1. Presentazione del percorso
di ricerca
Studiare il Libro I del Capitale è impresa meno astrusa di quanto affermino i detrattori di Marx. Sia perché svela gli arcani dell’economia capitalistica in modo chiaro e comprensibile anche ai non addetti ai lavori, sia perché la riflessione teorica si alterna a incisi letterariamente godibili, nei quali analisi, racconto storico, battute e citazioni “classiche - non di rado bibliche, come evidenziato da un noto teologo della liberazione (1) – ravvivano la lettura. Lo stesso non vale per i Libri II e III che, al pari di certe parti dei Grundrisse, impongono al lettore uno sforzo di comprensione (e spesso di pazienza, soprattutto nelle pagine ricche di schemi e formule matematiche) assai maggiore.
Non a caso, quando un esponente di qualche partito o movimento che si proclama marxista (anche se appartiene alla cerchia dei più acculturati, o persino degli intellettuali di professione) dichiara di avere studiato il Capitale, è lecito sospettare che la sua affermazione si riferisca al Libro I e, nella migliore delle ipotesi, ad alcune parti del II e del III. Mentirei se non ammettessi che quanto appena detto vale anche per il sottoscritto: fino a non molto tempo fa, i miei propositi di esaurire nella sua interezza lo studio dell’opera fondamentale di Marx, si erano quasi sempre scontrati con la difficoltà di strappare ad altri impegni il tempo e le energie necessari.
Sono stato infine indotto a tamponare questa falla, da un lato, dalla necessità di comprendere meglio le dinamiche della crisi che il capitalismo mondiale sta vivendo dall’inizio del Duemila (in realtà dai Settanta del Novecento, ma con modalità meno chiare ed evidenti delle attuali) e i suoi effetti geopolitici (a partire dal rischio incombente di una Terza guerra mondiale), dall’altro lato, dalle critiche a certi dogmi incistati nel corredo ideologico della tradizione marxista (in primis occidentale). Mi riferisco, in particolare, a quelle avanzate dall'ultimo Lukacs che, come ho scritto più volte (2), considero il più grande filosofo marxista del Novecento, e da diversi altri autori, spesso esponenti di culture del Sud del mondo, ma non solo (nominarli tutti sarebbe dispersivo, per cui rinvio al sintetico elenco in nota) (3).
Per la Palestina,
Gaza e Cisgiordania, Trump ha annunciato l’inferno. Il
governante che col capo di quella struttura potrebbe benissimo
gareggiare per il primato
delle atrocità, lo va praticando da 16 mesi. Se non da anni,
se non da 8 decenni.
Negli ultimi 10 giorni di marzo, violato, come è suo costume storico, ogni accordo di tregua, di cessate il fuoco, di transazione, con stermini in Libano, Siria, Cisgiordania, 1000 assassinati nella sola Gaza, di cui 322 bambini, di cui si sa quanto siano privilegiati dai cecchini dello Stato infanticida. 15 medici, infermieri, operatori umanitari in manifesta attività di soccorso uccisi a freddo, gettati in una fossa comune. 209 giornalisti uccisi, spesso assieme a moglie, figli, tutta la famiglia.
Nel calcolo di “Lancet” 150.000 vittime, al 99% civili, in maggioranza donne e bambini, uccisi da missili, bombe, droni, fame, sete, epidemie, sepolti sotto macerie. 2 milioni e passa di sopravvissuti avviati all’esodo “volontario”, nell’agghiacciante ipocrisia dei genocidari volontari che prospettano la vivisezione di Gaza con sua progressiva frammentazione in campi di concentramento sotto totale controllo dell’IDF. Grandi manifestazioni in Israele, ma mai contro questo. I kapò dei lager d’antan si ritrovano superati in classifica.
Tutto questo sulla base di un suprematismo autoassegnatosi e sacralizzato da un manuale autoredatto, ma attribuito a un autocreato dio in esclusiva e corroborato da un vittimismo, affatto simile a quello che altre comunità potrebbero assegnarsi, ma che si pretende unico nello spazio e nel tempo. Vittimismo vantato per sé, quando semmai era quello che aveva investito generazioni precedenti e ormai lontane. Vittimismo, oggi oscenamente strumentale, di una comunità religiosa fattasi imperialista e giudice dell’umano e del non umano. Quest’ultimo, dunque, in eccesso sul pianeta Terra.
Tutto questo sotto gli occhi del mondo. Non del nostro, dove, al di là e contro l’ignavia di tanti, la passiva o attiva complicità di potentati politici, economici e culturali, vasti settori di società si sono sollevati contro gli abomini dello Stato storicamente e ontologicamente fuorilegge e a sostegno delle sue vittime.
