà, dentro un sistema che continuerà convintamente a definire “comunista”, un disaccoppiamento strutturale tra economia e politica, in pratica una inversione di logica all’interno del concetto fondativo del sistema di idee di Marx detto “materialismo storico”. Nella formulazione che Marx aveva dato del concetto del MS nella Per la Critica dell’Economia Politica, il tedesco sosteneva che “Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”. In seguito ed in modo complicato qui da ricostruire, quel “… condiziona, in generale, …” che si opponeva dialetticamente all’idea di Hegel per il quale altresì rapporti giuridici e forme dello Stato avevano una loro storia e sviluppo proprio, divenne un determinismo. Per cui, la tradizione comunista sviluppata nel Novecento, pensò che cambiando il modo economico si sarebbe cambiata la società tutta che da quel modo sembrava dipendere. Su chi e come doveva cambiare quel modo ci fu e c’è ancora dibattito.
Mentre i Governi cavalcano la fase Post-Emergenza, le opposizioni aspettano al varco
Nessuna crisi va sprecata. Serve discontinuità, ad ogni costo, per governare i processi di cambiamento.
Il superamento della emergenza sanitaria determinata dalla epidemia di Covid-19 viene strumentalizzato dappertutto nel mondo: sia da coloro che stanno al governo, sia da coloro che stanno all'opposizione.
I Governanti avanzano proposte volte a sostenere la ripresa economica, gli aiuti erogati alle famiglie ed alle imprese, così come gli investimenti, al fine di consolidare il proprio potere e realizzare le proprie strategie interne ed internazionali.
Le opposizioni aspettano che dilaghi la paura del futuro, si accingono a raccogliere la rabbia popolare derivante dalle nuove povertà determinate dalla crisi, per scalzare i governi. Per loro non c'è che da aspettare.
In Cina, la discontinuità è funzionale ai nuovi paradigmi di sviluppo
Le misure di controllo sociale che è stato necessario introdurre per evitare il diffondersi del contagio sono funzionali alle esigenze di un sistema politico che non può lasciare le dinamiche della crescita in mano alle sole logiche del capitalismo.
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Medicina di Segnale: Adesso, davvero, basta! Comunicato AMPAS del 21/4
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Proponiamo un
estratto dal libro L’ascesa del femminismo
neoliberista di Catherine Rottenberg appena uscito per
ombre corte, con la traduzione di Federica
Martellino e una prefazione di Brunella Casalini. In questo
saggio l’autrice sostiene che il femminismo neoliberista
legittima lo sfruttamento
della stragrande maggioranza delle donne mentre disarticola
qualsiasi tipo di critica strutturale. Non sorprende,
quindi, che questo nuovo discorso
femminista converga con le forze conservatrici che, in nome
della parità di genere e dei diritti delle donne, promuovono
programmi razzisti e
anti-immigrazione o giustificano gli interventi nei paesi a
maggioranza musulmana. Rottenberg conclude quindi sollevando
domande urgenti su come
riorientare e rivendicare con successo il femminismo come
movimento per la giustizia sociale.
* * * *
Secondo molti progressisti americani, la campagna presidenziale di Hillary Clinton del 2016 e il forte sostegno che ha ricevuto dalle organizzazioni femministe, avrebbero segnato uno dei momenti clou della rinascita di un’agenda femminista negli Stati Uniti. Nei giorni precedenti alle elezioni vi era un’aspettativa sempre più intensa e quasi palpabile, tra un vastissimo numero di persone, circa la possibilità di inaugurare una nuova era in cui, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, a capo della nazione più potente del mondo, ci sarebbe stata una donna. Di conseguenza, al risveglio dell’inaspettata – e per molti scioccante – disfatta di Clinton, si è rivelato molto più difficile valutare la portata del fatto che una donna si stesse candidando alla presidenza sostenuta da un partito a favore delle donne e identificato come “femminista”.
Grazie Marc Bloch.
Un’antica tappa della storia della schiavitù
Un giorno a Bologna qualche anno fa ho comprato un po’ per caso un libro di Marc Bloch, di cui avevo già amato La società feudale e molti altri scritti. Il libro si intitola Lavoro e tecnica nel Medioevo (Laterza, 2009). Da quel giorno non riesco più a smettere di rileggere un breve testo che vi è contenuto: è diventata una piccola, deliziosa ossessione. Bloch tratta in questo rapido intervento una questione che per gli storici veri, e ancor di più per un mostro sacro com’era lui, è un oggetto di studio quasi scontato. Una questione che, non di meno, per i non specialisti e per i dilettanti di storia (come me), può risultare addirittura stupefacente.
In questo saggetto Bloch propone la sua idea a proposito della fine della schiavitù antica. Ossia di quella particolare forma giuridica che, dai tempi dei Greci e per tutto l’Impero Romano (per limitarci alla storia della nostra cultura), permetteva nell’antichità di considerare milioni di uomini – si dice la maggior parte degli esseri umani – come oggetti, proprietà privata di un padrone, alla stregua di beni mobili e immobili. Certamente anche il mondo greco-romano ha conosciuto col tempo delle limitazioni rispetto a questo istituto, ma del tutto diverse da quelle che potremmo immaginare. Inoltre, anche nell’antichità gli schiavi potevano riscattarsi, e spesso a essi veniva delegata l’intera gestione di commerci e manifatture. Immortale a questo proposito è il liberto Trimalcione ridicolizzato nel Satiricon di Petronio.
Bloch si interroga però sulle ragioni “strutturali” per cui un istituto giuridico millenario come la schiavitù antica, in un lasso di tempo tutto sommato breve, ossia tre quattro secoli, abbia potuto rapidamente scomparire (o per lo meno attenurasi enormemente) in Europa Occidentale.
Da oltre
due decenni si assiste a una continua riproduzione di violenze
razziste e
persino assassinii da parte di agenti delle polizie[i]. Non è casuale che
questi fatti siano particolarmente frequenti negli Stati Uniti
ma anche nelle banlieues francesi, in Inghilterra e sebbene
con meno frequenza anche in
Italia, Spagna, Belgio e laddove la presenza di neri,
ispanici, nordafricani e immigrati di diverse origini si
configura come oggetto di violenza del
dominio liberista neocoloniale.
Questa escalation delle violenze poliziesche è la conseguenza di un processo di militarizzazione della polizia statunitense che comincia come reazione ai movimenti per i diritti civili, poi, ancora di più nella strategia di counterinsurgency sviluppata negli anni 60 e 70 perneutralizzare il Black Power movement e continua con la Revolution in Military Affairs (RMA) lanciata nel periodo di Reagan[ii]. Questa “rivoluzione” è la traduzione di quella liberista che ha instaurato la conversione militare del poliziesco e quella poliziesca del militare, il continuum fra le guerre permanenti su scala mondiale e la guerra sicuritaria all’interno di ogni paese. Da allora c’è stata una gigantesca recrudescenza dell’azione repressiva delle polizie con modalità da guerra contro immigrati, marginali, manifestanti e in generale oppositori al trionfo liberista (da Seattle al G8 di Genova e poi ancora sino alle mobilitazioni contro i summit del G7 o G20 così come contro le grandi opere vedi in Italia casi TAV, TAP ecc.).
Alcuni osservatori e ricercatori hanno provato a spiegare la recrudescenza di violenze razziste negli Stati Uniti con la deriva che ha caratterizzato la cosiddetta guerra allo spaccio di droghe (tesi in parte alimentata anche da alcune serie tv fra le quali The Wire[iii]).
Durante il primo periodo di pandemia, un coro unanime di dichiarazioni concordava nell’esigenza di ricostruire l’intervento pubblico nelle città e nei servizi del welfare urbano. A causa delle politiche di privatizzazione, la sanità era stata il principale veicolo di propagazione del virus. Gli istituti scolastici, dal canto loro, evidenziano gravi carenze strutturali che mettono a rischio la stessa regolare riapertura autunnale dei corsi. La rinnovata supremazia della sfera pubblica sul privato era, insomma, una certezza assoluta per affrontare la fase post pandemia.
Il documento redatto dalla commissione presieduta da Vittorio Colao, illustrata agli Stati generali dell’economia nella giornata di ieri, è di avviso contrario. Nei settori della sanità, della scuola e degli alloggi a favore delle famiglie più povere, è ancora l’iniziativa privata a rappresentare il cuore degli interventi, mentre al pubblico viene lasciato un ruolo ancillare. Prima di vedere nel dettaglio gli esempi della perdurante pandemia neoliberista è però necessario chiarire preliminarmente due elementi.
Sono ormai numerosi e incontrovertibili i riscontri che dimostrano che il presunto documento venezuelano del 2010 - tanto strombazzato per accusare una persona deceduta di aver preso soldi da un altro morto (vecchia tecnica mafiosa per screditare e depistare) - è un clamoroso e grossolano falso, fabbricato in modo pedestre: timbri che nel 2010 non potevano esistere, ministeri che nella loro carta intestata mettono un nome che non avevano e altri anacronismi che gettano un immenso discredito sul quotidiano spagnolo ABC e su chi lo riprende acriticamente.
Già questo basterebbe e avanzerebbe a una redazione onesta per titolare più o meno così: "Giornale spagnolo pubblica una bufala per accusare il M5S". Un giornalista scrupoloso ci mette due minuti: se il ministero venezuelano ha un nome ufficiale diverso, quel documento non ha nemmeno il grado zero dell'attendibilità. Fine della discussione. E se un documento è un evidente falso, chi lo ha confezionato ha commesso un reato, mentre chi lo ha diffuso sui media (senza fare il semplice mestiere del cronista che verifica le fonti) è un falsario di un livello più ipocrita e più cinico, è un vice-maggiordomo più attento a compiacere i propri padroni che a cercare la semplice verità.
Amato o avversato, comunque ritenuto, da amici e avversari, uno dei pensatori politici più acuti che l’Italia può annoverare. Considerato uno dei fondatori dell’operaismo teorico degli anni Sessanta, le cui idee si trovano riassunte nel libro del 1966 Operai e capitale, Mario Tronti ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. È stato eletto in Senato nel 1992 nelle fila del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nelle fila del Partito democratico. Dal 2004 è presidente della Fondazione Crs (Centro per la Riforma dello Stato) – Archivio Pietro Ingrao. Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano: Noi operaisti (2009), Per la critica del presente (2013), Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero (2015), Il popolo perduto. Per una critica della sinistra (con A. Bianchi, 2019). Ed anche oggi, a 89 anni, dimostra che la freschezza, e la profondità delle idee e la lucidità intellettuale non hanno carta d’identità.
* * * *
In una intervista a questo giornale, Rino Formica ha sostenuto che il vero deficit politico che grava sull’Italia non è tanto la mancanza di leadership ma l’assenza di pensiero.
Da decenni, non da anni, abbiamo a che fare con la crisi della politica. Intesa come politica moderna. Quella che Max Weber, interprete ed erede di quella grande tradizione, aveva sistemato nel concetto di Beruf: professione e vocazione.
Per uscire da questa inerzia culturale in cui siamo più o meno tutti piombati, finendo come pesci ubriachi nel mondo della rete, senza più riuscire ad emergere nel mondo reale, occorrerà liberare le intelligenze, di cui tutti noi pensanti siamo dotati, dal pensiero unico. Occorrerà non smettere di leggere libri, quelli veri fatti di carta da odorare, da stringere, da evidenziare, da farli nostri fino in fondo all’ultimo neurone. E leggere, leggere “fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto che li accoglie sarà un’immagine che ci fa vomitare” (A. Baricco). Allora saremo davvero il nuovo Umanesimo. Allora Il ‘digitale’ sarà un optional che sapremo governare. Solo allora potremo entrare,con dignità, nel nuovo umanesimo digitale
Siamo tutti connessi. Anzi iperconnessi. In molti lo sono fino a h.24/24. L’iper ce l’ha imposto e potenziato l’esplodere e il dilagare repentino e improvviso della pandemia. O online o isolati da tutto. Con il lockdown di 2 mesi e passa, infine, la rete ci ha permesso, in versione ‘ai domiciliari’, di spaziare nei nostri territori usuali che da fisici sono diventati totalmente virtuali. E mentre, ante pandemia il nostro spazio e il nostro tempo in rete era più che altro ludico, relazionale e informativo, è diventato total time, colmo di tutte le nostre attività professionali lavorative, che, nonostante l’inseguirsi delle varie fasi legate alla pandemia (closed/ semiclosed/ open), continuano per molti a svolgersi online.
Quando una comunità
viene minacciata nella sua stessa sopravvivenza fisica da
lotte intestine, ma anche da guerre o
da calamità naturali, ha tre modalità possibili di tenuta:
1) sottomettersi alla volontà di un Tiranno (il “Leviatano”) – e questo è Hobbes;
2) aderire di comune accordo ad un Contratto (la “Volontà generale”) – e questo è Rousseau;
3) scatenare la violenza contro una Vittima (il “Capro espiatorio”) – e questo è Girard.
* * * *
Insegna René Girard (qui si rinvia a Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo del 1978, ma c’è anche La violenza e il sacro del 1972 e Il capro espiatorio del 1982) che tutto ciò che chiamiamo “cultura” trae origine, e quindi può essere spiegato, dal concetto di desiderio mimetico, nel senso che tutti gli uomini per loro natura tendono a desiderare le medesime cose. Si tratta di una vera e propria legge universale del comportamento umano, una invariante culturale in base alla quale, siccome viviamo in un ambiente di penuria, ciascuno di noi desidera egoisticamente e realisticamente ciò che l’altro possiede, così da imitarci l’un l’altro nel medesimo desiderio di appropriazione (“appropriazione mimetica”): «se un individuo vede uno dei suoi congeneri tendere la mano verso un oggetto, è subito tentato di imitarne il gesto».
Nel merito
della proclamata epidemia di questi mesi sono state spese
parole autorevoli ma
finora poco o per nulla definitive, sempre atteso che possa
darsi un «definitivo» nelle cose della scienza. In quanto al
metodo è
stato invece più facile identificarvi l'ultima metamorfosi di
una crisi ininterrotta che da almeno vent'anni reclama deroghe
ai precedenti
etici e giuridici per risolvere emergenze ogni volta
inaffrontabili con gli strumenti del prima. Se tentassimo una
tassonomia delle eccezioni
condensatesi in questo breve periodo, quella attuale
ricadrebbe nella fattispecie dell'attacco
terroristico. Non tanto per il terrore che integra già
la fenomenologia dell'emergenza, quanto più per i prodotti
propri del
collegato momento riformante: instillare la paura del prossimo
come latore di rischi invisibili e mortali → rinforzare i
dispositivi di
sorveglianza → limitare le libertà che attengono alla sfera
fisica.
Le misure straordinarie di volta in volta adottate nell'evo della crisi perpetua lasciano sempre un sedimento irreversibile nella legge e nella percezione di ciò che è ordinario. E in questo loro spingere ogni volta più in alto la piattaforma su cui si innesteranno le eccezioni successive, in questo qualificarsi non già degli eventi, ma delle reazioni agli eventi come incrementalmente «senza eguali», anche nella loro versione sinora ultima non sfuggono alla regola di ogni ultima versione, di superare cioè le applicazioni pregresse in ogni dimensione possibile.
Il primo prodotto in elenco si specchia oggi, direi in maniera radicale, nel dispositivo del «distanziamento sociale» che fa della negazione della prossimità e del suo comandamento (Mt 22,39) una norma generale.
In autunno,
sul banco delle novità della biblioteca del liceo in cui
insegno, c'era un
libro adesso famosissimo, Spillover di David
Quammen. L'ho tenuto in mano a lungo, sfogliandolo e
leggiucchiandolo; l'amico bibliotecario mi
ha chiesto se volevo prenderlo in prestito (mi conosce, e sa
che di solito se tengo in mano un libro per un tot poi me lo
porto a casa); ci ho pensato
su, e poi gli ho risposto: magari in estate, adesso non ho il
tempo di leggerlo. E poi, mi sono anche detto: una volta
letto, dove trovo il modo di
parlarne in classe, io che insegno storia e filosofia? Fatto è
che il tempo di leggerlo (è un librone, anche se divulgativo),
fra
lezioni da preparare, compiti da correggere, e un mare di
impegni burocratici da sbrigare, forse non lo avevano neanche
le/i collegh@ di scienze.
Poi è arrivata la pandemia, il manifesto ha intervistato Quammen, e di colpo tutto il mondo dell'informazione ha "scoperto" Spillover: e a me è rimasto l'amaro in bocca per non averlo letto e non averne parlato, che sarebbe stato utile, eccome. Potrebbero obiettarmi: ma se l'aggiornamento è un obbligo, leggere un libro per farne argomento didattico non è ottemperare a un obbligo di servizio? La risposta è: no, non lo è. Se leggo un libro e imparo qualcosa, non è riconosciuto come aggiornamento. Se invece (com'è accaduto) c'è una "giornata di studio" nella quale la star dell'evento è una funzionaria del ministero la cui unica referenza è stata per anni l'aver co-firmato (ma col proprio cognome in piccolo) un libro assieme all'ex ministro Berlinguer – ma che, a dispetto di ciò, ha incarichi su incarichi: beh, quello sarebbe aggiornamento. Perché, un po' come le banane, quel convegno aveva il bollino: quello della piattaforma SOFIA. Per la cronaca: non ci sono andato (e questo mi ha causato qualche problema).
Pubblichiamo, in accordo con l’autore, la traduzione italiana di un breve articolo di Alain Badiou, apparso in francese sulle pagine di Libération, il 2 giugno 2020, all’interno del quale il filosofo francese – che era già intervenuto sul tema in un breve testo (https://www.doppiozero.com/materiali/sulla-situazione-epidemica) – torna a riflettere, dopo il tempo ragionevole di una latenza, sulla pandemia e sulla maniera in cui le sue conseguenze intersecano il piano della riflessione scientifica e politica.
Sul piano dell’amministrazione degli stati, Badiou evidenzia come l’emergenza pandemica non abbia prodotto alcun cambiamento, se non una serie di piccole variazioni sul piano della gestione della situazione, tutte tese a conservare e a ripristinare quella normalità di cui la pandemia ha mostrato, in modo tragico, i limiti evidenti. Anche sul piano delle scienze, “uno dei rari campi dell’attività umana – secondo il filosofo francese – che merita fiducia, uno dei principali tesori comuni dell’umanità”, i rischi non sono minori, nella misura in cui la presa ideologica delle “false scienze”, degli “assurdi miracoli”, delle “anticaglie” e degli “impostori”, priva quella stessa attività umana della possibilità di investire le proprie forze in processi di invenzione, unici reali vettori di cambiamento.
L’iconoclastia è un sentimento complesso che accompagna la storia di tutte le civiltà e che risorge nei momenti in cui i nodi vengono al pettine su temi cruciali e in questi tre mesi e nei successivi, ne sono venuti molti e altri ne verranno. Se ne facciano una ragione coloro che si scandalizzano. La rabbia di chi soffre sul proprio corpo e sulla propria pelle l’oppressione secolare o millenaria di una discriminazione e anche peggio è più che comprensibile e se in momenti di particolare tensione le cose tracimano, invece di stracciarsi le vesti sarebbe meglio offrire una capacità di rivivere e patire insieme. Su tutto il resto occorre discutere e saper distinguere, con pazienza, distinguere ogni volta, senza scandalizzarsi sull’abbattimento delle statue o sulla messa al bando di Via col vento; senza accettare tutto a priori con pelose adesioni acritiche, piuttosto prendendo tutto questo anche con un po’ di ironia, perché nell’iconoclastia c’è sempre anche un aspetto ridicolo, ma che va preso anche quello molto sul serio. Esso consiste nel fatto che spesso i bersagli sono quelli del momento, ma se poi si va oltre ci si rende anche conto che un simbolo o una statua ne tirano un’altra come le ciliegie e a quel punto si comprende che è possibile non ci si fermi più: l’iconoclastia tende sempre ad andare fino in fondo nei suoi momenti acuti.
Oggi l’Osservatorio presenta questa interessante conversazione avuta con l’economista Guido Salerno Aletta, con alle spalle una lunga carriera di studioso, attualmente editorialista per “Milano Finanza” e “Teleborsa”. Con lui discutiamo delle prospettive di ripresa dell’Unione Europea e dell’Italia dall’attuale fase di crisi
L’attuale fase di crisi squarcia diversi veli sulle problematicità interne all’Unione Europea, dalla debolezza politica del sistema alle faglie tra Paesi del Nord e del Sud Europa. Come valuta gli sviluppi delle ultime settimane?
Guido Salerno Aletta: L’Unione europea conferma la sua natura di organizzazione plurinazionale con funzioni prevalenti di regolazione economica e monetaria (UEM), che si fonda sul Mercato interno e sulle libertà di circolazione. Anche stavolta cerca di reagire ad uno shock per evitare la disintegrazione dell’euro, lo strumento ideato per evitare le svalutazioni e garantire la neutralità della politica monetaria, ed il collasso della credibilità politica dell’Unione.
L’architettura europea è di tipo funzionalistico, sostanzialmente disciplinare, fondata su divieti pervasivi ed automatici volti ad evitare una alterazione della concorrenza sul mercato.
«Siamo giunti a un punto di saturazione storica del potere costituito che non potrà mai essere potere costituente». È una lezione di storia e di politica, di passione civile e lucidità intellettuale, quella che viene da un signore di 93 anni, uno degli ultimi “Grandi vecchi”, e grandi per statura politica e non per anzianità acquisita, della politica italiana: Rino Formica. Dar conto di tutti gli incarichi di primo piano, di governo – ministro delle Finanze, dei Trasporti, del Commercio con l’estero, del Lavoro e della Previdenza sociale – e di partito, che il senatore Formica ha ricoperto, prenderebbe tutto lo spazio di questa intervista. A dar forza ai suoi ragionamenti, ai sui giudizi sempre puntuali e taglienti, non è il suo cursus honorum, ma quel mix, un bene oggi introvabile sul mercato della politica italiana, di sentimenti e di ragione che Formica offre ai lettori de Il Riformista.
* * * *
Senatore Formica, in una intervista a questo giornale, Giovanni Maria Flick, che è stato ministro di Grazia e Giustizia nel 1996, chiamato a questo importante incarico da Romano Prodi, oltre che trentaduesimo presidente della Corte Costituzionale, ha affermato, dolente: «Che pena e che tonfo questa magistratura dilaniata da faide interne». E questo nel mezzo della bufera del Palamara-Gate. La storia si ripete?
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Raramente la stampa quotidiana
offre spunti di respiro così ampio da riuscire a rappresentare
una visione
complessiva del mondo in poche righe. L’intervista
rilasciata da Pietro Ichino al quotidiano Libero pochi giorni
fa ha questo grande merito. Tuttavia il vero e
impareggiabile merito di Ichino in questa e in altre
esternazioni è quello di fornire una versione pura e senza
fronzoli dell’ideologia
liberista, aiutando così il lettore a comprendere quale sia
l’obiettivo ultimo di società immaginato dai protagonisti
della lotta
martellante condotta contro i lavoratori da parte di chi ne
vuole l’eterno sfruttamento e da parte di chi, consapevolmente
o meno, di questo
eterno sfruttamento costruisce le impalcature, attraverso
presunte giustificazioni teoriche.
L’intervista è un botta e risposta veloce su temi ampi, tutti incentrati sulla crisi economica attuale e sulle misure adottate dal Governo italiano per farvi fronte.
Al margine di aspetti di minore importanza, sono almeno cinque i temi economici cruciali affrontati da Ichino (e altrettante le relative soluzioni prospettate, che costituiscono l’armamentario classico del liberismo oltranzista): 1) la libertà di licenziamento vista come volano per l’occupazione; 2) la causa della disoccupazione rintracciata nella formazione inadeguata dei lavoratori; 3) la convinzione che lo Stato debba ritrarsi dall’economia e non sia capace di “fare l’imprenditore”; 4) l’idea che il sindacato debba integrarsi nell’impresa condividendone i destini; 5) Il mito del lavoro agile a distanza come elemento di trasformazione della natura dei rapporti di lavoro dipendenti. Per non citare altre postille qua e là gettate al vento nell’intervista senza nemmeno la fatica di un’argomentazione minima: inevitabilità di una nuova riforma pensionistica restrittiva; reddito di cittadinanza come disincentivo al lavoro; le tasse come nemico dell’economia; i pubblici dipendenti visti pregiudizialmente come scansafatiche.
Il sultano Erdogan si riprende ciò che gli arabi gli avevano tolto... e, grazie a Giulio Regeni e ai suoi sponsor, anche di più
“Viva gli sciagurati (per lo
sciagurato OMS) napoletani”
(Anonimo
fiorentino)
Le squadre in partita
Da una parte il subimpero del sultano ottomano neo-islamista, padrino di tutto il terroristame che imperversa in Medioriente e Africa, con alle spalle l’impero tenuto in piedi dal Deep State statunitense con il corredo dei “progressisti” imperiali di Soros, di nascosto Israele e, ultimo arrivato, paradossalmente, l’Iran del “moderato” Rouhani, suo rivale in Siria e Iraq.
Dall’altra l’Egitto, maggiore potenza araba, Arabia Saudita, Emirati, il pezzo più significativo del mondo arabo, Bengasi e gran parte della Libia liberata dai jihadisti, la Russia che traccheggia, la Cina che simpatizza da molto lontano. Queste le forze che si fronteggiano oggi nella regione. Il che è individuabile al semplice osservare le mosse dei due opposti schieramenti, ma mistificato e reso ingarbugliato dai servizi mediatici offerti ai soliti attori preferiti.
Regeni, la leva con cui sollevare il Medioriente
Si pensi al “manifesto”, arrivato a sostenere lo psicopatico guerrafondaio Bolton contro Trump, e al suo internazionalista “de sinistra” Alberto Negri. Antiamericano da vetrina, ma anche, all’uopo, antisaudita; detesta i turchi in quanto sterminatori di curdi (dichiarati “vincitori dell’Isis” al posto dei siriani, ed effettivi ascari antisiriani degli USA)), ma oggi come oggi, detesta di più al Sisi, da amico dei russi capovolto in “cocco di Trump”. Il suo condirettore, Tommaso Di Francesco, autonominatosi, nelle more dei giudici di Roma e del Cairo, PM, giudice e, domani, boia del presidente egiziano, dichiara Giulio Regeni “barbaramente fatto uccidere dai suoi servizi segreti”.
La redazione di ‘Ragioni e Conflitti’ ha
posto quattro
interrogativi all’attenzione di Alessio Arena (Fronte
Popolare), Franco Bartolomei (Risorgimento Socialista),
Adriana Bernardeschi (La
Città Futura), Mauro Casadio (Rete dei Comunisti), Giorgio
Cremaschi (Potere al Popolo), Marco Pondrelli (Marx21),
Marco Rizzo (Partito
Comunista), Mauro Alboresi (Partito Comunista Italiano).
Segnaliamo che il segretario del Partito della Rifondazione
Comunista, benché da noi
sollecitato a partecipare al presente forum, ha ritenuto di
non fornire alcun concreto riscontro alla nostra richiesta:
un vero peccato,
un’occasione di confronto mancata. Ecco di seguito gli
interrogativi con le relative risposte, la cui lunghezza
varia entro lo spazio di una
pagina word ciascuna, come raccomandato dalla redazione.
* * * *
ALESSIO ARENA. L’emergenza sanitaria ha reso evidenti diversi punti di collasso del modello di sviluppo attualmente prevalente nel mondo. Negli Stati Uniti, da sempre in prima linea nell’applicazione ortodossa del modello capitalista, il dramma umano è incalcolabile, così come lo è il contraccolpo economico.
«L’œil ne voit que ce que l’esprit est prêt à comprendre» (Henri Bergson)
Che cos’è il materialismo? E’ l’approccio gnoseologico secondo cui la soggettività è, in ultima istanza, un “riflesso” dell’oggettività. Potremmo dire, con Politzer, che “l’essere produce il pensiero” o, con Marx, che “è l’essere sociale che determina la coscienza”. La mente riflette il mondo reale dentro di sé sotto forma di idee sul mondo.
Possiedo l’idea di cosa sia un cavallo perché esistono i cavalli concreti che io riconosco non grazie ad una iperuranica “cavallinità” [1], ma in quanto ho avuto esperienza di qualche cavallo o di qualche rappresentazione di cavallo o di qualche racconto sui cavalli. Senza questa esperienza, diretta o indiretta, non saprei mai riconoscere che quell’animale a quattro zampe con la criniera è un cavallo.
E che cos’è l’idealismo? E’, all’inverso, l’approccio secondo cui l’oggettività è un prodotto della soggettività. Per semplificare: il mondo è un prodotto della mente che lo pensa. Il pensiero produce l’essere. O addirittura “Esse est percipi” (Berkeley, idealismo soggettivo ovvero l’idealismo al quadrato).
Tra l’Ottobre del 1978 e il Febbraio del 1979 Foucault si reca in Iran, inviato speciale del Corriere della sera, per seguire il conflitto ingaggiato da un intero popolo contro una tirannia non più sopportabile. Segue attentamente tutte le fasi di quella che troppo frettolosamente la stampa Occidentale aveva considerato come una vera e propria Rivoluzione. Incontra capi religiosi, si intrattiene con gli studenti dissidenti, partecipa ai funerali delle vittime della provocazione e della persecuzione. Ciò che più lo colpisce non sono le sacche della resistenza organizzata, i giovani marxisti o leninisti, i maoisti; non sono le persone radunate intorno al Comitato per la difesa delle libertà e dei diritti dell’uomo. Ciò che lo impressiona e lo affascina sono le azioni sconsiderate di un intero popolo, privo di ogni cosa, che «con le mani nude» combatte per avere tutto, un popolo «attratto dalla morte, più preoccupato del martirio, che della vittoria».
Sente vicina la rivolta iraniana, più del Maggio francese. Assiste al dilagare del dissenso non come «quegli osservatori di oggi», turbati perché in questo trambusto «non vi possono ritrovare né la Cina, né Cuba, né il Vietnam, ma un maremoto senza apparato militare, senza avanguardia, senza partito. Dove non vi si ritrovano nemmeno i movimenti del ’68.»
Carminati, neofascista militante, già aderente ai NAR e criminale conclamato è stato scarcerato per scadenza dei termini di custodia cautelare dopo circa cinque anni e mezzo di detenzione. Nulla da dire dal punto di vista legale e giudiziario. I termini sono scaduti, per lo meno per quanto riguarda l’accusa di corruzione, e quindi c’è poco da recriminare. “Er Cecato”, come è soprannominato, si è reso protagonista di ben altri atti, molto più gravi, di criminalità politica e comune ma tra indulti, leggi e leggine varie è riuscito a farla franca, comunque a scontare pene molto inferiori rispetto a quelle che avrebbe dovuto (e anche meritato) scontare.
Ma questo è un altro discorso e non è di questo che volevo parlare.
Carminati è il prototipo di quella fascisteria a metà fra la militanza politica e la criminalità comune, ma è questo secondo aspetto che finisce per prevalere e per caratterizzare quell’ambiente. Come dicevo, tutto ciò non è affatto casuale.
Questa gente è dedita al crimine, al traffico di droga, all’estorsione e ad ogni genere di attività illecite, molto spesso si trova ad operare in una zona “grigia”, ambigua, e altrettanto spesso è stata collusa con gli apparati di sicurezza dello stato, più o meno deviati.
Prendiamo spunto da un recentissimo articolo pubblicato su Bloomberg - che riporta dichiarazioni di vari personaggi inerenti i vaccini in via di sviluppo contro il Covid-19 - per fare alcune considerazioni sulla propaganda da sempre usata sui vaccini e alcune clamorose contraddizioni. In particolare, vorrei soffermarmi su un concetto tanto abusato quanto fuorviante: la “protezione del gregge” o immunità di gregge, concetto di cui senz’altro chiunque si sia interessato della tematica vaccinale avrà avuto modo di approfondire almeno un minimo.
In questi anni sui vaccini si è letto e sentito di tutto; i diversi “esperti” o sedicenti tali si sono rincorsi a suon di dichiarazioni sulla bontà, sicurezza ed efficacia di ogni vaccino in commercio, e al contempo hanno cercato di criminalizzare coloro che osassero mettere in discussione la narrativa ufficiale in merito. Ebbene, a forza di “spararle” si finisce per contraddirsi: ne è un esempio l’insieme di dichiarazioni contenuta in questo articolo - che vi invitiamo a leggere per intero qui sotto, ma di cui ora vorrei sottolineare alcuni passaggi che dimostrano come è facile mentire alla popolazione quando si cerca di convincere che vaccinarsi tutti è indispensabile per proteggere la “comunità”.
1. Ho
religiosamente compitato la collazione (rimaneggiata) di
scritti che Riccardo
Bellofiore ha testé dato alle stampe (R. Bellofiore, Smith
Ricardo Marx Sraffa. Il lavoro nella riflessione
economico-politica,
Rosenberg & Sellier, Torino, 2020) e qui mi provo a
recensirla. Per me è stato come compiere un viaggio a ritroso
nella mia stessa vicenda
intellettuale davanti alla evidenza di un identico sentire
(Riccardo, come al solito, non concorderà, ma a me non importa
affatto se lui non
percepisce, perché io invece sì). E dire che non ci siamo mai
frequentati veramente (lui a Torino e a Bergamo, io
stabilmente a
Bologna), sebbene entrambi avessimo da sempre condiviso l’idea
generale che non c’è modo di capire l’economia politica se non
se ne ripassa la storia. È stata questa la grande lezione che
ha dato ad entrambi Claudio Napoleoni in quelle Considerazioni
sulla storia
del pensiero economico, dapprima uscite sulla “Rivista
trimestrale” e poi raccolte nel 1970 sotto il titolo di Smith
Ricardo
Marx, che hanno segnato una intera generazione di
giovanotti, allora aggressivi e irriverenti, che ambivano a
farsi economisti. Poi tanti di loro
si sono persi anche solo per «tirare quattro paghe per il
lesso» (Giosuè Carducci, Davanti San Guido), ma non
Riccardo che
ha proprio voluto intitolare questa sua ultima pubblicazione a
Smith Ricardo Marx+ Sraffa dove il quarto nome, che
nel titolo di Napoleoni
non c’era, non è affatto peregrino se proprio Napoleoni è
stato il miglior divulgatore in Italia dell’unico libro di
alta
teoria che sia uscito nella seconda metà del Novecento: quella
mitica Produzione di merci a mezzo di merci, per
l’appunto, di
Piero Sraffa.
1.-Un dono giusto al momento giusto
Per il mio compleanno Elisa, la nipote dott.ssa in filosofia, mi ha regalato un libretto di Theodor W. Adorno. Titolo: «Aspetti del nuovo radicalismo di destra» (Marsilio, 2020, pp.90).
Il dono è capitato a fagiolo, proprio nei giorni in cui l’amico Ennio, da tenace polemista, mi ha coinvolto nel dibattito seguito al deplorevole episodio della signora, vicesindaco colognese, col volto coperto da una mascherina nera e la scritta mussoliniana “Boia chi molla!”.
Nessuno, tra coloro che hanno stigmatizzato il gesto, singolo o forza politica, ha pensato ad un’imminente marcia su Roma; innegabile, però, che la pagliacciata fascista si colloca in un contesto sociale e culturale in cui il radicalismo di destra marcia quotidianamente nelle coscienze degli italiani. Infatti, stando ai sondaggi di Pagnoncelli, a fine maggio 2020, Fratelli d’Italia si vede attribuire il 16,2% dei voti e la Lega il 24,3%. Totale: 40,5%. Mica male.
Allora mi sono immerso volentieri tra le pagine del libretto a caccia di spunti per comprendere, pur con tutte le differenze del caso, la nostra situazione.
2.-Il testo è la registrazione di una conferenza
Il testo è la registrazione di una conferenza che l’illustre esponente della Scuola di Francoforte tenne il 6 aprile 1967 all’Unione degli studenti socialisti dell’Austria. Pensieri, quindi, che risalgono a più di mezzo secolo fa, in un contesto politico e sociale molto diverso da quello odierno, alla vigilia del Sessantotto. Adorno ha visto nascere nel 1964 il Partito nazionaldemocratico di Germania ed ha assistito a dei successi iniziali in alcuni parlamenti regionali e alle elezioni federali del 1965.
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Derealizzare l’io
Ci siamo condannati a vivere in un mondo alogico ed irrazionale. Si susseguono messaggi contradditori, governano le potenze del dicitur, dinanzi alle quali si resta inermi, senza categorie per filtrare e selezionare i flussi di informazioni ed immagini. La menzogna assomiglia alla verità, l’una è simile all’altra, in un tale contesto il soggetto ricade su se stesso, non crede nel logos, nella possibilità di discernere la verità dalla sua copia, il bene dal male. Il caos regna, l’effetto immediato e duraturo è la sfiducia nell’umano e nelle sue istituzioni. Vivere in un universo storico alogico forma creature irrazionali che convertono la sfiducia nella ragione in adorazione idolatrica per la nuda vita, per la sola biologia pulsionale, la quale diviene la misura del vivere. Vi è dunque un’assenza metafisica, pertanto non vi è dialettica, non vi è tensione tra il polo della verità e del nichilismo, ma si confrontano nichilismi differenti che si autorappresentano come verità. Si derealizza il reale, si incide sul principio di realtà per sostituirlo con il principio non di piacere, affinché esso vi sia, è necessario avere contezza della pluralità delle emozioni e delle percezioni del reale. Il piacere, invece, è pulsione unica speculare all’irrazionale vigente. “Piacere” non per tutti, vi è l’aspirazione utopica ed infantile ad esso, raggiungibile solo per pochi, ma i più vivono guardando il mondo dei vip, i loro eccessi, partecipano alle loro tristezze in assenza di vita propria. La nuda vita devitalizza, derealizza, assottiglia la percezione del proprio “io” fino a renderlo evanescente, nullo, per cui il soggetto deve compensare il vuoto spiando la vita degli altri, vivendo di luce riflessa del nuovo olimpo mondano dei vip. L’io minimo è il vero fine del sistema capitale all’apice della sua estensione ed intensità.
Ci sono quelli che “nulla tornerà come prima”, ma pure quelli che “niente deve tornare come prima”. I primi minacciano, i secondi sperano. I primi esprimono il desiderio dei dominanti. I secondi credono, sbagliando, di rappresentare i dominati. Chi sia egemone e chi subalterno dovrebbero vederlo anche i ciechi.
Grazie al coronavirus i dominanti vogliono costruire una “nuova normalità”. E la paura, che hanno diffuso a piene mani, è la loro principale alleata. Ma alleati di fatto sono pure quelli che pensano che da quella paura possa sgorgare un futuro migliore. Magari avessero ragione! Purtroppo, questa almeno è la mia convinzione, hanno invece torto marcio.
La paura si sposa assai più alla rassegnazione che alla rivolta, ed il potere lo sa. Ecco allora che l’idea della “normalità” deve essere rimossa. Operazione che ben lungi dal favorire le spinte al cambiamento, abitua invece le persone alla perenne incertezza che prefigura il peggio magari solo per far meglio digerire ciò che appare come soltanto il “meno peggio”. Cos’è la disoccupazione di fronte alla morte? La precarietà di fronte ai dolori della malattia? La perdita di reddito rispetto a quella dei propri cari?
L’Italia al bivio dopo gli Stati Generali. Secondo Boeri, Gualtieri e altri esperti bisognerebbe tornare a prediligere il contratto a tempo determinato. Ma, secondo l’economista Brancaccio, questa posizione è scientificamente infondata
Nuova crisi, vecchi schemi. Sul finire degli Stati Generali si discute su quale sia la ricetta migliore per rilanciare il Paese dopo il brusco stop imposto dalle misure di contenimento per il Coronavirus. Proprio come accaduto già in passato, la linea di alcuni economisti, nonché del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, sembra essere quella di puntare sulla flessibilità del lavoro. E così, a dieci anni dalla più grande crisi economica dei tempi recenti, la precarizzazione come soluzione alla disoccupazione sembra ancora essere un orizzonte percorribile per una buona parte degli esperti.
Dopo le pressioni di Confindustria e la proposta del consigliere del governo Marco Leonardi – secondo cui bisognerebbe sospendere le causali sui contratti a tempo determinato per stimolare le assunzioni – è arrivato anche l’intervento dell’ex presidente INPS Tito Boeri, che in un commento su La Repubblica ha proposto una ulteriore deregulation dei contratti a termine per contrastare il boom della disoccupazione. L’endorsement di Gualtieri non si è fatto attendere.
Nonostante la grancassa mediatica abbia portato al parossismo i toni celebrativi, comincia a farsi strada la consapevolezza che il Recovery Fund, proposto da Francia e Germania e adottato dalla Commissione Europea, sia in effetti una presa per i “fundelli”. In cambio di promesse di futuri aiuti, l’Italia dovrebbe immediatamente contribuire per l’ampliamento del bilancio europeo. Insomma, il dato concreto è che il governo italiano dovrebbe sborsare subito una novantina di miliardi, mentre il resto è fumo. I finanziamenti “promessi” dovrebbero poi giungere nell’arco di tre anni a partire dal 2021 e, ammesso che si riesca a superare le condizioni poste, la differenza tra quanto versato e quanto eventualmente riscosso non comporterebbe una copertura dei rischi del proprio debito pubblico.
C’è chi sollecita il governo ad affidarsi al finanziamento interno del debito pubblico invogliando i risparmiatori italiani ad acquistare i BTP. Ma dopo il successo del BTP “Italia”, il Tesoro non appare intenzionato a ripetere la performance, tanto che ha elaborato un BTP “Futura” dal meccanismo oscuro, aleatorio e complicato, fatto apposta per scoraggiare il piccolo risparmiatore.
Se la pandemia ha messo l’economia in ginocchio, con la ripartenza molti economisti si pongono la questione se sia possibile utilizzare gli strumenti economici tradizionali sia per sanare la crisi sociale ed economica, sia per tornare a perseguire gli obiettivi che ci si era posti prima di Covid-19 (fra tutti la risposta alla crisi climatica) [1]. Potrebbe essere questo il momento di cambiare? Lo abbiamo chiesto a Mauro Gallegati, dell’Università Politecnica delle Marche [2], e Andrea Roventini, della Scuola Sant’Anna di Pisa [3].
* * * *
La crisi da coronavirus ha convinto la Commissione Europea a sospendere il Patto di Stabilità e Crescita per poter superare i vincoli di bilancio. Una volta usciti dalla crisi, dovrà essere ripristinato oppure è doveroso pensare ad altri tipi di approcci alla spesa?
Gallegati - Quando si aderisce a una Unione Monetaria si rinuncia a due strumenti di politica economica: il tasso di interesse e la svalutazione. In pratica, ogni paese rinuncia ad avere una sua propria politica monetaria e senza una politica fiscale comune i singoli paesi – soprattutto i più deboli – sono in balia dei mercati.
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Piotr: Dieci punti sul coronavirus: la trinità tecnologica e il nuovo mondo
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Le comunità nere si sono ribellate spesso, dagli anni Sessanta fino a tutto il nuovo millennio, fino a ora. Ma questa volta è diverso, la sollevazione non è mai stata così generale, così duratura, così politicamente forte e propositiva
Contingenze e persistenze. Tra le prime, la
peggiore delle pandemie, in
coincidenza con la peggiore amministrazione presidenziale
delle ultime generazioni. Tra le seconde, mezzo secolo di
economia politica poco meno che
criminale e di dominio da parte di un piccolo ceto di
plutocrati. Al fondo, una crisi sociale, in cui la continuità
plurisecolare del razzismo
contro gli afroamericani ha fatto corto circuito con i
processi pluridecennali della sottrazione di reddito, servizi,
dignità a danno degli
strati medio-bassi e poveri della popolazione. I fatti delle
cronache di queste ultime settimane negli Stati Uniti sono
stati ambivalenti: terribili
per i reiterati omicidi polizieschi di cittadini afroamericani
e straordinari per l’immediatezza della risposta nera e le
grandi manifestazioni
di solidarietà interrazziale, intergenerazionale,
intersezionale (e internazionale) che l’hanno accompagnata
finora. Il movimento
afroamericano è diventato una sollevazione generale contro il
razzismo, l’ingiustizia sociale, Trump. Sottraiamo dunque la
cronaca dalle
considerazioni che seguono per cercare di fornire qualche
elemento che ne spieghi le radici e le ragioni.
Supponiamo di prendere l’ormai famoso, apodittico giudizio espresso una decina d’anni fa dal finanziere Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del mondo: la mia classe ha fatto la lotta di classe e l’ha vinta. Le pezze d’appoggio sono tutte implicite. Nella lingua del vincitore sono date per acquisite, note, tanto evidenti da rendere indiscutibile quel giudizio. Anche gli sconfitti potrebbero essere altrettanto sintetici. Le prove materiali della sconfitta operaia al termine di un secolo di lotta di classe sono altrettanto note, sono le stesse. Sono sotto gli occhi di tutti, stanno nella distruzione delle grandi città industriali cresciute con la seconda rivoluzione industriale, nella disgregazione delle comunità di lavoratori che le hanno abitate e rese grandi, nell’approfondimento drammatico delle disuguaglianze sociali.
Una interpretazione culturale delle fake news a proposito di un libro di Fabio Paglieri
“Cercava la verità e quando la trovò ci rimase
male, era orribile, deserta, ci faceva freddo”. (E.
Flaiano)
1. Fake news e voti poco graditi
Il dibattito pubblico ha da tempo individuato nelle fake news circolanti sulla Rete un facile bersaglio attorno al quale consolidare un pensiero conformistico e sostanzialmente ricco di banalità. Il mainstream giornalistico e politico è mobilitato più o meno dal 2016 contro la disinformazione che caratterizzerebbe la comunicazione online. L’Unione europea, tramite la Commissione, ha istituito una task force di esperti che di concerto con le grandi piattaforme digitali, mediante l’adozione di protocolli che assegnano rilevanti funzioni proprio ai grandi operatori del web, mira ad azioni di monitoraggio e di controllo dei contenuti che vengono diffusi dagli utenti. Francia e Germania hanno approvato leggi che disciplinano, rispettivamente, la comunicazione politica online durante le campagne elettorali e la rimozione immediata di contenuti dalla Rete qualora siano valutati illeciti. Attualmente nel Parlamento italiano riposano quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare che mirano ad istituire, con varie articolazioni, una Commissione parlamentare sulla informazione tramite Internet. E si potrebbe continuare.
A volere leggere in chiave squisitamente politica l’allarme generale sulle fake news, si potrebbe notare che nel 2016 si verificano tre eventi elettorali che rovesciano tanto le previsioni quanto le aspettative delle élite economico-politico dominanti: il referendum Brexit, l’elezione di Trump e infine il referendum costituzionale italiano. Lo sconcerto planetario degli sconfitti è tale che subito parte la caccia alle streghe: i terribili hacker russi in primo luogo, poi i vari untorelli del web che avrebbero traviato intere popolazioni, le quali solo due anni prima erano invece un esempio specchiato di saggezza (come ad esempio il corpo elettorale nostrano delle europee del 2014).
Contropotere si dice in moti modi,
pollakôs légetai. Di almeno uno di questi significati
– una
fase transitoria ma non istantanea in cui ci fronteggiano due
poteri in conflitto e quasi in equilibrio, insomma un dualismo
di potere – oggi
non abbiamo traccia. All’interno di un esteso ciclo mondiale
di lotte abbiamo piuttosto passaggi di contropotere locale,
vigenza di
controcondotte (per usare un termine più modesto) che si
addensano in costellazioni di resistenza e pratiche
alternative, prove di
contro-egemonia. Possiamo inoltre chiamare controcondotte le
forme di vita che si sganciano e fanno attrito rispetto ai
modelli imposti dal mercato e
dallo stato. Il contropotere si presenta oggi come un qualcosa
di plurale, disseminato e virtuale, una potenza non
compiutamente realizzata e forse
destinata all’incompiutezza che è propria di ogni dúnamis
nel passaggio all’atto.
Detto in termini machiavelliani: l’umore del popolo di non essere comandato né oppresso, che incessantemente lo contrappone ai potenti che vogliono comandarlo e opprimerlo, è umore di contropotere. Però, intendiamoci, il popolo o la moltitudine (quale che ne sia il contenuto) non è un soggetto come essenza unificata e unificante e “non è” (ovvero non si identifica) con quell’umore ribelle, ma “lo ha” come un oggetto esterno sia pure affine, se non altro per la posizione occupata dal popolo.
Se x è y, il predicato inerisce al soggetto e ne definisce almeno in parte l’essenza: il ghiaccio è freddo oppure solido. Se x ha y, se Carlo ha un corpo, l’oggetto non concorre a stabilire l’essenza del soggetto, che è più complesso e sussiste anche in caso di mutilazione. Fra i due termini c’è distacco, possibilità di uso o di non uso, e soprattutto di usi diversi. Avere la parola non è prendere la parola o dare la parola.
Da storico dell’arte trovo appassionante il dibattito che divampa intorno alle statue civiche.
Il punto non è la riscrittura della storia: e le provocazioni che in queste ore chiamano in causa libri o film non hanno alcun senso. Perché il vero oggetto di contesa è lo spazio pubblico come luogo in cui una comunità civile costruisce se stessa attraverso una lettura (spesso attraverso l’invenzione) del passato, e indica una via verso il futuro. È commovente che questo accada dopo decenni di privatizzazioni selvagge che tendono a far letteralmente sparire, in tutto il mondo, il concetto stesso di spazio pubblico. Se partiamo da qui, si dovrà convenire che tenere (letteralmente) su un piedistallo nella piazza (centro della polis e dunque luogo politico per eccellenza) un personaggio, significa indicarlo come modello di virtù civili. È l’equivalente civile della santificazione: «guardatelo, prendetelo a esempio, fate come lui».
Naturalmente questo messaggio arriva quando c’è un nesso ancora vivo tra il personaggio e la comunità che lo celebra. I monumenti antichi, medioevali e dell’età moderna sono fuori da questo discorso.
“È alle Borse del mondo che si decide l’etica della società”, così scrive Joseph Roth nel suo romanzo Destra sinistra, pubblicato un mese prima del crollo di Wall Street. Il 1928, l’anno che precedette il grande crash, fu particolarmente effervescente, con aumenti altalenanti ma spettacolari degli indici azionari. Guardando a quel che succede alle borse del mondo in questi mesi di crisi pandemica, è difficile non fare paragoni con quel che accadde allora. Dal tonfo di marzo, le borse hanno recuperato qualcosa come 17 mila miliardi di dollari, con l’indice S&P 500 a circa il 10% dai massimi di febbraio. E questo nel pieno di una crisi occupazionale senza precedenti e del rischio reale di una catena di fallimenti.
Quel che colpisce ancora di più è che nel corso della settimana che ha seguito l’assassinio pubblico di George Floyd, che ha visto lo scoppio di vere e proprie sommosse civili contro la violenza razzista della polizia, Wall Street non ha fatto una grinza, anzi! I produttori di armi Smith&Wesson e Ruger hanno guadagnato nel corso della settimana rispettivamente il 20 e il 10%, e alla notizia di lunedì scorso di un tagliodell’occupazione di 2,6 milioni di americani, l’indice borsistico (S&P 500) è aumentato dell’1.2%.
La pandemia da Coronavirus ha avuto effetti drammatici sul sistema economico, scatenando una crisi economica senza precedenti, prima sul lato dell’offerta (a cause della chiusura della attività nelle are poste in lockdown) che poi rapidamente si è trasformata in crisi di domanda (a causa del crollo del reddito, dei posti di lavoro e l’elevata incertezza del futuro).
Fra le vittime della crisi vi è anche una illustre: la globalizzazione. Infatti, in recessione le esportazioni sono generalmente fra i primi indicatori a crollare, e stando alle previsioni del WTO nel 2020 il commercio mondiale potrebbe diminuire tra il 13% e il 32% (WTO 2020). Sul piano dei flussi di capitali si sono verificate ingenti fughe, in modo particolare dai paesi emergenti. Inoltre, molti stati hanno adottato politiche di contrasto al virus quali la chiusura delle frontiere e il bando d’ingresso per gli stranieri. In pochi mesi la libera circolazione di merci (e servizi), dei capitali e delle persone è stata, per diversi motivi, sospesa o limitata.
Nell’articolo scritto da V. Putin sulla IIWW e pubblicato da una rivista americana oggetto di un precedente post, c’è un invito a costituire una convenzione di storici che riesaminino la storia anche in base a molti nuovi documenti desegretati dal Cremlino che invita le cancellerie occidentali a fare altrettanto, supponendo che forse nei cassetti ci siano ancora cose da tirar fuori. Ma al di là della revisione documentale, Putin sostiene che la causa della IIWW fu nella cattiva pace della IWW e questa è ormai idea ampiamente diffusa presso gli storici. Molti ormai, parlano di una Guerra dei trent’anni (format ben conosciuto nella storia europea) tra 1915 e 1945 con una lunga pausa interna. Del resto, la stessa Guerra dei Trent’anni e quella dei Cent’anni, ebbero lunghe pause interne. Queste “durate” si leggono quando si prende una certa distanza dagli eventi che a livello granulare mostrano significati di un certo tipo mentre quando li si osservano da più lontano, ne prendono un altro. E’ un po’ la differenza che c’è tra grana grossa e grana fine, quella che fa di una macedonia incoerente di pixel, una immagine, come da esempio allegato.
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Quando si dice che
“solo le imprese creano lavoro”.
Quando gli industriali assicurano che nei loro stabilimenti è assicurata “la tutela della salute”.
Quando ti dicono che la prima cosa da fare è “sostenere le imprese”…
In questo e altri mille casi del bombardamento mediatico quotidiano bisogna leggere inchieste come questa, condividerle, diffonderle, seminare schifo, sconcerto, destabilizzare le coscienze avvelenate dalla “narrazione” mainstream.
C’è tutto quel che serve per conoscere il mondo produttivo dei contoterzisti, che vivono spremendo schiavi e si considerano “l’élite del Paese”, gli “unici che sanno quel che bisogna fare per modernizzare”.
Questo tipo di imprese sono la “base elettorale” di Assolombarda e di Confindustria, quelle che hanno scelto – su spinta dei big locali come Tenaris e Brembo (la famiglia Rocca e Bombassei) – il nuovo presidente Carlo Bonomi. Quello che un giorno sì e l’altro pure tempesta da ogni media sulla necessità di abolire qualsiasi vincolo (normativo, regolamentare, contrattuale, fiscale, ecc) al libero strapotere dell’impresa.
Quello che auspica l’eliminazione del potere legislativo (proprio del Parlamento e, al limite, del governo, che già sarebbe una forzatura anti-democratica) a favore di una “contrattazione pubblico-privato” per arrivare a definire le leggi (per loro natura erga omnes, e quindi di interesse generale, non particolare).
Questo inferno sulla terra è stato attraversato da due ottimi “investigatori”, che hanno poi pubblicato il proprio lavoro su Gli stati generali (niente a che vedere con l’iniziativa di Giuseppe Conte, ovviamente).
Nancy Fraser: Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo, Castelvecchi, 2020
1) Lo
squillante inizio del contributo di Nancy Fraser suona:
«‘Socialism’ is back». L’affermazione, pur rivendicata con
orgoglio, è subito sottoposta a una radicale e
straniante domanda: che vuol dire esattamente oggi
«socialismo»? Si può lottare per qualcosa il cui significato è
ancora
indefinito? Giusto partire da ciò che c’è (o sembra esserci),
dopo decenni in cui sembrava impronunciabile persino la parola
«capitalismo»; ma la realtà sembra sfuggirci di mano non
appena ci poniamo questa domanda, quasi si trattasse di un
fenomeno
presente, e tuttavia acefalo, privo ancora di un volto sicuro.
L’unico modo in cui si può sciogliere questa difficoltà, come
per
un verso fa la stessa Fraser, consiste nel riconoscere che i
tradizionali contenuti assegnati alla parola – poniamo il
controllo pubblico (o,
persino, statuale) di tutti i mezzi di produzione,
l’estinzione dello Stato, ecc. – sono ormai insufficienti e a
volte improbabili, di
fronte alle novità che il capitalismo nel frattempo ha saputo
mettere in campo. Sovraccarichi di anni e un po’ ingenui o
polverosi, essi
infatti oscurano, anziché illuminare, l’azione pratica dei
socialisti: rimane sempre una «mala contentezza» rispetto a
qualcosa che potrebbe pur sempre rappresentare una tradizione
da consegnare ormai ai secoli XIX e XX. Di qui il senso di
avere a che fare con mete
che, se pur oggi sembrano muoversi nella direzione giusta e ci
fanno vincere, domani potrebbero segnare il terreno delle
nostre sconfitte. Lo stesso
caso del «socialismo» in Cina, un tema da esaminare con cura,
comprova, mentre se ne distanzia, il nostro assunto.
2) Da dove si comincerà per determinare meglio una parola-concetto così sfuggente come quella di «socialismo»? La via maestra sembrerebbe quella di ripercorrerne i sensi filologico-storici, magari risalendo al Manifesto del partito comunista.
«Colui che attende una rivoluzione
sociale
“pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a
parole che non capisce la vera rivoluzione. […] La
rivoluzione
socialista in Europa non può essere nient’altro che
l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e
di tutti i
malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli
operai arretrati vi pareciperanno inevitabilmente – senza
una tale partecipazione non
è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna
rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno
inevitabilmente, i loro
pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro
debolezze e i loro errori». V.
I. Lenin
Nuova Direzione è un’associazione politica verso la quale sentiamo forti affinità ideali e programmatiche, e verso i cui compagni nutriamo sincera stima. Al suo interno è in corso un dibattito che, al netto di certi arzigogoli teorici, solleva la questione se sia ancora possibile una fuoriuscita dal capitalismo e, se sì, con quali forze e per quali vie è possibile attuarla.
Prendiamo spunto dall’intervento di Diego Melegari e Faabrizio Capoccetti — I “bottegai”, l’ultimo argine? Spunti per una politica oltre purismo e subalternità – e della risposta di Alessandro Visalli – Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere.
Due interventi ad alta densità teorica, forse anche troppo, la qual cosa mette in bella mostra quello che a noi pare un brutto difetto di Nuova Direzione, l’intellettualismo. Entrambi risultano inaccessibili, non diciamo al largo pubblico, ma anche a militanti che non abbiano avuto il privilegio di aver studiato e digerito il complicato e spesso cervellotico dibattito teorico politico che, dopo il crollo del movimento comunista internazionale, ha coinvolto l’intellighentia marxista internazionale. Tuttavia, posta la preliminare opera di decriptazione, i due contributi sono degni di attenzione poiché, oltre a tirare in ballo dirimenti questioni strategiche e tattiche, ci fanno vedere la possibile linea di frattura dell’associazione.
Il rapporto tra marketing e politica è sempre stato visto come quello tra due soci di cui il primo conosce le tecniche di sviluppo aziendali mentre il secondo è più interessato ad acquisirle che a promuoverle. In parte questo luogo comune è vero in parte le cose funzionano in altro modo. In questo scenario, ciò che oggi assume indubbio interesse è il fatto che la politica non ha una propria autonoma strategia di comunicazione, e di sviluppo di un linguaggio, e ha naturalizzato l’adattamento delle proprie esigenze a stili, strategie e piattaforme di comunicazione sviluppati dal marketing. È un fenomeno curioso, dagli esiti culturali più strani: da una parte il linguaggio del marketing, quando usato dalla politica, si politicizza dall’altra, nel momento in cui il linguaggio della politica è adatto a esigenze di marketing, tende a depoliticizzarsi. In generale si tratta del prodotto culturale comune a operatori di mercato e cordate politiche ovvero soggetti che tendono a utilizzare i flussi di comunicazione della società in modi differenti. Nell’ultima decade questo prodotto fa parte, a pieno titolo, della data-driven economy in diverse forme (dalla produzione di dati alla circolazione di merci oltre che, naturalmente, di consenso).
I ministri della Difesa della Nato (per l’Italia Lorenzo Guerini, Pd), riuniti in videoconferenza il 17/18 giugno, hanno preso una serie di «decisioni per rafforzare la deterrenza dell’Alleanza».
Nessuno però in Italia ne parla, né sui media (social compresi) né nel mondo politico, dove su tutto questo regna un assoluto silenzio multipartisan.
Eppure tali decisioni, dettate fondamentalmente da Washington e sottoscritte per l’Italia dal ministro Guerini, tracciano le linee guida non solo della nostra politica militare, ma anche di quella estera.
Anzitutto – annuncia il segretario generale Jens Stoltenberg – «la Nato si sta preparando a una possibile seconda ondata del Covid-19», contro cui ha già mobilitato in Europa oltre mezzo milione di soldati.
Stoltenberg non chiarisce come la Nato possa prevedere una possibile seconda pandemia del virus con un nuovo lockdown.
Su un punto però è chiaro: ciò «non significa che altre sfide siano scomparse». La maggiore – sottolineano i ministri della Difesa – proviene dal «comportamento destabilizzante e pericoloso della Russia», in particolare dalla sua «irresponsabile retorica nucleare, mirante a intimidire e minacciare gli Alleati Nato».
Taranto, Piombino, Terni: le nostre acciaierie svendute alle multinazionali sono in abbandono e il governo continua a farsi prendere per i fondelli dai proprietari. La nazionalizzazione è la soluzione. Ma per fare cosa?
La siderurgia italiana è al capolinea. Come è avvenuto per l’economia in generale, la pandemia è stato solo l’innesco e l’aggravamento di una crisi che stava già incalzando.
Taranto
A Taranto le acciaierie sono agonizzanti. Il concessionario ArcelorMittal (non ha ancora acquistato lo stabilimento) fa melina col governo fra mille pretesti. Dopo le rimostranze per il sacrosanto affievolimento di un troppo permissivo “scudo penale”, leggasi licenza di uccidere, il pretesto diviene il Covid-19 e ArcelorMittal ha presentato il 9 giugno un piano industriale che fa fuori 5.000 lavoratori e fa slittare ancora la realizzazione del nuovo altoforno 5, richiedendo contemporaneamente finanziamenti per poco meno di 2 miliardi.
Siamo stati facili profeti, purtroppo, e quando ci sentivamo ripetere che “nulla sarebbe stato più come prima del Covid” sapevamo benissimo cosa volevano dire quelle parole.
Gianbattista Vico ce lo ha insegnato bene che la storia si ripete e i ricorsi storici sul mondo del lavoro suonano spesso come i rintocchi di una campana a morto.
Il Sistema, sorretto dagli alfieri del grande Capitale, ha sempre agito nello stesso modo e c’era ben poco da sperare circa l’ipotesi che questa volta le cose potessero andare diversamente: la crisi è un momento d’oro per sferrare un attacco micidiale al mondo del lavoro.
La propaganda di regime comincia a pasturare sempre con largo anticipo e gioca sulle parole: i diritti, ad esempio, diventano facilmente dei privilegi e si cerca di convincere la parte più debole del Paese (ahinoi sempre più rappresentativa del contesto generale) che chi gode di determinati diritti sia membro di una sorta di casta da espugnare, da abbattere.
“Certi privilegi non ce li possiamo più permettere” – tuonano – “è bene togliere un po’ ad alcuni perché tutti stiano meglio”.
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Rodotà aveva una concezione
esigente di democrazia: pur essendo consapevole dell’esistenza
di vincoli realistici e dell’impossibilità di superare
integralmente lo scarto tra ideale e reale, pensava che la
spinta emancipativa
insita nella promessa di democrazia non dovesse essere mai
svilita, compressa. Pena una vera e propria crisi di
legittimazione, lo svuotamento di
senso della forma democratica stessa. Da questa “forma”
vitale, esigente derivavano precisi corollari. Uno, ad
esempio: per Rodotà
era un principio irrinunciabile l’incompatibilità tra
democrazia e arcana imperii. In quanto esercizio del
potere in pubblico
orientato all’ideale della trasparenza, essa non può conoscere
accomodamenti con poteri occulti e smodati, manipolazione
dell’informazione, plebiscitarismi, personalizzazioni
ingannevoli. Rodotà ha tenuto ferma questa barra, a differenza
di altri.
Per Rodotà la Costituzione è fondamentalmente un grande progetto politico e sociale aperto, plurale, che ha in sé tanto l’obiettivo prioritario di coinvolgere tutto il demos nella cosa pubblica, superando antiche e nuove cause di esclusione, quanto la previsione di un limite agli eccessi delle maggioranze, e di ogni potere che pretenda di agire incontrollato. Si tratta di un progetto di società che serve a dare sostanza alla democrazia, altrimenti questa diventa una forma vuota. Prendere sul serio l’articolo 3 della Costituzione (e gli altri connessi) significa precisamente realizzare effettivamente la forma di vita democratica, creare le condizioni perché la democrazia sia una forma di vita e non semplicemente un sistema di governo.
La crisi aumenterà terribilmente il peso del debito, condizionando le nostre scelte strategiche. Carli, Ciampi e la transizione dal controllo geoeconomico americano a quello europeo. Le inutili prediche di Caffè. La decisiva quanto trascurata questione demografica
Devo ringraziare
Emidio Diodato per aver avviato il suo viaggio sul vincolo esterno,
ovvero
sulle ragioni della debolezza italiana, partendo dalla
teorizzazione di quel vincolo proposto da Guido Carli nelle
memorie che scrisse con me poco
prima di morire 1, nei primi mesi del 1993 2.
Diversi autori si sono concentrati su quella dichiarazione
3, e sul
tragico pessimismo che la innervava, per dimostrare la
consapevolezza di Carli, e forse non solo sua, del passo
terribile che l’Italia stava per compiere con
l’adesione alla moneta unica. Anzi, per esprimersi più
correttamente, con l’adesione a un trattato sulla base del
quale avrebbe
potuto fare quel passo, non farlo, o farlo in un momento
successivo agli altri contraenti, ma che costituiva una
impalcatura per tutti i paesi europei
basata su un vincolo esterno che si presentava irreversibile.
Tra l’altro quel passo del libro Carli lo aveva scritto prima del resto, in un dattiloscritto che aveva denominato «asterischi» e che mi aveva consegnato nei primi giorni della nostra collaborazione, anche perché derivava da un precedente volumetto di testi raccolti. Escludo quindi che fosse un moto dell’animo sfuggito per caso. Ho avuto tra le mani la copia di una raccolta con i suoi discorsi da parlamentare 4 che regalò a Carlo Azeglio Ciampi nel dicembre 1988 con questa dedica: «A Carlo Ciampi, il governatore che porterà la Banca d’Italia a integrarsi nella Banca centrale europea». La data è importante perché significa che già nel dicembre 1988 l’obiettivo di costruire un sistema europeo di banche centrali era ben definito.
Con questo editoriale inizia la collaborazione della redazione de “l’AntiDiplomatico” con “Cumpanis”
Ribadire che l’attuale inquilino
della Casa Bianca,
al pari dei suoi predecessori, rappresenti semplicemente gli
interessi del tracotante imperialismo nordamericano può
apparire un esercizio
inutile, superfluo, non necessario.
Eppure, non sono pochi i sostenitori di una certa vulgata che vuole Donald Trump come un presidente arrivato in quel di Washington sulla scorta di un grande supporto popolare, contro la volontà delle élite e del cosiddetto deep state. Per questo l’onda tellurica delle forti proteste provocata dal brutale omicidio del cittadino afroamericano George Floyd, avvenuto per mano della polizia a Minneapolis, sarebbe una sorta di rivoluzione colorata nella patria delle rivoluzioni colorate organizzate all’estero, per disarcionare il tycoon newyorchese.
Ad onor del vero una certa discontinuità c’è stata. Ma questa è ravvisabile esclusivamente nel campo semantico. Di fatti concreti nemmeno l’ombra. Donald Trump si è limitato a vuoti proclami. L’ultimo esempio lo abbiamo avuto in occasione del discorso di fine anno, tenuto dal presidente, presso l’accademia militare di West Point. Davanti agli allievi Trump ha dichiarato: «Il compito del soldato statunitense non è ricostruire le nazioni straniere, ma difendere e difendere con forza la nostra nazione dai nemici stranieri. Stiamo concludendo l'era delle guerre senza fine», e poi: «Non siamo il poliziotto del mondo».
A questo punto una domanda sorge quasi spontanea: gli Stati Uniti possono davvero smettere di fare il poliziotto del mondo? La risposta è no. Glielo impedisce la natura egemonica degli stessi Stati Uniti. Per mantenere l’egemonia, gli Stati Uniti devono espandere la propria influenza all'estero.
Non c’è limite alla vergogna degli sfruttatori, lo sappiamo. Ogni loro nuova mossa non riesce nemmeno più a sorprenderci, e proprio questo è il rischio: quello di rimanere, come tutti, “mitridatizzati”. Abituati ai loro veleni, in dose crescente, senza più una reazione.
Siamo anche abituati ai loro ossimori (“guerra umanitaria” resta al momento insuperato), alle parole appiccicate a fatti che significano l’opposto. Ma ogni tanto è indispensabile indicare la nudità del re, perché almeno una parte dell’opinione pubblica – i nostri lettori – siano avvertiti che un passo oltre è stato fatto.
Parliamo di informazione mainstream, allora. E’ noto che la Rete, le nuove tecnologie e piattaforme, hanno incrinato il monopolio assoluto dei grandi media del potere. Tv, quotidiani e riviste su carta stampata, ecc, sono macchine industriali che richiedono investimenti impossibili per qualsiasi forza alternativa. Ciò che dirazzava, in questo settore, è stato da tempo cancellato o “ammorbidito” fino all’irrilevanza (la triste sorte de il manifesto sta lì a dimostrarlo).
Nel suo libro di memorie, nato per affondare Trump, John Bolton racconta il forcing forsennato per evitare un’intesa tra il presidente Usa e l’Iran. Era l’agosto del 2019, vigilia del G-7 di Biarritz e in quell’estate Macron si propose come “mediatore” tra Iran e Stati Uniti.
A riferire le rivelazioni di Bolton è Haaretz, che racconta come Macron avesse organizzato un vertice tra Trump e il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ai margini del G7 di Biarritz.
L’ostracismo di Bolton e Pompeo
L’allora Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, in combinato disposto con il Segretario di Stato Mike Pompeo, tentarono in tutti i modi di “convincere Trump a respingere qualsiasi proposta” in tal senso.
Ma furono spiazzati dalla mossa di Macron, che invitò Zarif a Biarritz, “aprendo le porte a un possibile incontro” tra i due. Macron, ricorda Bolton, aveva convinto Trump ad abbandonare la strategia della massima pressione adottata fino a quel momento nei confronti di Teheran, e, all’opposto, l’avrebbe persuaso ad aprire “una ‘linea di credito’ internazionale verso l’Iran, che avrebbe alleggerito in parte la grave pressione economica” causata dal ripristino delle sanzioni da parte dell’America.
È di qualche giorno fa la relazione della Corte dei Conti dell’Unione Europea che rileva ciò che i movimenti contro le grandi opere inutili dichiarano da decenni: i conti non tornano, quasi tutte le infrastrutture internazionali visionate – tra cui la linea Torino Lione, ma anche la ben più impegnativa nuova linea del Brennero – non garantivano i ritorni economici promessi. Non solo, anche i millantati vantaggi ecologici di queste ferrovie richiedevano parecchi decenni per avere un bilancio positivo nella riduzione della CO2, sempre, beninteso, che le previsioni di traffico ostentate dai costruttori fossero corrette.
Qualcosa non ha funzionato nel così rigido sistema di controllo dell’informazione gestito dai media in mano ai costruttori. Deve essere stata una bella doccia fredda per un personaggio come l’architetto Mario Virano che, il giorno precedente all’uscita della relazione della Corte europea, se ne era uscito sull’Huffigton Post con una intervista in cui ripeteva il mantra confindustriale della burocrazia che blocca i progetti più dei no tav! Una pugnalata alla schiena del direttore di Telt (la società che dovrebbe realizzare la TO-Lione) quella relazione fatta di grafici e numerini che sfatavano le immense promesse delle grandi infrastrutture dall’utilità sempre smentita dai fatti.
La prima ipotesi riguardo a quello che sta accadendo, la si potrebbe riassumere nel seguente modo: c'è un vaccino da vendere, ci sono in gioco centinaia di miliardi, ma persistono problemi sia politici che di elevata diffidenza presso l'opinione pubblica.
Dunque, per sbloccare questo stallo politico, l'OMS decide di scatenare il panico, d'innescare una spirale di paura nei confronti di un'eventuale seconda ondata e, così, di andare contro il parere espresso solo due settimane prima da diversi virologi nazionali (Accademia dei Lincei, San Raffaele di Milano).
Su questo, l'OMS può avvalersi del supporto incondizionato dei media mainstream: questi ultimi, infatti, fin dall'inizio dell'emergenza si sono massimamente impegnati per alimentare tensione, paura e, soprattutto, clima di caccia all'untore.
Se quest'ipotesi fosse vera, però, quello che sta accadendo sarebbe nulla più che uno starnazzare di oche al quale non è detto debba seguire qualcosa di rilevante sul piano concreto.
Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro
Il pregio di questo breve saggio
di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una
parte quello di essere
un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del
marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da
quelle interpretazioni
spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di
sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi
filoni politici.
Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella pletora di
“eterne verità” estrapolate dai classici, dalle conclusioni
politiche postume, che hanno il solo scopo di legittimare
determinati eventi politici e scelte dei partiti e delle
organizzazioni marxiste nel corso
di oltre 150 anni di storia del movimento comunista.
Dall’altra Marx e il conflitto è una sintesi organica dell’impianto teorico marxiano nel suo divenire, dai Manoscritti economici e filosofici del 1844 fino al Das Kapital. Costituisce una cassetta degli attrezzi per chi intenda riprendere in modo proficuo, ossia rivoluzionario e anticapitalista, l’antagonismo di classe nell’epoca storica odierna, quando il comunismo sembra finito nel binario morto della storia o sopito dentro il mare magnum di un pensiero unico che ha espunto da ogni contesto la sua narrazione attraverso le solite vulgate a cui siamo fin troppo abituati, imponendole nell’intera koinè come un mantra, riducendo il comunismo come esperienza (che poi è il socialismo) a crimine o la sua possibilità di giustizia sociale a utopia.
Eppure le rivolte popolari che stanno attraversando il mondo, che esprimono quanto la miseria e l’alienazione del capitalismo sulle masse stia arrivando a punti di insopportabilità e sofferenza, rendono il comunismo un processo storico-sociale immanente, sempre possibile.
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Nel dibattito contemporaneo sul socialismo, una posizione di particolare rilievo è quella di Nancy Fraser. Della sua proposta vanno tuttavia valutati sia i meriti sia i problemi
Il discorso di Nancy
Fraser sul socialismo, esposto in Cosa vuol dire
socialismo nel XXI secolo?, ha il merito di
essere storicamente situato e teoricamente strutturato. Esso è
storicamente situato, perché, fin dall'incipit, se ne
dichiara
l'appartenenza a un preciso contesto politico,
quello determinato, dopo il great crash del
2007-2008, dall'impetuosa crescita del
movimento socialista americano, non solo nella versione di
Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez (l'ala sinistra del
Partito Democratico), ma
anche in quella dei Democratic Socialists of America
(attualmente, la più grande organizzazione socialista
indipendente negli USA). I giorni in
cui scriviamo queste note vedono poi tutte le strade
americane, di campagna e di città, al nord come al sud, a
ovest come a est del Paese,
percorse da uno straripante movimento sociale e politico, da
una ribellione antirazzista che presenta tratti
insurrezionali, alla quale si contrappone
una reazione sorda, un gangsterismo clownesco, ma torvo, il
quale si sveste dei suoi panni “neopopulisti”, per assumere
quelli,
tristemente più noti, dell'avventurismo fascista. Quest'ultimo
sviluppo, tutto da seguire nei prossimi mesi perché foriero di
ulteriori
e imprevedibili sorprese, illumina, da un altro lato,
l'importanza teorica del discorso di Fraser sul
socialismo[1]. Esso, infatti, riposa sul
ripensamento della “classica” separazione, soprattutto interna
a un certo marxismo “ortodosso”, secondo- e
terzo-internazionalistico, fra la sfera della produzione e
quella della riproduzione, e cioè, più esattamente, fra
l'ambito di
ciò che Marx ha chiamato “processo di produzione immediato”[2] e le condizioni di
riproduzione dei rapporti sociali che rendono possibile
quest'ultimo.
La vicenda delle
interpretazioni di Gramsci è attraversata da un motivo
ricorrente, quasi sotterraneo, che ha
assunto diverse direzioni (ora “di destra”, ora “di sinistra”)
e che ha spesso tentato di affermare una pretesa
estraneità del pensatore sardo alla tradizione del marxismo
teorico, la difformità dal pensiero di Marx, il carattere
“sovrastrutturalista” della sua elaborazione, di teorico
della società civile piuttosto che della struttura
economica e dello Stato politico.
“Teorico della società civile”
La circolazione di tale tendenza è antica, risale ai primi avversari politici di Gramsci e precede la stessa edizione degli scritti carcerari, trovandosi, fra il 1944 e il 1945, in alcuni articoli di Leo Valiani e Franco Momigliano, poi nel più famoso articolo di Ernesto Buonaiuti (Nord contro Sud), che meritò una replica di Togliatti su “Rinascita”, dove Gramsci era appunto definito «non marxista». A partire dalla relazione che Norberto Bobbio tenne a Cagliari nel 1967 in occasione del secondo convegno per il decennale della morte (Gramsci e la concezione della società civile), questa linea interpretativa si è diffusa in maniera significativa, arrivando spesso a costituire una premessa tacita nella lettura dei Quaderni del carcere, sia per dimostrare la lontananza di Gramsci dalla politica culturale dei comunisti sia per argomentare, al contrario, i residui totalitari del suo pensiero, la mai conseguita conciliazione con la democrazia.
Il libro che Perry Anderson dedicò alle Antinomies of Antonio Gramsci era ancora ispirato dalle analisi di Bobbio, anche se le conclusioni (a cominciare da una diversa lettura di Marx) andavano in una direzione diversa.
Qualche giorno fa mi è stato chiesto se, viste le recenti “aperture” franco-tedesche nei confronti dell’Italia, abbia ancora senso parlare di una presunta solitudine degli italiani, come ho fatto nel mio ultimo lavoro I senza patria [i]. Ho risposto decisamente di sì.
Non soltanto perché le pretese aperture (vedremo, a saldo, il poco che ne resterà) non modificano la mission dell’Unione europea, che è quella di favorire la centralizzazione dei capitali nelle zone forti del continente, una mission facilitata dal Covid che ha fatto crescere a dismisura il nostro debito e diminuire in proporzione il nostro potere negoziale. Ma anche perché a questa continuità sostanziale si accompagna un mutamento formale non irrilevante (si passa dall’austerità assoluta alla spesa selettiva e pro-tempore, dal divieto di mutualizzazione a forme pur velatissime di condivisione o di “generosità”) che se consente all’Italia di non affogare, la espone però, quasi disarmata, ad un classico ricatto comunitario: più l’Unione sembrerà meno arcigna e “unita”, più chiederà in cambio.
E più avremo bisogno di capire, quindi, quello che non vogliamo capire: che l’Unione non è votata al superamento della nazione ma alla costruzione di patti tra nazioni a vantaggio di quelle più forti. E che perciò dobbiamo scalare l’ostacolo costituito dai decenni (o forse secoli) di storia che ci impediscono di definire con certezza un interesse nazionale: non per imporlo agli altri, ma per meglio orientarci nelle mediazioni.
Immaginatevi un uomo primitivo rapito dal suo tempo mentre sta scheggiando la sua ossidiana e portato a dirigere un centro di neurochirurgia: non avrebbe la minima idea di dove si trova e di che cosa stia facendo. Potrebbe sembrare l’ennesima distopia, ma è esattamente la situazione in cui ci troviamo: abbiamo infatti un troglodita, che per semplicità chiameremo Bill Gates, che pensa di avere il pieno controllo del suo ambiente e non ha la minima consapevolezza di non sapere. Ora potrebbe sembrare che la “primitivizzazione” di un personaggio che viene ritenuto un vate dell’ informatica possa essere fuori luogo, eppure è esattamente in linea col personaggio ormai convinto di poter essere ancora una volta l’inventore del fuoco: egli non si rende conto di quanto scarse e approssimative siano le nostre conoscenze biologiche, di quanto non sappiamo e pensa di poter agire senza conseguenze, come se si trattasse di compilare un programma, solo che tale programma è la genetica umana. La conoscenza è essenzialmente la consapevolezza dei limiti della stessa: le fasi di modernità corrispondono proprio alla capacità di interrogarsi sui limiti, mentre le fasi primitive sono quelle nelle quali si pensa di aver il completo controllo su tutto.
La questione dei barconi carichi di migranti disperati provenienti dalla Libia è da qualche anno uno dei cavalli di battaglia della destra fascioleghista.
La quale, naturalmente, mette in primissimo piano – con la fattiva collaborazione dei media mainstream – sono un aspetto del problema: i senzaterra che scendono da quelle barche. Oppure quel lato ancor più secondario rappresentato dalle navi delle Ong umanitaria che, ormai pochissime, fanno qualche salvataggio per essere poi bloccate per settimane o mesi nei porti di attracco.
Questa inchiesta di Nello Scavo, giornalista de L’Avvenire – quotidiano dei vescovi italiani, non certo il tempio dell’antagonismo politico – illumina un altro po’ l’intreccio immondo che lega scafisti-schiavisti libici, contrabbandieri di petrolio, mafie di varia nazionalità e governi europei. In primo luogo quello italiano, visto che il capo riconosciuto degli scafisti e della “marina militare” libica (è la stessa persona, non ve l’avevano detto?) è stato ricevuto – “con discrezione”, ma anche con tanto di foto ufficiali – in sedi controllate dai militari e dal ministero dell’interno, in territorio italiano (il Cara di Mineo, per esempio).
Lo smart working è una trappola per topi. Servono capitale umano ed infrastrutture collettive
Basta stare con il naso per aria, a cercare una ispirazione sul da farsi. Non è dalle audizioni degli Stati Generali di Villa Pamphili che si troverà il bandolo della matassa.
Non è così che si nobilita l'Italia: si trasforma la Storia in cartapesta.
Bisogna guardare indietro, per capire il futuro dell'Italia.
Il nostro destino non è quello di trasformarsi definitivamente in una Disneyland mediterranea, in una Florida per pensionati tedeschi e scandinavi.
Queste sono le idee nane che hanno già ridotto Venezia, Firenze e Roma in una sorta di luna-park per turisti senza meta. Che passano da un museo all'altro senza coscienza della Storia e da un bar all'altro in cerca di stordimento.
Stiamo svendendo secoli di Storia, bellezze impareggiabili per quattro spicci: scenari buoni solo per vendere panini, pizzette e bibite gassate.
Al contrario, la vocazione dell'Italia è nella produzione flessibile, nell'adattamento continuo, nella capacità di tenere insieme cultura, arte e tecnica.
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Colao and friends: governo e parlamento sostituiti da Microsoft e Vodafone. Col digitale verso la transumanità
“La sicurezza
del Potere si fonda
sull’insicurezza dei cittadini” (Leonardo Sciascia)
Cari amici e interlocutori, stavolta vado davvero per le lunghe. Più del solito. Ma fate finta che sia un livre de chevet, libro da comodino, come li chiamava Montaigne, da prendere a pizzichi e bocconi. Come cinque pezzi corti. Anche perché per un mese e passa non ce ne saranno altri. Non busserò a casa vostra. Sto in montagna, a rompere le palle alle marmotte.
Stati Generali per corona(virusa)re il nostro futuro
Negli Usa ormai si manifesta con crescente spudoratezza quel governo parallelo, chiamato “Deep State”, nella cui militanza confluiscono i falchi repubblicani e, ben più guerrafondai, quelli democratici. Stato profondo ben rappresentato nella serie “Saw”, formato da elementi non eletti ma più potenti degli eletti e che tiene sulla graticola, ultimamente con le sommosse, l’eterodosso Donald Trump, sebbene pure lui prodotto dallo (s)fascio statunitense. Dal momento che l’Italia, da sempre, è l’apprendista stregone minore su cui sperimentare il peggio del colonialcapitalismo, anche qui abbiamo un governicchio in vetrina, parzialmente eletto, e un Deep State per niente eletto, (in)visibile nelle varie task forces, dietro al banco. Ora questo insieme metastatico deve essere davvero bravo per fare avere ragione a gente come l’opposizione che oggi completa il nostro degrado. Eppure ci riesce quando a una conventicola formatasi alle fonti del Po, nel mausoleo di Predappio e nel ventre di Cosa Nostra ha potuto legittimamente dire “non c’è più democrazia”, o “sul Coronavirus ci marciate”, o “è tornata la Troika”.
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Deumanizzare
Il post-modernismo con la fine della ragione oggettiva ha comportato anche il post-femminismo. Quest’ultimo è sostenuto in modo trasversale da uomini e donne, non è impossibile imbattersi in affermazioni di tal genere: “L’universo trabocca di inutilità e gli uomini rientreranno a buon titolo nella categoria del superfluo”, tale dichiarazione è nella premessa del libro di Telmo Pievani “Maschio inutile”. Testi di questo genere devono essere inseriti nel contesto neo-liberista che ha bisogno di sostenere la lotta tra femmine e maschi, mostrando quanto le femmine per natura siano migliori del maschio, si ipotizza “per cause evoluzionistiche il suo superamento”. La lotta socio-economica è trasferita nella natura, dalla quale si evince che la femmina vince. Essere umani e natura sono posti sulla stessa linea. Il nichilismo esemplifica e deconcettualizza, utilizza messaggi-slogan, nello stile del “marketing” per raggiungere chiunque: un messaggio semplice non esige mediazione del pensiero, per cui facilmente diviene “automatismo linguistico” a cui corrisponde la pratica di comportamenti rafforzati dal consenso mediatico. Bellum omnium contra omnes è la verità del capitale. La natura è speculare al genere umano, entrambi sono mossi dalla guerra, la quale è la verità degli animali non umani come degli esseri umani. Operazione ideologica in senso marxiano, il capitale assolda le scienze per confermare i principi su cui si fonda la visione neo-liberista. Le complicità del mondo accademico sono palesi, ma vengono taciute. Mondo accademico, media, economia e politica sono un unico asse, tra di essi vi è continuità ideologica, pertanto il risultato finale è la conferma ripetuta dell’ideologia neo-liberale.
La rivolta dei Gilets
Jaunes è stata interpretata e analizzata molte volte
in molti
modi, a volte del tutto contrastanti. E’ stata largamente
considerata, dalla destra specialmente e dalla maggior parte
dei media dominanti, come
un movimento quasi fascista, un forma di delinquenza
collettiva incontrollabile, in una parola una minaccia alla
democrazia e alle istituzioni
esistenti.
Ma anche tra i generalmente simpatizzanti con i movimenti sociali, tra cui molti attivisti della sinistra, sono rimaste molto forti riserve nei confronti di nuove forme di azione politica e diffidenza riguardo a persone che quadrano politicamente, a volte inducendo anche a rifiutare sostegno a quelle che considerano lotte “impure”, “confuse” o “inaffidabili”. Che i Gilets Jaunes ispirino tali reazioni mostra la misura in cui il movimento ha sorpreso, imbarazzato, disorientato e persino preoccupato le persone. I Gilets Jaunes, in altre parole, sono un movimento che ha scosso gli schemi prestabiliti e i criteri di una “sociologia politica” ben consolidata.
Il principale fattore che ha scatenato le proteste, l’”imposta sul carbonio” sui carburanti, ha indotto alcuni a pensare che i Gilets Jaunes siano virulenti antiambientalisti che difendono il diritto degli automobilisti di inquinare il pianeta. Una cosa è certa: questa rivolta popolare è un evento politico che è significativo, considerando quanto a lungo è durato, quanto diffusamente è stato appoggiato dalla popolazione, quanto ha provocato e continua a provocare effetti sia politici sia sociali.
Cosa sta succedendo nell’economia e nel mercato del lavoro italiano durante la crisi, l’ennesima, innescata dal Covid-19? Cosa possiamo attenderci dai prossimi mesi? Il peggio è passato o la recessione deve ancora pienamente manifestarsi? La consueta nota mensile dell’ISTAT sul mercato del lavoro ha certificato, a inizio giugno, gli effetti drammatici che il lockdown ha già avuto sull’economia italiana. Riteniamo importante fare un po’ di chiarezza su questi dati e provare a immaginare cosa potrà accadere nei prossimi mesi, anche alla luce delle misure finora messe in campo dal Governo.
Guardando ai disoccupati e al tasso di disoccupazione si rischierebbe infatti di cadere in un grossolano errore. Abbiamo letto sui giornali che il tasso di disoccupazione di aprile (6,3%) si è ridotto del 3,9% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (10,2%) e dell’1,7% rispetto a marzo (quando si attestava all’8%): insomma, tra marzo e aprile i disoccupati sarebbero diminuiti di ben 484 mila unità. Parrebbe, dunque, che la disoccupazione sia diminuita, ma questo cozza frontalmente con la logica della crisi e con quanto osserviamo tutti nella quotidianità. Come si spiegano questi dati e cosa possono permetterci di concludere? Facciamo un po’ di chiarezza su numeri e concetti.
La prima esperienza di governo del Movimento cinque stelle è stata preceduta da promesse impegnative in materia di lavoro. Volevano rovesciare l’impostazione di fondo del Jobs Act, la riforma renziana con cui si sono tolte importanti tutele dei lavoratori, prima fra tutte l’obbligo di reintegrare il lavoratore colpito da licenziamento illegittimo (art. 18 Statuto dei lavoratori). All’atto pratico la montagna ha però partorito il topolino. E ora anche questo è in pericolo: con il pretesto della crisi economica provocata dall’emergenza sanitaria ci si è subito attrezzati a farlo fuori.
Il bersaglio è il cosiddetto Decreto dignità[1], un provvedimento che voleva affrontare la punta avanzata dello sfruttamento: la condizione dei lavoratori dell’economia delle piattaforme (i rider ma non solo). Questi sono controllati e sfruttati con tecnologie sofisticate, ma i loro controllori e sfruttatori li fanno apparire come lavoratori autonomi, privati quindi delle protezioni previste per i lavoratori subordinati. Questo risultato si ottiene facendo leva sulla possibilità per i lavoratori di rifiutare la chiamata, ma è evidente che si tratta di un escamotage.
Che la realtà superi la fantasia è una frase talmente fatta che a volte rischia di essere vera così come talvolta capita che i complottismi più ovvi e automatici si rivelino più fondati di quanto non appaia. Quando il premio Nobel Luc Montagner disse che il coronavirus era stato fabbricato nel laboratorio internazionale di Wuhan nel tentativo di realizzare una sorta di vaccino con l’Aids è stato subito preso a male parole da chi, non si comprende bene a quale titolo, si faceva interprete della scienza. Probabilmente o lo dicevano per partito preso o mentivano: non sappiamo infatti se il coronavirus della pandemia narrativa sia artificiale, ma sappiamo che almeno un coronavirus è stato creato in quel laboratorio: la sua “realizzazione” è stata infatti descritta nel 2015 in un articolo su NatureMedicine, una rivista di grande prestigio edito dalla Springer che è uno degli editori monopolisti dell’informazione scientifica. Nulla di segreto, però chi non è uno specialista come lo scrivente deve penare per trovare la documentazione. Ma alla fine eccola per chi vuole andare a fondo in queste cose e vedere come già da anni si facesse questo bricolage virale ufficialmente con il pretesto di studiare il potenziale pandemico di virus di origine animale o almeno così dicono i due direttori della ricerca, Ralph S. Baric e Shi Zheng Li.
Si stringe la morsa intorno al Presidente del Consiglio per l’accesso al “Mes sanitario”. Dopo il diplomatico invito della Cancelliera Merkel qualche giorno fa, arriva oggi il perentorio ‘avvertimento’ dal Segretario Nazionale del Partito Democratico: è pronto un favoloso piano di 10 punti per la rigenerazione e lo sviluppo del nostro Servizio Sanitario Nazionale, possibile, a gratis, da “risorse mai viste prima”, ma bloccato dai capricci ideologici del M5S. Nella narrazione dominante, da una parte ci sono gli anti-europeisti, gli “ancorati al passato” come scrive Nicola Zingaretti, finanche gli utili idioti accodati a Salvini e alla Meloni; dall’altra, ovviamente con il Pd, i progressisti, gli europeisti illuminati, gli uomini e le donne aperti a cogliere le “opportunità e le cose possibili da fare per il bene comune”.
Caro Nicola, sarebbe utile discutere nel merito, anche su Mes. Sarebbe utile provare a farlo attraverso le risposte ad alcune semplici domande.
Prima: perché nessun altro Stato accorre a ritirare il ‘regalo’ offerto dal Mes? Eppure, un significativo risparmio di spese per interessi lo maturerebbero anche Grecia, Portogallo, Spagna, Francia solo per menzionare gli Stati che avrebbero maggior convenienza.
L’analisi delle classi sociali è pochissimo trattata. Ciò non può stupire da parte dell’economia e della sociologia mainstream, perché l’interesse a indagare la composizione di classe è considerato poco utile e soprattutto non funzionale. Il pensiero dominante tende, quindi, a rimuovere le classi sociali o a considerare la suddivisione della popolazione in classi solamente in base al livello di reddito o allo status. Sebbene il reddito percepito sia importante ai fini di una analisi delle classi sociali, una analisi delle stesse non può partire da quello, bensì dalla posizione occupata nei rapporti di produzione del capitalismo. Ciò che, invece, stupisce maggiormente è la scarsa considerazione di una analisi della composizione di classe fra la sinistra radicale. In questo caso, il limite è dovuto al frequente concentrarsi sull’immediato, che si traduce in politicismo e tatticismo elettoralista.
L’analisi della composizione di classe è, invece, necessaria se vogliamo operare in senso strategico, cioè per modificare sulla lunga distanza i rapporti di forza fra le classi e se si vuole radicarsi politicamente negli strati della popolazione che sono più interessati al cambiamento sociale.
L’analisi della composizione di classe fa parte di quel processo analitico di discesa dal modello astratto – rappresentato dal modo di produzione – alla formazione economico-sociale, che rappresenta la concretizzazione storica e spaziale dei rapporti di produzione capitalistici.
L’enfasi
che il dibattito sulla didattica a distanza ha suscitato a
livello
ministeriale e tra gli organi e gli enti, senza trascurare la
longa manus degli altoparlanti mediatici, che da anni
premono per una
trasformazione della scuola in tassello della più ampia
filiera produttiva, doveva suonare subito sospetta, non fosse
altro perché
palesemente orientata a spostare i problemi della formazione
culturale degli studenti sul bisogno di colmare il
ritardo e il gap di competenze
digitali, intese come esclusivo elemento di giudizio
della qualità della didattica scolastica.
Un’enfasi condita dal discorso emotivamente pregnante e propagandistico che fa delle diseguaglianze economiche e sociali, pervenute alla coscienza dei nostri governanti paradossalmente proprio nella fase dell’emergenza sanitaria nei soli termini del digital divide, l’espediente sul quale fare leva per «sfruttare la crisi» dirottando la scuola in maniera ancora più incisiva sul modello impresa e assumendola quale parte attiva della ripresa economica del paese. Nessun bilancio politico di vent’anni di autonomia scolastica e delle politiche antisociali delle quali essa è espressione, nessuna iniziativa per riparare all’emergenza culturale ed educativa che si vuole strumentalmente appiattire sul possesso delle competenze digitali lette nell’ottica esclusiva di un mercato del lavoro in cerca di manodopera salariata.
La duplice direzione amministrativa che il Governo vorrebbe imprimere all’istruzione, per assecondarla ai desiderata delle classi dominanti, emerge chiaramente dalla combinazione delle iniziative proposte dal Comitato di esperti in materia economica e sociale per il rilancio "Italia 2020-2022" e dal Comitato di esperti del Ministero dell’Istruzione, rispettivamente coordinati da Vittorio Colao e da Patrizio Bianchi.
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Andrea Zhok (Trieste,
1967) si è formato studiando e lavorando presso le
università di Trieste,
Milano, Vienna ed Essex. È attualmente professore di
Filosofia Morale, presso il Dipartimento di Filosofia
dell’Università degli
Studi di Milano. Tra la sue pubblicazioni monografiche
ricordiamo, Il concetto di valore: dall’etica
all’economia (Mimesis,
2002), Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo
(Jaca Book, 2006), Identità della persona e senso
dell’esistenza (Meltemi, 2018), e Critica della
ragione liberale (Meltemi, 2019).
* * * *
1. Zhok, è famoso per essere un feroce critico del pensiero liberale e della sua concezione del mondo. La proposta d’organizzazione della società che difende mi verrebbe da definire "comunitarista", in contrapposizione al pensiero liberale che ha come sua logica conclusione un mondo in cui ognuno ha piena libertà di vendere e comprare qualsiasi cosa. Contro questa visione del mondo contrappone il raggiungimento di una nuova ragione comune. Ha legami con il pensiero comunitario questa sua critica? In quale soggetto storico vede incarnarsi la possibilità di ergersi a soggetto antagonista nella fase attuale capitalismo e di porsi come costruttore di questa altra società?
1. Accetto volentieri l’etichetta di ‘comunitarista’, ma vorrei qualificare la ‘ferocia’ della mia critica al pensiero liberale. Come cerco di spiegare nel lavoro che ho dedicato al tema, il problema della ‘ragione liberale’ è di essere una teoria politica contingente, adatta ad un periodo storico, che è assurta invece a visione del mondo, con ingiustificabili pretese antropologiche ed etiche (e persino ontologiche).
43 positivi su 727 tamponi effettuati a tappeto su una piccolissima enclave di immigrati bulgari, in parte stagionali arrivati per la campagna di raccolta, nella cittadina di Mondragone nella difficile provincia di Caserta, in Campania. Mondragone è una cittadina di ventinovemila residenti, di cui tremilacinquecento di cittadinanza non italiana, in un’area di cinquantacinque chilometri quadrati in un territorio ad altissima vocazione agricola e particolarmente impegnata nella filiera di trasformazione bufalina. Uno dei centri della mozzarella campana.
Il comune è posto tra Castel Volturno e Cellole, vicino a luoghi di altissima concentrazione di immigrati come Cancello e Arnone e Villa Literno. Dodici anni fa, il 18 settembre 2008, nel vicino Castel Volturno una missione di morte del clan dei casalesi, diretta contro un pregiudicato locale, coinvolse sei cittadini di origine africana originari del Ghana, del Togo e della Liberia. A quanto risulta dalla indagine non coinvolti nella mafia nigeriana, attiva nell’area.
Molti in questi giorni mi hanno chiesto un parere sul referendum del 20 e 21 settembre sul taglio dei parlamentari. Ecco la mia valutazione, la stessa di sempre
Sostenuta dai potentati mediatici e finanziari, la propaganda anti-casta di questi anni è stata soltanto una delle forme fenomeniche della reazione anti-statuale. In essa non c’è nessuna rivoluzione giacobina, nessun furore rosso. Solo bieca vandea liberista.
Meno di un euro, nemmeno un caffè all’anno. E’ questo il risparmio che ogni cittadino italiano potrà attendersi dal taglio dei parlamentari che sarà oggetto di referendum confermativo il 20 e 21 settembre prossimi.
Iniziata una dozzina di anni fa come puritana ribellione verso un ceto politico ingordo di privilegi, la lotta alla casta giunge così al suo infimo epilogo. In origine la crociata poteva rivendicare risparmi un po’ più consistenti, come ad esempio la stretta di 700 milioni sulle famigerate auto blu.
Global Progress, un centro studi con sede a Washington, legato a sua volta ad una fondazione dagli oscuri finanziamenti, ha pubblicato un “paper”, un documento, su quei leader “progressisti” che costituirebbero un’alternativa all’offensiva cosiddetta “populista”. Tra questi “leader”, o presunti tali, c’è Emmanuel Macron ma anche personaggi già decotti come Matteo Renzi. L’etichetta che viene usata per accomunarli è quella di “insurgents”, cioè ribelli, in base allo schema narrativo occidentalista che ci rappresenta il potere vigente, rigidamente oligarchico con una mobilità sociale verso l’alto azzerata, come se fosse invece “dinamico” e sempre in bilico.
Il messaggio ambiguo lanciato da Global Progress consiste infatti nel suggerire che debba svilupparsi una “resistenza” dei progressisti contro l’avanzata di un fantasmatico nemico interno, cioè il populismo. Allo stesso modo in cui rimane vaga nel documento la nozione di populismo, rimangono del tutto incerte e fumose le linee di quel “progressismo” che dovrebbe contrastare i presunti populisti, cioè personaggi minacciosi come Matteo Salvini, che il suo governo se lo è fatto cadere da solo.
Ho letto questa intervista https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/18110-mario-tronti-politica-finita-con-caduta-del-muro.html dell’amico Umberto De Giovannangeli a Mario Tronti, indubbiamente uno dei filosofi politici italiani più lucidi e interessanti degli ultimi cinquant’anni (di totale assenza di pensiero critico di una certa levatura).
E tuttavia Mario Tronti, che conosco personalmente e che leggo da decenni, non finirà mai di stupirmi per la lucidità delle sue analisi da una parte ma anche per la sua schizofrenia politica (Tronti è un senatore del PD) dall’altra che, per quanto mi riguarda, è un mistero destinato a restare insoluto (né la sua posizione può essere spiegata con il mero opportunismo dal momento che stiamo parlando di un uomo di 89 anni, comunque lucidissimo, e non di un giovane rampante in carriera…).
La gran parte dell’intervista, centrata sull’analisi dell’attuale fase storica e sulla deriva di una “sinistra” ormai da tempo approdata (e organica) all’ideologia neoliberale è sicuramente ampiamente condivisibile, per quanto mi riguarda.
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Moreno
Pasquinelli, su “Sollevazione”, in due consecutivi
articoli[1]
è intervenuto in un dibattito tra alcuni autori[2]
de
“La fionda” e un intervento su questo blog[3].
Oggetto del dibattito era l’azione
politica ed i suoi referenti nelle condizioni contemporanee.
Questa è la mia replica.
Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti avevano voluto sostenere una tesi profondamente radicata nella lunga ritirata della cultura di sinistra e marxista non solo italiana: che la frattura tra le classi sociali sia ormai superata, a seguito del crollo del “compromesso keynesiano”, ovvero del modo di produzione fordista. Secondo questa visione il proletariato, la classe operaia, non esisterebbe più e comunque non si esprimerebbe come classe distinta dalle classi medie. È dunque a queste ultime che bisogna ormai guardare come orizzonte di ogni azione politica possibile. Si tratta di una tesi di grandissimo successo a partire dal finire degli anni settanta e poi completamente egemone negli anni ottanta e novanta[4]. Sia chiaro, è una tesi che ha avuto grande parte nella ritirata della sinistra antagonista, o di opposizione, nelle ‘terze vie’, diventandone un caratteristico marchio di fabbrica. Ma ha avuto talmente tanto successo da diventare con il tempo un semplice fatto indiscutibile. Talmente indiscutibile che da questo partono sia i due autori de “La fionda”, sia quello di “Sollevazione”, pur nella notevole differenza di posizione politica.
Prendiamo, ad esempio, un famoso testo di Ulrich Beck del 1986:
“… la problematica dell’ineguaglianza ha perso la sua esplosività sociale. Persino di fronte a numeri di disoccupati nettamente oltre la soglia dei due milioni, considerata traumatica fino a pochi anni fa, non ci sono state fino ad ora proteste.
I. Introduzione
L’organizzazione sociale capitalistica, che da decenni si è estesa all’intero pianeta, è ormai entrata in un fase di decadenza necrotica. Essa sta distruggendo, sempre più velocemente, i fondamenti stessi dell’esistenza di ogni società umana: il legame sociale fra gli individui e il legame metabolico fra natura ed umanità. Questa spirale autodissolutiva si tradurrà in un devastante crollo di civiltà, molto probabilmente entro la fine di questo secolo [1]. Sono del tutto convinto che non esista nel nostro mondo nessuna forza sociale capace di incidere su questa traiettoria mortifera, e quindi, in sostanza, che non ci sia niente da fare, se lo scopo che ci si propone è quello di prevenire il crollo della nostra civiltà. Ci si possono però porre altri obiettivi, rispetto ai quali in effetti c’è qualcosa da fare. Credo che uno scopo generale possa essere quello di salvare elementi di civiltà dal crollo futuro. Questo significa in primo luogo creare embrioni di comunità che possano attraversare i tempi bui che ci aspettano, comunità che siano informate dal tipo di valori, idee, riferimenti spirituali che pensiamo necessario provare a salvare. Naturalmente tali comunità dovranno per prima cosa sopravvivere, e non possiamo sapere cosa saranno in grado di trasmettere ai loro discendenti. La creazione di simili “comunità di sopravvivenza” è importante soprattutto per i giovani, che probabilmente vivranno buona parte della propria vita in una situazione di crisi sempre più grave, e per le persone dei ceti medi e bassi, che non avranno nessun’altra risorsa da utilizzare se non la solidarietà e l’aiuto reciproco.
http://www.castelvecchieditore.com/prodotto/cosa-vuol-dire-socialismo-nel-xxi-secolo/
1) In filosofia, e in
politica, c’è questo vecchio problema – il
“cominciamento” – ma, a volte, conviene andare per le spicce e
farla corta. Come avrebbe detto il Coniglio bianco ad Alice,
“se non sai dove cominciare, inizia dal principio, che non
sbagli”. Nancy Fraser parte da un haiku di sfida – “socialism
is back” – e qui, e da subito, mi sembra che abbia
ragione e torto: mixed feelings (l’aggiunta: ma il
nodo vero
è capire cosa intendiamo o cosa dovrebbe significare oggi
socialismo è naturalmente il problema cruciale del saggio, e
del
presente). In via preliminare, partirei dal rovescio,
storicamente. La ritornata dicibilità della parola socialismo
nell’ordine del
discorso politico attuale è il sottoprodotto di uno shock
culturale che forse abbiamo sottostimato. Da una ventina
d’anni a questa parte,
più o meno (dai tempi di Seattle o di Genova, per capirci) è
caduto un interdetto mentale decisivo. Dopo la stagione di
Reagan e
Thatcher e Bush siamo tornati a parlare, più che di
socialismo, di capitalismo e quello che sembrava l’unico
orizzonte possibile è
letteralmente saltato, imploso, esploso (intendo come grande
quadro o ricatto mentale, ipnosi mistica: nei fatti i padroni
sono ancora e sempre
loro, l’1%). La Grande Crisi Economica Mondiale del
2008 ha aperto gli occhi persino ai gattini ciechi della
globalizzazione trionfante
postmoderna: il capitalismo – adesso lo vediamo – non è
l’unico scenario possibile, né auspicabile per la vita
dell’uomo sul pianeta terra (e pure per il pianeta terra
stesso, ca va sans dire) e conviene (non è solo
bello e idealistico e
poetico, ma… conviene) trovargli un’alternativa, e
rapidamente. All’orizzonte altrimenti ci saranno soltanto
crisi e
ancora crisi e disastri, devastazioni, irrazionalità
dilagante, catastrofi di ogni tipo, pandemie (nei corpi e
nelle menti), e morte e lutti.
Con tutto il rispetto per Bernie Sanders o Alexandra
Ocasio-Cortez “socialism is back” nel senso che un’alternativa
al capitalismo
tocca trovarla, e se vogliamo chiamarla ‘socialismo’ (o
comunismo) va bene, però – adesso che siamo al guado – bisogna
agire e pensare velocemente; adesso, subito.
Corriere della Sera di lunedì 29 giugno. La consueta vignetta di Giannelli ritrae la Merkel in veste di oculista che indica con una verga le tre fatidiche lettere M E S sul cartellone al “paziente” Giuseppe Conte, il cui sguardo non mette a fuoco le lettere bensì la mano che impugna la verga (Giannelli ce lo fa capire con un artificio grafico, cioè con il classico balloon che gli autori di fumetti usano per spiegarci cosa pensa un personaggio). E se qualcuno è così tonto da non cogliere l’allusione, a chiarirgli le idee provvede il titolo di apertura che sovrasta la vignetta: “Il Pd avverte il governo”, mentre il sottotitolo ospita una citazione dall’intervista a Zingaretti che il lettore trova a pagina 9 (“Basta tergiversare sul MES”).
In poche parole, il primo quotidiano italiano, che da settimane batte con insistenza ossessiva sulla necessità di accettare senza se e senza ma il “generoso” prestito che la Ue a trazione tedesca ci offre per fronteggiare gli effetti della pandemia, tira un sospiro di sollievo perché il segretario del partito che ha scelto di sponsorizzare in questa fase della nostra vita politica ha finalmente deciso di fare la voce grossa (il Corriere non sceglie mai a caso chi appoggiare: si proclama “quotidiano indipendente” perché ha un solo vero padrone, cioè il capitale e i suoi interessi; quanto ai partiti non ha particolari preferenze ideologiche: opta di volta in volta per quello che incarna meglio quegli stessi interessi).
Quando i grandi marchi, le grandi sigle e i grandi nomi iniziano a solidarizzare con i movimenti di massa diventa in un attimo palese quanto ci sia di più marcio nei rapporti di forza tra i “pochissimi” che contano e i “troppi” che non valgono niente.
La loro capacità di cavalcare questi movimenti è incredibile: per i colossi dell'abbigliamento, della tecnologia, dell'alimentare e della politica è sufficiente sposare le tendenze di protesta (contro il razzismo, l'inquinamento, la discriminazione di genere) per entrare a pieno titolo tra i rivoluzionari di oggi, per fingere di stare al fianco di chi manifesta.
Il problema è che si tratta di un'armonia di valori del tutto falsa, che vale solo in quanto marketing duro e puro - necessario per non incattivirsi i consumatori - e che non rientra assolutamente nello spirito ideologico o pragmatico dell'industria.
I grandi nomi del capitalismo e della politica postano foto insieme a Greta Thunberg, passano armi e bagagli con i Black Lives Matter o sponsorizzano MeToo; è la quintessenza del capitalismo, una fiera della vanità in grande stile, un modo per rendere queste importantissime proteste sempre perdenti sotto il profilo della lotta di classe.
Il nuovo rapporto del FMI (il Fondo Monetario Internazionale) prevede un crollo del PIL mondiale del 4,9% (6% per l’Ocse) per l’anno 2020, un enorme aumento rispetto al 3% stimato ad aprile[1], con stime di ripresa anch’esse più lente, ridotte del 6,5% rispetto alle previsioni di gennaio. Nei primi mesi dell’anno l’intero commercio mondiale è diminuito del 12%, cifre mai toccate nemmeno nel pieno della crisi del 2008.
Negli Stati Uniti, la contrazione sarà dell’8%, con una ripresa del 4,5% nell’anno successivo. Tuttavia, una nuova ondata di casi (ben 37.000 in 24 ore) giunta subito dopo l’uscita di questo report, rischia di aggravare ulteriormente questa statistica, aggiungendo benzina al fuoco di un paese che appare sempre più al collasso.
Non se la cavano meglio i paesi dei BRICS. In India vi sarà la prima contrazione in quarant’anni, un calo di ben il 4,5% del Pil, in Brasile invece, complice la gestione scriteriata e classista dell’emergenza da parte del governo Bolsonaro, la contrazione raggiungerà addirittura il 9,1%. La Russia invece perderà il 6,6%. Attualmente solo la Cina pare essere l’unico paese al mondo in grado di mantenere il proprio tasso di crescita positivo, attestandosi comunque all’1% (comunque il valore più basso dagli anni ’70 ad oggi) e nel futuro l’Ocse prevede anche per loro una contrazione.
Non basta essere la fabbrica del mondo e magari costruire tante armi
C'è un sano e comprensibile orgoglio nella volontà di riscatto della Cina, dopo secoli di dominazioni straniere e di guerre coloniali perse.
La Lunga Marcia vittoriosa di Mao Tse-tung, resa possibile da una inedita alleanza di classe tra contadini e piccola borghesia urbana, industriale e commerciale, unita contro gli invasori esterni e gli oppressori interni, ha dato vita con Deng Xiaoping ad una dinamica produttiva irrefrenabile, accelerata con l'ingresso nel WTO che a partire dal 2001 ha abbattuto le tariffe e la gran parte delle quote che limitavano l'export cinese.
Il comunismo è stato rielaborato: non si tratta di abolire la proprietà privata del capitale produttivo, quanto assicurare la coerenza dei rapporti di produzione con gli obiettivi del Partito; non è il plusvalore accumulato con il profitto a dover essere combattuto, ma il suo uso egoistico e non rivolto a fini sociali. E' stata superata così non solo una organizzazione della direzione aziendale che vede presenti solo i rappresentanti dei capitalisti, con le assemblee dei Soci e degli Obbligazionisti, quanto la stessa cogestione, una modalità duale che prevede un livello di partecipazione dei lavoratori alla "direzione della azienda".
Non aspettar mio dir più, né mio cenno:
libero, dritto e sano è tuo arbitrio
e fallo fora non fare a suo senno:
perch’io te sopra te corono e
mitrio.
Dante
The attempt to make man absolutely at home in
this world
ended in man’s becoming absolutely homeless.
Leo Strauss
Τι μοι συν
δουλοισιν;
cosa ho io a che fare con i servi?
Piero
Gobetti
Homo homini contagium. Non vi è molta differenza dall’homo homini lupus.
Qui l’essere umano ammette di essersi ricondotto all’inimicizia e alla paura verso l’altro uomo a causa della natura ferina da cui ambisce separarsi ma di cui non sa venire a capo, con danno incalcolabile non solo alla natura sua propria, ma a quella degli animali, di cui usurpa la forma regolativa.
Il capitalismo sconvolge e rivoluziona tutto, tranne le regole del suo funzionamento e i meccanismi che questo induce. Già 25 anni fa la storia di Chicago si presentava come un’archeologia del capitale, “in quanto scavo nei vari strati delle macerie che esso ha lasciato, degli eserciti umani che ha spostato e mandato allo sbaraglio”. Pubblichiamo la postfazione alla nuova edizione del saggio “Il maiale e il grattacielo” di Marco D’Eramo, in questi giorni in libreria per Feltrinelli
Siamo a una sessantina di km a ovest del lago
Michigan, dove i
suburbi di Chicago si estendono sempre più intervallati e i
pendolari si svegliano sempre più presto per andare a lavorare
a downtown.
Aurora è un comune di 200.000 abitanti, riproduzione frattale,
in piccolo, della città di cui è suburbio: fondata nel 1845,
pochi
anni dopo Chicago, come la sua città madre divenne florida per
le ferrovie, visto che qui nel 1856 la Chicago Burlington and
Quincy Railroad
aprì uno dei suoi stabilimenti più grandi e fu fino agli anni
’60 del secolo scorso il suo più importante datore di lavoro,
prima di chiudere definitivamente all’inizio degli anni ‘70.
Come Chicago, Aurora ospita opere architettoniche di valore
(edifici di Frank
Lloyd e di Mies van der Rohe, tra gli altri).
Aurora è inconfondibilmente midwestern già per il nome: qui nelle grandi piane, i comuni portano nomi che rivelano l'intensità, la speranza, il coinvolgimento che, nel costruirli, ci aveva messo chi li aveva fondati: Aurora appunto, ma anche Confidence, Mystic, Promise City, Bethelem, Chariton, Gravity, Hopeville (Borgosperanza: ancora una volta incrociamo quella potenza del nominare in cui tanto spesso ci siamo imbattuti in questo libro). Ma Aurora oggi non ha niente di biblico (né di nietzscheano, se è per questo), anche se all’inizio del ‘900 si fregiò dell’epiteto di “Città delle Luci” (City of Lights), non si sa quanto ironica parodia della Ville Lumière (Parigi), perché era stata una delle prime cittadine del Midwest a rischiarare le sue notti con l’illuminazione elettrica.
Il filosofo francese
Alain Badiou ha scritto qualche tempo fa un intervento sulle conseguenze della
pandemia SARS-2 in cui formula una serie di interessanti
osservazioni con cui può essere interessante confrontarsi.
Dice Badiou
Non ho trovato dunque nient’altro da fare che provare, come tutti, a sequestrarmi in casa mia, e nient’altro da dire se non esortare tutti a fare altrettanto. Rispettare, su questo punto, una rigida disciplina è tanto più necessario in quanto è un sostegno e una protezione fondamentale per tutti coloro che sono più esposti: certo, tutto il personale medico curante, che è direttamente sul fronte, e che deve poter contare su una ferma disciplina, ivi comprese le persone infette; ma anche i più deboli, come le persone anziane, in particolare quelle in EPAD (European Prevention of Alzheimer’s Dementia) o immunodepresse; e inoltre tutti coloro che vanno al lavoro e corrono così il rischio di un contagio.
Si tratta di una domanda che tutti si sono posta: è giusto sequestrarsi in casa durante la pandemia, ovviamente, avendone la possibilità? Si noti che qui il filosofo francese dice “mi sono sequestrato” e non “sono stato sequestrato” (come forse avrebbe detto uno come Agamben) ponendo così il sequestro nei termini di una scelta, sia pure obbligata, e non di un obbligo subìto.
Come è noto le cose non stanno esattamente come le pone Badiou perché, a dire il vero, non si poteva far diversamente che “sequestrarsi in casa”, dal momento che le misure varate dai governi prevedevano multe salatissime ai contravventori e pattugliamenti delle città (fino al ridicolo degli elicotteri in azione su tetti di casa e spiagge deserte). Quello che Badiou intende dire, evidentemente, è che quella del lockdown è stata una scelta condivisibile.
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Il Banditore – tutti ne tessevano gli elogi fino
al
cielo:
“Che contegno
agevole e pieno di grazia!
Che solennità, anche! Si poteva capire
quanto
era saggio,
solo
con un’occhiata! -
aveva comprato
una grande mappa che rappresentava
il mare senza
la minima traccia di terra:
e la ciurma fu molto contenta di sapere che tutti
l’avrebbero
potuta usare.
(Lewis Carroll,
La caccia allo Snualo)
Il grande capolavoro di far credere l’attuale crisi economica dovuta al coronavirus non ha ancora esaurito la sua carica vitale e mediatica che già subito si stanno introducendo nuovi miti, fra cui quello prossimo ad imporsi: “Se l’economia crolla, non vi preoccupate, inietteremo liquidità e tutto si risolverà!”. Il Denaro, come produttore di ricchezza, per un po’ avrà l’onore di essere celebrato come fonte inesauribile di sviluppo, di nuovo valore, di una nuova grande espansione economica, che ci porterà felicemente ad un nuovo secolo di grandi consumi, di distruzione dei mari, di inquinamento dei cieli, di povertà relegata nel Terzo Mondo, di vita virtuale per le classi medie mondiali... Grazie a Keynes e ad alcuni suoi allievi, grazie al coraggio della FED e delle sue emulatrici, grazie alla fermezza magari di un governo veramente dirigista e dei suoi legionari, finalmente anche questa volta il capitalismo sarà salvo...da se stesso. Credere che attraverso iniezioni monetarie di vario tipo il nostro amato benessere occidentale, che ben c’incanta con le sue sirene, si difenderà, è come credere però che da un tumore una persona possa guarire con una pomata per i calli. O che le statistiche sui decessi della Covid forniti dai media siano credibili. Ma Madama Speranza ha deciso ora di andar a braccetto con Madama Liquidità e a noi non resta che prenderne atto.
Forse mai, nei documenti ufficiali delle più grandi istituzioni economiche mondiali, era apparsa la parola “catastrofe”. Neanche in occasione delle numerose guerra che hanno costellato gli ultimi 70 anni.
L’esordio della catastrofe arriva con le previsioni del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) relative all’anno in corso e quello successivo. E mai come stavolta le “stime” sono aleatorie, visto che alla normale incertezza sul futuro si deve per forza sommare l’evoluzione della pandemia a livello mondiale. Sia per quanto riguarda la forsennata crescita dei contagi negli ultimi giorni (in Italia si ha una percezione falsata “nazionalisticamente”, visto che qui sono invece in calo), sia – soprattutto – per la temuta seconda ondata autunnale.
Di fatto, scorrendo il rapporto Fmi, è salata ogni immaginaria linea di demarcazione tra “fatti economici” ed eventi sociali. Il che sconcerta e disorienta tutti gli economisti liberisti, abituati a trattare i loro schemini numerici come se fossero le Tavole della Legge.
E in effetti Gita Gopinath, capo economista dell’istituto di Washington, è apparsa davvero incerta persino nel provare a ripetere le consuete giaculatorie sul debito pubblico, il ruolo dello Stato, ecc.
In questi giorni i salotti televisivi italiani pullulano di intellettuali che tessono le lodi del MES, descrivendolo come una grande opportunità per il nostro paese e adducendo a supporto di questa tesi l’eventualità di un modesto risparmio (alcune centinaia di milioni di euro l’anno), dovuto ai più bassi interessi passivi sul debito rispetto agli ordinari titoli italiani.
In questo discorso apparentemente lineare i più dimenticano di citare un elemento fondamentale, ovvero che, come sottolineato da alcuni, il privilegio creditizio del prestatore MES (stabilito dai trattati) porrebbe in essere una pericolosa dinamica di “juniorizzazione” dei nostri titoli di debito nazionali, polverizzando sostanzialmente il suddetto risparmio. Difatti se il debito che contraiamo con il MES è sovraordinato rispetto agli altri, cioè gode di priorità di risarcimento in una eventuale situazione di crisi, è ragionevole pensare che chi sottoscriverà i nostri titoli di debito (ad esempio i Btp) potrebbe chiedere un tasso d’interesse maggiorato a “indennizzo” della sua posizione meno favorevole.
Il debito pubblico per ora non sembra rappresentare un problema in Europa e negli Usa ma si sta gonfiando, per effetto della pandemia, a livelli mai visti prima. Due economisti, Grauwe e Griebine, lanciano l’idea di trasformare quello incamerato dalla Bce in una rendita perpetua a interesse zero
La crisi e il debito
Negli ultimi giorni si tende a registrare, almeno in Europa, qualche segno di ripresa dell’economia, insieme ad un calo notevole dei casi di coronavirus, mentre l’ottimismo sembra contagiare, certi giorni, le Borse del nostro continente, oltre che quelle statunitensi.
Ma anche se l’economia migliorasse relativamente presto, soprattutto in alcuni settori, alcuni strascichi della pandemia peseranno probabilmente a lungo su molti paesi. I livelli di disoccupazione potrebbero scendere solo molto lentamente e comunque una ripresa piena dei mercati richiederà parecchio tempo.
Per far fronte ai problemi suscitati dalla pandemia, gran parte degli Stati è dovuta ricorrere e sta ancora ricorrendo ad un forte aumento dell’indebitamento pubblico. Il suo livello sta assumendo proporzioni, soprattutto in casi come quello italiano, certamente preoccupanti, visto che già prima della pandemia non mancavano gli allarmi.
Gli storici sono soliti affermare che il XX secolo globale abbia avuto inizio nel 1914, con il ciclo delle guerre mondiali. È probabile che un domani, il XXI secolo verrà considerato iniziato nel 2020, con l'ingresso sulla scena del SARS-CoV-2. Sebbene il futuro sia ancora abbastanza aperto, la serie di eventi scatenata dalla propagazione del coronavirus ci pone davanti, in maniera accelerata, una specie di prova delle catastrofi che in questo mondo convulso continueranno ad intensificarsi, e che sarà segnato, tra gli altri processi, da un riscaldamento globale la cui traiettoria attuale punta già ad un aumento fra i tre e i quattro gradi. Ciò che si delinea davanti ai nostri occhi, è uno stretto intreccio costituito da molteplici fattori di crisi, che un elemento casuale, tanto imprevisto quanto ampiamente annunciato, è in grado di attivare e scatenare. Il collasso e la disorganizzazione della natura, il caos climatico, l'accelerata decomposizione sociale, la perdita di credibilità da parte dei governanti e dei sistemi politici, la smisurata espansione del debito e la fragilità finanziaria, l'incapacità di mantenere un sufficiente livello di crescita (per limitarci a menzionare solo questo) sono dinamiche che si alimentano e si rafforzano a vicenda, creando un'estrema vulnerabilità, che non sarebbe tale se il sistema globale del mondo non si trovasse in una permanente situazione di crisi strutturale. D'ora in avanti, ogni apparente stabilità sarà solo la maschera di una crescente instabilità.
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Nonostante numerosi e affidabili modelli previsionali avessero anticipato la ragionevole possibilità del diffondersi, prima o poi, di un virus che all’alto potere letale avrebbe unito un’elevatissima capacità di contagio, una sorta di Big One nel campo della scienza medica epidemiologica, il suo arrivo ci ha trovato scoperti e del tutto impreparati alla difesa.
Le immagini crudeli della catastrofe sanitaria, economica, sociale, umana che sta provocando il Covid-19, mostrano la necessità di cambiare radicalmente, e presto, il sistema che l’ha resa possibile. Di cogliere questa disgraziata opportunità per ripensare e cominciare finalmente a costruire la nuova società di cui questa tragedia ha insegnato ad apprezzare la lontana figura.
Intanto, questo spaventoso abisso di sofferenze ha messo in evidenza l’importanza primaria, essenziale, assoluta, che ciascuno di noi ha per gli altri. E, reciprocamente, che gli altri hanno per noi.
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Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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Will I live tomorrow?
Well I just can’t say
But I know for
sure
I don’t live
today
(I don’t
live today – Jimi Hendrix, 1967)
“Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo.” (Warren Buffett, 2006)
Gli eventi delle ultime settimane negli Stati Uniti hanno sicuramente costituito un severo monito, soprattutto per chi, come il finanziere Warren Buffett, uno dei tre uomini più ricchi del mondo, poteva crogiolarsi in un illusoria vittoria definitiva della propria classe su quella degli oppressi.
Le notizie di tali eventi hanno fatto rapidamente il giro del mondo e, esattamente come le lotte contro la guerra in Vietnam degli anni Sessanta, hanno infiammato le piazze dei paesi occidentali e di altri continenti.
La forza delle manifestazioni, il timore suscitato dal loro rapido diffondersi, la capacità di risposta politica dimostrata dai manifestanti (in grado di utilizzare tanto la violenza quanto l’abilità di influenzare mediaticamente e politicamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale), la strategia messa in atto collettivamente nelle strade e nelle piazze hanno costituito una brutta sorpresa per un potere politico e finanziario che da anni si pensava ormai vincitore nel confronto con i subordinati di ogni colore e credo.
La richiesta improvvisa e radicale dello scioglimento delle forze di polizia o almeno di un loro radicale ridimensionamento e di una sostanziale revisione dell’uso della forza ad esse consentito è stato un passo di portata storica, non soltanto per i movimenti americani ma anche per quelli che in ogni angolo del mondo si oppongono ormai da anni alle violenze poliziesche e, più in generale, dello Stato nei confronti di chi difende, sul fronte opposto, gli interessi di classe, ambientali, di genere e appartenenza culturale e etnica.
A partire da giovedì
scorso, si può trovare nelle librerie Apocalisse
e
Rivoluzione di Giorgio Cesarano
e Gianni Collu, appena rieditato in lingua
francese dalle edizioni
La Tempête. Questo libro è stato scritto nel 1972, in
risposta alla pubblicazione del rapporto del Club di Roma sui Limiti
dello Sviluppo. Commissionato dal MIT e
finanziato dalla Fiat, il rapporto preconizzava una «crescita
zero» ed un limite al capitalismo. Alla sua
pubblicazione, Cesarano e Collu reagirono con un'analisi
tempestiva e sottile di
quello che è il modo in cui il capitalismo stava cambiando in
quegli anni: le sue nuove armi erano diventate il millenarismo
religioso, la
colonizzazione dell'individualità e lo sviluppo di un'economia
del debito. Allo stesso tempo, veniva proposto anche un
rinnovamento dei
concetti e dei modi dell'antagonismo rivoluzionario, che non
sarebbe più stato il conflitto tra le classi, ma piuttosto la
lotta dei corpi
della specie umana contro il loro essere messi a morte da
parte del processo capitalistico. A tutto ciò che mette in
discussione la
sopravvivenza stessa della specie, questo libro oppone una
certezza: la rivoluzione comincia dai corpi. Giorgio Cesarano,
a quel tempo, è stato
un autore vicino alla critica situazionista. Egli ha anche
partecipato alla fondazione del Gruppo Ludd, del quale, in
quest'ambito, ha parlato Anselm Jappe.
I pochi iniziati agli scritti di Giorgio Cesarano formano una comunità segreta. E questo perché sicuramente questo autore ha prodotto un pensiero totale e senza compromessi, profondo e dialettico, scritto facendo uso di una prosa infuocata che non si lascia penetrare con facilità, e che continua, per quanto sotterranea, ad affascinare da quasi cinquant'anni.
Presidente, il 2 giugno 2020,
dati gli eventi degli ultimi mesi, è una ricorrenza unica
nella storia della
Repubblica. Lei come percepisce oggi il rapporto dei
cittadini con le istituzioni Repubblicane?
Mi sembra che il rapporto abbia preso una doppia piega. È abbastanza tipico durante le emergenze che i cittadini guardino alle istituzioni, perché sentono il bisogno di essere garantiti. Sicuramente anche il tasso piuttosto alto di popolarità del Presidente del Consiglio dimostra che l’emergenza ha suscitato un forte bisogno di istituzioni. E questa non è una novità: in Italia buona parte dell’antipolitica e della critica delle istituzioni nasce in realtà dal bisogno delle istituzioni, dall’idea che le istituzioni siano inadeguate. D’altro canto c’è una discreta probabilità che nel momento in cui si attenuasse l’emergenza sanitaria e si presentassero le sue conseguenze economiche, il rapporto con le istituzioni tornerebbe ad essere conflittuale e che queste verrebbero sempre più interpretate come ostili.
Le chiedo di proiettarsi invece al prossimo autunno, quando si potrebbe presentare una seconda ondata pandemica a causa delle mutate condizioni climatiche. Secondo lei c’è il rischio di disordini sociali?
Molto dipenderà da come i bisogni economici di una discreta parte della popolazione siano o non siano stati soddisfatti. Se ci fossero gravi momenti di sofferenza economica, fino alla disperazione per certe categorie, e se intervenisse un secondo lockdown, francamente la situazione sarebbe davvero critica. C’è da augurarsi che nessuna delle due ipotesi si avveri, cioè che non sia automatico l’avvento di una seconda ondata della pandemia e che le situazioni di sofferenza dell’economia, e soprattutto di certe categorie, possano essere in un qualche modo sanate.
Domani si apre il semestre europeo della Germania, il paese che esprime le due figure politiche più importanti dell’Europa: Angela Merkel nel ruolo di cancelliera del paese locomotiva e Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Ue. Per la Merkel si tratta del secondo semestre, dopo quello del 2007. In agenda ci sono temi molto delicati: la crisi economica causata dall’emergenza Covid, il nodo del Mes e del Recovery fund, la Brexit, i rapporti con Stati Uniti e Cina, il ruolo della Bce dopo la sentenza della Corte di Karlsruhe. Un groviglio non certo facile da districare, come mostra la visita che ieri il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto alla Merkel presso la residenza di Meseberg. Che cosa dobbiamo aspettarci dal semestre tedesco? Potrebbe iniziare a prendere forma un’Europa meno attenta all’austerity? Che cosa potrebbe cambiare per l’Italia? La Merkel potrebbe abbandonare il suo tradizionale attendismo? Lo abbiamo chiesto a Sergio Cesaratto, professore di Politica monetaria europea all’Università di Siena.
* * * *
“Insieme per la ripresa dell’Europa” è il motto che guiderà il semestre tedesco di presidenza dell’Ue che si aprirà domani, 1° luglio. Che cosa dobbiamo aspettarci?
La risposta è quasi scontata: non molto.
Quando entra in ballo il Pentagono, la parola da usare è guerra. Che non sarà magari quella dei fucili e dei cannoni ma sarà comunque una guerra, senza esclusione di colpi. Dalle parti della Casa Bianca, infatti, sono comparse nelle scorse settimane due liste. Una “bianca”, compilata dal Dipartimento di Stato, e una “nera”, compilata appunto dal Pentagono. Le due liste sono complementari. Quella del Dipartimento di Stato elenca i buoni, quella del Pentagono i cattivi.
Cominciamo dalla lista bianca. Essa è stata redatta da un gruppo di venticinque esperti che il Center for Stategic and International Studies (CSIS) ha convocato da aziende e centri di ricerca di Europa, Asia e Ovviamente Usa. Questi, a loro volta, hanno lavorato sulla base delle cosiddette Proposte di Praga, elaborate nella capitale ceca nel 2019 a conclusione di un convegno dedicato a 5G (il sistema che dovrebbe rivoluzionare comunicazioni e connessioni) e sicurezza. Protagonisti di quel convegno i rappresentanti di trenta Governi, oltre a capitani d’industria ed esponenti dell’Unione Europea e della Nato.
Articolo pubblicato nel primo numero della rivista di Senso Comune ‘Il Ritorno della Politica’
La relazione di lavoro deve assomigliare a una qualunque relazione di mercato: lo pretende l’ortodossia neoliberale, secondo cui l’incontro di domanda e offerta di lavoro deve essere libera tanto quanto l’incontro della domanda e dell’offerta di una merce qualsiasi. Non vi può essere attenzione alcuna per la parte debole della relazione, privata così delle tutele che solo un mercato regolato può assicurare. Neppure vi possono essere ingerenze nell’individuazione dei livelli salariali, dal momento che la redistribuzione della ricchezza viene affidata unicamente al mercato. Per questo si affida al welfare un ruolo limitato, in linea con l’idea che esso rappresenta un incentivo all’inattività: l’inclusione sociale viene fatta coincidere con l’inclusione nel mercato e nulla deve mettere in discussione questo principio.
Fin qui la dimensione individuale della relazione di lavoro secondo i neoliberali. La dimensione collettiva è invece dominata dalla medesima idea che condiziona la disciplina antitrust: occorre impedire le concentrazioni di potere economico, considerando tali anche le coalizioni dei lavoratori in quanto destinate a impedire che il salario e le tutele siano decise attraverso il libero incontro di domanda e offerta di lavoro.
E’ partita l’offensiva finale per imporre al governo di richiedere l’accesso alle linee di credito del famigerato Mes. Il panorama dei media, in proposito, è impressionante. Il Corriere della Sera, in particolare, da giorni martella senza tregua, fino a mobilitare un suo vicedirettore, Federico Fubini, per “spiegare cos’è il Mes” e ovviamente concluderne che è da scemi non richiederlo. Con tanto di “simulazioni” sui fantastici benefici che si avrebbero…
Ultimo è arrivato il “pezzo grosso”, ossia il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, il che pone un’ipoteca pesante sull’esecutivo e sul suo presidente, il mediatore estremo Giuseppe Conte. Non per far cadere un governo che più esitante non si può, ma per condizionarne definitivamente le scelte fondamentali.
La cosa divertente – in realtà fa incazzare per la sfrontatezza – è che sul piano politico Zingaretti recita la parte del “riformista progressista”, mentre lo strumento di cui perora l’adozione è nato per imporre un “riformismo” di segno diametralmente opposto.
Fa impressione, in effetti, veder sventolare lo straccio con su scritto “quasi 40 miliardi per la spesa sanitaria” dal capo temporaneo di un partito che – scambiandosi a volte la poltrona con leghisti e berlusconiani – ha contribuito a ridurre la spesa per la sanità… di 37 miliardi in dieci anni.
Tanti annunci, pochi fatti. È la sintesi dell’operato in risposta all’emergenza da coronavirus delle autorità sia in Europa – con Recovery Fund, Sure, Bei e Mes – sia in Italia. Da un lato il premier Giuseppe Conte ed il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri prima fanno annunci televisivi da centinaia di miliardi di euro mentre le aziende devono ancora vedere la cassa integrazione, poi finiscono con il chiedere “atti d’amore” alle banche che, al netto dei circa 6,5 miliardi concessi a FCA, si sostanziano in un nulla di fatto.
Dall’altro l’Unione Europea che, in un momento che necessita di risposte rapide ed efficaci, non fa che ritrovarsi una volta al mese per non decidere nulla e rimandare il tutto al meeting successivo. Si veda quanto emerso dall’ultimo Consiglio europeo, in cui il Presidente Charles Michel ha detto che a luglio si cominceranno i negoziati seri. Come se finora si fosse perso tempo.
Si parla di Sure e aiuti dalla Bei, che però ancora non partono perché mancano le garanzie. Si parla di Mes con un tasso di interesse agevolato. Ma al contempo introduce un creditore privilegiato, alzando il costo degli interessi per la collocazione dei Titoli di Stato. Si parla di Recovery Fund, ma se il funzionamento per l’allocazione dei fondi è quello standard, significa che un Paese finanziatore netto come l’Italia finirebbe per versare più soldi di quanti ne riceverebbe.
Il
capitale e la sua crisi strutturale: un sistema di
mediazione da superare
In “Oltre il capitale: verso una teoria della transizione”, István Mészáros sviluppa una critica senza compromessi del sistema del capitale, accompagnata da una strategia politica coerente volta ad aiutare i lavoratori del mondo nelle loro lotte per l'emancipazione. Ci sono innumerevoli contributi presenti nel lavoro. Ciò che forse può essere messo in evidenza in primo luogo è la concettualizzazione del capitale come un complesso di mediazioni di secondo ordine - vale a dire: mezzi alienati e obiettivi feticistici della produzione, lavoro "strutturalmente separato dalla possibilità di controllo", denaro, la famiglia nucleare, il mercato mondiale e le varie forme dello Stato del capitale - che si afferma sulla mediazione di primo ordine dell'attività produttiva, subordinandole gerarchicamente e componendo con esse una dinamica guidata dall'imperativo della "massima estrazione praticabile del pluslavoro”, in un movimento sempre cumulativo, espansivo,"automatico"- nel senso che questo processo si sviluppa senza che la collettività umana sia in grado di controllarlo coscientemente - ed è, oggi più che mai, dispendioso e distruttivo.
All'interno di questo sistema, dice Mészáros, lo Stato non è altro che l'elemento la cui specificità consiste nel promuovere la rettifica - cioè la momentanea "armonizzazione" - dei "microcosmi strutturati antagonicamente" che configurano il capitale.
Si trova all'interno del complesso in questione, partecipando attivamente allo spostamento delle contraddizioni - alcuni dei cosiddetti "limiti relativi" - inerenti a tale sistema. Per questo motivo, afferma il filosofo, è sbagliato prendere lo Stato come un'entità separata dal capitale, in grado di imporre redini e frenare la sua spinta feticista.
Il 28
giugno 2020 ricorreva il secondo anniversario della morte di
Domenico Losurdo,
insigne filosofo e storico italiano. Scrittore assai
prolifico, la sua scomparsa ci ha lasciati privi di una voce
severa, capace di giudicare con
luminosa coscienza aspetti centrali della storia delle
ideologie moderne, mettendo in luce gli aspetti di riscrittura
della storia operati dal
pensiero contemporaneo liberale e svelandone puntualmente gli
imbrogli retorici e le contraddizioni (“Il revisionismo
storico. Problemi e
miti”,“Controstoria del liberalismo”).
Di questo pensiero Losurdo ha analizzato le tecniche propagandistiche palesando, con rigore, la resa storica, teorica e politica dei movimenti di pensiero deputati allo smascheramento e alla produzione di alternative storiche (“Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana”; “La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra”).
Il centro speculativo dell’opera di Losurdo nondimeno si concentra nel superamento dell’idea liberale dell’avvenuta “fine della storia” (Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo), concentrando i suoi sforzi nel delineamento di una “teoria generale della lotta di classe” a partire dai testi engelomarxiani. Teoria, questa, a sua volta inscritta nella più ampia ricostruzione della distinzione tra marxismo occidentale e marxismo orientale – una distinzione che ingloba e supera il mero riferimento geografico e abbraccia aspetti teorici fondamentali (“La lotta di classe. Una storia politica e filosofica”; “Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere”). Questi ultimi due testi, nati dalla viva convinzione dell’autore che la lotta di classe sia la categoria principale che anima la vita pratica, ci spingono a domandarci: che forma assume oggi la lotta di classe? [[1]] E ancora: siamo davvero sicuri di sapere che cosa sia, in sé, la lotta di classe?
L’emergenza COVID-19 ha portato
alla ribalta un concetto, quello di “smart working”
o
“lavoro agile”, che fino a poco prima
dell’emergenza interessava una parte minoritaria dei
lavoratori.
Come noto, molte attività sono state svolte dai lavoratori – anche su input del Governo – fuori dall’usuale luogo di lavoro (generalmente in casa, data la pressoché totale impossibilità di uscire durante il lockdown). Ciò ha alimentato inevitabilmente un dibattito su questa modalità di lavoro. Se, da un lato, lo smart working può effettivamente mettere il lavoratore nella posizione di avere più tempo libero (si evitano gli spostamenti, si possono utilizzare i tempi morti della giornata lavorativa per svolgere attività utili al lavoratore stesso o al suo nucleo familiare), dall’altro può facilmente condurre ad abusi, soprattutto laddove il passaggio al modello organizzativo basato sul lavoro a distanza avvenga, come è accaduto durante l’emergenza, senza il tempo sufficiente per definire la cornice in cui la prestazione lavorativa deve svolgersi.
Divisi anche gli osservatori. Da un lato, gli ottimisti come Domenico De Masi (sociologo vicino al M5S e, quindi, animato da visioni futuristiche e senza classi sociali, nello stile dei Casaleggio) sostengono che lo smart working sia una specie di pietra filosofale o di macchina del moto perpetuo, grazie alla quale “ci guadagnano tutti”. Dall’altro, il sempreverde Pietro Ichino, che si lamenta della “vacanza pagata al 100%” di cui, secondo lui, avrebbero usufruito i lavoratori pubblici (ma di lui ci siamo già occupati). E, ancora, dal punto di vista dei sindacati, c’è chi sostiene che lo smart working può costituire un nuovo strumento di sfruttamento.
Si moltiplicano gli allarmi, gli avvertimenti, le previsioni plumbee. Per quanto prevedere il futuro sia diventato un esercizio di fantasia, alcune cose si possono certamente dire.
Fin qui la caduta dell’occupazione e dei redditi, specie quelli più bassi, è stata relativamente contenuta con una dose massiccia di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, sussidi di ogni genere ed entità, ecc). Strumenti che ovviamente hanno un costo proporzionale alla platea degli interessati (milioni di lavoratori e imprese) e per definizione impossibili da mantenere a lungo.
Il governo Conte sta meditando la loro estensione fino al 31 dicembre (la scadenza attuale è ad agosto). Ma è chiaro che si tratta solo di un rinvio, che riguarda però il grosso del sistema produttivo e commerciale italiano.
Nel frattempo non è che tutto sia rimasto in sospeso. Le aziende hanno licenziato lo stesso, eliminando pressoché completamente i contratti a termine col semplice meccanismo del non rinnovo.
Ustica: un nome che da quarant’anni, ormai, è legato al ricordo dell’abbattimento del DC9 dell’Itavia e alla strage nei cieli del 27 giugno 1980. A sentire il nome del comune siciliano ben pochi italiani penseranno alle bellezze e al fascino dell’isola, poichè una maggioranza schiacciante penserà ai fatti di quella notte. Fatti dibattuti e discussi, su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, di byte e di ore televisive.
Ma la notte buia e oscura non è mai finita e sempre nuove trame e nuovi depistaggi si susseguono, mentre il numero delle «vittime» è cresciuto negli anni. lL strage di Ustica, infatti, ha ucciso anche anni dopo.
Il DC9 abbattuto apparteneva all’Itavia, colpita subito dopo il 27 giugno 1980 da una campagna delegittimatoria che tentò di addossargli le responsabilità di quella notte e, già gravata da pesanti debiti, cessò l’operatività il 10 dicembre di quell’anno. Due giorni dopo gli fu revocata la licenza di operatore aereo e l’anno dopo fu posta in amministrazione straordinaria. Ma, incredibilmente, 39 anni dopo è ancora formalmente esistente e sono ancora in carica tre commissari straordinari.
Il soggetto è la “sinistra”, i fini sono l’aspirazione alla “libertà sostanziale a fini di eguaglianza” presi dall’articolo postato che li riprende dal Bobbio di “Destra e Sinistra” (Donzelli 1994), i mezzi si son persi. Perché si son persi i mezzi?
Alla domanda finale, i pensatori che si sono cimentati nell’analisi critica, hanno per lo più risposto rifacendo la storia della sinistra degli ultimi trenta anni, convenendo sulla cronologia che vede il punto critico nel ’89-'91 detto “Crollo del Muro di Berlino” a cui però andrebbe aggiunto “Implosione dell’Unione Sovietica”. Da lì parte una descrizione sostanzialmente unitaria di degenerazioni, sbagli, inavvertiti deragliamenti che ha portato la “sinistra” maggioritaria a porsi sul versante di sinistra del paradigma liberale che però di suo è di “destra”. Tutto giusto, ma la domanda “perché?” chiama ad una diagnosi, non solo ad una descrizione. Perché ciò è avvenuto? perché un tradizione politica nota per la fioritura plurale di intelletti e studiosi acuti, ha smarrito così inconsapevolmente i suoi fini? A mio avviso, perché ha smarrito i mezzi.
Se le classi dirigenti, pur in evidente difficoltà, provano a riorganizzarsi dopo lo shock, la nostra parte è ancora disorientata. Ma come iniziamo a vedere dagli Usa, il «rilancio» non verrà dall'alto ma da radicali conflitti sociali
Le ultime settimane hanno visto il ritorno anche in Italia dei movimenti. Le varie piazze autoconvocate di Black Lives Matter sulla scia delle rivolte afroamericane – piene soprattutto di giovani, donne e seconde generazioni figlie di migranti –, il risveglio dell’attivismo sociale con mobilitazioni seppur simboliche di fronte agli Stati generali del Governo, le piazze milanesi di contestazione del «modello sanitario lombardo» e le mobilitazioni di insegnanti, studenti e genitori per un reale rilancio dell’istruzione pubblica dimenticata durante la pandemia.
Si inizia pian piano a uscire dallo stordimento del lockdown, ma ancora non è facile, anche per le aree politiche più radicali e i settori di movimento del nostro paese, immaginare come agire un conflitto sociale e politico all’altezza di un contesto in cui incombe il rischio di un profondo peggioramento delle diseguaglianze sociali – e di un’ulteriore regressione politica.
«La nuova emergenza». E’ questo il titolo dell’editoriale di Federico Fubini sul Corriere della sera di ieri. Che si parli dell’emergenza economica ed occupazionale, dopo quella sanitaria dei mesi scorsi? Neanche per sogno.
Per il Fubini la nuova emergenza ha tutt’altro nome, quello di uno “Stato-mamma”, dal quale bisognerebbe uscire al più presto.
Che milioni di italiani, esattamente quelli più bisognosi d’aiuto, lo “Stato-mamma” proprio non l’abbiano incrociato, è un particolare che al Fubini sfugge proprio. A lui basta riprendere la solita retorica cantilena contro l’assistenzialismo.
Polemizzando con chi vedeva nell’epidemia, e perfino nel disastroso confinamento che si è voluto imporre agli italiani, un’occasione per rilanciare il ruolo dello Stato, eravamo stati facili profeti nel prevedere come lorsignori sarebbero ben presto tornati ai santi vecchi ed ai tradizionali arnesi del neoliberismo. Tra questi, ovviamente, il loro argomento anti-statale preferito: quello contro l’assistenzialismo, vero o presunto che sia. Argomento che prevede naturalmente due pesi e due misure (e che pesi, e quali misure!). Ad esempio, secondo il loro metro di giudizio, 600 euro al mese ad un cassaintegrato sono “assistenzialismo”, 6 miliardi di garanzie ad Fca ovviamente no.
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Un’epidemia
è un processo naturale relativamente banale: se ne può morire,
certo, ma non più che di mille altre cause. Questo fatto non
basta perciò a farne un evento, la cui portata dipende dal
modo in cui
è percepito, dalle risposte cui dà luogo, dalle ragioni o
sragioni che le motivano. La crisi sanitaria mondiale del 2020
rappresenta
meno una nemesi della Natura contro società inconsapevoli, che
non la rivelazione, e l’intensificazione, di loro aspetti e
tendenze.
È peraltro il caso di tutte le Grandi Paure note attraverso i
secoli: l’Anno mille, la jacquerie nel 1789, la guerra
atomica negli
anni Cinquanta… Ogni volta, vi sono certo dei fatti reali alla
base di tali accessi di angoscia e di panico, ma questi ultimi
e i loro effetti
obbediscono a logiche proprie, spesso senza comune misura con
i dati oggettivi. È così che in siffatte crisi ci troviamo
confrontati
principalmente a noi stessi, cioè alle società in cui viviamo
e che le nostre azioni riproducono, ai loro rapporti di
proprietà e
di potere, alle loro ideologie e credenze: tutto ciò che
costituisce, secondo la tradizione dialettica, la seconda
natura, la quale nella
specie umana sostituisce la prima, proiettando su questa i
propri fantasmi e temendone il ritorno nella penombra
dell’orrore mitico.
Si può così supporre che il vero evento sia meno l’epidemia che non il consenso di autorità politiche e sanitarie, di istituzioni statali e sovrastatali, di esperti e comunicatori, verso un lockdown mondiale che Marco D’Eramo definisce sulla «New Left Review» un «esperimento di disciplinamento sociale senza precedenti».1 Attuato con entusiasmo dai decisori e approvato o subito passivamente dalle popolazioni, è forse questo esperimento l’aspetto veramente inaudito di questa crisi, il fatto destinato ad avere delle implicazioni durevoli e profonde.
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Prima di entrare nel
merito della argomentazione, del contesto, e della valutazione
di queste due misure vorrei anticipare
qui a grandi linee la valutazione complessiva che emerge.
Il MES ‘pandemico’ o sanitario, nonostante l’assenza di condizionalità ex-ante (eccetto che sulla destinazione dei fondi) presenta insidie rilevanti connesse al suo prevedere una ‘sorveglianza rafforzata’ sulla politica di bilancio dei paesi debitori pienamente incardinata nel quadro normativo dei trattati e quindi in quelle regole di finanza pubblica che hanno già dimostrato la loro disfunzionalità, specialmente in periodi di crisi.
Il Recovery fund proposto dalla commissione presenta una componente estremamente limitata, nel caso dell’Italia, di risorse e ‘a fondo perduto’. Esso ha però il vantaggio importante entro il quadro istituzionale attuale di poter realizzare spese e investimenti pubblici che possono favorire la crescita dell’economia nei prossimi anni, restituendo poi tali risorse in modo dilazionato nel tempo su un orizzonte temporale lungo.
Cosa è cambiato nelle analisi macroeconomiche ‘dominanti’ e istituzionali dal 2008 a oggi
La versione standard dei modelli macroeconomici insegnata sui libri di testo sino al 2008 indicava che politiche fiscali restrittive (di ‘austerità’) hanno effetti negativi nel breve periodo, ma neutrali o positivi nel medio-lungo periodo (in quanto favorirebbero una crescita degli investimenti privati).
Il precedente volume di Thomas Piketty, Il
Capitale nel XXI secolo, aveva
una lunghezza di oltre 900 pagine. Quello appena uscito in
traduzione italiana, intitolato Capitale e ideologia,
consta addirittura di 1.200
pagine.[1] Le biblioteche sono
piene di libri ponderosi che tanti citano, ma che quasi
nessuno legge integralmente. Le opere di Piketty rischiano di
subire lo stesso destino:
un’analisi basata sui dati di kindle, documentò che il lettore
medio lesse, del libro del 2013, appena 26 pagine.[2] Se però, con
determinazione e pazienza, prendiamo in mano questa sua ultima
monografia, ci accorgiamo che non è prolissa, poiché ogni suo
capitolo,
animato da una scrittura densa e nitida, si colloca in un
disegno intellettuale unitario. Ancor più, ci accorgiamo che
essa merita il tempo
della lettura, poiché verte, con argomentazioni sempre
pregnanti, su alcuni degli argomenti centrali nelle scienze
sociali e nel dibattito
pubblico: la natura del sistema economico odierno, i processi
di cambiamento storico, le ragioni che giustificano lo status
quo nelle
comunità umane, la possibilità di realizzare un ordine sociale
migliore. Nello spazio di una noterella, non posso affrontare
i tanti
temi che nel libro s’intrecciano. Procedo piuttosto in maniera
schematica: sintetizzo alcune delle principali posizioni
dell’autore in
sette tesi; dopo l’illustrazione di ciascuna tesi, svolgo
qualche commento critico, per concludere con poche
considerazioni sull’intero
ragionamento.
Tesi 1. Le vicende storiche ben documentate sono in grado di spiegarci come funziona il mondo.
Già nel libro del 2013, Piketty è apparso un ricercatore empirico estremamente preparato, con la propensione, tuttavia, a lasciare sottosviluppata la spiegazione teorica dei fenomeni: le sue due famose “leggi del capitalismo” consistono l’una in una tautologia e l’altra in una formula che non riceve alcuna fondazione, se non il riscontro statistico.[3]
La ricostruzione del ponte sul Polcevera a Genova è stata possibile grazie al progetto, che firmato da Renzo Piano, è stato ceduto a titolo gratuito. Poi realizzato da Salini, azienda italiana di costruzioni che opera in tutto il mondo. Queste sono stati gli ingredienti fondamentali, che il commissario straordinario ha potuto gestire facilmente, grazie all’esercizio dei poteri speciali che gli sono stati conferiti in stato di emergenza.
Oggi si pensa, strumentalmente, che il commissariamento sia lo strumento idoneo per “sconfiggere” la burocrazia. Di qui la definizione ormai stereotipata di “modello Genova”.
Purtroppo le cose non stanno così. Per il semplice motivo che senza un progetto e di chi ha le capacità di realizzarlo, il commissario straordinario serve a niente, se non addirittura è il protagonista del fallimento.
Per il terremoto dell’Aquila, il commissario straordinario Bertolaso ha combinato niente di buono, se non fare da valletto alle passerelle dell’allora capo del governo, l’ineffabile Berlusconi. Poi, forse perché chi va con lo zoppo impara a zoppicare, è rimasto incastrato in una inchiesta di massaggi molto appassionati offertigli da un costruttore romano, perché era diventato commissario straordinario per il G8.
Nel Manifesto del partito comunista Karl Marx e Friedrich Engels bollano alcuni movimenti socialisti della loro epoca come “utopistici” e criticano la loro pretesa di ingabbiare il pensiero del futuro strettamente entro i codici del presente (borghese e piccolo borghese):
“Quindi cercano conseguentemente di smussare di nuovo la lotta di classe, e di conciliare gli antagonismi. Continuano sempre a sognare la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, l’istituzione di singoli falansteri, la fondazione di colonie in patria, la creazione di una piccola Icaria, – edizione in dodicesimo della nuova Gerusalemme – e per la costruzione di tutti quei castelli in Ispagna debbono far appello alla filantropia dei cuori e delle borse borghesi” [1].
In buona sostanza, quello che Marx ed Engels criticano del socialismo utopistico non è la prefigurazione di ciò che non esiste – l’utopico, appunto -, ma l’illusione che esso possa realizzarsi come spazio interno al mondo capitalistico. Pur con le debite differenze si tratta dell’analoga illusione che caratterizza i vaniloqui tipici dei centri sociali, delle comunità “hippy”, delle “zone autonome”, delle aree “liberate”, dei circuiti del commercio equo e solidale…: far convivere con il capitale, stabilmente, spazi (auto) gestiti secondo principi etici e politici antitetici a quelli del capitale.
Il mondo sta attraversando la crisi peggiore dal ’29. Recentemente il Fondo monetario internazionale (Fmi) per il 2020 ha disegnato un quadro peggiore di quello che fino ad ora si era ipotizzato. Il Fmi prevede un calo del Pil a livello mondiale del -4,9%, negli Usa del -8% e nell’area euro del -10%, con un picco in Francia, Italia e Spagna di oltre il -12%. Ciononostante, le Borse, dopo aver raggiunto i livelli minimi a marzo, quando la pandemia si è presentata in Europa e Usa, hanno registrato rialzi record nell’ultimo trimestre. L’indice S&P 500 della borsa di Wall Street non realizzava un trimestre con un rialzo così marcato dal 1975 e il Nasdaq dal 1999, in piena euforia da new economy. Il rimbalzo dai minimi di marzo c’è stato in tutte le borse più importanti, da quella di Francoforte (+43,2%), a quella di Tokio (+36%), fino a quella di Milano (+28,4%).
Perché questi rialzi? La ragione sta nella massa di liquidità senza precedenti immessa dalle banche centrali nei mercati finanziari come misure per tamponare la crisi del Covid-19.
Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è un Trattato firmato nel febbraio 2012 (per l’Italia il governo Monti) e ratificato dal Parlamento italiano nel luglio 2012: maggioranza ABC – Alfano, Bersani Casini, cioè PdL, Pd e Udc. Votarono contro Lega e Italia dei Valori.
Quando vi parlano di MES senza condizioni (ovvero “light” o sanitario), mentono. Per sette motivi:
1. Dal punto di vista giuridico, un Trattato – perché NON produca più (in tutto o in parte) i suoi effetti giuridici – necessita di un nuovo Trattato che modifichi quello precedente. Nella situazione attuale, il MES del 2012 non ha subito alcuna modifica. Questo Trattato, ancora oggi in vigore, prevede sostanzialmente che prima del prestito lo Stato richiedente concordi un memorandum (la famosa troika in casa).
La classe dirigente è una derivata dei poteri sovrastanti, non il riflesso del carattere di un popolo, come una sociologia di maniera ci ha fatto credere. La riflessione sui termini e rimedi della crisi italiana è coraggiosa e diversificata solo sui binari della rete esterni al mainstream dell’informazione, per il resto essa è banale e a senso unico. Al pubblico poco incline a far ricorso a un’ermeneutica alternativa o a sfidare sui libri la narrazione del pensiero unico (che si esprime sulle TV, i grandi giornali e una moltitudine di intellettuali/accademici organici) non è consentita una rappresentazione alternativa della scena politica, economica e sociale del Paese.
I pranzi gratis, come mostra l’esperienza, si servono solo in famiglia. L’Unione Europea, quella (de)formazione istituzionale che attende tuttora un’ammissibile definizione, è tutto tranne che una famiglia. L’Europa Federale non vedrà mai la luce. I trasferimenti di ricchezza da un paese ricco a uno bisognoso – principio fondativo di ogni nazione – non sono contemplati da alcun Trattato o documento politico apparso nei 65 anni che intercorrono tra la storica conferenza di Messina e i giorni nostri, non sono mai stati contemplati dai lungimiranti padri fondatori.
Da alcuni
mesi è in corso un dibattito in seno al Partito Comunista che
ha coinvolto
anche il FGC portando alla sospensione del patto d’azione tra
le due organizzazioni. La richiesta di un congresso e la
possibilità di
svolgere questo dibattito in quella sede sono definitivamente
sfumate con la decisione di non rinnovare il tesseramento in
blocco a centinaia di
iscritti del PC in diverse parti d’Italia, impedendone
conseguentemente la partecipazione al congresso. In questi
mesi molte delle vicende sono
state trattate –spesso da ambo i lati – con semplificazioni.
Non essendoci più prospettiva alcuna del dibattito interno
richiesto,
e ritengo che una parte delle questioni che hanno animato il
dibattito siano elementi importanti nella discussione
strategica sulla ricostruzione
comunista e non costituiscano patrimonio esclusivo degli
iscritti o ex iscritti al PC. Sono altrettanto e sempre
convinto della necessità che
la ricostruzione comunista in Italia si conduca tra lotte
reali e serrato dibattito ideologico. Per questa ragione
pubblicherò
sull’Ordine Nuovo le principali questioni che hanno animato il
dibattito in questi mesi. Forse ridare spazio alla politica
contribuirà a
dare a quel dibattito il livello politico dovuto, sottraendolo
al botta e risposta su aspetti secondari per certi versi
deleteri. La scelta di partire
da questo tema è dettata più che dalla sua individuazione come
elemento principale rispetto agli altri, dalla centralità che
stanno assumendo nella discussione e nelle reciproche
critiche. Non è dunque un ordine di priorità ma di
contingenza.
La maggioranza dei lavoratori vota a destra.
La questione può essere riassunta così utilizzando le stesse parole utilizzate da Rizzo in un ufficio politico, che ebbi premura di segnare tra i miei appunti:
Il testo prova a raccogliere l’invito formulato da Giorgio Agamben nel Requiem per gli studenti pubblicato sul “Diario della crisi” il 23 maggio 2020
I.
L’esigenza di una universitas, di cui si presenta qui il programma, si mostra nel momento stesso in cui il pensiero si dà coscienza del proprio rapporto col destino delle università. Queste si presentano oggi come un accumulo di conoscenze che lo studente può acquistare in qualità di cliente, e di cui può servirsi nel mercato del lavoro in veste di competenze.
Il destino storico della trasmissione del sapere come circolazione di merci è preconizzato dal fatto che la conoscenza sia stata concepita, almeno fin dalla modernità, come un avere, una proprietà riposta nella memoria. L’imporsi di una digitalizzazione dell’insegnamento è, pertanto, in linea col primato della conoscenza e della nozione, interamente riproducibili attraverso un algoritmo. Così come l’algoritmo celebra l’ideale grammatico di una divisione finita della lingua in «parti», così la trasmissione di conoscenze sotto forma di podcast sembra realizzare l’ideale pedagogico-farmaceutico di “pillole” o bossoli di conoscenza. Così, di fronte a un mercato delle conoscenze digitali che ne supera di gran lunga le possibilità di circolazione, l’università non ha oggi altro mezzo per sopravvivere se non quello di produrre un grande magazzino di oggetti preconfezionati secondo ogni tipologia e sensibilità. È l’università stessa che, come in una commedia di Menandro, conia i “tipi” della conoscenza. Cosicché ognuno possa estinguere il proprio bisogno di apprendimento, dall’approfondimento alla suggestione, dalla lezione interattiva alla conferenza dall’altra parte del globo. In questa condizione, il professore diventa egli stesso una merce e i suoi dottorandi sono ridotti a pubblicitari.
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Fine del lavorismo secolo XIX?
L’iniziativa Stati Popolari potrebbe riuscire a riproporre un reale percorso di lotta anticapitalista, generale e radicale pur tra tutti i condizionamenti attuali, a cominciare dai virus dell’informazione ufficiale. ‘Di sinistra’ inclusa. Superando il populismo neo-fascista ma rimettendo anche al loro posto vari inscatolamenti lavoristi dell’universo operaio, soprattutto per opera di vecchi marx-ismi chiusi tra le stantie inferriate dell’esclusività salariale produttivistica più o meno tutelata. Cioè della storica particolarità del lavoro stipendiato assunto ed innalzato a esclusività strategica operaia, anti-Capitale, dallo stesso cosiddetto “Marx politico” di un secolo e mezzo fa.
Appaiono del resto sempre più come strumenti di difesa terminale del sistema anche recenti dissertazioni di confusione e irretimento etico, teorico e politico a proposito della DIMENSIONE o CLASSE operaia globale. Per esempio attorno all’idea di un presunto ‘quinto stato’ riproposta poco tempo fa in un articolo di Allegri e Ciccarelli del Manifesto, ‘Fenomenologia della classe a venire’. Un 5° stato che, da tipici marxismi di sinistra del sistema, servirebbe come concetto valevole per eclissare il primo ed essenziale elemento classista marxiano, innanzitutto etico ma poi teorico e politico:
l’alienazione o appropriazione particolare, privata, personale e famigliare di naturali od oggettivi Beni Comuni di una società. Da cui sorge lo sfruttamento e guerre e violenze di ogni tipo.
«Una persona che dice e fa cose di sinistra senza doversi dire tale? Papa Francesco. Le definizioni lasciano il tempo che trovano, ciò che conta è la visione che ispira un agire concreto». «Fare una cosa di sinistra? Requisire le caserme vuote per farne delle scuole». A sostenerlo, in questa intervista a Il Riformista, è il professor Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, una “coscienza critica” della sinistra che non ha mai avuto peli sulla lingua o interessi di bottega da coltivare. Una voce libera, cosa sempre più rara nell’Italia d’oggi. Professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni), Tra i suoi libri, ricordiamo: Fermare l’odio (Laterza); Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Laterza); Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee (Bur, Rizzoli).
* * * *
Professor Canfora, in questi anni è come se si avesse paura di definirsi di sinistra, come se questo segnasse un tempo che fu, da archiviare. Ma di fronte alle sfide epocali del Terzo Millennio, sinistra è una idea spendibile e se sì, quale sinistra?
Se è vero, come sosteneva Thomas Eliot, che aprile è il mese più crudele, potremmo avere il sospetto, aprendo La Repubblica di qualche giorno fa, che giugno non sia da meno. Ci imbatteremmo infatti in un articolo dell’ex presidente INPS, Tito Boeri, dal titolo piuttosto eloquente: “Per frenare la perdita di posti di lavoro servono più contratti a tempo determinato”. Il dubbio verrebbe ulteriormente accresciuto se a fare da eco alle parole di Boeri si unissero il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, il PD e Italia Viva, oltre che il giornalismo filo-padronale accompagnato dalla Confindustria e dal centrodestra. A quel punto, i sospetti si tramuterebbero in certezza e la triste verità verrebbe inesorabilmente a galla: Thomas Eliot si sbagliava. Ma andiamo con ordine.
Passata la sfuriata della prima lettura, l’articolo di Boeri ci offre alcuni spunti di riflessione su due questioni che lo stesso autore ritiene strettamente legate tra loro in termini di causa-effetto.
C’è una sola linea di politica economica, in questa zona del mondo. E’ folle, distruttiva, devastante e la detta Confindustria. Il cosiddetto centrosinistra e la destra la condividono in pieno, battagliando – chi sguaiatamente, chi meno – semplicemente sul chi debba gestirla e incassare un dividendo.
La prova si con il “decreto semplificazioni”, la cui bozza sta circolando in queste ore. L’ha elaborata il governo giallo-rosé, con la partecipazione addirittura della “sinistra” targata Leu, ma avrebbe potuto benissimo presentarla la Lega o Forza Italia (da soli o in consorzio con la Meloni).
Chi ricorda più le proposte di Salvini, sul “zero burocrazia”, “modello Genova” (la ricostruzione del ponte senza gare e in affidamento diretto ad una impresa, la solita Salini Impregilo), “aprire tutti i cantieri”?
Fatto! L’unica limitazione è l’entità degli appalti pubblici. Fino a 150.000 euro sono liberamente firmabili da ogni amministrazione pubblica (vista la cifra, riguarda soprattutto i piccoli Comuni), mentre al di sotto dei 5 milioni di euro si procede lo stesso senza gara ma interpellando almeno cinque imprese diverse.
Stamattina presto tutte le scuole d’Italia hanno ricevuto l’avviso che le loro caselle mail istituzionali sono state migrate a office365.
Si tratta delle caselle che noi cittadini usiamo per comunicare con la scuola dei nostri figli, e che le scuole usano per comunicare tra loro e con il resto del mondo.
Da quel che si può capire sino ad oggi, la migrazione ha riguardato le sole caselle istituzionali, ovvero le caselle dei Dirigenti Scolastici, Dei Direttori amministrativi e le caselle legate al codice meccanografico della scuola.
Il ministero precisa che «I DS e i DSGA e le scuole accedono usando l’user-name completo e il suffisso @istruzione.gov.it (per esempio mario...@istruzione.gov.it.). Per quanto riguarda il personale dell’amministrazione (MI e MIM) l’accesso è garantito dalle credenziali composte da user-name completo e dal suffisso @istruzione.it (per esempio mi1...@istruzione.it).
Il motivo del cambiamento non è ancora chiaro, e non si capisce se esso si inquadri nel più generale impegno del Ministero dell’Istruzione verso la Didattica a Distanza (DaD).
Negli ultimi anni ho avuto spesso la tentazione di definire come sospetto o ipocrita, vuoto o violento, quasi tutto ciò che ormai da una quarantina d’anni arriva dal mondo anglosassone, cuore del liberismo in tutte le sue declinazioni e i suoi istinti sempre più scoperti, ma me ne sono astenuto sia perché sarebbe stata una generalizzazione indebita, sia perché so come l’immaginario italiano sia attratto da una pervicace quanto insensata mitologia di quel mondo dominato da un esprit de geometrie come alibi per l’insensatezza. Ma certo più si avanti, più quella tentazione si fa forte e credo che gli ultimi due giorni siano stati un calvario per l’intelligenza e l’onestà intellettuale. Cominciamo con il classico business is business del teriantropo Bill Gates, il vaccinatore folle, il quale sentendo che nel mondo ci sono 9,2 milioni di contagiati dice che il “quadro del Covid 19 è più tetro del previsto”. Strano perché il caro, stupido Bill, sembra non sapere che ogni anno ci sono circa 600 milioni di contagiati di influenza e che solo in Italia sono dai 10 ai 12 milioni. Tanto per la cronaca nel 2015 sono morte nel nostro Paese 54 mila persone di questa affezione, circa 20 mila in più dei decessi attribuiti non si con quanta onestà e consistenza al Covid.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Codice Rosso: “Una app per tracciare il covid-19”. Siamo sicuri?
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Leggeremo in questo post un
serrato dibattito tra un ricercatore indipendente inglese,
John Smith, e il
famosissimo geografo marxista David Harvey. Smith attacca il
libro “La guerra perpetua”[1] nel
saggio “Come David Harvey nega l’imperialismo”[2], e la replica
dello stesso Harvey al libro di
Prabhat e Utsa Patnaik “A theory of imperialism”, che
abbiamo già letto[3]. Ci
sarà quindi la replica dello stesso Harvey[4] e la
controreplica di Smith[5]. Inoltre, per allargare lo
sguardo, presteremo attenzione all’intervista a Utsa Patnaik,
“Storia agraria e
imperialismo”[6] al libro di John Smith, “Imperialism
in the Twenty-First Century”,
vincitore del “Paul A Baran – Paul M Sweezy Memorial Award”[7],
ed alla recensione di Michael
Roberts[8].