Polizze,
conti deposito, cartolarizzazioni, riduzioni fiscali. Il
riarmo europeo finanzia ben poco l'Ue, anche perché oltre la
metà si traduce in
acquisti di armi prodotte negli Usa. La nuova economia
violenterà il Welfare e coltiverà odi nazionalistici destinati
a distruggere il
senso di convivenza collettiva
Nell’orizzonte di ReArm Europe, lo strumento concepito dalla Commissione von der Leyen per “difendere” il Vecchio Continente, compare, esplicito, l’invito a creare un mercato unico dei capitali e a favorire strategie di finanziarizzazione verso il settore delle armi, anche attraverso la Banca Europea degli Investimenti, così da facilitare la piena declinazione del capitalismo in termini bellici.
L’impennata dei titoli azionari delle armi
Il Piano, in tal senso, è l’indicazione per i grandi fondi Usa, BlackRock Vanguard e State Street, per quelli europei, da Amundi, per la grandi banche di comprare i titoli dell’industria delle armi – peraltro ben specificata dal documento “difesa aerea e missilistica, sistemi di artiglieria, missili e munizioni, droni e sistemi anti-drone”, una definizione solo parzialmente corretta dal Libro Bianco per la difesa – mettendo in secondo piano le altre forme di investimento, con la conseguenza di generare una vera e propria, colossale bolla speculativa. Così le manifestazioni pro Europa hanno ottenuto un risultato immediato, costituito dall’impennata dei titoli azionari delle principali imprese di armi europee in grado di registrare record e di riorganizzarsi rapidamente. Non è un caso che la Borsa tedesca sia stata trascinata da Rheinmetall, quella italiana da Leonardo, quella francese da Thales e quella inglese da Bae Systems. Se prendiamo l’elenco delle principali società di armamenti europee, vediamo che da inizio anno fino a metà marzo 2025 il titolo di Airbus Group è cresciuto del 12,6%, quello di Bae Systems del 41%, quello di Dassault del 45,5%, quello di Kongsberg del 27%, quello di Leonardo del 73,3%, quello di RheinMetall del 92,2%, quello di Rolls-Royce del 41%, quello di Saab del 58% e quello di Thales del 76%.
Tre anni fa, questa settimana, i media occidentali hanno titolato su uno scioccante “massacro” che sarebbe stato compiuto dalle forze militari russe nella città ucraina di Bucha.
I soldati russi avrebbero ucciso centinaia di civili a sangue freddo, in stile esecuzione, lasciando i loro cadaveri sparsi per le strade.
Bizzarramente, le autorità ucraine non hanno mai dichiarato il numero esatto delle vittime. Affermano che le vittime sono state oltre 400. Ma non ci sono rapporti forensi, né nomi, né indirizzi. E curiosamente, i governi occidentali e i loro media non si sono preoccupati di chiedere un'indagine adeguata o di mettere in discussione le stridenti discrepanze. L'Occidente si è compiaciuto delle affermazioni del regime di Kiev e le ha amplificate senza fare domande, una pratica unilaterale tipica degli ultimi tre anni.
Il regime ucraino o i media occidentali non hanno fornito alcuna spiegazione plausibile del perché le forze russe avrebbero perpetrato violazioni così efferate. È stato implicitamente considerato come una prova della “barbarie” e dell'“aggressione non provocata” russa contro l'Ucraina. L'allora Presidente degli Stati Uniti Joe Biden disse che l'atrocità riaffermava le sue affermazioni che il leader russo Vladimir Putin era un criminale di guerra.
I mercati finanziari, depositari delle aspettative razionali degli attori economici, celebrati da fior di economisti e premi Nobel, sembrano aver smarrito la loro presunta capacità di previsione di fronte al caos generato dalla nuova amministrazione Trump. Di fronte al dilemma fra politiche dei dazi, annunciati, ritirati, reiterati, che portano inevitabilmente all’aumento dell’inflazione e al rafforzamento del dollaro – perché se le merci importate costano di più, la domanda di dollari, e dunque il loro valore, aumenta -, di fronte ai licenziamenti di massa nel settore pubblico e alle deportazioni dei migranti indesiderati, che non potranno che incidere negativamente sulla domanda aggregata di beni e servizi, di fronte, insomma, alla prospettiva di una recessione, gli operatori finanziari sembrano davvero dei pugili suonati.
Si aspettavano ben altro, in effetti, una nuova età dell’oro, un’era di prosperità per tutti, fatta di aumento del potere di acquisto, di esportazioni e di investimenti produttivi. Invece, da più parti si parla con sempre più insistenza del rischio reale di recessione, peraltro confermato candidamente dallo stesso Trump, con effetti immediati sugli indici borsistici.
La politica della nuova amministrazione Trump sembra invero caotica e improvvisata, come traspare dalle reazioni dei mercati finanziari. Ma dietro questo apparente disordine si intravede, invece, una precisa strategia, una strategia ispirata alla “dottrina dello shock”, efficacemente descritta da Naomi Klein nel suo libro Shock politics del 2017.