Cominciamo dalla prima accusa del ricercatore di probabile orientamento trotskista all’anziano geografo. Siamo nel 2018 e John Smith è, in particolare, colpito da una frase del testo nel quale Harvey sembra cedere alla vulgata neoclassica che vede l’imperialismo superato nella fase della mondializzazione. Afferma infatti Harvey che “lo storico drenaggio di ricchezza dall’oriente verso l’Occidente, protrattosi per oltre due secoli è stato in larga parte invertito negli ultimi trent’anni”. Può sembrare in effetti una descrizione obiettiva. Ed è, di fatto, una descrizione che assumono molta parte dei marxisti occidentali[9] o “euro-marxisti”[10], in coincidenza con buona parte della letteratura economica mainstream. Eppure è di assoluta e palmare evidenza che enormi flussi di profitti sono accumulati dalle società multinazionali, per grandissima maggioranza ‘occidentali’[11], sia in patria sia, in misura maggiore, in opportuni paradisi fiscali.
A due anni dalla scomparsa di Domenico Losurdo
(1941-2018), col presente
contributo si intende offrire una chiave di lettura inedita,
almeno in certa misura, del suo intero itinerario
storiografico-filosofico, incentrando
quale specifica Kern della pluridecennale ricerca
del filosofo italiano la sua riflessione internazionalistica.
La figura di Losurdo come ‘internazionalista’ non si riferisce qui – o almeno non soltanto – ad un significato in chiave normativa, cioè ad un orientamento determinato rispetto alla questione di universalismo e particolarismo; bensì, in chiave metodologica, e nel senso disciplinare del termine viene intesa secondo una complessiva sua rilettura di teorico delle Relazioni Internazionali (di cui è nota la sigla anglosassone: IR), attraverso un bilancio delle sue illuminanti incursioni nelle questioni internazionalistiche.
Alla tradizione delle Relazioni Internazionali, infatti, appartengono, latu sensu, tutti i pensatori che si sono cimentati nella riflessione sui rapporti morali, politici, giuridici inter-statali, anche laddove il loro contributo non appaia consapevolmente collocato all’interno della stessa disciplina politologica internazionalistica e ne risulti anzi estraneo al suo specifico gergo tecnico-disciplinare.
Ne emerge un pensatore che, nella sua straordinaria erudizione e padronanza della letteratura filosofica classica tedesca (in cui certamente è inclusa la tradizione marxista, o meglio dei marxismi), non ha mai cessato di pensare, con rigore filologico e filosofico al contempo, il problema della mediazione tra universale e particolare nella storia umana, quindi la sua concreta tensione non soltanto interna alla società (sul piano domestico), ma anche esterna (cioè sul piano internazionale).
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Nota all'incontro del 13 febbraio 2002 nell'ambito del "Cenacolo filosofia e vita" con il prof. Diego Marconi in cui sono svolte alcune brevi considerazioni sul rapporto tra i vari modi di concepire ed avvicinare la filosofia
L'incontro del 13 febbraio u.s.
del nostro Cenacolo con il prof. Diego Marconi mi sembra che,
al di là
dell'immediato interesse che ha senz'altro suscitato nei
partecipanti di per sé per l'argomento trattato (il rapporto
tra filosofia e scienze
cognitive), sia stato molto proficuo anche in quanto, mettendo
a confronto la filosofia "professionale" e quella
"dilettantesca", ci ha suggerito
alcune considerazioni sull'orientamento dell'impegno
filosofico del nostro Cenacolo e, più in generale, sullo stato
odierno della
filosofia.
Dovendo scegliere un punto di partenza per affrontare la questione ritengo che sia opportuno che ci si soffermi brevemente sul concetto di filosofia quale si è venuto consolidando nei secoli e, più particolarmente, quale è stato sinteticamente illustrato alla voce "Filosofia" del "Dizionario di filosofia" di Nicola Abbagnano (alla quale rinvio chi volesse ulteriormente approfondire la questione de qua).
Alla suddetta voce l'Abbagnano propone, come momento supremo di sintesi delle varie modalità con cui la filosofia si è manifestata quale "creazione originale dello spirito greco e condizione permanente della cultura occidentale" (ma, malgrado il riferimento ad una peculiare civiltà, la definizione presentataci mi pare che si mostri in grado di fare in qualche modo riferimento anche a modalità meditative proprie di altre civiltà), la definizione illustrata nell'Eutidemo platonico, secondo cui la filosofìa è l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo. La filosofia è dunque la scienza nella quale coincidono il fare ed il sapersi servire di ciò che si fa (Eutid., 288e - 290d). Platone osserva che a nulla servirebbe possedere la scienza di convertire le pietre in oro se non ci si sapesse servire dell'oro; a nulla servirebbe la scienza che rendesse immortale se non ci si sapesse servire dell'immortalità; e via dicendo.
Ma come, i soldi sono lì, già pronti ad involarsi per la penisola, e voi non li volete? Ma che italiani siete diventati? La pressione di Angela Merkel è forte: il Mes «non lo abbiamo attivato perché rimanga inutilizzato». Insomma, certi “regali” non si possono proprio rifiutare, chissà perché!
La cosa più penosa di questi giorni è l’insistenza dei media. “Mes subito!” è il loro grido quotidiano. Almeno formalmente la maggioranza del parlamento resta contraria? E chissenefrega! Pd e Forza Italia lo vogliono, i Cinque Stelle dovranno piegarsi: è solo questione di tempo. Ma il tempo stringe, a Bruxelles devono perfezionare il “pacchetto”, e l’Italia deve finire ben impacchettata.
Ovviamente i cosiddetti “democratici” (democratici? – è messa maluccio la democrazia…) sono i più scatenati. Lo vogliono subito, anche prima di stasera. Il più insipido di loro, che han fatto pure segretario, ha pensato bene di portare il suo contributo alla causa. «Il governo non può più tergiversare sul Mes, sul tavolo risorse mai viste per la sanità», questo il titolo del suo intervento sul Corriere della Sera.
Ormai una parte consistente dell’apparato politico e industriale italiano è a favore del Meccanismo Europeo di Stabilità. A fine giugno Nicola Zingaretti, segretario del Partito Democratico, ha esposto le ragioni per cui varrebbe la pena accettare i fondi del MES. Questa ossessione che il centrosinistra – ma non solo – nutre per il MES non ci stupisce più di tanto: il Partito Democratico, ormai, è vittima innocente del proprio servilismo compulsivo.
L’assenza di senso critico e l’accettazione passiva di una narrazione favolistica distinguono la maggior parte dei pro-MES. Ciò che ci lascia sconvolti non è tanto la posizione in sé a favore del MES ma il vuoto che riempie quei contenuti posti a difesa della propria posizione. Nella sua intervista Zingaretti (senza l’ombra di un’analisi politica ed economica) si limita a descrivere una lista dei desideri: 10 proposte realizzabili, a suo dire, soltanto attraverso l’utilizzo dei 36 miliardi del MES (briciole, in politica economica).
Nell’enorme complessità del fenomeno mondiale che chiamiamo “globalizzazione”, un filo rosso sembra collegare fra loro eventi e processi diversissimi: la crescente e sempre più pervasiva commistione fra pubblico e privato. Palesemente guidata da un’ideologia neoliberista, orientata al ripristino del potere di classe delle élite, che nel secondo dopoguerra veniva eroso dall’avvento di democrazie partecipative e dalla crescita della consapevolezza dei diritti da parte dei popoli, la globalizzazione economica, dagli anni ’80, ha seguito la via delle privatizzazioni, della deregolamentazione, delle liberalizzazioni selvagge, al fine di tutelare la libertà di impresa delle multinazionali e il libero movimento dei capitali finanziari. Lo Stato, visto come intralcio alla ”libertà” dei mercati, anziché come espressione suprema della sovranità popolare e istituzione mediatrice fra i diversi interessi presenti nella società civile, diventa il bersaglio delle politiche mondialiste, che mirano a spostare la sovranità dai cittadini ai “mercati”, espressione degli interessi di pochi grandi gruppi familiari, bancari e finanziari.
Basta un semplice passaggio del piano Colao di rilancio del paese per comprendere dove risiedano le priorità: vanno messi a disposizione subito 54 miliardi per nuove autostrade e 113 miliardi per l’alta velocità ferroviaria. Cifre ancora superiori piovono sul sistema bancario mentre, per quanto riguarda i fondi alla scuola e alla sanità, si propone di procedere ricorrendo ai “social impact bond”, come innovativa (?) forma di finanziamento pubblico-privato
In oltre 60 piazze italiane si è espressa in questi giorni l’indignazione di famiglie, lavoratrici e lavoratori della scuola contro le linee guida del governo in merito alla riapertura delle scuole a settembre, per l’inizio del nuovo anno scolastico.
A fronte di una situazione che ha visto pregiudicati per cinque mesi il diritto all’istruzione e alla socialità di otto milioni di minorenni, nessuno si sarebbe aspettato una tale dimostrazione di indifferenza e una totale assenza di soluzione di continuità.
Non è qui in discussione la necessità o meno dei provvedimenti presi dall’inizio di marzo ad oggi (sui quali i pareri sono diversi), ma la costante rimozione dei bisogni dei bambini, dei giovani e delle loro famiglie, conculcati dentro il lockdown e non riconosciuti come priorità neppure ora che la fase critica dell’epidemia appare finalmente superata.
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La vicenda di Mondragone, Gelsenkirchen e Bologna ci mostrano come l’emergenza sanitaria abbia coinciso con la costante violazione dei diritti dei lavoratori e dei diritti sociali dei soggetti più vulnerabili
Come contributo al dibattito e alla collaborazione tra comunisti, riceviamo e pubblichiamo questo articolo che uscirà sul prossimo numero della rivista Cumpanis edita dalla Città del Sole e diretta da Fosco Giannini
La vicenda di Mondragone (Caserta) ha sconvolto l’Italia: davanti ai palazzi ex Cirio, è stata dichiarata la zona rossa a causa di un focolaio di Covid-19; le palazzine ex Cirio sono abitate principalmente da migranti bulgari che lavorano nel litorale domizio. I cittadini mondragonesi hanno veementemente protestato nei confronti delle misure di lockdown e non si sono fatte attendere anche reazioni razziste e infelici. Mondragone si è trasformata così da cittadina di mare e vacanze in un fertile terreno di scontro politico tra lo “sceriffo” De Luca e Matteo Salvini, che ha visitato la città campana per un comizio proprio lunedì 29 giugno. Viene invece dimenticata la condizione di chi abita le palazzine ex-Cirio: lavoratori sottopagati ai quali vengono negati beni fondamentali.
In seguito alla Grande Depressione
che colpì, in primo luogo, i paesi economicamente più
sviluppati come gli
Usa, la stragrande maggioranza della popolazione cadde nel
panico e nella disperazione, ma soprattutto fu pervasa dalla
rassegnazione. Non ci furono
le rivolte che abbiamo visto pochi giorni fa e che sono
scaturite dall’uccisione di G. Floyd, rabbia e frustrazioni
non trovarono uno sfogo
immediato, cosicché quando le organizzazioni dei lavoratori
provarono ad alzare la testa fu troppo tardi, infatti si
trovarono la strada
sbarrata dai caporali, dai capitalisti e dal loro braccio
armato rappresentato dalla malavita organizzata. In realtà, il
sindacato dei
lavoratori americani, ancor prima di essere messo fuori gioco,
provò ad arginare il dilagare della disoccupazione, infatti il
20 luglio 1932 il
consiglio direttivo della American Federation of Labor (uno
dei più importanti sindacati statunitensi), riunitosi ad
Atlantic City, fece una
richiesta formale al Presidente Hoover per fissare un incontro
tra le organizzazioni imprenditoriali e i sindacati, allo
scopo di trovare un accordo
per una settimana lavorativa di 30 ore.
La sintesi di questa mediazione trovò uno sbocco nella proposta di legge del senatore dell’Alabama Hugo L. Black, alla fine del 1932. Tuttavia, l’entusiasmo iniziale, che si ebbe con l’approvazione al Senato, fu stroncato con l’ascesa di Roosvelt, il quale sposò le preoccupazioni e le angosce delle classi imprenditoriali, per le implicazioni rivoluzionarie del provvedimento, pertanto affossarono il disegno di legge alla Camera.
Al contrario di quello che accade oggi, negli Usa, in quel periodo storico, ci sono una serie di grandi imprese che si prodigano alla sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro, per far fronte alla disoccupazione, tra queste ricordiamo: la Kellogg’s, la Sears, la Standard Oil e la Hudson Motors.
… Quanno c’è ‘a salute c’è
tutto
Basta ‘a salute
e un par de scarpe nove
Poi girà tutto er monno
E m’accompagno
da me
Tanto pe’ cantà- (E.Petrolini 1932) Nino Manfredi 1970
La lucidità di pensiero è stata destabilizzata da un virus, il Covid-19. Improvvisamente (quasi) tutti e tutte tre mesi fa, sinistra di classe compresa, sono stati colti/e dalla paura della malattia e del contagio. Il <qui si muore> è stata la risposta secca e anche violenta a qualsiasi tentativo di analisi e di riflessione sulla propaganda terroristica e sul controllo asfissiante messo in atto dal sistema di potere a cui non si è mai accompagnata, guarda caso, nessuna indagine degna di questo nome sulle cause reali e sulle ragioni della propagazione del virus soprattutto in Lombardia. C’è in ballo la salute, la salute è la cosa più importante è stato il refrain di questi mesi.
Ma che cos’è la salute? Cosa significa essere in salute, mantenersi in salute? La salute fisica e mentale, poi, sono inscindibili e sono il risultato dell’equilibrio del nostro essere. Non stiamo qui ad indagare posizionamenti e teorie, ci perderemmo nei meandri di una discussione senza fine ma sicuramente la salute non è legata ad una specifica malattia piuttosto dipende dalla qualità della vita e anche della morte in quella che sembra una contraddizione ma non lo è. E la qualità della vita proprio perché non dipende dalla presenza o dall’assenza della malattia non è altro che il rapporto intercorrente tra i nostri desideri e la possibilità di realizzarli, tra il nostro senso della vita e la rispondenza reale che a questo senso viene data.
‘E’ l’economia, stupido’. Questo è
stato l’impudente, ottimista slogan elettorale di
Bill Clinton nel 1992. Lo slogan sembrava sintetizzare la Weltanschauung
prevalente di un ordine neoliberista, una versione
volgarizzata
dell’”egoismo illuminato” ereditato dall’economia politica
classica. Più di un quarto di secolo dopo, in mezzo al
collasso neoliberista, nulla potrebbe essere maggiormente
l’opposto. L’egoismo illuminato, da Londra a Mumbai, non
domina più. Non
è l’economia, stupido.
I Conservatori di Boris Johnson sono stati rieletti con una grande maggioranza dopo un decennio di austerità e di stagnazione dei redditi, come se Johnson non fosse stato in carica. La sola quasi sua unica promessa era stata di ‘realizzare la Brexit’, un obiettivo per il quale il 60 per cento dei votanti a favore dell’Uscita (Leave) dice che sarebbe felice di vedere danneggiata l’economia. Il 40 per cento afferma persino di essere disposto a perdere il proprio lavoro.
Queste sono minoranze, ma minoranze di milioni, sufficienti a costituire lo zoccolo duro del voto Conservatore. Gli attivisti Tory sono una minoranza ancora inferiore, ma più influente. Quando chiesto loro che cosa sacrificherebbero per ‘realizzare la Brexit’, hanno risposto chiaramente: l’economia, l’unione [Regno Unito] e persino il loro stesso partito.
Molto è stato detto dei votanti a favore della Brexit “ingannati” da promesse di maggior spesa per il Servizio Sanitario Nazionale (NHS), ma la caduta di quell’affermazione non ha danneggiato la Brexit. E in ogni caso non era su questo che la campagna per il Leave era stata condotta.
Il docente fa una disamina del discusso fondo Salva-Stati: "Le condizionalità ora sospese possono sempre tornare, il rischio-stigma c'è e il risparmio è dubbio. Ecco perché gli europeisti dovrebbero dire No al Mes"
Il Mes è un pessimo affare, e va messo in soffitta persino dai cosiddetti “europeisti”. La convenienza economica è dubbia, il rischio di stigma finanziario è reale, le condizionalità ora sospese potrebbero essere riattivate. E’ quanto afferma in una intervista all’Huffington Post Emiliano Brancaccio, economista e docente all’Università del Sannio, nella quale fa una attenta disamina dei pro e soprattutto dei contro di un eventuale ricorso al Fondo Salva-Stati da parte dell’Italia. Nel marzo scorso, insieme ad altri colleghi economisti, Brancaccio ha pubblicato sul Financial Times un appello per un “piano anti-virus” fondato su un maggior controllo della speculazione sui mercati finanziari e su una moderna pianificazione degli investimenti pubblici in Europa.
* * * *
Partiamo dal punto che tutti i sostenitori del Mes citano per chiederne l’attivazione: il famoso risparmio di 5 miliardi in dieci anni. Si può davvero quantificarlo con certezza nel momento in cui si chiede l’accesso?
Oltre che per le solite banalità, il cosiddetto Piano Colao si caratterizza per aver ripresentato la proposta di limitazione alla circolazione del contante. Osservatori che si occupano da anni della questione, come Beppe Scienza, hanno notato che Vittorio Colao ha conferito alla misura della limitazione del contante una radicalità che supera persino i desiderata delle banche.
In un contesto economico in cui la prospettiva pare quella di un avvitamento recessivo, qualsiasi ostacolo ai piccoli scambi apparirebbe decisamente fuori luogo. In realtà non lo è se si riconosce che l’obbiettivo, non tanto di Colao ma di chi lo ha messo lì, sia appunto quello di favorire la spirale deflazionistica. L’abolizione del contante è uno dei cavalli di battaglia del politicorretto, poiché, senza alcun riscontro empirico, essa è spacciata come una misura contro l’evasione fiscale. Si tratta di un ulteriore esempio della saldatura storica tra la retorica falsamente di sinistra con gli interessi della lobby dei creditori, che teme più della peste una ripresa della produzione e della domanda, con le ovvie conseguenze inflazionistiche che andrebbero ad intaccare il valore dei crediti.
La Cina è la nazione protagonista di uno dei successi mondiali più grandi della storia umana. Il suo PIL, dalla fine della Rivoluzione in poi, cioè dal 1949, è cresciuto di «123 volte»[1]. Dal 1978, cioè a dire dall’inizio delle riforme di Deng Xiaoping “700 milioni di persone sono uscite dalla povertà“. E se nel 2020 il PCC aveva fissato l’obiettivo dell’eliminazione completa della povertà (“ormai a portata di mano”), nel 2025 un obiettivo straordinario “non fissato nei congressi di partito” viene invece pronosticato dalla Morgan Stanley, e cioè l’ingresso della Cina “nel novero dei paesi ad alto reddito”[2].
Del resto, con un tasso di crescita annuo esorbitante rispetto alle altre potenze mondiali, sembra evidente che la RPC stia per assurgere al ruolo di prima potenza egemone nel mondo, posizione contesa ovviamente con gli Stati Uniti di Trump. È in corso, insomma, una vera e propria “guerra economica”, la cui posta in gioco è per molti ancora poco chiara: si tratta di una “competizione tra sistemi” fra loro diversi, o è piuttosto un conflitto economico tra due nazioni in seno al sistema capitalistico?
Nella precedente nota avevamo dato notizia dell’ennesima “rivelazione” dell’intellgence USA riguardanti asseriti pagamenti di taglie da parte dei russi ai talebani per l’assassinio di soldati americani.
Il caso monta. Per avere un’idea del caos scatenato dalla “rivelazione”, basta guardare gli articoli dedicati dal New York Times e dal Washington Post all’argomento.
Sul WP: “Non contare sul fatto che i repubblicani facciano qualcosa sull’ultimo scandalo che riguarda la Russia”. “Gli assistenti di Trump avevano troppa paura per riferirgli delle taglie dei russi?“. “Il Gop si interpella nuovamente sul perché Trump non sia più duro nei confronti della Russia“.
Sul Nyt, invece, un solo articolo, ma massivo e di apertura,:che contiene nuove asserite rivelazioni: “Trump a febbraio è stato informato delle possibili taglie dei russi“.
Il governo italiano è in mano a una banda di liberisti, il settore medico a una banda di reazionari. Dietro lo scontro sul numero di studenti che potranno accedere alla facoltà di medicina il prossimo anno c’è la lotta tra grande borghesia e corporativismo piccolo-borghese
Per far fronte all’emergenza di Sars-Cov-2 il governo ha dovuto assumere 20 mila tra medici neolaureati, infermieri e operatori sanitari. L’impiego, ovviamente, è soltanto per sei mesi, perché i problemi strutturali del servizio sanitario nazionale devono rimanere tali. Ma perché in Italia c’è scarsità di medici? Per il semplice fatto che i servizi sanitari pubblici non sono più organizzati per far fronte ai bisogni e alla loro prevenzione ma per incoraggiare quante più persone possibile a ricorrere alle cure a pagamento erogate privatamente dagli stessi medici assunti dal servizio sanitario nazionale (tramite la c.d. intramoenia), dai liberi professionisti (alcuni dei quali lavorano anche in ospedale in regime di c.d. extramoenia) o da quelli impiegati nelle cliniche private, convenzionate col SSN o meno.
La spinta verso il privato è dettata dalla necessità di abbassare i costi di produzione ed aumentare i guadagni degli imprenditori.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Nei partiti comunisti della III Internazionale l’analisi delle composizioni di classe era uno strumento metodologico fondamentale, derivante dall’applicazione diretta del materialismo scientifico di Marx e Lenin, propedeutico ad ogni sviluppo analitico di un contesto dentro una fase politica determinata.
La prima esperienza di un tale lavoro, a partire dall’iterazione prassi-teoria-prassi, fu realizzata da Marx ed Engels, con quest’ultimo attore e testimone diretto, intorno alla composizione della classe operaia britannica nella prima metà del secolo XIX. In quel Paese si erano succedute in tempi brevi sia la prima che la seconda rivoluzione industriale, non solo grazie alle invenzioni scientifico-tecniche che le connotarono (telaio meccanico + macchina a vapore), quanto per l’enorme accumulazione primaria che l’impero britannico riusciva a realizzare grazie alle politiche, particolarmente aggressive e piratesche, messe in atto dal suo espansionismo coloniale, a sua volta reso possibile da una marina mercantile imponente, appoggiata da una marina militare tecnologicamente avanzata. Solo la potenza cinese avrebbe potuto, in quel secolo, ma già nel secolo precedente, anticipare quei ritmi e quelle quantità di accumulazione primaria, necessari al salto di paradigma verso una società capitalistica matura. La scelta di politiche puramente mercantili, accompagnata dalla scelta di tecnologie navali che, escludendo le chiglie profonde, avevano limitato le rotte della imponente marina mercantile cinese al solo cabotaggio, avevano bloccato l’evoluzione verso l’applicazione delle tecnologie ad un’economia industriale.
L’altro giorno, a
Piazza del Popolo, Matteo Salvini ha citato per l’ennesima
volta uno dei
suoi modelli di riferimento, Margaret Thatcher: «Non esiste
libertà, se non c’è libertà economica». È
uno dei mantra dei neoliberisti. L’idea di fondo è semplice
quanto stravagante, ovverossia che i mercati sono
fondamentalmente
autoregolantesi e dunque che questi, se lasciati a sé, cioè
con la minor interferenza possibile da parte dei governi
(riassumibile nello
slogan “meno tasse, meno burocrazia”), sono in grado di
generare automaticamente crescita, stabilità sociale e piena
occupazione
(purché i lavoratori siano disposti ad accettare qualunque
salario venga loro offerto, essendo questo il risultato del
“naturale”
meccanismo della domanda e dell’offerta).
Peccato che sappiamo almeno dagli Venti-Trenta del secolo scorso che l’economia capitalistica non funziona così: la crisi finanziaria del 1929 e la successiva Grande Depressione dimostrarono non solo che i mercati (in particolare quelli finanziari), se “lasciati a sé” tendono a generare enormi bolle e squilibri che finiscono inevitabilmente per scoppiare, portando giù con sé l’intera economia; ma anche che il mercato, da sé, non è assolutamente in grado di garantire la crescita e la piena occupazione, soprattutto in seguito a una crisi finanziaria, poiché queste sono determinate da quella Keynes chiamò “domanda aggregata”, cioè dalla quantità di beni e servizi complessivamente richiesta dai soggetti economici, che può essere sostenuta solo da un attore “esterno” al mercato – il tanto vituperato governo, ovviamente –, attraverso la politica di bilancio e in particolare la spesa in disavanzo.
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La verità
del capitalismo nella sua fase imperiale è resa palese dai
trattati
di pace, i quali non sono che saccheggi in nome della legge
del più forte. In tal modo ogni pace non è che la premessa per
una futura
guerra, ogni pace è già guerra. Il capitalismo imperiale non
conosce che la verità della guerra, con la quale non solo
consolida
le sue strutture e risolve le crisi di sovrapproduzione, ma
specialmente con la guerra perenne il capitalismo rende
visibile la sua verità: la
violenza dell’accaparramento e del saccheggio sono
l’epifenomeno dell’illimitato che lo muove, ogni legge
razionale e ogni misura
sono polverizzate dal movimento onnivoro del capitale.
Il trattato di Versailles (1919) non fu che la continuazione della guerra che l’aveva preceduta. Keynes ne analizza gli effetti e le novità inaudite profetizzando che la violenza della pace sarebbe stata la madre delle future guerre. Nel trattato il popolo tedesco è privato delle sue proprietà private, l’aggressione alle ricchezze private è il vulnus che contribuirà a portare il popolo tedesco verso il nazionalsocialismo. La violenza subita, l’irrazionalità dei provvedimenti, si trasformerà nella tempesta di fuoco che si abbatterà sull’Europa e sul pianeta. I beni dei tedeschi nelle colonie e nei territori persi vengono espropriati a favore degli alleati, in nessun trattato di pace era stata messa in atto l’espropriazione dei beni privati, il diritto internazionale è così calpestato in nome del plusvalore, l’unica vera legge che guida i destini degli stati e dei cittadini è la rapina per legge e per sistema:
Con l’arrivo della pandemia – è la tesi dell'ultimo libro di Slavoj Žižek, “Virus” – le nostre vite normali sono state messe in pausa e quello che ci viene offerto è la possibilità di ripensare il nostro rapporto con il mondo
Abbiamo visto tutti Matrix e conosciamo tutti la famosa scena in cui Morpheus dice a Neo di scegliere tra la pillola blu e la pillola rossa. La pillola blu significa continuare a vivere nella realtà di tutti i giorni, andando avanti come se nulla fosse; la pillola rossa significa invece ridestarsi al vero stato delle cose, e scoprire la menzogna che regna sulle nostre vite. È un’immagine che utilizza Žižek nel suo ultimo libro, “Virus”, scritto durante il lockdown e uscito in buona parte a puntate sulla rivista italiana Internazionale. C’è una verità che sta oltre tutto quello che crediamo essere vero e che pensiamo di conoscere, una verità che ci governa senza che ne siamo in alcun modo consapevoli. Viviamo nella convinzione che le cose siano esattamente come ci appaiono, certi di essere i protagonisti assoluti della nostra esistenza e sicuri di avere il pieno controllo sulle scelte che dipendono da noi; finché un giorno un evento, un incontro o una coincidenza inaspettati spezzano questo incantesimo alienato e la nostra grande libertà si mostra per ciò che essa era veramente: pura e semplice illusione.
L’esplodere della pandemia ha trovato impreparato il mondo scientifico. L’OMS e i centri di ricerca faticano a fornire risposte alle tantissime domande che l’umanità pone sul virus Sars-Cov 2. La corsa al vaccino riapre il dibattito sulla ricerca scientifica e sull’innovazione tecnologica asservite al profitto. Franco Piperno, già leader di Potere Operaio, docente e studioso di fisica e astronomia, di solito ama contemplare il cielo notturno, amalgamando osservazione astronomica, narrazione mitologica, ironia politica, riflessione cosmologica. Abituato ad esplorare orizzonti immensamente estesi e corpi celesti di titanica grandezza, si sofferma qui sulla dimensione infinitamente piccola del coronavirus. Così insieme a noi rielabora, attualizzandole e rivitalizzandole alla luce del contesto mutato, alcune sue recenti tesi pubblicate da Commonware, sul rapporto tra scienza, ricerca, tecnologia e capitalismo.
* * * *
Ritiene che il ritardo nell’elaborare cure e antidoti contro la Covid 19 in fondo sia ineluttabile oppure dipenda anche da un approccio connaturato all’odierna matrice della ricerca scientifica?
Carcere o manicomio per i positivi che non vogliono farsi curare o entrare in quarantena sulla scorta del solo tampone: forse qualcuno pensava che fossero battute di Zaia, dal quale ci si può aspettare di tutto, ma adesso le stesse cose vengono riprese dal ministro Speranza dal quale al contrario non ci si può aspettare nulla vista la totale inesistenza del personaggio, ma dal quale almeno ci si poteva aspettare di non vedere l’imitazione del folklore più squallido e la presa in giro della Costituzione. Invece è accaduto Non voglio nemmeno perdere tempo a commentare sui “nuovi focolai in Veneto” ( 5 contagiati, al di sotto della probabilità statistica) o sugli indici di diffusione la cui entità è tanto più grande quanto minori sono i casi, ormai non è nemmeno più il caso di far fronte alle menzogne numeriche che siamo costretti a sentire, né le idiozie sui tamponi e insomma su una epidemia a la carte che può essere modulata come si vuole, ma la banda del virus deve in qualche modo simulare la seconda ondata prevista che non c’è affatto stata e in prospettiva deve mantenere alti i livelli di allarme semplicemente perché non può arrivare all’autunno e al redde rationem disarmato del Covid.
Siamo di fronte ad una crisi catastrofica del capitalismo finanziario che attualmente viene oscurata con la pandemia del covid. Senza voler dire che il covid-19, o quale altro numero abbia, non esista e che non sia in alcuni casi pernicioso, in realtà la grancassa della sistema comunicativo ha fatto sì che questa pandemia abbia coperto come un fumogeno la situazione di crisi generale verso cui si muove il sistema capitalistico basato sulla finanziarizzazione del profitto.
La finanziarizzazine del profitto, ovvero la ricerca del profitto speculativo tramite operazioni finanziarie, non è altro che il tentativo del capitale di sottrarsi allo scontro dI classe nei luoghi della produzione materiale.
Questo è quello che è avvenuto nel lontano 1973, ed è ben rappresentato dal grido di Gianni Agnelli, il più importante industriale italiano e personaggio di grande rilevo internazionale: “Profitto zero!”, cui segui lo spostamento del suo interesse alle speculazioni di Borsa.
Ma cosa stava all’origine del grande sommovimento sociale che sconvolse così radicalmente i rapporti tra capitale e lavoro in tutti i paesi capitalistici, dagli Stati Uniti all’Italia?
Federico Caffè può essere definito in tanti modi, è stato un economista brillante, un intellettuale eclettico ed un attento osservatore della società italiana. Ma probabilmente lui si sarebbe descritto come un insegnante, o meglio un professore nella sua accezione più nobile ed al tempo stesso umile. Usando le sue stesse parole:
Un professore non è un conferenziere, non parla occasionalmente a degli sconosciuti che con tutta probabilità non rivedrà più. Un professore dialoga con gli studenti dei quali conosce spesso tutto o quasi tutto: problemi e speranze, capacità e lacune, ansie e incertezze. Li assiste nei loro bisogni.
Federico Caffè
Con questa vocazione ha formato generazioni di studenti ed a lui va il merito di aver diffuso in Italia il pensiero di Sir John Maynard Keynes, di cui è stato probabilmente il più importante studioso all’interno dei nostri confini, e di molti altri economisti internazionali.
La formazione e l’opera divulgativa
Nato nel 1914 a Castellammare Adriatico in Abruzzo da una famiglia modesta, Federico Caffè rimase sempre molto legato alla madre, che con grandi sacrifici gli permise di frequentare la facoltà di Economia e Commercio alla Sapienza di Roma.
Cambia e
continua a mutare – oggi sembrerebbe addirittura
smaterializzarsi
– la forma della fabbrica. Ma in realtà
(e per avere conferma di questa tesi rileggiamo ora il
pensiero analitico di
Raniero Panzieri, dopo averlo fatto, nelle
settimane scorse con quello di Claudio Napoleoni[1]), se
sembra cambiare la forma resta invece
immutata la norma di funzionamento della fabbrica,
cioè:
suddividere/individualizzare per poi
totalizzare/integrare/connettere ciascuna parte, uomini
compresi, in qualcosa di maggiore della semplice
somma delle parti prima suddivise.
Una norma appunto sempre uguale, semmai sempre meglio perfezionata, generalizzata e pervasiva/pervadente – applicata all’operaio pre-fordista e poi all’operaio-massa fordista-taylorista come oggi all’operaio massa (o in forma di folla) individualizzato di quella che chiamiamo rete-fabbrica-integrata-globale. Sempre uguale e figlia dell’industrialismo e del positivismo ottocenteschi (e prima ancora, della rivoluzione scientifica), ma soprattutto della totalizzante razionalità strumentale/calcolante che ci domina dall’inizio della rivoluzione industriale al digitale di oggi. Digitale – così come ciò che il neo-operaismo definisce capitalismo cognitivo (Vercellone) o capitalismo bio-cognitivo (Fumagalli: “un concetto del tutto materiale, che nulla ha di etereo o sganciato dalla realtà dei corpi, ma che si incarna proprio nella messa in produzione delle facoltà di vita, dei corpi e della loro trasformazione in parti meccaniche e/o in processi di mercificazione”[2]) – che non rappresenta però un cambio di paradigma e neppure un momento di rottura con il sistema precedente (come pensano i neo-operaisti, ma non solo), ma solo la sua ultima fase evolutiva secondo l’essenza (infra) di tecnica e capitalismo.
Quinto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Nel frattempo nessuno dubita più del fatto
(ormai incontestabile anche
empiricamente) che le avanzate della crisi degli anni Ottanta
e Novanta, associate agli effetti della ritirata dello Stato
dalle sue
responsabilità sociali e della crociata neoliberale, abbiano
provocato la peggiore ondata di impoverimento di massa dalla
prima fase del XIX
secolo. Tutte le residue speranze, risalenti all’epoca
fordista delle ex-regioni coloniali, in uno “sviluppo”
autonomo nel quadro
del mercato mondiale capitalistico si sono volatilizzate. La
maggior parte del cosiddetto Terzo mondo è finita
completamente in rovina, da
ultimo perfino i pochi paesi del Sud-est asiatico, la cui
industrializzazione di recupero sembrava avere avuto successo.
In paesi come la Corea del
Sud, la Thailandia, l’Indonesia o la Malaysia questa
spaventosa disillusione, il brusco allontanamento dalla tavola
imbandita del consumo da
società pienamente industrializzata, poco dopo esservisi
accomodati, si è lasciata alle spalle conseguenze traumatiche.
Questa
esperienza deve essere ancora più spaventosa negli Stati in
via di disintegrazione della ex-URSS e in tutta l’Europa
Orientale, dove era
esistito per decenni un sistema industriale con tutti i crismi
nelle forme del capitalismo di Stato, anche se con un livello
di consumo inferiore
rispetto all’Occidente. In questi paesi, nel giro di pochi
anni, gli standard raggiunti in tutti i settori dell’esistenza
sono stati
completamente spazzati via. Adesso però anche in Occidente
intere regioni e settori della popolazione sempre più ampi
stanno
sperimentando una discesa altrettanto traumatica nella povertà
di massa, partendo per giunta da un livello di vita più
elevato. Come
molti neoliberali, Orio Giarini e Patrick Liedtke, gli autori
del più recente rapporto del “Club di Roma”, riconoscono la
crescente
povertà di massa globale e la contraddittoria esistenza di una
quantità immensa di risorse con parole asciutte:
Stefano G. Azzarà: Il virus dell'Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d'eccezione, mimesis, 2020
La pandemia ha fatto emergere le
contraddizioni delle società capitalistiche - stremate da
decenni di
politiche neoliberali all’insegna della guerra ai salari e ai
diritti delle classi subalterne, delle privatizzazioni, della
deregulation e dello smantellamento del Welfare
- che le hanno rese sempre più disuguali. Incapace di
immaginare un modello
di società diverso e certo della propria eternità, l’Occidente
ha creduto che il “virus cinese” colpisse solo i paesi
arretrati o ritenuti autoritari e che mai potesse diffondersi
nelle efficienti e trasparenti società liberali. Invece di
prendere sul serio
l’esperienza di altre realtà che hanno gestito meglio
l’emergenza grazie alla capacità dello Stato e della politica
di
guidare l’economia e la produzione subordinando gli interessi
privati a quelli della maggioranza, ha negato loro ogni
riconoscimento, fino a
procurarsi da solo un rischio estremo per eccesso di hybris.
A questa incapacità suicida di aprirsi all’altro non è
sfuggito il dibattito filosofico: sia le posizioni
dirittumaniste astratte ispirate al liberalismo universalista,
sia il sovranismo particolarista e
populista – che del liberalismo rappresenta non l’alternativa
ma una scissione conservatrice – condividono infatti di fronte
allo
stato d’eccezione il suprematismo occidentale, con il rifiuto
di elaborare un universalismo concreto e di pensare una
diversa configurazione del
rapporto tra individuo, società civile e Stato ma anche dei
rapporti tra le nazioni.
“Proprio il mancato riconoscimento dell’altro… ha impedito il riconoscimento della realtà stessa; impedendo al contempo di prendere le necessarie precauzioni ed esponendo l’Occidente a un rischio autoprocurato per eccesso di sicurezza e per presunzione di civiltà: in una parola, per hybris”.
La Ue, di fronte alla peggiore crisi del dopoguerra, ha deciso all’inizio della pandemia di attivare la clausola d’emergenza che nei fatti sospende il controllo sulla finanza pubblica dei paesi europei. In pratica è stato sospeso il Patto di stabilità per quel che concerne i vincoli del 3% al deficit e del 60% al debito.
Tuttavia, in questi giorni la Commissione europea sta già pensando a quando reintrodurre il Patto di stabilità e i relativi vincoli.
Il Comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche in un recente rapporto ha dichiarato che al momento dell’attivazione della clausola d’emergenza si sarebbero dovute fornire indicazioni sui tempi e sulle condizioni per la revisione della sospensione e che chiarimenti in merito dovrebbero essere forniti almeno entro la primavera del 2021. Il concetto è che la sospensione delle regole del Patto non può essere senza scadenza. Il vice-presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha preso spunto dal rapporto per dichiarare che
Le pressioni affinché l’Italia acceda ai fondi del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per ottenere finanziamenti per la sanità si moltiplicano, dentro e fuori il governo, sui media mainstream e da parte delle grandi imprese. Pare che tutti si siano accorti che i 36 miliardi di euro a cui si potrebbe accedere siano esiziali per il nostro sistema sanitario. Coincidenza vuole che sono proprio 36 i miliardi che i governi di differente colore hanno sottratto al servizio sanitario pubblico nel periodo 2010-2019. E su questo aspetto, dopo qualche accenno nel momento della grande paura, è invece calato il silenzio. Si dirà: giuste le critiche ai passati tagli, giusta l’indignazione verso l’ipocrisia delle forze politiche, sacrosante le critiche al Mes, ma al dunque dove troviamo allora i soldi per risanare il sistema? Le risposte, ovviamente, sarebbero diverse e piuttosto complesse, ma qui ci si limita a suggerirne soltanto una. Vale giusto 36 miliardi e riguarda i derivati, ovvero quei contratti sottoscritti da molti enti pubblici con le banche, conosciuti come “titoli tossici”, che una sentenza della Corte di Cassazione – sentenza che fa giurisprudenza per tutti – ha di recente dichiarato nulli
Dopo aver decantato per mesi la “svolta” dell’Unione Europea, che, attraverso il Recovery Fund, avrebbe abbandonato ogni relazione di tipo autoritativo nei confronti degli stati membri con un alto rapporto debito/pil per approdare a una “condivisione” dell’indebitamento, la contesa sembra essere approdata, come nel classico gioco dell’oca, al punto di partenza.
Con questa approfondita riflessione di Emanuel Pietrobon l’Osservatorio prosegue oggi il suo dibattito sul concetto di Occidente: lo studioso di geopolitica, in questo articolo, pone di fronte la problematica natura duale dell’Occidente, concetto geopolitico che si è voluto ammantare con una sovrastruttura valoriale creata a posteriori. Ma nella sfera geopolitica statunitense molte tendenze innate permangono e continuano a manifestarsi, sotto diversi punti di vista, in vari Paesi: Pietrobon cita i casi di Turchia, Ungheria, Polonia e Germania
Quando si parla di Occidente ci si riferisce ad un preciso blocco del mondo caratterizzato da una serie di elementi comuni come le tradizioni culturali, la filosofia politica e religiosa, i valori sociali, il sistema economico e la cultura politica incardinata sul binomio stato di diritto – democrazia.
L’Occidente, più nel dettaglio, corrisponderebbe ad una precisa entità geopolitica incardinata sul ruolo centrale degli Stati Uniti e sulla presenza periferica di altre potenze, come il Canada, il Giappone, l’Unione Europea, l’Australia, la Nuova Zelanda e la Turchia.
Qualcosa sta avvenendo. Giovedì negli Stati Uniti il dato di nuovi occupati nel mese di giugno, che sono stati 4,8 milioni. Se il trend continuasse a questo ritmo nei prossimi 7 mesi gli Usa potrebbero riprendersi dall’emorragia di lavoro da Covid.
Si tratta sopratutto dei “lavoretti” (ristorazione, tempo libero, commercio, ecc) che erano andati persi con il lockdown, gestito malissimo e chiuso troppo presto, come dimostrano i record di contagi. Ma sono un segnale di qualche vitalità…
Oggi un altro indicatore: l’indice cinese Caixin è salito a giugno da 55 di maggio a 58,4, il top da aprile 2010. Sembra che con l’affievolirsi del Covid, almeno in Cina, la domanda si stia riprendendo.
Certo hanno pesato le massicce misure fiscale degli scorsi mesi, con sospensioni tasse e prestiti a Pmi, defiscalizzazioni degli oneri sociali e un ombrello reddituale ai lavoratori cinesi.
Non sappiamo dire se le recenti riforme in tema sanitario stiano già avendo un effetto, lo sapremo nei prossimi mesi; certo è che le riforme fiscali e sanitarie offrono lo spunto per concentrarsi sulla domanda interna. Medesima cosa fanno gli Usa, con massicce misure monetarie e fiscali.
Dopo la notte di travaglio tra il 6 e il 7 luglio, un Consiglio dei Ministri fatto di scontri e litigi ha partorito un decreto mostruoso, #italiaveloce come voluto marinettianamente dai renziani, che prevede di gettare 200 miliardi di euro – praticamente quelli previsti come contributi a fondo perduto dall’UE – in grandi opere sulla cui utilità non si è minimamente dibattuto. In contemporanea arriva una notizia spaventosa dalla Banca d’Italia secondo la quale il 40% delle famiglie italiane con un mutuo non riesce a pagarlo.
Trovo queste due notizie un chiaro segnale – che non so se sarà così interpretato dall’informazione mainstream – di come ormai la politica italiana, maggioranza e opposizioni unite in questo, assieme alla cricca più parassitaria che domina in Confindustria, sia totalmente slegata dalle sorti del paese.
Nei TG e GR del 7 luglio si è fatto un gran riferire delle prospettive magnifiche che seguiranno nella riapertura di alcuni cantieri, si è inneggiato alla sburocratizzazione delle norme che avrebbero rallentato il procedere di troppi progetti.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Stefano Latino: Quarantena e distanza sociale dalla spagnola al coronavirus
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A partire dalla pubblicazione
dell’articolo scritto per la fionda I «bottegai», l’ultimo
argine? Spunti per una politica oltre purismo e
subalternità, diverse sono state le reazioni e le
letture che hanno dato luogo a un proficuo dibattito, che ci
auguriamo possa proseguire e continuare ad avvalersi degli
importanti spunti analitici mossi da più parti. Due sono i
fronti della critica su cui ci concentreremo, non potendo
ritenere validi i rilievi
secondo i quali indicheremmo nella piccola borghesia una “nuova classe rivoluzionaria”[i], essendo piuttosto evidente
che una tale intenzione non emerge in alcun punto del nostro
contributo. Da una parte, abbiamo il fronte costituito da chi
ravvisa nella nostra
analisi una lettura della fase che non prenderebbe in
sufficiente considerazione i rischi insiti nella costruzione
di un’alleanza con la piccola
e media borghesia, la quale nella futura e imminente gestione
della crisi (Recovery fund, Mes, etc.) sarà ancora una volta
portata ad ascoltare
il “richiamo della foresta” di arricchirsi e distinguersi dai
proletari, dal momento che uscire dalla condizione di
immiserimento è
sempre stata, resta e sarà la sua sola parola d’ordine. Per
semplificare e rendere più chiara la nostra esposizione,
chiameremo
questo fronte il “fronte A”[ii]. Dall’altra,
c’è chi osserva nel nostro punto di vista un certo
indeterminismo, insito nell’uso della teoria di Ernesto
Laclau, che finirebbe
per «gettare nel cesso» il materialismo storico e, che pur
nella giusta decisione di puntare sulla piccola e media
borghesia per la
costruzione di un «blocco storico nazional-popolare», vedrebbe
nella nostra rivendicazione della sovranità nazionale contro
l’UE, non tanto un secondo momento (la teoria dei due tempi),
quanto piuttosto un momento secondario rispetto alla
centralità assunta
dalla conquista socialista dello stato. Chiameremo questo
fronte, il “fronte B”[iii].
A margine del sostanziale riflusso del movimento sociale negli Stati Uniti, pubblichiamo un altro breve estratto da Le Ménage à trois de la lutte des classes, uscito in Francia nel dicembre 2019, e in fase di traduzione in italiano. Degli Stati Uniti, avremo modo di riparlare in maniera più circostanziata prossimamente. Nel frattempo, per chi volesse procurarsi il volume di cui sopra, ricordiamo che è ormai possibile ordinarlo direttamente sul sito della casa editrice: https://editionsasymetrie.org/ouvrage/le-menage-a-trois-de-la-lutte-des-classes/.
Obiettivi delle lotte interclassiste
Fatta eccezione per i Gilets Jaunes nel momento più alto della loro mobilitazione, nei movimenti interclassisti attuali – tali quali si manifestano attraverso scioperi, manifestazioni e sommosse – la presenza del proletariato è meno evidente di quella della classe media. Lo si è visto in Francia nel 20161 e in molte altre occasioni, che dimostrano come all’interno della lotta interclassista sia la classe media a parlare più forte. Questo vuol dire forse che è essa a menare le danze? No, vuol semplicemente dire che è essa ad avere i mezzi per esprimere il discorso più appropriato al terreno sul quale si colloca la lotta interclassista: quello politico, in cui ci si rivolge allo Stato perché difenda il posto che le due classi occupavano precedentemente nella società capitalistica. Quella interclassista non è una lotta in cui il proletariato giochi un ruolo secondario sottomettendosi agli imperativi della CMS [classe media salariata, NdT]. Il proletariato non rinuncia alla sua posizione specifica. Semplicemente, è impegnato in una lotta rivendicativa e/o riformista. Fino a un certo punto, le sue rivendicazioni sono le stesse della classe media, reclama le stesse riforme. Fin quando si rimane al di qua di questa soglia, la classe media è il portavoce meglio capace di formulare gli obiettivi congiunti delle due classi. Ma quali sono questi obiettivi? Li si può analizzare secondo il ventaglio seguente.
1) Standard generali di riproduzione. Si tratta dei fattori che determinano le condizioni di vita delle due classi in generale (disoccupazione, inflazione etc.). Il problema non riguarda solo il proletariato. Abbiamo visto quale sia stata l’importanza della questione dei disoccupati diplomati durante le Primavere arabe.
“Il Circo Liberale” nasce con l’intento di discutere, criticamente e con un linguaggio tagliente, autori e intellettuali del pensiero liberale. Inauguro la rubrica con una serie di tre articoli su Riccardo Dal Ferro, divulgatore del pensiero liberale su youtube
Introduzione
Vorrei iniziare questo scritto porgendo le scuse ai miei pochi lettori. Avrei infatti voluto inaugurare questa rubrica partendo dalla critica di un autore classico del liberalismo, o che perlomeno sia considerato come una loro punta di diamante (un Popper, per esempio). Ma la mia poca tolleranza per le bestialità mi costringe ad iniziare da un divulgatore. Non solo: mi costringe ad iniziare da un divulgatore che ha una fastidiosissima sindrome della vittima. Nella live apparsa sul canale del Cerbero Podcast infatti, Riccardo Dal Ferro si è prodigato nel tentativo di spiegare il pensiero di Marx. Il risultato è stato analogo a quello che sarebbe accaduto se Adolf Hitler fosse stato chiamato a spiegare biologia: un pasticcio tragicomico. Comico, per la grande quantità di assurdità inanellate una dietro l’altra senza la minima coscienza di starle dicendo; tragico, perché il tipo ha una notevole influenza. Vorrei però spezzare una lancia in favore del leader nazionalsocialista: non avendo Hitler una laurea in biologia, è normale che dica idiozie su quel campo.
Cosa c’entra questo col vittimismo? Nel video, Rick si fa ripetutamente beffe di uno strawman del marxista, secondo cui “solo i marxisti possono parlare di Marx” (ponendolo in analogia con un altro strawman, quello del femminista, secondo cui “solo le donne possono parlare di femminismo”). Il sottotesto retorico è semplice: “povero me, so già che i marxisti che mi criticheranno lo faranno con argomenti stupidi!” Ma io voglio rassicurare il nostro furbacchione, e dirgli, con una carezza, che lui può parlare di ciò che vuole, finché lo fa con buoni argomenti.
Uno che è nato quando il Futurismo insegnava al mondo come rinnovare la rappresentazione di cose, pensiero e azione; quando ancora c'erano Pirandello e il Vate e gli unici rapporti non corpo a corpo, non occhio nell'occhio, non mano nella mano, o lettera a lettera, erano per telefono e, raramente, per telegrafo; uno che ha avuto la fortuna di vivere quasi tutta la sua vita di scapestrato prima dell'apocalisse della smaterializzazione-digitalizzazione dell'umanità e perciò oggi si rifugia tra le zampe del suo bassotto a cui, come a tutti gli animali, questo abominio non può essere inflitto, costui può ben avere i titoli per dire una cosa incontrovertibile.
Si perde nelle nebbie di una memoria a momenti centenaria, forse addirittura in evi lontani, l'esistenza di un regime più nefasto, infausto e letale di quello che, al servizio di orchi stranieri, globali e composto da sciagurati apprendisti orchi, sta cancellando il paese e il popolo di Virgilio, Dante, Michelangelo, Pisacane, Garibaldi, le sue camicie rosse e le bandiere rosse della sua Brigata.
Come spesso accade in Italia per le cose che contano davvero, si sta parlando poco del cosiddetto “Piano nazionale di riforma” (PNR), una delle componenti fondamentali del Documento di Economia e Finanza (DEF), approvato in ritardo rispetto al calendario previsto dalle regole UE, ma importantissimo ai fini della definizione della strategia anti-crisi che il Governo dovrà presentare a settembre per accedere alle risorse finanziare che l’Europa dovrebbe mettere a disposizione.
Tutta l’attenzione mediatica, infatti, si sta concentrando in questi giorni sul cosiddetto “Decreto Semplificazioni” – il provvedimento con cui si dovrebbero sbloccare 130 opere di media e grande dimensione nel Paese –, che, nondimeno, costituisce una sorta di appendice del “Piano Nazionale di Riforma”, essendo la logica della liberalizzazione del sistema degli appalti (e di ciò che ne consegue per quanto riguarda l’ambiente e il lavoro) e quella delle grandi opere impattanti perfettamente in linea con la sua filosofia neoliberista e pro-business, solo goffamente camuffata con banali enunciazioni di principio sulla solidarietà, l’equità, l’inclusione sociale.
Hayek assume una versione forte della razionalità che possiamo dividere in tre affermazioni: (1) agire razionalmente significa farlo cercando di massimizzare il raggiungimento dei nostri obiettivi, (2) gli agenti economici nel mercato agiscono razionalmente, quindi (3) comportarsi irrazionalmente è violare le regole del mercato.
Pertanto, ogni profonda rivoluzione strutturale è irrazionale, perché mira a cambiare radicalmente la società in cui il mercato è il luogo supremo della razionalità. Tuttavia, secondo Hayek, la caratteristica dell'essere umano non è di essere razionale, ma di essere sociale. Siamo esseri che hanno bisogno dei propri simili per sopravvivere. Diventiamo razionali, in un lungo processo di selezione storica attraverso il quale arriviamo all'attuale società di mercato. Tale razionalità è, quindi, il risultato di uno sviluppo che porta a un sistema di divisione del lavoro che richiede, per il suo miglior funzionamento, un'attività guidata dal tentativo di massimizzare il raggiungimento dei propri obiettivi.
Ecco perché per Hayek il mercato diventa il luogo della razionalità strumentale.
Basta classi pollaio, più insegnanti, più personale. Queste parole vengono continuamente ripetute da esponenti politici di ogni schieramento, ma non trovano mai un’effettiva realizzazione. Gli emendamenti al DL Rilancio sono vaghi, pericolosi, precarizzanti, non trovano alcun fondamento nelle regole contrattuali.
L’emendamento 231.011, a firma del M5S, prevede di abbassare il numero degli alunni per classe solamente se non si può fare altrimenti, nei limiti delle risorse stanziate. Include, in sostanza, l’impossibilità di avere classi meno numerose, misura strutturale essenziale, ancor più in tempi di emergenza sanitaria, in cui il distanziamento sociale viene considerato uno dei fattori principali per cautelare se stessi e il prossimo. Considerando il normale spazio disponibile nelle aule scolastiche, 15 alunni dovrebbe essere il massimo per ogni classe anche senza pandemie in corso.
Ancora più scellerata ci appare la lettera b dell’emendamento:
Ma dietro la muleta degli aiuti a costo zero c’è lo stocco delle riforme sotto dettatura
L'Europa è al bivio: cerca di rafforzarsi a tutti i costi, perché la crisi in atto può decretarne la fine, sospinta verso la dissoluzione dalla rielezione di Donald Trump.
Siamo ancora un campo di battaglia, un crocevia geopolitico cruciale per le strategie americane, che si ribaltano in continuazione, passando da una Presidenza all'altra.
Anche stavolta, c'è conflitto profondo che accompagna la campagna per le Presidenziali americane di novembre: la rielezione di Donald Trump è fortemente osteggiata da chi la considera un increscioso incidente della Storia, da chiudere al più presto possibile.
L'Unione europea è consapevole della necessità di usare la crisi sanitaria in corso per trasferire ancora una volta nuovi poteri straordinari a Bruxelles: tanto più sarà grave la situazione economica e finanziaria, tanto più saranno indispensabili gli aiuti europei.
A Bruxelles gongolano, ma forse si illudono. Con Trump rieletto alla Presidenza, la Storia dell'Unione non si ripeterebbe come è stato finora, perché gli equilibri globali sono cambiati: il nemico dell'Occidente non è più la Russia sovietica, ma l'espansionismo cinese.
In calce un intervento di Maurizio Novelli
Dare un’occhiata a quel
che pensano e scrivono gli “operatori sul mercato”
(finanzieri, ossia
“investitori professionali”) è sempre molto interessante.
Permette infatti di vedere cosa c’è al di sotto
dell’oceano di pessima informazione depistante che sgorga dai
media mainstream.
Per la terza volta ci ha colpito l’analisi di Maurizio Novelli, del fondo di investimento svizzero Lemanik, che con grande disinvoltura elenca problemi del capitalismo attuale senza troppi giri di parole né rassicurazioni consolanti per i non addetti ai lavori.
Il titolo, anche stavolta su Milano Finanza, è decisamente “acchiappesco”: Perché è il momento di vendere Usa allo scoperto.
Le “vendite allo scoperto” sono una tecnica di mercato finanziario con cui si vendono titoli (azioni, bond statuali o aziendali, prodotti derivati, ecc) che non si possiedono. Come si fa? Ce li si fa “prestare” a termine prefissato, con la garanzia di restituirli al prezzo che avranno a quella scadenza.
Di fatto, una volta avuti li si vende massicciamente al prezzo di oggi, quindi si provoca un’offerta esagerata di quei titoli sul mercato, dunque un abbassamento drastico del loro prezzo in modo da resituirli avendoci guadagnato la differenza tra il prezzo attuale e quello futuro abbassato scientemente.
Speculazione pura, certo, ma dagli effetti molto reali.
Ma perché un finanziere svizzero (di lingua italiana) è pronto a speculare su titoli statunitensi di ogni tipo manco fossero i Cct italiani ai tempi della lira?
Ci siamo già occupati della
virulenta campagna politico-mediatica a favore del Mes che
imperversa ormai da settimane nel nostro Paese. Abbiamo
spiegato come la volontà di attivare questo meccanismo niente
abbia a che fare con le
enormi necessità economiche dell’Italia. Cosa c’è allora
dietro a tanta foga, a tante falsità diffuse a piene mani
dalle forze sistemiche? Ecco una domanda che può portarci
lontano.
Ricapitoliamo anzitutto i termini della questione. Qualora attivato il Mes può fornire all’Italia un prestito pari al 2% del Pil, in soldoni 36 miliardi di euro. La propaganda vorrebbe farci credere che, a differenza di quello “vecchio”, il “nuovo” Mes sia privo di stringenti condizioni, ma – come abbiamo spiegato qui – ciò è falso. Al “nuovo” Mes si accede sì incondizionatamente, ma le regole statutarie di questa trappola ammazza-Stati scatteranno per statuto subito dopo.
Il Mes non è però figlio unico. Esso fa invece parte di un’allegra famigliola di tre pargoli generati dall’oligarchia eurista. Gli altri due fratelli si chiamano Sure e Recovery fund (adesso rinominato dalla fantasiosa anagrafe brussellese come Next generation EU). Secondo la narrazione prevalente delle èlite italiote, i tre fratelli (Mes compreso) sarebbero ormai pura espressione del bene, manifestazione quasi ultra-terrena di una solidarietà europea mai vista né conosciuta finora. Ed anche per i più prudenti, la generosa natura dell’ultimo nato, il Recovery fund, basterebbe comunque a bilanciare il proverbiale cattivo carattere del primogenito. Peccato che sia la solita menzogna, visto che il Recovery fund altro non è che un Mes più grande, dove al posto delle “condizionalità” ci sono le “riforme”. Il che, in linguaggio eurista, se non è zuppa è pan bagnato.
È da poco uscita per
Diarkos una nuova edizione del fortunato libro di Vladimiro
Giacché «Anschluss. L’annessione». Non si tratta di un
raffinato esercizio culturale (alla francese), ma di un
brutale
abbattimento o de-costruzione (Rückbau) di tutti i luoghi
comuni sulla Germania.
Il libro racconta la storia di come uno Stato, la RDT o Germania Orientale, orgoglio industriale del blocco sovietico, sia stato annesso alla Germania Occidentale e fatto regredire ad uno stadio preindustriale.
Dopo il passaggio del rullo capitalista, nei grandi centri industriali di Lipsia, Merseburgo, Magdeburgo, Vittimberga, Halle, Bitterfeld, Eggesin erano rimasti in piedi solo la pubblica amministrazione, l’artigianato, il commercio e il turismo.
Come conseguenza dell’annessione tutti i titoli di studio e le carriere apicali, come quelle degli amministratori delegati, dei quadri industriali, dei giudici, dei maestri e dei professori, degli avvocati, eccetera, furono azzerati. Stimati luminari, come il professore universitario Horst Klinkmann, quando non furono arrestati e condannati, furono sbattuti fuori dai loro posti di lavoro. Nemmeno il regime nazista era riuscito a far peggio.
La furia liquidatoria nei confronti della RDT giunse sino al punto di far pagare ai tedeschi orientali non solo i debiti contratti dal regime precedente, ma anche debiti inesistenti.
In una ragioneria impazzita il debito verso i soci di tutte le imprese della RDT, dunque il capitale di rischio, non venne considerato come il pareggio contabile dell’attivo. L’attivo venne assimilato ai rottami ferrosi, mera sopravvenienza di archeologia industriale di valore contabile pari a zero. Mentre il passivo venne assimilato a debiti verso terzi, debiti giustificati contabilmente da insussistenze passive, ovvero da ammanchi di cassa, dovuti a ruberie e distrazioni di fondi.
I dati macroeconomici ci mostrano, ogni giorno sempre più chiaramente, quanto sia profonda la crisi in atto. La crisi, inoltre, si manifesta in modo diverso nei vari Paesi dell’area euro, allargando il già esistente divario economico tra di essi, in particolare tra la Germania, da una parte, e Francia, Italia e Spagna, dall’altra parte. Nei prossimi mesi la crisi economica non mancherà di influenzare il quadro politico nazionale e europeo che appare già ora sufficientemente instabile. Ma cominciamo con il vedere i dati sulla crisi.
Recentemente la Commissione europea ha diffuso delle nuove previsioni economiche sul Pil che mostrano un quadro peggiorato rispetto alle precedenti previsioni di maggio. Il Pil dell’area euro nel 2020 dovrebbe contrarsi del -8,7%, contro il -7,7% stimato a maggio, mentre la ripresa nel 2021 dovrebbe essere del +6,1% contro il +6,3% previsto a maggio. Tra i vari Paesi dell’area euro quello messo peggio è l’Italia con una flessione del -11,2% nel 2020 e una ripresa nel 2021 del +6,1%. A maggio, per l’Italia, era stato previsto un calo del Pil nel 2020 del -9,5% e nel 2021 una ripresa del +6,5%.
Rendetevi conto che già a gennaio 2020 eravamo ancora sotto di 5.3% punti di Pil rispetto al 2008. In pratica, grazie ai vincoli europei e alle politiche di austerità, in dodici anni il Paese non era riuscito neanche a recuperare la posizione occupata al momento dell’esplosione della bolla speculativa poi ricordata come “fallimento di Lehmann Brothers” (la quarta banca d’affari del mondo).
Se davvero crolliamo quest’anno dell’11% ci metteremo, con lo stesso ritmo, almeno 15 anni per recuperare il 2008. Quindi, ben che vada, nel 2035 avremmo il Pil del 2008. Oltre un quarto di secolo buttato via, senza nemmeno la scusa di un forte contrasto da parte di lavoratori e sindacati…
Devono essere banditi i Bonomi, i Sala, i Bonaccini, gli Zaia, tutti i media ed è immediatamente necessario un ricambio radicale, dopo 26 anni, della classe dirigente.
Altrimenti non se ne esce.
Unica soluzione percorribile: riduzione dell’ orario di lavoro e reflazione salariale, diretta e indiretta. Devono essere colpiti i profitti che negli ultimi decenni si sono trasformati in rendita finanziaria – non in ivestimenti produttivi – parcheggiata in genere all’ estero, spesso nei paradisi fiscali (anche europei).
Centinaia di migliaia di vittime civili, oltre 2.400 soldati Usa uccisi (più un numero imprecisato di feriti), circa 1.000 miliardi di dollari spesi: questo in sintesi il bilancio dei 19 anni di guerra Usa in Afghanistan, cui si aggiunge il costo per gli alleati Nato (Italia compresa) e altri che hanno affiancato gli Usa nella guerra. Bilancio fallimentare per gli Usa anche sotto il profilo politico-militare: la maggior parte del territorio è oggi controllata dai Talebani o contesa tra questi e le forze governative sostenute dalla Nato.
Su tale sfondo, dopo lunghe trattative, l’amministrazione Trump ha concluso lo scorso febbraio un accordo con i Talebani, che prevede, in cambio di una serie di garanzie, la riduzione del numero delle truppe Usa in Afghanistan da 8.600 a 4.500. Ciò non significa la fine dell’intervento militare Usa in Afghanistan, che continua con forze speciali, droni e bombardieri. L’accordo, comunque, aprirebbe la via a una de-escalation del conflitto armato. Pochi mesi dopo la firma, però, esso è stato rotto: non dai Talebani afghani ma dai Democratici statunitensi.
Oggi sull’ANSA si è letto il seguente comunicato del Segretario generale del MES Nicola Giammarioli:
Il Mes non è una trappola. Il segretario generale del Mes, il Fondo salva-Stati, Nicola Giammarioli, intervistato da Repubblica, fa presente che le linee di credito “non hanno nulla a che vedere con i prestiti del passato: non portano a condizionalità ex post, austerity, troika, o ristrutturazione del debito. Siamo in un altro campo da gioco rispetto al passato”. Inoltre “alle attuali condizioni di mercato, l’Italia si troverebbe a rimborsare una cifra inferiore a quella ricevuta”, con un risparmio di 500 milioni all’anno.
Lo sapete quello che mi dispiace? E’ il vedere che un italiano, pur di servire il suo padrone , sia in grado di dire un bel po’ di inesattezze, per usare un eufemismo:
a) Il MES E’ CONVENIENTISSIMO? NO, O ALMENO NON C’ È NESSUNA CERTEZZA. IL MES è un prestito a TASSO VARIABILE, perchè il tasso che si paga viene a dipendere dal costo medio di provvista dell’anno del MES stesso.
La lettura del provvedimento legislativo “Semplificazioni del sistema Italia” e del suo allegato sulle opere pubbliche che dovrebbero portare l’Italia nel futuro – parole del presidente del consiglio Giuseppe Conte – ci fa invece comprendere che torneremo ad un passato che credevamo superato per sempre. Con le norme sulla liberalizzazione dell’edilizia (art. 10) si torna agli anni della ricostruzione post bellica e all’attacco dei centri storici. Con la cancellazione delle regole di appalto delle opere pubbliche (art. 1) si fa tornare l’orologio della storia a prima di “Mani pulite”. Con lo sterminato elenco di grandi opere (130) si torna infine al 2001, facendo impallidire Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti.
Iniziamo con l’immediato dopoguerra, quando i piani regolatori furono accantonati e si applicarono le regole semplificate dei “piani di ricostruzione”. Non esiste forse nessun centro storico italiano che sia rimasto esente da scempi e volgari ricostruzioni che ne hanno alterato per sempre l’equilibrio. L’articolo 10 del provvedimento del governo introduce molte semplificazioni al testo di legge che regolava gli interventi edilizi (DPR 380/91) e tutte vanno nella direzione dell’attacco delle aree storiche delle città.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Nell’Italia del XXI
secolo chiunque può diventare capo del governo, persino un
ignoto
avvocato di provincia, sia detto con rispetto, privo fino al
giorno prima di qualsiasi ombra di familiarità con politica,
affari di Stato e
relazioni internazionali. Egualmente, sia detto anche qui con
rispetto, chiunque può diventare ministro degli esteri, delle
finanze,
dell’economia e via dicendo.
Si tratta di un’evidenza, solo in apparenza sorprendente, che va posta in termini strutturali, non personali. Sui futuri libri di storia questi dirigenti saranno menzionati in un riquadro a fondo pagina, raccolti in un freddo elenco di nomi e anni di riferimento: è improbabile che di essi si parli per lo spessore delle gesta, la tensione etica o le lotte combattute a favore della popolazione, a dispetto del pur oscillante frasario elogiativo destinato a evaporare a ogni tramontar del sole.
Nei paesi a democrazia liberale – Stati Uniti ed Europa, in primis - la selezione del ceto dirigente non è fortuita. E quando talvolta i meccanismi selettivi sfuggono di mano (Trump...), la sottostante struttura statuale supplisce alle insufficienze del livello politico. Anche in paesi lontani dalle tradizioni istituzionali occidentali, i processi selettivi non sono lasciati al caso. In Cina, ad esempio, sapere e potere vanno da sempre a braccetto. Nella millenaria storia cinese, l’imperatore, suprema espressione del potere assoluto, poneva massima attenzione a circondarsi di persone selezionate: a partire dall’epoca Tang, in particolare, i mandarini (rappresentanti dell’autorità imperiale) erano tenuti a superare esami pubblici faticosi, forse non sempre trasparenti, eppure sufficienti a evitare che giungessero a responsabilità elevate anonimi figli del vento, originati dal caso, dalla corruzione o dal nepotismo.
Cos’è la scienza?
“La scienza non è democratica” è il nuovo mantra utilizzato come scudo per allontanare chiunque provi a manifestare un pensiero divergente da quello accreditato dalla vulgata dominante e per questo inconfutabile, non passibile a critiche di alcun tipo. Il monito è molto efficace, ed emana quell’autorevolezza che ci si aspetta dal rigore e dall’inaccessibilità della scienza, intesa come campo esclusivo di un élite di esperti, la cui competenza e preparazione implicano qualità tali da giustificare un certo distacco dal popolo, il demos appunto. Mai come in questo periodo di diffusione della paura collettiva legata al Covid-19 la scienza, o come meglio vedremo la sua degenerazione scientista, ha avocato a sé il ruolo di padre primigenio, che sorveglia i propri figli e impone loro la propria indiscussa autorità.
Ma cosa è la scienza?
Sciens, participio presente del verbo latino scire, sapere, essa comprende quel sistema di cognizioni acquisito con lo studio e la riflessione.
Ricostruire la genesi della scienza richiederebbe un trattato a sé, ed esula dall’obiettivo della nostra esposizione; peraltro esiste già una vasta e importante letteratura in merito da poter esaminare.
Già nella cultura classica i filosofi greci distinguevano due diverse forme di conoscenza, l’opinione (doxa), fondata sull’esperienza sensibile e perciò ingannevole e incerta, e la scienza (epistème), basata sulla ragione e dunque fonte di conoscenza sicura e incorruttibile.
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Quanti furono i morti causati dal crollo del ponte Morandi avvenuto il 14 agosto 2018? Come tutti sanno, essi furono quarantatré.
Può essere allora istruttivo ricordare il nome, il cognome e l’età delle vittime di quella strage. Gli ultimi ad essere riconosciuti furono, oltre a Mirko Vicini, 30 anni, di Genova, operaio Amiu, Cristian Cecala, la moglie Dawna e la figlia Kristal, di 9 anni, di Oleggio (Novara). Ed ecco gli altri: Marian Rosca, camionista romeno di 36 anni, che viaggiava col collega Anatoli Malai, di 44 anni. Una famiglia arrivava da Pinerolo: Andrea Vittone, nato a Venaria Reale, 50 anni, la moglie Claudia Possetti, nata a Pinerolo, 48 anni, i figli della donna Manuele e Camilla di 16 e 12 anni. Un'altra famiglia sterminata dal crollo è quella dei Robbiano che vivevano a Campomorone (Genova): il padre Roberto, 44 anni, nato a Genova, la madre Ersilia Piccinino, 41 anni, nata a Fersale (Catanzaro), il figlio Samuele, 8 anni. E ancora: Andrea Cerulli, 48 anni, di Genova; Elisa Bozzo, 34 anni, nata a Genova e residente a Busalla (Genova); Francesco Bello, 42 anni, di Serrà Riccò (Genova); Alberto Fanfani, 32 anni, nato a Firenze, fidanzato con Marta Danisi, 29 anni, nata a Sant'Agata di Militello (Messina); Stella Boccia, 24 anni, nata a Napoli e residente a Civitella Val di Chiana e il fidanzato Carlos Jesus Erazo Truji, 27 anni peruviano.
Nella sue Lezioni di Storia della Filosofia, Hegel sbriga la pratica Confucio così: “Non è plausibile attendersi da lui profonde ricognizioni filosofiche. Per noi, a questo proposito, non v’è niente da guadagnare. Probabilmente, il De Officiis di Cicerone è meglio di tutte le opere confuciane”. E quindi mentre in Cina fioriva l’altra grande civiltà planetaria nel mentre gli antenati di Hegel, coperti di pelli, saltellavano nei boschi a cercar di catturar marmotte finendo poi con l’accontentarsi di un brodo di radici, il tutto sarebbe avvenuto senza pensiero. O per lo meno senza pensiero di un qualche interesse per il culmine della riflessione occidentale incarnata dall’ambizioso e sprezzante professore di Stoccarda.
Cinque secoli prima di Cicerone, non molto dopo che Romolo aveva ammazzato il fratello Remo nelle insalubri paludi tiberine, in quel dello Shandong, visse il Maestro Kong. Confucio è al contempo il condensatore della tradizione di pensiero di lui ben più antica (anche se quanto “antica” non si sa, si suppone almeno di mille anni, ma forse anche di più) e la base di quel complesso di riflessioni che saranno la base di tutto lo sviluppo intellettuale cinese, ancora fino ad oggi.
Nell’ultimo, doloroso film di Ken Loach “Sorry we missed you” il protagonista Ricky è un uomo di mezza età della working class britannica, sull’orlo della disoccupazione. Ricky decide di contrarre un debito per l’acquisto di un furgoncino con cui svolgere la professione di fattorino “collaborando”, ma di fatto trasformandosi in uno schiavo, con una ditta di consegne a domicilio che distribuisce per i grandi marchi della delivery economy – Amazon su tutti.
L’attività, manco a dirlo, è priva di garanzie sindacali. Sedotto dalla falsa narrazione del “self-employed driver”, del “tu non lavori per noi ma con noi”, Ricky arriverà a sacrificare tutto il suo tempo (15 ore giornaliere), le sue energie corporee finanche mentali ed il suo ruolo di padre e marito sull’altare di una produttività (s)misurata solo ed esclusivamente da algoritmi.
Il supervisore e “team leader” Maloney, patologico aguzzino e ingranaggio di un tanto verticale quanto virtuale rapporto di comando, arriva a decretare con tanto di sorriso che è l’algoritmo che “decide chi vive e chi muore”, tenendo in mano il palmare da cui dipende la vita lavorativa del lavoratore-collaboratore ma che per un isomorfismo neoliberista si può dire la sua vita tout-court.
Alla fine di giugno la Commissione Europea ha promulgato un “regolamento” sull’installazione delle antenne 5G, nel quale si afferma che questo tipo di opere non necessita di autorizzazione. La Commissione si è quindi limitata ad avallare quanto già si stava facendo, dato che un po’ ovunque i governi hanno approfittato dei lockdown, con la conseguente impossibilità per le popolazioni di protestare, per installare tutto l’installabile.
I lockdown sono stati giustificati ufficialmente con esigenze di salute pubblica; d’altra parte le considerazioni di tutela della salute pubblica non hanno avuto alcun peso nella vicenda del 5G. Gli studi sulla pericolosità per l’incolumità delle persone esposte alle radiazioni, provengono da ambienti scientifici e medici come l’ISDE, un’ organizzazione internazionale con tanto di riconoscimento ufficiale da parte dell’ONU e dell’OMS; nell’ISDE si inserisce anche l’Associazione Italiana Medici per l’Ambiente. Eppure tutte le segnalazioni e le denunce a riguardo sono state classificate nelle fake news.
Salute e scienza possono essere invocate o liquidate a seconda delle esigenze del business e della potenza del lobbying che sta dietro il business.
Il “Manifesto” non è la sacra Bibbia, né il Catechismo dei comunisti, ma un’opera aperta, laica, profana, imperfetta, incompiuta, in fieri, con luci e ombre, intuizioni geniali e difetti innegabili. Un’opera che va letta e studiata senza estrapolarla dall’epoca in cui fu scritta e senza pregiudizi fideistici, al pari di ogni altro classico della politica
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Comunismo si dice in molti modi
«Il Manifesto del Partito comunista è uno dei più grandi scritti politici di tutti i tempi»[1]. Così un filosofo e stu
dioso liberale italiano ultracritico di Marx, allacciandosi a un giudizio analogo del giovane Max Weber, poi divenuto il grande sociologo, denominato l’Anti-Marx, o «il Marx della borghesia»: «il Manifesto è una realizzazione scientifica di prim’ordine. Questo è innegabile»[2].
Ma perché, chiediamoci in via preliminare, Marx ed Engels l’hanno intitolato Manifesto del Partito comunista, e non «socialista»? In primo luogo, per ragioni politiche contingenti: a) perché il compito di scriverlo gli era stato affidato nel dicembre del 1947 dal Congresso londinese della Lega dei Comunisti (ex-Lega dei Giusti)[3], in cui militavano da qualche tempo: b) perché – lo spiegò poi Engels nella Prefazione del 1890 al Manifesto – «socialisti» si definivano in quel tempo i seguaci di «vari sistemi utopistici» (Owen e Fourier), e molti «ciarlatani sociali» e riformatori borghesi (tra cui Proudhon), mentre invece con «comunismo» si intendeva il «movimento» reale, le agitazioni e le lotte concrete degli operai[4]. In secondo luogo, per ragioni filosofiche e teoriche: la loro idea di comunismo era stata già da loro elaborata nelle sue linee fondamentali dal 1844 al 1847 in diversi scritti di critica e confutazione del socialismo utopistico e del riformismo borghese. Il loro comunismo, lungi dall’essere «un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi», coincideva col «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»[5].
Questi
mesi di distanziamento sociale hanno
reso evidenti e aggravato molte delle contraddizioni
relative alle grandi corporation del web e all’uso e agli
effetti delle tecnologie digitali
nelle nostre esistenze quotidiane, su cui voi avete
scritto in maniera molto lucida negli ultimi anni. Un
primo tema su cui vi chiediamo un commento
riguarda il ruolo politico, economico, sociale, che hanno
giocato e stanno giocando corporation come Amazon, Google,
Microsoft, Facebook, Apple, nel
periodo del distanziamento sociale e nella gestione
sanitaria e sociale della pandemia.
Mentre scriviamo i quotidiani ci dicono che circa 500mila persone hanno scaricato la app Immuni. Interessante notare che a distribuire questa app non sia un sito del Governo che ha finanziato l’operazione, ma gli store di Apple e Google, che sono società private con un fatturato che supera il Pil di molti stati nazione e che hanno delle regole interne spesso in conflitto con quelle delle democrazie occidentali presso le quali nella maggior parte dei casi non pagano le tasse.
Apple e Google, due Big tech, collaborano per la prima volta imponendo delle scelte di decentralizzazione privata sulla distribuzione di un software di Stato dedicato alla salute pubblica. Cosa diranno di ciò i fedayn della decentralizzazione? Per noi questa è la dimostrazione che la decentralizzazione di per sé non è un valore, cioè non è una garanzia di orizzontalità democratica e si sposa benissimo con il liberismo senza regole delle corporation tecnologiche.
Massimo Zucchetti è un
ingegnere nucleare italiano che ha al suo attivo una
impressionante quantità di pubblicazioni specialistiche,
ma anche militanti. Infatti, quando firma i suoi articoli
che coniugano la precisione
dei dati con una visione radicale e controcorrente
rispetto alla subalternità culturale che di solito abita
il mondo accademico italiano, si
definisce “scienziato, comunista, disordinatore delle
narrazioni tossiche del potere”.
* * * *
Che significa, Massimo, questa definizione? Qual è stato il tuo percorso professionale e come si è intrecciato con l’impegno politico?
Mi sono laureato in ingegneria nucleare magna cum laude nel 1986, ma, un mese dopo: ecco il disastro di Chernobyl! Un decennio prima, al liceo, divenni anarchico leggendo “In his own write” di John Lennon: niente Bakunin o Kropotkin, niente laurea in scienze politiche su Marcuse, purtroppo non tutti hanno nobili origini come i Grandi Padri Fondatori della Sinistra Intellettuale. L’abitudine alle discipline tecniche mi ha lasciato il colpo d’occhio e l’intuizione per capire quando dietro una bella narrazione si nasconda il nulla montato a neve, come d’uso nella sinistra, oppure si celino depositi ideali di liquami tossici e fecali, come di norma nel centro-destra-sinistra di governo. Questa specie di talento è un dono di natura e, sebbene io sia ateo, ritengo sarebbe un peccato non metterlo a frutto, un po’ come nella parabola dei talenti, appunto. Da qui discende il mio impegno come anarco-comunista, scienziato contro la guerra, ambientalista. Sono un professore universitario da ormai un trentennio, ma non sono democristiano.
Tu insegni anche in una prestigiosa università statunitense. Come valuti le due esperienze, come funziona negli USA?
Mentre la carica virale sembra progressivamente scemare – prova il verticale crollo dei contagi fuori da ogni ragionevole dubbio – quella padronale sembra seguire una traiettoria inversamente proporzionale. Anche se a pagarne le conseguenze rimangono sempre “i soliti”, la straordinarietà della crisi del Coronavirus è stata proprio nell’aver colpito trasversalmente, almeno in un primo momento, l’intera società. Accanendosi economicamente sui ceti popolari, aveva comunque aggredito politicamente chi in quel momento teneva le redini del gioco: padronato, nell’accezione più ampia del termine, in primo luogo. La tipica situazione in cui, aldilà di tutti i limiti soggettivi, il repentino mutamento delle condizione oggettive apre nuovi e inediti margini di movimento. Purtroppo, come sappiamo, questi margini non sono stati così ampi, almeno per la sinistra di classe. La sostanziale mancanza di reattività di questa stessa sinistra ha determinato infatti la momentanea assenza, non diciamo di conflitto, ma di resistenza attiva (aldilà di singole e importanti, ma non incisive, vertenze) ai tentativi di Governo e Confindustria di gestire la crisi a loro favore.
«È apparsa negli scorsi giorni la possibilità di utilizzare il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) per chi è restio ad accettare le cure anche se contagiato. Ne ha parlato il governatore veneto Luca Zaia, esasperato dall’aumento dell’indice di contagio in regione e dalla vicenda dell’imprenditore vicentino che si è ammalato ma ha rifiutato il ricovero, ma anche il governo che con il ministro della Salute Roberto Speranza avrebbe chiesto agli esperti giuridici del governo di studiare la possibilità di imporlo a chi ha sintomi da Covid ma sta in giro. L’obiettivo del governo è studiare un’eventuale norma più stringente per applicarlo ed estenderlo dalla psichiatria alla gestione dei casi di chi rifiuta le cure anche se contagiato dal Coronavirus. Pochi però hanno consapevolezza di cosa sia un TSO, come venga esercitato già oggi e quali conseguenze comporti per chi lo subisce. Questo strumento invasivo solitamente sconvolge le vite delle persone e può anche ucciderle» (Affaritaliani).
Franco Basaglia sosteneva che gli psicofarmaci servono a sedare, più che il malato, l’ansia dello psichiatra e della società.
Una delle parti principali del III Libro del Capitale è costituita dall’esposizione della legge della caduta tendenziale di profitto (l’intera terza sezione prende questo nome). Durante la spiegazione della legge, mentre sta parlando degli effetti sul saggio di profitto dell’aumento della composizione organica di capitale, Marx propone il seguente ragionamento
“Se si suppone inoltre che questo progressivo mutamento della composizione del capitale non si verifichi solo in alcune sfere isolate di produzione ma, in misura maggiore o minore, in tutte o almeno in quelle di maggiore importanza; se tale cambiamento modifica quindi la composizione media organica [1] del capitale complessivo appartenente ad una determinata società, questo progressivo aumento del capitale costante in rapporto a quello variabile deve portare per forza di cose a una progressiva diminuzione del saggio generale del profitto, restando immutato il saggio del plusvalore o il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale” [2] [3]
Il passaggio è tecnicamente ineccepibile nel senso che in effetti, se Splusvalore resta immutato, Sprofitto diminuisce con l’aumentare della composizione organica di capitale.
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La terza età, anziché momento naturale della vita e traguardo auspicabile per chiunque, dai governi viene perlopiù considerata una malattia costosa e contagiosa da combattere con terapie radicali. Ma anche insopportabile vizio di cui sbarazzarsi mortificandone in ogni modo i portatori.
A parte l’antica storia, dimenticata, della “saggezza” privilegio dell’età, si ignora volutamente l’enorme contributo, diciamo così, di assistenza-no-profit, soprattutto familiare, dato dagli anziani. Una nuova assunzione di responsabilità e una felice riscoperta della solidarietà. Un sostegno affettivo, operativo ed economico che può essere vitale. Un’attività di supplenza a coprire le enormi lacune nei servizi e nelle strutture sociali che la meticolosa distruzione del welfare da parte di una classe politica indecente mette in evidenza.
È un contributo concreto, importante, accertato, a parole anche riconosciuto, addirittura quantificabile in termini monetari, ma che non trova posto nei piani, nei progetti, nei programmi di alcun potere esecutivo.
Noi viviamo la cronaca, il fluire del tempo che è l’unità di misura del cambiamento alla misura dei giorni o delle settimane. Già i mesi fluiscono cancellando le memorie di quello che è successo appena poco prima, peggio per gli anni che finiscono in una nebulosa di fatti archiviati alla rinfusa. Ma se ci immaginiamo portati da una macchina del tempo ad un dopo tale che si possa guardare l’oggi come uno ieri passato e sedimentato, potremmo leggere quello che succede con occhio storico.
L’occhio storico ha bisogno di distanza per la messa a fuoco e la sua mente ha bisogno di esser fredda per leggere i fatti senza le turbolenze del giudizio troppo coinvolto. Si può fare allora un esercizio del tipo immaginativo, una simulazione ipotetica di come appariranno i fatti ed i cambiamenti del tempo in cui viviamo quando li potremo vedere ad una certa distanza e con mente un po’ meno calda. Noi o più probabilmente, quelli che verranno dopo di noi.
Il primo effetto che si otterrebbe è la prospettiva. Mesi ed anni verrebbero schiacciati nei decenni concatenati in processo.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Introduzione
A Parigi, nel 1978, in un contesto di revisione e autocritica riguardo alla direzione del movimento rivoluzionario dei lavoratori, si era compreso che i più grandi e tradizionali partiti europei - comunisti e socialdemocratici - erano diventati veri e propri ostacoli allo sviluppo delle lotte dei lavoratori. Queste organizzazioni saranno il principale obiettivo della critica dei nuovi militanti che, nel post ‘68, hanno denunciato l'abbandono delle tattiche insurrezionali e l'inflessibilità di fronte a nuove lotte contro oppressioni diverse, in particolare quelle di genere, razza e orientamento sessuale.
È in questo scenario che Antonio Negri, allora militante e teorico dell'Autonomia Operaia italiana, fu invitato da Louis Althusser a svolgere una serie di conferenze sui Grundrisse di Marx (1857-58), testo che era stato reso pubblico solo negli anni '40, ma che presto fu rivendicato, sotto diversi aspetti, dai comunisti che si opponevano alle concezioni e alle tattiche dei partiti e dei dirigenti sindacali stalinisti e socialdemocratici. La cosiddetta sinistra "extraparlamentare" italiana, di cui l'Autonomia era uno degli attori principali, proveniva da un ciclo di lotte di circa 20 anni, guidato proprio da successive rotture con il PCI e il PSI. Per coloro che ancora si vedevano come militanti comunisti rivoluzionari, queste rotture cercano di affermarsi, a livello teorico, come una revisione dei postulati che supportano la lettura ufficiale del marxismo e come incorporazione di nuove teorie per spiegare quale sarebbe la nuova composizione della classe operaia.
1. Sulla
fobia del potere
Rivolgendo uno sguardo ricognitivo al lessico della filosofia dopo la fine del socialismo reale, dopo la caduta del muro di Berlino, ma - in realtà - già a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, non si può fare a meno di notare come le parole d’ordine della vecchia filosofia (rivoluzione, partito, contraddizione, lotta di classe ecc.) siano state lentamente sostituite da un lessico ad esse complementare, ma talvolta con esse incompatibile. Una certa insofferenza per il fantasma di Stalin, nonché un certo imbarazzo per l’adesione di tanta intellighenzia mitteleuropea al progetto comunista, hanno fatto sì che lo scibbolet, la parola d’ordine, del pensiero filosofico-politico post-Unione Sovietica diventasse - e lo è tuttora - quella del ritiro.
Se il progetto emancipatorio della rivoluzione si trasforma in totalitarismo, l’unica prescrizione che vale è quella di ritirarsi dall’ordine dato, rifuggire qualsiasi mira di potere, ripulirsi del fascismo che ciascuno di noi ha dentro di sé, non credere più ad alcuna guida partitica. Si tratta di una tendenza post-marxista che, agitando lo spauracchio di Stalin, ha prodotto vari elogi del ritiro, immanentismi pigri, apologie dell’inoperosità ecc.
Le «rivelazioni sul gulag», nota Jameson, hanno innescato «un’ossessione distopica, una paura quasi paranoica, di qualsiasi forma di organizzazione politica o sociale» (Jameson 2016:2), fobie che di volta in volta prendono di mira la forma-partito o la semplice speculazione su progetti che riguardano la società del futuro.
L’aspetto più controverso del dibattito sul MES, l’istituzione europea che offre prestiti agli Stati in difficoltà, è il tema della condizionalità. Ogni giorno politici, giornalisti e professori provano a convincerci che non vi sarebbe alcuna condizionalità, mentre abbiamo avuto modo di mostrare come il meccanismo del MES sia interamente subordinato all’applicazione delle rigide politiche di austerità che hanno messo in ginocchio l’intera periferia europea. Accettando quei soldi, un Paese si condanna ad una nuova stagione di politiche lacrime e sangue, tagli alla spesa ed aumenti delle tasse che ricadono interamente sulle spalle di lavoratori, precari e disoccupati.
Per provare ad eludere questo tema evidentemente problematico, gli epigoni dell’europeismo di casa nostra sono soliti ricorrere ad un espediente argomentativo basato sostanzialmente su una menzogna: grazie al MES, pioverebbero sull’Italia soldi aggiuntivi, risorse in più con le quali finanziare ulteriori spese rispetto a quelle che ci possiamo permettere allo stato attuale.
Karl Marx, Manoscritti matematici, a cura di Agusto Ponzio, Milano, Pgreco, 2020
Al pensiero di star recensendo un libro di Carlo Marx non riesco a trattenere un sorriso. Come presentarlo? «Filosofo dalle solide radici hegeliane, autore di opere controverse, non si è affermato in accademia perché coinvolto in attività politiche sovversive»? «Talento poliedrico, che spazia dalla filosofia critica alla scienza politica, dalla sociologia all’economia»? Forse non sarebbe neppure il caso di presentare l’autore della filosofia politica più duratura della storia delle idee, non fosse che, non più tardi di quest’anno, un mio studente mi ha scritto ‘Marcs’ in una tesina…
L’edizione italiana
Certamente Marx è più noto come inventore del socialismo scientifico che per i propri contributi alla filosofia matematica. I manoscritti matematici sono stati pubblicati in Russia solo nel 1968, a cura di Sonia Janovskaja, ma erano già noti almeno a partire dagli anni ‘20.
Migliaia di attività commerciali in tutto il Paese attendono risposte dallo Stato, milioni di cittadini si stanno chiedendo ciò che sarà, molto oltre la Fase 2: come ci potrà essere normalità senza un’economia che riprende davvero a vivere?
Questi i temi al centro di “Trovare i soldi per ripartire”, diretta video organizzata dall’associazione Sottosopra in collaborazione con il Centro Studi Economici per il Pieno Impiego, la rivista La Fionda e le associazioni MeMMT Lombardia, Network per il Socialismo e Nuova Direzione.
Docenti universitari, editorialisti, economisti e parlamentari (Pino Cabras, Marco Cattaneo, Andrea de Bertoldi, Stefano Fassina, Musso, Alessandro Somma) hanno dibattuto su scenari futuribili e possibilità immediate da attuare.
Quale conseguenza avrà la decisione della Corte Costituzionale della Repubblica Federale di Germania con cui i giudici tedeschi definiscono “tirannica” (“ultra vires”) l’azione della Banca Centrale Europea (BCE) e impongono a quest’ultima severe limitazioni sui programmi di acquisto di titoli pubblici?
È la mezzanotte in una notte di spettri. No, non ci riferiamo a uno dei racconti del terrore di Edgar Allan Poe. Ci riferiamo a un pensiero e quindi a dei corpi, a un soggetto collettivo e quindi a dei rapporti sociali: parliamo, insomma, della sinistra, di questa categoria politica tanto citata quanto evanescente. Appena la nomini, il significato sfugge. La mezzanotte in una notte di spettri.
Perché la notte? Perché il presente è tinto di un’atmosfera notturna, in cui “tutte le vacche sono nere”. È diventato impossibile distinguere le soggettività politiche in campo, anzi, nessuna soggettività, perché tutto appare irriducibile ad un’oggettività auto-moventesi, in cui non c’è spazio per una reale trasformazione dello stato di cose presenti. Perché spettri? Perché la nostra è una realtà spettrale, il capitalismo è una visione del mondo in cui i morti (le merci, il lavoro morto) fagocitano i vivi (le persone, il lavoro vivo). Davanti a tutto ciò, la sinistra ha finito per riesumare in maniera losca la sua etimologia. Sinisteritas in latino indica qualcosa di goffo e inetto, dunque inservibile.
Con un articolo in calce di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza
La
settimana che si apre dovrebbe essere quella decisiva per
quanto riguarda la strategia
europea per il post-pandemia (ammesso e non concesso che ci si
trovi in un “post” anziché in una pausa stagionale). Gli
iniziali
atteggiamenti ritardatari dei “paesi frugali” (“l’importante
è fare bene”) sono stati improvvisamente
accantonati su indicazione della cancelliera Angela Merkel,
per sei mesi presidente di turno di tutta l’Unione Europea,
che intende sfruttare
anche questa occasione – e la crisi ne sta offrendo a decine –
per imporre l’imprinting sull’Unione 2.0.
Cuore della discussione continentale è il Recovery Fund, ossia il fondo straordinario “per la ricostruzione” da aggiungere al normale bilancio europeo. 500 miliardi, come nella proposta iniziale di Merkel e Macron, e non 750 come poi proposto dalla Commissione guidata da Von der Leyen. Tanto per far capire chi è che comanda (nonostante anche la presidente della Commissione sia tedesca, ma con una composizione ovviamente più “pluralista”).
500 miliardi di “trasferimenti a fondo perduto”, vincolati a investimenti per effettuare precise “riforme strutturali” che l’Unione Europea pretende da ogni Paese non le abbia ancora compiute o completate. I dettagli non sono ancora stati resi noti, ci si è limitati ad evocare “svolte green”, rivoluzioni digitali, ecc. Ma sono pià che intuibili…
Per esempio, l’incontro tra Giuseppe Conte e il suo omologo olandese Mark Rutte ha provveduto a sgomberare il campo da ogni equivoco, visto che il boero ha consigliato all’”avvocato del popolo” di eliminare “quota 100”. Una battuta informale, certo – “quota 100” vale pochissimo, in termini di bilancio, e comunque doveva scadere nel 2021 – ma che indica con nettezza la direzione da prendere: i Paesi con alto debito pubblico, quelli euromediterranei, insomma, devono tagliare ancora di più la spesa sociale, a cominciare da quella pensionistica.
Lo scorso 20 giugno Michele Salvati, voce
storica del PD e della
sinistra riformista, scriveva sul Corriere della Sera:
«Gli storici hanno da tempo messo in rilievo l’antica
dannazione italica
dei partiti “antisistema”, partiti che non potevano far parte
delle coalizioni di governo anche se erano rappresentati in
Parlamento. Non
potevano farlo perché il loro programma politico contrastava
con i principi in base ai quali una democrazia liberale e\o
un’economia di
mercato si erano di fatto assestate nel nostro Paese. (…)
Finito questo conflitto per il collasso dell’Unione sovietica,
ci si poteva
attendere che fossero esaurite anche in Italia le ragioni per
escludere come “antisistema” partiti che accettassero i
criteri di una
democrazia liberale, di un’economia capitalistica e fossero
legittimamente rappresentati in Parlamento. E di fatto si
instaurò per alcuni
anni, tra il 1994 e il 2018, una alternanza destra\sinistra
che includeva tutti (…). Poi, con le elezioni del 2013 e del
2018, arrivarono in
Parlamento partiti populisti-sovranisti (…). Che si collochino
a destra o a sinistra, la concezione di democrazia da essi
condivisa è in
conflitto con quella liberale, parlamentare e
rappresentativa».
Un tono candido e lineare, un’argomentazione che non sembra fare una piega. Se non fosse per un solo dettaglio: il misterioso ritorno di questo spettro, i “dannati” partiti “antisistema”, che vengono periodicamente a turbare l’innocente rotta della democrazia liberale sugli intrascendibili, universali orizzonti del sistema vigente. Si tratta di una narrazione rassicurante quanto falsa e cieca, che dopo aver sedotto per circa trent’anni i cuori e le menti di quella sinistra “illuminata”, “moderata”, che esce dalle rovine di Pci, Psi e Dc – passando per i vari D’Alema, Amato e Prodi – risulta ormai indigeribile per le nostre coscienze disincantate, che in un contesto economico-politico sempre più insensato, soffocante e indistricabile, anelano disperatamente (spesso senza saperlo) ad una alternativa di mondo e di società.
Le origini della civiltà. Una controstoria è la traduzione poco efficace del titolo del recente libro di James C. Scott, Against the grain. A deep history of the earliest states. Mi spiegano che “against the grain”, oltre a significare letteralmente “contro il grano”, significa metaforicamente “controcorrente”; in inglese il gioco di parole è molto efficace, perché il libro, criticando il grano (e i cereali in genere) come coltura e cibo tipici delle prime formazioni statali, attacca l’idea di Stato in generale e va controcorrente rispetto alla tradizionale ricezione dell’origine della formazione statale in Mesopotamia. È un libro molto istruttivo per vari aspetti e mostra come l’ideologia più conservatrice americana vada a braccetto con varie forme di anarchismo, essendo queste posizioni alla fine accomunate dall’idea che il problema sia lo Stato oppressore dell’individuo. Ma procediamo con ordine.
Le novità archeologiche e documentarie sulla civiltà mesopotamica degli ultimi 20-30 anni hanno scosso le fondamenta di quello che la maggioranza di noi ha studiato a scuola: vita associata stanziale senza agricoltura in genere, stanzialità millenaria senza agricoltura programmata, insediamento in una Mesopotamia lussureggiante e nient’affatto arida, nascita dello Stato a valle di processi che già prevedevano agricoltura organizzata, irrigazione, ecc. ecc.
L’indiscrezione delle ultime ore, poi confermata dal ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli, della concessione del nuovo viadotto sul fiume Polcevera ad Autostrade per l’Italia ha sicuramente riportato la questione della gestione delle autostrade italiane al centro del dibattito politico. Dopo il crollo del Ponte Morandi sull’A10 nell’estate del 2018, a partire dall’allora governo giallo-verde la politica si era sollevata contro la società dei Benetton che aveva in gestione il tratto interessato.
Fin da subito sia la Lega che il Pd si erano mobilitati con grandi proclami per togliere dalle mani di Aspi (Autostrade per l’Italia S.p.a) la gestione scellerata, diventata ormai evidente a tutto il Paese, di parte delle infrastrutture pubbliche; ma i più agguerriti in campo politico si erano dimostrati i 5stelle che per circa due anni hanno ripetuto di voler togliere in modo assoluto e definitivo la concessione al gestore. Oggi, dopo due anni passati al governo, l’indiscrezione de La Stampa e la successiva conferma della De Micheli, testimoniano come ancora una volta i grillini si siano stracciati le vesti da paladini del bene pubblico per poi rimangiarsi le promesse.
L’Istat fotografa l’accentuazione delle divisioni di classe nella società italiana, in seguito alla pandemia.
Eppure, siamo solo all’inizio. E questo per le seguenti ragioni:
a) a solo un mese dalla riapertura, non è possibile sapere quante attività imprenditoriali e quanti esercizi commerciali chiuderanno;
b) gli interventi cosmetici del governo, come quelli che hanno interessato noi Partite Iva, da agosto cesseranno;
c) secondo un sondaggio del Sole24Ore, un terzo di coloro che avevano risparmi e che vi hanno attinto per sopravvivere in questi mesi, si ritroveranno col conto corrente prosciugato.
Ma non ci sarà alcuna reazione popolare perché – a dispetto dei negazionisti della politica (prevalentemente di sinistra) che sostengono una lettura della presente fase in chiave esclusivamente tecnico-sanitaria – questi mesi hanno visto un immenso lavoro di irreggimentazione ideologica dell’opinione pubblica da parte di media mainstream, istituzioni nazionali e soggetti sovranazionali.
Il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione dal titolo “Situazione umanitaria in Venezuela e crisi migratoria e dei rifugiati”. Un documento in 19 punti in cui si articola il piano di ingerenza contro la Repubblica bolivariana. Una nuova aggressione che smentisce i propositi espressi dal comunicato congiunto tra il capo della diplomazia europea Joseph Borrell e il ministro degli Esteri venezuelano Jorge Arreaza che sembrava aprire la strada a un atteggiamento diverso da parte della UE.
La pressione delle lobby che agiscono all’interno dell’organismo ha però evidentemente preso il sopravvento. La risoluzione riprende quelle già approvate in precedenza in linea con le decisioni del Pentagono e con le richieste dell’estrema destra venezuelana, ben rappresentata dal padre del leader di Voluntad Popular, Leopoldo Lopez, l’eurodeputato Leopoldo Lopez Gil.
La UE ha cominciato a emettere “sanzioni” al Venezuela nel 2017. In quel solco continua ora a definire “illegali” le istituzioni bolivariane e insiste nell’emettere misure coercitive unilaterali anche contro i parlamentari dell’opposizione moderata che hanno accettato il dialogo con il governo Maduro e le elezioni parlamentari del prossimo 6 dicembre. Dopo gli 11 funzionari colpiti, ora si propone di ampliare la lista.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Ormai, di fronte al
fallimento sempre più conclamato dell’UE e della moneta unica
e all’insofferenza
sempre più diffusa nei confronti di quella che viene
(giustamente) percepita come una camicia di forza che da
troppo tempo sta soffocando
l’economia italiana, l’unica argomentazione rimasta ai
difensori dello status quo sembrerebbe essere quella per cui
«le cose vanno
male, è vero» – ormai neanche loro hanno più il coraggio di
negarlo – «ma fidatevi, senza l’euro
andrebbero anche peggio».
Un esempio da manuale di questa strategia sempre più disperata è un articoletto uscito l’altro giorno sul Sole 24 Ore a firma di Innocenzo Cipolletta, economista e dirigente d’azienda italiano, ex presidente delle Ferrovie dello Stato (2006-2010). Già dal titolo si intuisce che l’obiettivo dell’autore è uno solo, inculcare il terrore in chi legge: “COVID+lira = molta inflazione (e zero crescita)”. L’argomentazione di Cipolletta è semplice quanto prevedibile: se avessimo dovuto affrontare questa pandemia fuori dall’euro, cioè con la vecchia/nuova lira, «avremmo dovuto aumentare il nostro disavanzo pubblico per sostenere l’economia, come tutti gli altri paesi». A tal fine, continua Cipolletta, «la Banca d’Italia sarebbe stata indotta a comprare il debito italiano, ciò che avrebbe probabilmente tenuto bassi i tassi di interesse per un po’ di tempo, ma la lira si sarebbe immediatamente svalutata come sempre è avvenuto in passato». A quel punto «l’aumento dell’inflazione interna sarebbe stato automatico, visto che la svalutazione aumenta i costi di rimpiazzo delle nostre importazioni […]. Gli italiani avrebbero così perso, assieme al lavoro falcidiato dalla pandemia, anche potere d’acquisto e sarebbero stati più poveri». Insomma, conclude Cipolletta, «molto (ma molto) meglio abbiamo fatto noi ad aderire all’euro» e ad evitare così questo scenario da incubo.
Nancy Fraser: Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo, Castelvecchi. 2020
Non sembra esserci tempo più
propizio di quello che stiamo vivendo in questo passaggio
storico eccezionale, per
tornare a riflettere – con serietà, realismo e alla luce di
prospettive teoriche e politiche rinnovate – sul tema che dà
il
titolo all’intervento di Nancy Fraser: che cosa può
significare socialismo nel XXI secolo.
Più volte è stato osservato in questi ultimi mesi: come tutte le emergenze che interrompono bruscamente lo svolgimento delle nostre routine sociali, economiche e politiche, la pandemia da Covid-19, investendo inesorabilmente per ondate successive i quattro angoli del pianeta, ha avuto il potente effetto rivelatorio di riportare alla luce, senza più diaframmi, le soglie critiche su cui è sospesa la nostra contemporaneità globalizzata. Soglie critiche di varia natura – sanitaria, ecologica, economica, democratica, sociale, razziale, etc. – eppure tra loro strettamente intrecciate, poichè tutte in qualche modo riconducibili al modello di capitalismo finanziarizzato e deregolamentato che si è imposto su scala globale negli ultimi decenni. Crisi che, tuttavia, la normalità sospesa nei mesi di emergenza epidemica tendeva a rimuovere dal centro dell’agenda politica, mentre ora, dopo e dentro questa emergenza, si ha l’impressione che quel rimosso ripresenti il conto e non possa essere più facilmente relegato sullo sfondo.
L’approccio di Fraser alla questione del socialismo si presenta come una pista di riflessione particolarmente idonea ad aiutarci a leggere “contropelo” questo passaggio storico e ad offrirci strumenti di orientamento politico. E questo per due ragioni fondamentali.
La prima di queste ragioni è che la sua riflessione su una rinnovata idea di socialismo democratico ruota fin dall’inizio attorno al tema della crisi.
Che cos’è la paura, nella quale oggi gli uomini
sembrano a tal punto
caduti, da dimenticare le proprie convinzioni etiche,
politiche e religiose? Qualcosa di familiare, certo – eppure,
se cerchiamo di definirla,
sembra ostinatamente sottrarsi alla comprensione.
Della paura come tonalità emotiva, Heidegger ha dato una trattazione esemplare nel par. 30 di Essere e tempo. Essa può esser compresa solo se non si dimentica che l’Esserci (questo è il termine che designa la struttura esistenziale dell’uomo) è sempre già disposto in una tonalità emotiva, che costituisce la sua originaria apertura al mondo. Proprio perché nella situazione emotiva è in questione la scoperta originaria del mondo, la coscienza è sempre già anticipata da essa e non può pertanto disporne né credere di poterla padroneggiare a suo piacimento. La tonalità emotiva non va infatti in alcun modo confusa con uno stato psicologico, ma ha il significato ontologico di un’apertura che ha sempre già dischiuso l’uomo nel suo essere al mondo e a partire dalla quale soltanto sono possibili esperienze, affezioni e conoscenze. «La riflessione può incontrare esperienze solo perché la tonalità emotiva ha già aperto l’Esserci». Essa ci assale, ma «non viene né dal di fuori né dal di dentro: sorge nell’essere-al-mondo stesso come una sua modalità». D’altra parte questa apertura non implica che ciò a cui essa apre sia riconosciuto come tale. Al contrario, essa manifesta soltanto una nuda fatticità: «il puro “che c’è” si manifesta; il da dove e il dove restano nascosti». Per questo Heidegger può dire che la situazione emotiva apre l’Esserci nel «essere-gettato» e «consegnato» al suo stesso «ci». L’apertura che ha luogo nella tonalità emotiva ha, cioè, la forma di un essere rimesso a qualcosa che non può essere assunto e da cui si cerca – senza riuscirci – di evadere.
Da Marx al post-operaismo, Giovanni Sgro’ e Irene Viparelli (a cura di), Napoli, La Città del Sole, 2019
1. Tanti i
temi e tanti gli autori marxisti e non solo affrontati in
questo piccolo ma
densissimo libro. E tuttavia mi pare che alcuni temi li
leghino tra loro in profondità. Uno tra questi, forse il più
importante, e non
caso vi si rimanda esplicitamente nel sottotitolo, è quello
della soggettività, delle sue figure e forme insieme sociali e
politiche,
teoriche e insieme pratiche. Un tema che ha attraversato
l’intera storia del movimento operaio e del marxismo e che ha
acquistato in questi
ultimi decenni, quelli per l’appunto successivi alla fine
dell’Urss e alla tragica sconfitta del movimento operaio che
l’ha insieme
preceduta e accompagnata, una straordinaria attualità nel
dibattito teorico e politico.
2. I saggi del volume affrontano il tema della soggettività a partire da Marx, e soprattutto dal Marx in cui la nozione di soggetto e di soggettività è ancora esplicita e evidentemente centrale, il Marx giovane dei Manoscritti del ’44 e quello meno giovane della Ideologia tedesca, ma già approdato al materialismo storico, ebbene ancora nettamente al di qua della critica dell’economia politica e della teoria del modo di produzione capitalistico cui il pensatore di Treviri approderà compiutamente nei Grundrisse e poi nel Capitale.
3. Particolarmente nel saggio sui Manoscritti parigini di Luca Mandara, mi pare interessante il tentativo di una lettura insieme politica e materialistica del tema della soggettività che percorre tutta l’analisi marxiana del lavoro alienato e il suo sforzo di definire il carattere insieme attivo e passivo, ovvero al contempo soggettivo e oggettivo del lavoro, al di là della impostazione ancora troppo astrattamente e genericamente “umanistica” che caratterizza questa fase del pensiero di Marx, ovvero come dice bene Mandara la sua “ontologia umanista”: in tal senso egli individua nella storicizzazione del bisogno innescata dalla trasformazione o umanizzazione della natura attraverso il lavoro una delle premesse fondamentali della critica dell’economia politica del Marx maturo e anche della stessa teoria politica che egli comincerà ad elaborare dopo l’esperienza delle rivoluzioni del ’48.
Vi passo
qui di seguito un
testo scritto da un gruppo di ricercatrici italiane
che è veramente una boccata di ossigeno nello tsunami di
fesserie e di bugie che ci sta
sommergendo. Non un testo facile, non un testo annacquato.
Un esame approfondito della letteratura scientifica. Non è
un testo di opinioni,
è un testo di dati e di fatti. E che arriva alla conclusione
che il rischio di un ritorno a scuola per i nostri bambini è
minimo o
inesistente, e che -- soprattutto -- è trascurabile rispetto
ai danni psicologici che i bambini ricevono standosene
isolati a casa.
La cosa più bella è il successo che questo testo ha avuto. Pubblicato sul sito Facebook "Pillole di Ottimismo" è stato condiviso oltre 2500 volte in 24 ore. E' un risultato eccellente considerato il marasma che è Facebook al momento attuale. Dei circa 500 commenti, praticamente tutti sono favorevoli, molti ringraziano per la spiegazione. Soprattutto, sono genitori e mamme preoccupate per i loro bambini costretti in una situazione innaturale di isolamento e segregazione.
Come sappiamo, l'informazione pubblica in Italia è dominata da sorgenti di informazione completamente inaffidabili e di solito impegnate nel raccontarci bugie. Ma quest storia ci fa vedere come c'è ancora spazio per raccontare le cose come stanno. C'è ancora gente in grado di recepire un messaggio anche complesso quando capiscono che gli autori (le autrici, in questo caso) hanno lavorato seriamente per fare un servizio di informazione pubblica. (UB)
* * * *
“I bambini non sono i più colpiti da questa pandemia, ma rischiano di essere le sue più grandi vittime”. Così apre il report delle nazioni unite dedicato all’impatto del Covid-19 sui bambini (1).
Introduzione
A Parigi, nel 1978, in un contesto di revisione e autocritica riguardo alla direzione del movimento rivoluzionario dei lavoratori, si era compreso che i più grandi e tradizionali partiti europei - comunisti e socialdemocratici - erano diventati veri e propri ostacoli allo sviluppo delle lotte dei lavoratori. Queste organizzazioni saranno il principale obiettivo della critica dei nuovi militanti che, nel post ‘68, hanno denunciato l'abbandono delle tattiche insurrezionali e l'inflessibilità di fronte a nuove lotte contro oppressioni diverse, in particolare quelle di genere, razza e orientamento sessuale.
È in questo scenario che Antonio Negri, allora militante e teorico dell'Autonomia Operaia italiana, fu invitato da Louis Althusser a svolgere una serie di conferenze sui Grundrisse di Marx (1857-58), testo che era stato reso pubblico solo negli anni '40, ma che presto fu rivendicato, sotto diversi aspetti, dai comunisti che si opponevano alle concezioni e alle tattiche dei partiti e dei dirigenti sindacali stalinisti e socialdemocratici. La cosiddetta sinistra "extraparlamentare" italiana, di cui l'Autonomia era uno degli attori principali, proveniva da un ciclo di lotte di circa 20 anni, guidato proprio da successive rotture con il PCI e il PSI. Per coloro che ancora si vedevano come militanti comunisti rivoluzionari, queste rotture cercano di affermarsi, a livello teorico, come una revisione dei postulati che supportano la lettura ufficiale del marxismo e come incorporazione di nuove teorie per spiegare quale sarebbe la nuova composizione della classe operaia.
1. Sulla
fobia del potere
Rivolgendo uno sguardo ricognitivo al lessico della filosofia dopo la fine del socialismo reale, dopo la caduta del muro di Berlino, ma - in realtà - già a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, non si può fare a meno di notare come le parole d’ordine della vecchia filosofia (rivoluzione, partito, contraddizione, lotta di classe ecc.) siano state lentamente sostituite da un lessico ad esse complementare, ma talvolta con esse incompatibile. Una certa insofferenza per il fantasma di Stalin, nonché un certo imbarazzo per l’adesione di tanta intellighenzia mitteleuropea al progetto comunista, hanno fatto sì che lo scibbolet, la parola d’ordine, del pensiero filosofico-politico post-Unione Sovietica diventasse - e lo è tuttora - quella del ritiro.
Se il progetto emancipatorio della rivoluzione si trasforma in totalitarismo, l’unica prescrizione che vale è quella di ritirarsi dall’ordine dato, rifuggire qualsiasi mira di potere, ripulirsi del fascismo che ciascuno di noi ha dentro di sé, non credere più ad alcuna guida partitica. Si tratta di una tendenza post-marxista che, agitando lo spauracchio di Stalin, ha prodotto vari elogi del ritiro, immanentismi pigri, apologie dell’inoperosità ecc.
Le «rivelazioni sul gulag», nota Jameson, hanno innescato «un’ossessione distopica, una paura quasi paranoica, di qualsiasi forma di organizzazione politica o sociale» (Jameson 2016:2), fobie che di volta in volta prendono di mira la forma-partito o la semplice speculazione su progetti che riguardano la società del futuro.
Con un articolo in calce di Guido Salerno Aletta da Milano Finanza
La
settimana che si apre dovrebbe essere quella decisiva per
quanto riguarda la strategia
europea per il post-pandemia (ammesso e non concesso che ci si
trovi in un “post” anziché in una pausa stagionale). Gli
iniziali
atteggiamenti ritardatari dei “paesi frugali” (“l’importante
è fare bene”) sono stati improvvisamente
accantonati su indicazione della cancelliera Angela Merkel,
per sei mesi presidente di turno di tutta l’Unione Europea,
che intende sfruttare
anche questa occasione – e la crisi ne sta offrendo a decine –
per imporre l’imprinting sull’Unione 2.0.
Cuore della discussione continentale è il Recovery Fund, ossia il fondo straordinario “per la ricostruzione” da aggiungere al normale bilancio europeo. 500 miliardi, come nella proposta iniziale di Merkel e Macron, e non 750 come poi proposto dalla Commissione guidata da Von der Leyen. Tanto per far capire chi è che comanda (nonostante anche la presidente della Commissione sia tedesca, ma con una composizione ovviamente più “pluralista”).
500 miliardi di “trasferimenti a fondo perduto”, vincolati a investimenti per effettuare precise “riforme strutturali” che l’Unione Europea pretende da ogni Paese non le abbia ancora compiute o completate. I dettagli non sono ancora stati resi noti, ci si è limitati ad evocare “svolte green”, rivoluzioni digitali, ecc. Ma sono pià che intuibili…
Per esempio, l’incontro tra Giuseppe Conte e il suo omologo olandese Mark Rutte ha provveduto a sgomberare il campo da ogni equivoco, visto che il boero ha consigliato all’”avvocato del popolo” di eliminare “quota 100”. Una battuta informale, certo – “quota 100” vale pochissimo, in termini di bilancio, e comunque doveva scadere nel 2021 – ma che indica con nettezza la direzione da prendere: i Paesi con alto debito pubblico, quelli euromediterranei, insomma, devono tagliare ancora di più la spesa sociale, a cominciare da quella pensionistica.
Lo scorso 20 giugno Michele Salvati, voce
storica del PD e della
sinistra riformista, scriveva sul Corriere della Sera:
«Gli storici hanno da tempo messo in rilievo l’antica
dannazione italica
dei partiti “antisistema”, partiti che non potevano far parte
delle coalizioni di governo anche se erano rappresentati in
Parlamento. Non
potevano farlo perché il loro programma politico contrastava
con i principi in base ai quali una democrazia liberale e\o
un’economia di
mercato si erano di fatto assestate nel nostro Paese. (…)
Finito questo conflitto per il collasso dell’Unione sovietica,
ci si poteva
attendere che fossero esaurite anche in Italia le ragioni per
escludere come “antisistema” partiti che accettassero i
criteri di una
democrazia liberale, di un’economia capitalistica e fossero
legittimamente rappresentati in Parlamento. E di fatto si
instaurò per alcuni
anni, tra il 1994 e il 2018, una alternanza destra\sinistra
che includeva tutti (…). Poi, con le elezioni del 2013 e del
2018, arrivarono in
Parlamento partiti populisti-sovranisti (…). Che si collochino
a destra o a sinistra, la concezione di democrazia da essi
condivisa è in
conflitto con quella liberale, parlamentare e
rappresentativa».
Un tono candido e lineare, un’argomentazione che non sembra fare una piega. Se non fosse per un solo dettaglio: il misterioso ritorno di questo spettro, i “dannati” partiti “antisistema”, che vengono periodicamente a turbare l’innocente rotta della democrazia liberale sugli intrascendibili, universali orizzonti del sistema vigente. Si tratta di una narrazione rassicurante quanto falsa e cieca, che dopo aver sedotto per circa trent’anni i cuori e le menti di quella sinistra “illuminata”, “moderata”, che esce dalle rovine di Pci, Psi e Dc – passando per i vari D’Alema, Amato e Prodi – risulta ormai indigeribile per le nostre coscienze disincantate, che in un contesto economico-politico sempre più insensato, soffocante e indistricabile, anelano disperatamente (spesso senza saperlo) ad una alternativa di mondo e di società.
Nell’Italia del XXI
secolo chiunque può diventare capo del governo, persino un
ignoto
avvocato di provincia, sia detto con rispetto, privo fino al
giorno prima di qualsiasi ombra di familiarità con politica,
affari di Stato e
relazioni internazionali. Egualmente, sia detto anche qui con
rispetto, chiunque può diventare ministro degli esteri, delle
finanze,
dell’economia e via dicendo.
Si tratta di un’evidenza, solo in apparenza sorprendente, che va posta in termini strutturali, non personali. Sui futuri libri di storia questi dirigenti saranno menzionati in un riquadro a fondo pagina, raccolti in un freddo elenco di nomi e anni di riferimento: è improbabile che di essi si parli per lo spessore delle gesta, la tensione etica o le lotte combattute a favore della popolazione, a dispetto del pur oscillante frasario elogiativo destinato a evaporare a ogni tramontar del sole.
Nei paesi a democrazia liberale – Stati Uniti ed Europa, in primis - la selezione del ceto dirigente non è fortuita. E quando talvolta i meccanismi selettivi sfuggono di mano (Trump...), la sottostante struttura statuale supplisce alle insufficienze del livello politico. Anche in paesi lontani dalle tradizioni istituzionali occidentali, i processi selettivi non sono lasciati al caso. In Cina, ad esempio, sapere e potere vanno da sempre a braccetto. Nella millenaria storia cinese, l’imperatore, suprema espressione del potere assoluto, poneva massima attenzione a circondarsi di persone selezionate: a partire dall’epoca Tang, in particolare, i mandarini (rappresentanti dell’autorità imperiale) erano tenuti a superare esami pubblici faticosi, forse non sempre trasparenti, eppure sufficienti a evitare che giungessero a responsabilità elevate anonimi figli del vento, originati dal caso, dalla corruzione o dal nepotismo.
Cos’è la scienza?
“La scienza non è democratica” è il nuovo mantra utilizzato come scudo per allontanare chiunque provi a manifestare un pensiero divergente da quello accreditato dalla vulgata dominante e per questo inconfutabile, non passibile a critiche di alcun tipo. Il monito è molto efficace, ed emana quell’autorevolezza che ci si aspetta dal rigore e dall’inaccessibilità della scienza, intesa come campo esclusivo di un élite di esperti, la cui competenza e preparazione implicano qualità tali da giustificare un certo distacco dal popolo, il demos appunto. Mai come in questo periodo di diffusione della paura collettiva legata al Covid-19 la scienza, o come meglio vedremo la sua degenerazione scientista, ha avocato a sé il ruolo di padre primigenio, che sorveglia i propri figli e impone loro la propria indiscussa autorità.
Ma cosa è la scienza?
Sciens, participio presente del verbo latino scire, sapere, essa comprende quel sistema di cognizioni acquisito con lo studio e la riflessione.
Ricostruire la genesi della scienza richiederebbe un trattato a sé, ed esula dall’obiettivo della nostra esposizione; peraltro esiste già una vasta e importante letteratura in merito da poter esaminare.
Già nella cultura classica i filosofi greci distinguevano due diverse forme di conoscenza, l’opinione (doxa), fondata sull’esperienza sensibile e perciò ingannevole e incerta, e la scienza (epistème), basata sulla ragione e dunque fonte di conoscenza sicura e incorruttibile.
Il “Manifesto” non è la sacra Bibbia, né il Catechismo dei comunisti, ma un’opera aperta, laica, profana, imperfetta, incompiuta, in fieri, con luci e ombre, intuizioni geniali e difetti innegabili. Un’opera che va letta e studiata senza estrapolarla dall’epoca in cui fu scritta e senza pregiudizi fideistici, al pari di ogni altro classico della politica
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Comunismo si dice in molti modi
«Il Manifesto del Partito comunista è uno dei più grandi scritti politici di tutti i tempi»[1]. Così un filosofo e stu
dioso liberale italiano ultracritico di Marx, allacciandosi a un giudizio analogo del giovane Max Weber, poi divenuto il grande sociologo, denominato l’Anti-Marx, o «il Marx della borghesia»: «il Manifesto è una realizzazione scientifica di prim’ordine. Questo è innegabile»[2].
Ma perché, chiediamoci in via preliminare, Marx ed Engels l’hanno intitolato Manifesto del Partito comunista, e non «socialista»? In primo luogo, per ragioni politiche contingenti: a) perché il compito di scriverlo gli era stato affidato nel dicembre del 1947 dal Congresso londinese della Lega dei Comunisti (ex-Lega dei Giusti)[3], in cui militavano da qualche tempo: b) perché – lo spiegò poi Engels nella Prefazione del 1890 al Manifesto – «socialisti» si definivano in quel tempo i seguaci di «vari sistemi utopistici» (Owen e Fourier), e molti «ciarlatani sociali» e riformatori borghesi (tra cui Proudhon), mentre invece con «comunismo» si intendeva il «movimento» reale, le agitazioni e le lotte concrete degli operai[4]. In secondo luogo, per ragioni filosofiche e teoriche: la loro idea di comunismo era stata già da loro elaborata nelle sue linee fondamentali dal 1844 al 1847 in diversi scritti di critica e confutazione del socialismo utopistico e del riformismo borghese. Il loro comunismo, lungi dall’essere «un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi», coincideva col «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»[5].
Questi
mesi di distanziamento sociale hanno
reso evidenti e aggravato molte delle contraddizioni
relative alle grandi corporation del web e all’uso e agli
effetti delle tecnologie digitali
nelle nostre esistenze quotidiane, su cui voi avete scritto
in maniera molto lucida negli ultimi anni. Un primo tema su
cui vi chiediamo un commento
riguarda il ruolo politico, economico, sociale, che hanno
giocato e stanno giocando corporation come Amazon, Google,
Microsoft, Facebook, Apple, nel
periodo del distanziamento sociale e nella gestione
sanitaria e sociale della pandemia.
Mentre scriviamo i quotidiani ci dicono che circa 500mila persone hanno scaricato la app Immuni. Interessante notare che a distribuire questa app non sia un sito del Governo che ha finanziato l’operazione, ma gli store di Apple e Google, che sono società private con un fatturato che supera il Pil di molti stati nazione e che hanno delle regole interne spesso in conflitto con quelle delle democrazie occidentali presso le quali nella maggior parte dei casi non pagano le tasse.
Apple e Google, due Big tech, collaborano per la prima volta imponendo delle scelte di decentralizzazione privata sulla distribuzione di un software di Stato dedicato alla salute pubblica. Cosa diranno di ciò i fedayn della decentralizzazione? Per noi questa è la dimostrazione che la decentralizzazione di per sé non è un valore, cioè non è una garanzia di orizzontalità democratica e si sposa benissimo con il liberismo senza regole delle corporation tecnologiche.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Alessandro Visalli: Circa “Una domanda” di Giorgio Agamben. Cronache del crollo
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Antonio Gramsci è pressoché
unanimemente considerato il più importante marxista italiano e
gli
“studi gramsciani” si sono sviluppati in modo vastissimo,
soprattutto a livello internazionale.
Gramsci è stato anche una vittima del fascismo, un uomo che ha pagato con 10 anni di carcere e con la morte la sua lotta contro la dittatura mussoliniana; è dunque comprensibile che gli siano stati tributati tanti meritati omaggi, soprattutto nel passato.
Il testo che ha dato maggior fama a Gramsci è senza dubbio la raccolta dei Quaderni del carcere pubblicati dalla casa editrice Einaudi dopo la fine della guerra. Ma come ha giustamente osservato Alberto Burgio per capire davvero quest’opera è necessario collocarla nel quadro dell’intera vita di Gramsci che comprende anche gli anni prima del carcere [1]. Senza tenere conto di questi anni di impegno politico la lettura dei Quaderni può condurre a numerosi fraintendimenti.
Negli anni precedenti al carcere Gramsci scrisse molti articoli e tra i tanti ce n’è uno che merita particolare attenzione, sia per la grande risonanza che ha avuto nel tempo, sia perché mostra come anche le migliori intenzioni possano dare origine a esiti problematici. Questo articolo si intitola La rivoluzione contro il Capitale ed è stato pubblicato sul quotidiano del Partito Socialista Italiano Avanti! il 24 novembre 1917 e sul settimanale di area socialista Il Grido del Popolo il 5 gennaio 1918.
Possiamo quindi già fissare un primo punto cronologico: mentre in Russia i bolscevichi stanno conquistando il potere politico in Italia i rivoluzionari stanno dibattendo nel PSI su cosa fare (come si sa, si dovrà attendere il 21 gennaio 1921 per avere la nascita del Partito Comunista d’Italia).
Il recente attacco della Corte Costituzionale
Tedesca alla BCE può far “cadere dal pero” solo
i più o meno consapevoli sostenitori della neutralità
della politica monetaria. Sarebbe precisamente
questa neutralità che le recenti misure (PEPP – Pandemic
Emergency Purchase
Programme) metterebbero, secondo l’accusa, fortemente a
rischio. Come recentemente osservato da Brancaccio, il
vero problema è che questa neutralità non esiste.
Tale neutralità è esclusivamente e rigorosamente difendibile se – e solo se – si è pronti ad accettare le fondamenta teoriche della macroeconomia neoclassica. Ovvero, la teoria marginalista del valore e della distribuzione.
Lo scopo di questa prima nota è quello di mettere a scrutinio le premesse teoriche necessarie per poter sostenere che esista una naturale tendenza a un equilibrio di piena occupazione. In una seconda nota, mostreremo come queste premesse siano necessarie anche per poter sostenere la stessa neutralità della politica monetaria. Come vedremo, in entrambi i casi, una condizione necessaria è la specificazione del capitale come un fattore di produzione omogeneo espresso in termini di valore. Ovvero, precisamente quella concezione del capitale che le controversie degli anni ’60 e ’70 hanno dimostrato essere teoricamente indifendibile.
Da Etica & Politica / Ethics & Politics, XXII, 2020, 2, pp. 611-621, ISSN: 1825-5167
I
Il lettore che si trovi in mano il libro di Giorgio Cesarale (=GC) A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989 (=AS), Laterza Bari-Roma 2019 ha più che mai, per le ragioni che dirò, il diritto di chiedersi: ma val la pena di leggere e anzi studiare un simile testo? La mia risposta a un tal quesito, cui sono giunto in realtà per gradi, è senz’altro positiva, quand’anche la lettura riuscisse contesta di riserve riguardo ad alcuni o molti degli autori interpretati o allo stesso interpretante, che, non al modo di un’estrinseca rassegna ma in forma piuttosto unitaria, presenta i suoi diversi «pensatori critici». La lettura del testo è infatti compensata, risarcita, da molte acquisizioni capaci di avvicinarci, in varie guise, a modi di pensare che si rivelano importanti e utili, se non indispensabili, al bagaglio di chi voglia oggi capire le punte «avanzate» degli studi filosofico-sociali. Già una ricognizione dei pensatori critico-radicali degli ultimi trent’anni non può che essere vista in ogni caso con interesse. In un mondo così lacerato e scisso a parte obiecti e a parte subiecti, privo di una sicura egemonia e anzi di un’egemonia tout court, di stabili connessioni qual è quello in cui oggi viviamo, è di grande importanza, credo, sapere se vi sia un pensiero più profondo e radicale, quasi una guida sicura nella lettura delle carte del nostro tempo, capace di spingersi lontano, di ritrovare nuovi legami e una qualche forma di «unità». Un pensiero in grado, nell’atto stesso, di guardare oltre i significati e le forze dati per intravedere almeno qualche segno del futuro – sebbene senza residui di filosofia della storia, senza forzature identitarie né esiti di irrelato atomismo: con un procedere «dialettico» sì, ma non risolto subito in una grande sintesi conciliativa, calata dall’esterno e passepartout.
Il vincolo esterno − espressione probabilmente coniata da Guido Carli, uno dei firmatari per l’Italia del trattato di Maastricht − definisce la logica per la quale il nostro Stato nazionale è così inetto e inefficace nel gestire le sue politiche interne da doversi quasi abbandonare ad una gestione superiore, più sapiente perché esterna e disinteressata, cioè quella degli stati esteri, o stati sovranazionali, espressione all’udir della quale qualsiasi dei grandi filosofi del passato rabbrividirebbe.
Non siamo qui a tediarvi tessendo le lodi del nostro paese, ma seppure fossimo l’ultimo tra i novelli paesi del terzo mondo, continueremmo a trovare ben poca giustificazione nell’ideologia dell’inettitudine autoreferenziale.
A chiunque dotato di intelletto e di senso di dignità apparirebbe assurdo il solo pensiero che un intero popolo, un’intera categoria politica, abbia potuto cedere al fascino dell’altrui benevolenza, considerando se stessa così incapace da non potersi autodeterminare.
E su questo slancio autodegenerativo si cedette la cosiddetta sovranità, si decise di sottostare a delle regole incontrovertibili (regole a cui potremmo porre obiezioni pesanti come macigni) decise da organismi esterni, lasciando, con la pantomima della coralità di fatto, qualsiasi imperio al nemico.
Ormai la pressione interna ed esterna per spingere il governo a sottoscrivere il prestito da 35 miliardi del Mes si è fatta talmente continua e ossessiva da spingere chiunque abbia conservato un minimo sindacale di lucidità, a chiedersi da cosa derivi tanta insistenza nel farci scegliere uno strumento finanziario che nessun altro Paese vuole, che ci darebbe a prestito miliardi che abbiamo già a credito dal Meccanismo di stabilità e dai suoi predecessori ( vedi qui ) e che potrebbero essere benissimo raccolti attraverso l’emissione di normali buoni del tesoro. Ma d’altra parte siamo nel pieno di una campagna mediatica che a quanto a menzogne non è seconda a nessun altra: il livello delle omissioni e dei depistaggi rende arduo comprendere una questione in sé assolutamente chiara e semplice, ma che sembra divenuta un’inestricabile matassa che vorrei provare a sbrogliare. Le due argomentazioni principe dei “messianici” sono la prima un inganno prospettico e la seconda una squallida presa in giro: 1) L’interesse richiesto dal Mes è inferiore a quello di eventuali Bpt dunque tale prestito è conveniente; 2) tutti ci assicurano che i soldi del Meccanismo di stabilità non saranno soggetti a richieste di austerità e riforme sociali regressive, nonostante che il “contratto” che andremo a sotto scrivere contenga proprio queste clausole di condizionalità sulle quali dovrebbe vigilare la troika.
Mentre molte attività bloccate dal lockdown stentano a ripartire dopo l’allentamento delle restrizioni, ce n’è una che, non essendosi mai fermata, ora sta accelerando: quella di Camp Darby, il più grande arsenale Usa nel mondo fuori dalla madrepatria, situato tra Pisa e Livorno. Completato il taglio di circa 1.000 alberi nell’area naturale «protetta» del Parco Regionale di San Rossore, è iniziata la costruzione di un tronco ferroviario che collegherà la linea Pisa-Livorno a un nuovo terminal di carico e scarico, attraversando il Canale dei Navicelli su un nuovo ponte metallico girevole.
Il terminal, alto una ventina di metri, comprenderà quattro binari capaci di accogliere ciascuno nove vagoni. Per mezzo di carrelli movimentatori di container, le armi in arrivo verranno trasferite dai carri ferroviari a grandi autocarri e quelle in partenza dagli autocarri ai carri ferroviari. Il terminal permetterà il transito di due convogli ferroviari al giorno che, trasportando carichi esplosivi, collegheranno la base al porto di Livorno attraverso zone densamente popolate. In seguito all’accresciuta movimentazione di armi, non basta più il collegamento via canale e via strada di Camp Darby col porto di Livorno e l’aeroporto di Pisa.
La vicenda Autostrade si è risolta in un maggiore esborso a carico degli italiani, che sarà effettuato tramite la Cassa depositi e prestiti. Questa dovrà entrare nella costituenda società di autostrade aumentando il capitale sociale, fino a raggiungere il 51%, facendo in modo che la partecipazione azionaria dei Benetton, pur mantenendo il numero di azioni in suo possesso, non abbia più una posizione di maggioranza assoluta.
Insomma i Benetton, non solo non perdono nulla, ma guadagnano anche l’occasione di entrare in una società di maggior respiro.
Inoltre essi guadagnano altresì il fatto che la Cassa depositi e prestiti si accolla, con i soldi dei risparmiatori italiani, 10 miliardi di debiti da loro accumulati, assumendo addirittura anche l’onere di ristrutturare le autostrade lasciate cadere in rovina dagli stessi Benetton.
E non è tutto. Il governo ha avuto l’ardire di dare un altro colpo agli interessi italiani, favorendo l’ingresso nella costituenda società autostrade di società speculative straniere e, in particolare, associando alla Cassa depositi e prestiti la più nota delle società speculative americane: la Blackstone, definendola un “partner istituzionale”.
“Martedì 7 luglio il Consiglio dei ministri approva il Decreto Semplificazioni. Ancora ieri, gli uffici del Mibact (cui l’ho domandato come membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali) mi comunicavano che non ne esiste un testo definitivo, e che le bozze commentate negli scorsi giorni sui quotidiani sono tutte ampiamente superate in nodi cruciali. Mentre sembra evitato l’abisso di un nuovo condono edilizio, per di più delegato ai comuni, rimangono incerte le norme sulle autorizzazioni paesaggistiche, sulle valutazioni di impatto ambientale, su punti cruciali dell’edilizia (tra cui quello che concederebbe le mani libere sui centri storici, bomba libera tutti per la speculazione edilizia). E sulla testa del patrimonio culturale continua a incombere il silenzio assenso: che farebbe funzionare la burocrazia non nell’unico modo sano (assumendo le migliaia di storici dell’arte, archeologi e architetti che oggi consegnano le pizze), ma spianando la strada ai vandali.
Il senso del decreto è riassunto nell’elenco di 130 Grandi Opere strategiche che dovrebbero «portare l’Italia nel futuro», secondo il presidente del Consiglio Conte.
La decisione del Consiglio dei
ministri di non
procedere alla revoca della concessione ad autostrade per
l’Italia (Aspi) non è soltanto un salvataggio in extremis dei
Benetton, ma
rappresenta, nel nuovo modello di azienda che si configura,
una modalità di salvataggio del capitale transnazionale e di
interessi europei da
parte dello Stato italiano.
La revoca della concessione avrebbe portato al fallimento di Aspi, che avrebbe coinvolto non solo la Atlantia dei Benetton, che la controlla all’88%, ma anche multinazionali straniere, che sono presenti nel capitale di Aspi, e alcune istituzioni europee. Un eventuale default avrebbe reso insolventi 9 bond di Aspi comprati dalla Bce e sarebbe finito in crisi il finanziamento da 1,3 miliardi erogato dalla Bei. Soprattutto avrebbe comportato grosse perdite per gli altri azionisti di peso di Aspi. Si tratta di Appia, che detiene il 6,94% di Aspi, e del fondo governativo cinese Silk Road, che ne detiene il 5%. Non è un caso che la Merkel, nell’incontro con Conte prima del vertice dei capi di governo della Ue sul Recovery Fund, si fosse detta curiosa di sapere come sarebbe andato il Consiglio dei ministri che doveva decidere in merito alla sorte di Aspi. Infatti, in Appia è presente la tedesca Allianz, che è il primo gruppo assicurativo mondiale, Edf, che è la maggiore società produttrice e distributrice di energia della Francia, e Dif, che è un fondo olandese di investimento. Tutte aziende di Paesi importanti, che, guarda caso, giocano un ruolo decisivo anche nelle trattative in corso sul fondo di ricostruzione europeo. Ma il capitale multinazionale è presente anche in Atlantia, dove le minoranze contano il 40% dell’azionariato e vedono la presenza di colossi come la statunitense Blackrock e il fondo di investimento di Singapore. In Edizione, la holding dei Benetton, che controlla a sua volta Atlantia, è presente anche la statunitense Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari del mondo.
Il problema della
transizione è stato mal sviluppato da Marx e da Engels a causa
della limitazione di un fenomeno di
cui avevano poca conoscenza, dato che l'unica esperienza che
videro in vita fu la Comune di Parigi del 1871.
Anche in queste condizioni, Marx ha dato un notevole contributo nei suoi scritti sulla Comune, concentrandosi sulla questione della rottura degli apparati statali come scuole e forze armate, oltre a ridefinire il ruolo della burocrazia, della rappresentanza politica e della giustizia in questa fase di transizione.
La dittatura del proletariato nella sua descrizione dell'esperienza della Comune di Parigi è quella del non-Stato, dato il grado di decentralizzazione, partecipazione e controllo delle masse sull'apparato statale.
Il problema teorico (e con effetti politici) in Marx si trova nella prefazione del 1859, in cui l'enfasi data alle forze produttive è strettamente delimitata in questo passaggio: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene.”
Questo passaggio dal lavoro di Marx ha consentito un'interpretazione con un forte contenuto meccanicistico ed economicista della sua teoria. Non è un caso che questo testo sia diventato il riferimento centrale nella concezione stalinista, fortemente segnata dal suo riduzionismo. Come afferma lo stesso Stalin: “le forze produttive non sono solo l'elemento più mobile e rivoluzionario della produzione. Sono anche il fattore determinante nello sviluppo della produzione.”
L’altro ieri, la missione di
analisti dell’IMF, di ritorno dal suo soggiorno americano, ha
pubblicato
questo rapporto su stato e prospettive dell’economia americana
che da sola vale un quarto di quella planetaria.
Nel secondo trimestre (A-M-G), il Pil USA ha fatto -37% (lo ripeto per i distratti e coloro che saltano i dati di quantità a priori perché preferiscono le parole: “meno trentasette per cento”). Si prevede che l’economia USA tornerà ai livelli di Pil fine 2019, solo a metà 2022, forse. IMF segnala che gli USA erano già un sistema con una forte componente di povertà interna, la crisi è destinata ad allargare e sprofondare questa parte addensata nelle etnie afro-americana ed ispanica. Al momento sono 15 milioni i disoccupati ed è appena iniziata la catena di fallimenti di esercizi commerciali ed imprese che accompagnerà la lenta ma costante caduta. Ed aggiunge: “il rischio che ci attende è che una grande parte della popolazione americana dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire.”.
“Molti anni a venire” , come riportato in post precedenti, viene da Nouriel Roubini e dai "miliardari invocanti tasse", quotato sulla prospettiva del decennio, magari non saranno proprio dieci anni, ma al momento le prospettive sono di crisi profonda e lunga. “Larga parte della popolazione” significa più che la maggioranza.
Vorrei iniziare sottolineando il mio accordo con l’analisi di Nancy Fraser che si propone di offrire una più ampia difesa del socialismo che non si riduca a un’alternativa “economica” al capitalismo. L’attenzione che pone Fraser alle “condizioni di possibilità nascoste” del sistema di produzione capitalistico (riproduzione sociale, espropriazione di terre e ricchezze ai popoli “razziati”, estrazione di risorse naturali, fornitura di beni pubblici da parte di Stati e organizzazioni internazionali) è fondamentale per segnalare un’alternativa alle attuali promesse social democratiche di emancipazione politica e per evitare il ripetersi degli errori del passato. Inoltre, il suo impegno per salvare il socialismo dal riduzionismo economico si aggiunge ad una considerevole parte della tradizione socialista, come hanno cercato di mostrare anche molti studi recenti in chiave femminista, ecologica e antimperialista sul Capitale di Marx. In quel che segue non metterò in discussione la novità dell’interpretazione di Fraser e darò per assodato ciò che lei ha da dire su come comprendere il socialismo. Ciò su cui vorrei concentrarmi invece è la questione del compito della politica: come realizzare il socialismo se ne accettiamo la giustificazione ideale.
L’idea di comunismo non nasce con Marx. Semmai, con Marx nasce una visione moderna di comunismo. Tracce dell’idea di comunismo nel pensiero e nella pratica degli uomini si possono trovare addirittura nell’antichità. Pensiamo solo al noto esempio del “comunismo aristocratico” di Platone che è, sì, un comunismo per le elìte, ma ciò nonostante capace di produrre un discorso politico molto interessante
«Le classi che devono guidare lo Stato sono, nell’ordine, i filosofi (coloro che posseggono più degli altri la verità) e i guerrieri (i militari che agiranno da garanti del volere dei filosofi e da difensori dai nemici esterni). Queste due classi governeranno le classi inferiori costituite dagli artigiani e dai contadini, le classi produttrici dei beni necessari alla comunità.
Le classi dominanti, tuttavia, non dovranno preoccuparsi solo del proprio bene, ma del bene comune a tutti, cosicché verranno abolite tutte quelle occasioni che potranno invogliare i reggenti alla cupidigia (prima fra tutte, verrà abolita la proprietà privata, quindi la famiglia, le donne saranno comuni a tutti gli uomini e l’educazione dei figli sarà pianificata dallo Stato secondo le diverse inclinazioni dei ragazzi)» [1].
La crisi del coronavirus ha impedito che il mondo della finanza e della sua governance avviasse una transizione oltre la fase del quantitative easing globale, che per un decennio ha garantito una vera e propria inondazione di liquidità alle borse e ai mercati di tutto il mondo. Quella che doveva essere una risposta emergenziale legata alle problematiche della Grande Recessione e al fallimento del dogma neoliberista dell’autoregolazione dei mercati si è trasformato in un new normal, in una tendenza consolidata.
Nel corso di dieci anni, da Bernake a Draghi, i banchieri centrali di tutto il mondo si sono mobilitati: dal Troubled Assets Relief Programm (Tarp) statunitense del 2008 al quantitative easing della Bce, passando per la Abenomics del governo conservatore giapponese, il solo trio costituito da Bce, Federal Reserve e Bank of Japan ha visto i suoi asset superare a fine 2018 i 15 trilioni di dollari, 3,5 volte la somma registrata nel 2008, come fatto notare in un rapporto della società di consulenza Yardeni Research.
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Data la natura del governo, paragonabile socialmente, per la qualità della politica interna ed estera che conduce, a quella di una ‘putain respectueuse’, il problema di penalizzare in qualche modo e in qualche misura, senza procedere alla revoca della concessione, i proprietari della Società Autostrade, cioè i Benetton, per le loro criminali responsabilità nel crollo del ponte Morandi e nella strage di 43 persone che ne seguì, era certo un problema difficile ma tutto sommato risolvibile per una rabula 1 trasformista, scaltra e spregiudicata come Giuseppe Conte. 2
Un po’ di retorica su quei morti, una lunga trattativa notturna e alla fine, dopo essersi prodotto, da un lato, in reboanti e rodomonteschi proclami sulla necessità di rendere giustizia alle vittime della strage del 14 agosto 2018 e aver immiserito e bagatellizzato, dall’altro, la minaccia della revoca della concessione usandola come falso scopo a mo’ di semplice ricatto, ecco che la montagna ha prodotto il classico topolino di un compromesso talmente schifoso che a concluderlo non poteva essere se non la figura equivoca di un sensale rotto ad ogni transazione pur di salvaguardare gli interessi del capitale finanziario: l’impagabile Roberto Gualtieri. 3
1. Per chi ha avuto l’avventura di conoscere come telespettatore gli ultimi 45 anni delle reti pubbliche e private italiane si tratta di aspettare il momento buono per capire la ragione di una scelta. Non ci vuole molto tempo, di solito. Esemplifico. Come mai tra i tanti filosofi italiani, è proprio e quasi soltanto Massimo Cacciari, bravissimo ovviamente (altrimenti come approdare in tv?), ad essere ospite quasi fisso di certe trasmissioni, naturalmente nella parte di “intellettuale dissenziente e indipendente da tutto e da tutti”? Come mai tra i tanti scrittori e scultori italiani, Mauro Corona è stato scelto come ospite quasi-fisso da Bianca Berlinguer, autorevole giornalista e conduttrice di Rai3? Il motivo è semplice. Bisogna solo avere pazienza.
2. La propaganda vera, quella che penetra e cucina le coscienze, quella che determina la scelta di voto, l’orientamento morale prim’ancora che politico, non è quella diretta, non è il comizio, non è il luogo dove lo spettatore rischia di sentirsi compartecipe di un’azione audace, di una presa di posizione, non è quella che ti coglie nella gesta del tifoso.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Mimmo Porcaro: Italia, le difficili strade della necessaria indipendenza
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«L’ospite ingrato» ha
promosso una riflessione sui concetti di critica e
totalità e sul nesso fra la critica della cultura e un’idea
non specialistica di sapere. In questo contributo vorrei
discutere le tesi
espresse da Andrea Cavazzini, dialogare con gli interventi di
Roberto Fineschi, Luca Mozzachiodi e Marco Gatto, e trarre
infine qualche indicazione
dalla lezione di Fortini.
Nell’intervento che ha dato avvio alla discussione, il 9 marzo scorso, Cavazzini afferma che i limiti attuali dell’opposizione ai rapporti capitalistici non dipendono dall’abbandono della dialettica, che è piuttosto il riflesso della dissoluzione dell’ultimo tentativo storico di fuoriuscita dal capitalismo e della crisi di una soggettività potenzialmente totalizzatrice. Ricorda che, negli anni ’70, il passaggio di egemonia dalla dialettica marxista al pensiero della differenza e dell’immanenza non avvenne solo nella sfera della produzione intellettuale, ma trovò corrispondenza nella coscienza spontanea di militanti dell’estrema sinistra. Conclude, con un accenno a Fortini, invitando a fare riferimento a saperi storici, non specialistici, sedimentati nella società e a considerare strategica la ricerca di figure del non-identico, capaci di anticipare qualche forma di totalità.1
Io credo, invece, che nel contesto attuale di iperculturalismo, complessità passivizzante, pluralismo linguistico privo di scelte e di conseguenze, descritto da Luca Mozzachiodi, l’uso di categorie dialettiche e il riferimento alla tradizione marxista siano necessari per arginare la deriva dissipante dei mille piani critici, per ristabilire un ordine logico e storico con il quale filtrare e ricomporre frammenti, e per recuperare un centro da cui stringere nessi e articolare mediazioni tra critica della cultura e critica del capitalismo finanziario.2
Ad oggi quattordici milioni di casi
conclamati e ufficialmente comunicati di infezione da
Coronavirus e seicentomila morti, cinque milioni di casi
ancora attivi, di cui sessantamila in
condizioni critiche o serie. Di questi circa due milioni sono
nei soli Stati Uniti, e con essi sedicimila casi critici. Gli
Stati Uniti procedono a
record continui, nell’ordine di oltre settantamila nuovi casi
al giorno, e hanno subito ad oggi centoquarantamila morti. Per
rapporto alla
popolazione abbiamo undicimila casi per milione di abitanti,
meno del tragico Cile, che ne conta diciassettemila, ma più di
tutti gli altri
paesi con almeno dieci milioni di abitanti. Segue il Perù ed
il Brasile, con circa diecimila, e, distante, la Svezia
(settemilaseicento),
Arabia Saudita, Spagna (seimilacinquecento), Sud Africa,
Belgio (cinquemila), Russia, Bolivia, Portogallo ed, infine,
l’Italia, che ne ha
quattromila.
Insomma, gli Stati Uniti hanno il triplo dei casi per milione di abitanti rispetto a noi, anche se hanno meno morti (quattrocentotrenta contro cinquecentottanta). Una tragica statistica, questa, nella quale siamo superati solo dal Belgio e da Inghilterra e Spagna.
Ma la tragedia sanitaria porta con sé anche devastanti conseguenze economiche. Ed in particolare negli Usa. Un recente rapporto[1] del Fondo Monetario Internazionale certifica che il Covid-19 ha provocato la perdita del lavoro per quindici milioni di americani, ha posto sotto stress finanziario tantissime imprese piccole e medie (mentre le grandi, evidentemente, sono state efficacemente soccorse dalle straordinarie misure della Fed e del governo federale), e impattato in particolare sui tanti poveri che affollano le periferie americane.
L'intervento di Laclau nel
dibattito sul concetto di ideologia è stato caratterizzato dal
suo contributo alla nuova definizione
che ha dato all'ideologia nazional-populista di sinistra.Il
suo contributo a questo tema fece di Laclau uno degli
intellettuali più creativi
della corrente althusseriana marxista.
Il lavoro di Laclau può essere diviso in quattro periodi:
1. Un primo approccio profondamente segnato dall'influenza althusseriana e, soprattutto, dai concetti di sovradeterminazione e interpellanza presentati nel libro “Politica e ideologia nella teoria marxista” del 1977.
2. L'enfasi sulla logica del significante e le posizioni del soggetto in “Egemonia e strategia socialista” del 1985.
3. L'importanza del reale e il legame tra la categoria del soggetto e lo spazio politico negli articoli scritti negli anni '90 e raccolti in libri come “Emancipazione e differenza” del 1996 e “Misticismo, retórica y política” del 2002.
4. La preoccupazione per gli investimenti affettivi nella costituzione di soggetti politici e il suo rapporto sia con la nozione di identificazione che con la logica dell'oggetto in “La ragione populista” del 2005.
L'esempio che Laclau ci dà è l'ideologia nazionalista. Per alcuni settori della sinistra, e in questo caso pensiamo al trotskismo, il nazionalismo è sempre stato etichettato come ideologia borghese in cui ha impedito la formazione della coscienza della classe proletaria. La stessa interpretazione fu evocata dai "liberali di sinistra" come Weffort, che peraltro sosteneva che il nazionalismo era espressione di una ideologia piccolo borghese che consacrava lo Stato.
Per l’Italia le previsioni economiche difficilmente potrebbero essere più drammatiche: secondo il Fondo monetario internazionale, nel 2020 il prodotto interno lordo cederà il 12,8%. Con la Spagna, sarà proprio l’Italia il Paese che subirà il colpo più duro. Per chiarire che cosa significhi, in termini concreti, una caduta del Pil di queste proporzioni abbiamo raggiunto Sergio Cesaratto, professore ordinario di economia presso l’università di Siena.
* * * *
Professor Cesaratto, “Pil” è un acronimo familiare a tutti, ma spesso non si è realmente consapevoli del suo significato. Qual è la definizione più concreta possibile che di esso può si può dare e perché è ritenuto così importante?
Il Pil è quanto produciamo in un anno in beni materiali e servizi. Parte di questa produzione consiste di beni di consumo e parte di beni di investimento (macchinari, impianti ecc…). Parte dei beni di investimento amplia la capacità produttiva (cioè aumenta la capacità di produrre Pil). Ma gran parte di essi sostituisce beni di investimento già esistenti che però sono obsoleti (come un vecchio computer) e andati fuori uso.
La contrazione drastica del fatturato dovuto alla chiusura o alla riduzione delle attività produttive ha determinato una crisi di liquidità delle imprese a livello internazionale. Per far fronte alla diminuzione della liquidità e poter continuare a finanziare le loro attività le imprese stanno indebitandosi, soprattutto con le banche. Si accentuano, quindi, due tendenze dell’economia mondiale. Da una parte, cresce il debito delle imprese mentre, dall’altra parte, si creano potenziali rischi per le banche davanti alla possibilità che il fallimento delle imprese porti a nuovi crediti inesigibili (NPL), che andranno ad aggiungersi a quelli che le banche si trascinano ancora dietro dalla crisi del 2008-2009.
Secondo una stima del rapporto sul debito corporate di Janus Henderson Investors, che prende in esame i bilanci delle 900 maggiori società non finanziarie per capitalizzazione, il debito societario crescerà nel 2020 di 1.000 miliardi di dollari1. Solo nei primi mesi del 2020 le società inserite nell’indice hanno preso a prestito sui mercati obbligazionari ben 384 miliardi e dalle banche una cifra analoga.
La maggior parte delle discussioni sulla disuguaglianza, sia che si tratti del dibattito tra le nazioni, a livello globale, sia che esse avvengano all'interno delle nazioni stesse, hanno luogo solo intorno al reddito. I dati e i testi sulla disuguaglianza di reddito non mancano, in particolare quelli circa il suo aumento, verificatosi nella maggior parte delle economie a partire dagli anni '80, e sulle cause di tale aumento. In molti post su questo blog, ho spesso discusso tali testi, insieme a quelle che erano le loro conclusioni, e le cause. Connessa al dibattito sulla disuguaglianza di reddito, troviamo anche la questione della "povertà": come definirla e come misurarla; e se la povertà globale, così come quella all'interno delle economia, sia aumentata o diminuita. Un recente rapporto del World Economic Forum, ha rilevato come la disuguaglianza di reddito sia aumentata, o al più è rimasta stagnante, in quelle che sono 20 delle 29 economie più avanzate, mentre la povertà è cresciuta in 17 di esse. La disuguaglianza di reddito è aumentata più rapidamente. e più che altrove, in Nord America, Cina, India e Russia, ha registrato il World Inequality Report 2018 prodotto dal World Inequality Lab, un centro di ricerca con sede presso la Paris School of Economics.
Un documentario prodotto da Michael Moore e girato da Jeff Gibbs mette in discussione la possibilità che possa esistere un capitalismo verde
La questione climatica è una tematica che nella storia, soprattutto recente, ha un ruolo sempre maggiore. Tanto gli intellettuali ed i tecnici quanto le masse di ogni area del pianeta hanno fatto e stanno facendo i conti con quella che è a tutti gli effetti una minaccia crescente. Il problema esiste, è reale, ed i ritmi a cui procede la devastazione ambientale sono allarmanti: basti pensare che negli ultimi anni i ghiacciai si sono sciolti ad un ritmo di 765 miliardi di tonnellate ogni 365 giorni, che continua ad aumentare [1].
Di fronte alla convinzione della portata drammatica della crisi si fa strada la volontà e la necessità di trovare una risposta al perché, per la prima volta nella storia, il pianeta Terra sia così influenzato dall’azione umana al punto da rischiare di entrare in un processo di trasformazione inarrestabile ed a noi dannoso.
Illuminante per rispondere a questa domanda è il documentario “Planet of the Humans” (che vi invitiamo a vedere) diretto da Jeff Gibbs e prodotto da Michael Moore, dove nello specifico ci si concentra sulla questione negli Stati Uniti d’America.
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«Le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto ecc., sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge.»
K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista
Nel maggio del 1898, a Milano, la ‘capitale morale’ d’Italia, la città dove si è compiuto, prima che in altre città, il passaggio dalla manifattura all’industria, il centro dove si erano già verificate nel corso dell’Ottocento due insurrezioni (quella del 1848 e quella del 1853, definita sprezzantemente dalla borghesia milanese, a causa della sua spiccata componente proletaria, la ‘rivoluzione dei barabba’), un vasto fronte che comprende, oltre al popolo, anche quei gruppi borghesi che vedono nel protezionismo una camicia di forza per i loro interessi di esportatori, scende in lotta non solo per il pane ma anche contro un governo autoritario, colonialista, militarista e fiscalmente oppressivo. I proletari milanesi, armati unicamente di sassi e tegole, vengono uccisi a centinaia dalla polizia, dalla fanteria, dalla cavalleria e dall’artiglieria del regio esercito agli ordini del generale piemontese Bava Beccaris.
Su una cosa
praticamente tutti – giornalisti, commentatori, esponenti del
governo (e
persino alcuni dell’opposizione!), comuni cittadini – sembrano
essere d’accordo: l’accordo raggiunto in sede europea sul
cosiddetto Recovery Fund rappresenta una «grande vittoria» per
l’Italia e un «evento storico» per l’Europa.
Per capire se è veramente così, vediamo di cosa si tratta. Partiamo innanzitutto dall’aspetto strettamente finanziario. L’accordo si compone di due pezzi: il “Next Generation EU” (NGEU), ovvero i famigerati 750 miliardi che la Commissione potrà prendere a prestito sui mercati e il quadro finanziario pluriennale (QFP), ovvero il bilancio europeo classico, che andrà dal 2021 al 2027. Per quanto riguarda il NGEU, il totale (750 miliardi) rimane invariato rispetto alla proposta originale della Commissione, ma cambia di molto la sua ripartizione. Sono stati ridotti i “trasferimenti a fondo perduto” – da 500 a 390 miliardi – e sono stati aumentati i “prestiti bilaterali”, da 250 a 360 miliardi. Per quanto riguarda il bilancio europeo, invece, esso avrà in dotazione poco più di mille miliardi di euro, un po’ meno rispetto a quanto proposto inizialmente dalla Commissione.
Per far quadrare i conti, sono stati ridotte alcune voci di spesa del bilancio comunitario. Sono state introdotte anche delle importanti modifiche ai cosiddetti “rebates”, ovvero gli sconti che vengono storicamente fatti ad alcuni Stati che sono contribuenti netti al bilancio comunitario: Danimarca, Olanda, Germania, Austria, Svezia. L’Olanda, per esempio, riceverà ogni anno circa 500 milioni in più rispetto a quanto era inizialmente previsto.
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Le 24 ore
successive alla conclusione del Consiglio europeo hanno tolto
definitivamente (o
almeno così dovrebbe essere) le maschere a tutta l’arena
politica italiana, gettando invece l’ennesimo “velo di Maya”
sulla vera natura dell’Unione europea e sul passaggio
consumato nei 5 giorni di vertice.
Il risultato messo nero su bianco dalle negoziazioni sta avendo l’effetto di un sondaggione sul lavoro svolto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, uscito mediaticamente rafforzato dal “risultato portato a casa dall’Italia”, imprinting di un “nuovo corso per l’Europa”.
Il primo effetto evidente è la ricomposizione ammaestrata del fronte europeista, dai toni più entusiasti dei partiti di governo (Pd e M5S) a quelli più pacati dell’opposizione meloniana.
Solo Matteo Salvini si pone in controtendenza con il vociare politico mainstream, una reprimenda sui possibili tagli alla spesa pubblica futura del paese che tuttavia cozza irrimediabilmente con quanto fatto dalla Lega nella recente esperienza di governo. Insomma, propaganda buona, e stando ai sondaggi in realtà sempre meno efficace, solo per i social.
Il Pd invece per bocca del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri giudica l’accordo chiuso a Bruxelles,
«dopo quattro giorni di dura trattativa, un risultato storico per l’Italia e per l’Europa. Un Recovery Fund robusto, un’opportunità unica per il nostro Paese di rilanciare la propria economia all’insegna della sostenibilità, dell’innovazione e dell’inclusione.
La riunione
del Consiglio europeo sul piano finanziario Next Generation
Europe,
altrimenti conosciuto come Recovery fund, doveva durare due
giorni. In realtà, si è protratta per ben cinque giorni, a
testimonianza
della profondità delle divergenze che si sono manifestate
all’interno del Consiglio tra, da una parte, i Paesi
cosiddetti frugali, Paesi
Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e, dall’altra parte,
Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia. L’oggetto del
contendere ha
riguardato sia le modalità di suddivisione in sussidi e
prestiti del Recovery fund sia le condizionalità imposte agli
Stati per
usufruirne.
Ma vediamo cosa dice il documento ufficiale stilato alla conclusione dell’incontro. Il documento riconosce, a causa della crisi, la necessità di un piano di ricostruzione europeo che permetta massicci investimenti pubblici e privati. A questo scopo la Commissione viene autorizzata a prendere a prestito, a nome della Ue, le somme necessarie sul mercato dei capitali.
Il documento enfatizza l’aspetto dell’eccezionalità del Recovery fund. Infatti, specifica che il provvedimento è dovuto alla natura eccezionale della crisi, e che, di conseguenza, i poteri della Commissione di prendere a prestito fondi sono limitati nella misura, nella durata e nello scopo.
La Commissione viene autorizzata a prendere a prestito fino al 2026 la cifra di 750 miliardi di euro. I 750 miliardi sono composti da 672 miliardi della Recovery and Resilience Facility e da 78 miliardi previsti per altri 6 programmi di minore entità (sviluppo rurale, Horizon Europe sulla ricerca scientifica, ecc.). La Recovery and Resilience Facility, a sua volta, è composta da 360 miliardi in prestiti e da 321,5 miliardi in sovvenzioni.
Il
super-Mes
Bruxelles, ore 5:32 del 21 luglio, per l’Italia il disastro è compiuto. Non si chiama Mes, anche se ci sarà spazio pure per questo, ma Recovery Fund, il super-Mes pensato dall’asse carolingio, ripreso dalla Commissione, ed infine modificato (in peggio, ovviamente) dal Consiglio europeo con la firma di stamattina.
Lo abbiamo sostenuto per mesi. Non è mai esistito un Mes cattivo, opposto ad un Recovery Fund buono. Esiste invece il sistema dell’euro, che di questi meccanismi abbisogna come il pane. E’ da quel sistema che bisogna liberarsi. Il resto è solo chiacchiera per l’interminabile teatrino della politica. Quel teatrino tenuto in piedi affinché ogni ragionamento serio sia bandito dal discorso pubblico.
Oggi gli euroinomani festeggiano. Lo fanno per l’accordo raggiunto, per la novità di un pacchetto economico a loro dire eccezionale, perfino per l’idea che si sia aperta la strada alla condivisione del debito, aprendo così pure quella della mitica Europa federale. Hanno torto su tutto, ed i fatti lo dimostreranno.
L’accordo è stato uno dei più pasticciati dell’intera storia dell’Unione, che in quanto a pasticci proprio non ha rivali. Non il frutto di un’intesa di fondo, ma di un’estenuante mediazione sul più piccolo dettaglio degli interessi di ognuno.
Lo dimostra il consistente aumento degli sconti dei contributi al bilancio comunitario, ottenuto dai 4 “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca, Austria) più la Germania, per il periodo 2021-2027. Molti segnalano come i quattro portino a casa 26 miliardi, “dimenticandosi” però di dire che altri 25,6 verranno incamerati dalla Germania.
Al contrario di quanto fa intendere il senso comune neoliberista, scienza e tecnologia non sono autonome dai rapporti di potere che informano la società. Per evitare derive tecnocratiche o populiste nella gestione della crisi Covid, occorre democratizzare entrambe
“La fede
nel valore della verità scientifica è il prodotto di
determinate
civiltà, non già qualcosa di dato per natura”[1]. Questa frase
di Max Weber, pensatore di cui ricorre quest’anno il
centenario dalla morte, offre spunti di riflessione che
dovrebbero aiutare il dibattito
pubblico italiano a superare concezioni monolitiche del modo
di operare della scienza. Negli sconvolgimenti che
attraversano società, politica
ed economia investite dal Covid-19, queste parole di Weber
possono aiutare a superare i cortocircuiti cognitivi che
caratterizzano scienza e politica
così come vengono concepite in un senso comune definito
dall’egemonia neoliberista e da forme di populismo che a
quest’ultima
dicono di opporsi.
Nell’odierno dibattito pubblico italiano, professionisti della politica e del giornalismo sembrano rivolgersi agli esperti con quell’approccio tipico che in psicologia cognitiva si definisce come “realismo ingenuo”. Si può dire che questo senso comune con cui si guarda agli esperti poggi sinteticamente su due presupposti fondamentali. Il primo è che esista una modalità immediata di vedere la realtà – sia essa riferita alla natura o alla società – ovvero che ci siano modelli e metodi di conoscenza scientifica che prescindono dalle scelte cognitive dell’attore scientifico o politico. Questo aspetto fa del realismo ingenuo nel senso comune la vera epistemologia sui cui poggia il celeberrimo motto neoliberale del “There is no alternative” nella vita politica ed economica.
Nel 2012,
in una breve intervista[i] tanto utile quanto
tristemente passata inosservata, il filosofo sloveno Slavoj
Žižek invitava la sinistra anti-capitalista a smettere di
agire ed iniziare a
pensare. Provocatorio come sempre, Žižek ha però messo a nudo
una debolezza fondamentale, che previene ogni possibilità di
costruzione di un “movimento reale che abolisce lo stato di
cose presente”: l’assenza di un solido apparato teorico.
Osservazioni su difetti di origine storica
Vista con gli occhi di chi è nato molto dopo l’89 e il ’91, la confusione che le sinistre hanno attraversato in quel periodo è comprensibile ma non giustificabile. Il crollo dell’URSS ha mostrato come ad un certo punto il pensiero socialista fosse stato completamente assorbito dalla legittimazione teorico-storica del modello sovietico. Se le sinistre fossero state saldamente legate ad un’idea più che ad un’esperienza politica, è verosimile che al crollo dell’URSS non sarebbe seguito il tracollo delle sinistre. È probabilmente legittimo pensare che in larga parte il pensiero socialista, già quasi dal ’17, è stato, in larga parte, deformato da un certo “sovietismo”. Questa affermazione potrebbe sembrare in contrasto con le varie tensioni che hanno attraversato i rapporti tra PCUS e gli altri partiti comunisti, e tuttavia pare essere confermata dal collasso a catena di cui sopra. L’impostazione da “partito padre” tenuta dal PCUS, la postura figlia dell’articolo 14 del Komintern[ii] mai realmente corretta, l’eventuale lotta all’eretico ingaggiata da molti militanti, intellettuali e politici di spicco: queste ed altre cose hanno soffocato la libera elaborazione del pensiero socialista, facendone perdere i concetti chiave in un oceano di contingenze storiche elevate a dogmi.
L’ultimo rapporto demografico Istat sull’evoluzione della popolazione italiana certifica in modo evidente una tendenza in atto ormai da anni: il forte declino della popolazione residente in Italia. Vediamo infatti il crollo delle nascite, l’aumento dell’emigrazione all’estero con contestuale diminuzione dell’immigrazione e addirittura un tasso di mortalità in lieve aumento. I dati ci dicono che negli ultimi cinque anni la popolazione dell’Italia è diminuita di ben 551mila unità. Una caduta davvero significativa su una popolazione di 60 milioni di persone. In particolare, nell’ultimo anno, diminuisce il numero di immigrati residenti (-8,6% dal 2018 al 2019) aumenta quello delle emigrazioni (+16,1% nell’ultimo anno) e dopo il minimo storico di nuovi nati già raggiunto nel 2018 il 2019 segna un ulteriore calo delle nascite del 4,5%.
Ogni estate, puntualmente, a seguito della pubblicazione del rapporto Istat, il triste dato del declino demografico italiano, tra i più intensi in Europa, viene commentato da molti con rassegnazione, come tendenza inarrestabile dovuta a stravolgimenti culturali irreversibili. Pochi interpretano seriamente la variabile demografica come endogena rispetto al funzionamento del sistema socio-economico nel suo complesso.
Questo articolo si propone di dare una rigorosa visione d’insieme del nucleo teorico MMT evidenziando, da un lato, le demarcazioni con tutti gli altri approcci all’economia monetaria, e dall’altro, le implicazioni dello stesso sull’elaborazione di politica economica.
Si può partire da un aspetto che rimane spesso implicito in molta della letteratura primaria MMT. Tutti i principali approcci allo studio dell’economia, compresi quelli “eterodossi”, partono dall’assunto che il sistema economico emerga da una tendenza naturale insita nell’uomo. Che sia una tendenza a dividere il lavoro, allo “scambio tra equivalenti” o ad una spontanea socialità, il sistema economico, ed in particolare il mercato e le sue forze, vengono interpretati come realtà a priori dall’autorità politica, a volte addirittura in contraddizione con la stessa. Ciò porta spesso a schiacciare il dibattito di politica economica sulla polarizzazione “intervento statale” vs “libero mercato”.
“In autunno la situazione sociale ed economica sarà drammatica con pericoli per l’ordine sociale. Per stare a galla, il governo dovrà coprirsi dietro il pericolo della pandemia e tenere le redini in qualche modo. Una dittatura democratica sarà inevitabile”
(Massimo Cacciari, ospite di Bianca Berlinguer a Carta Bianca, del 14 luglio 2020)
La dichiarazione di Cacciari è gravissima, ma ha il pregio di svelare il pensiero di una buona parte del ceto intellettuale. Sono altresì convinto che in essa si rispecchi un’ampia porzione di popolazione, magari spaventata dall’eventualità di un governo leghista; e che potrebbe riconoscersi in una forzatura delle regole democratiche per garantire al governo in carica la possibilità di continuare la propria azione.
Gli elementi discorsivi della dichiarazione sono facilmente individuabili.
La prima frase esplicita il contesto, sottintendendo il peggioramento della situazione economica e sociale a seguito della pandemia. Possiamo immaginare che Cacciari prefiguri uno scenario da “autunno caldo”, con una serie di categorie, quelle che subiscono maggiormente i contraccolpi della crisi (lavoratori, disoccupati, piccole partite Iva, ecc.), spinte in piazza per reclamare quanto la crisi stessa gli ha tolto o una maggiore equità sociale.
Nel corso del Novecento molti filosofi hanno riflettuto sulla tecnica; i più noti sono, probabilmente, Husserl, Horkheimer e Adorno della Scuola di Francoforte e Heidegger. Tra di essi deve essere certamente annoverato il filosofo italiano Emanuele Severino, scomparso lo scorso gennaio, che ha riservato alla tecnica un ruolo centrale nel suo pensiero attraverso molti interventi e numerose pubblicazioni, tra le quali, Téchne, le radici della violenza (1979 ed edizioni successive) e Il Destino della Tecnica (1998).
In questa breve nota si vuole proporre un parallelismo tra il pensiero di Saverino e la teoria economica del ‘900, con particolare riferimento al pensiero neoclassico.
Il Pensiero di Emanuele Severino. Sono due gli aspetti essenziali nel pensiero di Severino. Il primo è che la tecnica da mezzo dell’agire umano per raggiungere risultati e per ottenere scopi si è trasformata essa stessa in fine. Il secondo aspetto, che è forse quello più interessante dal punto di vista della teoria economica, è che in una società in cui la tecnica diventa fine, essa si pone in conflitto con la giustizia, e con qualsiasi altra dimensione che ne contrasti la crescente potenza.
Oggi l’Istituto Luce (la stampa dominate) esulta compatto per la grande vittoria di Conte dell’Italia.
Vediamola dati alla mano questa grande vittoria dell’Italia.
I sussidi sono scesi dai 500 miliardi iniziali a 390. Sostituiti, ovviamente, da un considerevole aumento della quota prestiti (a cui si potrà accedere solo dopo l’uso dei sussidi, quindi non prima del 2024).
Per quanto riguarda i sussidi, all’Italia ne dovrebbero arrivare una cifra compresa tra i 68 e gli 82 miliardi. Erogati tra il 2021 e il 2024, nella “migliore” delle ipotesi.
Cioè una somma equivalente circa all’1% del nostro PIL a fronte di un crollo, solo quest’anno, di almeno il 12%.
Sussidi che non sono a fondo perduto poiché a partire dal 2026 andranno restituiti.
O con l’aumento del contributo al bilancio europeo da parte dell’Italia o con una maggiore imposizione fiscale.
Come temevo, Il BTP Futura dedicato ai soli residenti ha raccolto poco più di 6 miliardi in 5 giorni – dal 6 al 10 Luglio -, meno della metà di quanto ha raccolto il BTP Italia lo scorso Maggio.
Un risultato estremamente deludente, che sembra cercato a tavolino dai responsabili del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Tra le cause tecniche, ne citerei due: sono stati abbassati i rendimenti base (a 5 anni si è passati da 1,4% a 1,3%) ed è stato tolto il premio per l’inflazione (tutt’altro che marginale alla luce di una ripresa post-Covid che prima o poi genererà inflazione).
Ma il dato più eclatante è il silenzio assordante che ancora una volta ha avvolto questa operazione. Nessuna presentazione al pubblico, nessun dibattito serale, nessun TG che abbia speso 2 minuti per intervistare un esperto che ne spiegasse i meccanismi. Tutto lasciato completamente in mano al solito “atto d’amore” da parte delle banche private, che ovviamente non hanno alcun interesse a collocare titoli a commissioni quasi zero e che per giunta le priverebbero della liquidità investita nelle redditizie gestioni patrimoniali interne.
Come sarebbe andata a finire lo si
poteva capire già nella notte di domenica, quando Giusppe
Conte,
rivolgendosi all’olandese Mark Rutte, ha detto: “Il mio
Paese ha una sua dignità. C’è un limite che non va
superato”, aggiungendo il dubbio che “si voglia
piegare il braccio a un Paese perché non possa usare i
fondi”.
In quel momento è stato inevitabile ripensare ad Alexis Tsipras, in un’altra notte di luglio, quella del 2015, che nella stessa sede (solo qualche faccia diversa) si era alzato togliendosi la giacca per porgerla alla Merkel sbottando: «A questo punto, prendetevi anche questa…»
Poi, com’è noto, la Troika si precipitò rapace su Atene, assumendone il pieno controllo e dando il via al saccheggio di tutto quel che di pubblico poteva essere svenduto (porti, aeroporti, centrali, ecc), tagliato (salari, sanità e pensioni), impegnato.
All’Italia di Conte è andata leggerissimamente meglio, in apparenza, visto il diverso peso economico in Europa – terza economia dell’Unione – che renderebbe il tracollo senza freni di questo Paese un detonatore devastante per tutti, più della pandemia.
Ma per separare con chiarezza la realtà di quanto “concordato” dalla “narrazione” che ne viene fatta già a botta calda, sarà bene vedere i singoli punto del compromesso finale, firmato alle 5.32 del mattino, al quinto giorno di un vertice che doveva durarne due.
Il “successo” della UE sta solo nel fatto che ne sia stato firmato uno, cosa che ad un certo punto sembrava persino improbabile. Ma nessuno dei 27 leaderini spaventati e feroci poteva tornare a casa senza questo risultato. Avrebbe significato la fine di un sistema di trattati e istituzioni, sanzionato pesantemente dai “mercati” e quindi un moltiplicatore degli effetti negativi della pandemia che avrebbe alla fine travolto anche chi si sente meno esposto.
Riccardo Bellofiore: Econ-apocalypse: aspetti economici e sociali della crisi del coronavirus
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Fulvio Grimaldi: Impadronirsi della Fase Tre - In galera! - Contributi a Cinque Stelle (non spente)
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Cari
compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
* * * *
Alcune domande
2+2=5: nonostante al di qua della cortina di ferro il termine “emulazione socialista” (социалистическое соревнование)fu spesso accompagnato da scherno e pernacchie di sottofondo, insieme ad accuse affatto velate di cottimismo e crumiraggio, si tratta, di una delle manifestazioni storiche, almeno nelle intenzioni di chi le promosse, ma a ben vedere non solo in “pensieri e parole”, di quanto più prossimo a quel “movimento verso l’alto” oggetto di analisi preliminare in questo capitolo. Guardiamola, pertanto, un po’ più da vicino. Il manifesto riprodotto qui sotto, risalente agli anni Trenta del secolo scorso intitolato L’aritmetica del contropiano produttivo e finanziario (Арифметика встерчного промфинплана) ci fornisce una buona base di partenza.
Pubblicato
a fine 2019 da
Donzelli, Marx Revival, raccolta di “Concetti
essenziali e nuove letture” a cura di Marcello Musto, è già
uscito
in inglese a giugno 2020; e per il 2021 sono previste le
pubblicazioni in cinese, tedesco, giapponese, coreano e
portoghese. Con le sue 469 pagine
può incutere qualche preoccupazione; e si rivela invece,
scorrendo l’indice, ventaglio amplissimo e godibile di temi e
di punti di
vista.
I titoli dei saggi – li cito tutti per dare un’idea compiuta – rivelano l’ottica non banale secondo cui la raccolta è costruita: Capitalismo, Comunismo, Democrazia, Proletariato, Lotta di classe, Organizzazione politica, Rivoluzione, Lavoro, Capitale e temporalità, Ecologia, Eguaglianza di genere, Nazionalismo e questione etnica, Migrazioni, Colonialismo, Stato, Globalizzazione, Guerra e relazioni internazionali, Religione, Educazione, Arte, Tecnologia e scienze, Marxismi.
È evidente che in questo volume non è Marx a interrogare il presente, ma sono piuttosto i temi dell’attualità a interrogare Marx, ottenendo risposte più o meno convincenti, più o meno strutturate, ma sempre stimolanti; senza forzature per trovare in Marx quel che non c’è.
Per il lettore italiano, che viene da una tradizione di studi e di elaborazioni teoriche di alto livello, ma anche molto diversa da questa, è un’occasione importante, che speriamo voglia cogliere.
Cominciamo dagli autori dei 22 saggi. Pochi gli studiosi già da noi conosciuti. Infatti dei 19 non italiani, solo cinque hanno opere già tradotte (Achkar, Antunes, Löwy, van der Linden, Wallerstein. Quest’ultimo, appena scomparso, già molto noto fin dagli anni Settanta, però solo come storico, per opere fondamentali).
Vi
presentiamo una serie di immagini
e tabelle nelle quali sono spiegati tutti i veri dati,
quelli basati sui documenti ufficiali e su stime super
partes, non sulle voci messe in
giro da Casalino o su numeri di provenienza, diciamo così,
spuria.
Se volete potete salvarvi questi dati o salvare la URL della pagina, e divertirvi a confrontarli con le gentili e soavi amenità che sentite in TV.
Buona Lettura.
* * * *
Viviamo
tempi davvero confusi. Potrei
caratterizzarli come il tempo della estenuazione di una
estenuazione. Il senso della critica ha perso da lunghi
decenni il solido ancoraggio
nelle dure condizioni materiali che il socialismo aveva inteso
dargli, per tradursi in una postura che cresce nel vuoto di
progetto. Questo
slittamento non era avvenuto tanto per effetto di un
superamento effettivo, totale, della durezza del vivere,
quanto per un estenuarsi della fiducia
sotto i colpi delle sconfitte.
Sconfitte, non fallimenti.
La durezza del vivere è sempre rimasta con noi. Ma è stata nascosta sotto il velo della nebbiolina sottile che la cultura cosiddetta “postmoderna” ha lentamente alzato da terra. La perdita di riferimento ha spostato tutta l’attenzione sul medium e del significato sul significante.
Da qualche anno, però, anche questa estenuazione sta giungendo al suo, proprio, esaurirsi. Questa singolare condizione nasce dal tornare in primo piano della durezza in forme non aggirabili. Un urlo che, alla fine, finisce per essere più forte delle nebbie.
Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti (da qui a volte M&C) hanno fatto l’importante sforzo di rispondere con un densissimo e a tratti molto chiaro testo[i] al dibattito che era scaturito dal loro primo articolo[ii]. Per la verità la replica è molto più larga, e si riferisce contemporaneamente alle obiezioni di Fabrizio Marchi[iii], su L’interferenza, e di Alessandro Visalli (ovvero di chi scrive)[iv], e quelle di Moreno Pasquinelli[v], su Sollevazione. Seguiranno sia la seconda parte del pezzo di Pasquinelli[vi] e la replica di Alessandro Visalli[vii].
Riceviamo e molto volentieri
pubblichiamo
queste note sul momento attuale del grande movimento di
lotta nato negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George
Floyd per mano della polizia di
Minneapolis. Non sono, però, un semplice aggiornamento.
Sono un primo, provvisorio bilancio di esso (provvisorio
perché il movimento
è tuttora vivo). E hanno il merito di cogliere la sua
straordinaria importanza nella vicenda della lotta di
classe statunitense e
mondiale.
Gli Stati Uniti sono da quasi un secolo il paese-guida del capitalismo mondiale, la mostruosa idrovora che ha aspirato oceani di plusvalore, di rendita e di diritti dai quattro angoli della terra, e hanno potuto a lungo nutrire buona parte della loro popolazione di sfruttati con qualcosa in più di semplici ‘briciole’ materiali e ideologiche (l’ideologia della unicità e superiorità yankee). Ma questa Amerika ora finalmente traballa per effetto di continue scosse sismiche e si avvicina inesorabilmente al suo crack.
Altro che fine della storia! La storia, e cioè la storia della rivoluzione sociale anti-capitalista, si sta riaprendo alla grande, nel cuore stesso della “Bestia”. E si vedrà chiaro domani che il primo squillo di riscossa è partito dai “negri” supersfruttati dall’imperialismo europeo e italiano: i rivoltosi arabi e “islamici” del 2011-2012 e del 2018-2020, i nostri fratelli di classe medio-orientali brown…
* * * *
Nelle giornate di luglio il movimento generalizzato contro la violenza della polizia e il razzismo sistemico ha perso di intensità. È trascorso più di un mese e mezzo da quando questo movimento di massa è esploso spontaneamente in seguito all’assassinio di George Floyd il 25 maggio 2020.
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Del movimento di Hong
Kong del 2019 sembrano svanite le tracce. Oggi sono molto più
in primo piano alcuni isolotti sabbiosi del Mar cinese
meridionale, oggetto di
contese territoriali che suonano sinistri segnali di
intenzioni belliche. Un movimento così imponente, però, non va
lasciato
nell’oblio, perché quando le masse entrano sulla scena
politica, c’è sempre da trarne qualche lezione importante.
Abbiamo fatto tre viaggi di inchiesta in Cina tra il 2017 e 2019, incontrando vecchi e nuovi amici, con i quali abbiamo condiviso ragionamenti e interrogativi. Le note che seguono sono una prima sintesi di alcuni dei temi che ci hanno fatto più riflettere.
I “due sistemi”
Il governo cinese si ostina a dichiarare che la nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong è la massima realizzazione della formula “un paese, due sistemi”. Non ci sono invece tutte le evidenze che, al contrario, come dicevano alcuni slogan polemici del movimento nei mesi scorsi, essa equivalga a “un paese, un sistema”, vale a dire ad applicare a Hong Kong il sistema della RPC?
Le dichiarazioni del governo cinese non vanno però trattate solo come vuota retorica. In effetti, la Cina è già un paese con “due sistemi di autorità”, nel senso elementare del potere di conseguire obbedienza al comando.
Oggi l’Istituto Luce (la stampa dominate) esulta compatto per la grande vittoria di Conte dell’Italia.
Vediamola dati alla mano questa grande vittoria dell’Italia.
I sussidi sono scesi dai 500 miliardi iniziali a 390. Sostituiti, ovviamente, da un considerevole aumento della quota prestiti (a cui si potrà accedere solo dopo l’uso dei sussidi, quindi non prima del 2024).
Per quanto riguarda i sussidi, all’Italia ne dovrebbero arrivare una cifra compresa tra i 68 e gli 82 miliardi. Erogati tra il 2021 e il 2024, nella “migliore” delle ipotesi.
Cioè una somma equivalente circa all’1% del nostro PIL a fronte di un crollo, solo quest’anno, di almeno il 12%.
Sussidi che non sono a fondo perduto poiché a partire dal 2026 andranno restituiti.
O con l’aumento del contributo al bilancio europeo da parte dell’Italia o con una maggiore imposizione fiscale.
Come sarebbe andata a finire lo si
poteva capire già nella notte di domenica, quando Giusppe
Conte,
rivolgendosi all’olandese Mark Rutte, ha detto: “Il mio
Paese ha una sua dignità. C’è un limite che non va
superato”, aggiungendo il dubbio che “si voglia
piegare il braccio a un Paese perché non possa usare i
fondi”.
In quel momento è stato inevitabile ripensare ad Alexis Tsipras, in un’altra notte di luglio, quella del 2015, che nella stessa sede (solo qualche faccia diversa) si era alzato togliendosi la giacca per porgerla alla Merkel sbottando: «A questo punto, prendetevi anche questa…»
Poi, com’è noto, la Troika si precipitò rapace su Atene, assumendone il pieno controllo e dando il via al saccheggio di tutto quel che di pubblico poteva essere svenduto (porti, aeroporti, centrali, ecc), tagliato (salari, sanità e pensioni), impegnato.
All’Italia di Conte è andata leggerissimamente meglio, in apparenza, visto il diverso peso economico in Europa – terza economia dell’Unione – che renderebbe il tracollo senza freni di questo Paese un detonatore devastante per tutti, più della pandemia.
Ma per separare con chiarezza la realtà di quanto “concordato” dalla “narrazione” che ne viene fatta già a botta calda, sarà bene vedere i singoli punto del compromesso finale, firmato alle 5.32 del mattino, al quinto giorno di un vertice che doveva durarne due.
Il “successo” della UE sta solo nel fatto che ne sia stato firmato uno, cosa che ad un certo punto sembrava persino improbabile. Ma nessuno dei 27 leaderini spaventati e feroci poteva tornare a casa senza questo risultato. Avrebbe significato la fine di un sistema di trattati e istituzioni, sanzionato pesantemente dai “mercati” e quindi un moltiplicatore degli effetti negativi della pandemia che avrebbe alla fine travolto anche chi si sente meno esposto.
La decisione del Consiglio dei
ministri di non
procedere alla revoca della concessione ad autostrade per
l’Italia (Aspi) non è soltanto un salvataggio in extremis dei
Benetton, ma
rappresenta, nel nuovo modello di azienda che si configura,
una modalità di salvataggio del capitale transnazionale e di
interessi europei da
parte dello Stato italiano.
La revoca della concessione avrebbe portato al fallimento di Aspi, che avrebbe coinvolto non solo la Atlantia dei Benetton, che la controlla all’88%, ma anche multinazionali straniere, che sono presenti nel capitale di Aspi, e alcune istituzioni europee. Un eventuale default avrebbe reso insolventi 9 bond di Aspi comprati dalla Bce e sarebbe finito in crisi il finanziamento da 1,3 miliardi erogato dalla Bei. Soprattutto avrebbe comportato grosse perdite per gli altri azionisti di peso di Aspi. Si tratta di Appia, che detiene il 6,94% di Aspi, e del fondo governativo cinese Silk Road, che ne detiene il 5%. Non è un caso che la Merkel, nell’incontro con Conte prima del vertice dei capi di governo della Ue sul Recovery Fund, si fosse detta curiosa di sapere come sarebbe andato il Consiglio dei ministri che doveva decidere in merito alla sorte di Aspi. Infatti, in Appia è presente la tedesca Allianz, che è il primo gruppo assicurativo mondiale, Edf, che è la maggiore società produttrice e distributrice di energia della Francia, e Dif, che è un fondo olandese di investimento. Tutte aziende di Paesi importanti, che, guarda caso, giocano un ruolo decisivo anche nelle trattative in corso sul fondo di ricostruzione europeo. Ma il capitale multinazionale è presente anche in Atlantia, dove le minoranze contano il 40% dell’azionariato e vedono la presenza di colossi come la statunitense Blackrock e il fondo di investimento di Singapore. In Edizione, la holding dei Benetton, che controlla a sua volta Atlantia, è presente anche la statunitense Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari del mondo.
Il problema della
transizione è stato mal sviluppato da Marx e da Engels a causa
della limitazione di un fenomeno di
cui avevano poca conoscenza, dato che l'unica esperienza che
videro in vita fu la Comune di Parigi del 1871.
Anche in queste condizioni, Marx ha dato un notevole contributo nei suoi scritti sulla Comune, concentrandosi sulla questione della rottura degli apparati statali come scuole e forze armate, oltre a ridefinire il ruolo della burocrazia, della rappresentanza politica e della giustizia in questa fase di transizione.
La dittatura del proletariato nella sua descrizione dell'esperienza della Comune di Parigi è quella del non-Stato, dato il grado di decentralizzazione, partecipazione e controllo delle masse sull'apparato statale.
Il problema teorico (e con effetti politici) in Marx si trova nella prefazione del 1859, in cui l'enfasi data alle forze produttive è strettamente delimitata in questo passaggio: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene.”
Questo passaggio dal lavoro di Marx ha consentito un'interpretazione con un forte contenuto meccanicistico ed economicista della sua teoria. Non è un caso che questo testo sia diventato il riferimento centrale nella concezione stalinista, fortemente segnata dal suo riduzionismo. Come afferma lo stesso Stalin: “le forze produttive non sono solo l'elemento più mobile e rivoluzionario della produzione. Sono anche il fattore determinante nello sviluppo della produzione.”
L’altro ieri, la missione di
analisti dell’IMF, di ritorno dal suo soggiorno americano, ha
pubblicato
questo rapporto su stato e prospettive dell’economia americana
che da sola vale un quarto di quella planetaria.
Nel secondo trimestre (A-M-G), il Pil USA ha fatto -37% (lo ripeto per i distratti e coloro che saltano i dati di quantità a priori perché preferiscono le parole: “meno trentasette per cento”). Si prevede che l’economia USA tornerà ai livelli di Pil fine 2019, solo a metà 2022, forse. IMF segnala che gli USA erano già un sistema con una forte componente di povertà interna, la crisi è destinata ad allargare e sprofondare questa parte addensata nelle etnie afro-americana ed ispanica. Al momento sono 15 milioni i disoccupati ed è appena iniziata la catena di fallimenti di esercizi commerciali ed imprese che accompagnerà la lenta ma costante caduta. Ed aggiunge: “il rischio che ci attende è che una grande parte della popolazione americana dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire.”.
“Molti anni a venire” , come riportato in post precedenti, viene da Nouriel Roubini e dai "miliardari invocanti tasse", quotato sulla prospettiva del decennio, magari non saranno proprio dieci anni, ma al momento le prospettive sono di crisi profonda e lunga. “Larga parte della popolazione” significa più che la maggioranza.
Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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Wolfgang Streeck: La bomba è l’Italia. La crisi dell’UE è imminente
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Fake news
A prescindere da come si valuti la reazione dell’Europa all’emergenza sanitaria e alla relativa crisi economica, la conferma della sua irrimediabile inadeguatezza o il segno di un nuovo inizio, occorre riconoscere che le iniziative intraprese sono circondate da una vera e propria coltre di notizie false.
Non corrispondono al vero i numeri che descrivono l’entità dell’assistenza finanziaria, perché si presentano come direttamente stanziate dall’Europa cifre che saranno eventualmente mobilitate dai fondi messi a disposizione. Esemplare quanto detto dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che ha parlato di uno sforzo complessivo di 2400 miliardi per contrastare la crisi: una dichiarazione cui ha reagito duramente il Parlamento europeo, che ha messo “in guardia la Commissione contro il ricorso a sortilegi finanziari e a dubbi moltiplicatori per pubblicizzare cifre ambiziose”[1].
E che dire del dibattito surreale sul cosiddetto Mes sanitario, che si ritiene possa essere attivato a condizionalità leggere: il solo “impegno a utilizzare questa linea di credito per sostenere il finanziamento nazionale dei costi diretti e indiretti per la sanità, le cure e la prevenzione”[2]. Certo, questa possibilità è stata confermata in una lettera del Vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e dal Commissario per l’economia Paolo Gentiloni[3]. E tuttavia questa lettera indica un impegno politico, e in nessun caso può prevalere su quello che dicono le regole giuridiche a proposito di Mes. I Trattati europei stabiliscono che esso fornisce assistenza finanziaria solo se “soggetta a una rigorosa condizionalità” (art. 136 Tfue), e lo stesso precisa il Trattato istitutivo del Mes, aggiungendo che le condizionalità “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite” (art. 12).
«Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la
tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita
alienata,
tanto più accumuli del tuo essere estraniato.»
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844.
Gli scritti di Jacques Camatte, regolarmente aggiornati, si possono trovare sul sito Invariance. Nato nel 1935, nel corso degli anni '50 e '60 è stato un importante teorico marxista radicale nell'ambito della sinistra comunista europea. Tuttavia, gli eventi del '68, in particolare in Francia, hanno fatto sì che si allentassero gradualmente quelli che erano i suoi rapporti con la sinistra comunista. Si era reso conto che l'umanità ora si trovava in un'impasse. Da parte del proletariato, non ci sarebbe stato alcun rovesciamento della borghesia, dal momento che tutta l'umanità era stata oramai «addomesticata» dal capitale. Ragion per cui, d'allora in poi qualsiasi rivolta organizzata contro il capitale avrebbe solo favorito ulteriormente il suo sviluppo. La sua tesi è quella secondo cui, anziché combattere il capitale (una strategia che, se «avesse successo», ci restituirebbe il capitale in una sua forma ancora più forte), dobbiamo, in qualche modo, abbandonarlo. Prendere congedo da questo mondo capitalista implica la ricomposizione dei legami con il mondo naturale... e non significa andare in guerra contro il capitale per spodestarlo.
L'abbandono di «questo mondo» (Questo mondo che bisogna lasciare) e di tutto ciò che esso rappresenta, inclusa l'umana inimicizia per tutte le cose (gli altri animali, le altre cose, gli altri esseri umani) - qualcosa che è diventato parte integrante della moderna psiche umana e che ci costringe a creare in continuazione delle situazioni di «battaglia» , o di discontinuità - darà l'avvio, egli sostiene, ad un processo che condurrà alla formazione di una comunità autenticamente umana, che sarà in continuità con la natura e con sé stessa.
In questi giorni di
offensiva per ottenere la richiesta del MES da parte
dell’Italia e di trattative in cui le nazioni della
disUnione europea si confrontano su
come affrontare la crisi economica conseguente al covid-19
potenziato da più di 10 anni di austerità, è bene tenere a
mente la
posizione strutturalmente debole dell’Italia. Tale debolezza
nasce dalla scelta di parte della classe politica e
praticamente della
totalità del capitalismo italiano di non prendersi la
responsabilità diretta di governare questo paese, ma di
governarlo attraverso il
‘vincolo esterno’. Più loro diventano minoritari nel paese,
più forte deve essere tale vincolo. Per loro è una
questione di sopravvivenza. Ecco perché sono così pericolosi
per il Paese.
L’articolo che segue presenta, commenta e integra uno studio sulla teorizzazione del ‘vincolo esterno’ e sul suo uso da parte di una ristretta tecnocrazia italiana per legare l’Italia all’Unione economica e monetaria europea, disfarsi del ceto politico della Prima Repubblica e sottomettere il ceto politico della seconda alle regole dell’Ue e dei mercati (il ‘pilota automatico’).
Se non indicato altrimenti, tutte le citazioni sono tratte dallo studio stesso.
Buona lettura
* * * *
Kenneth Dyson e Kevin Featherstone sono due studiosi inglesi. Il primo lavora presso l’Università di Cardiff. I suoi interessi si situano «nel punto di intersezione tra integrazione europea, economia politica comparata e storica e studi tedeschi». Il secondo opera attualmente presso la London School of Economics and Social Science. Il suo campo di ricerca ruota attorno «la politica comparata, la politica pubblica e l’economia politica.
Scene di giubilo stanno accompagnando la sottoscrizione dell’accordo sul Recovery Fund al termine di un maratona durante la quale si è plasticamente manifestata la vera natura dell’UE: un’unione di Stati rissosi, in feroce competizione tra loro, ove egoismi ed interessi particolari determinano alleanze a geometria variabile.
Disintegrata la narrazione sulla natura solidale ed inclusiva dell’UE, viene a galla in tutta evidenza il dispositivo coercitivo dell’architettura europeista che, attraverso il Recovery Fund, si dota di un ulteriore e potente strumento per imporre in maniera ancora più stringente quelle riforme strutturali (i famigerati “compiti a casa”) che solo qualche anno fa furono sperimentate sulla pelle della popolazione greca, con le conseguenze che tutti conosciamo.
A farne le spese il nostro paese e in generale i paesi del Sud Europa, a trarne giovamento la linea del rigore della Germania e dei cosiddetti paesi “frugali” che, formalmente capitanati dall’Olanda – uno Stato che ha costruito le sue fortune sul dumping fiscale ed oggi impartisce lezioni di rigore contabile – vedono levitare gli sconti sui contributi da versare al bilancio comunitario (i cosiddetti rebates).
Commentare i risultati elettorali di Unidas Podemos è sempre più difficile. Il punto di vista soggettivo conta e i numeri tendono a peggiorare. Molto è già stato scritto e altro si scriverà. Occorrerà valutare i flussi di spostamento fra i vari partiti per compiere un’analisi più accurata. In ciò che si dice ci sono delle verità: una cosa sono le elezioni autonome e un’altra quelle generali; gli esiti nei Paesi Baschi non sono gli stessi che in Galizia; le eterne lotte interne hanno influito pesantemente; UP ha perso la base sociale e le radici nel territorio; i governi autonomisti sono emersi rafforzati dalla crisi creata dalla pandemia. A tutto ciò si aggiunga il fatto singolare che il voto perso da UP non è andato al PSOE ma alla sinistra nazionalista, e che non sembra che la partecipazione al governo stia rafforzando il peso elettorale di UP [In questi giorni sono usciti due sondaggi che attribuiscono una forcella fra il 10 e il 12% al partito guidato da Pablo Iglesias].
I risultati sono stati descritti come una sconfitta assoluta e si raccomanda un’autocritica. Il mio punto di vista è leggermente diverso. Penso che i dati debbano essere valutati nella loro tendenza storica: confermano il declino elettorale di UP, la sua perdita di peso nei territori locali e la sua progressiva conversione in una forza minoritaria che cerca di far politica nell’area egemonizzata dal PSOE.
L’accordo economico venticinquennale tra Cina e Iran ha segnato l’ennesima debacle della politica estera statunitense, che oggi è diventata tutta il contrario del classico “divide et impera”. Moltiplicando artificiosamente i suoi nemici, l’imperialismo USA ne favorisce di fatto l’alleanza, per cui potenze minori possono allargare il loro spazio di influenza.
Le cialtronate di Trump c’entrano solo sino ad un certo punto, considerando che il candidato presidente che dovrebbe sostituirlo, Joe Biden, è anch’egli una figura inconsistente. La notte elettorale in cui si deciderà lo zimbello di turno della Casa Bianca nei prossimi quattro anni, sarà seguita in Italia con pathos e trepidazione ed ascolteremo Salvini o Zingaretti salutare la vittoria di Trump o Biden come propri trionfi personali. Ma questo è solo un ulteriore risvolto ridicolo della questione, il più marginale. Il punto vero è che il sistema USA sta da decenni tagliando l’erba sotto i piedi ad ogni possibilità di guida politica da parte dell’amministrazione centrale.
Per spiegare la maggiore lucidità strategica e tattica della Cina nei confronti degli USA, si può adottare come criterio di analisi quello classico del seguire i soldi.
Vi presentiamo un intervento di Jacques Sapir sui risultati dell’ultimo Eurogruppo, concentrandosi sulle divisioni ed i giochi di potere fra gruppi di paesi. Buona lettura
Il denaro non è la causa
Il dibattito si è concentrato sulla quantità di “sussidi” nel pacchetto di stimolo post-Covid. Qui dobbiamo ricordare la storia del “piano di risanamento” europeo. Frutto di una proposta franco-tedesca di 1.500 miliardi di euro, di cui 750 miliardi di sussidi, un importo che poteva già essere considerato insufficiente, il piano è stato riscritto dalla Commissione con una riduzione a 750 miliardi, di cui 500 miliardi di sussidi . Ciò che è stato appena deciso all’inizio del 21 luglio è un piano di 750 miliardi di euro di cui 390 in sussidi. Rispetto al progetto iniziale, vi è quindi una riduzione del 48% dell’importo delle sovvenzioni.
La posizione dei “frugali” era nota. Volevano che questi fondi fosse un prestito più che una sovvenzione a fondo perduto, e i prestiti dovevano essere rimborsati. Se doveva esserci un sussidio, doveva essere accompagnato da un fermo impegno da parte dei paesi che li hanno ottenuti per allinearsi con l’UE e attuare drastiche riforme strutturali.
Anteprima
– E’ in uscita nelle librerie Tondini di ferro e
bossoli di piombo. Una storia sociale delle Brigate rosse,
di Matteo Antonio
Albanese, Pacini editore. Il volume, che si ferma al 1974,
propone alcune importanti scoperte documentali e delle nuove
proposte interpretative che
faranno discutere. Ne ho parlato con l’autore.
* * * *
Alcuni anni fa il sociologo Pio Marconi scrisse che le Brigate rosse, attraverso la categoria di Stato imperialista delle multinazionali, avevano individuato con largo anticipo la fase di internazionalizzazione del modo di produzione e del mercato capitalistico, successivamente definito “globalizzazione”. Nel tuo lavoro aggiungi un fatto nuovo: sostieni che le Brigate rosse furono in assoluto le prime ad introdurre e descrivere il fenomeno della globalizzazione del sistema capitalistico. Puoi spiegare come sei giunto a questa scoperta?
Lessi alcuni dei lavori di Pio Marconi mentre preparavo il mio progetto di ricerca per l’ammissione al dottorato. Mi ricordo che in quei mesi avevo cominciato a leggere con un poco di attenzione le varie pubblicazioni, scientifiche e non, sul fenomeno brigatista. Vivendo, allora, a Milano mi sembrò naturale cominciare un giro dei vari luoghi della città in cui quella memoria era stata in qualche modo conservata.
La libreria Calusca e l’archivio Primo Moroni sono stati passaggi importanti per cominciare ad inquadrare il fenomeno. Nello specifico, però, fu una bancarella di libri alla festa de l’Unità il luogo dove trovai, ed acquistai, un paio di numeri di Sinistra Proletaria.
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Note a Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene
Nel
suo ultimo libro Quanto lucente la tua inesistenza.
L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene (Jaca
Book, 2018), Marco Maurizi
compie una serie di riflessioni che - aiutandosi con le
analisi di Marx, Rosa Luxemburg, Marcuse, Adorno e altri -
cercano di ripensare criticamente
l’esperienza ideale e storica del marxismo e del socialismo,
per provare a ridefinirne, nel presente, la sagoma. Il
socialismo non è
infatti qualcosa che è stato realizzato nel passato, quanto
piuttosto una “lucente inesistenza”, possibilità di una
società altra dal dominio capitalistico.
In questo scritto cercherò di evidenziare, in modo schematico, una serie di punti che ritengo importanti per la riflessione politica presente:
1) Il presente. Il panorama sociale e politico che ci troviamo di fronte è segnato da un lato dal prevalere globale del liberismo, come progetto politico e filosofico che lega insieme il determinismo del mercato alle libertà individuali; dall’altro da un sostanziale “arretramento della lotta al capitale” (p.19). Questo panorama politico prende una forma definita nel corso dagli anni Ottanta, momento in cui si afferma in modo netto la controrivoluzione liberale, a detrimento delle classi subalterne. La nuova fase, caratterizzata da un modello tecnocratico, quindi a-democratico, di governo non è semplicemente un “balzo indietro” che elimina le conquiste sociali della fase fordista, poiché è animata da un “nuovo spirito” che incide sulla composizione delle lotte sociali. Il capitalismo si fa più consumista, libertario, antiautoritario, ‘ribelle’ mentre il blocco antagonista è investito da due processi: di conversione (da antagonisti a neoliberali) e di frammentazione.
Ieri il Correre della Sera annunciava festosamente che ogni residente in Italia, nessuna e nessuno escluso, neonato o pensionato, nativo o migrante che sia, riceverà dalla UE 500 euro netti in virtù dell’accordo Next Generation UE.
Invece i “poveri” tedeschi e olandesi di euro dovranno pagarne quasi il doppio per aiutarci.
A chi ha un po’ di anni questa propaganda così sfacciata suggerisce strane associazioni con gli anni 1948 e successivi, quando la DC fondò la sua campagna contro le sinistre sugli aiuti che venivano dagli Stati Uniti.
Famigerato a sinistra, come simbolo di ingiustizia e miserabile ricatto, fu lo sfilatino che campeggiava in manifesti che spiegavano, ad un popolo affamato, che mangiava solo in virtù degli aiuti americani.
Questo mentre la polizia di Scelba e De Gasperi uccideva decine e decine di lavoratori, che lottavano proprio per avere una parte di quello sfilatino. Anche questo è stato il piano Marshall, i cui fasti e la cui ferocia vengono oggi rievocati con l’accordo sugli aiuti e i prestiti UE.
Su Repubblica Alberto D’Argenio scrive:
“… Tuttavia il freno d’emergenza strappato dall’olandese Rutte è un duro monitoraggio politico sulle riforme e una sorta di clausola di garanzia anti-Salvini. Se in Italia dovesse arrivare un governo antiliberale e antieuropeo, Germania e Francia avrebbero il peso per spingere Bruxelles a bloccare i fondi”.
Perfino Repubblica, non si capisce bene se felicitandosene o deprecandolo, si accorge del vulnus democratico che l’accordo comporta.
Qualcuno potrà rallegrarsi dell’esistenza di uno “scudo antifascista”, ma la realtà di fatto è che in Europa i risultati delle elezioni – quelli italiani in particolare data la ricattabilità del paese e la subalternità culturale dei nostri politici – valgono solo se conformi alle aspettative di Bruxelles e dei paesi egemoni, e ciò che vale oggi per Salvini & C potrà valere domani per l’indesiderato di turno (uno di questi, fino a poco prima del voto alla Van der Leyen, era il M5S).
Il nostro problema è il capitalismo, qualsiasi cosa esso sia diventato in questi anni. Esso si rafforza per via di un'accumulazione «originaria» che si compie tutti i santi giorni. Ho messo tra virgolette la parola origine perché è su di essa che ci si spacca la testa e ci si divide.
Si dice che l’origine delle nostre disgrazie vada cercata aldilà del nostro ambito cosiddetto sovrano. Lo si ripete con così tanta insistenza che ormai nessuno dubita della sua consistenza.
Come contestare che, per effetto di circostanze che non sto qui ad elencare, qualcosa come un ambito giurisdizionale, linguistico, fiscale, eccetera, divide gli operai e le operaie tra chi si trova di qua e chi di là dalle Alpi. E come contestare che, entro questi margini (giuridici, fiscali e linguistici), agisce una disciplina giuridica e fiscale diversa da quella che agisce fuori da questi margini. Come negare, per esempio – e gli esempi si accumulano di giorno in giorno -, come negare che all’indomani della Grande Recessione la Germania ha sfruttato un meccanismo fiscale (aumento dell’Iva) per rendere più a buon mercato le sue merci, rispetto a quelle di paesi concorrenti.
Con il primo contributo dell’analista Marco Ghisetti proseguiamo il nostro dibattito sul tema dell’Occidente. Ghisetti oggi espande le tematiche presentate nelle analisi precedenti e segnala il profondo legame tra qualsiasi tentativo di definire concettualmente gli “Occidenti” e l’inevitabile richiamo alla leadership statunitense
L’Europa è occidente e/o parte del mondo/civiltà occidentale? Questa domanda è solitamente declinata in senso “essenziale”. Ovvero, si definisce che cos’è essenzialmente “occidente” o il mondo occidentale; una volta definito, si controlla se l’Europa calza all’interno di tale definizione; in caso affermativo, si conclude che l’Europa lo è o che fa parte del mondo occidentale. Ora, dal 1945 in poi sono stati proposti diversi tentativi di definire l’essenza di “occidente”, concetto usato per indicare principalmente l’entità della collaborazione geopolitica USA-Europa. Tuttavia, nessuno di essi si è rivelato, almeno fino ad ora, pienamente soddisfacente o, per lo meno, esente da contraddizioni. In ogni caso, quello che si vuole sostenere con questo articolo è che ogni tentativo di definire “occidente” in senso essenziale è destinato a fallire poiché la nebulosità e contraddittorietà con cui questo concetto è stato storicamente adoperato è intrinseca ai e voluta dai rapporti di forza interstatali che si sono instaurati dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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Giulio Gisondi: Progresso, fede e censura nell’analisi politica della sinistra italiana
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“I molti inni che sentiamo in favore dell’accordo sul Recovery Fund sono in fondo sospiri di sollievo perché a questo giro quella crisi è stata evitata. Ma le caratteristiche stesse di questo accordo, e l’insensata decisione di non abolire bensì unicamente a sospendere i trattati prociclici ed economicamente depressivi posti in essere durante la crisi precedente (a cominciare dal fiscal compact), sono la migliore garanzia che presto o tardi si tornerà a ballare”
Raggiunto, dopo quattro giorni di lavori in
Consiglio europeo, l’accordo sul Recovery Fund.
Di cosa si tratta e, in realtà, cosa si è raggiunto e a cosa
si
allude quando si parla di successo e volta storica? Ѐ
davvero la panacea per risolvere i problemi legati alla più
grave crisi economica
dal dopoguerra, come fosse un novello piano Marshall? A mal
pensare in tal caso non si fa peccato, perché le tenaglie di
nuovi tagli per le
riforme che si dovranno mettere in atto con il Recovery Plan
sono una realtà legata alle condizionalità per ottenere i
fondi. Inoltre
è già appurato che la maggior parte dei fondi saranno a
debito e che il futuro dell’economia e dei rapporti con
l’Ue, non
sostenuti dal principio di solidarietà fra gli Stati membri,
non saranno un pranzo di gala. Su queste tematiche risponde,
nell’intervista
a seguire, il professor Vladimiro Giacchè,
illustre economista, saggista e filosofo. Presidente del Centro
Europa
ricerche a Roma. Autore di molti saggi
illuminanti sugli intricati snodi irrisolvibili e
irriformabili dell’Ue e sulla gabbia, in cui
siamo reclusi, dei Trattati che hanno smantellato le
Costituzioni e si sostanziano a favore delle politiche
neoliberiste in atto.
* * * *
D: Recovery Fund : si tratta di sovvenzioni a fondo perduto ma soprattutto di debito, quindi quali le differenze con il Mes che potrebbe anche essere implementato a seguire?
R: La differenza principale consiste nel fatto che non tutti i fondi del Recovery Fund sono nuovo debito. Il principale tratto in comune è la presenza di condizionalità attivabili. E, più in particolare, quella, pericolosissima, che lega – almeno potenzialmente – l’utilizzo di questi fondi all’ossequio alle manovre di “rientro dal debito” e simili “raccomandate” dalla Commissione europea. Chiunque critichi questo aspetto ha perfettamente ragione.
Andrea Zhok è professore di
Filosofia Morale, presso il Dipartimento di Filosofia
dell’Università degli Studi di Milano.
Il suo ultimo lavoro, Critica della ragione liberale,
pubblicato recentemente per i tipi di Meltemi, rappresenta
un’ulteriore tappa, se non quella decisiva, di un percorso
teorico unitario, di cui si possono rintracciare le
direttive nei lavori precedenti.
Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il concetto di
valore: dall’etica all’economia (Mimesis, 2002),
Lo spirito del denaro e
la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006), Libertà
e natura. Fenomenologia e ontologia dell’azione
(Mimesis, 2017),
Identità della persona e senso dell’esistenza
(Meltemi, 2018), e il pregiatissimo lavoro monografico L’etica
del
metodo. Saggio su Ludwig Wittgenstein (Mimesis 2001).
* * * *
Professor Zhok, la ringraziamo per aver accettato la nostra intervista. Prima di entrare nello specifico di questa conversazione, vorrei chiederle, che ruolo ha, oggi, la filosofia, e soprattutto in che modo l’attività filosofica è percepita dalla contemporaneità?
L’attività filosofica è percepita oggi in maniera piuttosto confusa e distorta. Non che si tratti di qualcosa di inedito. La filosofia è una “disciplina” intrinsecamente elitaria (come tutto ciò che richiede lungo studio), ma è spesso percepita come una mera variante dotta dell’opinionismo del senso comune. La difficoltà specifica dell’esercizio filosofico è per certi versi l’inverso di quanto accade in altri campi. Un filosofo non può essere semplicemente lo specialista di un campo.
Si è molto
discusso, sin dai giorni
immediatamente successivi al disastro del Ponte Morandi di
Genova, delle responsabilità di Aspi (Autostrade per l’Italia)
in
qualità di concessionaria. Aspi è una società per azioni,
posseduta, in gran parte, dalla famiglia Benetton, che
gestisce in
concessione, per l’appunto, molte delle autostrade italiane,
direttamente o tramite società controllate.
Con una concessione, lo Stato (o, in generale, una pubblica amministrazione) affida la gestione (e, se necessario, anche la costruzione) di una infrastruttura a una società privata. Quest’ultima, in cambio dei proventi derivanti dalla gestione (nel nostro caso soprattutto i pedaggi autostradali), si impegna a far funzionare tale infrastruttura secondo logiche e regole stabilite dalle leggi e dagli atti di concessione. Generalmente, la società concessionaria è anche responsabile della manutenzione dell’opera.
Aspi, dunque, gestiva (e ancora gestisce) quel tratto di A10 che comprendeva il Ponte Morandi, in parte disastrosamente crollato il 14 agosto del 2018, con 43 morti e oltre 500 sfollati.
Sin da subito, dicevamo, il Movimento 5 Stelle, all’epoca al governo con la Lega, dichiarò di voler ritirare le concessioni autostradali ai Benetton. Il 24 maggio ancora lo ribadiva, in maniera esplicita, il viceministro alle Infrastrutture Cancelleri. Nel Governo, però, non c’era accordo, perché i principali alleati del M5S, ovvero il PD e Italia Viva, si dicevano contrari al ritiro delle concessioni. Ciò anche in virtù del fatto che Aspi minacciava cause che avrebbero potuto comportare, per lo Stato, esborsi a nove zeri.
Un manuale per neofiti che mette in discussione argomenti poco noti o dati per scontati perché appartengono a quella sfera economica che i più considerano imperscrutabile, comprensibile solo agli “addetti ai lavori”, così Gaia Raimondi definisce il Trattato di economica eretica di Thomas Porcher, da lei stessa tradotto per i tipi di Meltemi.
Una definizione azzeccatissima, perché il libro di questo giovane economista francese di origine vietnamita è un pamphlet contro i luoghi comuni che l’economia mainstream spaccia per dogmi scientifici e, al tempo stesso, un “manuale di autodifesa” per consentire al comune cittadino di proteggersi dalla tambureggiante propaganda con cui partiti, media ed esperti di regime lo bombardano per indurlo ad accettare come inevitabili i continui peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro che gli vengono imposti.
Nella breve Premessa che ha scritto per l’edizione italiana di questo lavoro (che in Francia è un bestseller, visto che ha venduto decine di migliaia di copie, un risultato che ben pochi economisti, fra cui Thomas Piketty, possono vantare), Porcher aggiorna la sua requisitoria antiliberista ricordando che se la pandemia ha potuto mietere tante vittime è perché un ventennio di austerity ha imposto lo smantellamento della sanità pubblica, chiudendo ospedali e reparti e aggravando la cronica mancanza di risorse e personale.
Senza numeri, nessuno può dirlo. La telenovela autostradale continuerà per un altro anno, almeno
C'era grande attesa per la nuova puntata, trasmessa come sempre in differita su Canale Chigi: non è un Talk Show col dibattito sguaiato e gli ospiti a sorpresa, e neppure un Reality con i personaggi confinati da qualche parte.
La Telenovela è un genere televisivo che ha regole ben precise: il racconto non si conclude mai, se non per la decadenza fisica degli interpreti, che vengono via via rimpiazzati da nuovi commedianti. Ogni puntata dovrebbe essere quella decisiva, ma si conclude invariabilmente con un colpo di scena che rinvia ancora la soluzione… il pubblico deve rimanere in perenne attesa della puntata successiva.
Riepilogo della puntata precedente:
…Basta!, la pazienza è finita! Sono ormai due anni che si traccheggia dopo la Tragedia del Crollo del Ponte…
…si deve decidere sulla Revoca della Concessione, con la maggioranza spaccata…
Cari
compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
* * * *
Il primo piano quinquennale
Qualche anno più tardi, per la precisione nel 1926, accadde un altro fatto nuovo, a proposito di “enorme laboratorio a cielo aperto”, destinato non solo a essere determinante negli anni prossimi futuri, ma a modificare, per il mezzo secolo successivo e fino alla fine dell’URSS, l’idea stessa di emulazione socialista: nascevano le brigate d’assalto (ударные бригады) e, conseguentemente, coloro che ne facevano parte, ovvero gli assaltatori (udarniki ударники).
Il fenomeno è da inserirsi nel contesto di una rinnovata iniziativa da parte delle leve operaie più giovani, spesso komsomol’cy. Cominciarono i giovani assunti presso la stazione di manutenzione della linea ferroviaria Mosca-Kazan, dal giugno all’agosto del 1926, e la produttività della loro brigata fu maggiore del 25% rispetto alla media1. Seguì Leningrado, dove una brigata d’assalto fu costituita nella fabbrica di materie plastiche Krasnyj Treugol’nik, a opera di otto operaie, la cui squadra riuscì a passare da 17 a 28 calosce per operaia al giorno2. E così, gradualmente, nel giro di due anni anni questo fenomeno si diffuse un po’ a macchia di leopardo lungo l’area di tutta l’Unione.
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«Il
pezzo del cattivo E[ngels] che ha corrotto il buon M[arx]
dal 1844 si è alternato
innumerevoli volte con l’altro di Ahriman-M[arx], che ha
allontanato Ormuzd-E[ngels] dalla strada della virtù».
Lettera di Engels a Eduard Bernstein, del 23 aprile 1883.
1. “Marx sì, Engels no”: le idiosincrasie del revisionismo
Chiunque esplori la letteratura marxista dei duecento anni successivi alla nascita di Friedrich Engels non può non restare colpito dalla presenza, pressoché ininterrotta e più o meno accentuata secondo i periodi e le aree politico-culturali, di una sindrome che può essere qualificata con il termine di antiengelsismo. Il presente articolo si propone di individuare le molteplici forme sotto cui si è manifestato il rifiuto (parziale o totale) nei confronti della impostazione del materialismo storico e dialettico, che ha caratterizzato, sempre con il pieno e a volte entusiastico consenso di Marx, il lavoro teorico di Engels.
Il primo elemento da valutare è che la causa principale dell’antiengelsismo fa leva sulla presunta incompatibilità del marxismo-leninismo rispetto agli sviluppi della scienza e, attraverso la mediazione dello ‘stalinismo’, fa risalire tale incompatibilità sino ad Engels. Per demistificare questo tipo di antiengelsismo è sufficiente mostrare l’impossibilità di separare il pensiero di Marx da quello di Engels. A questo riguardo, è anche opportuno porre rimedio ad una certa ingiustizia storica per quanto concerne la parte di Engels nella classica diade Marx-Engels. In effetti, a forza di porre, per così dire, ‘a priori’ una sorta di unità indifferenziata tra i due fondatori del socialismo scientifico, si è finito col mettere in ombra, dal punto di vista filosofico, la parte di Engels (nel mentre è ormai pienamente consacrato dalla storia del movimento operaio internazionale il suo enorme apporto politico e ideologico, oggetto peraltro di numerosi studi).
Negli Stati Uniti è appena
iniziata una crisi inedita e multiforme, e sarebbe lecito
attendersi che i nostri acuti pensatori
cogliessero l'occasione per offrire risposte coraggiose e
originali. Di fronte alla reazione popolare di rifiuto del
razzismo, all'infuriare di un
virus che semina morte, alla catastrofe del sistema
bipartitico e a quella che è soltato la prima ondata di un
disastro economico senza
precedenti, saremmo indotti a sperare nella formulazione di
soluzioni radicali, in grado di rispondere a sfide altrettanto
radicali.
Al contrario, molti dei più influenti pensatori della sinistra statunitense ci stanno propinando del tè annacquato - un'improbabile serie di risposte tiepide, trite e scontate. Dopo le micidiali purghe anticomuniste attuate negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, i movimenti dei lavoratori, per la pace, per l'eguaglianza razziale e delle donne e per la giustizia economica sono stati incatenati a forza alle ideologie anarchica, liberale e socialdemocratica. Di conseguenza, il «marxismo» anticomunista occidentale può entrare nel dibattito soltanto se depurato da qualsiasi aspirazione al socialismo. E di socialismo si può discutere soltanto prescindendo dalle idee fondamentali di Marx e Lenin.
Il «marxista» forse più noto negli Stati Uniti è il professor Richard D. Wolff. Nel corso della sua carriera ha contribuito attivamente a far conoscere Marx e il marxismo. È il punto di riferimento scontato a cui si rivolgono i media quando sono in cerca di un «marxista» accessibile ed eloquente. Purtroppo, non sempre notorietà e accessibilità costituiscono una garanzia di chiarezza o di una visione coraggiosa.
Il professor Wolff ravvisa giustamente nel momento attuale - questa inedita combinazione di disastri biologici, economici, sociali e politici - un'occasione irripetibile di cambiamento. In un recente articolo (How Workers Can Win the Class War Waged Against Them, Counterpunch, 19-6-2020), Wolff offre una breve ma attendibile ricapitolazione degli eventi essenziali che hanno condotto al momento attuale, sottolineando il ruolo fondamentale della classe operaia per il suo superamento.
In un’intervista a Fox News, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dichiarato che non ama perdere e che, in caso di vittoria dell’avversario democratico Joe Biden alle presidenziali del 3 novembre, potrebbe anche non riconoscere il risultato. Poi ha definito l’avversario, che i sondaggi danno in vantaggio di 15 punti, un vecchio instabile “mentalmente distrutto”.
Una bella battaglia fra dementi, vien da dire leggendo il libro di Mary, la nipote di Trump, che definisce lo zio “un narcisista sociopatico”. Di sicuro un esempio di quel che in concreto sia la democrazia modello USA, un sistema lobbistico che consente anche agli spostati mentali di diventare presidenti della repubblica, sempreché abbiano il portafoglio pieno, o siano funzionali agli interessi preponderanti del mercato.
Le affermazioni bellicose di Trump non sono da prendere come una delle tante battute, ma come una possibilità concreta di eludere con la truffa, l’arroganza e la politica dei fatti compiuti, le leggi statunitensi, così come sta facendo con le norme internazionali.
Un guasto tecnico di Google ha chiuso per alcune ore agli utenti alcuni siti della destra repubblicana Usa. Per alcune ore sono stati oscurati Infowars, Breitbart, The Daily Caller, Newsbusters, The Bongino Report, Human Events, e l’aggregatore di notizie the Drudge Report.
L’incidente ha suscitato domande sull’esistenza di una lista nera all’interno del motore di ricerca, dato che un guasto tecnico non colpisce in maniera tanto mirata.
E segue quanto emerse nella temperie di un attacco hacker della scorsa settimana, quando degli hackers hanno violato l’account Twitter di eminenti personalità americane, in un’apparente frode: hanno chiesto ai follower di queste persone delle donazioni in bitcoin.
In questa temperie, appunto, gli hackers hanno abbandonato nel web l’immagine di uno strumento di controllo del sistema, ad uso dunque dei tecnici del gigante della comunicazione, nel quale, accanto ad alcuni tasti, spicca quello con la dicitura “blacklist”. Ovviamente non c’è certezza della sua autenticità, ma nessuno può controllare i segreti di Twitter per aver conferme o smentite….
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Il capitalismo assoluto necessita di catalizzatori di consenso per conservare l’espansione imperiale. Le disparità e l’immobilismo sociale, gli effetti irreversibili dello sfruttamento del pianeta, a cui si associa la proletarizzazione culturale ed economica di fasce sempre più ampie della popolazione, sono la verità del sistema capitale da occultare mediante il mito del progresso; l’emancipazione femminile è parte della inarrestabile narrazione del progresso. E’ interpretato in senso unidirezionale, è la liberazione da ogni vincolo etico e legame comunitario. L’ostracismo culturale verso qualsiasi forza katechontica1 capace di segnare il limite al desiderio ed al consumo rivela la verità del capitale: l’illimitato. La figura maschile si identifica nella cultura occidentale nella forza razionale capace di dare forma, limite ed ordine al reale. Ulisse nell’Odissea è il simbolo vivente della razionalità ordinatrice contro gli eccessi della smoderatezza: l’episodio dei Proci con cui si confronta nel suo ritorno ad Itaca è paradigmatico di ciò, i Proci non solo ambivano al trono di Ulisse, ma ne dilapidavano i beni. Ulisse riporta la legge della ragione e della misura dove regna la hybris2.
Non me la sento, stavolta, di essere troppo critico con Conte. Ha agito in posizione di estrema debolezza, sostenuto fino a un certo punto da un Macron ambiguo, contro un fronte di Paesi frugali dietro i quali si muoveva, in realtà, la Germania, interessata ad ottenere ciò che poi ha ottenuto: un controllo politico totale delle "riforme" dei Paesi mediterranei prenditori. Prova ne è il fatto che la Merkel ha accettato immediatamente il principio di un controllo dei piani nazionali in Consiglio Europeo, cioè da parte dei capi di Stato, non appena è stato formulato da Rutte. E da lì non ci si è più mossi, se non per piccole ed insignificanti tecnicalità utili a non umiliare troppo Conte, che ha dovuto lottare contro il suo stesso Paese. Frotte di europeisti italiani che devono brillanti carriere a posizionamenti nell'amministrazione e nei giornali filo-Ue avevano iniziato ad impallinarlo già sabato sera: un editoriale vergognoso di Feltri sull'Huffington Post, a trattative ancora aperte, accusava gli italiani di essere degli spendaccioni irresponsabili e di volersi prendere i soldi altrui senza alcun controllo. Esattamente le posizioni antitaliane di Rutte. Roba da alto tradimento.
Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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Con un’appendice filosofica su Covid-19, dialettica e altro
L’euro stesso è
stato impostato – e continua ad essere gestito – in una
maniera sostanzialmente
neoliberista
Al di là di procedure come quelle previste dal Sixpack e dal “fiscal compact”, l’eurozona stessa, per come è stata gestita sino ad ora, è divenuta uno strumento che funziona in pratica ai danni dei lavoratori. Si tratta di una questione di una certa complessità tecnica, ma se descritta con cura non ha niente di incomprensibile, neanche per chi non abbia minimamente fatto studi di economia.
È un meccanismo che opera in parallelo col fatto che le specifiche deregolamentazioni dei mercati previste dal Fondo monetario internazionale (Fmi) nei suoi “piani di aggiustamento strutturale” e più in generale la globalizzazione neoliberista (praticamente priva di regole di tipo sociale, ambientale e giuridico secondo appunto i dettami del neoliberismo) sono diventate un’occasione per scatenare un’estrema concorrenza economica internazionale tra i vari paesi, con un effetto di gran lunga predominante: lo spostamento dei capitali e degli investimenti – e non di rado anche delle attrezzature stesse, attraverso le delocalizzazioni – verso i paesi dove vi sono una minore sindacalizzazione dei lavoratori e soprattutto minori costi di produzione (p.es. per i salari, per le protezione ambientale e per la tassazione) e dove, quindi, si possono ottenere profitti più alti e meno soggetti a contestazioni sociali e politiche. A causa di questo, i paesi con salari più elevati, lavoratori più sindacalizzati, protezioni ambientali più corpose e un fisco meno sensibile agli interessi delle élite economiche sono praticamente destinati a perdere delle attività produttive in modo più o meno costante, a meno che non sappiano offrire grossi vantaggi di altro tipo alle imprese (p.es., un sistema produttivo meglio organizzato, dei lavoratori più efficienti e preparati, pubbliche istituzioni più pronte a collaborare creativamente col settore privato, e così via).
La proposta
di Recovery Fund,
poi Next Generation EU (NGEU), della Commissione europea
guidata da Ursula von der Leyen, dopo quattro giorni di
discussione in seno al Consiglio
europeo ha trovato il suo sbocco nell’accordo
del 21 luglio, firmato dai rappresentanti dei Paesi
dell’Unione europea.
Il piatto forte dell’accordo è un piano per la ripresa economica che potrà arrivare fino a 750 miliardi di euro. Una volta raccolte sul mercato, queste risorse saranno erogate ai Paesi dell’Unione nella somma di 390 miliardi sotto forma di contributi a fondo perduto (che, in altri termini, non dovranno quindi essere restituiti direttamente dai Paesi che li otterranno), e sotto forma di prestiti per 360 miliardi.
L’accordo, che si inserisce nel più ampio quadro finanziario pluriennale 2021-2027, è stato esaltato dai media italiani come un grande trionfo per il governo Conte, ma anche come una sorta di “rivoluzione” che segna la nascita di una nuova Unione europea, finalmente più vicina ai cittadini dei suoi Paesi. Un rinsaldamento dell’unione politica, evidenziato, in particolare, dal fatto che l’Unione si indebita ‘in prima persona’.
Come si vedrà, e come, peraltro, era ampiamente prevedibile, la realtà è ben diversa. Da un lato, infatti, i nuovi aiuti europei, soprattutto se considerati al netto dei contributi che i Paesi beneficiari devono, a loro volta, versare, sono poco più di un pannicello caldo. Ben poca roba davanti a quella che si annuncia come la più profonda crisi economica dall’ultimo dopoguerra. Dall’altro, cosa ancor più grave, vengono rafforzati e affinati quei meccanismi di controllo e di imposizione dell’austerità che hanno da sempre caratterizzato, in maniera via via più invasiva, la storia dell’integrazione europea, con un portato di disoccupazione, disagio sociale e precarietà per descrivere il quale non si può far altro che parlare di disastro.
Quello che segue è il capitolo 15.4 di A. Pascale, Il totalitarismo liberale. Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale, La Città del Sole, Napoli 2018, pp. 438-442. Con il presente scritto continuiamo (per recuperare gli scritti precedenti si veda qui), in anteprima per Marx21.it, la pubblicazione del capitolo finale dell'opera, in cui dopo aver posto le premesse analitiche, si cerca di trarne alcune conclusioni politiche. Il presente scritto tiene conto implicitamente anche delle analisi svolte sulla Cina e sul cosiddetto “terzo mondo” presenti nella Storia del Comunismo
La
“questione cinese” assurge oggi
alla questione teorica principale che nel suo complesso la
società occidentale, compresa buona parte del movimento
comunista corrispondente,
deve ancora essere affrontare in maniera adeguata. Segnalo
anche che nel 2018 è uscita un'opera di Sidoli, Burgio, Leoni,
intitolata
significativamente Piaccia o no: il
Dragone scavalca l'America, in cui si riporta con dati
alla mano l'avvenuto sorpasso della Cina sugli USA in campo
scientifico ed economico,
seppur non ancora sul piano militare. La crisi post-Covid sta
accelerando rapidamente il divario tra la Cina e
l'imperialismo occidentale, colpito da
recessioni apocalittiche. Per il popolo italiano diventa
prioritario comprendere che esiste un'alternativa al
fallimentare modello
capitalista-liberista, e qualunque modello alternativo di
transizione si scelga (capitalismo di Stato in una rinnovata
“economia mista” in
stile “Prima Repubblica”, o come sarebbe più augurabile il
socialismo) il progresso e lo sviluppo passano necessariamente
dallo
sganciamento dalla NATO e dall'UE, sviluppando relazioni con
paesi che hanno interesse reale e concreto al benessere
dell'intera umanità.
Questo è il caso della Cina, con cui l'Italia può costruire
una nuova prospettiva di sviluppo aderendo organicamente al
progetto della
“nuova via della
Seta”.
Deve essere chiaro a tutti, in primo luogo ai comunisti, che la Cina non può essere considerata un paese “imperialista” o “capitalista”, bensì un modello “socialista” le cui caratteristiche peculiari (le “caratteristiche cinesi”) affondano pienamente nella tradizione politica e teorica del movimento comunista internazionale, e in primo luogo nella lezione leninista. Non ci si può più permettere di essere ambigui.
Introduzione
L'obiettivo di questo lavoro è studiare la pianificazione economica stalinista in vigore in URSS dalla fine del NEP (Nuova politica economica) e in Europa orientale (ad eccezione della Jugoslavia) dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il metodo utilizzato per questo scopo è la prospezione storica basata sulla letteratura sull'argomento. I risultati ottenuti mostrano che il modello stalinista deriva dalle condizioni post-rivoluzionarie dell'URSS, essendo contraddistinto dalla centralizzazione delle principali decisioni e risorse economiche del paese al fine di superare il ritardo nello sviluppo delle forze produttive. Le conclusioni che abbiamo raggiunto rivelano che questo modello era funzionale come strategia per superare il sottosviluppo, ma la sua funzionalità si è esaurita non appena è stato necessario un cambiamento nel modello di crescita economica, dalla crescita estensiva alla crescita intensiva.
Per raggiungere il suo obiettivo, questo lavoro è diviso in sezioni. La prima riguarda la giustificazione teorica della necessità di una pianificazione economica nell'ambito del socialismo. La seconda presenta lo sfondo storico che ha permesso l'emergere di un tale modello. La terza presenta le principali caratteristiche del modello. La quarta mostra come il modello ha funzionato in pratica e l'ultima porta alcune conclusioni al lettore.
La necessità di un'economia pianificata sotto socialismo
La transizione al socialismo è una questione alquanto controversa. Karl Marx una volta disse: "Non ho mai costruito un "sistema socialista”". Mentre sfuggiva al metodo di Marx di elaborare schemi idealizzati sulle società future, nei suoi scritti rese poco esplicito come sarebbe stata la costruzione della nuova socialità socialista, aprendo la possibilità a diverse interpretazioni di emergere in questo vuoto.
1.
Si discute in Europa di Recovery Fund come possibile
strumento per fronteggiare la grave crisi economica e sociale
avviata dall’emergenza Covid-19 e uno dei
motivi del contendere è la riluttanza dei cosiddetti paesi
“frugali” a concedere prestiti a fondo perduto ad alcuni paesi
mediterranei, considerati troppo spendaccioni. L’Italia guida
la classifica di questi paesi, da mettere “sotto osservazione”
secondo
quanto dichiarato più volte dal premier olandese Rutte e dal
premier austriaco Kurz.
Con l’accordo del 21 luglio viene definito, dopo un serrato confronto, il programma che segna la nuova politica fiscale europea, con 750 miliardi di fondi, ma con una riduzione dei sussidi a fondo perduto: saranno 390 i miliardi anziché 500, il resto in prestiti. L’accordo prevede anche una riduzione del bilancio dell’Unione per il 2021-2027 che viene rifinanziato per 1.074 miliardi: una cifra contenuta rispetto al budget 2014-2020 e alle proposte che erano in discussione prima della pandemia.
Per quanto riguarda l’Italia, grazie ai nuovi criteri di allocazione delle risorse, al nostro Paese spetterà un ammontare di fondi superiore a quello previsto a fine maggio: 209 miliardi di euro, circa 82 di sussidi a fondo perduto e 127 di prestiti (rispetto ai circa 90 inizialmente previsti). Il piano di spesa prevede l’impegno del 70% delle risorse nel biennio 2021-2022 e il restante 30% entro la fine del 2023. I prestiti dovranno essere rimborsati un anno prima rispetto alla bozza della Commissione, tra il 2027 e il 2058.
Il rapporto sussidi / prestiti si riduce allo 1,1[1]. Per l’Italia, il rapporto sovvenzioni/prestiti si riduce notevolmente rispetto alla media europea arrivando a 0,64, a riprova di come il nostro paese, considerato meno affidabile, si trovi già in una situazione penalizzata.
La pandemia doveva essere occasione per comprendere l’importanza di una “riconversione ecologica e sociale” del sistema tecnico ed economico. Ma il mondo spinge per ripartire come prima. Senza una riflessione profonda sulle inefficienze e le irrazionalità strutturali dell’attuale capitalismo
Stiamo forse perdendo la nostra ultima grande
occasione per uscire non solo dalla pandemia, ma dalla
ben più grave e drammatica crisi
ambientale (che stiamo dimenticando, ma che è
sempre lì, attorno e davanti a noi)? Davvero possiamo dire che
la pandemia
è stata un “inciampo della storia”, facendo come Benedetto
Croce che diceva: “Heri dicebamus“, così
salutando la fine del fascismo?
“Ieri dicevamo” voleva significare, per il filosofo, che il discorso collettivo, politico e sociale andava ripreso esattamente dal punto dove lo aveva interrotto la “parentesi” mussoliniana, dimenticando che il fascismo non era stata una “parentesi”, ma qualcosa di assai più profondo (Piero Gobetti aveva scritto, vent’anni prima, che era “l’autobiografia della nazione”; oggi possiamo anche dire che è l’autobiografia non solo dell’Italia). Davvero oggi possiamo riprendere il discorso dell’economia e della tecnica esattamente dal punto dove lo ha interrotto il coronavirus?
Invece di una continuità, ci servirebbe una discontinuità con il passato. La pandemia – lo abbiamo scritto più volte anche su queste “pagine” – poteva (anzi: doveva) essere l’occasione per ripensare profondamente e radicalmente il nostro sistema produttivo e consumistico che dura ormai da tre secoli, che sembra sempre diverso ma che è sempre uguale a se stesso, che è capace di trasformarsi incessantemente trasformando incessantemente uomini e società (purché non lo si metta in discussione), ma che è incapace di uscire dalle proprie contraddizioni. Che non risolveremo certo con un “heri dicebamus”.
Anteprima
– E’ in uscita nelle librerie Tondini di ferro e
bossoli di piombo. Una storia sociale delle Brigate rosse,
di Matteo Antonio
Albanese, Pacini editore. Il volume, che si ferma al 1974,
propone alcune importanti scoperte documentali e delle nuove
proposte interpretative che
faranno discutere. Ne ho parlato con l’autore.
* * * *
Alcuni anni fa il sociologo Pio Marconi scrisse che le Brigate rosse, attraverso la categoria di Stato imperialista delle multinazionali, avevano individuato con largo anticipo la fase di internazionalizzazione del modo di produzione e del mercato capitalistico, successivamente definito “globalizzazione”. Nel tuo lavoro aggiungi un fatto nuovo: sostieni che le Brigate rosse furono in assoluto le prime ad introdurre e descrivere il fenomeno della globalizzazione del sistema capitalistico. Puoi spiegare come sei giunto a questa scoperta?
Lessi alcuni dei lavori di Pio Marconi mentre preparavo il mio progetto di ricerca per l’ammissione al dottorato. Mi ricordo che in quei mesi avevo cominciato a leggere con un poco di attenzione le varie pubblicazioni, scientifiche e non, sul fenomeno brigatista. Vivendo, allora, a Milano mi sembrò naturale cominciare un giro dei vari luoghi della città in cui quella memoria era stata in qualche modo conservata.
La libreria Calusca e l’archivio Primo Moroni sono stati passaggi importanti per cominciare ad inquadrare il fenomeno. Nello specifico, però, fu una bancarella di libri alla festa de l’Unità il luogo dove trovai, ed acquistai, un paio di numeri di Sinistra Proletaria.
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Note a Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene
Nel
suo ultimo libro Quanto lucente la tua inesistenza.
L’Ottobre, il Sessantotto e il socialismo che viene (Jaca
Book, 2018), Marco Maurizi
compie una serie di riflessioni che - aiutandosi con le
analisi di Marx, Rosa Luxemburg, Marcuse, Adorno e altri -
cercano di ripensare criticamente
l’esperienza ideale e storica del marxismo e del socialismo,
per provare a ridefinirne, nel presente, la sagoma. Il
socialismo non è
infatti qualcosa che è stato realizzato nel passato, quanto
piuttosto una “lucente inesistenza”, possibilità di una
società altra dal dominio capitalistico.
In questo scritto cercherò di evidenziare, in modo schematico, una serie di punti che ritengo importanti per la riflessione politica presente:
1) Il presente. Il panorama sociale e politico che ci troviamo di fronte è segnato da un lato dal prevalere globale del liberismo, come progetto politico e filosofico che lega insieme il determinismo del mercato alle libertà individuali; dall’altro da un sostanziale “arretramento della lotta al capitale” (p.19). Questo panorama politico prende una forma definita nel corso dagli anni Ottanta, momento in cui si afferma in modo netto la controrivoluzione liberale, a detrimento delle classi subalterne. La nuova fase, caratterizzata da un modello tecnocratico, quindi a-democratico, di governo non è semplicemente un “balzo indietro” che elimina le conquiste sociali della fase fordista, poiché è animata da un “nuovo spirito” che incide sulla composizione delle lotte sociali. Il capitalismo si fa più consumista, libertario, antiautoritario, ‘ribelle’ mentre il blocco antagonista è investito da due processi: di conversione (da antagonisti a neoliberali) e di frammentazione.
Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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In questo
periodo nell'area politica che frequento maggiormente c'è
grande fermento,
volano stracci e qualche coltellata.
Il grande tema è dato dalla comparsa sul terreno di un’aspirante forza politica, guidata dall'ex direttore della Padania e vicedirettore di Libero, sen. Gianluigi Paragone.
Il manifesto politico e scritto da mani capaci, e, per quanto semplicistico, tocca tutti i punti giusti nell'area di riferimento. Tuttavia più del manifesto, il cuore della proposta sta in ciò che viene comunicato dalla scelta stessa del nome: ITALEXIT, l’uscita dell’Italia dall’UE.
La fibrillazione nell'area politica di riferimento (oscillante tra 'sinistra euroscettica' e 'destra sociale') è manifesta. Il senso politico dell’operazione è piuttosto chiaro: esiste una fascia di elettorato rimasto politicamente orfano dopo che nella Lega l'europeismo di Giorgetti ha messo all’angolo l'area Borghi-Bagnai, e dopo che l'esperienza di governo ha mitigato l’euroscetticismo del M5S.
Il progetto di ITALEXIT sta nel chiamare a raccolta quest’area di malcontento in uscita da Lega e M5S, con numeri sufficienti da superare le soglie di sbarramento alle prossime elezioni politiche, portando qualcuno (a partire dal sen. Paragone) in Parlamento.
L'operazione è politicamente legittima e può avere successo.
Intorno a questa operazione, al suo retroterra e ai suoi concreti sbocchi si è acceso un rovente dibattito. Conformemente al modo di porsi del nuovo partito, la discussione si è immediatamente fatta incandescente intorno al tema dell'Italexit, con un ritorno in grande stile delle accuse di "altroeuropeismo".
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Nonostante le
perplessità della vigilia, l’assemblea degli spolpatissimi
soci della
Popolare di Bari ha approvato, con una maggioranza bulgara del
97%, il piano di rilancio della banca proposto dai Commissari
straordinari che prevede,
innanzi tutto, la sua trasformazione in SpA.
Come noto, il salvataggio è stato possibile grazie ad una ricapitalizzazione pari a circa 1,6 miliardi di euro che saranno sborsati dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (che in sostanza coprirà le perdite pregresse che ammontano a quasi 1,2 miliardi di euro) e da Mediocredito Centrale che con circa 430 milioni di euro otterrà il 97% del capitale della nuova banca.
L’ennesimo intervento del Fitd (che è alimentato dalle contribuzioni di tutte le banche operanti nel nostro paese, quindi da risorse in larga misura private), di gran lunga il più oneroso della sua storia, non deve certo essere scambiato per un atto di generosità verso un concorrente in grave difficoltà. Occorre ricordare infatti che in caso di fallimento della banca, il Fondo avrebbe comunque dovuto intervenire a tutela dei depositanti (sino a 100mila euro) con un esborso decisamente superiore e non facilmente digeribile per il sistema.
Mediocredito Centrale, invece, tramite Invitalia, è partecipato al 100% dal Ministero dell’Economia. Di conseguenza, la nuova Popolare di Bari è ora di proprietà pubblica (o meglio statale).
Naturalmente, rimangono in campo gli strascichi giudiziari della vicenda (fra pochi giorni dovrebbe partire il processo agli Jacobini, padroni incontrastati della banca per quarant’anni e ora accusati di una lunga lista di capi di imputazione) e la rabbia dei risparmiatori “traditi” che in questo caso, salvi gli obbligazionisti, sono i circa 70mila soci restati sostanzialmente con mucchi di carta straccia in mano.
Una lettura del libro di Shoshana Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza” (Luiss Univ. Press, 2019)
La scoperta e la
cattura del «surplus comportamentale»
Il capitalismo della sorveglianza ha poco più di una decina d’anni, ma la sua proliferazione è stata tanto rapida da aver imposto come ineluttabile trasformazione storica un racconto che avrebbe potuto avere un altro esito. Ha anche un padre certificato: Google.
All’inizio c’è un semplice motore di ricerca, i cui sviluppatori, Sergey Brin e Larry Page, sono due fra i molti «tipi svegli incapaci di fare profitti» della Silicon Valley: hanno un ottimo algoritmo, ma non ci guadagnano. Nel 2002 esplode la “bolla del dot.com” e la breve promessa di paradiso della new economy si capovolge in un inferno di fallimenti aziendali. A quel punto la scelta è tra morire o sopravvivere a qualsiasi costo: in soli cinque anni gli introiti di Google crescono del 3.590%. Brin e Page avevano scelto la seconda strada.
Il salto di qualità è consistito nell’associare la pubblicità non alle query, ma agli utenti (targeted advertising), arrivando a quella pratica di pubblicità individualizzata e onnipervasiva cui ormai abbiamo fatto l’abitudine. Ciò che è nuovo non è naturalmente l’idea della pubblicità orientata al consumatore, che è da sempre l’ambizione di ogni pubblicitario, quanto la potenza e l’intrusività degli strumenti a disposizione per la profilazione degli utenti, che è premessa necessaria alla targetizzazione. La pubblicità, dice Zuboff, da arte è diventata scienza.
Questa pratica di profilazione è però molto diversa da come intuitivamente ce la raffiguriamo: agisce sempre a lato e obliquamente, in sottofondo e oltre la superficie delle informazioni esplicitamente cercate e fornite.
Uno degli avvenimenti più importanti all’interno del capitalismo italiano, nella sua fase più recente, è l’acquisizione di UBI, la terza banca italiana per capitalizzazione di borsa, da parte della prima banca, Intesa Sanpaolo. Questa aggregazione rafforzerà ulteriormente il carattere oligopolista del credito, concentrando ulteriormente il potere bancario in poche mani. Nasce, in questo modo, uno dei più grandi colossi bancari europei, con un obiettivo di utile non inferiore a 5 miliardi nel 2022 e con quote di mercato in Italia di circa il 20% in tutti i settori di attività.
Come abbiamo avuto modo, riprendendo Lenin, di osservare in un precedente articolo sull’imperialismo italiano, la centralizzazione del capitale, sotto forma della fusione o della acquisizione tra imprese diverse, che arriva fino alla costituzione di monopoli e oligopoli, è una tendenza tipica che si manifesta di nuovo in modo marcato nel capitalismo contemporaneo. Ciò vale, a maggior ragione, per il credito, in quanto la banca è un elemento fondamentale dell’accumulazione del capitale in generale, e, in particolare, nella sua fase imperialistica, nella quale si realizza l’integrazione tra impresa industriale e banca.
Per quale motivo il neoliberismo ha progressivamente vinto e convinto negli ultimi quarant’anni in tutte le maggiori democrazie occidentali?
Per quali ragioni si è imposto come prassi di governo planetaria, senza vere forme di opposizione capaci di metterne in crisi le fondamenta? Da dove trae origine la sua forza e la sua legittimità?
Perché in fondo, aldilà degli slogan e delle facili esaltazioni passeggere dei movimenti no-global e Occupy Wall Street, non sorge una vera alternativa sistemica all’antropologia di homo oeconomicus, la quale sta mostrando sempre più tutta la sua distruttività e i suoi limiti?
Il tentativo di elaborare una risposta a questi interrogativi mi sembra conduca verso la comprensione del fatto che il neoliberismo non è semplicemente una teoria economica, o una filosofia, né solamente una prassi di governo. La natura complessa di questo fenomeno è da interpretare anzitutto come un’esplicazione operativa di una struttura profonda del nostro modo di essere umani, che appartiene a tutti noi e che contribuiamo a formare con le nostre idee e prassi, con le nostre scelte e omissioni.
In questa strana epoca di transizione, dominata da crisi di vario tipo e varia intensità, una categoria che viene a mancare clamorosamente, in quanto a capacità di interpretare e indirizzare lo “spirito dei tempi”, è quella degli artisti. Intendiamoci, non tutti; alcuni mantengono la schiena dritta, ci sono esempi in tutti i campi della creatività umana. Ma la grande massa degli artisti, specie quelli attivi nei settori più popolari – musica, cinema, letteratura – è clamorosamente lontana da una partecipazione intellettuale, prima ancora che politica, al tempo che stiamo vivendo. Una mancanza che non si era mai vista, in queste quantità, nell’Occidente moderno.
Abbiamo assistito a “concerti” in streaming, un modo penoso di esibirsi dal vivo, con artisti lontani centinaia, se non migliaia, di chilometri l’uno dall’altro, suonare o cantare la propria parte davanti a una webcam. E l’hanno fatta passare per una figata, un colpo di genio al quale ovviamente tutti i “big” hanno dovuto, ben volentieri, prestarsi. Abbiamo visto icone della “trasgressione” esibirsi felici in pantofole nel lussuoso salotto di casa, compatti nel lanciare il messaggio di seguire con rigore le indicazioni delle autorità.
Nei giorni scorsi un tweet di Elon Musk ha fatto il giro del mondo, quello in cui, riguardo al golpe del litio in Bolivia, ha detto: “Spodesteremo chiunque vogliamo! Accettalo”. E siccome Musk, in quanto creatore della Tesla, al litio boliviano, necessario per le batterie ci tiene spasmodicamente come del resto ormai tutta l’industria automobilistica mondiale, la frase è suonata in sostanza come la confessione di essere stato uno degli ispiratori e concretizzatori del colpo di stato (ormai “testimoniato” persino dal Washingon Post) contro Evo Morales colpevole di voler fare partecipare anche il popolo boliviano agli utili delle immense riserve di litio del Paese andino. Ma immaginiamo per un momento e giusto per gioco che qualcuno avesse accusato Musk di essere stato uno dei burattinai del golpe boliviano: apriti cielo, si sarebbe attirato addosso l’accusa di complottismo o magari come è ormai moda dei più imbecilli e ignoranti tra i chierichetti del potere, di terrapiattista. E visto il livello primordiale o prostitutivo di certi personaggi magari lo direbbero anche adesso Ma la cosa più stupefacente è che la rivelazione, quanto meno delle intenzioni, è arrivata al termine di una conversazione su Twitter nel quale il miliardario, erede di una dinastia sudafricana di schiavisti degli smeraldi, parte dalla propria opposizione a qualsiasi stimolo pubblico dell’economia per affrontare una visione distopica classica, ossia lo stato ridotto ai minimi termini e rivolto principalmente alla repressione con i grandi gruppi privati che si occupano della cosa pubblica e della legislazione in funzione esclusiva dei loro profitti.
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
* * * *
Entuziazm (Simfonija Donbassa)
Come dicono gli etologi, quanto accaduto sinora costituì l’imprinting, la struttura ideologica che condizionò, nel bene e nel male, con comportamenti a essa del tutto conformi o, all’opposto, del tutto antagonistici, gli anni successivi, per certi versi – come abbiam visto nell’articoletto del giornale di Ferrara, fin dopo l’esperienza sovietica. Preferisco lavorare su tale impronta e il suo lascito, e non su nozioni come “mito fondativo”, perché l’URSS (e l’attuale Federazione Russa, insieme a tutte le ex-Repubbliche dell’Unione, persino quelle governate oggi da neonazisti e neofascisti), ebbe nel corso della sua breve vita almeno un altro battesimo del fuoco: la Grande Guerra Patriottica, col suo tributo di sangue e una vittoria che fu una vittoria di un popolo intero, una vittoria come poche si videro nel corso della storia di quest’essere antropomorfo chiamato uomo.
Si chiamano
Vanguard,
BlackRock e State Street Global Advisor, sono i tre maggiori
Mutual Funds del mondo. Sono noti anche come "Fondi comuni",
ovvero Fondi di
investimento, gestiti da esperti professionisti, che
raccolgono denaro "fresco" da una sterminata e variegata
quantità di investitori e
risparmiatori. Con questo "denaro fresco" acquistano titoli
nelle diverse borse del pianeta e ridistribuiscono utili
(quando va bene) a coloro i quali
hanno loro affidato l'eccedenza del proprio capitale e/o i
propri risparmi. Gli investitori possono essere di natura
commerciale o istituzionale, ma
anche semplici privati che accedono ai diversi piani di
investimento riconducibili e controllati dai Big 3.
I tre appaiono strettamente interconnessi l'uno con l'altro, grazie a incroci proprietari e legami molto riservati e personali tra i loro rappresentanti al vertice delle operazioni e dei rispettivi Boards.
In sostanza quando si parla di "capitalismo finanziario", di "imperialismo neoliberista" o quando si evoca "la Finanza" tout court, quale bussola per orientare i destini della contemporaneità e del futuro, si parla di o meglio "si evocano" Loro senza menzionarli. Come ogni vero Potere sono già Tabù.
I tre sono al centro di una vasta galassia di sigle, in cui compaiono altri importanti Mutual Funds e soggetti finanziari (tra cui: Fidelity, T-Rowe, Goldman Sachs, J.P. Morgan, Morgan Stanley). Le masse finanziarie da loro gestite agiscono come all'interno di un sistema gravitazionale, provocando attrazioni e repulsioni sull'intera costellazione bancaria e assicurativa. Grazie alle posizioni strategiche nei diversi azionariati, costituite dai loro imponenti investimenti, i Big 3 sono in grado di "condizionare" gli indirizzi di ogni area di attività: produzione, distribuzione di merci e servizi, trasporti, sanità, ricerca, etc.
Una delle prediche che i giovani
si devono sorbire, quando conseguono un diploma o una laurea,
è quella che non sono
preparati per entrare nel mondo del lavoro - detta brutalmente
«Non sanno fare niente!». Si tratta di una critica disarmante,
e per certi
aspetti pericolosa, poiché butta fango sul sistema educativo
in generale e denigra il bagaglio culturale di chi segue i
percorsi formativi
delle scuole secondarie e quelli universitari.
A nulla valgono tutti in tentativi di stare al passo coi tempi, cioè di praticare e sperimentare forme didattiche laboratoriali. Anzi, più ci si affanna ad adeguarsi al mondo del lavoro e più si percepisce che quel mondo tende a chiudere le porte, rinfacciando a chi bussa di non essere all’altezza del compito che dovrebbe svolgere. Alcune critiche nei confronti dei neolaureati e neodiplomati sono così aspre che sfiorano il ridicolo: questi soggetti non sarebbero in grado di scrivere un curriculum vitae, di sostenere un colloquio di lavoro.
Neolaureati e neodiplomati sono completamente smarriti e disorientati. A nulla valgono le conoscenze e le competenze che hanno sviluppato: per lo più finiscono per essere considerate solo carta straccia.
La frattura che si è aperta tra i sistemi formativi e i relativi mondi del lavoro si è trasformata in una falla o, meglio, è proprio il movimento sottostante al terreno su cui continuiamo a poggiare i piedi che alimenta costantemente quella rottura che noi vediamo in superficie.
Nella seconda metà del secolo scorso, con il primo emergere di una consapevolezza del cambiamento climatico tra gli anni ’70 ed ‘80, l’argomento climatico è entrato nell’immagine di mondo degli storici. Parallelamente, la scienza del clima, sviluppatasi in contemporanea e per lo stesso motivo, ha affinato il suo sguardo permettendo la lettura di molteplici segnali provenienti dai pollini, dalla geologia, dalla dendrocronologia etc. Gli scienziati quindi hanno offerto informazioni sulla variabile climatica e gli storici hanno usato quelle informazioni per rileggere la sequenza storica.
Uno di questi interventi della variabile climatica sul corso storico è la Piccola era glaciale, quotata tra XIV e XIX secolo, ma con maggior incidenza tra metà XVI secolo e fine XVIII. Di questo parlerebbe il libro in questione che però spesso trascende questo specifico rapporto, per diventare una storia culturale più ampia del passaggio da Medioevo e Moderno. L’autore è di Amburgo, alla base quindi dell’angolo retto che disegna la discesa della costa danese occidentale che poi svolta verso occidente in un tratto tedesco e poi olandese.
“L’accordo sul Recovery Fund? Peggio della Troika”. Il 21 luglio 2020 i leader dell’Ue hanno concordato il piano per la ripresa e il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027, l’accordo sul Recovery Fund, accolto da una buona parte dell’opinione pubblica come un grande successo dell’Unione europea e del premier Giuseppe Conte. C’è chi ha parlato senza remore di “accordo storico”. Non la vede in questo modo uno dei massimi esperti di eurozona, Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times e fondatore del think-tank Eurointelligence. “Il modo in cui funzionerà lo strumento del Recovery europeo è che i contributori netti giudicheranno la conformità da parte dei destinatari. Questo è peggio della Troika”, osserva l’esperto sul suo blog, riferendosi al controllo sulle politiche economiche dei singoli Paesi e al cosiddetto “freno d’emergenza” voluto dal premier olandese Mark Rutte.
Politicamente, sottolinea l’esperto, “è un grosso problema se un Paese dell’Ue si oppone all’erogazione dei fondi ad un altro Paese dell’Ue a causa del sospetto di una scorrettezza”. Pertanto, “in termini di percezione dell’interferenza, questo è peggio della Troika”, aggiunge. Naturalmente, a farne le spese può essere l’Italia: “A meno che non ci sia un grande cambiamento nella politica italiana, dubitiamo fortemente che l’Italia soddisferà le condizioni così come intese dai Paesi del Nord Europa”.
Marco Saba è un economista specializzato in contabilità forense.
Nel 1997 è diventato un attivista facendo campagna Internet per una divulgazione completa di Stay-Behind (Gladio); nel 1999 ha fatto una campagna contro l'uso di uranio durante le guerre della NATO. Ha fondato l'Osservatorio Italiano Etico Ambientale.
Nel 2000 è stato chiamato a testimoniare nel Parlamento italiano (Commissione Affari Esteri e Comunitari) sull'uso di uranio nelle armi utilizzate in Viet-Nam e Yom Kippur. Nello stesso anno è stato uno dei due relatori nel capitolo italiano del Tribunale internazionale U.S./NATO per i crimini di guerra in Jugoslavia, organizzato dal già Procuratore Generale degli Stati Uniti Ramsey Clark. Nel 2003 entra a far parte dell'Osservatorio di Ginevra della criminalità organizzata (O.C.O.), specializzata nel crimine bancario. Nel 2005 ha fondato il Centro Italiano di Studi monetari (C.S.M. Centro Studi monetari) insieme al Prof. Antonino Galloni; e dal 2006 ha approfondito la sua ricerca sulle frodi contabili delle banche. Nel 2014 ha iniziato a intervenire pubblicamente sulla contabilizzazione della creazione di moneta durante le assemblee degli azionisti di UniCredit, Carige, Intesa, Mediobanca, etc.
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Niamey, 19 luglio 2020. L’amico don Andrea Gallo, fondatore della comunità di San Benedetto di Genova, aveva fatta sua questa frase di don Luigi Di Liegro, compianto direttore della Caritas di Roma. Lui riprendeva il proverbio, ricorda don Gallo, ‘dimmi con chi vai, ti dirò chi sei’ e sosteneva che il proverbio andava cambiato. Guarda negli occhi la gente e digli’ Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei’. Andrebbe scritto come preambolo in tutte le costituzioni, in quella italiana che si dichiara ‘Fondata sul lavoro’ e in quelle scritte, copiate o rivedute dei paesi del Sahel che, come tant altri paesi dell’Africa, festeggiano i sessant’anni dalle loro indipendenze. Così anche quella del Niger, datata del 2010 dopo il colpo di stato di Salou Djibo, ora candidato presidenziale alle prossime elezioni. Nel Niger, dopo innumerevovoli traversie politico-militari, ci troviamo già alla Settima Repubblica e, nell’articolo 3 della citata costituzione, se ne recitano i principi fondamentali. Nell’ordine troviamo che… il governo è del Popolo, dal Popolo e per il Popolo, che c’è la separazione tra lo Stato e la religione, che vige la giustizia sociale ma nella solidarietà nazionale.
Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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Intervista sul suo libro “Hegel. La dialettica” (Diarkos, 2020)
1
Hegel non è un autore facile. Il suo pensiero è sottomesso alla stessa legge di ciò di cui è legge. Tutto ciò imprime al suo sistema una forma piuttosto contorta e difficilmente afferrabile. In più, il tempo è inteso come un fiume che mi trascina, ma sono io il fiume, una tigre che mi sbrana, ma sono io la tigre, un fuoco che mi divora, ma sono io il fuoco (Borges).
Avere ragione di questo processo significa andare fino in fondo, vedere la fine, mettersi alla prova. Ma la prova non è un esperimento, un saggio o una verifica. È piuttosto un errare, costellato di difficoltà e sconfitte.
Come in un romanzo di formazione, la prova è un mettersi in cammino attraverso cui il protagonista della narrazione può, alla fine del tragitto, giungere alla conquista della verità su se stesso e sulla vita.
La sua ricerca su Hegel inizia con «Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel»*, e termina con «Hegel. La dialettica». Si tratta di un cammino – e non potrebbe essere altrimenti, visto che qui in causa c’è proprio Hegel – un cammino iniziato con un libro molto tecnico, e chiuso con un libro altrettanto rigoroso, ma accessibile a un pubblico di non addetti ai lavori. Cosa ha determinato questo cambiamento di rotta, questo passaggio a una scrittura apparentemente più semplice e lineare, ma in realtà molto più sorvegliata?
Il bell’articolo di Bruno Gullì, «Le radici
della rivolta attuale: la triplice pandemia di razzismo,
Covid-19 e capitalismo dei disastri»[1], discute
in termini molto efficaci “il disastroso presente, la
vulnerabilità, il futuro soffocato” negli Stati Uniti di oggi,
soffocati
appunto dalla triplice pandemia di razzismo,
Covid-19 e capitalismo dei disastri.
Apprezzo molto, fra le altre cose, la caratterizzazione della figura e del ruolo di Obama rispetto all’amministrazione Bush che lo aveva preceduto, “la continuazione di una storia di disprezzo per la vita”: la cosa che immediatamente mi torna alla mente è dopo la pretestuosa ed efferata guerra all’Iraq del 2003, quando a fronte di mezzo milione di bambini morti (e circa tre volte vittime totali) il suo Segretario di Stato, Madeleine Albright, per la prima volta una donna, interrogata se riteneva che ne fosse valsa la pena rispose con un cinismo rivoltante “we think the price is worth it”.
Proprio questo mi da l’occasione, nel mio giudizio positivo dell’articolo, per fare un appunto critico ma costruttivo, a mio avviso non di poco conto. Le “tre pandemie” discusse da Gullì costituiscono, con le conclusioni che trae, una buona base per inquadrare la situazione interna degli Stati Uniti: ma il paese si caratterizza in modo peculiare come la maggiore potenza militare del pianeta, e da qui trae la sua forza e la sua fisionomia, anche per molti aspetti della sua struttura interna, politica, sociale ed economica. I Democratici, come del resto Gullì argomenta, non hanno mai messo in discussione la politica imperiale di Washington: per le elezioni di novembre i candidati democratici che avrebbero potuto, pur tiepidamente, contrastare questa politica militare sono ormai fuori gioco, ma anche i più radicali non mettevano in discussione il ricorso alla guerra alla base della politica di dominio imperiale degli Stati Uniti.
Recensione a Costantino Avanzi, Lenin e la dialettica. Teoria e prassi di un metodo rivoluzionario, Mimesis, Milano-Udine, 2020, ISBN-13: 978-8857563688, € 28
In un corposo volume di oltre 300
pagine, Costantino Avanzi affronta un argomento
controcorrente, anacronistico ad opinione
di molti, in tempi di post-comunismo e di conclamata egemonia
del neoliberismo: il valore della dialettica nel pensiero e
nell’opera politica
dell’artefice della Rivoluzione socialista d’Ottobre, Vladimir
Ilic Ulianov Lenin. L’uscita stessa di questo volume dedicato
ad un
personaggio chiave della storia del Novecento, il secolo che
non finisce, segnala la possibilità di un’articolazione
diversa della
riflessione sul presente e sulla dimensione storica del suo
sviluppo. Dopo i saggi di G.Lukács, più volte richiamato nel
testo, e quelli
di A. Negri (1973) e quello più recente (2017) di S. Žižek,
che si muovono su linee teoriche e un approccio metodologico
molto
diverso, Avanzi affronta la polpa della filosofia e del metodo
rivoluzionario di Lenin: la dialettica. La dialettica si
presenta non soltanto come la
logica rivoluzionaria del marxismo in quanto materialismo
dialettico, essa è la chiave di comprensione degli avvenimenti
e della lotta politica
e del metodo della prassi rivoluzionaria e viene ricostruita
nel volume attraverso un’attenta disamina del suo ruolo nella
preparazione e nella
realizzazione della Rivoluzione d’ottobre e nei problemi di
costruzione del socialismo dopo la rivoluzione. Le avventure
della dialettica nella
politica leninista suggeriscono dunque un orizzonte di
discussione intorno alle dinamiche reali della storia del
comunismo. Come segnala E.
Alessandroni nell’Introduzione al volume esso si
misura sulle contraddizioni reali che il processo
rivoluzionario e la costruzione del
socialismo produce e sul metodo di trattarle cogliendo le
articolazioni reali dei conflitti sociali e la logica nascosta
del “determinismo
dialettico” delle contraddizioni da parte di Lenin:
Il linguaggio politicamente corretto vuol essere soccorrevole verso gli oppressi, raddrizzatore di torti, riequilibratore della bilancia della giustizia. Ciò che è stato stigmatizzato va riabilitato attraverso una ridefinizione rispettosa. E ciò che ha prevalso va ridimensionato.
Quel linguaggio è un universale artificiale, una neolingua, esperanto, costruito per permettere a ogni particolare di sussistere e di nominarsi, ed essere nominato, in libertà e con uguali diritti. Un linguaggio privo di passione e di violenza, capace di sterilizzare ogni differenza nella universale indifferenza. Uno vale uno, insomma.
Ma questi fini e questi mezzi contengono una contraddizione: il linguaggio politicamente corretto è pacifico e al tempo stesso aggressivo, vendicativo, intollerante: l’uguaglianza amorfa a cui tende è carica di unilaterale violenza. La sua logica normale è quella eccezionale del giudizio universale: nihil inultum remanebit. Tutti i torti vanno conosciuti, puniti e riparati. La colpa, l’accusa, è l’orizzonte entro il quale si colloca il politicamente corretto.
Che è politico: è un atto di decisione fondamentale che critica il passato e lo spazza via. È un universale immediato, e quindi è un particolare ingigantito. È l’espressione di una parte che si fa Tutto, che pretende di giudicare ergendo se stessa a Legge. È un dominio, un punto di vista elevato a potenza, che non ne ammette né legittima altri.
In prima pagina stamane sul Corriere della Sera il crollo nel secondo trimestre dell’economia americana.
Il giornale di via Solferino intervista il noto politologo Ian Bremmer, il quale sostiene che la crisi rigurda tutti, anzi gli Usa hanno più risorse degli altri, e durerà anni.
Stanotte è invece uscito il dato del Pmi manifatturiero cinese, che cresce a luglio dal 50,9 al 51,4. E’ arrivata l’ora che intellettuali, accademici, uomini di cultura in Occidente, se ce ne sono, si pongano degli interrogativi. Ci sono almeno due modelli economici alternativi, e quello occidentale mostra crepe vistose.
L’assetto liberista degli ultimi 45 anni ormai volge al termine, procastinarlo, in maniera sempre più feroce per le classi lavoratrici, è inutile e dannoso.
Occorre ripensare al ruolo del pubblico nell’economia, come nel dopoguerra (a proposito, stamane Milano Finanza parla di “scenario da dopoguerra”), occorre assumere milioni di persone nella sanità, nell’istruzione, nei trasporti, occorre una politica di edilizia pubblica recuperando l’immenso patrimonio abitativo lasciato in macerie.
Una recensione al libro "Pratiche di inchiesta e conricerca oggi" a cura di Emiliana Armano, ombre corte, Verona 2020
Il libro Pratiche di inchiesta e conricerca oggi (ombre corte 2020) a cura di Emiliana Armano, raccoglie i contributi di Sandra Busso, Kristin Carls, Daniela Leonardi, Cristina Morini, Annalisa Murgia, Paola Rivetti, Devi Sacchetto, Raffaele Sciortino e Steve Wright.
Attraverso l’approccio della conricerca, di cui Romano Alquati fu uno dei principali militanti e teorici, vengono indagate trasformazioni più o meno recenti nel rapporto con le soggettività coinvolte. L’introduzione scritta da Emiliana Armano e i due testi in appendice spiegano con chiarezza alcune ipotesi teoriche e categorie analitiche utili per approcciarsi alla realtà; le inchieste che compongono il libro le usano in parte, in linea con il senso attribuito alla teoria da Alquati stesso, cioè di uno strumento per leggere e trasformare la realtà. Come si legge: «L’intento di fondo non è di andare a trovare il “vero Alquati” quanto invece di stimolare oggi una rielaborazione fruttuosa di quelle categorie analitiche e di quel modo di approcciare la realtà».
Mi considero fra i pochi giornalisti che non ha mai preso una posizione secca sulla vicenda del “virus”. Non lo considero un motivo di vanto, perché era facile capire che i cosiddetti scienziati nulla sapevano del Virus, per mesi camparono, e tuttora campano, distribuendo banalità prezzemolate di vanità. Peggio ha fatto la loro Cupola (OMS), passò mesi a smentirsi in continuazione. Sui politici meglio calare un velo penoso, i più astuti non si sono mossi da: “attendiamo il vaccino”, barricandosi nei rispettivi ministeri. Così alcuni di noi hanno ecceduto nella banalizzazione, altri nell’estremizzazione. Siamo tuttora in una situazione di stallo. Io stesso mi sono limitato a scrivere: “I conti si faranno alla fine” perché gli unici dati che contano sono: 1) i morti per milione di abitanti; 2) la perdita di ricchezza conseguente alle scelte politico-economiche (PIL) fatte da ogni singolo Paese.
C’è però una domanda sottesa che avremmo dovuto porci tutti, soprattutto le leadership, una domanda brutale: “Quanto vale per noi una vita umana?”. Sapendo che la risposta del pierino politicamente corretto è: “Anche una sola vita non ha prezzo”.
Nei giorni scorsi abbiamo preso
pubblicamente una posizione piuttosto netta sui comportamenti
giudiziari
dell’enfante prodige della politica cittadina e
questo ci ha fatto “guadagnare” qualche attenzione da
partedella Digos
romana, arricchendo così l’intera vicenda, già piuttosto
triste di suo, di tutte quelle sfumature che separano il
grottesco dal
ridicolo. Ora che la polemica si è un po’ raffreddata,
soprattutto sui social, vorremmo però tornare sulla questione
per provare a
affrontare quello per noi è il vero nodo politico che sottende
tutta questa vicenda, ossia il collateralismo al Partito
Democratico di alcuni
pezzi di quello che una volta avremmo chiamato movimento.
Sgomberiamo immediatamente il campo da possibili equivoci, non
abbiamo alcuna
velleità di tirare fuori scomuniche o giudizi di natura
moralistica. Qui non stiamo parlando di “tradimenti”,
carrierismi o cose
del genere, che pure nelle storie anche piccole della sinistra
di movimento non sono mai mancate, quanto piuttosto di scelte
politiche che nel corso
del tempo immaginiamo siano state attentamente ponderate e
che, però, proprio per questo, crediamo vadano criticate con
estrema nettezza.
Immaginiamo che in questi anni di continuo arretramento sociale e politico in alcune aree della sinistra antagonista sia progressivamente maturata l’idea che l’unico modo per garantire una qualche efficacia alla propria azione non potesse essere altro che il lavorio ai fianchi del PD e del centrosinistra. Una sorta di lobbing del sociale che facesse perno sulle “affinità elettive” con qualche dirigente particolarmente illuminato, o sensibile su specifici temi, e che ha spinto più di qualcuno a fare direttamente il “salto della quaglia” ed entrare per provare a “cambiare da dentro”, per “spostare l’asse a sinistra”, per “imporre i nostri temi”… Ancora una volta: nessun giudizio morale.
La teoria
della moneta moderna (MMT) basa il suo sviluppo sullo storico
disaccoppiamento del
denaro dal gold standard. Dal 1971, con il crollo del sistema
di Bretton Woods e l'abbandono del gold standard da parte
degli Stati Uniti, il denaro
divenne denaro fiat (valuta convertibile solo con sé stessa,
senza l’obbligo di essere convertibile in oro) e controllata
totalmente
dalla banca centrale e dallo Stato.
Raccogliendo le tasse, lo Stato impone la propria valuta sull'economia nel suo insieme. In altre parole, il denaro statale viene riconosciuto e utilizzato da altri agenti economici perché devono pagare le tasse in quella valuta.
Non dovendo sostenere il denaro esistente nell'economia con una certa quantità di oro, lo Stato perde, afferma la MMT, tutte le restrizioni oggettive sulla sua spesa. Emette la moneta e può spendere tutto ciò che vuole nella propria moneta, il che ovviamente non significa che sia sempre consigliabile farlo. In ogni caso, la valuta sarà sempre accettata nel territorio sotto la sovranità dello Stato, poiché altri agenti economici ne hanno bisogno per pagare le tasse. Pertanto, il confine tra politica fiscale e politica monetaria è, secondo la MMT, artificiale.
Né per finanziare né per spendere lo Stato ha bisogno di riscuotere le tasse. Finanzia la sua spesa, è colui che emette la valuta e quindi non può mai esaurirla.
Attraverso la spesa, lo Stato infonde liquidità nell'economia, poiché la spesa pubblica implica un aumento delle riserve nelle banche private. Aumentando o vendendo il debito pubblico, al contrario, preleva denaro da se stesso.
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“Non è morto ciò che
può
attendere in eterno, e col volgere di strani eoni anche la
morte può morire”
Howard P. Lovecraft
Premessa
La droga è sempre esistita, in quanto intrinsecamente intessuta nella storia spirituale dell'umanità. Il consumo di sostanze oggi medicalmente definite come psicoattive (siano esse sedattivo-euforizzanti, psicostimolanti oppure allucinogene), già da millenni addietro, si è incastrato nelle lunghe trame magico-religiose di intere popolazioni, almeno per quel di cui si ha notizia, ritualizzandone l'uso e mitizzandone il ruolo. Tale constatazione, la quale non si è mai posta come atto di giustificazione all'uso e al ruolo che invece riveste modernamente la droga, si muove attorno a quel dato di fatto per cui l'oggetto dell'analisi, ovvero il suo consumo e l'immaginario attorno allo stesso e non la sostanza o la sua origine materiale in sé, non può essere né sovratemporale (dunque eternamente astorico e in quanto tale onnipresente nelle stesse vesti) né, appunto, un fondamento formalmente e strutturalmente preciso e puntuale della vita sociale di ogni epoca e neanche una invariabile antropologica. Certo, alcune logiche rispetto al consumo di sostanze negli ultimi due secoli, pur mutando innegabilmente vesti, si sono spesso ripetute in maniera piuttosto similare, o quasi. Ma più che di ripetizione, similare o identica che fosse, e quindi di copione recitato piuttosto fedelmente, si può parlare di linearità, intesa come continuità storica dettata semplicemente dal fatto per cui certi modelli economico-sociali (riferendosi agli ultimi due secoli si fa quindi riferimento a quelli capitalistici), tendenzialmente, non sono mai stati superati o rovesciati e, fino a che sarà così le vesti di una cosa al suo interno, in questo caso la droga in quanto merce e il suo ruolo sociale, difficilmente cambieranno.
Se il ministro dell’Interno Lamorgese un mese fa informava su un probabile allarme “autunno caldo” e 10 giorni fa Massimo Cacciari, da decenni collaterale al Pd, parlava della necessità di una “dittatura democratica”, dato che in autunno verranno al pettine i nodi economico sociali post Covid, occorre analizzare cosa ci sia dietro la proroga dello stato d’emergenza, definito da noti costituzionalisti “illegittima e inopportuna”.
Dall’entrata dell’euro, nel 1999 (nella circolazione effettiva dal 2002) il nostro Paese ha basato la sua strategia, simile a quella tedesca, sul “mercantilismo”. Vale a dire: comprimere salari e domanda interna e basarsi sull’export, essendo le aziende considerate il “motore principale” e proprio per questo esaltate dal mondo politico. Come fanno tutti, e proprio come fa da un anno a questa parte (lo ha ribadito ieri stesso) il ministro degli esteri Di Maio.
Secondo l’Istituto del commercio estero, il commercio mondiale riprenderà i suoi valori, se tutto va bene, nel 2024, dunque il nostro Paese subirà una caduta profonda delle esportazioni, l’unico motore che tirava.
Da qualche giorno anche i media mainstream hanno scoperto che il Recovery Fund comporta condizionalità molto più dure e stringenti di quelle del MES. Questa scoperta dell’acqua calda è stata subito utilizzata per riciclare l’ipotesi di un accesso dell’Italia ai fondi del MES, che avrebbero come condizione “soltanto” di essere indirizzati a spese, direttamente o indirettamente, di tipo sanitario.
I timori nei confronti del MES sarebbero dettati dall’irrazionale, dal ricordo della sorte della Grecia, mentre adesso le cose starebbero diversamente. Persino l’argomento di Giulio Tremonti, secondo il quale se l’Italia accedesse al MES si beccherebbe le stimmate del Paese ridotto alla canna del gas, sarebbe superato, in quanto gli “investitori” sanno che i fondi del MES sono privi di vere condizionalità, perciò non ci sarebbe alcun motivo per far salire lo spread sui titoli del debito pubblico italiano.
Questo contro-argomento presuppone una visione idealizzata del cosiddetto “investitore”, in effetti uno speculatore. E se invece gli “investitori” si rivelassero anch’essi irrazionali? Se anche in loro l’immagine del MES risvegliasse fantasmi del tragico passato greco? E se gli “investitori” addirittura fingessero soltanto di essere “irrazionali” pur di spillare interessi più alti? In fondo è il loro mestiere.
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Il totalitarismo capitale è la sintesi operativa del potere biomedico che si coniuga e sostiene con il potere disciplinare. Il potere non vive nell’alto dei cieli, ma si concretizza nel quotidiano, il dispositivo si installa nella micro-azioni, è ovunque, Foucault ha usato la felice definizione di microfisica del potere. In questi giorni M. Foucault ci è di ausilio per leggere il presente. Si assiste allo svelamento del potere che “rassicurato” dalla pandemia, la utilizza per giustificare il ridisegnare gli spazi ed i tempi delle relazioni, affinché il pericolo degli “assembramenti comunitari” possa essere neutralizzato anche in futuro. Il potere per delineare nuovo modelli relazionali deve riorganizzare gli spazi ed i tempi, è inevitabile in tale contesto intervenire nelle classi. La scuola con le classi rappresenta una comunità potenzialmente critica e solidale. Malgrado le riforme e la curvatura competitiva, la scuola è organizzata per spazi che debbono favorire la socialità. I banchi doppi, la presenza degli alunni nello spazio classe, l’eliminazione della pedana della cattedra sono stati in questi decenni veicolo di socialità e solidarietà. La distribuzione degli spazi ha favorito la vicinanza spaziale e le relazioni.
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Niamey, luglio 020. Non siamo in Egitto e dunque la misura adottata in quel paese non ci coinvolge per nulla. Tanto più che da noi gli aquiloni sono piuttosto rari e pochi sono i bambini che arrivano a mettere insieme spago, legnetti e sacchetti di palstica riciclata. Il vento, a direzione variabile, è quasi sempre sostenuto e dunque potrebbe favorire quanto, invece, è stato inopinatamente vietato in terra d’Egitto. La notizia infatti, riportata quasi clandestinamente da alcuni mezzi di comunicazione, è quanto di più scomodo possa accadere in epoca di pandemia. La giornalista Laura Silvia Battaglia, in un commento al fatto, scrive che…’da qualche giorno le autorità locali di Alessandria e del Cairo hanno vietato la produzione e il possesso di aquiloni…la polizia egiziana ha sequestrato aquiloni in queste due città per motivi di sicurezza e l’avvertimento di un deputato che accennava alla possibilità di una minaccia alla sicurezza nazionale’... Gli aquiloni, secondo l’onorevole deputato, potrebbero infatti nascondere telecamere per spionaggio. Vero che, durante il confinamento, il numero e la qualità degli aquiloni sono cresciuti in modo considerevole e che alcuni giovani e ragazzi si sono inventati il gioco dai balconi e terrazzi.
Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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Un contributo di Alessandro Lolli, autore de La guerra dei meme (effequ 2017), il quale del complottismo si è già occupato: sei tesi dallo sguardo obliquo articolate per punti, utili per cominciare ad aprire un dibattito necessario sulla questione
1. Che cos’è il
complottismo.
a. Si definisce complottismo l’insieme di credenze aberranti, cioè che divergono in maniera inconciliabile dalle credenze comunemente accettate. Complottismo è anche il nome dato all’unificazione teorica di più credenze aberranti entro un quadro sistemico che aspira a una sua coerenza interna (il complotto giudaico, il complotto del Deep state, il complotto degli Illuminati, eccetera).
b. Fondamentale capire chi ha il potere di definire complottismo questo o quell’insieme di credenze. Complottismo è infatti un esonimo: un nome dato a quelle credenze da chi non le sostiene. I marxisti chiamano se stessi marxisti, i rapper chiamano se stessi rapper, i complottisti non chiamano se stessi complottisti.
c. Complottismo è il nome dell’insieme di credenze aberranti dato da chi reputa quelle credenze non solo aberranti, ma false. Il complottista sa che le sue credenze sono aberranti, cioè che divergono in modo inconciliabile dalle credenze accettabili, ma non le ritiene false.
d. Le singole credenze aberranti sono anche chiamate “bufale” o “fake news” e possono o non possono fare a capo a uno o più teorie del complotto.
2. Su cosa verte il complottismo
a. Un ampio spettro di affermazioni e teorie ricade nel complottismo al punto che questo viene spesso definito un’ideologia o una filosofia. Per questo è giusto sottolineare che l’affermazione inaugurale del complottista verte sui concetti di vero o falso, non di giusto e sbagliato.
Dal 25 al 29 agosto si terrà a Seriate (BG) la seconda scuola estiva internazionale diretta da Giulio Palermo in cui si parlerà di teoria marxista, istituzioni europee, crisi da coronavirus nel contesto della crisi globale e relative vie di uscita anticapitalistica, con l’obiettivo di porre la scienza al servizio della rivoluzione proletaria
Il nuovo Coronavirus ha reso evidente la
crisi economica che covava da tempo.
Ciononostante, sui grandi mezzi di informazione, nelle
università e nei bar, il virus viene dipinto come la causa
dei problemi.
Un’operazione di disinformazione molto simile a quella messa
in campo nel 2008 quando ad essere portati sul banco degli
imputati furono
l’avarizia dei banchieri, la deregulation, i mutui
subprime. Per rimettere le cose al proprio posto
c’è bisogno
di analizzare la realtà in maniera scientifica e per farlo è
necessario possedere le giuste categorie analitiche.
Un’ottima
occasione per impossessarsene è rappresentata dalla Scuola
estiva internazionale organizzata dall’Università
critica, l’Università di Brescia ed il Coordinamento
comunista. Ne parliamo con Giulio Palermo, economista e
animatore di questa seconda
edizione che si intitola “crisi economica e lotte
sociali nell’Unione europea”.
* * * *
D. Ciao Giulio. Innanzi tutto grazie per l’intervista. Puoi raccontarci come nasce questa scuola estiva e a chi è rivolta?
R. La scuola estiva nasce all’interno di un progetto scientifico-politico di trasformazione dell’università borghese e della società capitalista intitolato Università critica.
L’università svolge precise funzioni economiche e sociali nella produzione scientifica e nella riproduzione ideologica del capitalismo. La critica scientifica e la produzione di nuove conoscenze utili alla lotta non possono quindi separarsi dalla critica dell’università stessa, sempre più asservita al capitale, in cui non c’è coerentemente spazio per la critica anticapitalistica.
Le tremende esplosioni che hanno squarciato il porto di Beirut appaiono, man mano che i giorni passano e le parole s’intrecciano, sempre meno fatalità e sempre più volontà precisa di qualcuno. A confermare questa lettura ci sono interessi evidenti e specifiche tecniche difficili da confutare. Il racconto della fabbrica di fuochi d’artificio non ha retto; nessuno dotato di un minimo si logica e di senno installa una fabbrica di fuochi pirotecnici in un’area ad alto traffico di persone e merci. Allora,vista la scarsa credibilità di questa pista, in soccorso del depistaggio internazionale è arrivata la storia della nave ormeggiata in porto (ovviamente russa, ma solo perché non vi sono navi cinesi che operano in zona).
Ciò che si è voluto spacciare come versione più credibile è l’ipotesi che si sia trattato di una violentissima esplosione di nitrato, ma i dati tecnici a supporto non sembrano confermare. Perché una esplosione di nitrato produce fumo nero e non bianco e rosso come si vede nei filmati. Inoltre, indipendentemente dalla quantità di nitrato, in nessun modo una sua esplosione può sviluppare la forma “a fungo” che si è vista nei video, tipica invece di una esplosione atomica, anche a bassissimo potenziale.
Nelle prime ore di martedì 4 agosto il gruppo FCA ha inviato una lettera in inglese ai suoi fornitori (in Italia e all’estero) chiedendo di “cessare immediatamente ogni attività di ricerca, sviluppo e produzione” per via di un “cambiamento tecnologico in corso”. Questo arresto mette a rischio il posto di lavoro di oltre 58 mila operai (solo in Italia), distribuiti in mille aziende le quali compongono l’indotto italiano della FIAT-Chrysler, il cui giro d’affari ammonta a circa 18 miliardi di euro. Tutto ciò nonostante a giugno il ministero dell’Economia e delle Finanze abbia dato il via libera a un aiuto statale per FCA di 6,3 miliardi di euro mirato proprio a salvaguardare i fornitori locali.
Una situazione che sembrava già all’orizzonte fin dallo scorso ottobre quando FCA e PSA (gruppo formato da Peugeot, Citroen e Opel), avevano annunciato la loro fusione per dare luogo al nuovo gigante europeo delle auto, Stellantis.
In uno dei romanzi basati sul personaggio di Hannibal Lecter si scopre che il meschino è diventato cannibale perché ha avuto un’infanzia difficile. Al contrario, il cannibalismo bancario di Intesa Sanpaolo sembra sia dovuto ad un’infanzia, ad un’adolescenza ed una maturità troppo facili. Il “facilitatore”, il tutore, che ha assistito e aiutato questo gruppo bancario, sin dai suoi esordi alla fine degli anni ‘80 nelle vesti di Banco Ambrosiano-Veneto, è stato un personaggio-icona della “sinistra morale” e politicorretta, cioè Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca ancora Governatore della Banca d’Italia.
Nel 1997, diventato ministro del Tesoro del primo governo Prodi, l’ex Governatore Ciampi ebbe modo di esternare in un discorso ai banchieri i motivi che lo spingevano a incentivare le fusioni bancarie. A parere di Ciampi la concentrazione bancaria era la premessa e la condizione per estromettere la mano pubblica dal settore bancario. Oligopolio bancario e privatizzazione venivano quindi individuati da Ciampi come fenomeni correlati e interdipendenti. In un contesto economico di crescente caduta dei saggi di profitto, l’intervento pubblico era infatti l’unico possibile argine contro la tendenza alla concentrazione dei capitali in poche mani private.
Emergenza sì, emergenza
no. Su MicroMega Giorgio
Cremaschi ha detto la sua. Qui diremo invece la nostra.
Cremaschi prova a dare un colpo al cerchio (no alla proroga governativa dello stato d’emergenza) ed uno alla botte, scagliandosi contro i cosiddetti “negazionisti”. Per l’ex sindacalista della Cgil il vero problema sono però questi ultimi, semplicemente da “mandare all’inferno”. Viceversa, con i decisori dello stato d’emergenza si deve certo discutere, ma in maniera amabile e rispettosa, come si conviene a chi è destinato al paradiso.
Le argomentazioni di Cremaschi non mi convincono neanche un po’. Le comprendo e le rispetto, ma fanno acqua da tutte le parti, portando altro fieno in cascina a quel blocco dominante che sicuramente egli crede di combattere.
Per farla breve proverò a sintetizzare in cinque titoli i tragici errori del leader di “Potere al popolo”. Questi titoli sono: negazionismo, libertà e liberismo, emergenza ed emergenzialismo, democrazia e tecnocrazia, lavoro e popolo.
Negazionismo
Questa parola, che il Nostro utilizza a iosa, andrebbe semplicemente abolita. Essa sta infatti a significare l’esistenza di una verità assoluta che non ammette una discussione razionale. Una “verità” che, in maniera assolutamente analoga alle religioni, ha i suoi dogmi, i suoi riti, i sui sacerdoti.
Il
capitalismo delle piattaforme1
Dal capitalismo immanente quello delle ciminiere, delle sirene che chiamano al lavoro migliaia di persone, si è passati al capitalismo trascendentale, un capitalismo simil-finanziario, che trae profitto creando centri (monopolisti) di servizi e “miners”, relazioni, collegamenti e estrazione di dati: sono le nuove piattaforme che internet e le nuove tecnologie digitali consentono; il loro core business è tanto la prestazione di un servizio (spesso retribuita, ma non sempre), quanto l’estrazione di valore dalle interazioni sociali che ne derivano.
Le piattaforme fino a ieri erano delle strutture piane e resistenti che servivano come base di appoggio per un trasbordo di merci e rendono possibili dei passaggi. Le recenti piattaforme digitali sono un agglomerato di hardware e software (con uso di intelligenza artificiale e big data) che si collocano in modo tendenzialmente monopolista, tra due entità fisiche come produttori e consumatori (es. Amazon), tra parlanti e riceventi (es. Facebook) o tra macchine e operatori (es. Siemens, GE) che permettono di svolgere determinate operazioni. Sono dispositivi con strutture e norme che regolano flussi, passaggi, spostamenti ed operazioni varie di informazioni e merci.
Fin qui tutto sembra normale, le piattaforme più o meno tecnologiche ci sono sempre state, svolgevano un servizio spesso legale e “utili” (il virgolettato del dubbio) come la grande distribuzione, notai, ecc, altre volte meno legali come i sistemi mafiosi, i quali ponendosi da monopolisti tra produttori e consumatori (nei settori droga, ortofrutta, caporalato, costruzioni, ecc.) traggono profitto dalla transazione.
Il Rapporto sulle imprese pubbliche del Forum Disuguaglianze ci ricorda che nella pandemia, oltre ad aver bisogno della sanità, abbiamo necessità di poter mettere bocca sul perché, cosa, come e dove produrre ricchezza
L’evoluzione dei rapporti tra lo stato italiano
e le imprese di sua
proprietà ricorda un po’ quello di una commedia all’italiana:
ricca di colpi di scena, spesso amari, ma con un finale per
nulla
scontato. A ravvivare una convivenza annoiata e rassegnata è
arrivata una pandemia globale, che tra le sue varie
conseguenze ha portato il
governo ad annunciare la nazionalizzazione di Alitalia.
Nonostante tutto, a parte le polemiche tra «liberisti da
divano» e rappresentanti
di uno stato inevitabilmente più attivo, continuavano a
dominare la scena i soliti, inquietanti, piani
«tecnici» di ispirazione neoliberale.
A movimentare sul serio la situazione ci ha pensato l’estate. La prima metà di luglio, due eventi – ben distinti per natura ed eco mediatica – ci hanno portato a riflettere sul ruolo che può giocare lo stato nell’economia, dopo anni spesi a discuterne solo le inefficienze, il clientelismo, la corruzione.
Il primo luglio 2020 si è tenuta un’iniziativa di confronto virtuale tra ministero dell’economia e delle finanze e dirigenti di imprese pubbliche sul ruolo che potrebbe avere lo stato nel guidare lo sviluppo del Paese. Il motivo è stato la presentazione del rapporto del Forum Disuguaglianze e Diversità sulle imprese pubbliche. Il Forum – un’alleanza di organizzazioni e ricercatori – ha individuato, sin dalla presentazione nel 2019 del Rapporto Atkinson, proprio nelle aziende di proprietà pubblica una leva importante per qualsiasi cambiamento che parta dall’attivazione di nuovi e più virtuosi processi di sviluppo economico. Mentre il dibattito sul «ritorno dello stato» assume toni grotteschi, una simile iniziativa permette di ragionare in modo meno astratto e più utile di quale stato servirebbe per risolvere i nostri problemi.
La prima pagina di Milano Finanza oggi riportava la notizia che il governo italiano ha chiesto alla pubblica Cassa Depositi e Prestiti di intervenire con capitale in Tim. E' dal lockdown che tali richieste si susseguono, nelle aziende e nei settori più disparati, a partire da Borsa Italiana. Ci chiediamo: questo Paese ha 8 mila miliardi di ricchezza finanziaria.
Come viene investita? E' possibile che debba intervenire ogni volta la pubblica Cdp e le banche, le assicurazioni, i fondi di investimento e il risparmio gestito pensino ad altro?
Ora sappiamo che IntesaSanPaolo assorbe la banca Ubi. Sommato ai depositi di Intesa, 1200 miliardi, il nuovo gruppo avrà depositi pari a 1500 miliardi, quasi quanto il pil del nostro Paese. Dove vengono allocate queste masse finanziarie?
E' una beffa quando i banchieri si fanno intervistare a prima pagina affermando che destinano quest'anno chi 50, chi 30, chi 10 miliardi all'economia reale. E' il resto, dove va a finire? In prodotti finanziari strutturati affibbiati alla clientela spesso ignara.
Intesa San Paolo destinerà nel 2021 la bellezza di 6,4 miliardi di dividendi, 3,4 del 2019 bloccati quest'anno dalla Bce, e 3 miliardi del 2020. Come li fa gli utili, se non attraverso commissioni su prodotti dati alla clientela?
Il film di Costa-Gavras propone lo sguardo di Varoufakis sulla crisi europea in merito al braccio di ferro fra Grecia e Troika nel 2015. Ma è uno sguardo che se illumina bene il blocco di potere vigente, svela i limiti di tale punto di vista
Adults in the Room è l’ultimo film del maestro quasi novantenne, Costa-Gavras, il più famoso regista greco vivente. Molto impegnato politicamente, ha segnato la storia del cinema con capolavori quali Z-L’orgia del potere e L’Amerikano. Dopo aver affrontato temi del potere nel senso più novecentesco, l’autore si confronta con i labirintici percorsi delle istituzioni europee, e precisamente uno dei loro momenti più decisivi e drammatici del decennio: la Grecia del 2015.
Com’è noto, a gennaio di tale anno vince le elezioni la sinistra di Syriza, portando a capo del governo Alexis Tsipras; tale partito, considerato di sinistra radicale, aveva vinto sull’onda della veemente critica della austerità portata dalla Troika, la gestione congiunta di Fondo monetario, Commissione UE e BCE del debito ellenico.
Neoliberismo e globalizzazione sono fenomeni supportati da teorie che nascono a pacchetto nella seconda metà degli anni ’80. Si ricorda che l’attuale forme degli scambi internazionali in un mercato regolato da pochi principi comuni a tutti gli attori, nasce ufficialmente nel 1995 con la World Trade Organization (WTO). Nel 1989, un economista britannico John Williamson, compendia il sistema teorico in dieci punti, dando coerenza logica e funzionale al tutto che prese nome di Washington Consensus. Ma sebbene compaia in forma sistemica nel 1989, i suoi elementi teorico-pratici si sono affermati prima, durante gli anni’80. Il cerchietto nero della chart allegata posiziona il momento in cui diventa presidente del FED Alan Greenspan che tale rimarrà per 23 anni sotto le presidenze Reagan (che lo nominò), Bush I, Clinton, Bush II. Il successore Ben Bernanke non si discostò di nulla dalle impostazioni di Greenspan. L’intera sequenza Greenspan-Bernanke-oggi (33 anni) segna una costante riduzione dei tassi di interesse (denaro in prestito), un’enorme volume di dollari immesso nel mercato. Ma cosa ne ha fatto il "mercato"?
Alberto Bradanini: L’Italia è sull'orlo del fallimento. La schiavitù non sia il nostro destino
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Marcello Teti: Covid-19, la verità
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Il dibattito intorno
all’Unione Europea e alla permanenza dell’Italia al suo
interno ha
attinto nuova linfa dalla crisi sanitaria del Covid 19 e
dalle conseguenti contrattazioni tra i paesi europei per
l’individuazione dei
meccanismi di sostegno agli Stati. Ciò che è, però,
largamente assente dalla discussione è una posizione
autonoma dei
comunisti che approfondisca le condizioni attuali del
processo di integrazione europea, la complessità delle
relazioni competitive tra paesi
capitalistici e i meccanismi di controllo e oppressione
messi in campo attraverso le istituzioni dell’Unione
Europea.
Con il seguente articolo inauguriamo una rubrica di discussione sul tema e intendiamo lanciare un’ampia riflessione strategica sul ruolo dei comunisti nella lotta contro le istituzioni europee. Lo faremo grazie a diversi contributi che si soffermeranno sui vari aspetti che compongono la questione, attraverso una molteplicità di punti di vista provenienti, anche, dai partiti comunisti degli altri paesi membri, con il fine di contribuire a far avanzare il dibattito tra i comunisti su questa importantissima tematica.
* * * *
La questione del giudizio da dare sull’Ue e sull’euro appare oggi ancora più centrale che nel passato alla luce della recente crisi del Covid-19. Come già verificatosi nel corso della crisi precedente, quella del 2007-2008, l’Ue e l’euro presentano delle caratteristiche intrinseche che impediscono di far fronte alla crisi e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati.
La questione sindacale ha
costituito da sempre un rompicapo per le formazioni politiche
di sinistra e di estrema
sinistra fin dal sorgere del capitalismo e della conseguente
nascita del proletariato, o classe operaia, secondo le
migliori tradizioni marxiste. Si
tratta di una questione spinosa che a distanza di circa 200
anni (datiamo per comodità esplicativa i primi tentativi di
costituzione in
Inghilterra di società di mutuo soccorso e comitati operai)
non ha trovato ancora una sistemazione teorica definitiva.
L’Italia ha avuto il “privilegio” di una esperienza per una insubordinazione di alcuni settori sia del Pubblico Impiego che in aziende a partecipazione statale, durante gli anni ’70 del secolo scorso, quando si sono sviluppate una serie di organizzazioni definite di base, in alternativa ai sindacati confederali esistenti e maggiormente rappresentativi, cioè Cgil, Cisl e Uil, con un ruolo molto marginale della Cisnal che era la cinghia di trasmissione del Movimento Sociale Italiano e che non compariva nelle mobilitazioni unitarie che le tre Confederazioni indicevano, per una sua certa nostalgia nei confronti del Fascismo.
Il presupposto teorico del “basismo”, senza farla troppo lunga, era, ed è, una critica allo spirito collaborazionista della tre confederazioni con l’economia nazionale e con la Confindustria. Si trattava, secondo la gran parte delle organizzazioni “basiste”, di sindacati che avevano abbandonato la causa dei lavoratori e la loro autonomia per subordinarsi totalmente alle esigenze dei padroni. Da questo assunto teorico-politico si sanciva, perciò, la necessità di costituire nuovi organismi di base e strada facendo della formalizzazione di nuovi sindacati veri e propri.
Ce l’aspettavamo da un
po’, e puntuale è arrivata. La più falsa di tutte le false
notizie da cui
siamo bombardati h24: “c’è una evidente correlazione tra
immigrazione e Covid”. Pensate che la frase sia del
cumulo
di spazzatura che è anche segretario della Lega? Errore! L’ha
pronunciata il suo padre spirituale, il lugubre Marco Minniti,
Pd, lo stato
di polizia fatto uomo.
Visto che si chiama in causa l’evidenza, dovrebbe esserci una sovrabbondanza di fatti a provarlo. Sennonché la sola cosa di cui si ha evidenza da molte indagini o inchieste è che il Covid-19 è arrivato in Italia, precisamente in Lombardia, nel bergamasco, via Germania, non tramite lavoratori immigrati irregolari, ma per mezzo di manager e padroni-padroncini assatanati di affari e totalmente incuranti della salute pubblica, o anche – forse – di figure tecniche specializzate alle loro dipendenze. La responsabilità della sua diffusione, poi, si deve alle pressioni della associazione dei suddetti signori autoctoni, la Confindustria, contraria a qualsiasi forma di lockdown. Ed è anche del governo Conte-bis che l’ha decretato a metà o ad un terzo quando già era tardi, incalzato dalla protesta operaia nella logistica e tra i metalmeccanici, e terrorizzato che la massa dei ricoveri d’urgenza svelasse quanto è stata criminale la politica pluri-decennale di tagli alla sanità.
Ma “ora, dopo tanti sacrifici – qui è il trasformista Conte-2 che interviene, parlando da Conte-1 – non si può assolutamente accettare che si mettano [cioè: che gli immigrati mettano] a rischio i risultati raggiunti”.
In questo
articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia
della proiezione
internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere
come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato
in occidente, in
particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo”
cinese.
Infine abbiamo tradotto e pubblichiamo un articolo dello studioso zimbabwiano Sam Moyo su un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese: Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.
1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi
Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.
Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita http://lnx.retedeicomunisti.net/2020/01/21/dazi-monete-e-competizione-globale-lo-stallo-degli-imperialismi-3/).
“La fiducia
dell’innocente è lo strumento più utile
al bugiardo” (Stephen King)
Disinformare evitando il contesto
Clicca qui per vedere l'intervista fattami da Edoardo Gagliardi di Byoblu (aprire con CTRL e clic sul link), a poche ore dalle due esplosioni che il 4 agosto hanno distrutto il porto di Beirut, ucciso circa 150 persone, ferito altre 5000 e devastato gran parte della capitale libanese. Qui si tratta di un primo giro d’orizzonte lungo le domande che, codificate un tempo dalla stampa anglosassone, un qualsiasi cronista dovrebbe porsi. Le risposte dovrebbero inserire il fatto con le sue coordinate nel suo contesto ambientale, politico, geopolitico, temporale, storico. Un’abitudine da lungo tempo persa, o piuttosto abbandonata, dalla stragrande maggioranza della stampa nazionale e occidentale, che, in omaggio agli interessi dei suoi editori e referenti politico-economici, preferisce fornire le risposte da costoro richieste. Avendo attraversato più di mezzo secolo di pratica giornalista per un notevole numero di testate stampa, radio e televisive, sono testimone di questo trapasso.
Libano, la preda negata
E ho potuto anche essere testimone di ciò che è culminato ora a Beirut: una storia dei popoli arabi che, liberatisi dal gioco coloniale europeo, da quel momento subiscono la ritorsione, via via più feroce e letale, degli ex-colonialisti, dei quali hanno preso la guida due nuove presenze innestate in Medioriente, Usa e Israele.
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La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità
La sinistra che non c’è
lascia spazio alle sue imitazioni, ai partiti-movimenti
utilizzati
ad hoc dai potentati economici per le elezioni o per
far accettare più docilmente dai popoli “provvedimenti e
riforme”
contro i popoli. La fine del comunismo reale novecentesco
impone un lungo percorso di ricostruzione ideologica mediata
dalla riflessione non solo
sugli errori strettamente storici, ma anche di ordine
ideologico.
Il comunismo è stato segnato, in tal senso, dall’interpretazione engelsiana di Marx. Non è stato sufficientemente valutato che il determinismo di Engels era parte del positivismo dell’Ottocento, un mezzo, probabilmente, per rendere il messaggio coerente alla sua epoca e per rafforzare la lotta con l’errata idea della inevitabilità della vittoria finale del proletariato. Il determinismo ha anche favorito la sconfitta della sinistra, poiché è stato utilizzato dai burocrati e dalle nomenclature per passivizzare l’attività politica della base – tanto il successo era già iscritto nella dialettica della storia, pensata come ineluttabilmente vincente –, con l’inevitabile allontanamento della base dal comunismo reale del Novecento, vissuto come estraneo ed opprimente. Non solo! Forse vi è una sostanziale relazione tra la passività con cui i popoli hanno accettato l’economicismo crematistico attuale ed il passato ideologico comunista, in quanto anche quest’ultimo era sostanzialmente una forma di economicismo che aveva esemplificato banalizzandolo il ben più profondo e radicale pensiero di marxiano. Vi è stato solo un passaggio di consegne tra forme diverse di economicismo.
Un contributo di Alessandro Lolli, autore de La guerra dei meme (effequ 2017), il quale del complottismo si è già occupato: sei tesi dallo sguardo obliquo articolate per punti, utili per cominciare ad aprire un dibattito necessario sulla questione
1. Che cos’è il
complottismo.
a. Si definisce complottismo l’insieme di credenze aberranti, cioè che divergono in maniera inconciliabile dalle credenze comunemente accettate. Complottismo è anche il nome dato all’unificazione teorica di più credenze aberranti entro un quadro sistemico che aspira a una sua coerenza interna (il complotto giudaico, il complotto del Deep state, il complotto degli Illuminati, eccetera).
b. Fondamentale capire chi ha il potere di definire complottismo questo o quell’insieme di credenze. Complottismo è infatti un esonimo: un nome dato a quelle credenze da chi non le sostiene. I marxisti chiamano se stessi marxisti, i rapper chiamano se stessi rapper, i complottisti non chiamano se stessi complottisti.
c. Complottismo è il nome dell’insieme di credenze aberranti dato da chi reputa quelle credenze non solo aberranti, ma false. Il complottista sa che le sue credenze sono aberranti, cioè che divergono in modo inconciliabile dalle credenze accettabili, ma non le ritiene false.
d. Le singole credenze aberranti sono anche chiamate “bufale” o “fake news” e possono o non possono fare a capo a uno o più teorie del complotto.
2. Su cosa verte il complottismo
a. Un ampio spettro di affermazioni e teorie ricade nel complottismo al punto che questo viene spesso definito un’ideologia o una filosofia. Per questo è giusto sottolineare che l’affermazione inaugurale del complottista verte sui concetti di vero o falso, non di giusto e sbagliato.
Dal 25 al 29 agosto si terrà a Seriate (BG) la seconda scuola estiva internazionale diretta da Giulio Palermo in cui si parlerà di teoria marxista, istituzioni europee, crisi da coronavirus nel contesto della crisi globale e relative vie di uscita anticapitalistica, con l’obiettivo di porre la scienza al servizio della rivoluzione proletaria
Il nuovo Coronavirus ha reso evidente la
crisi economica che covava da tempo.
Ciononostante, sui grandi mezzi di informazione, nelle
università e nei bar, il virus viene dipinto come la causa
dei problemi.
Un’operazione di disinformazione molto simile a quella messa
in campo nel 2008 quando ad essere portati sul banco degli
imputati furono
l’avarizia dei banchieri, la deregulation, i mutui
subprime. Per rimettere le cose al proprio posto
c’è bisogno
di analizzare la realtà in maniera scientifica e per farlo è
necessario possedere le giuste categorie analitiche.
Un’ottima
occasione per impossessarsene è rappresentata dalla Scuola
estiva internazionale organizzata dall’Università
critica, l’Università di Brescia ed il Coordinamento
comunista. Ne parliamo con Giulio Palermo, economista e
animatore di questa seconda
edizione che si intitola “crisi economica e lotte
sociali nell’Unione europea”.
* * * *
D. Ciao Giulio. Innanzi tutto grazie per l’intervista. Puoi raccontarci come nasce questa scuola estiva e a chi è rivolta?
R. La scuola estiva nasce all’interno di un progetto scientifico-politico di trasformazione dell’università borghese e della società capitalista intitolato Università critica.
L’università svolge precise funzioni economiche e sociali nella produzione scientifica e nella riproduzione ideologica del capitalismo. La critica scientifica e la produzione di nuove conoscenze utili alla lotta non possono quindi separarsi dalla critica dell’università stessa, sempre più asservita al capitale, in cui non c’è coerentemente spazio per la critica anticapitalistica.
Cari compagni,
questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...
Buona lettura!
* * * *
Il quadro era tutt’altro che roseo, alla fine del secondo conflitto mondiale: uno sfacelo economico mai visto nella Storia dell’uomo laddove, in aggiunta a quanto già riportato in questo stesso lavoro1, possiamo aggiungere dati più specifici relativi all’agricoltura, nella convinzione che ripeterli non sarà mai abbastanza per denunciare quanto accaduto:
Il danno, arrecato dagli occupanti fascisti all’agricoltura, fu calcolato in alcune decine di miliardi di rubli (prezzi del 1945-46). Nei territori occupati dai fascisti, prima della guerra si produceva fino al 55% dell’intero raccolto sovietico, di cui il 75% di grano, quasi il 90% di barbabietola da zucchero, il 65% di girasoli, il 45% di patate; inoltre, si produceva il 40% dell’allevamento sovietico, di cui il 65% di carne suina, il 40% di derivati del latte, ecc. Duecentomila fra trattori e macchinari agricoli, ovvero il 30% dell’intero parco macchine agricole sovietico del 1940, erano stati completamente distrutti dagli occupanti. Venticinque milioni di capi in meno rispetto al 1940, e il 40% in meno di aziende di trasformazione alimentare, completavano il quadro.2
Riprendo da Etica e politica questo saggio di Ezio Partesana e aggiungo alcune mie considerazione in appendice. [E. A.]
Si può odiare con tutto il cuore
una verità anche quando non c’è nulla da fare. La
sentenza di una grave malattia, le distruzioni causate da un
terremoto o la somma degli anni vissuti quando si arriva alla
fine, non hanno un nemico
contro il quale ci si possa scagliare; si bestemmia contro il
fato o la vita, ma è un modo di fare, non una risposta. Quel
che è
accaduto non è colpa di nessuno, non c’è rimedio e si muore
comunque.
Qualche volta usciamo da noi stessi e il male subìto si trasforma, si vorrebbe trasformato, in buona azione: In nome del padre o della figlia ci diamo da fare affinché la stessa sorte non tocchi a altri o almeno ci si prepari a renderla più lieve. Non c’è motivo di sorridere di questo conforto, anche la rivolta contro l’inevitabile è un principio di speranza: sotto i terremoti ci sono le case e gli anni non sono tutti uguali, ma non basta.
Il sapere necessario a uscire dal lutto non è disponibile sotto forma di un manuale di istruzioni ma va ottenuto con la forza e le difficoltà appaiono spesso insormontabili, serve tempo. La volontà da sola tiene sveglio l’istinto ma da solo l’istinto può andare in qualunque direzione. Una cattiva notizia segnala chi la riferisce, è vero, ma insieme a lui anche la conoscenza che l’ha prodotta.
Quando si passa sotto silenzio la fragilità dell’esistente, il colpevole è presto individuato, così come la constatazione rende tutti innocenti. In entrambi i casi chi volesse obiettare si troverebbe come Sansone tra le due colonne che lo tengono prigioniero, di fronte a una scelta obbligata tra la capitolazione e la rovina.
Tra tecnologia, scienze cognitive e utopia negativa: presente e futuro secondo Shoshana Zuboff
L'espressione “capitalismo della
sorveglianza”, coniata da Shoshana Zuboff, condensa
efficacemente due concetti: quello di
un nuovo capitalismo, alternativo a quello industriale dei
secoli scorsi, e quello di un nuovo sistema di potere fondato sul
controllo del comportamento individuale. Il sottotitolo
del libro di Zuboff insiste su questo epocale significato
politico: il futuro
dell’umanità nell’era dei nuovi poteri.
Il capitalismo della sorveglianza, portato in Italia da LUISS University Press, con la traduzione di Paolo Bassotti, è un libro importante e ampio (oltre 600 pagine) che descrive una realtà con cui miliardi di persone hanno a che fare, spesso inconsapevolmente, e introduce conoscenze che dovrebbero far parte dell’istruzione di qualsiasi cittadino. Un’opera in cui è utile, per un primo orientamento, distinguere due aspetti: primo, l’analisi storica, giuridica e economica del nuovo capitalismo sorto all’inizio del millennio e fondato sulle nuove tecnologie digitali; secondo, la descrizione di una nuova forma di potere antidemocratico, basata sul sistematico e occulto condizionamento delle scelte individuali, su cui l’autrice vuole provocare “indignazione”, invocando l’azione politica.
La seconda parte del libro è meno ancorata ai fatti: guardando al futuro delinea un’utopia negativa, una previsione plumbea fondata su alcune assunzioni filosofiche e politiche che si ritrovano anche in altri tentativi recenti di futurologia, come quelli di Yuval Harari. Ma, come cercherò di spiegare più avanti, Zuboff e Harari, pur avendo l’ambizione di “leggere” il futuro nelle tecnologie del presente, trascurano il contributo dell’epistemologia, della filologia, della filosofia, e in genere delle discipline che insegnano a comprendere criticamente i discorsi scientifici e i testi.
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L’asimmetria delle crisi e la centralità dei
rendimenti
Nella grande recessione iniziata nel 2007 e in quella attuale del grande lockdown, il mondo si confronta con crisi di portata globale, paradossalmente originate da eventi localizzati.
La grande recessione è stata originata dalla insolvibilità dei mutuatari subprime, che aveva bloccato il flusso di rendimenti dei titoli basati sulla cartolarizzazione dei mutui. Questi titoli costituivano appena il tre per cento del totale delle attività delle banche di Wall Street[1], una nicchia particolarmente speculativa entro una enorme massa costruita sui debiti delle famiglie.
Il grande lockdown è stato invece innescato dal blocco delle attività produttive del mercato di Wuhan, un’area della Cina dove sono localizzati i fornitori di 51 mila imprese attive nel mondo. Si è estesa alle aree contigue, ed ha interrotto le catene mondiali di approvvigionamento just-in-time ben prima che gli Stati, uno dopo l’altro, chiudessero le proprie attività non essenziali. Le imprese e le famiglie si sono trovate in difficoltà nel far fronte alla massa dei debiti in scadenza.
Entrambe le crisi hanno colpito i rendimenti. Nell’economia del debito i rendimenti esprimono la vitalità del rapporto di credito sul quale si erge il sistema dei titoli finanziari. “I titoli - chiarisce un esperto di finanza - sono radicati in uno spazio giuridicamente coerente di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto originati dalla realtà che li contiene. Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e pratico della finanza. L’attività sottostante è ovunque la stessa: quella di uno stock autonomo di ricchezza che mira a generare un flusso di rendimenti” [2].
Dopo 40 anni, è
necessario provare a dire perché sulla strage della stazione
di
Bologna, come su tutte le altre stragi “fascio-statuali”, è
pressoché impossibile arrivare a una conclusione condivisa e
si
è tuttora obbligati a fare “controinformazione”, smentendo la
pioggia di “ricostruzioni ufficiali”.
I “misteri”, in queste stragi1, non esistono. Ci sono buchi nelle indagini, palesi e spesso scoperti tentativi di depistaggio, interferenze continue praticamente “firmate” da servizi segreti – italiani, americani, israeliani, persino francesi – testimoni che scompaiono o muoiono in circostanze più che dubbie. Ma nulla che sia davvero “inconoscibile”.
Da Piazza Fontana in poi (in realtà si potrebbe risalire a Portella delle Ginestre e ai vari accenni di golpe messi in programma più volte), ci sono state più chiavi di lettura, tutte riconducibili a due campi politici molto chiari. Sul fronte opposto ad entrambi sta la ricerca della verità, storica e politica, tentata quasi in solitaria dal “movimento antagonista” – finché ha avuto forza e capacità di discernimento, sia individuale che collettivo – e da alcuni (pochi) storici o giornalisti.
I due campi principali sono facilmente distinguibili. Quello sedicente “progressista” – capeggiato un tempo dal Pci, poi dalle sue innumerevoli conversioni – ha spesso condotto le indagini attraverso magistrati “di area”, trovando sulla sua strada resistenze e depistaggi messi in atto, oggi diremmo, dal deep state. Ovvero dagli apparati, spionistici e mediatici, che quelle stragi avevano organizzato e poi coperto.
L’insistenza di Mark
Rutte, leader dei Paesi frugali e dell’Olanda austeritaria,
ha fatto
venire a galla definitivamente la pericolosità dei “vincoli
esterni” politici, culturali e ideologici che nel discorso
pubblico
italiano sono, purtroppo, estremamente presenti. Con il
professor Marco Giaconi cerchiamo oggi di
capire come spezzare questi vincoli
e riunire, definitivamente, il Paese.
* * * *
Professor Giaconi, per discutere del peso del “vincolo esterno” sull’Italia vorremmo partire dalla recente trattativa sul Recovery Fund europeo: vedendo le accuse lanciate dal premier olandese Mark Rutte al nostro Paese abbiamo finalmente osservato allo specchio l’origine non italiani di anni di svalutazione del nostro Stato in ambito politico e mediatico. Dal mito secondo cui “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” al dualismo tra rigoristi virtuosi e italiani “cicale”, il vincolo esterno ha costruito un forte retroterra narrativo e ideologico. Quali sono gli effetti di questa contaminazione culturale?
Ci si difende al potere, e mi riferisco qui a Mark Rutte e agli altri “frugali”, anche e soprattutto accusando gli altri delle nostre colpe e rendendoli immagini rovesciate delle nostre paure. Noi frugali, italiani spendaccioni o fannulloni. Già Goethe, nel suo “Viaggio in Italia” raccontava che i napoletani non sono affatto pigri, ma casomai caotici. Diventare indebitati come gli italiani, avere una burocrazia o una magistratura come noi, tutte cose che mettono paura e vengono utilizzate come strumenti del potere. E’ il meccanismo del “perturbante” di Freud. Das unheimliche, ciò che non è Patria-Casa e quindi spaventa.
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Critica e
totalità sono due categorie che entrano nella cultura moderna
come
intrecciate e inscindibili solo con la filosofia di Hegel. Già
Kant, com’è ben noto, aveva fatto della critica la modalità
fondamentale di una filosofia che, rinunciando alle astrazioni
di una metafisica ontologica dell’Essere o della Realtà
Oggettiva,
indagasse di fondo le strutture invarianti e trascendentali
della soggettività. Ma è propriamente con Hegel che, a partire
dalla tesi
secondo cui «il vero è l’intero», la critica diventa fattore
intrinseco della costruzione di una
totalità, giacchè solo attraverso il progressivo
autotoglimento di visioni fallaci e parziali si raggiunge la
verità di un
intero: attraverso cioè la dialettica dell’autocritica e
dell’autocontraddizione in cui non può non cadere qualsiasi
pretesa
di un lato solo particolare o di una configurazione parziale
di valore come l’intero. Il finito si toglie da sé medesimo,
perché,
non riuscendo alla fin fine a coincidere e a consistere solo
con sé stesso, è costretto, per necessità interiore, a negarsi
e a
trapassare in altro.1 La critica qui,
ancor più che in Kant, non rimanda più ad alcun osservatore o
giudice esterno ma è il giudizio che la realtà stessa
produce su sé medesima, in un’autonegarsi attraverso
contraddizione, che dovrebbe garantire insieme verità del
sapere ed
emancipazione dell’agire. Solo che Hegel per dare continuità
ai diversi passaggi dialettici ha dovuto forzare, almeno a mio
avviso, la
natura della negazione, assolutizzandola e ipostatizzandola,
fino ad estremizzarla in un purissimo negativo, che
non nega
alcunché di determinato fuori di sé, ma alla fine null’altro
che il proprio negare. Estenuando, con ciò, il nesso
fondamentale genialmente istituito tra critica e totalità
nella chiusura, invece, di una metafisica immanente del
nulla/negazione.
Pubblichiamo un estratto da La sfida di Gaia di Bruno Latour (Meltemi)
Non c’è mai tregua, ogni mattina ricomincia
tutto da capo. Un giorno,
l’innalzamento delle acque; un altro, la sterilità del
terreno; la sera, la scomparsa accelerata dei ghiacciai; dal
telegiornale delle
venti apprendiamo che, tra un crimine di guerra e l’altro,
migliaia di specie sono destinate a scomparire prima ancora di
essere state
adeguatamente classificate; ogni mese, il tasso di Co2
nell’atmosfera è sempre più elevato, ancor più di quello della
disoccupazione; ogni anno che passa, ci dicono, è l’anno più
caldo mai registrato dalle stazioni meteorologiche; il livello
dei
mari non fa che innalzarsi; i litorali sono sempre più
minacciati dalle tempeste di primavera; quanto all’oceano, a
ogni campagna di
misurazione risulta sempre più acido. È quel che i giornali
definiscono vivere nell’epoca della “crisi ecologica”.
Purtroppo, parlare di “crisi” sarebbe ancora un modo per darsi
facili rassicurazioni, per dirsi che “passerà”, che
“presto ci lasceremo alle spalle” questa crisi.
Se fosse soltanto una crisi! Se solo fosse stata semplicemente una crisi! Secondo gli specialisti, si dovrebbe parlare piuttosto di “mutazione”: eravamo abituati a un mondo; passiamo, mutiamo in un altro. Quanto all’aggettivo “ecologico”, lo utilizziamo troppo spesso, anch’esso, per rinfrancarci, per porci a una certa distanza dai problemi che ci minacciano: “Ah, state parlando di questioni ecologiche, be’, non sono cose che ci riguardano!”.
Una mutazione nel rapporto con il mondo
Come è già accaduto, d’altronde, nel secolo scorso, quando si parlava di “ambiente” e si designavano con questo termine gli esseri della natura considerati da lontano, al riparo di una teca di vetro. Ma oggi, siamo tutti noi – dall’interno, nell’intimità delle nostre preziose, piccole esistenze – a essere toccati, coinvolti in prima persona, dicono gli esperti, dai bollettini che ci mettono in guardia su quel che dovremmo mangiare e bere, sul nostro modo di sfruttare i terreni, di spostarci da un luogo all’altro, di vestirci.
I. Appena
laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì
nel 1953 a Milano, dove
lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa
industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia
così descritta quasi
mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora
giornalista del quotidiano socialista “L’Avanti!”:
Il ritrovo dove ci si vedeva più spesso era la trattoria di Poldo, in via Borgospesso, dove costituivamo un gruppetto abbastanza fisso e piuttosto affiatato: c’era e c’è il mio Virgilio, Luciano Amodio, guida assatanata e indistruttibile, non solo di me medesimo (per lui conobbi i Solmi, Vittorini, Fortini, Basso, Chiara Robertazzi, le tre sorelle Bortolotti, Giancarlo Majorino, Michele Ranchetti, Ettore Capriolo, Sergio Caprioglio che se n’è andato appena un mese fa, Antonino Tullier fra Dada e surrealismo, scomparso già da molto tempo) ma di tutta la giovanissima intellighenzia milanese in quegli anni, almeno così a me pareva allora e ne sono convinto ancora, e c’era Elvio Fachinelli, che non c’è più da troppo tempo1.
In un dibattito riportato su “Il Tempo” del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
era sorta l’idea di fare una rivista, che si chiamasse “Borgospesso”, perché mangiavamo tutti in via Borgospesso. C’erano Elio Pagliarani, Gianni Bosio, Amodio, Giuseppe Bartolucci e tanti altri2. E c’era, telefonato, Fortini. Verso l’ora del profiterol infatti arrivava un cameriere, chiamando Amodio al telefono. Grande irritazione di tutti, sia verso Amodio, che era il prescelto, che con Fortini, che telefonava per “dare la linea”, per farci sapere cosa andava, e cosa no.
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
“Homo Deus” di Yuval Noah Harari, “La Terra inabitabile” di David Wallace-Wells e “Spillover” di David Quamman sono tre saggi usciti in anni recenti, rispettivamente 2015, 2019 e 2012. In comune hanno il tentativo di rispondere, ciascuno a modo suo, alla domanda delle domande: dov’è l’umanità e dove sta andando (o dove sta rischiando di non andare). Li ho letti uno di seguito all’altro e ho pensato valesse la pena recensirli insieme, cercando di cogliere il filo rosso che, pur nelle differenze d’argomento, li unisce.
Schiavi tecnologici
Harari guarda lontano e vede un futuro molto inquietante. Con la Rivoluzione Scientifica iniziata cinque secoli fa, spiega in “Homo Deus”, l’uomo si accorse che l’esistenza di Dio non aveva fondamento: era una storia inventata. Ci fu bisogno di una nuova religione: l’uomo stesso. Uscito trionfatore dal Novecento, l’umanesimo predica che maggiore è la libertà dell’individuo, migliore sarà il mondo.
Sia Machiavelli sia Marx considerano la storia sociale solcata dal conflitto fra oppressori e oppressi. Ma tra i due pensatori sono anche importanti le differenze
«Die Geschichte aller bisherigen Gesellschaft ist die Geschichte von Klassenkämpfen».
La storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi.
Nessuno avrà dimenticato le parole con cui inizia il primo capitolo del Manifesto del partito comunista, che, come tutti sanno, continua come segue: «Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con la trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta».
Anche chi, pur senza abbracciare la retorica dell’originalità, possieda la modesta esperienza storiografica necessaria per diffidare del «precursorismo», e tenersene lontano, non può non restare colpito, allorché, nel corso dei suoi studi machiavelliani, gli capita di riaprire il nono capitolo del Principe e di leggere la frase con cui l’autore inizia l’analisi del «principato civile»:
C'è chi sostiene che il capitalismo è proprio morto.1 Più modestamente noi ci domandiamo: fino a quando gli Usa saranno in grado di continuare a scaricare i costi della loro egemonia imperiale? Partiamo dalle sommosse seguite all’assassinio di George Floyd per andare indietro nel tempo e anche per confrontare questo movimento con quelli precedenti, ma di questi ultimi vent’anni. La differenza è grande, perché il contesto è radicalmente cambiato e perché è diverso anche il movimento. Il numero di chi ha perso il lavoro e non sa se e quando potrà riaverlo ammonta a una metà degli occupati stabilmente. In secondo luogo, ci sono contemporaneamente la pandemia e un crollo verticale della domanda interna, in terzo luogo è cresciuta la radicalità del movimento mentre Occupy wall street, per esempio, era la coda annacquata delle prime esplosioni No global, nato in un momento in cui l’egemonia liberal era ancora forte, mentre il movimento era in crisi dopo i fatti di Genova. Tanto annacquata da avere in Hilary Clinton addirittura un simbolo femminista: fu facile per i democratici convogliare quel movimento nei comitati elettorali pro Obama e poi mandarlo a casa una volta eletto il presidente.
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Lotta di classe e ideologia nel capitalismo crepuscolare
Molti, anche autorevolmente, si sono chiesti se gli Uffizi abbiano fatto bene a scegliere Chiara Ferragni come testimonial. Implicitamente, anche non volendo, si intende criticare il mondo che la ragazza rappresenta, che non c'entra con gli Uffizi e l'alta cultura. Altri invece pensano: che c'è di male se la Ferragni ha successo, piace e porta i giovani agli Uffizi?
Il rischio qui latente è la critica moralistica da una parte o l'elitismo dell'alta cultura, un po' snobistico, dall'altra. Sono approcci che non credo portino a niente. Cerchiamo di evitare il moralismo: Chiara Ferragni è una bella ragazza cui piace mostrarsi, di ciò si compiace molto, incontrando il consenso di molti. C'è qualcosa di male? No. La ragazza ne approfitta per fare molta pubblicità a cose come profumi, vestiti, accessori ecc. e tirar su una montagna di soldi. È qualcosa di sbagliato? È una cosa normale in un mondo mercantile.
Se ti piacciono molto i vestiti, gli accessori, l'aspetto della Ferragni, fai qualcosa di esecrabile? Di socialmente inaccettabile o riprovevole? Non credo. Sono tutte cose carine o meno, a seconda dei gusti. Il problema non è qui.
Da: http://www.rifondazione.it/formazione - [estratto
dal libro di Samir Amin LA CRISI. Uscire dalla crisi del
capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi? Punto
Rosso
2009].
Samir Amin è stato
un economista, politologo, accademico e attivista politico
egiziano naturalizzato francese
Io sono marxista. Per
me vuol dire “partire da Marx”. Sono convinto che la critica
che Marx ha messo
nell’agenda del pensiero e dell’azione – la critica del
capitalismo, la critica della sua rappresentazione centrale
(l’economia politica del capitale), la critica della politica
e del suo discorso – costituisce l’asse centrale e
imprescindibile
delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.
Io non sono “neo-marxista”. Per esserlo, bisogna confondere Marx e i marxismi storici, il che non è il mio caso. I “neo-marxisti” vogliono rompere con il marxismo storico e pensano che bisogna andare “oltre Marx”. Di fatto, essi si oppongono solo a quelli che io definisco “paleo-marxisti”, cioè ai seguaci acritici del marxismo storico, in particolare il “marxismo-leninismo” nelle sue diverse versioni. Essere marxista come intendo io non significa essere “marxiano” (che trova “interessante” una qualche “teoria” di Marx, isolata dal resto dell’opera), né essere “marxologo”.
Significa necessariamente essere comunista.
Marx non dissocia teoria e prassi. Non si può seguire la scia di Marx se non ci si impegna nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli. Essere comunista significa anche essere internazionalista. L’internazionalismo non è solo un’esigenza della ragione umanista. Non si cambierà mai il mondo se si dimentica l’immensa maggioranza dei popoli che lo costituiscono, quelli delle periferie.
Questi popoli hanno la responsabilità del proprio avvenire. Non sono i popoli dei centri imperialisti opulenti che possono da soli “cambiare il mondo” (in meglio). La carità, gli aiuti, l’umanitarismo, che si vuole sostituire all’internazionalismo, inteso come solidarietà nelle lotte, contribuiscono solo a consolidare il mondo come è, o, peggio, ad avviarlo verso la costruzione di un apartheid su scala mondiale.
La
battaglia su Keynes è politicamente importante.
Si ritenga importante tatticamente, strategicamente, dialetticamente o che si condivida integralmente, il pensiero keynesiano ben interpretato fornisce uno strumento utilissimo per chi crede nella centralità dello Stato in economia.
D’altronde basta pensare a quante volte vengono tirate in ballo le politiche keynesiane come risposta alla crisi, come naturali implementazioni della parte economica della Costituzione, come aspetti costitutivi delle moderne economie monetarie, e così via.
Se questo dà la misura della sua importanza, un altro aspetto dà la misura della fragilità del richiamo al pensiero keyenesiano: il fatto è che Keynes risulta tanto nominato quanto poco letto e questo vale sia per i sostenitori che per i detrattori.
Questa fragilità presta il fianco a due tipi di attacchi da parte del mainstream liberista: o il loro qualificarsi come veri keynesiani mentre in realtà ne stravolgono il pensiero, o identificare chi crede nello Stato interventista come falsi keynesiani statalisti, i keynesiani de’ noantri, il cui pensiero non avrebbe non solo nulla a che fare con il (probabilmente) più grande economista del Novecento, ma che per giunta neanche avrebbero letto.
Il caso in questione rientra in quest’ultimo tipo di attacchi, che non sono solo pretestuosi e capziosi, ma sono anche perpetrati spesso senza assumersi l’onere della prova, perché se si scrive su testate prestigiose agli occhi del grande pubblico si eredita quel prestigio che consente di esimersi dalla giustificazione delle invettive.
Da Etica & Politica / Ethics & Politics , XXII, 2020, 2, pp. 601-609, ISSN: 1825-5167
Esiste ancora oggi uno
spazio teorico-politico che risponde al nome di Sinistra?
Giungere oggi a porre questa
domanda, dopo la fine della drammatica esperienza sovietica,
apre ad una rosa di riflessioni non scontate. Nel discorso
pubblico generale, il richiamo
a una non meglio precisata sinistra politica e culturale
circola con grande facilità. Tuttavia, i partiti presenti, che
numericamente
dovrebbero farsi carico di rappresentare le istanze politiche
di sinistra, non sembrano godere oggi di buona salute non solo
dal punto di vista del
consenso elettorale, ma anche sul piano della proposta
politica. Si potrebbe sostenere che tale quadro si inserisce
nella difficoltà più
generale ad assumere una Weltanschaauung differente da
quella di matrice riformista. Quest’ultima è individuata come
unica
possibilità — dialogica, comunicativa e di creazione di spazi
di consenso —attraverso cui giungere alla levigazione delle
asperità del dominante quadro di mercato, magari attraverso
‘sapienti’ interventi di ottimizzazione del sistema normativo
e
redistributivo. Questa descrizione coincide quasi
integralmente con quella che Jacques Bidet ha definito come
polo politico delle competenze,
nominalmente alternativo al polo del capitale. Mentre
quest’ultimo avrebbe una collocazione immediatamente
riconoscibile, il primo è
frequentato da individualità politiche che giustificano la
propria esistenza sulla scena pubblica, basandola sul fatto
che sarebbe in loro
possesso, quasi esclusivo, la competenza a saper gestire e
organizzare, anche con maggiore ‘umanità’, la macchina
politico-produttiva del modo di produzione capitalistico1.
La ricollocazione di queste formazioni riformiste all’interno
dell’alveo del sistema sociale egemone, al fine di ristabilire
chiarezza di proposte, finalità e referenti sociali, può
essere ben
condotta attraverso A Sinistra (G. Cesarale, A
sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, RomaBari,
Laterza, 2019).
A più di due settimane dall’accordo sul Recovery Fund è possibile realizzare un primo bilancio del compromesso raggiunto dal premier Conte al Consiglio europeo.
Come sempre accade, le misure promosse da Bruxelles sono state accolte con toni trionfalistici dalla stampa nazionale. I giornalisti italiani, infatti, hanno tessuto le lodi della bravura di von der Leyen, della tenacia di Michel, della diplomazia di Conte e delle capacità di tutti gli altri attori che a loro dire hanno contribuito alla creazione di uno strumento innovativo ed efficace (il Recovery Fund, appunto). Insomma, è il solito giornalismo del sentito dire che guarda più alla forma che alla sostanza e, attraverso una narrazione acritica, preferisce riportare i fatti presentati dalla burocrazia al potere anziché verificarli.
Tuttavia, se si analizza concretamente lo strumento del Recovery Fund si scopre che nella realtà esso si manifesta come una specie di MES in salsa diversa. Come rivelato dal ministro Gualtieri durante la sua audizione in Commissione Bilancio, i prestiti del Recovery Fund (al pari di quelli del MES) godono del privilegio creditizio, un particolare che potrebbe provocare una juniorizzazione dei titoli di stato italiani e il conseguente aumento dei tassi di interesse sui titoli di nuova emissione.
Non ne posso più di essere preso per il sedere dal governo e anche da quei plenipotenziari delle stupidere che sono i vari capitani delle voraci task force intente a prosciugare come idrovore i soldi rimasti. Per esempio Domenico Arcuri, il commissario straordinario per l’emergenza Covid – che dio la conservi perché dopo di lei il diluvio – ha preso spunto dal benservito dato dalla Fiat al suo indotto in Italia, per consolarci e farci sapere che adesso l’azienda si appresta a non produrre più auto, ma in compenso nelle sue fabbriche desolate e in via di smantellamento si dedicherà a sfornare milioni di mascherine, una parte delle quali destinate ai lavoratori del gruppo: insomma una trasformazione in basso napoletano. Come si possa pensare di fare un paragone economico tra un’industria strategica che smuove miliardi e una produzione di infimo rilievo tecnico, fuori mercato e comunque di utilità contingente è davvero un mistero doloroso. Eppure non è la prima volta che succede: anche dopo la chiusura dell’impianto Fiat di Termini Imerese una classe politica, immobile, impotente e soprattutto complice, cercò di placare l’ opinione pubblica dell’isola sventolando il mirabolante piano di sostituire la fabbrica con un supermercato.
I compagni di Nuova Direzione hanno deciso di non prendere parte (che in concreto significa mettersi di traverso) al costituendo “Partito dell’Italexit con Paragone”.
Lo hanno ufficialmente dichiarato con un comunicato il 13 giugno scorso dal titolo perentorio: “Nuova Direzione non partecipa al progetto del Senatore Gianluigi Paragone“.
Correndo deliberatamente il rischio di semplificare, provo a dire quale sia il succo del discorso:
“Il partito di Paragone si pone obbiettivi pienamente condivisibili — l’uscita dalla Ue, la riconquista della sovranità nazionale e democratica, il rifiuto del neoliberismo, l’applicazione del modello sociale della Costituzione del ‘48 —, tuttavia non ne faremo parte poiché non ha scritto in fronte che vuole il socialismo, ergo non sarà un partito di classe (del lavoro salariato) anticapitalista”.
Siamo davanti ad un ragionamento sillogistico seppur a termini rovesciati: poste due premesse negative, la conclusione obbligata è anch’essa ovviamente negativa.
Dal punto di vista logico il discorso non farebbe (come vedete uso il condizionale) una piega.
Da quello politico esso è palesemente fallace.
Si possono punire per legge discriminazioni e ingiurie, imporre uguaglianze formali di ogni ordine e grado e favorire ogni sorta di libertà. Ma non è possibile fondare la fraternità né imporla per decreti e ingiunzioni esterne.
Anzi: il prezzo da pagare per ogni libertà garantita dall’alto e per ogni uguaglianza sancita a colpi di emendamenti e cavilli è, spesso, proprio la fraternità – lemma dimenticato, nodo irrisolto del moderno che riaffiora in ogni frangente critico. Sulla fraternità si regge, o cade, tutto ciò che variamente chiamiamo società civile, sociale, corpi intermedi, comunità.
I termini della triade laico-moderna «liberté, egalité, fraternité», al contrario di quanto avviene nella trinitas cristiana, non si intergenerano. Libertà, uguaglianza, fraternità sono sicuramente complementari ma, osservaEdgar Morin, «non si integrano automaticamente tra loro». Di conseguenza, il loro equilibrio è fragile e richiede una continua attività di tessitura e interconnessione.
Possono certamente esistere forme “legali” disolidarietà sociale che, in qualche misura, traggono spunto o fanno il verso alla fraternità: dalla previdenza al sussidio di disoccupazione, fino alle derive tragico-parodistiche del nostrano reddito di cittadinanza.
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I. Introduzione
Questo scritto parte dalla convinzione della fine relativamente vicina dell’attuale organizzazione economica e sociale, che a partire dal 1989 si è estesa al mondo intero [1]. Il collasso di questa forma sociale, il capitalismo, dipende dal fatto che essa è entrata in una fase di totale distruttività: sta ormai divorando natura e società, distruggendo in tal modo i fondamenti stessi della propria esistenza.
Se questo dato di fatto è già piuttosto preoccupante, ciò che veramente spaventa è rendersi conto della sostanziale assenza di ogni forma di opposizione o di resistenza al suicidio collettivo verso il quale il capitalismo sta portando l’umanità. Ciò dipende sicuramente da molti fattori, ma credo che uno di questi sia il fatto che chi arriva oggi a sviluppare, in un modo o nell’altro, una coscienza critica anticapitalistica, lo fa attraverso una serie di mediazioni culturali che sono in realtà completamente inadatte a costruire una resistenza effettiva. Anche qui, il discorso per essere completo dovrebbe toccare molti temi (di alcuni ho discusso recentemente [2]). Uno di questi è sicuramente la predominanza, all’interno delle minoranze anticapitalistiche, delle tesi del “politicamente corretto”. Nel breve spazio di questo scritto mi concentrerò su un punto specifico, quello del femminismo, e discuterò l’idea, molto radicata nelle piccole cerchie anticapitalistiche, che il femminismo debba essere parte essenziale di ogni progetto di superamento del capitalismo. Intendo quindi discutere le relazioni fra femminismo e anticapitalismo, e intendo criticare la tesi appena esposta.
Le elezioni in
Bielorussia hanno portato alla riconferma per la sesta volta
consecutiva del
presidente uscente Aleksandr Lukašenko, rieletto con l’80,23%
dei voti.
È opportuno precisare subito che il presidente bielorusso non è un comunista, ma un “paternalista autoritario”, fautore di “un’economia di mercato socialmente orientata”. Nel 1994, anno della sua prima elezione, basò la sua campagna elettorale su un programma di lotta alla corruzione dilagante negli apparati statali e di introduzione di riforme di mercato e di privatizzazioni meno selvagge che nelle altre repubbliche ex-sovietiche.
Successivamente ha più volte ribadito la necessità di favorire e accelerare la destatalizzazione dell’economia, pur mantenendo il controllo pubblico dei grandi monopoli strategici, organizzati in forma di società per azioni, cioè di imprese capitalistiche, in cui lo stato viene ad assumere il ruolo di “capitalista collettivo”: una cosa ben diversa dalla proprietà socialista. Non stiamo parlando, quindi, di un’economia socialista pianificata, ma di un tipo di gestione della restaurazione dell’economia di mercato in maniera meno selvaggia che altrove. Un capitalismo di stato che, tuttavia, ha permesso alla Bielorussia di ottenere una buona performance economica, con la disoccupazione allo 0,5% (percentuale ben più bassa che negli USA e in tutti gli stati europei), il PIL pro capite più alto tra tutte le repubbliche ex-sovietiche, un apparato produttivo solido e funzionante per il 50% ancora nelle mani dello stato, un welfare molto più sviluppato che in altri paesi, una sanità efficiente ereditata dall’Unione Sovietica e un tenore di vita discretamente elevato. Sono queste le ragioni del relativo consenso di cui gode Lukašenko tra la popolazione.
Sfortunatamente Marx non espose
formalmente cosa intendeva con il concetto di formazione
economico-sociale. Marx
utilizza alcune derivazioni per questa nozione, come la
formazione sociale, la formazione della società, le forme
economiche, ecc., derivazioni
che seguono il processo di maturazione della teoria di Marx.
Tuttavia, in due occasioni, secondo Sereni, Marx utilizza il
concetto di formazione
economica della società (Ökonomische Gesellschaftsformation),
la cui nozione si avvicina alla concezione attribuita
successivamente dagli
autori marxisti alla formazione economico-sociale. Dovrebbe
essere chiaro che l'obiettivo di questo scritto non è
ricomporre il concetto di
formazione economico-sociale in Marx, ma piuttosto rivedere il
dibattito più recente attorno a questo concetto. A questo
punto, è
interessante evidenziare in Marx i due contesti in cui sono
stati utilizzati tali concetti preliminari, lasciando così una
base per il
dibattito che svilupperemo intorno all'obiettivo che
proponiamo.
Nella Prefazione per la critica dell'economia politica, pubblicata originariamente nel gennaio 1859, Marx fa una retrospettiva della sua formazione politico-intellettuale dove espone il risultato generale dei suoi studi in una sintesi chiara e astratta di dialettica dei rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive dalla concezione materialistica della storia. Dopo aver distinto, nella trasformazione materiale del processo storico, il movimento delle condizioni economiche di produzione dalle forme ideologiche, Marx sviluppa dialetticamente questo movimento, esponendone le implicazioni per società specifiche, dove sottolinea:
“Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza.
Ci sono molte e fondate ragioni per considerare le parlamentari del 6 dicembre le elezioni più importanti che si siano svolte in vent’anni di socialismo bolivariano in Venezuela. Il ministro dell’Educazione, Aristobulo Isturiz le ha illustrate nel corso del programma Dando y Dando che conduce insieme alla vicepresidenta dell’Assemblea Nazionale Costituente, Tania Diaz.
L’elezione numero 25 consentirebbe al chavismo sia di recuperare il Parlamento dopo la vittoria della destra nel 2015, ma anche di reimpostare un nuovo patto sociale basato sulla dialettica politica e non sul golpismo permanente che ha obbligato il Venezuela bolivariano a vivere in un costante stato di allarme.
A meno che non vi sia un patto fra le élite come accadeva nella IV Repubblica in Venezuela e come, in fondo, succede nelle asfittiche democrazie borghese, quella dell’”alternanza” è infatti una favola priva di sostanza.
Per come vanno le cose nei paesi dove meno sofisticati sono i meccanismi di costruzione del consenso, perché le contraddizioni di classe sono più evidenti, un rovescio politico non significa semplicemente un cambio momentaneo di governo.
Quale turismo? È questa la domanda che dovremmo farci per rilanciare le città, colpite dal crollo verticale dei visitatori dovuto alla Covid. A questo tema è dedicato il saggio “Governare il turismo, riprogettare le città” di Tomaso Montanari pubblicato nel numero di MicroMega in edicola. Ne pubblichiamo un estratto*
Parafrasando Danilo Dolci, si potrebbe dire che il problema non è turismo sì o turismo no: ma quale turismo «e chi si prende i soldi». Prendiamo il caso clamoroso della mia città, Firenze. Qui il crollo verticale del turismo dovuto alla Covid ha messo in ginocchio un bilancio comunale scelleratamente basato sulla tassa di soggiorno. Mentre il sindaco Dario Nardella giura di voler cambiare finalmente modello, la sua amministrazione approva la trasformazione dell’ex ospedale militare in Costa San Giorgio (nel luogo più pregiato del centro storico) in resort di lusso (1° giugno 2020).
Gli ultimi dati disponibili circa il mercato degli alloggi nel centro di Firenze dimostrano che circa il 90 per cento dei passaggi di proprietà preludono all’apertura di attività ricettive[i]. Ogni anno mille fiorentini abbandonano la residenza in centro storico: e su oltre 10 milioni di turisti presenti ogni anno, almeno due milioni dormono in case private trasformate, più o meno legalmente, in alberghi di fatto.
Cosa sta accadendo nel giornalismo? Di certo stanno continuando processi che già conosciamo: fusioni, acquisizioni, dismissioni, forte ridimensionamento delle edizioni cartacee, ristrutturazione dei punti vendita fisici, precariato, riduzione degli organici, organizzazione del lavoro più aggressiva.
Ma ci sono altri processi, per altro sviluppati, che stanno per emergere anche dalle nostre parti. Si guardi ad esempio l’immagine di questo articolo. Riguarda Xin Xiaomeng la prima giornalista non umana prodotta per i notiziari dell’Agenzia Nuova Cina, la maggiore e più antica della due agenzie di stampa ufficiali della Repubblica popolare cinese. Xin Xiaomeng e Qui Hao, il successivo giornalista maschio prodotto per l’agenzia Nuova Cina, sono serviti da modelli per ulteriori versioni prototipali di giornalisti-robot. Il modello umano, sul quale è stato elaborato quello non umano, lo si può vedere a sinistra di questa foto.
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“Globalizzazione vuol dire che se qualcuno starnutisce in Cina, qualcun altro un giorno potrebbe prendere un raffreddore a Toronto. O peggio: se, per dire, nella provincia del Guangdong, 80 milioni di persone vivono a stretto contatto con polli, maiali e anatre, così stiamo facendo in realtà tutti. Per l’appunto, il villaggio globale”.(Commento editoriale del Globe and Mail, 29 marzo 2003, sulla diffusione della SARS tra Asia e Canada)
Si apre così Networked disease. Emerging infectious in the global city (2008), meticolosa autopsia sociologica post-SARS in cui i sociologi S. Harris Ali e Roger Keil ripercorrono le relazioni fra flussi di denaro, materie prime e persone all’origine della diffusione di questa malattia infettiva tra Hong Kong, Singapore e Toronto. Così facendo, i due autori arrivano a dimostrare quanto la vulnerabilità delle tre global cities fosse diretta conseguenza delle interconnessioni globali e di modelli di sviluppo urbano che avevano prodotto forme di governance e infrastrutture della salute carenti, ben prima della diffusione del virus.
Una decade appena e un altro virus della SARS ci ha colti nuovamente impreparati. Uno starnuto stavolta quasi sincrono nel mondo ha scoperchiato nodi, ramificazioni nascoste e zone d’ombra dell’urbanizzazione planetaria, quel continuum urbano che secondo i geografi Neil Brenner e Christian Schmid si dirama attraverso morfologie nuove e/o espanse oltre i confini regionali e nazionali, per tutto il pianeta (N. Brenner, Implosion/Explosion. Towards a study of planetary urbanization, Jovis, december 2013).
Lunedì 10 agosto il governo
libanese si è dimesso a fine giornata, sei giorni dopo
l’esplosione
che ha devastato il porto ed il centro di Beirut ed al terzo
giorno consecutivo di proteste popolari.
L’esecutivo uscente con a capo Hassan Diab era in carica da gennaio dopo le dimissioni di Saad Hariri lo scorso ottobre che erano state provocate da inedite mobilitazioni popolari per la storia recente del Libano.
Lo scorso sabato il premier nel tardo pomeriggio aveva promesso che lunedì avrebbe chiesto “elezioni anticipate”, chiarendo che sarebbe potuto rimanere in carica “per due mesi” cioè il tempo necessario affinché le forze politiche si fossero accordate per tale fine.
Ma l’effetto domino delle dimissioni “a catena” di vari ministri, la pressione popolare e le non poche interferenze straniere hanno spinto per la scelta delle dimissioni “in toto”, aprendo una fase di “vuoto politico” in una situazione sull’orlo della bancarotta economica e con classe dirigente delegittimata.
Per comprendere la situazione che si sta sviluppando nel “Paese dei Cedri” è indispensabile capire come questa sia diretta conseguenza di un modello di sviluppo al capolinea, di un sistema politico che ha portato il Libano ad essere uno “Stato Fallito”, con il concorso dell’Occidente così come delle petrol-monarchie del Golfo.
Il sistema politico di stampo confessionale sostanzialmente tuttora vigente sorto dopo la Seconda Guerra mondiale sulle ceneri del colonialismo francese, è stato costruito più in una logica di spartizione di potere tra notabili delle comunità principali, piuttosto che sulla necessità di dare rappresentanza a tutte le componenti della popolazione del complesso mosaico etnico-confessionale.
Fino a
qualche anno fa, il termine “Antropocene” era noto solo tra i
circoli degli
addetti ai lavori: geologi, climatologi, ambientalisti e pochi
altri. Oggi, questa parola complicata che si basa su due
termini greci
(anthropos e kainos) è entrata nel
linguaggio comune con molta più facilita e velocità di quanto
chiunque
avrebbe osato sperare. Google sforna 730.000 risultati
correlati ad Antropocene (in italiano), ci sono almeno
diciassette volumi in italiano che usano
questo termine nel titolo, un album della band Il rumore
bianco e il docufilm Antropocene. L’epoca umana,
girato da Jennifer Baichwal e
Nicholas de Pencier con l’abbagliante fotografia di Edward
Burtynsky e, per l’Italia (disponibile in Dvd, Blu Ray e
Digitale grazie a CG Entertainment),
l’ipnotica voce narrante di Alba Rohrwacher, nell’originale
affidata ad Alicia Vikander, nota soprattutto per la sua
apparizione in
The Danish Girl di Tom Hopper, che le valse nel 2016
l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il documentario
ci porta in diverse
parti del mondo per mostrarci la realtà del concetto di
Antropocene, secondo cui, a partire da un certo momento
storico (sulla cui datazione
gli studiosi si interrogano ancora, ma probabilmente
dall’inizio della rivoluzione industriale) l’umanità è
diventata la
principale forza di cambiamento su scala geologica nel
pianeta, superiore a tutti gli altri fenomeni naturali.
La fortuna di questo termine sta nel fatto che offre una visione nuova del problema da tempo noto dei cambiamenti climatici e dei danni ambientali. Anziché considerare tutti questi problemi – l’aumento delle temperature, i fenomeni meteorologici estremi, l’estinzione di specie viventi, la deforestazione, la distruzione della barriera corallina, i danni dell’estrazione di minerali, il buco nell’ozono, l’acidificazione degli oceani, e potremmo allungare questo elenco ancora per parecchie righe – come elementi a sé stanti, l’Antropocene ci offre una cornice epistemologica per tenerli tutti insieme.
Un mio amico che insegna biologia in un’università dell’Italia settentrionale, e collabora con diversi virologi, mi ha scritto questo testo, autorizzandomi a pubblicarlo.
Non ho ovviamente le competenze per esprimere un parere, ma l’autore è una persona estremamente seria.
Ecco cosa scrive:
* * * *
Dai dati disponibili, è chiaro che il virus è ormai scomparso da mesi dall’Europa come agente patogeno.
Si parla ancora di decessi causati dal Covid, ma si tratta quasi sempre di decessi causati da altre patologie in persone che, in qualche momento nel passato, erano risultate positive. E anche se ci fossero 10 vittime al giorno da Covid, su una popolazione di 60 milioni è praticamente zero.
L’epidemia ha ormai fatto il suo corso in tutto l’emisfero nord. Negli stati uniti il declino è nettissimo sia in termini di casi come di decessi.
Un giurista di cui un tempo avevo qualche stima, in un articolo appena pubblicato su un giornale allineato, cerca di giustificare con argomenti che vorrebbero essere giuridici lo stato di eccezione per l’ennesima volta dichiarato dal governo. Riprendendo senza confessarlo la distinzione schmittiana fra dittatura commissaria, che ha lo scopo di conservare o restaurare la costituzione vigente, e dittatura sovrana che mira invece a istaurare un nuovo ordine, il giurista distingue fra emergenza e eccezione (o, come sarebbe più preciso, fra stato di emergenza e stato di eccezione). L’argomentazione in realtà non ha alcuna base nel diritto, dal momento che nessuna costituzione può prevedere il suo legittimo sovvertimento. Per questo a ragione nel suo scritto sulla Teologia politica, che contiene la famosa definizione del sovrano come colui «che decide sullo stato di eccezione», Schmitt parla semplicemente di Ausnahmezustand, «stato di eccezione», che nella dottrina tedesca e anche fuori di questa si è imposto come termine tecnico per definire questa terra di nessuno fra l’ordine giuridico e il fatto politico e fra la legge e la sua sospensione.
L’analisi di Giuseppe Liturri sull’andamento delle emissioni dei titoli di Stato
“Cash is king”. Questa frase, che non richiede traduzione, è utilizzata nel mondo degli affari per affermare che ciò che conta sono i flussi di cassa. Il resto sono chiacchiere.
E, purtroppo per l’Italia, il confronto con le altre maggiori economie della Ue, basato sui dati al 30 giugno, rivela che il ministro Roberto Gualtieri continua ad avere il braccino corto nel mettere mano al portafoglio. La misura oggettiva ed incontestabile per capire quanto il governo stia spendendo per mitigare l’impatto della crisi da Covid 19 la fornisce l’andamento delle emissioni lorde e nette (quelle dopo aver rimborsato i titoli giunti a scadenza) dei titoli di Stato. Ed i dati di giugno e del secondo trimestre sono impietosi, sia in assoluto sia relativamente agli altri Paesi.
Ma la responsabilità non va ascritta al ministro, ma a tutto il governo del Presidente Giuseppe Conte. Infatti il Tesoro emette titoli se e solo se ci sono fabbisogni da finanziare, non certo per tenere il denaro parcheggiato nel conto disponibilità presso la Banca d’Italia.
Prestigio e superiorità nella corsa al Vaccino, come accadde per lo Spazio
Anche stavolta, davanti al mondo intero, chi ci ha messo la faccia è stato Vladimir Putin: la sua, che vale il prestigio dell'intera Russia.
Facciamo un passo indietro, perché tutto torna, come sempre: ricordate i medici militari russi che arrivarono in Italia, bardati di tutto punto con le tute per il biocontenimento di livello 3?
Venivano in missione ufficiale, concordata direttamente con il Premier Giuseppe Conte, per aiutarci nella lotta al virus ed arrivarono fino a Bergamo, la città tra le più martoriate, soprattutto per isolare il virus, per prenderne quanti più campioni possibile, cercando i ceppi più virulenti tra i malati più gravi. Andarono via, dopo aver contribuito alla sanificazione di residenze sanitarie e in tutto quasi un milione e 200mila metri quadrati di interni (più di 120 strutture tra Bergamo e Brescia) più 450mila metri quadrati di strade adiacenti e 76 pazienti dimessi (curati anche da medici russi), ed aver svolto servizio nell'ospedale da campo allestito dagli alpini nella Fiera di Bergamo ed all'ospedale Papa Giovanni XXIII.
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GMO are an ‘invention’ of corporations, and
therefore can be
patented and owned.
Ana Isla
Nature, too, awaits the revolution
Herbert Marcuse
Il libro di Ian Angus è
stato pubblicato nel 2016. Da allora si sono avute novità e
conferme. Il 21 maggio dello scorso anno, l’Anthropocene
Working Group ha formalizzato la proposta di considerare
quella in cui viviamo una
nuova epoca successiva all’Olocene, definita Anthropocene, il
cui inizio viene datato a partire dalla metà del secolo
scorso, con quella
che è stata definita la «Grande accelerazione». Adesso si
attende il parere di altri organismi.ii L’AWG individua
questa nuova realtà cronostratigrafica in una serie di
fenomeni imputabili alle recenti attività umane, che
consentono di paragonare “l’umanità” ad una potente e
distruttiva
forza geologica.
Fondamentali cicli naturali sono stati compromessi a causa dei processi di industrializzazione ed urbanizzazione per come li abbiamo conosciuti e delle attività militari in campo nucleare, cosa che ha procurato il riscaldamento globale a cui stiamo assistendo, nonché una generale devastazione del pianeta; e molti di questi cambiamenti sembra persisteranno per millenni. La più importante traccia (primary marker) che segnala lo spartiacque tra le due epoche geologiche viene individuata nella presenza di radionuclidi dovuta alle esplosioni nucleari, che al ritmo di una ogni 9,6 giorni hanno caratterizzato il Secondo dopoguerra dal 1945 al 1988.
Intanto, vasti incendi hanno interessato la Russia, la California, l’Amazzonia e di recente in misura ancora più drammatica l’Australia, e inondazioni il Sud-Est asiatico. Circa dieci milioni di ettari di vegetazione scomparsi a causa degli incendi e si stimano un miliardo di animali morti nella sola Australia. In fondo, tutto come niente fosse.
In calce l'intervista di Tatiana Santi a Guido Salerno Aletta
Sollevare
lo sguardo dal flusso impazzito delle news ora per ora;
individuare una logica, o
una tendenza, nel mare magnum senza coordinate stabili; capire
dove stiamo andando per vedere se è possibile cambiare
direzione prima che sia
troppo tardi.
Lo sforzo informativo e analitico che facciamo ogni giorno è spesso superiore alle nostre forze, e dunque siamo abituati ad “aiutarci” con il meglio che troviamo in giro. E’ la ragione per cui pubblichiamo spunti e contributi che ci sembrano importanti, spiegando il legame che vi rintracciamo con quanto andiamo analizzando.
Questa intervista di Sputnik news – sì, sono russi, e allora? – a Guido Salerno Aletta, editorialista autorevole di testate come Milano Finanza e TeleBorsa, fornisce un altro tassello.
Diciamo subito le cose per noi rilevanti, che sottolineiamo in corsivo e grassetto anche nel testo dell’intervista.
In primo luogo il raffronto con l’altra grande crisi di “paradigma”, ossia la crisi petrolifera del 1973. Anche allora un evento geopolitico ed economico di grande dimensione – l’aumento shock del prezzo del greggio, anche fino al triplo – portò a politiche di “austerity” e divieti di ampia portata sulla vita quotidiana dei cittadini.
In quel caso, il “fatto economico” si accompagnava ad una guerra potenzialmente pericolosa (la “guerra del kippur”, tra Siria ed Egitto contro Israele) per gli equilibri mondiali congelati dal bipolarismo Usa-Urss.
L'interpretazione
sovietica
Durante i decenni che ci interessano ai fini di questo lavoro, la partecipazione di questa matrice interpretativa attorno alla definizione del concetto di formazione economico-sociale avviene in due forme, ma in entrambe resta una concezione specifica, ereditata dal periodo antecedente gli anni ‘50: i rapporti di produzione costituiscono l'elemento di discernimento sia del modo di produzione, sia della formazione economico-sociale, che si definisce dalla coesistenza dei rapporti di produzione con le “sovrastrutture politico-ideologiche”.
Vediamo, inizialmente, come avviene questa costruzione nei manuali di economia politica del periodo indicato, come è il caso di Nikitin, e poi analizzeremo l’analisi fornita da Oskar Lange.
Partendo dalla definizione di economia politica marxista-leninista come scienza che studia le leggi che governano lo sviluppo della società, Nikitin afferma che il movimento e il progresso delle società umane devono essere compresi dalla produzione di beni materiali, come base della vita sociale. La produzione dei beni materiali avviene nell'ambito di un certo processo produttivo che contiene necessariamente il lavoro dell'uomo, i mezzi di lavoro e l'oggetto su cui lavorare. In questo modo, “in qualsiasi fase di sviluppo che si incontra, la produzione ha sempre avuto i seguenti aspetti: le forze produttive e i rapporti di produzione”.
Ecco i due concetti fondamentali per la concezione sovietica dello sviluppo delle società e, di conseguenza, dei modi di produzione e delle formazioni economico-sociali. Le forze produttive sono intese come mezzi di produzione e strumenti di lavoro prodotti nella società e, inoltre, dagli uomini che hanno prodotto questi beni materiali.
Sesto capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Naturalmente le elite funzionali
del capitalismo si rendono conto, o quanto meno hanno sentore
del fatto che, prima o poi, si
arriverà alla fine della corsa. Se non si verificherà al più
presto una nuova avanzata della crescita e dell’occupazione su
scala globale accadrà ciò che sembrava già incombere
drammaticamente, su di uno stadio di sviluppo assai inferiore,
durante la
prima parte del XIX secolo: lo sgretolamento della società
capitalistica, ostinatamente attaccata alla sua forma, nelle
guerre civili e negli
stati di assedio permanenti, nel terrore e nella follia. Il
discorso della «tolleranza zero» è già un sintomo della
crescente paura da parte delle elite, che potrebbero perdere
completamente il controllo della situazione. Ma poiché, com’è
logico,
la violenza in uniforme, nuovi campi di correzione e di lavoro
non possono generare da soli una nuova accumulazione di
capitale, bisogna comunque
insistere con la claudicante promessa di un miglioramento
economico, anche se quest’ultima sembra essere ormai del tutto
insussistente.
La scomparsa definitiva del miracolo economico industriale è ormai un fatto universalmente noto. Nessuno parla più della teoria delle «onde lunghe», un tempo il paradigma della crescita industriale. Conformemente alla tesi della «disoccupazione naturale» di Milton Friedman, esiste oggi un consenso generale fra economisti e consulenti aziendali circa il fatto che la «piena occupazione» non tornerà mai più. Ma per «gestire», in un modo nell’altro, il sistema globale capitalistico nel suo processo di crisi occorre trovare, costi quel che costi, un nuovo settore di crescita per l’«occupazione» per arrestare l’incessante processo di liquefazione almeno in una parte relativamente considerevole dei settori industriali.
I
“comunisti” neocon del Terzo Millennio e i loro
“rivoluzionari”
In prima pagina, con esaltata gigantografia, titolo e occhiello che un giornale, con la tracotanza di chiamarsi “quotidiano comunista”, dovrebbe dedicare all’ottobre 1917 di Leningrado, al luglio 1789 di Parigi, al gennaio 1959 dell’Avana. E, invece, confermandosi organetto dei neocon globali, sussidiato da pubblicità turbocapitaliste e, indecentemente, da cittadini ignari depredati per questo scopo dallo Stato, celebra in tal modo il contrario di quanto chiedevano le lotte di massa in quegli eventi emancipatori.
Le rivolte in cui il giornale, peggio mimetizzato da indipendente, o di sinistra, si riconosce sono altre. Tutte di destra estrema. Quelle i cui fili dipartono dalla Vedova Nera, il mostro letale che fa tessere la sua tela a Langley, Wall Street, Pentagono, Bilderberg, Davos. Parliamo dei “rivoluzionari libici”, così omaggiati da Rossana Rossanda, dei vari “colorati” alla Otpor, dei “ribelli democratici” di Hong Kong o Portland, di “Black Lives Matter”, Me TooI e affini. E, si parva licet, delle nostrane Sardine, anch’esse fasulle e dunque di vita brevissima, rispetto a quella dei nobili pesci di cui avevano usurpato il nome.
Il modo più facile per riconoscerli è l’uniformità degli slogan, l’attrezzatura logistica omogenea e immediata, la violenza estrema e indistinta nella ricerca del caos, lo sfruttamento di rivendicazioni popolari mutate, su ordine della Cupola, in regime change attraverso il depistaggio su obiettivi che i militari chiamano “falsi scopi”. Immancabili il plauso unanime di tutta la propaganda finto-giornalistica del globalismo, il finanziamento da centrali occulte, ma per niente oscure, tipo Open Society di Soros, Fondazione Ford, Fondazione Rockefeller, National Endowment for Democracy e tante altre.
Lunedì 10 agosto il governo
libanese si è dimesso a fine giornata, sei giorni dopo
l’esplosione
che ha devastato il porto ed il centro di Beirut ed al terzo
giorno consecutivo di proteste popolari.
L’esecutivo uscente con a capo Hassan Diab era in carica da gennaio dopo le dimissioni di Saad Hariri lo scorso ottobre che erano state provocate da inedite mobilitazioni popolari per la storia recente del Libano.
Lo scorso sabato il premier nel tardo pomeriggio aveva promesso che lunedì avrebbe chiesto “elezioni anticipate”, chiarendo che sarebbe potuto rimanere in carica “per due mesi” cioè il tempo necessario affinché le forze politiche si fossero accordate per tale fine.
Ma l’effetto domino delle dimissioni “a catena” di vari ministri, la pressione popolare e le non poche interferenze straniere hanno spinto per la scelta delle dimissioni “in toto”, aprendo una fase di “vuoto politico” in una situazione sull’orlo della bancarotta economica e con classe dirigente delegittimata.
Per comprendere la situazione che si sta sviluppando nel “Paese dei Cedri” è indispensabile capire come questa sia diretta conseguenza di un modello di sviluppo al capolinea, di un sistema politico che ha portato il Libano ad essere uno “Stato Fallito”, con il concorso dell’Occidente così come delle petrol-monarchie del Golfo.
Il sistema politico di stampo confessionale sostanzialmente tuttora vigente sorto dopo la Seconda Guerra mondiale sulle ceneri del colonialismo francese, è stato costruito più in una logica di spartizione di potere tra notabili delle comunità principali, piuttosto che sulla necessità di dare rappresentanza a tutte le componenti della popolazione del complesso mosaico etnico-confessionale.
Fino a
qualche anno fa, il termine “Antropocene” era noto solo tra i
circoli degli
addetti ai lavori: geologi, climatologi, ambientalisti e pochi
altri. Oggi, questa parola complicata che si basa su due
termini greci
(anthropos e kainos) è entrata nel
linguaggio comune con molta più facilita e velocità di quanto
chiunque
avrebbe osato sperare. Google sforna 730.000 risultati
correlati ad Antropocene (in italiano), ci sono almeno
diciassette volumi in italiano che usano
questo termine nel titolo, un album della band Il rumore
bianco e il docufilm Antropocene. L’epoca umana,
girato da Jennifer Baichwal e
Nicholas de Pencier con l’abbagliante fotografia di Edward
Burtynsky e, per l’Italia (disponibile in Dvd, Blu Ray e
Digitale grazie a CG Entertainment),
l’ipnotica voce narrante di Alba Rohrwacher, nell’originale
affidata ad Alicia Vikander, nota soprattutto per la sua
apparizione in
The Danish Girl di Tom Hopper, che le valse nel 2016
l’Oscar come miglior attrice non protagonista. Il documentario
ci porta in diverse
parti del mondo per mostrarci la realtà del concetto di
Antropocene, secondo cui, a partire da un certo momento
storico (sulla cui datazione
gli studiosi si interrogano ancora, ma probabilmente
dall’inizio della rivoluzione industriale) l’umanità è
diventata la
principale forza di cambiamento su scala geologica nel
pianeta, superiore a tutti gli altri fenomeni naturali.
La fortuna di questo termine sta nel fatto che offre una visione nuova del problema da tempo noto dei cambiamenti climatici e dei danni ambientali. Anziché considerare tutti questi problemi – l’aumento delle temperature, i fenomeni meteorologici estremi, l’estinzione di specie viventi, la deforestazione, la distruzione della barriera corallina, i danni dell’estrazione di minerali, il buco nell’ozono, l’acidificazione degli oceani, e potremmo allungare questo elenco ancora per parecchie righe – come elementi a sé stanti, l’Antropocene ci offre una cornice epistemologica per tenerli tutti insieme.
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Imperialismo
frugale
La semplificazione geniale di Altan, che però richiede sempre capacità critiche, nella vignetta di due signore benvestite a confronto, è forse la spiegazione più evidente e immediata da fornire alle masse sull’uso mistificante del momentaneo significato di “frugale”, di cui si sono auto-fregiati gli stati europei più predatori di questi ultimi tempi. Al raggiro delle parole segue però più rilevante quello del contenuto, relativamente ai 209 miliardi che la bravura e la tenacia di Conte avrebbero strappato all’Europa, cui sarebbe stata chiesta l’inusuale “solidarietà” per la crisi pandemica “in comune”, di cui effettivamente nessun paese dell’Unione è stato economicamente responsabile. Come ormai risulta più chiaro, rispetto alla crisi economica già precedentemente in atto, la crisi sanitaria si è configurata in termini inediti, peraltro inattesa, sebbene già preannunciata da diverse “voci” verosimilmente ben informate. A circa sei mesi dalla sua sconvolgente comparsa, e tuttora innalzando il livello delle difficoltà economiche ormai mondiali nel calo dell’accumulazione di plusvalore, i governi degli stati europei si sono riuniti per affrontare una situazione “comune” all’interno della differenziazione imperialistica che avvicina le prede ai loro razziatori, nella contemporanea gestione di una propaganda per le masse credulone, con narrazioni di umanità fraterna e comprensiva che avrebbe unito un’Europa sempre idealizzata, e perciò mai esistita.
Per chi ancora riconosce nel termine imperialismo il dato di realtà presente, va ricordato che dal punto di vista delle sue precipue condizioni economiche, per quanto riguarda sia l’esportazione dei capitali sia la spartizione del plusvalore da parte dei capitali con base su potenze ex-coloniali e universalmente considerate “civili”, va preso atto che, finché perdura questo regime capitalistico, l’unità europea, sempre auspicata o invocata, è impossibile o può avviarsi prevalentemente verso derive reazionarie.
Il taglio dei parlamentari è un tassello di un più vasto disegno volto a ridurre gli spazi di resistenza delle classi sfruttate. E noi diciamo No!
Il 20 e 21 settembre si andrà a votare al
referendum confermativo
dell’ennesima “riforma” costituzionale. Questa volta l’elettorato
si deve pronunciare sulla riduzione del numero dei deputati
da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200.
L’elemento di novità di questo appuntamento è che questa volta
si voterà non solo per il referendum, ma anche per il
rinnovo dei consigli di sette regioni, dei sindaci e dei
consigli di oltre mille comuni e di due senatori in un
collegio uninominale della Sardegna e
uno del Veneto.
Già questo abbinamento pone dei problemi. Infatti l’importante tema di una riforma costituzionale rischia di essere poco dibattuto nelle realtà dove al centro dell’attenzione saranno i partiti e soprattutto i candidati per le elezioni amministrative e regionali. In periodo di emergenza da coronavirus e con spazi di partecipazione ridotti il rischio è che il popolo italiano giunga a questo appuntamento poco informato.
C’è da considerare inoltre che la percentuale dei votanti al referendum nelle località dove si tengono altri tipi di elezione sarà verosimilmente molto maggiore di quella negli altri territori e quindi che il peso dell’elettorato sarà molto diverso da località a località. A causa di ciò sull’appuntamento elettorale si allunga l’ombra di ricorsi presso l’Alta Corte.
La difficoltà di informare e far ragionare gli elettori si inserirà in un percorso che per i fautori del No sarà tutto in salita. Infatti il taglio dei parlamentari è stato proposto dai partiti populisti cavalcando la stanchezza della gente, il senso comune – purtroppo in buona parte più che comprensibile – che la politica e i partiti sono tutti corrotti, che meno parlamentari mandiamo a Roma e meglio è, che bisogna ridurre il costo della politica in quanto abbiamo sul collo un debito pubblico enorme che mette a repentaglio i diritti sociali: scuola, salute, casa, lavoro, trasporti pubblici.
Ci vuole una bella faccia tosta a chiamarsi Mario Draghi e a fare – come ha fatto l’ex presidente della BCE al consueto Meeting per l’amicizia fra i popoli di Comunione e Liberazione – un discorso tutto incentrato sui giovani. A detta di Draghi, negli ultimi anni «una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a [trascurare i giovani e a] distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico». Ma adesso, dice Draghi, è arrivato finalmente il momento di «essere vicini ai giovani», investendo su di loro e sul loro futuro, perché «privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza».
Parole indubbiamente condivisibili, ma che risulterebbero più credibili se a pronunciarle non fosse colui che per otto anni ha presieduto la più importante carica istituzionale dell’Unione europea, quella di presidente della Banca centrale europea (BCE), e che in quella veste ha pervicacemente sostenuto le politiche di austerità fiscale che hanno condannato milioni di giovani europei alla disoccupazione, alla precarietà e all’emigrazione forzata, distruggendo le prospettive di un’intera generazione.
La furia del dileguare. Le sinistre radicali, una volta abbandonato il mito della classe operaia come soggetto escatologico, hanno individuato nei “migranti” e nelle più strampalate minoranze sessuali i moderni soggetti antagonisti. Il sostegno al nomadismo esistenziale dei primi e la difesa dei diritti civili dei secondi, sono diventate le loro due cifre identitarie. Ne è venuto fuori un instabile mix di libertarismo individualistico, di buonismo cattolico e di cosmopolitismo progressista. Si spiega così la corrispondenza di amorosi sensi con l’élite neoliberista.
Che questo connubio non fosse incidentale lo dimostra come esse si sono comportate e si stanno comportando davanti alla pandemia da Covid-19. Le sinistre radicali (di quelle di regime manco a parlarne) hanno fatto loro la narrazione dell’élite neoliberista dominante, quella per cui avremmo a che fare con un virus la cui letalità sarebbe tale da falcidiare l’umanità.
Posta la premessa due sono le conclusioni politiche obbligate. La prima: il nemico principale non è per il momento l’élite dominante, bensì il virus; la seconda: dato che essa agirebbe filantropicamente per il bene comune, merita di essere sostenuta. Embrassons nous!
Considero Nadia Lucio Olivares un’eccellente economista della Federico II di Napoli – università statale fra le più antiche d’Italia e del mondo – ed è per questo che ho condiviso le sue riflessioni e il suo grafico (in fondo all'articolo), vi dico cosa è successo nel pubblico negli ultimi 20 anni.
Per capirlo, occorre ritornare alla marcia dei 40 mila impiegati a Torino nel 1980. Vinsero i padroni, il movimento operaio ebbe una sconfitta storica e da allora non si più ripreso.
I padroni con quella vittoria inaugurarono il ritorno allo sfruttamento lavorativo secondo lo schema marxiano del pluslavoro assoluto e dell’intensificazione dei ritmi lavorativi. Non era l’unica soluzione capitalisticamente possibile, ma scelsero quella per loro più semplice e meno impegnativa.
Non ne volevano più sapere di rischiare e spendere soldi in investimenti,. Ritornarono perciò agli anni ‘50 e da allora non ci siamo più mossi.
Rimaneva il settore pubblico, con quasi tre milioni di dipendenti.
A che punto è questo capitalismo devastante che sta distruggendo gli Stati-nazione e l’economia di mezzo mondo, nonché la vita delle persone? Se lo è chiesto Giuliano Battiston, ponendo la stessa domanda a James K. Galbraith, docente all’Università di Texas ad Austin e autore di libri importanti sull’economia politica, che su L’Espresso ha dato un risposta sotto forma di analisi che va assolutamente ripresa, rilanciata e condivisa. Spiega Galbraith: “La pandemia sta sgretolando l’intero sistema economico. Un castello di carte che non va ricostruito con gli stessi materiali e secondo gli stessi progetti di prima. Perché l’alternativa – dice Galbraith in quest’intervista all’Espresso – è ùil capitalismo del disastro e la catastrofe sociale”.
Sui pacchetti miliardari di “stimoli”, da quello del Congresso Usa al Recovery Fund della Ue, Galbraith dice la sua: “Bisogna vedere come verranno spesi questi soldi. Il mio timore è che non si tratti di un vero cambiamento di mentalità, ma della replica di quanto fatto nel 2008, con l’obiettivo di salvare soprattutto le corporation e il settore finanziario.
Planet of the Humans pone domande difficili sul fallimento del movimento ambientalista per fermare il cambiamento climatico e salvare il pianeta. Per cercare una risposta intervistiamo il regista
Rilasciato alla vigilia del 50°
anniversario della Giornata della Terra e nel bel mezzo
della pandemia
globale causata dal Sars-Cov-2, Planet of the
Humans ci racconta come il movimento
ambientalista ha perso la sua battaglia facendosi
convincere che pannelli solari e mulini a vento ci avrebbero
salvato e cedendo agli interessi di Wall Street.
Per questi motivi, nessuna sorpresa che il film abbia generato polemiche. È stato criticato come parzialmente obsoleto e fuorviante e alcuni lo hanno accusato di distorcere le energie rinnovabili e di propagandare un “malthusianesimo anti-umano”.
Per fugare ogni dubbio abbiamo deciso di intervistare il regista e sceneggiatore del film, Jeff Gibbs.
Nato a Flint, nel Michigan, Jeff lavora da tempo come collaboratore di Michael Moore. Il primo film a cui ha lavorato è stato “Bowling for Columbine” e ha prodotto scene cult tra cui “la banca che ti dà una pistola”, “cacciatore di cani” e “Michigan Militia”. Dopo il successo di “Bowling for Columbine”, Jeff è diventato co-produttore di “Fahrenheit 9/11”, il documentario campione di incassi di tutti i tempi. Jeff ha anche scritto la colonna sonora originale di entrambi i film. Da “Fahrenheit 9/11”, sebbene si sia preso una pausa occasionale per produrre altri film tra cui il documentario di Dixie Chicks “Shut Up and Sing”, Jeff è stato singolarmente ossessionato dal destino della terra e dell'umanità.
* * * *
Domanda. Ciao Jeff. Grazie per averci concesso l’intervista. Il documentario si basa su dati scientifici. Quanto tempo è stato necessario per raccoglierli e quanto sono affidabili?
Rivoluzioni colorate, la pandemia vera
Ogni volta che ti
trovi dalla parte della maggioranza, è il momento di
fermarsi e riflettere”. (Mark Twain)
Cercate su Google un’immagine dei 65mila (3000 per i nostri media) che l’altro giorno hanno manifestato per Lukashenko inalberando bandiere rossoverdi (quelle sovietiche). A fatica ne troverete una. Ma ne troverete tantissime con le bandiere biancorosse, quelle del dopo-URSS, di altre migliaia di manifestanti (milioni per i nostri media). Quelle pro-USA e pro-UE. Le uniche viste sui giornali e in tv. E’ la stampa, bellezza.
Badanti
Finora non se n’erano mai viste. A pulire le terga degli anziani non autonomi, a stramazzarsi a lavare scale e cantine, a spingere carrozzelle con vecchi e disabili, a procurare e procurarsi documenti fino alle sevizie e all’esaurimento nervoso, a essere imputati di untorame slavo da Coronavirus, a farsi pagare cinque euro/ora per spazzare una casa da cima a fondo, o svellere uva dai tralci, ad avere come unico momento di tregua e di socialità, in mancanza di figli o dei vecchi rimasti in patria, la panchina al parco con le sorelle della deportazione, ci avevamo le moldave, le ucraine, le bulgare, le rumene, le polacche, qualche russa. Se va male, per strada, a volte nelle “case”.
Nel caldo ferragostano, mentre governo e regioni litigavano sul riaprire o chiudere le discoteche e sull’affollamento delle spiagge date in concessione per quattro bucce di patate a facoltosi imprenditori che stipano sulla sabbia più persone possibili per aumentare i loro profitti, è arrivato un nuovo, sorprendente comunicato del Comitato Tecnico Scientifico della Presidenza del Consiglio.
Cancellando i precedenti comunicati sul distanziamento e sulle “rime buccali” il CTS ha sentenziato che, alla fine, il metro di distanza non è indispensabile e che si può stare a scuola anche più vicini se si indossa la mascherina.
Una presa di posizione che non stupisce se si considera che salva il Ministero dal grave imbarazzo di non sapere come avviare l’anno scolastico di fronte agli appelli degli istituti che proprio non hanno idea di come rispettare le norme sul distanziamento fisico in assenza di un sufficiente numero di docenti, personale ATA e aule. In pratica, il rischio è che nulla cambi dallo scorso anno, salvo l’obbligo della mascherina, che non è certo agevole, per dei ragazzi, portare ogni giorno per cinque o sei ore di lezione.
Agosto sembra essere il mese fatale dei Cinque Stelle. Un anno fa – primo artefice lo stratega di Rignano sull’Arno – i pentastellati stringevano l’accordo di governo col Pd. Quest’anno, quasi dovessero onorare una cambiale firmata allora, ecco la “svolta” sulle alleanze. D’ora in poi, a dispetto di quanto avverrà alle regionali di settembre, la linea sarà quella dell’alleanza strategica col Partito Democratico. Il bipolarismo ammaccato degli anni scorsi tende perciò a ricomporsi, con quali esiti ce lo dirà il tempo.
Così scrivevamo il 25 agosto 2019:
«Sono adesso i Cinque Stelle, spinti tra le braccia del Pd proprio da Salvini, a dover decidere se il loro futuro sarà semplicemente quello di farsi riassorbire ed integrare nel sistema. Non solo andando oggi al governo col Pd, ma predisponendosi in un domani non troppo lontano ad un’alleanza organica con quel partito. Perché questa è ormai la vera posta in gioco».
La vera posta in gioco… Eravamo dunque stati facili profeti. Ci hanno messo un anno, ma questi 365 giorni non sono trascorsi invano. Nella sostanza l’anomalia M5S era già finita con il governo Ursula, ma la formalizzazione della piena integrazione nel blocco a trazione piddina – avvenuta con il patetico voto on-line di ieri l’altro – uno scherzo non è.
Elsa Dorlin, Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, 2020, pp. 304, € 19
Il fuoco ha appena avvolto la stazione di polizia di Minneapolis in cui lavoravano gli sbirri assassini di George Floyd. Immediatamente si infiamma anche il dibattito: un coro di voci gracchianti si leva per condannare la violenza pur pretendendo, allo stesso tempo, di sostenere le ragioni della protesta. Ma è possibile mantenere il piede in due scarpe in modo così pilatesco? In fin dei conti anche il non violento Martin Luther King sapeva che il riot è il linguaggio di chi non è ascoltato.
C’è però qualcosa di più che si può dire. E lo possiamo fare utilizzando un libro della femminista francese Elsa Dorlin, da poco tradotto in Italia, Difendersi. Una filosofia della violenza. Secondo l’autrice una linea di demarcazione storica oppone i corpi “degni di essere difesi” a coloro che rimangono esposti alla violenza del potere dominante e alle minacce di una minoranza con il diritto permanente di usare impunemente le armi.
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Niamey, 16 agosto 2020. Proprio come lui, il camaleonte, anche la cartina del Niger appena presentata dalle autorità francesi, ha assunto un altro colore, il rosso. Rimane, a vero dire, un irrilevante circolino arancione che circonda la capitale del Paese, Niamey. Si tratta di un colore, il rosso, generalizzato al territorio nazionale, che l’ha reso formalmente sconsigliato per i cittadini francesi. Quanto all’arancione, di cui Niamey si ammanta secondo le stesse autorità, implica lo stesso invito ‘salvo forza maggiore’. Tradotto in termini operativi questo significa che gli occidentali, principali bersagli presunti degli attacchi terroristi, non possono uscire dalla capitale senza scorta armata. I colori dei Paesi del Sahel cambiano e si adattano secondo quanto le potenze coloniali decidono, unilateralmente, a seconda dell’impatto sui propri cittadini. Sono in questo assai simili all’animale citato, il camaleonte, il cui cambio di colore è dovuto ad un meccanismo di comunicazione sociale. I colori scuri indicherebbero collera e agressività e quelli più chiari sarebbero invece in funzione della seduzione delle femmine. Si tratta dunque di un sistema di comunicazione che potremmo definire ‘politico’.
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Dalla Lotta di Classe al Conflitto tra generazioni
Questo è il
paradigma del nuovo conflitto sociale:
a) le Banche centrali creano la moneta dal nulla;
b) di fronte alle crisi ricorrenti, gli Stati si indebitano enormemente per salvare l'intero sistema;
c) i Giovani "pagheranno" il conto del nuovo debito, mentre i loro Padri che sono dei parassiti, beneficiano dell'assistenzialismo pubblico;
d) i Mercati useranno la mannaia per punire gli Stati che si indebitano per fare assistenzialismo, trascurando i Giovani: non sottoscriveranno più i loro titoli di Stato, usando la moneta creata dal nulla.
Le parole di Mario Draghi, che sono state pronunciate all'apertura del Meeting dell'Amicizia, suonano come una vera e propria messa in guardia, se non come una velata minaccia da parte di chi conosce bene chi ha il Potere vero in mano, i Mercati. Sono i Giudici, i Saggi: le Democrazie sono sotto la loro tutela.
Il monito è sostanzialmente questo: dopo la crisi, il livello dei debiti pubblici rimarrà assai elevato. E saranno sottoscritti solo i titoli degli Stati che ne avranno fatto un buon uso di questa spesa finanziata in deficit, con investimenti in infrastrutture, nel capitale umano, e non per fare assistenzialismo.
Ad essere messo sull'avviso, non è solo il Governo guidato da Giuseppe Conte, ma l'intera strategia di politica economica che serve per superare la crisi causata dalla epidemia di Covid-19. Perché con questo virus, ha proseguito Draghi, ci si deve convivere per chissà quanto tempo.
Visto che i nostri governanti, nazionali e
regionali, stanno
preannunciando obblighi per la prossima stagione, è bene poter
usufruire di maggiori informazioni documentate che permettano
di farsi
un’idea più chiara su alcuni importanti questioni.
Ho selezionato otto domande, con le relative risposte, dall’ampia e interessante analisi dell’attuale epidemia da parte del Prof. Marco Mamone Capria, Matematico ed Epistemologo presso l’Università di Perugia.
L’analisi è stata pubblicata ieri, 4 luglio, da AURET (Associazione Autismo Ricerca e Terapie). Ho reso il pdf linkabile a fine post così, chi è interessato ad approfondire ulteriormente, può leggerla per intero completa dei necessari riferimenti.
1. È vero che se si è positivi al test per il cov-2, allora si è stati infettati da questo virus?
Risultare positivi a un test per una certa infezione non è lo stesso che essere infetti. Tutto dipende da quanto discriminante sia il test. Un test ha certi parametri che ne definiscono la qualità conoscitiva:
– la proporzione dei positivi tra gli infetti (si dice sensibilità),
– la proporzione di negativi tra i sani (si dice specificità),
– e i valori predittivi, quello positivo, che dice quanto probabile è che se sei positivo tu sia infetto, e quello negativo, che dice quanto probabile è che se sei negativo allora tu sia sano.
Carissima Ilaria,
ero poco più che ventenne quando sentii parlare del libro di don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa, identificandomi immediatamente con i ragazzi della scuola di Barbiana per motivi che non sto in questa sede a descrivere. Scusami per il tu confidenziale, ma mi agevola nella scrittura.
Che c’entra una professoressa degli anni ’70 con una virologa dell’inizio del terzo millennio, si chiederà il lettore. C’entra, eccome se c’entra!
Ti ascolto e ti leggo volentieri, anche se spesso sei costretta a nascondere qualche verità spiacevole fra le parole, ma riesci comunque a porre le questioni in modo da far riflettere. Il tuo sorriso tende ad addolcire i pugni nello stomaco in una fase molto complicata per l’umanità.
In queste poche note intendo commentare due tuoi ultimi scritti per il Corriere della sera del 3 e del 19 agosto, perché degni di attenzione, perché un bravo analista si misura dalle previsioni e dalle proiezioni, e in base ad alcune cose che hai scritto hai dimostrato di essere all’altezza.
La pubblicazione degli atti riservati del Comitato Tecnico Scientifico che ha assistito il governo nel corso dell’emergenza Covid, conferma quanto già si poteva intuire. La scelta governativa di drammatizzare l’emergenza e di imporre il lockdown generalizzato, non era imposta dalla “Scienza”, bensì dettata da altre considerazioni rimaste inconfessate. Incurante della smentita del proprio operato derivante da quegli atti ora resi pubblici, il governo imbocca la strada di una nuova stretta emergenziale.
Gli effetti economici di questa nuova stretta saranno disastrosi, poiché sarà sufficiente il timore di un nuovo lockdown generalizzato a scoraggiare la ripresa di molte attività industriali e commerciali nel prossimo settembre. L’ipotesi di un movimento a vu del PIL, cioè una rapida risalita dopo la drastica discesa, andrà a farsi benedire. Ciò che invece ne risulterà rafforzato sarà il vincolo europeo, l’eurodipendenza dell’Italia dal Recovery Fund e dal MES. Le classi dirigenti italiane non hanno esitato a sacrificare l’economia pur di assicurarsi la perpetuazione di quel vincolo esterno che consente loro di tenere in condizione di crescente sottomissione le classi subalterne.
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Il capitalismo va declinato al plurale, benché la sua sostanza sia unica: il plusvalore. La sua lunga sopravvivenza è dovuta alla flessibilità che lo connota, non avendo altro scopo che il profitto può adattarsi alle circostanze della storia, può superare le crisi di sovrapproduzione assumendo nuove forme. Il capitalismo non ha senso del limite e della misura, per cui ha la capacità di trasformarsi, di mutare per sopravvivere. L’economia europea è oggi dominata dalla Germania e dall’ideologia ordoliberale. Si ripete che le ideologie non esistono più, che non bisogna essere ideologici nelle scelte, ma flessibili. Si deve celare, in tal modo, l’ideologia ordoliberale, per renderla eterna. Essa è come l’imperatore cinese c’è, ma non si mostra. Il volto che governa il mondo deve restare nascosto ai sudditi, altrimenti potrebbero riconoscere il nemico. Rintracciare la genesi dell’ordoliberalismo e la sua visione antropologica è di ausilio per comprendere il presente, altrimenti condannato a processi di naturalizzazione.
Negli anni trenta dopo il crollo di Wall street (1929), con i suoi effetti drammatici, in Germania è fondata la scuola di Friburgo promotrice dell’ordoliberalismo (Ordoliberalismus).
S. G. Azzarà, La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, La Scuola di Pitagora, Napoli 2019
La comune umanità. Memoria di
Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del
materialismo storico in
Domenico Losurdo, di Stefano G. Azzarà, precedentemente
edito dalle Editions Delga di Parigi nel 2012 ed ora
pubblicato da "La Scuola di
Pitagora" in edizione italiana riveduta, ampliata ed
aggiornata dalle corpose integrazioni di Emiliano
Alessandroni, costituisce una privilegiata
chiave d’accesso all’itinerario di pensiero di Domenico
Losurdo.
I tre capitoli di cui si compone il libro riguardano il confronto storico e filosofico di Losurdo con la storia del liberalismo, con la filosofia classica tedesca e con il materialismo storico.
Secondo le narrazioni oggi in Occidente più gettonate, il liberalismo, nato tra Sei e Settecento presso le più illuminate intellettualità europee, lottò e vinse contro l’assolutismo monarchico facendo acquisire centralità al valore dell'individuo e realizzando lo stato di diritto. Dopodiché, una volta conferita una più o meno solida struttura alla sua propensione democratica, si trovò ad affrontare nemici ancora più temibili. Un parto gemellare di natura totalitaria diede infatti vita a nazismo e comunismo che, affratellati dalla comune natura dispotica, hanno tentato entrambi di contendere al mondo liberale la guida del Novecento. Fortunatamente, tuttavia, il liberalismo vinse anche quest’ultima battaglia e a tutt'oggi si candida a prosperare sull'intero globo, esportando il proprio modello sociale e politico, garanzia di serenità e di pace.
Domenico Losurdo ha mostrato l’inconsistenza di una simile narrazione, opponendo a questa storia sacra (la cui credibilità è stata favorita dalla sconfitta dei tentativi di costruzione del socialismo in Europa orientale) una storia profana, finora abilmente schivata dalla luce dei riflettori.
Partiamo dalla fine, per essere chiari. Il 24 e
25 settembre sono state indette due
giornate di sciopero e mobilitazione dai sindacati di base
(USB, Cub, UniCobas e alcune sezioni dei Cobas). Queste due
giornate sono state fatte
proprie da alcune organizzazioni studentesche e da numerosi
collettivi universitari. Riteniamo che quelle due giornate di
mobilitazione siano
importanti. Cerchiamo di spiegare il perché e,
contemporaneamente, il motivo per cui non ci convince affatto
la mobilitazione prevista per
sabato 26 da alcune associazioni e dai sindacati confederali.
Le false narrazioni
Ragionare in maniera sensata e convincente su ciò che accadrà a settembre nelle scuole e nelle facoltà, in effetti, non è semplice. Pesano, infatti, la cortina di fumo e le false promesse rilasciate a ogni pie sospinto dalla ministra Lucia Azzolina, rilanciate ripetutamente dai media e avallate dai sindacati confederali ed autonomi. Si fa un gran parlare di rientro in sicurezza, di investimenti, di nuovi spazi e assunzioni. Quindi occorre, in primo luogo, cercare di avere un quadro più chiaro.
Ad oggi gli unici provvedimenti in qualche modo certi sono la firma di un protocollo tra il governo e i principali sindacati dove, all’interno di un fiume di parole di cui si fatica a comprendere l’utilità, si fa cenno a una ripartenza in presenza per le scuole dell’infanzia, vengono riportate alcune norme di monitoraggio, viene ribadita la necessità del distanziamento.
Le tre principali tradizioni di pensiero, indiana, cinese, occidentale cioè greca alle origini, potrebbero esser definite dall’atteggiamento nei confronti della realtà,: come è (indiana), come va intesa (cinese), come va agita (greca). Ci riferiamo alla “filosofia prima”, alla prima considerazione che fonda un sistema di pensiero.
Per la tradizione indiana, la molteplicità è apparenza di un'unica sostanza, il Brahman. Per la tradizione cinese, la sostanza è alternarsi di due principi che convivono in diverse proporzioni dinamiche, lo Yin e lo Yang. Per la tradizione greco-occidentale la sostanza o è A o è B, il che crea i presupposti dinamici del divenire e del polemos.
Si potrebbe quindi forse dire che per la tradizione indiana importante era sapere com’è davvero la realtà e questo sapere porta a dire che “questa” realtà è solo un riflesso da noi condizionato di una realtà non esperibile, ma intuibile, altra. Questa realtà vera, per quanto a noi inattingibile, è Una, a-dimensionale, a-temporale. Un com’è davvero.
La tradizione cinese invece, vede dualità ma la ritiene apparente anch’essa, non per una riconducibilità ultima ad un Uno sottostante, ma perché tale dualità è complementarietà, armonia, dinamica di prevalenze momentanee. Un come va intesa.
1984/1988
William Gibson pubblica la trilogia dello sprawl.
Termina la guerra fredda, l’occidente ha vinto.
1993/1999.
William Gibson pubblica la trilogia del Ponte. L’ultima decade
del secolo XX termina ubriaca d’
ottimismo. Si parla di fine della Storia. Dalle rovine della
cortina di ferro l’occidente viene invaso da un esercito di
stelle del porno, la
prima generazione di attrici hard distribuita dalla rete.
S’investe in azioni dot.com sempre più gonfie. Internet
promette
libertà.
A presagire che quella stagione volge al termine gira voce che un problema, squisitamente tecnico, causerà grandi problemi. La notizia si diffonde sulla rete e riverbera sui mezzi di comunicazioni più antichi, il medium digitale contamina quello analogico dando esiti imprevedibili, non era mai successo.
Chiudiamo le scuole per 4 mesi. In 7 mesi non facciamo assolutamente nulla per far sì che, prima o poi, queste scuole possano riaprire. Che l’edilizia scolastica sia un problema enorme nel paese lo sanno pure le pietre, pure quelle che sono cadute in testa a studenti e docenti mentre facevano i compiti in classe (ed è successo davvero).
Che le classi scoppiano, che gli insegnanti sono sotto organico e gli si è reso lavorare decentemente impossibile, pure devi venire dalla Scandinavia per ignorarlo.
E insomma passiamo 5 mesi a dire il concorso si fa oggi, no, forse domani, però riapriamo le graduatorie, e migliaia di persone a fare calcoli di fisica quantistica per decidere quale provincia barrare, si dividono i kilometri di distanza da casa per il numero di bambini per quartiere: e giù coi risultati, Lombardia, Piemonte, Veneto. Pure questo, non ci voleva un indovino.
Poi il problema sono i banchi: troppo vicini, troppo lontani, coi plexiglas, senza. Ma in 30 in una classe di medie starebbero attaccati pure usando come aula un salone di Versailles.
The Intercept polemizza con la battaglia intrapresa dagli Stati Uniti contro le aziende tecnologiche cinesi. Più che significativo il titolo: “La sporca ipocrisia dell’Internet americano ‘pulito’ senza la Cina”.
Così il sottotitolo: “L’amministrazione Trump vuole impedire ad altri paesi di utilizzare la tecnologia come un’arma, cosa che hanno già fatto da tempo gli Stati Uniti e i suoi alleati”.
E così nel testo: “Come può una rete blandita per decenni dalle agenzie di spionaggio americane essere considerata pulita? La determinazione degli Stati Uniti nel condannare ‘le app [che] minacciano la nostra privacy, propagano virus e diffondono propaganda e disinformazione’ è semplicemente troppo sbalorditiva per essere ridicola. Senza eccezioni, gli Stati Uniti sono impegnati in tutte queste pratiche e violano tutte queste norme”.
Nel testo i vari modi con cui le Agenzie di spionaggio americane controllano, tramite internet, i cittadini, 24 ore su 24, sia direttamente, sia indirettamente, cioè tramite aziende private che devono trasmettere i dati raccolti alle agenzie di cui sopra, prassi cui devono sottostare e per la quale hanno obbligo di segretezza, pena la reclusione (e su queste cose non si scherza: è carcere sicuro e duro, come mette in evidenza la persecuzione contro Snowden e Assange).
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§ 1. Premessa
La chiusura della vicenda
ex-Recovery Fund e oggi Next Generation Fund ha scatenato in
Italia un diluvio di
polemiche.2
Da un lato gli entusiasti. Quelli che avevano sofferto dell’atteggiamento negativo dell’Unione rispetto al sostegno ai paesi in difficoltà, e che vedono nel Next Generation Fund l’opportunità di ravvivare la speranza nella ‘riformabilità’ dell’Unione europea. Che addirittura parlano di momento Hamiltoniano,3 che ovviamente non c’entra nulla col NG. Che verrà finanziato con l’emissione di titoli sotto la responsabilità comunitaria della Commissione, ma che evidentemente non ha, né nessuno intendeva avesse, un ruolo rispetto al debito pregresso degli Stati.4
Dall’altra parte, chi a tutti i costi cerca di minimizzare funzioni ed effetti di questa scelta, senza avvertire che la vera novità di questa misura non è certo un’improvvisa e poco credibile ‘generosità’ europea - di cui si cerca di dimostrare l’inconsistenza al di là dell’evidenza - quanto la scelta di affiancare un consistente finanziamento (come incentivo obbligante) alle tradizionali richieste di condizionalità sia nel senso di ‘riforme’ sistemiche che nel senso del ‘rigore finanziario’; condizionalità a loro volta rafforzate dal ‘freno olandese’.
La vera novità starebbe nell’aver introdotto una strategia del ‘bastone & carota’ al posto di quella del solo ‘bastone’, come fu il caso di quando, col governo Monti, ci venne5 imposta l’adesione senza riserve al Fiscal Compact, con la conseguenza che la debole ripresa italiana post-crisi venne spezzata, e il paese non ha ancora riguadagnato i livelli del Pil pre-2008.
Uno degli effetti generati dalla Prima Guerra Mondiale
fu
indubbiamente quello di imprimere una brusca accelerata al
trasferimento del centro di gravità geopolitica del pianeta
dal “vecchio
continente” agli Usa. Un
processo costellato da una serie di crisi in grado di
raggiungere un’intensità tale da condurre all’implosione del Gold
Standard sterlino-centrico, intrinsecamente votato
alla massima limitazione delle fluttuazioni monetarie. L’instaurazione
del
regime aureo rappresentava un passaggio cruciale della
“scalata” intrapresa dalla Gran Bretagna verso la conquista
dell’egemonia
globale a detrimento delle declinanti Province Unite
olandesi. Un percorso che, nato dalle ceneri della
Santa Alleanza, condusse
all’instaurazione di un ordine europeo fondato sull’equilibrio
delle forze e strutturato a sufficienza per sopravvivere alle
brame
imperiali napoleoniche, che indirizzò le direttrici di
espansione inglesi dal “vecchio continente”
verso Americhe,
Asia ed Africa. Il risultato fu la formazione di un impero
geograficamente gigantesco presidiato sul piano
militare dalla formidabile
Royal Navy e capace di associare al “centro”,
costituito dai “tradizionali” possedimenti coloniali, una
periferia integrata informalmente per mezzo di accordi
bilaterali di libero scambio stipulati con una
miriade di Paesi del mondo
– molti dei quali di recente decolonizzazione. Naturalmente,
laddove i trattati non conducevano all’integrazione delle
nazioni firmatarie
nel sistema liberoscambista egemonizzato dalla Gran Bretagna,
Londra non disdegnò mai il ricorso alla forza bruta, come
avvenuto con le
Guerre dell’Oppio nel 1840 e nel 1857. Il cui risultato,
però, fu sempre l’estensione dell’impero informale.
Quando ai
piani alti dicono “bisogna fare di più per i giovani” è
bene fare gli scongiuri. Dovremmo avere imparato, dopo 30 anni
di discorsi con questa frase in testa, che si sta preparando
un attacco pesante alle
condizioni di vita di tutta la popolazione. Di qualsiasi età,
in qualsiasi posizione lavorativa, ma soprattutto con redditi
medio-bassi o
addirittura senza reddito.
Del discorso fatto ieri da Mario Draghi in apertura del Meeting di Comunione e Liberazione tutti – ma proprio tutti – i media principali hanno estratto la frase-killer per farne un titolo. Sicuri che il discorso completo non sarebbe stato letto da molti.
Così, ve lo proponiamo al termine di questo articolo, ma con qualche premessa che aiuti a districare la melassa retorica e individuare i nodi centrali. Che sono poi quelle “riforme” che l’Unione Europea continua a pretendere da tutti i suoi membri e che in Grecia sono state pienamente realizzate.
Lasciando un Paese distrutto, impoverito, con la popolazione alla fame e “i giovani” che fuggono a frotte cercando una soluzione di vita in altri Paesi.
Del resto, nessun programma di questo genere può essere proposto nudo e crudo, così com’è. Nessun leader può indicare la Grecia post-Memorandum come esempio di “successo”. Ma tutti i partecipanti alla vita politica – in posizioni chiave o dall’opposizione più ferma, come noi – sanno benissimo che la “cura greca” è stata voluta proprio come esempio macabro da tener presente in ogni momento.
Caro Direttore de “L’AntiDiplomatico”, alcuni giorni fa avete pubblicato l’intervista di Veltroni ad Occhetto apparsa su “Il Corriere della Sera”. Poiché, per i temi trattati, non si tratta certo di un’intervista di routine, mi permetto – sempre nell’ottica della per noi preziosa collaborazione con il giornale che dirigi - di inviarti un articolo che il professor Salvatore Distefano ha scritto per “Cumpanis” proprio in relazione ai temi che in quell’intervista sono stati sollevati, sia da Veltroni che da Occhetto. Sperando di aver fatto cosa gradita, ti invio i miei più cari saluti. Fosco Giannini, direttore di “Cumpanis”
Nihil sub sole novi: così si potrebbe
titolare l’intervista che
Achille Occhetto ha rilasciato a Walter Veltroni e che è stata
pubblicata dal Corriere della Sera domenica 19 luglio
2020.
Anzi, a pensarci bene, qualcosa di nuovo c’è: l’aspirazione
degli ex dirigenti del PCI, PDS, DS e infine PD di riscrivere
la storia
dell’Italia e del mondo, nonché quella del Partito comunista
italiano, avendo come criterio ordinatore il “revisionismo
storico” e un robusto anticomunismo (sic!). Infatti, Occhetto,
continuamente imbeccato da Veltroni, racconta le sue eroiche
gesta, senza farci
mancare i tipici aspetti del suo repertorio come le lacrime e
la voce incrinata, sposando pienamente la visione ideologica
dell’occidente
capitalistico, che fortunatamente ha vinto, a suo avviso, lo
scontro con il comunismo sovietico, affermando i valori di
libertà, democrazia,
giustizia e compagnia cantando.
Cominciamo dal titolo. “La svolta del PCI fu dolore e speranza. Ma era mio dovere correre quel rischio”. Ma perché dovere? Il termine dovere richiama l’ambito morale e quello della necessità derivante da principi morali categorici. Ancora: il dovere può scaturire da un ente esterno che viene ipostatizzato e impone, proprio per la sua esistenza e la sua natura, determinate azioni. Nel primo caso, la nostra azione risulterà libera perché ciò che faremo dipenderà da noi; nel secondo caso, potremmo anche compiere un’azione corretta moralmente, ma perderemmo la nostra libertà dato che ciò che mettiamo in atto ci viene “imposto” dall’esterno.
S. G. Azzarà, La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del materialismo storico in Domenico Losurdo, La Scuola di Pitagora, Napoli 2019
La comune umanità. Memoria di
Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del
materialismo storico in
Domenico Losurdo, di Stefano G. Azzarà, precedentemente
edito dalle Editions Delga di Parigi nel 2012 ed ora
pubblicato da "La Scuola di
Pitagora" in edizione italiana riveduta, ampliata ed
aggiornata dalle corpose integrazioni di Emiliano
Alessandroni, costituisce una privilegiata
chiave d’accesso all’itinerario di pensiero di Domenico
Losurdo.
I tre capitoli di cui si compone il libro riguardano il confronto storico e filosofico di Losurdo con la storia del liberalismo, con la filosofia classica tedesca e con il materialismo storico.
Secondo le narrazioni oggi in Occidente più gettonate, il liberalismo, nato tra Sei e Settecento presso le più illuminate intellettualità europee, lottò e vinse contro l’assolutismo monarchico facendo acquisire centralità al valore dell'individuo e realizzando lo stato di diritto. Dopodiché, una volta conferita una più o meno solida struttura alla sua propensione democratica, si trovò ad affrontare nemici ancora più temibili. Un parto gemellare di natura totalitaria diede infatti vita a nazismo e comunismo che, affratellati dalla comune natura dispotica, hanno tentato entrambi di contendere al mondo liberale la guida del Novecento. Fortunatamente, tuttavia, il liberalismo vinse anche quest’ultima battaglia e a tutt'oggi si candida a prosperare sull'intero globo, esportando il proprio modello sociale e politico, garanzia di serenità e di pace.
Domenico Losurdo ha mostrato l’inconsistenza di una simile narrazione, opponendo a questa storia sacra (la cui credibilità è stata favorita dalla sconfitta dei tentativi di costruzione del socialismo in Europa orientale) una storia profana, finora abilmente schivata dalla luce dei riflettori.
Partiamo dalla fine, per essere chiari. Il 24 e
25 settembre sono state indette due
giornate di sciopero e mobilitazione dai sindacati di base
(USB, Cub, UniCobas e alcune sezioni dei Cobas). Queste due
giornate sono state fatte
proprie da alcune organizzazioni studentesche e da numerosi
collettivi universitari. Riteniamo che quelle due giornate di
mobilitazione siano
importanti. Cerchiamo di spiegare il perché e,
contemporaneamente, il motivo per cui non ci convince affatto
la mobilitazione prevista per
sabato 26 da alcune associazioni e dai sindacati confederali.
Le false narrazioni
Ragionare in maniera sensata e convincente su ciò che accadrà a settembre nelle scuole e nelle facoltà, in effetti, non è semplice. Pesano, infatti, la cortina di fumo e le false promesse rilasciate a ogni pie sospinto dalla ministra Lucia Azzolina, rilanciate ripetutamente dai media e avallate dai sindacati confederali ed autonomi. Si fa un gran parlare di rientro in sicurezza, di investimenti, di nuovi spazi e assunzioni. Quindi occorre, in primo luogo, cercare di avere un quadro più chiaro.
Ad oggi gli unici provvedimenti in qualche modo certi sono la firma di un protocollo tra il governo e i principali sindacati dove, all’interno di un fiume di parole di cui si fatica a comprendere l’utilità, si fa cenno a una ripartenza in presenza per le scuole dell’infanzia, vengono riportate alcune norme di monitoraggio, viene ribadita la necessità del distanziamento.
Imperialismo
frugale
La semplificazione geniale di Altan, che però richiede sempre capacità critiche, nella vignetta di due signore benvestite a confronto, è forse la spiegazione più evidente e immediata da fornire alle masse sull’uso mistificante del momentaneo significato di “frugale”, di cui si sono auto-fregiati gli stati europei più predatori di questi ultimi tempi. Al raggiro delle parole segue però più rilevante quello del contenuto, relativamente ai 209 miliardi che la bravura e la tenacia di Conte avrebbero strappato all’Europa, cui sarebbe stata chiesta l’inusuale “solidarietà” per la crisi pandemica “in comune”, di cui effettivamente nessun paese dell’Unione è stato economicamente responsabile. Come ormai risulta più chiaro, rispetto alla crisi economica già precedentemente in atto, la crisi sanitaria si è configurata in termini inediti, peraltro inattesa, sebbene già preannunciata da diverse “voci” verosimilmente ben informate. A circa sei mesi dalla sua sconvolgente comparsa, e tuttora innalzando il livello delle difficoltà economiche ormai mondiali nel calo dell’accumulazione di plusvalore, i governi degli stati europei si sono riuniti per affrontare una situazione “comune” all’interno della differenziazione imperialistica che avvicina le prede ai loro razziatori, nella contemporanea gestione di una propaganda per le masse credulone, con narrazioni di umanità fraterna e comprensiva che avrebbe unito un’Europa sempre idealizzata, e perciò mai esistita.
Per chi ancora riconosce nel termine imperialismo il dato di realtà presente, va ricordato che dal punto di vista delle sue precipue condizioni economiche, per quanto riguarda sia l’esportazione dei capitali sia la spartizione del plusvalore da parte dei capitali con base su potenze ex-coloniali e universalmente considerate “civili”, va preso atto che, finché perdura questo regime capitalistico, l’unità europea, sempre auspicata o invocata, è impossibile o può avviarsi prevalentemente verso derive reazionarie.
Il taglio dei parlamentari è un tassello di un più vasto disegno volto a ridurre gli spazi di resistenza delle classi sfruttate. E noi diciamo No!
Il 20 e 21 settembre si andrà a votare al
referendum confermativo
dell’ennesima “riforma” costituzionale. Questa volta l’elettorato
si deve pronunciare sulla riduzione del numero dei deputati
da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200.
L’elemento di novità di questo appuntamento è che questa volta
si voterà non solo per il referendum, ma anche per il
rinnovo dei consigli di sette regioni, dei sindaci e dei
consigli di oltre mille comuni e di due senatori in un
collegio uninominale della Sardegna e
uno del Veneto.
Già questo abbinamento pone dei problemi. Infatti l’importante tema di una riforma costituzionale rischia di essere poco dibattuto nelle realtà dove al centro dell’attenzione saranno i partiti e soprattutto i candidati per le elezioni amministrative e regionali. In periodo di emergenza da coronavirus e con spazi di partecipazione ridotti il rischio è che il popolo italiano giunga a questo appuntamento poco informato.
C’è da considerare inoltre che la percentuale dei votanti al referendum nelle località dove si tengono altri tipi di elezione sarà verosimilmente molto maggiore di quella negli altri territori e quindi che il peso dell’elettorato sarà molto diverso da località a località. A causa di ciò sull’appuntamento elettorale si allunga l’ombra di ricorsi presso l’Alta Corte.
La difficoltà di informare e far ragionare gli elettori si inserirà in un percorso che per i fautori del No sarà tutto in salita. Infatti il taglio dei parlamentari è stato proposto dai partiti populisti cavalcando la stanchezza della gente, il senso comune – purtroppo in buona parte più che comprensibile – che la politica e i partiti sono tutti corrotti, che meno parlamentari mandiamo a Roma e meglio è, che bisogna ridurre il costo della politica in quanto abbiamo sul collo un debito pubblico enorme che mette a repentaglio i diritti sociali: scuola, salute, casa, lavoro, trasporti pubblici.
Planet of the Humans pone domande difficili sul fallimento del movimento ambientalista per fermare il cambiamento climatico e salvare il pianeta. Per cercare una risposta intervistiamo il regista
Rilasciato alla vigilia del 50°
anniversario della Giornata della Terra e nel bel mezzo
della pandemia
globale causata dal Sars-Cov-2, Planet of the
Humans ci racconta come il movimento
ambientalista ha perso la sua battaglia facendosi
convincere che pannelli solari e mulini a vento ci avrebbero
salvato e cedendo agli interessi di Wall Street.
Per questi motivi, nessuna sorpresa che il film abbia generato polemiche. È stato criticato come parzialmente obsoleto e fuorviante e alcuni lo hanno accusato di distorcere le energie rinnovabili e di propagandare un “malthusianesimo anti-umano”.
Per fugare ogni dubbio abbiamo deciso di intervistare il regista e sceneggiatore del film, Jeff Gibbs.
Nato a Flint, nel Michigan, Jeff lavora da tempo come collaboratore di Michael Moore. Il primo film a cui ha lavorato è stato “Bowling for Columbine” e ha prodotto scene cult tra cui “la banca che ti dà una pistola”, “cacciatore di cani” e “Michigan Militia”. Dopo il successo di “Bowling for Columbine”, Jeff è diventato co-produttore di “Fahrenheit 9/11”, il documentario campione di incassi di tutti i tempi. Jeff ha anche scritto la colonna sonora originale di entrambi i film. Da “Fahrenheit 9/11”, sebbene si sia preso una pausa occasionale per produrre altri film tra cui il documentario di Dixie Chicks “Shut Up and Sing”, Jeff è stato singolarmente ossessionato dal destino della terra e dell'umanità.
* * * *
Domanda. Ciao Jeff. Grazie per averci concesso l’intervista. Il documentario si basa su dati scientifici. Quanto tempo è stato necessario per raccoglierli e quanto sono affidabili?
Rivoluzioni colorate, la pandemia vera
Ogni volta che ti
trovi dalla parte della maggioranza, è il momento di
fermarsi e riflettere”. (Mark Twain)
Cercate su Google un’immagine dei 65mila (3000 per i nostri media) che l’altro giorno hanno manifestato per Lukashenko inalberando bandiere rossoverdi (quelle sovietiche). A fatica ne troverete una. Ma ne troverete tantissime con le bandiere biancorosse, quelle del dopo-URSS, di altre migliaia di manifestanti (milioni per i nostri media). Quelle pro-USA e pro-UE. Le uniche viste sui giornali e in tv. E’ la stampa, bellezza.
Badanti
Finora non se n’erano mai viste. A pulire le terga degli anziani non autonomi, a stramazzarsi a lavare scale e cantine, a spingere carrozzelle con vecchi e disabili, a procurare e procurarsi documenti fino alle sevizie e all’esaurimento nervoso, a essere imputati di untorame slavo da Coronavirus, a farsi pagare cinque euro/ora per spazzare una casa da cima a fondo, o svellere uva dai tralci, ad avere come unico momento di tregua e di socialità, in mancanza di figli o dei vecchi rimasti in patria, la panchina al parco con le sorelle della deportazione, ci avevamo le moldave, le ucraine, le bulgare, le rumene, le polacche, qualche russa. Se va male, per strada, a volte nelle “case”.
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2020-06-23 - Hits 1254

A cura di Città Senza Centro e Commonware
CSC: Nella “città
del contagio” secondo te quali sono le tendenze di
trasformazione del capitalismo delle piattaforme? Pensiamo
da un lato ai processi di gentrification e
turistificazione dei centri storici e dall'altro
a quelli di produzione, consumo e distribuzione di beni e
servizi culturali. Con la pandemia il consumo culturale
comporterà una
ristrutturazione delle gerarchie? Quali saranno i
dispositivi di esclusione da certe esperienze di consumo
culturale?
Una cosa che sostengono quelli che si occupano di consumi culturali da quarant’anni a questa parte è che esiste una tendenza massiccia e diffusa verso quello che chiamano “onnivorismo culturale”, ovvero il fatto che una quota sempre maggiore di popolazione consuma sempre più prodotti culturali simili indipendentemente dalle diverse appartenenze di classe. Questa è stata una rivoluzione del Novecento. Fino agli anni Cinquanta e Sessanta le classi sociali avevano consumi completamente diversi tra loro e molto segmentati. Dagli anni Sessanta in poi si è sviluppata la tendenza a mescolare i codici e a consumare merci simili. È ovvio che non sono mai prodotti identici. Prendiamo l'esempio dell'automobile che – anche se non è un consumo culturale – funziona bene in questo senso. Tu puoi accedere a un'automobile che ha buona parte degli optionals che ha anche l'automobile di un consumatore più ricco. Tu accedi a quel bene con la finanziarizzazione, sei obbligato a comprare l'auto attraverso l'indebitamento, che ti consente quindi di accedere non al modello di classe superiore ma ad uno con caratteristiche abbastanza simili, mentre il consumatore con più disponibilità economica la compra con la carta di credito o con un bonifico ed ha il top della gamma.
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La Bielorussia è oggi nell’occhio
del ciclone mediatico (occidentale). Sino a poco tempo fa
molti
manco sapevano esattamente dove fosse collocata
geograficamente, ma dopo quelle deprecabili elezioni ora tutti
finalmente sanno che laggiù,
anzi lassù, la democrazia non è di casa.
Lasciamo per un momento questo argomento e andiamo dall’altra parte dell’Atlantico. La cosiddetta pandemia ancora in corso nel pianeta ha colpito duro anche gli USA. La FED ha stampato trilioni di dollari su ordine di Trump, si sono dati sussidi a fondo perduto come non mai nella storia americana, enorme ossimoro per il Paese più capitalista del mondo, gesto voluto da un presidente repubblicano, liberale e molto ricco di suo, il 2020 è un anno che troverà ampio spazio nei libri di storia dei prossimi secoli. Il PIL americano è calato, la disoccupazione è esplosa, i volumi nei mercati sono scesi, ma gli indici azionari, dopo un grande tonfo sono risaliti. Che sta succedendo? Proprio quest’anno, i colossi multinazionali si sono arricchiti in modo impressionante, come mostra un recente articolo di Forbes:
Una delle caratteristiche peculiari della rivoluzione boliviana è consistita nello sforzo di cooptare/integrare una serie di associazioni intermedie – movimenti, sindacati ecc. – nella gestione del potere statuale. Del resto, lo stesso presidente Evo Morales era un leader del sindacalismo indio e non un politico (i partiti della sinistra tradizionale non erano mai riusciti a conquistare il potere e, dopo la svolta “etnicista” dei movimenti contadini, sono stati integrati nel blocco sociale e politico del MAS, il Movimento al Socialismo guidato da Morales e dal vicepresidente Linera).
Nei suoi libri (vedi fra gli altri “Democrazia, Stato, Rivoluzione”, recentemente tradotto da Meltemi) Linera spiega bene il processo attraverso il quale una serie di lotte contro il regime neoliberista hanno dato vita al fronte che ha consentito l’elezione di Morales e la sua conferma (fino al golpe di destra di pochi mesi fa). Spiega inoltre come la sfida più ardua che il nuovo regime ha dovuto affrontare è stata la necessità di riformare quelle strutture statali (burocrazia, magistratura, esercito, sistema educativo ecc.) in cui erano profondamente radicati (attraverso corruzione, legami famigliari, interessi trasversali di élite e lobby economiche, politiche, accademiche e mediatiche) i rapporti di forza di un secolo di dominio coloniale e post coloniale.
Se non fosse, allo stesso tempo, una drammatica esibizione di violenza e impotenza imprenditoriale, ci sarebbe quasi da ridere…
Prendiamo ad esempio l’intervista fatta dall’agenzia Agi al consigliere nazionale di Unimpresa Giovanni Assi.
“Il mantenimento dei livelli occupazionali non può e non deve ottenersi per pochi mesi con le tasche degli imprenditori, ma deve essere la naturale conseguenza di misure durature nel tempo che permettano di pianificare e programmare le attività delle imprese, anche perché i divieti non potranno durare all’infinito e allo scadere degli stessi il risultato è già calcolato in una riduzione degli occupati stimata nella misura tra il 5% ed il 7%“.
Sorvoliamo per il momento sull’affermazione per cui “il mantenimento dei livelli occupazioni non può e non deve ottenersi per pochi mesi con le tasche degli imprenditori” (il blocco dei licenziamenti è finanziato con soldi pubblici) e badiamo al sodo: la riduzione degli occupati alla fine del periodo eccezionale di cassa integrazione, ecc, in autunno o al massimo a fine anno, sarà“nella misura tra il 5% ed il 7%”.
Lo scenario politico è ancora molto frastagliato, e molto dipenderà dai risultati delle regionali. Occorre domandarsi cosa rappresenta questa svolta, quali conseguenze può portare negli assetti politico-istituzionali, ma soprattutto a quali settori economico-sociali risponde tale operazione politica
La consultazione sulla Piattaforma Rousseau, strumento millantato dai 5Stelle come nuova frontiera della democrazia diretta, ha sbloccato la regola che impediva la presentazione per un terzo mandato per gli amministratori: non è ancora la definitiva rimozione della norma che impedisce ai pentastellati di presentarsi per più di due legislature, ma è comunque la caduta di un tabù e di qua alle elezioni politiche (che al momento non sembrerebbero preannunciarsi immediate) avranno modo di rimettere in discussione anche questo paletto originario del movimento.
L’altro punto in votazione era la possibilità di accordi e alleanze con partiti tradizionali, e in particolare con il Partito Democratico con cui negli anni si è sviluppato un rapporto di amore/odio degno di una soap opera:
"Alegria a veces, tristeza a veces… equilibrio”. Durante la video conferenza del presidente venezuelano Nicolas Maduro con la Direzione nazionale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), con l’organizzazione giovanile (JPSUV) e con i governatori, per interpretare i sentimenti collettivi il vicepresidente per gli affari internazionali, Adan Chavez, ha usato i versi del cantautore Ali Primera. Versi che esprimono la dura necessità di trovare un equilibrio per andare avanti, tra una notizia triste e una che dà gioia.
La notizia triste, che ha lasciato un vuoto immenso nella militanza rivoluzionaria, è stata quella della morte per coronavirus del dirigente Dario Vivas. Una perdita seguita a quella di un altro militante storico, El Chino Khan, scomparso a seguito di una malattia, a cui pure ha fatto riferimento Adan Chavez. “Il miglior omaggio è quello di continuare la lotta permanente per costruire il socialismo, qualunque cosa faccia l’impero nordamericano”, ha detto il fratello maggiore del Comandante, sottolineando l’importanza della solidarietà internazionale, che continua a manifestarsi dall’Europa all’America Latina e anche negli Stati Uniti. In Gran Bretagna, si è svolta una manifestazione contro il blocco dell’oro venezuelano nelle banche inglesi, preparato dall’azione piratesca di Trump via Guaidó.
Draghi pontifica al meeting di Rimini, ma la ricetta è fare debito a carico delle nuove generazioni, che però dichiara di voler tutelare
L’Italia ha un nuovo Papa. E non un Papa
divisivo, come quello di stanza in
Vaticano, ma un Papa ecumenico: sia le destre moderate, con
qualche distinguo di facciata, che – più convintamente – le
sedicenti
sinistre, plaudono al discorso di Mario Draghi al Meeting di
Comunione e Liberazione (Cl), che qualcuno ha letto come
un’autocandidatura al
soglio del Quirinale.
Già la scelta del luogo per proferire il suo messaggio urbi et orbi è una strizzata d’occhio ai settori più conservatori del cattolicesimo. Lo è anche l’esordio con cui si dichiara “partecipe della vostra [di Cl!] testimonianza di impegno etico”, glissando sull’impegno etico di Formigoni e della Compagnia delle Opere. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, si tratta di una formalità e di un gesto di buona educazione nei confronti di chi lo ha ospitato e gli ha offerto quel pulpito. Quindi soprassediamo e veniamo alla “ciccia”, che comunque è sempre ben velata da frasi di apparente buon senso idonee a renderla più facilmente digeribile sia alla destra che alla “sinistra” (sempre sedicente, per essere precisi), come si conviene a un buon Pontefice.
Due sono le parti più rilevanti del suo discorso, una analitica e una propositiva.
Cominciamo dalla prima che attiene essenzialmente alla valutazione della crisi e della capacità di risposta delle istituzioni europee.
Il coronavirus, per sua stessa ammissione, si è abbattuto su un’Italia già in recessione, e tuttavia egli si ostina a denunciarlo come la causa di questa crisi. Potrebbe il mentore del capitale finanziario ammettere che il problema è il capitalismo? No. Quindi passiamogli anche questa.
Chi studia la visione è d’accordo
sul fatto che essa comporta un processo di costruzione. In
condizioni normali questo
assunto non appare così ovvio, ma in condizioni in cui la
vista è impedita per una ragione o l’altra, nelle situazioni
in cui
siamo costretti a ricostruire il puzzle ovvero quando la
confusione sovrasta la scena osservata, iniziamo ad avere la
sensazione che il riconoscimento
degli oggetti nel mondo richiede di mettere insieme le parti
percepite in un intero coerente. Di solito, nessuno di noi si
pone la domanda sul come
vediamo, di contro, molto spesso, accade che, nel notare un
peggioramento nel nostro campo visivo, ci rechiamo da uno
specialista della visione, per
ripristinare i parametri standard degli input sensoriali.
D’altronde, un tale atteggiamento è naturale, spontaneo, e ci
protegge dal
rimanere paralizzati come il millepiedi che risponde
all’interrogativo della formica: «in che ordine metti i piedi
l’uno dietro
l’altro?»
La soluzione di questa storiella Zen potrebbe essere proprio nel riconoscere che è la stessa domanda a essere sbagliata, ragion per cui non aborriamo qualsiasi domanda, anzi ci tocca individuare e rispondere a quegli interrogativi che, di volta in volta, ci consentono di esplorare la scena visiva.
Nello scorrere le pagine del bellissimo libro di Kevin O’ Regan, Perché i colori non suonano, è possibile trovare un’ampia e ricca trattazione di temi strettamente interconnessi tra di loro, che ci permettono di aumentare il nostro grado di consapevolezza sulle caratteristiche del processo visivo. Il suo lavoro spazia dalla cecità al cambiamento del sé cognitivo e sociale, dall’intelligenza artificiale alla nuova teoria sulla coscienza, dalla concezione della pura sensazione alle differenze tra il vedere, immaginare e ricordare, eccetera.
Mentre ci accapigliamo su tamponi e mascherine la politica nazionale (e internazionale) sta tessendo pazientemente le sue fila.
Al recente meeting di Rimini l'ex presidente della BCE Mario Draghi ha dettato la linea, che è stata prontamente recepita sui media con una formula d'uso destinata ad un largo uso nei prossimi mesi.
Rispetto alla lettera di alcuni mesi fa, in cui Draghi si sbilanciava in direzione di un intervento estensivo delle banche centrali (e dunque della BCE) qui Supermario ha corretto il tiro in modo apparentemente millimetrico, ma in effetti decisivo.
Nel discorso svolto al meeting di CL, il passaggio cruciale è stato il seguente:
"La ricostruzione di questo quadro in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè “debito buono”.
La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato “debito cattivo”. I bassi tassi di interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi."
Il punto di caduta qui è semplice.
Si parte da un dato di realismo (e qui va concesso a Draghi di non essere uno dei tanti demagoghi europeisti che funestano la politica italiana):
Gli stock di debito elevato sono qui per restare.
La fiaba mortale con cui è stata smembrata la Grecia, per cui l'Austerity serviva a rientrare dal debito, anche quando palesemente non faceva altro che allargarlo costantemente, viene lasciata cadere del tutto.
Mentre tutti i vari Marattin della politica italiana ci hanno spiegato per anni con caratteristica sufficienza che un debito al 120% del Pil andava as-so-lu-ta-men-te ridotto, pena le cavallette e il sacrificio dei primogeniti, ora Draghi ci spiega che un debito al 160% se ne starà serenamente lì a lungo.
La prosecuzione dell'argomento però è fondamentale.
Draghi cerca di spingere in un ruolo di retroguardia il ruolo calmieratore dei tassi d'interesse della BCE, e lo fa invocando la seguente clausola: il debito pubblico per poter restare sostenibile dev'essere 'debito buono'.
E cosa sarebbe 'debito buono'?
Semplice, debito buono è il debito "impiegato per fini produttivi".
Ora, l'opposizione tra un debito buono in quanto produttivo e un debito cattivo in quanto improduttivo sembra intuitiva e perfettamente ragionevole.
Tutti sappiamo (o dovremmo sapere) che non si può vivere semplicemente facendo debito senza che nulla corrisponda ad esso sul piano dei beni e servizi materialmente prodotti. Dunque debito che non produce nulla (improduttivo) non è debito sostenibile.
Ora, però, qui nell'espressione di Draghi fa capolino un punto ulteriore. Il debito dev'essere buono perché deve 'conservare la fiducia dei mercati', cioè degli investitori.
Qui si apre però un problema che Draghi tace (ma che gli è certamente noto).
Quale tipo di debito riceve riconoscimento da parte dei mercati e degli investitori internazionali? Draghi menziona cose lodevoli quanto ambigue, come il 'capitale umano' e le 'infrastrutture', tuttavia la verità è che i mercati e gli investitori sono totalmente disinteressati alla salute di un paese nel lungo periodo.
I mercati e gli investitori soffrono strutturalmente di 'short-termism', di una visione concentrata sulla rendita a breve termine.
Il che significa che nella prospettiva della "fiducia dei mercati" tutte le cose che possono mantenere una comunità nazionale equilibrata nel lungo periodo (ad esempio un servizio sanitario efficiente, un sistema pensionistico umano, un sistema educativo comprensivo e diffuso) sono da subordinare alle spese che promettono una resa nell'arco di uno-due anni.
Il 'debito buono', sembra rassicurarci Draghi, verrà giudicato tale se contribuendo alla produzione rinforzerà il paese.
Questa è l'usuale prospettiva panglossiana per cui l'interesse del mercato coinciderebbe magicamente con l'interesse generale e opererebbe per il bene di tutti.
Il che naturalmente è vero solo nei manuali di economia politica, e anche lì non nei migliori.
Il 'debito buono' per i mercati e gli investitori non è quello che può rendere la società, cultura ed economia italiana solida e funzionale tra una generazione, ma quello che promette di 'fare margine' nel breve termine.
In che senso spendere per avere una buon sistema sanitario pubblico sarebbe 'debito buono'?
Può darsi che torni utile per limitare alcuni danni sanitari di rilevanza economica (vedi Covid), ma fondamentalmente è un bene perché crea le condizioni per una società più stabile e vivibile.
In che senso spendere per avere un sistema educativo plurale e culturalmente comprensivo sarebbe 'debito buono'?
Può darsi torni utile indirettamente all'economia creando un elettorato più ragionevole e riflessivo, ma fondamentalmente è un bene perché dà vita ad una società migliore (che poi forse sarà anche più produttiva, ma è una scommessa).
Il punto di fondo è che l'ottica in cui qualcosa è 'debito produttivo' per i mercati e gli investitori semplicemente non è l'ottica in cui quel debito è produttivo per la vita di un paese nel suo complesso.
Ci possono essere parziali sovrapposizioni, ma gli interessi sono fondamentalmente divergenti.
I mercati e gli investitori vogliono avere un ritorno in tempi definiti e brevi, altrimenti quel debito non conta come 'debito buono'.
I cittadini di un paese sono interessati ad un miglioramento delle proprie prospettive nel breve e nel lungo periodo, in ultima istanza intergenerazionalmente.
Dunque nell'idea di Draghi di un 'debito buono' in quanto 'debito produttivo' c'è una (voluta) ambiguità di fondo. E questo si ripercuote sul ruolo della BCE.
Una BCE con una dimensione politica interessata alla stabilità e prosperità delle nazioni nel lungo periodo potrebbe coprire e sostenere come 'debito buono' il debito rivolto al lungo periodo e al benessere della società nel suo complesso.
Una BCE che, invece, si affida (come finora ha fatto SEMPRE) alle valutazioni di mercati e investitori internazionali come test per valutare la 'bontà' di un debito, è una Banca Centrale che di fatto non accetta di avere alcun ruolo politico che non sia la promozione del modello neoliberale. In tale caso il 'debito buono' che può venire accettato è solo quello che, finita la fase acuta dell'emergenza, sarà capace di suscitare l'interesse degli investitori privati.
A breve cominceremo a capire cosa c'è dietro l'espressione 'debito buono', ma è utile sensibilizzare sin d'ora le antenne sulle prospettive assai differenti che covano dietro quelle parole.
La vittoria del "NO" a settembre mi sembra una speranza improbabile ma credo sia una causa per la quale valga in ogni caso la pena di spendersi.
C'è da dire che le circostanze hanno alimentato un autentico cortocircuito logico nel comune sentire sul tema della rappresentanza politica.
Sono convinto che ciò non sia avvenuto per caso; siamo piuttosto di fronte ad una delle più acute strategie di lungo periodo delle oligarchie che hanno svuotato le nostre democrazie dall'interno.
Suggerisco di riflettere collateralmente anche sul fatto che, mentre la nostra parte di mondo pontifica sulle patenti di democraticità da attribuire o revocare al resto del mondo, addirittura il clero regolare del mondo accademico parla da almeno vent'anni di "postdemocrazia", cioè di qualcosa che ormai non è più democrazia.
Senza aprire troppe riflessioni collaterali, nelle nostre società dell'Occidente industrializzato e in Italia in particolare, dato che siamo un paese che sta affrontando una particolarmente profonda crisi di legittimazione della propria classe politica e della propria classe dirigente, in ogni ambito ed a qualsiasi livello, la stragrande maggioranza delle persone sono convinte del fatto che i delegati del popolo nelle istituzioni non rappresentino il popolo e i suoi interessi, ma solo sé stessi, e i cazziloro™.
Ma qualche “esperto” (del tipo “non abbassiamo la guardia”) vi ha mai parlato in TV di questa tragedia? Ora viene fuori una ricerca della Fondazione Policlinico universitario Agostino Gemelli che attesta come l’80% degli italiani (si, avete letto bene: 80%) hanno sviluppato, grazie al lockdown e verosimilmente alla terroristica informazione erogata dai media, sintomi ansioso-depressivi di varia gravità: dai più lievi come la paura di riprendere in mano la propria vita, o al contrario la paura di non poterla riprendere, fino a sintomi depressivi gravi, come l’incapacità di svolgere le attività consuete.
Spiega meglio la situazione lo psichiatra Gabriele Sani, intervistato dall’agenzia stampa Adnkronos Salute:
“(…) I disturbi non si riducono, ma si aggravano con il tempo. Dai dati è risultato che l’80% delle persone che ha vissuto questa emergenza collettiva, ha sviluppato sintomi ansioso-depressivi di diversa entità. E si è osservato – fino alla fine di luglio – che il tempo non ha diminuito i disturbi, ma più è andata avanti la pandemia più si sono aggravati questi sintomi. È un problema che riguarda non solo i pazienti psichiatrici ma anche la popolazione generale. Molti pazienti già seguiti hanno avuto pesanti ricadute anche a distanza di molto tempo.
Il dibattito in seno alla cosiddetta “comunità scientifica” rispetto alla questione covid ha assunto ormai una dimensione grottesca e purtroppo anche grave.
Allo stato delle cose, nessuna persona “comune“ (che non sia cioè uno scienziato) è in grado realisticamente di avere informazioni veramente certe sul virus. E questo perché anche e soprattutto in seno alla suddetta “comunità scientifica” si sono formati i vari “partiti”, ciascuno portatore della sua verità, con i suoi dati, i suoi numeri, le sue percentuali, le sue statistiche e naturalmente le sue interpretazioni.
Diventa quindi oggettivamente difficile per i non addetti ai lavori (cioè praticamente quasi tutti) formarsi una opinione fondata su dati certi. Anche perché – sempre per i non addetti ai lavori – diventa difficile credere alla interpretazione (degli stessi dati e talvolta neanche degli stessi…) di uno scienziato piuttosto che di un altro, specie quando entrambi sono personaggi autorevoli e ricoprono incarichi altrettanto autorevoli e di prestigio. Due nomi fra tutti (ma è solo un esempio), Burioni e Bassetti.
2020-07-30 - Hits 2100
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coniarerivolta: Piano Colao: Confindustria detta, i tecnici scrivono
2020-06-15 - Hits 1237

Non è certo una novità affermare che oggi
stiamo vivendo
in una situazione di crisi permanente, e che la crisi
ecologica e quella economica - la devastazione delle basi
naturali della vita e la
povertà crescente nella società - convivono in quella che è
un'atmosfera di catastrofe che si fa sempre più intensa.
Mentre le minacce sembrano riproporsi continuamente,
mettendoci davanti a dei pericoli della cui esistenza fino a
poco tempo fa non eravamo nemmeno a
conoscenza - come il cambiamento climatico - o che ritenevamo
fossero completamente superati - come i movimenti politici di
stampo fascista - allo
stesso tempo, il minimo che si possa dire è che negli ultimi
decenni, il pensiero che avrebbe dovuto permetterci di
fronteggiare tali minacce
non si è rinnovato con la stessa rapidità e con lo stesso
vigore.
La maggior parte delle volte, si è cercato di comprendere delle situazioni storicamente inedite per mezzo di categorie ereditate dal marxismo tradizionale e dal liberalismo, dalla teoria dello sviluppo o da quella del sottosviluppo, dalla giustizia sociale redistributiva e dalla democrazia rappresentativa. Tra i rari tentativi di ripensare globalmente ciò che ci sta accadendo, troviamo la "Critica del Valore" , la quale consiste in una critica radicale del valore mercantile e del denaro, del lavoro e della merce, dello Stato e del feticismo della merce, tutte cose che costituiscono le categorie centrali del capitalismo fin dai suoi inizi. La critica del valore analizza anche quella che è la crisi irreversibile in cui oggi si trovano tutte queste categorie. Si tratta di un approccio che si ispira a Marx, ma che lo fa in un modo assolutamente non «ortodosso». Nata in Germania negli anni '80 (ed in modo del tutto simile, seppure indipendentemente, negli Stati Uniti, con l'opera di Moishe Postone) intorno alla rivista "Krisis", la critica del valore ha avuto una ripercussione particolarmente importante in Brasile.
La vera
posta in gioco di questa
ennesima partita referendaria, l’obiettivo reale è
l’impianto egalitario, solidaristico e genuinamente
democratico della
Costituzione repubblicana. L’attacco all’assetto
istituzionale è solo il primo passo. Se si afferma
definitivamente l’idea
che la Carta — la Legge Fondamentale — è un problema da
risolvere e non un progetto di società da realizzare, la
strada per
la definitiva cancellazione di ogni conquista sociale del
movimento operaio sarà spianata e il ritorno al lavoro
servile per quasi tutti
è ciò che ci aspetta alla fine della corsa: lavoro scarso,
precario, povero e senza nessuna prospettiva di concreto
miglioramento per la
maggioranza della popolazione e tutta la ricchezza che si
concentra nella mani di pochi privilegiati (ricchi e
super-ricchi)
* * * *
La questione della rappresentanza, come sappiamo, è il tema concreto messo in gioco da questa ennesima riforma costituzionale.
Tuttavia, a mio avviso, è fondamentale capire che le ragioni del NO vanno difese e sostenute, andando al di là della singola e specifica questione.
Il punto nodale, insomma, non è solo ed esclusivamente capire se — al netto dei senatori a vita — sia meglio avere 600 parlamentari o 945.
Dirimente è capire bene quale sia la vera posta in gioco, ovvero lo spazio democratico (= il controllo delle istituzioni democratiche) e le politiche concrete che per mezzo di queste istituzioni si possono realizzare.
Non è un caso che il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale metta espressamente in correlazione questo progetto di riforma con i precedenti tentativi, già bocciati dal popolo sovrano, e con la necessità di reintrodurre nel sistema una legge elettorale di tipo proporzionale puro:
Due milioni di test sierologici su base volontaria per il personale docente e amministrativo di tutte le scuole d’Italia. Uno screening di massa senza precedenti nella storia che il governo Conte-Azzolina-Speranza ritiene necessario per “contrastare e contenere l’emergenza COVID-19” ma che solleva perplessità nel mondo scientifico e tra gli stessi operatori scolastici per la non comprovata attendibilità delle indagini e l’incerta protezione dei dati personali sensibili che saranno raccolti e sistematizzati.
L’esecuzione dei test sierologici è stata demandata ai medici generici e ai laboratori delle aziende sanitarie locali. I dati relativi al loro esito sono trasmessi ai Dipartimenti di prevenzione delle ASL che li comunicano poi alla Regione di appartenenza, la quale – a sua volta - li trasmette in forma aggregata all’Istituto Superiore di Sanità (ISS)”, si legge nell’apposita circolare del Ministero della Salute del 7 agosto 2020. Una procedura complessa e con molteplici attori in campo che rende possibile l’accesso ad una straordinaria mole di dati scientifici e statistici da parte di soggetti terzi con fini e interessi economici (transnazionali e industrie farmaceutiche) o, peggio ancora, militari.
Nella vicenda della ex-caserma Serena a Dosson (Treviso) mancava solo l’ultimo tassello perché il delitto fosse perfetto. E immancabilmente il tassello è andato a posto: 4 immigrati sono stati arrestati con imputazioni pesantissime – sequestro di persona, devastazione, saccheggio. A ruota altri 8 (tra cui alcuni minorenni) risultano indagati. Il giornale di centro-sinistra di Treviso, La tribuna (20 agosto), ha esultato con la seguente prosa da fogna: “decapitato il vertice del gruppo di esagitati che hanno tenuto in scacco un’intera città” .
Ripercorriamo allora la vicenda per vedere come in realtà siano stati il ministero dell’interno, la prefettura, il comune, la regione, la magistratura – lo stato nelle sue differenti articolazioni – a tenere in ostaggio in una prigione-contagio centinaia di immigrati, rovesciando alla fine su di loro le proprie responsabilità, dopo non aver alzato per mesi neppure un dito per evitare che il virus si diffondesse. Lo facciamo anche grazie ad un report che ci è arrivato dall’interno e dalle vicinanze della caserma stessa, scusandoci con chi ce lo ha inviato per il ritardo nella pubblicazione.
Do un po’ i numeri.
Nel mese di agosto, il totale degli attuali positivi è cresciuto di una media del 2% (tendenza lievemente in crescita dal 20 agosto). Dal 24 febbraio al 15 marzo, del 20% circa.
Nel mese di agosto, i ricoveri con sintomi da covid-19 sono cresciuti di una media del 1,7% circa (tendenza lievemente in crescita dal 16 agosto). Dal 24 febbraio al 15 marzo, del 25% circa.
Nel mese di agosto, i ricoverati in terapia intensiva sono cresciuti in media dell’1,7% circa (tendenza poco chiara, molto ballerna). Dal 24 febbraio al 15 marzo, del 18% circa.
Nel mese di agosto, il rapporto tra il numero dei ricoverati con sintomi da covid-19 e il numero dei risultati positivi si è mantenuto tra il 5% e il 6%. Dal 24 febbraio al 15 marzo, lo stesso rapporto è stato del 45% circa.
Nel mese di agosto, il rapporto tra il numero dei ricoverati in terapia intensiva e il numero dei risultati positivi si è mantenuto tra lo 0,3% e lo 0,4%. Dal 24 febbraio al 15 marzo, lo stesso rapporto è stato del 10% circa.
Ritorniamo sul referendum confermativo sulla revisione costituzionale che si terrà a settembre, con l'opinione di un nostro associato
Già in occasione della precedente revisione costituzionale, bocciata col referendum del 2016, è stata adottata una cattiva prassi assolutamente da respingere: collegare concettualmente e nei rispettivi meccanismi di funzionamento una revisione costituzionale a una riforma della legge elettorale, così da sottoporre a referendum solo parte del problema, nascondendo le peggiori implicazioni delle scelte compiute al dibattito pubblico.
Questo comportamento è scorretto nei confronti della cittadinanza ed è anche sufficiente a decidere che una revisione costituzionale vada respinta, perché per essere una buona riforma dovrebbe essere capace di autosostentarsi.
Se una revisione costituzionale può andare a regime funzionare bene solo in combinato con una differente legge elettorale, vuol dire che in sé la revisione costituzionale proposta introduce e non sottrae contraddizioni allo status quo, cioè è peggiorativa e deve essere respinta.
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1- Alcune note
preliminari sulla situazione
Nuova Direzione è nata per fare lotta politica e culturale. La sua dimensione non permette al momento di darsi un’organizzazione politica strutturata in forma partito.
Siamo ormai abituati al nanismo di quelle organizzazioni della sinistra che si autodefiniscono ‘partito’ pur potendo contare su poche migliaia di attivisti, ma scendere al livello delle centinaia rischierebbe il ridicolo.
Un’associazione formata da un paio di centinaia di attivisti può e deve impegnarsi su due fronti: da un lato lo sforzo teorico (produrre analisi politica, economica e sociale e condurre discussione pubblica), dall’altro quello pratico (partecipare alle lotte sociali, con il duplice obiettivo di comprendere cosa si muove nella società e di promuovere il conflitto tramite il confronto e il dialogo nei luoghi di lavoro, l’adesione e il supporto alle istanze dei lavoratori, la spinta a formularne di nuove).
Cioè essere nelle lotte attuali, per le lotte da organizzare, formulando sintesi dalle lotte in corso.
Un approccio che nulla ha a che fare con l’attendismo o il ritiro nella torre eburnea.
L’associazione non ha mai promesso di partecipare a tornate elettorali per far eleggere i propri iscritti nelle amministrazioni pubbliche. Non ne abbiamo la forza e non è il nostro obiettivo primario.
Come si può desumere dalle Tesi Politiche ampie ed ambiziose che abbiamo prodotto, vogliamo promuovere un cambio di paradigma sistemico e lottare per contribuire nella misura del possibile a cambiare i rapporti di forza all’interno della società, perché i cambiamenti a livello istituzionale possano avvenire e non essere facilmente neutralizzati.
F. S. Trincia, Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, Morcelliana 2019
Umanesimo
europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, ultimo lavoro di
Francesco Saverio
Trincia, uscito nei tipi di Morcelliana/Scholè (2019), è un
denso e interessante tentativo di riscoprire alcuni tratti
della portata
filosofica (termine particolarmente significativo,
considerando la diffidenza di Freud nei confronti della
filosofia) della psicoanalisi
freudiana alla luce del filtro interpretativo di Thomas Mann.
Parallelo a tale riscoperta è il proposito di fare chiarezza e
di reinterpretare
alcuni aspetti del pensiero freudiano in modo tale che, senza
facili sensazionalismi o avventurismi ermeneutici, vi si
possano accostare categorie
apparentemente lontane, attraverso un metodo che procede senza
contrapporre elementi opposti (ad esempio “razionalità e
irrazionalità”, “progresso e regresso”), bensì mostrando
“hegelianamente” una loro reciproca implicazione
“ossimorica”.
Sotto questo punto di vista, degno di interesse è già il titolo, che associa il concetto di “umanesimo” al padre della psicoanalisi. Tale nesso, infatti, non appare affatto immediato, e non è un caso che l’autore dedichi al «senso del problema» l’intero primo capitolo, nel quale illustra gli scopi del lavoro e il percorso attraverso il quale si propone di raggiungerli. Trincia cerca di mettere a fuoco il modo in cui si può parlare di “umanesimo” all’interno del pensiero freudiano e, va detto, si tratta di un’impresa non facile, non foss’altro per il fatto che «Freud non definisce se stesso mai “umanista”. Nessuna dottrina e tanto più nessuna retorica o ideologia dell’uomo è presente nel suo universo concettuale e clinico» (p. 12). Siamo quindi di fronte a un primo apparente paradosso: ricercare un umanesimo che “non c’è”. Trincia affronta la sfida col supporto essenziale di due saggi di Thomas Mann (uno dedicato direttamente a Freud e uno su Nietzsche), di cui si serve per individuare la presenza di un progetto umanistico all’interno del pensiero di Freud.
Per far pagare la crisi ai padroni è indispensabile rilanciare dalle lotte sui posti di lavoro la costituente comunista e rianimare le strutture consiliari
I paesi a capitalismo avanzato vivono un ulteriore terribile periodo di crisi da sovrapproduzione accentuato dalla miope gestione capitalistica della pandemia. Nonostante che anche quest’ultima sia in qualche modo il prodotto dei continui squilibri creati nel rapporto fra uomo e natura, a opera di un modo di produzione interessato esclusivamente a massimizzare nel minor tempo possibile i profitti privati (di un numero sempre maggiore di grandi proprietari), sono ancora una volta i ceti sociali subalterni costretti a pagare i costi maggiormente negativi della crisi. Evidentemente, quindi, se il capitalismo è in crisi nera, lo sono anche coloro che intendono contrastarlo in senso progressista, non essendo in grado di evitare che ancora una volta il lato oscuro della crisi colpisca i produttori, favorendo i grandi sfruttatori.
Altrettanto evidente è che, essendo irriformabile il modo di produzione capitalistico, pesa sempre più l’assenza del partito rivoluzionario, ossia del partito che dal 1848 in poi si è definito comunista.
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Abdullah Öcalan:
“La modernità capitalista è la crisi di civiltà più mortale e continua della storia. In particolare, la distruzione generale degli ultimi duecento anni ha interrotto migliaia di legami evolutivi nell’ambiente naturale. Probabilmente non siamo ancora del tutto consapevoli della devastazione che ciò ha causato al mondo vegetale e animale. È tuttavia chiaro che, come l’atmosfera, entrambi questi mondi emettono costantemente segnali di SOS.”
Dovrei iniziare con una critica filologica e semantica ai due vocaboli, comunista ed ecologista, ormai così abusati e soprattutto adulterati e strumentalizzati, ma preferisco andar subito al sodo. Chi fosse interessato ad andarci un po’ più a fondo non ha che da cercare nei miei ultimi articoli. In Sinistrainrete per cominciare. Ce n’è abbastanza per capirci meglio.
Ma com’è possibile che proprio in Italia, lo stato dove resiste e si sviluppa soprattutto a partire dagli anni ‘60 una ricerca seria, studio, lavoro, critica ‘scientifico-materialista’ e inoltre dibattiti più o meno radicalmente anti-sistema, si possa ancora tentare di galleggiare politicamente e persino teoricamente in modo così squinternato su questioni ormai centrali per la stessa sopravvivenza della specie umana?
La recente ordinanza del Ministro della salute (ormai per limitare le nostre libertà personali non hanno più bisogno di leggi o almeno di decreti-legge) prevede la chiusura di discoteche e l’obbligo di mascherina dalle 18 in poi.
È già stata notata l’assurdità del provvedimento, che sembra presupporre che le malattie si diffondano solo al buio… e che gli unici luoghi affollati siano le discoteche… Vietato ballare: manco fossimo i protagonisti del film “Dirty dancing”! Il prossimo passo immagino sarà vietare i baci o i rapporti sessuali tra i giovani…
A parte le battute, il punto fondamentale è un altro. Ossia che, numeri alla mano, nonostante i media da settimane martellino su un ritorno del virus, in realtà al momento in Italia non esiste alcuna emergenza sanitaria che giustifichi ulteriori limitazioni delle libertà personali.
Non ho competenze mediche o statistiche, ma poiché nessun medico o statistico (almeno quelli interpellati dai media di regime) lo dice, è compito del cittadino comune cercare le informazioni e trarne le conclusioni (basterebbe anche un giornalista onesto…). Mi baso sui dati ufficiali delle istituzioni, pubblicamente reperibili su internet (le fonti sono indicate in fondo).
“Soltanto una crisi – reale o percepita- produce vero cambiamento… il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile”: è la celebre affermazione di Milton Friedman che racchiude la logica della shock therapy, al cuore della politiche di intervento neoliberiste.
Ci sono cambiamenti così radicali e destabilizzanti che per essere imposti alla società, senza che questa opponga resistenza, devono essere introdotti con immediatezza e tempestività: una situazione di forte crisi e disagio da parte della popolazione rappresenta la soluzione ideale perché vengano accettati.
Dal colpo di stato di Pinochet in Cile nel ’73, dove le redini economiche del Paese vennero immediatamente prese dai Chicago boys e dal loro maestro, Milton Friedman in persona, fino alla ricostruzione post tsunami in Thailandia, affidata ai grandi investitori internazionali, alla privatizzazioni selvagge nelle cosiddette Tigri asiatiche durante la crisi finanziaria del 1997-1998, passando per le riforme repentine e drastiche imposte alla Russia post sovietica: sono infiniti gli esempi di questa metodologia di governo, come ci racconta la scrittrice canadese Naomi Klein nel suo Shock Economy.
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Maurizio Novelli, Lemanik: La crisi? Inizierà a settembre. E assomiglia purtoppo al 1929
2020-06-10 - Hits 1263

A prescindere dalle
opinioni che uno abbia sulla Cina, l’efficacia mostrata dal
gigante
asiatico nel risolvere prontamente la crisi sanitaria causata
dal COVID-19, e nel minimizzarne l’impatto economico,
soprattutto a confronto con
le esperienze dei paesi occidentali, è universalmente
riconosciuta (o quasi). Ma a cosa è da imputare questo
successo? Secondo
l’economista Francesco Macheda dell’università Bifrost, in
Islanda, autore di un recente paper
sull’argomento, le ragioni sono da rintracciarsi
soprattutto nelle caratteristiche strutturali del modello di
sviluppo cinese, e più
specificatamente nell’estensione del settore pubblico
dell’economia cinese e nel ruolo fondamentale delle imprese a
conduzione statale
(state-owned enterprises, SOE), nonché nella forte
presenza pubblica all’interno del settore bancario oltre che
industriale. La
tesi di Macheda è che la massiccia presenza dello Stato
nell’economia «abbia dotato il governo del paese delle risorse
necessarie a
ridurre sensibilmente i tempi di risoluzione della crisi
sanitaria, riattivare prontamente la filiera produttiva
domestica, e massimizzare
l’efficacia degli stimoli fiscali e monetari tendentia
stabilizzare l’output».
Nonostante la crescente rilevanza delle imprese private nel paese, infatti, le imprese a conduzione statale continuano a giocare un ruolo fondamentale nello sviluppo industriale cinese. Macheda ricorda come nel 2017 le imprese pubbliche detenessero il 48.1 percento dello stock di capitale impiegato nell’industria – in particolare in settore strategici “pesanti” quale quello estrattivo ed energetico, siderurgico, metallurgico e meccanico, ma anche in settori ad alto valore aggiunto quali quello automobilistico e informatico –, nonché il 90 per cento degli asset in mano alle 500 maggiori imprese operanti all’interno dei confini nazionali. A titolo di confronto, nei paesi europei più avanzati la quota “pubblica” sul totale dello stock di capitale risulta essere dalle due alle tre volte inferiore rispetto a quella della Cina.
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Lo scandalo del
denaro
I Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e pubblicati nel 1932, sono giudicati un’opera “giovanile”. In realtà i manoscritti sono fondamentali per riscontrare – in un periodo di passaggio tra le opere giovanili e le opere della maturità – il nucleo profondamente umanistico del pensiero marxiano. Per umanistico si intende la centralità dell’essere umano nella storia e nel sistema sociale e politico, che può essere giudicato positivamente, se risponde all’essenza generica e sociale dell’essere umano.
L’umanesimo marxiano pone al centro della storia l’essere umano. Non si tratta di un essere umano astratto ed idealizzato, ma colto nella concretezza della sua realtà materiale. L’umanesimo marxiano riporta il male ed il dolore alle condizioni storiche che ne determinano la genesi, per trascenderlo. Il male non ha realtà ontologica, ma alligna nei rapporti sociali ed economici. Marx è nello stesso solco di autori come Spinoza e Rousseau, i quali hanno smascherato il male metafisico per riportarlo a quella che è realmente la sua dimensione all’interno delle relazioni sociali. Il male è l’epifenomeno dei sistemi che negano la natura sociale dell’essere umano. L’essere umano che soffre è spesso il portatore infetto di relazioni sociali sbagliate, innaturali.
Marx ha la capacità di scandalizzarsi dinanzi al male, non indietreggia, ma lo attraversa. Il negativo, ove necessario, va vissuto e compreso per poter riportare l’ordine razionale dove vige e regna il male. Scandalo[1] in greco significa “inciampo”, per cui bisogna inciampare in esso, per potersi cognitivamente rialzare e ritrovare la dignità dell’essere umano. Essa vive nell’autonomia del giudizio che si coniuga con la prassi storica: teoria e prassi sono tra di loro in una tensione feconda e sono capaci di riorientare l’umanità. Il male non è un destino, ma una condizione socialmente fondata dalla struttura economica e dalla sovrastruttura.
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Pubblichiamo la prefazione “Homo prometheus e marxismo prometeico” al nuovo libro che uscirà a novembre, intitolato “Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?”, scritto da Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli, con un’introduzione di Giorgio Galli
Cosa hanno in comune il mito di
Faust e i fumetti
dell’Uomo Ragno; gli sciamani del paleolitico e Superman; il
grande poeta comunista Shelley e il filosofo anticomunista
Nietzsche; Marx e Pico
della Mirandola; il mito di Icaro e quello di Frankenstein;
Esiodo e il geniale Goethe; il Golem medioevale e il temerario
capitano Achab creato da
Melville; la torre di Babele biblica e il potente stregone
Prospero della “Tempesta” di Shakespeare; i due splendidi film
su Blade Runner
e 2001: Odissea nello spazio; la saga di fantascienza dei
Precursori, ideata da Greg Bear, e quella su Harry Potter?
L’Homo prometheus, la tendenza titanica.
Cosa hanno in comune i romanzi di Chrétien de Troyes, Tolkien, Terry Brook e Dan Brown, se non la ricerca affannosa del proteiforme Graal con le sue sconfinate conoscenze esoteriche? 1
Il prometeismo costituisce una tendenza cultural-politica che ha come suo fondamento la valutazione positiva della carsica ma concreta trasformazione, da parte umana, dell’impossibile di ieri nel possibile del presente, e soprattutto nella realtà del futuro: ossia l’esaltazione delle grandi capacità di sviluppo dei poteri e delle conoscenze umane, soprattutto nella sfida contro i limiti interni/esterni posti al pieno dispiegarsi delle loro potenzialità di crescita.
Si tratta di una complessa e contraddittoria corrente, culturale e politica, che risale all’era paleolitica di trentamila anni fa e che ormai ha accumulato quasi tremila anni di proteiforme storia scritta in Europa, rappresentando un pezzo importante all’interno del mosaico del processo di riproduzione delle ideologie, delle concezioni del mondo e della letteratura all’interno dell’occidente, dall’800 a.C. fino ad arrivare al nostro terzo millennio: un fenomeno significativo sia per gli intellettuali che per le masse popolari, anche se in forme e con livelli di elaborazione assai diverse, che ha segnato concretamente non solo le classi sfruttatrici ma anche quelle sfruttate, partendo dal mito del serpente della Genesi biblica e da Esiodo, con la sua prima cristallizzazione del mito prometeico per arrivare via via anche ai film e ai fumetti dedicati ai supereroi contemporanei.
Questo testo di Guillaume Sibertin-Blanc e
Matthieu Renault – apparso in francese sulla Revue du Crieur (n.
10, 2018) – ripercorre la genealogia del cosiddetto
«spinozismo di sinistra» francese,
e in parte italiano (non di secondo piano sono i riferimenti
alla fine e acuta spinozista Emilia Giancotti): da Althusser
a Lordon, passando per
Deleuze, Matheron (e Gueroult), Macherey, Balibar, Negri,
Sévérac e tant* altr* filosofe e filosofi. Materia calda,
con i suoi impensati
(l’immanenza, il pensiero
sulla e della vita, la teoria genetica dello Stato, il
materialismo radicale, ecc.),
la filosofia di Spinoza è un campo di battaglia
attraversato da numerose generazioni, ora più apertamente
ora più
velatamente. I due filosofi, in guisa di
conclusione, lanciano una sfida per i/le novell* spinozist*:
«Nell’epoca della
decomposizione e delle ricomposizioni della sinistra, più
che determinare se lo spinozismo sia «di sinistra», la
questione è
senza dubbio valutare in quale misura la sinistra è
«spinozista» e ciò che guadagnerebbe o perderebbe
nell’essere
tale; e ciò non solo dal punto di vista delle sue idee o
della sua ideologia ma, come impone il parallelismo
spinoziano, anche dei suoi modi di
esistenza e organizzazione come corpo e insieme di corpi,
«convenienti» o convergenti sotto alcuni aspetti,
«sconvenienti» o
divergenti sotto altri: lo spinozismo come scansione delle
pratiche militanti, tutto un programma». Riappropriarsi di
Spinoza è
«pensare con» e non «a partire da» Spinoza. Perché lo
spinozismo è, innanzitutto, un metodo di studio e di
pensiero e una postura etico-politica. [Marco Spagnuolo]
* * * *
Al fianco delle letture conservatrici e delle interpretazioni liberali delle opere di Spinoza, è possibile delineare i contorni di uno «spinozismo di sinistra». E non recente: se Marx si è subito allontanato dal filosofo di Amsterdam, i pensatori della II e della III Internazionale ne hanno riconosciuto i tratti tipici di un autentico materialista.
Non è certo una novità affermare che oggi
stiamo vivendo
in una situazione di crisi permanente, e che la crisi
ecologica e quella economica - la devastazione delle basi
naturali della vita e la
povertà crescente nella società - convivono in quella che è
un'atmosfera di catastrofe che si fa sempre più intensa.
Mentre le minacce sembrano riproporsi continuamente,
mettendoci davanti a dei pericoli della cui esistenza fino a
poco tempo fa non eravamo nemmeno a
conoscenza - come il cambiamento climatico - o che ritenevamo
fossero completamente superati - come i movimenti politici di
stampo fascista - allo
stesso tempo, il minimo che si possa dire è che negli ultimi
decenni, il pensiero che avrebbe dovuto permetterci di
fronteggiare tali minacce
non si è rinnovato con la stessa rapidità e con lo stesso
vigore.
La maggior parte delle volte, si è cercato di comprendere delle situazioni storicamente inedite per mezzo di categorie ereditate dal marxismo tradizionale e dal liberalismo, dalla teoria dello sviluppo o da quella del sottosviluppo, dalla giustizia sociale redistributiva e dalla democrazia rappresentativa. Tra i rari tentativi di ripensare globalmente ciò che ci sta accadendo, troviamo la "Critica del Valore" , la quale consiste in una critica radicale del valore mercantile e del denaro, del lavoro e della merce, dello Stato e del feticismo della merce, tutte cose che costituiscono le categorie centrali del capitalismo fin dai suoi inizi. La critica del valore analizza anche quella che è la crisi irreversibile in cui oggi si trovano tutte queste categorie. Si tratta di un approccio che si ispira a Marx, ma che lo fa in un modo assolutamente non «ortodosso». Nata in Germania negli anni '80 (ed in modo del tutto simile, seppure indipendentemente, negli Stati Uniti, con l'opera di Moishe Postone) intorno alla rivista "Krisis", la critica del valore ha avuto una ripercussione particolarmente importante in Brasile.
La vera
posta in gioco di questa
ennesima partita referendaria, l’obiettivo reale è
l’impianto egalitario, solidaristico e genuinamente
democratico della
Costituzione repubblicana. L’attacco all’assetto
istituzionale è solo il primo passo. Se si afferma
definitivamente l’idea
che la Carta — la Legge Fondamentale — è un problema da
risolvere e non un progetto di società da realizzare, la
strada per
la definitiva cancellazione di ogni conquista sociale del
movimento operaio sarà spianata e il ritorno al lavoro
servile per quasi tutti
è ciò che ci aspetta alla fine della corsa: lavoro scarso,
precario, povero e senza nessuna prospettiva di concreto
miglioramento per la
maggioranza della popolazione e tutta la ricchezza che si
concentra nella mani di pochi privilegiati (ricchi e
super-ricchi)
* * * *
La questione della rappresentanza, come sappiamo, è il tema concreto messo in gioco da questa ennesima riforma costituzionale.
Tuttavia, a mio avviso, è fondamentale capire che le ragioni del NO vanno difese e sostenute, andando al di là della singola e specifica questione.
Il punto nodale, insomma, non è solo ed esclusivamente capire se — al netto dei senatori a vita — sia meglio avere 600 parlamentari o 945.
Dirimente è capire bene quale sia la vera posta in gioco, ovvero lo spazio democratico (= il controllo delle istituzioni democratiche) e le politiche concrete che per mezzo di queste istituzioni si possono realizzare.
Non è un caso che il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale metta espressamente in correlazione questo progetto di riforma con i precedenti tentativi, già bocciati dal popolo sovrano, e con la necessità di reintrodurre nel sistema una legge elettorale di tipo proporzionale puro:
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1- Alcune note
preliminari sulla situazione
Nuova Direzione è nata per fare lotta politica e culturale. La sua dimensione non permette al momento di darsi un’organizzazione politica strutturata in forma partito.
Siamo ormai abituati al nanismo di quelle organizzazioni della sinistra che si autodefiniscono ‘partito’ pur potendo contare su poche migliaia di attivisti, ma scendere al livello delle centinaia rischierebbe il ridicolo.
Un’associazione formata da un paio di centinaia di attivisti può e deve impegnarsi su due fronti: da un lato lo sforzo teorico (produrre analisi politica, economica e sociale e condurre discussione pubblica), dall’altro quello pratico (partecipare alle lotte sociali, con il duplice obiettivo di comprendere cosa si muove nella società e di promuovere il conflitto tramite il confronto e il dialogo nei luoghi di lavoro, l’adesione e il supporto alle istanze dei lavoratori, la spinta a formularne di nuove).
Cioè essere nelle lotte attuali, per le lotte da organizzare, formulando sintesi dalle lotte in corso.
Un approccio che nulla ha a che fare con l’attendismo o il ritiro nella torre eburnea.
L’associazione non ha mai promesso di partecipare a tornate elettorali per far eleggere i propri iscritti nelle amministrazioni pubbliche. Non ne abbiamo la forza e non è il nostro obiettivo primario.
Come si può desumere dalle Tesi Politiche ampie ed ambiziose che abbiamo prodotto, vogliamo promuovere un cambio di paradigma sistemico e lottare per contribuire nella misura del possibile a cambiare i rapporti di forza all’interno della società, perché i cambiamenti a livello istituzionale possano avvenire e non essere facilmente neutralizzati.
F. S. Trincia, Umanesimo europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, Morcelliana 2019
Umanesimo
europeo. Sigmund Freud e Thomas Mann, ultimo lavoro di
Francesco Saverio
Trincia, uscito nei tipi di Morcelliana/Scholè (2019), è un
denso e interessante tentativo di riscoprire alcuni tratti
della portata
filosofica (termine particolarmente significativo,
considerando la diffidenza di Freud nei confronti della
filosofia) della psicoanalisi
freudiana alla luce del filtro interpretativo di Thomas Mann.
Parallelo a tale riscoperta è il proposito di fare chiarezza e
di reinterpretare
alcuni aspetti del pensiero freudiano in modo tale che, senza
facili sensazionalismi o avventurismi ermeneutici, vi si
possano accostare categorie
apparentemente lontane, attraverso un metodo che procede senza
contrapporre elementi opposti (ad esempio “razionalità e
irrazionalità”, “progresso e regresso”), bensì mostrando
“hegelianamente” una loro reciproca implicazione
“ossimorica”.
Sotto questo punto di vista, degno di interesse è già il titolo, che associa il concetto di “umanesimo” al padre della psicoanalisi. Tale nesso, infatti, non appare affatto immediato, e non è un caso che l’autore dedichi al «senso del problema» l’intero primo capitolo, nel quale illustra gli scopi del lavoro e il percorso attraverso il quale si propone di raggiungerli. Trincia cerca di mettere a fuoco il modo in cui si può parlare di “umanesimo” all’interno del pensiero freudiano e, va detto, si tratta di un’impresa non facile, non foss’altro per il fatto che «Freud non definisce se stesso mai “umanista”. Nessuna dottrina e tanto più nessuna retorica o ideologia dell’uomo è presente nel suo universo concettuale e clinico» (p. 12). Siamo quindi di fronte a un primo apparente paradosso: ricercare un umanesimo che “non c’è”. Trincia affronta la sfida col supporto essenziale di due saggi di Thomas Mann (uno dedicato direttamente a Freud e uno su Nietzsche), di cui si serve per individuare la presenza di un progetto umanistico all’interno del pensiero di Freud.
A cura di Città Senza Centro e Commonware
CSC: Nella “città
del contagio” secondo te quali sono le tendenze di
trasformazione del capitalismo delle piattaforme? Pensiamo
da un lato ai processi di gentrification e
turistificazione dei centri storici e dall'altro
a quelli di produzione, consumo e distribuzione di beni e
servizi culturali. Con la pandemia il consumo culturale
comporterà una
ristrutturazione delle gerarchie? Quali saranno i
dispositivi di esclusione da certe esperienze di consumo
culturale?
Una cosa che sostengono quelli che si occupano di consumi culturali da quarant’anni a questa parte è che esiste una tendenza massiccia e diffusa verso quello che chiamano “onnivorismo culturale”, ovvero il fatto che una quota sempre maggiore di popolazione consuma sempre più prodotti culturali simili indipendentemente dalle diverse appartenenze di classe. Questa è stata una rivoluzione del Novecento. Fino agli anni Cinquanta e Sessanta le classi sociali avevano consumi completamente diversi tra loro e molto segmentati. Dagli anni Sessanta in poi si è sviluppata la tendenza a mescolare i codici e a consumare merci simili. È ovvio che non sono mai prodotti identici. Prendiamo l'esempio dell'automobile che – anche se non è un consumo culturale – funziona bene in questo senso. Tu puoi accedere a un'automobile che ha buona parte degli optionals che ha anche l'automobile di un consumatore più ricco. Tu accedi a quel bene con la finanziarizzazione, sei obbligato a comprare l'auto attraverso l'indebitamento, che ti consente quindi di accedere non al modello di classe superiore ma ad uno con caratteristiche abbastanza simili, mentre il consumatore con più disponibilità economica la compra con la carta di credito o con un bonifico ed ha il top della gamma.
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La Bielorussia è oggi nell’occhio
del ciclone mediatico (occidentale). Sino a poco tempo fa
molti
manco sapevano esattamente dove fosse collocata
geograficamente, ma dopo quelle deprecabili elezioni ora tutti
finalmente sanno che laggiù,
anzi lassù, la democrazia non è di casa.
Lasciamo per un momento questo argomento e andiamo dall’altra parte dell’Atlantico. La cosiddetta pandemia ancora in corso nel pianeta ha colpito duro anche gli USA. La FED ha stampato trilioni di dollari su ordine di Trump, si sono dati sussidi a fondo perduto come non mai nella storia americana, enorme ossimoro per il Paese più capitalista del mondo, gesto voluto da un presidente repubblicano, liberale e molto ricco di suo, il 2020 è un anno che troverà ampio spazio nei libri di storia dei prossimi secoli. Il PIL americano è calato, la disoccupazione è esplosa, i volumi nei mercati sono scesi, ma gli indici azionari, dopo un grande tonfo sono risaliti. Che sta succedendo? Proprio quest’anno, i colossi multinazionali si sono arricchiti in modo impressionante, come mostra un recente articolo di Forbes:
Draghi pontifica al meeting di Rimini, ma la ricetta è fare debito a carico delle nuove generazioni, che però dichiara di voler tutelare
L’Italia ha un nuovo Papa. E non un Papa
divisivo, come quello di stanza in
Vaticano, ma un Papa ecumenico: sia le destre moderate, con
qualche distinguo di facciata, che – più convintamente – le
sedicenti
sinistre, plaudono al discorso di Mario Draghi al Meeting di
Comunione e Liberazione (Cl), che qualcuno ha letto come
un’autocandidatura al
soglio del Quirinale.
Già la scelta del luogo per proferire il suo messaggio urbi et orbi è una strizzata d’occhio ai settori più conservatori del cattolicesimo. Lo è anche l’esordio con cui si dichiara “partecipe della vostra [di Cl!] testimonianza di impegno etico”, glissando sull’impegno etico di Formigoni e della Compagnia delle Opere. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, si tratta di una formalità e di un gesto di buona educazione nei confronti di chi lo ha ospitato e gli ha offerto quel pulpito. Quindi soprassediamo e veniamo alla “ciccia”, che comunque è sempre ben velata da frasi di apparente buon senso idonee a renderla più facilmente digeribile sia alla destra che alla “sinistra” (sempre sedicente, per essere precisi), come si conviene a un buon Pontefice.
Due sono le parti più rilevanti del suo discorso, una analitica e una propositiva.
Cominciamo dalla prima che attiene essenzialmente alla valutazione della crisi e della capacità di risposta delle istituzioni europee.
Il coronavirus, per sua stessa ammissione, si è abbattuto su un’Italia già in recessione, e tuttavia egli si ostina a denunciarlo come la causa di questa crisi. Potrebbe il mentore del capitale finanziario ammettere che il problema è il capitalismo? No. Quindi passiamogli anche questa.
Chi studia la visione è d’accordo
sul fatto che essa comporta un processo di costruzione. In
condizioni normali questo
assunto non appare così ovvio, ma in condizioni in cui la
vista è impedita per una ragione o l’altra, nelle situazioni
in cui
siamo costretti a ricostruire il puzzle ovvero quando la
confusione sovrasta la scena osservata, iniziamo ad avere la
sensazione che il riconoscimento
degli oggetti nel mondo richiede di mettere insieme le parti
percepite in un intero coerente. Di solito, nessuno di noi si
pone la domanda sul come
vediamo, di contro, molto spesso, accade che, nel notare un
peggioramento nel nostro campo visivo, ci rechiamo da uno
specialista della visione, per
ripristinare i parametri standard degli input sensoriali.
D’altronde, un tale atteggiamento è naturale, spontaneo, e ci
protegge dal
rimanere paralizzati come il millepiedi che risponde
all’interrogativo della formica: «in che ordine metti i piedi
l’uno dietro
l’altro?»
La soluzione di questa storiella Zen potrebbe essere proprio nel riconoscere che è la stessa domanda a essere sbagliata, ragion per cui non aborriamo qualsiasi domanda, anzi ci tocca individuare e rispondere a quegli interrogativi che, di volta in volta, ci consentono di esplorare la scena visiva.
Nello scorrere le pagine del bellissimo libro di Kevin O’ Regan, Perché i colori non suonano, è possibile trovare un’ampia e ricca trattazione di temi strettamente interconnessi tra di loro, che ci permettono di aumentare il nostro grado di consapevolezza sulle caratteristiche del processo visivo. Il suo lavoro spazia dalla cecità al cambiamento del sé cognitivo e sociale, dall’intelligenza artificiale alla nuova teoria sulla coscienza, dalla concezione della pura sensazione alle differenze tra il vedere, immaginare e ricordare, eccetera.
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2020-08-24 - Hits 1315
2020-08-04 - Hits 1306

La scuola nuova, e
nondimeno da innovare, rifiuta lo studio delle discipline,
rifiuta la
didattica severa che le trasmette iniziando
dalle lezioni frontali; il desiderio di liberarsi da
questi residui la possiede con
tale forza da soffocarle la coscienza di abbandonare gli
alunni all’ignoranza. Senza saperlo, essa si colloca così
nella lunga tradizione
di atteggiamenti che, con tanta più energia quanto più ne
ignorano il senso, svalutano la conoscenza rispetto
ad altri interessi
– pratici, religiosi, estetici o genericamente vitali. Il
disprezzo della ragione teoretica è il segreto della
popolarità
filosofica. Conoscere comporta infatti il disagio di esporre
il proprio io all’oggetto nella sua estraneità. Eppure solo
chi si è
prima rassegnato all’umile lavoro di familiarizzare
con l’estraneo può poi scoprire la concordanza tra sé
e
l’oggetto, che definisce la verità, e procurarsi il
terreno comune a tutti, che definisce la libertà. La
conoscenza
è dunque la costruzione progressiva dell’accordo del soggetto
con l’oggetto e tra i soggetti. Qualora volesse farne a meno e
ignorasse il diritto dell’oggetto, l’io rifluirebbe nel gioco
con sé stessa dell’individualità privata. –
Proprio l’apprendimento come un mero gioco della spontaneità
dell’individuo, senza il contatto severo con l’estraneo,
è l’eterna illusione della cattiva pedagogia. Essa scorge
l’estraneo propriamente nell’astratto, da cui
l’esposizione della conoscenza, in quanto è teorica,
deve iniziare; indispettita dall’imperativo di separarsi dal
mondo
colorato delle immagini sensibili, cerca di eluderlo con
espedienti a cui dà il nome pretenzioso di metodo; non
comprendendo che
l’astratto è l’universale da cui segue la stessa possibilità
applicativa, lo diffama come arida nozione. Il rifiuto
del nozionismo non esprime quasi mai l’esigenza che
l’insegnamento superi le informazioni sconnesse e offra
conoscenze integrate in un
sistema scientifico e in grado di illuminare l’esperienza –
per lo più esso è solo rifiuto della severità, quindi
rifiuto del conoscere.
Sebbene la
matrice originaria sia di destra, da anni la prospettiva
dell’uscita
dell’Italia dall’Unione europea e dall’euro ha conquistato
molti militanti e diversi gruppi dell’extra-sinistra.
L’adesione ad essa è avvenuta, a seconda dei casi, in nome
della sovranità nazionale, della sovranità popolare o della
sovranità democratica, tre differenti varianti di una stessa
tesi: i lavoratori italiani dall’uscita dall’Ue e dall’euro
hanno tutto da guadagnare, niente da perdere. In questa area
politica dai confini interni fino a ieri piuttosto labili, la
nascita di Italexit, il
“partito” di Paragone, ex-direttore della Padania
(un nome, una garanzia), ex-deputato dei 5S, estimatore della
crociata O.
Fallaci (hai detto tutto), ha avuto l’effetto di un
detonatore. Alcuni avventurieri si sono precipitati a rotta di
collo nel nuovo contenitore:
lo impone, dicono, il realismo politico (i sondaggi parlano di
6-8% di voti…), e “sporcarsi le mani” è inevitabile se si
vuole “fare politica”, inutile specificare di quale politica
si tratti. Altri, Nuova direzione ad esempio, si
sono tirati fuori
dalla partita di Paragone&Co. perché non ci stanno a
sostenere l’Italexit se è “solo una soluzione al problema del
rango e
della posizione del capitale italiano nel contesto della
competizione internazionale, e quindi alla difesa del proprio
ruolo sub-imperialista”,
magari in stretta combutta con gli Stati Uniti; ci starebbero,
invece, se servisse a “superare la condizione di subalternità
dei
lavoratori” e a “subordinare la logica del mercato (…) alle
politiche realmente democratiche” (auguri!). Di altri ancora
– Rete dei comunisti, Potere al popolo – si sono quasi perse
le tracce, appaiono confusi e indecisi a tutto anche se la
retorica
nazionalista a sfondo sociale continua a farla da padrona
nelle loro fila.
In questi giorni è uscito un articolo dal titolo “Efficient Policy Interventions in an Epidemic” (qui il testo) scritto da due economisti italiani, operanti all’estero.
L’articolo, per quanto usualmente tecnico, ha mosso qualche onda in rete, perché, nonostante i tecnicismi, diversi lettori vi hanno percepito qualcosa di abnorme.
Curiosamente diversi economisti di professione, anche intelligenti, colti e critici, si sono lasciati andare a commenti giustificativi del paper.
In verità entrambe le reazioni sono ben comprensibili, anche se quella più interessante a mio avviso è quella degli “economisti critici”, perché mostra la potenza ideologica pervasiva dell’approccio economico standard insegnato nelle nostre università (la cosiddetta “sintesi neoclassica“).
Informalmente l’articolo sostiene che si potrebbero internalizzare le esternalità create dalla pandemia sul sistema produttivo dando un prezzo al rischio di contrarre l’infezione attraverso il conferimento di “diritti di infezione” (infection rights).
La crisi fra Russia e Bielorussia è rientrata per via dell’improvviso e inaspettato scoppio di una duratura insurrezione post-elettorale che, in piedi dalla sera del 9 agosto, non mostra ancora segni di declino e/o di interruzione. I disordini, sui quali sin da subito ha iniziato a gravare l’ombra di un’interferenza straniera, per via degli arresti di dimostranti provenienti da Polonia e Ucraina, poi confermata dal protagonismo del duo Varsavia-Vilnius e dell’Unione Europea, hanno convinto Aleksandr Lukashenko a sospendere la politica di avvicinamento all’Occidente, riportandolo saldamente a riaffermare il posizionamento geopolitico di Minsk all’interno della sfera d’influenza russa.
L’episodio più eclatante della crisi, che sarebbe culminata in una vera e propria rottura in assenza del maldestro tentativo di cambio di regime, è stato indubbiamente l’arresto di trentatre mercenari del gruppo Wagner, avvenuto il 29 luglio. L’operazione aveva avuto luogo grazie alla soffiata ricevuta da alcuni servizi segreti esteri, secondo i quali i militari privati si sarebbero trovati nel Paese con l’intento di attuare un piano di destabilizzazione alla vigilia delle elezioni.
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Gli stati sono strutture. Architetture desiderate, pensate, progettate, realizzate. Sono destinati a contenere un corpo sociale. Prevedono gangli di controllo e/o gestione normalmente chiamato “sistema”.
Il sistema tende a funzionare secondo la concezione auspicata in modo direttamente proporzionale all’ubbidienza degli elementi privati e associativi che in esso sono ammessi dal sistema stesso.
La disobbedienza mette in crisi il funzionamento e la sopravvivenza dell’organismo sistema.
In tempo di bassa consapevolezza generale il sistema adotta metodi di controllo e gestione ad essa confacenti e soddisfacenti. Quando il gradiente di consapevolezza generale tende a crescere, il sistema a sua volta evolve. Ciò che andava bene prima perde di efficienza e diviene necessario escogitare adeguate infrastrutture.
La Rivoluzione francese prima e l’Internazionale comunista poi – farcite da altre minori espressioni – ebbero il pregio di alzare il livello di consapevolezza comune relativamente ai dictat imposti dai sistemi governativi. L’alfabetizzazione ne accelerò il processo. Per mantenere il controllo e la gestione sociale serviva un’idea.
Qui la Parte I, qui la Parte II
Sulla base
di queste due grandi tendenze,
altri autori sono entrati nel dibattito sul concetto di
formazione economico-sociale negli anni '60 e '70. I
contributi di Cesare Luporini ed Emilio
Sereni hanno segnato in modo decisivo questo dibattito. Le
interpretazioni emerse sono state caratterizzate da un
approfondimento della definizione
del concetto di formazione economico-sociale attraverso la
critica delle interpretazioni correnti e un ritorno ai testi
di Marx.
Nonostante le divergenze sulla comprensione del concetto, è possibile unire questa discussione sotto la stessa matrice dal momento in cui i due autori si allontanano, secondo Luporini, dallo stesso campo di indagine, caratterizzato da due punti principali:
1) applicare la nozione di “modello” teorico alla nozione di formazione economico-sociale
2) esistenza di una "legge generale" per tutte le formazioni economico-sociali - anche come criterio per il "modello" teorico - enunciata da Marx nell'Introduzione alla Critica dell'Economia politica del 1857:
“In tutte le forme di società vi è una determinata produzione ed i suoi rapporti, che assegnano rango ed influenza a tutte le altre [produzioni] ed a tutti gli altri rapporti. Si tratta di una generale lucentezza, che investe tutti gli altri colori e da cui essi vengono modificati nella loro particolarità. Si tratta di un etere particolare, che determina il peso specifico di ogni esistenza, che in esso assume rilievo.”
La revisione di questo dibattito si propone di mettere in luce questi due punti comuni agli autori, nonché di evidenziare le loro diverse interpretazioni.
Il 3
novembre, nelle elezioni presidenziali statunitensi, sarà
Donald Trump contro Joe Biden. Gli States arrivano divisi e
polarizzati alla fase
finale della corsa alla Casa Bianca, fiaccati dai dissidi
politici, dalla pandemia, dalla crisi economica e dalle
tensioni sociali.
L’appuntamento elettorale di novembre sarà anche una vera e
propria resa dei conti tra Democratici e Repubblicani, rare
volte divisi in
passato come negli ultimi anni. Con una nostra vecchia
conoscenza, il giornalista ed esperto degli Usa Stefano
Graziosi, parliamo oggi delle principali
tendenze che guidano i
candidati, i maggiori partiti e il Paese nella marcia di
avvicinamento al voto.
* * * *
Les jeux son faits: ora Donald Trump e Joe Biden hanno acquisito ufficialmente la nomination per la corsa alla Casa Bianca. Quali sono i tratti salienti che hai colto dallo svolgimento delle convention dei due maggiori partiti Usa?
Il tratto principale della convention democratica è stato quello di un viscerale anti-trumpismo: l’unico collante che, al momento, sembra di tenere insieme un partito internamente spaccato come quello democratico. Puntare quasi tutto sull’opposizione al presidente in carica ha avuto un senso, per mantenere aleatorio un programma che – qualora fosse stato affrontato nel dettaglio – avrebbe determinato il riesplodere delle tensioni intestine: dalla convention non è del resto emerso concretamente dove il ticket democratico si collocherà su ordine pubblico, fratturazione idraulica, riforma sanitaria e – più in generale – recupero dei colletti blu della Rust Belt. Trump, di contro, ha utilizzato la convention repubblicana per cercare di ribaltare la narrazione cucitagli addosso dai suoi avversari: in questo senso, i vari interventi hanno valorizzato l’immigrazione legale, le minoranze etniche e la sua politica estera.
Sta avvenendo sotto i nostri occhi: la conclusione di un ciclo di civilizzazione lungo e addirittura di un’era geologica che molti scienziati definiscono con il nome Antropocene. Abbiamo bisogno di individuare le cause profonde della crisi ecosistemica, strutturale e di civiltà e di prospettare molte alternative, diverse già sperimentate, per uscire dal miope cinismo economicista e dalle logiche distruttive dell’accumulazione capitalista prevalenti. Ma non non basta avere una coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Abbiamo bisogno di un immaginario comune, di una cosmovisione.
C’è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi, come ci dimostra l’archeologa Marija Gimbutas) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi. Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, elite dominati che sono riusciti a plasmare e organizzare secondo le loro regole le intere relazioni sociali.
Chi sia e che ruolo abbia avuto l’elezione a presidente di Confindustria Carlo Bonomi lo abbiamo scritto in un articolo su questo giornale al momento della sua nomina a capo degli industriali italiani.
In realtà l’approccio bonomiano alle relazioni e alle politiche industriali, che potremmo ricondurre al ruolo di “falco” utilizzando il gergo del giornalismo politico, non ha nulla di innovativo o “rivoluzionario”, per citare una sua ultima uscita infelice.
Si tratta infatti di una posizione di intransigente arroganza e supponenza nel portare avanti gli interessi di un pezzo consistente di classe padronale italiana che si trova sempre più in difficoltà nel recuperare i livelli di bilancio pre-crisi e nel mantenere una competitività con i capitali stranieri nel mercato globale e soprattutto in quello italiano.
Un comportamento che possiamo in realtà definire “classico” per la classe borghese della fase morente del capitalismo nella quale viviamo, una posizione di profonda reazione nella quale il perseguimento dell’interesse di classe coincide con la necessità di garantire la sopravvivenza stessa della propria classe e dell’intero sistema di valori e di regole che la informa.
Italia, terra di santi, di poeti e navigatori, ma soprattutto di ragionieri.
Da quando i dati sono largamente accessibili nella loro presunta forma grezza (o neutra) tutti ci siamo riscoperti analisti economici.
Basta accede a una della banche dati disponibili – Eurostat, Banca mondiale, Ocse, Banca d'Italia - per dotarsi di una razione ragionevole di dati per dimostrare qualsiasi teoria.
L’impresa sulla quale si stanno misurando in molti in questi giorni su Facebook è la dimostrazione, dati alla mano, della teoria che assimila il debito pubblico italiano a uno schema Ponzi.
Nello Schema Ponzi (wikipedia) a una persona che ha una certa quantità di denaro liquido viene proposto un investimento dal quale ricaverà un guadagno facile e veloce e superiore ai tassi di mercato. Dopo poco tempo, all'invertitore viene pagata una discreta somma, facendogli credere che il sistema funzioni. Si sparge la voce, altre persone aderiscono al Sistema Ponzi e investono i loro risparmi. Con una parte dei soldi via via incassati dai nuovi aderenti si pagano gli interessi ai vecchi aderenti. Tutto funziona finché le richieste di rimborso del capitale versato non superano i nuovi investimenti.
Chiudere le discoteche? Non solo questa ma “tutte le decisioni del governo italiano sono state sbagliate”. Non ha dubbi Sucharit Bhakdi, specialista in microbiologia ed epidemiologia delle infezioni che per 22 anni ha diretto l’Istituto di Microbiologia dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza. Assieme alla moglie, Karina Reiss, ricercatrice nel campo della biochimica, infezioni e biologia cellulare all’università di Kiel, ha dato alle stampe un libro che in poche settimane è diventato un best seller in Germania con oltre due milioni di copie vendute.
Corona Fehlalarm? (“Falso allarme Corona?”), edito da Goldegg Verlag, è uno studio basato su numeri, dati e almeno duecento citazioni della letteratura scientifica, che punta a ridimensionare la portata della pandemia in corso in tutto il globo. “Basta guardare il tasso di mortalità, è da lì che ognuno di noi può evincere che il Sars Cov-2 è paragonabile ad un qualsiasi virus influenzale”, dicono ad Inside Over i due autori del volume. I numeri a sostegno di questa tesi sono elencati nelle pagine del tascabile, che tra qualche settimana sarà tradotto anche in lingua inglese.
2020-07-30 - Hits 2219
2020-07-22 - Hits 1683
2020-06-04 - Hits 1627
2020-07-01 - Hits 1536
2020-08-24 - Hits 1469
2020-07-01 - Hits 1363
2020-08-04 - Hits 1337
2020-06-23 - Hits 1336
2020-06-10 - Hits 1309
2020-06-15 - Hits 1298

Conobbi
David a Sapporo, nell’anno 2008 nella palestra dove si
teneva la riunione
iniziale delle giornate di contro-summit, mentre il G8 si
riuniva in qualche luogo iper-protetto della città capitale
dell’Hokkaido.
Eravamo arrivati da poche ore, io e Claudia dall’Italia,
David da Londra, e avevamo un sonno bestiale. Mentre i
compagni giapponesi facevano i
discorsini introduttivi al contro-summit, David si stese per
terra e si addormentò per un po’.
Quando la riunione si concluse lui si alzò tutto stropicciato e ce ne andammo all’Hotel dove eravamo ospitati, o per meglio dire inscatolati. Ma la sera bussò alla nostra porta e ci chiese se avevamo qualcosa contro il mal di pancia. Avevamo quel che occorreva e lui si fermò per un’oretta a raccontarci quando era stato in Madagascar, e la percezione del tempo nella cultura africana e il fatto che è inutile darsi appuntamento qui o là tanto nessuno va mai agli appuntamenti, si dice tanto per dire allora ci vediamo alle tre al caffè, poi è inutile che ci vai tanto non ci trovi nessuno. Magari puoi fermarti lì in attesa che prima o poi quello con cui avevi preso appuntamento passi di lì casualmente e allora sai che festa, che gioia, che fortuna vederti.
Nel settembre del 2008 (ci conoscevamo da poco) mentre crollava la Lehman Brothers e altri colossi barcollavano, David mi mandò un messaggio che diceva: Non so se ho le traveggole ma mi sembra di capire che il capitalismo è finito.
Poi ci rivedemmo a New York con il nostro comune amico Sabu Kosho. E poi ci rivedemmo a Londra un paio di volte. L’ultima volta che ci siamo visti è stato un anno fa. E’ venuto a Bologna con Nika, e io li ho portati a vedere il Compianto di Niccolò dell’Arca nella chiesa di Santa Maria della Vita.
Un re taumaturgo (*) ha
stregato gran parte dell’extra-sinistra italiana: John Maynard
Keynes. Intendiamoci: fra
coloro che si ritengono portatori di un “progetto di
sinistra”, di una “alternativa di classe”, di una
“trasformazione
radicale” della società (espressioni che da tempo
sostituiscono il riferimento diretto alla rivoluzione e
all’abbattimento dello
Stato borghese, concetti non spendibili con facilità, specie
in vista “delle necessarie aggregazioni elettorali”), ben
pochi si
riferiscono esplicitamente all’opera e alle ricette di questo
economista come al proprio evangelo.
E tuttavia oggi la maggioranza di coloro che si pretendono comunisti, e che quasi sempre alla critica del capitalismo prediligono le invettive contro “il liberismo” o “l’ordoliberismo”, hanno da tempo scelto il keynesismo come l’orizzonte strategico entro cui collocare la propria azione politica. E identificano le soluzioni e gli elementi programmatici di una ipotetica azione di classe, o almeno i suoi “primi passi”, proprio a partire dal modus operandi di quella che per lunghi anni è stata la politica ufficiale dei principali Stati capitalistici.
Togliatti, togliattismo e “democrazia progressiva”
Una tale dipendenza è del tutto spiegabile, se consideriamo le tradizioni politiche da cui la maggior parte degli attuali “comunisti italiani” discende – tradizioni politiche tutte saldamente incardinate nella collaborazione di classe, nella rivendicazione della “democrazia progressiva”, nella lunga marcia dentro le istituzioni borghesi, a partire dalla glorificazione della Costituzione della Repubblica borghese post-fascista, che avrebbe avuto il merito di rappresentare la forma politica nuova entro cui poteva e doveva darsi l’emancipazione della classe operaia. Il togliattismo, insomma, come adattamento dello stalinismo alle condizioni italiane, e radice comune di tanta parte delle “opposizioni” oggi esistenti.
La prolissità non è un
eccesso di parole, annotò Nicolás Gómez
Dávila fra i suoi Escolios a un texto implícito (1977),
ma una carenza di idee.
L’aforisma trova conferma nell’inesausto discorso sulla scuola italiana, riassunto – si fa per dire: son quattrocento pagine e passa – in uno dei tanti manuali per aspiranti insegnanti su cui io e altre decine di migliaia aspiranti insegnanti ci prepariamo al concorso previsto per l’autunno. Nel frattempo aspettiamo di conoscere il punteggio che verrà assegnato nelle diaboliche gps, le graduatorie provinciali dalle quali saranno scelti i supplenti nei prossimi due anni. (Le province, a proposito: vero emblema di resilienza nell’architettura costituzionale italiana.) Oltre settecentocinquantamila domande pervenute sulla piattaforma digitale del Miur: non il milione che era atteso, ma accontentiamoci.
Nel frattempo, a poche settimane dall’inizio del nuovo anno scolastico, si continua a dare i numeri – quanti alunni per classe? quante immissioni in ruolo? quante aule da predisporre? … – ma la voce degli studenti non si sente più. Le loro bocche (anzi: rime buccali, copyright Comitato tecnico-scientifico istituito per l’emergenza coronavirus) non si sono più aperte dopo aver rivendicato il diritto alla notte prima degli esami – la maturità essendo uno dei riti collettivi nel calendario annuale di questo Paese, tra il festival di Sanremo e la classifica delle estati più calde dell’ultimo secolo. Non hanno niente da dire su come immaginano e vorrebbero la “loro” scuola? O invece parlano ma non sono ascoltate?
E’ salutare ogni tanto turarsi il naso e tuffarsi nella puzzolente voragine del Giornalismo Ufficiale.
Domani ci sarà una manifestazione a Roma “Contro i palazzi del potere, contro la dittatura sanitaria, finanziaria e giudiziaria” e “per ottenere la cancellazione delle leggi Azzolina e Lorenzin”.
Sospendiamo ogni giudizio sui contenuti della manifestazione, e passiamo a vedere come il Giornalismo Ufficiale rappresenta questa manifestazione.
Iniziamo con Repubblica-Espresso:
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Più che al tempo sospeso COVID 19 ci ha consegnato al tempo incerto: se sappiamo che non sarà bello, non siamo, però, in grado di prevedere che cosa troveremo, un acquazzone, una tempesta o un tornado. Di questo virus abbiamo ora afferrato che nessuno ne capiva veramente qualcosa quando si è presentato alle porte di un Occidente, non si sa se più presuntuoso o incredulo; e continuiamo a saperne troppo poco. Eppure siamo chiamati a decidere ai vari livelli, da quello individuale a quelli della collettività organizzata. Certo tutto è condizionato dal grado di pericolosità che annettiamo al virus che con noi convive. Chi lo minimizza avrà le sue ragioni: sarà così indotto dall’atteggiamento coltivato di fronte a certe vicende della vita; ma, considerato quanto accaduto o accade in tutto il mondo, ciò può dipendere anche da una falsa rappresentazione della realtà (cioè da un errore) oppure dalla volontà, non dichiarata, di agire per modificare, per quanto artificiosamente, questa realtà al fine di perseguire uno scopo ‘inconfessabile’. In questo caso ci troveremmo di fronte a una menzogna diretta a negare la verità di fatto: non hanno forse agito così politici di vertice, vip, imprenditori e comuni mortali? Non sarebbe stato male che l’UE avesse battuto un colpo e avesse provato – ma non sembra avervi neanche pensato – a promuovere una politica europea, cioè unitaria, della pandemia.
L’attuale crisi in Bielorussia mi spinge ad una considerazione di ordine “culturale”, diciamo così, che riguarda il potere seduttivo dell’America e quindi del mondo occidentale nel suo complesso costruito a sua immagine somiglianza, ma soprattutto del modello americano.
Il potere “seduttivo” degli USA, anzi, dell’America, è talmente potente da far sì che anche sommovimenti massicci e rivolte sociali di profonda e vasta portata, vedano nell’Occidente e nell’America il punto di riferimento al quale guardare.
Il paradosso è evidente, se andiamo a vedere, perché le contraddizioni che fanno esplodere quelle rivolte e quei movimenti, dalle “primavere arabe” (Egitto e Tunisia) fino alla Bielorussia e in parte anche all’Ucraina (con tutte le ovvie e dovute differenze fra un contesto e l’altro, ovviamente, nelle quali ora non entro…) hanno in tutto e per tutto un carattere di classe e sono il prodotto delle contraddizioni strutturali del dominio capitalista e imperialista a trazione occidentale (quindi in primis americano) ormai esteso a livello planetario (con alcune eccezioni non senza, a loro volta, altrettanto profonde contraddizioni).
Vorremmo rivolgere la nostra attenzione alla conclusione del saggio di Marco Dondi intitolato “L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974” (Editore Laterza, 2015).
Infatti, riteniamo le conclusioni dell’autore – tanto quanto quelle di Aldo Giannuli relative al saggio sulla strategia della tensione siano di estrema rilevanza sia sotto il profilo storico che sotto il profilo politico per comprendere chiaramente la storia del nostro paese.
In linea di massima la strategia della tensione si concretizzò con la guerra non ortodossa formulata fin dal 1965 che fu impiegata contro il partito comunista, il partito socialista, i sindacati e i movimenti sorti dal 1968 e, più in generale, contro il centrosinistra. All’interno della strategia della tensione il ruolo del golpe fu molto importante: infatti il vero scopo del colpo di Stato non era di farlo ma di servirsi di esso come una minaccia psicologica verso la classe dirigente e verso la pubblica opinione.
La prima osservazione compiuta dall’autore è quella relativa al fatto che ben cinque organizzazioni e i loro atti criminosi furono coperti dall’istituzione come per esempio Ordine Nuovo.
Il Commissario Europeo
Gentiloni ha svolto il primo settembre un’audizione presso le
Commissioni Bilancio e Politiche
della Ue della Camera e Senato nella quale ha descritto il
meccanismo del “Next Generation Eu”, risposta europea
alla crisi
creata dalla emergenza sanitaria dovuta al virus ed alla sua
malattia (Covid-19)[1].
Nei primi venticinque minuti Gentiloni ha presentato il meccanismo del “Next Generation Eu” come cruciale per il futuro e come sfida. Enfatizzando inoltre la novità data dalla raccolta di ingenti risorse a debito comune e il loro impiego, bisogna qui fare attenzione, per la “ripresa e riconversione” delle economie europee. La domanda immediatamente pertinente è quindi: riconversione per cosa? Questo il punto qualificante, per costringere (con carota e bastone, come mostrava Gabriele Pastrello[2]) le economie europee ad andare insieme verso una maggiore competitività, resilienza e sostenibilità (l'ordine vero è l'opposto di quello enunciato dal Commissario).
Il pacchetto di strumenti risponderebbe quindi ad una situazione potenzialmente esplosiva sia nel breve termine (abbiamo milioni di nuovi disoccupati ed intere filiere produttive, in particolare nei servizi, in grandissima sofferenza) e nel medio periodo (con la radicale crisi del modello export-led che ha guidato fino ad ora la Ue, in quanto imposto dai paesi nordici) e nel lungo (con lo spostamento dei rapporti di forza internazionali).
Questo esito è stato prodotto dalla durissima trattativa condotta nel Consiglio Europeo Straordinario del 17-21 luglio[3] che ha portato in extremis ad un accordo tra i “frugali” e i “mediterranei”, grazie all’allineamento con questi ultimi del “Gruppo di Visegrad”.
C’è ancora chi sostiene che i fondi MES per combattere il Covid non sarebbero sottoposti a nessuna condizionalità. Eppure queste ultime sono esplicitamente scritte nei documenti ufficiali (che a quanto pare molti si sono dimenticati di leggere)
1.
Premessa
Ogni tanto si riapre il dibattito sul possibile ricorso al Meccanismo Europeo di Stabilità per finanziare le spese anti-covid. Chi è a favore di ciò avanza due argomenti: il primo è che i fondi sono disponibili subito; il secondo che ricorrere ad essi non comporta condizioni. Il primo argomento ha qualche fondamento, come vedremo, ma non molti; il secondo è completamente sbagliato, e vedremo perché. Per affrontare seriamente l’argomento dovremo fare un viaggio piuttosto noioso attraverso alcuni documenti ufficiali del MES e dell’Unione Europea. Purtroppo ciò è inevitabile: per citare Einstein, bisogna essere più semplici possibile, ma non più di così. È utile ricordare che il MES è un’entità a sé stante nell’ambito europeo, con un suo board di governatori, un suo consiglio d’amministrazione e un suo statuto; quindi “fare ricorso al MES” NON significa “chiedere all’Europa un prestito straordinario che si chiama MES”, bensì “chiedere un prestito al MES che verrà concesso secondo le regole fissate dal suo statuto, salvo eventuali deroghe”. Anticipiamo che l’unica deroga adottata è che si dà per assodato che tutti gli Stati membri hanno i conti abbastanza in ordine per potere rivolgersi al MES, senza l’istruttoria preliminare normalmente richiesta.
2. Il testo ufficiale
Il testo cui faremo riferimento è un documento ufficiale del board del MES dell’8 maggio 2020, il term sheet, cioè la specificazione delle clausole che regolano il prestito per affrontare il Covid. È in inglese, non ho trovato (e forse non esiste) la versione in italiano. La traduzione è mia. Per evitare accuse di cattiva traduzione riporterò fra parentesi il testo inglese.
Confondere una controrivoluzione con una rivoluzione la prima volta è umano, ma persistere nel sostenere tutte le (contro)rivoluzioni colorate è oggettivamente diabolico, oltre che vergognoso
Sono almeno vent’anni che assistiamo, con cadenza annuale, alle ormai note in tutto il mondo controrivoluzioni colorate. Tali colpi di Stato volti a rovesciare ogni governo legittimamente eletto che in un modo o nell’altro non si piega al pensiero unico dominante, neoliberista, ha da tempo una sua dottrina, raccolta in un manuale da Gene Sharp e ben presto adottata dal Dipartimento di Stato statunitense. Tali golpe, più o meno sponsorizzati e promossi dall’imperialismo statunitense ed europeo, in primo luogo tedesco, si sono sviluppati in particolare in quei paesi ex socialisti i cui governi non erano sufficientemente proni al pensiero unico dominante. Tale scenario costantemente ripetuto, a cominciare dalla Jugoslavia terminando con l’Ucraina, ha altrettanto costantemente portato al governo forze della destra più o meno radicale e sempre completamente prone all’imperialismo.
Chi ha i soldi ha già vinto: la Corte di Giustizia Europea tradisce il Liberalismo per il Liberismo
Una Sentenza della Corte europea ha appena legittimato la contemporanea posizione di controllo azionario di Vivendi in TIM ed in Mediaset, contravvenendo ai limiti posti dalla legge Gasparri che vieta a chi controlli più del 40% del mercato delle Tlc di avere più del 10% del mercato dei media nel suo complesso: ha invocato la prevalenza dell'art. 49 del TFEU, secondo cui non si possono porre limiti alla libertà di stabilimento delle imprese in ambito europeo.
E' una sentenza sbagliata due volte:
Jerome Powell, il presidente della banca centrale statunitense, la Federal Reserve, ha annunciato la scorsa settimana che d’ora in poi il suo obbiettivo istituzionale non sarà più di mantenere un tasso fisso di inflazione al 2%, bensì questa percentuale sarà considerata come tasso medio. Secondo il presidente della Fed questa nuova politica monetaria andrebbe a privilegiare l’occupazione invece che la stabilità dei prezzi. L’annuncio di Powell è stato considerato una “svolta epocale” non solo dalla stampa europea ma anche da quella americana.
Siamo in piena deflazione, cioè crollo dei prezzi e dell’occupazione, perciò non preoccuparsi dell’inflazione sarebbe puro buonsenso. In realtà, l’annuncio di Powell sa del classico “troppo bello per essere vero”. Anzitutto indicare il 2% di inflazione come tasso medio, vuol dire sì che si potrà sforare al 3% oppure al 4% ma significa anche che, per recuperare la media stabilita, occorrerà scendere all’1%, o addirittura allo zero. C’è poi da rilevare che la deflazione comporta una condizione di schiavitù per debiti, sia per gli Stati, sia per le famiglie. La deflazione determina infatti un crollo dei redditi e delle entrate fiscali, con una conseguente maggiore dipendenza dal debito, senza peraltro alcuna prospettiva che i creditori vedano eroso il valore dei loro crediti dall’inflazione.
Chi ci sta guadagnando? Ecco una domanda che tutti dovrebbero porsi. Ma che pare oscena, come se si volesse anteporre l’economia all’epidemia, il denaro alla vita umana. E così, con questo trucchetto finto-umanista da quattro soldi, chi i soldi ce li sta facendo alla grande riesce ad occultare la gigantesca ridefinizione della piramide della ricchezza e del potere in atto.
Le notizie sul virus coprono tutto, in primo luogo il dramma sociale che la gestione dell’epidemia sta producendo. Guai a dubitare della narrazione ufficiale. Nel mondo il numero dei casi e delle vittime è stabile da mesi? Non lo si dica, che c’è il rischio di abbassare la guardia. In Europa i casi crescono, ma la letalità è ormai al livello di una normale influenza? Nessuno si azzardi a rilevarlo, che l’accusa di “negazionismo” è già pronta a scattare.
Chi scrive non crede al complotto, ma tende a guardare ai fatti. Ed un fatto certo è la strumentalizzazione dell’epidemia da parte dei dominanti.
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coniarerivolta: Il capitalismo alla rovescia di Pietro Ichino
2020-06-21 - Hits 1360
Bruno Latour: Siete pronti a liberarvi dell’economia?
2020-06-10 - Hits 1307