Una cosa che il 7 ottobre ha ottenuto è che Israele e i suoi alleati hanno mostrato al mondo il loro vero volto. Lo presentato davanti a tutta l'umanità con queste sembianze: “Se ci resistete, uccideremo i vostri bambini. Spareremo deliberatamente in testa ai vostri figli. Massacreremo gli operatori sanitari. Distruggeremo sistematicamente tutti i vostri ospedali. Vi stupreremo e tortureremo come regola generale. Assedieremo l'intera popolazione civile. Renderemo inabitabile tutta la vostra terra e poi vi cacceremo tutti e ce la prenderemo per noi. Assassineremo tutti i vostri giornalisti e bloccheremo l'ingresso ai giornalisti stranieri, in modo che nessuno possa vedere ciò che vi stiamo facendo. Mentiremo su tutte queste cose per tutto il tempo, e voi saprete che stiamo mentendo, e noi sapremo che voi sapete che stiamo mentendo, e voi saprete che noi sappiamo che voi sapete che stiamo mentendo. E la faremo franca lo stesso, perché abbiamo in mano tutte le carte”.
A volte mi capita di incontrare persone che dicono: “Cosa si aspettava Hamas? Dovevano sapere che Israele avrebbe fatto questo!”. Lo dicono nel tentativo di scaricare la colpa delle atrocità genocide di Israele sui piedi di Hamas, come se Israele fosse una specie di animale selvatico che non può essere ritenuto responsabile delle sue azioni se qualcuno si avvicina troppo alla sua bocca.
La guerra commerciale scatenata da Donald Trump non ha risparmiato nessuno, colpendo tanto gli avversari quanto storici alleati come l’Unione europea, il Giappone, La Corea del Sud e Taiwan. Questa offensiva ha spinto alcuni osservatori a profetizzare la fine della “globalizzazione”, il tramonto del dollaro e, persino, il collasso del capitalismo stesso. Temiamo si tratti di Wishfull thinking. Uno sguardo di più ampio respiro, come quello lucido di Fabio Massimo Parente, invita a interpretare in maniera meno affrettata la “mossa” di Trump e a immaginare, per quanto difficile, una possibile contro-mossa.
La guerra commerciale rappresenta l’ultimo capitolo di un più ampio ripensamento dei governi statunitensi sulle “magnifiche e progressive sorti” della iper-globalizzazione neoliberale, fondata sulla concorrenza senza limiti (Alfredo D’Attorre, 2023).
Per una classica eterogenesi dei fini, infatti, la globalizzazione neoliberale, dopo aver inizialmente rafforzato il dominio planetario dei paesi occidentali, capaci di sfruttare a loro vantaggio la divisione internazionale del lavoro, si è trasformata in una fase successiva nel motore di una “Grande convergenza” a favore delle economie dei paesi in via di sviluppo (Richard Baldwin, 2018). Questi ultimi sono riusciti ad attrarre maggiori capitali e investimenti, grazie tra l’altro al costo del lavoro significativamente più basso rispetto a quello dei paesi avanzati.
Il mio numero di contatti su Facebook (non uso altri social) è aumentato soprattutto negli anni della pandemia e della sua gestione controversa. Mi sono trovato così a conoscere nuove persone che avevano percepito chiaramente, come il sottoscritto, che “qualcosa non andava”. Abbiamo attraversato anni difficili, in uno stato di emergenza permanente, anche perché dopo il Covid-19 l’invasione russa in Ucraina ha polarizzato nuovamente l’opinione pubblica. Tutto ciò è avvenuto per effetto di campagne comunicative dettate furbamente dai detentori del potere. La narrazione mainstream doveva essere compatta per espellere i dissenzienti in una zona ben delimitata di esclusione forzata. È accaduto coi vari esecutivi che si sono susseguiti, ma con una particolare accelerazione dal governo Draghi all’attuale governo Meloni. Dibattito democratico sospeso, linguaggio bellico, paternalismo, dispositivi biopolitici inutili e dannosi: è una storia nota. I miei articoli/scritti sono reperibili online e in libreria, quindi la scelta di equilibrio che ho fatto non è assolutamente confondibile con un banale e vigliacco “né di qua, né di là”. Ho espresso ove possibile le mie critiche alla gestione della pandemia (con particolare durezza dopo l’adozione del greenpass), ho considerato subito sbagliato l’invio di armi a Kiev e il rifiuto della via diplomatica nella guerra tra NATO e Russia combattuta sulla pelle degli ucraini e degli europei in recessione. Ho preso molto sul serio l’epidemia e le sofferenze di chi ne ha pagato il prezzo. Al contempo mi è parso evidente che il sistema neoliberale fosse profondamente coinvolto nel disastro che ci ha colpiti.
1.
Introduzione
Durante la campagna elettorale del 2024, Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di porre al centro della propria agenda politica un’attenzione particolare al crescente deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, che nel 2022 ha raggiunto i 943 miliardi di dollari.
Già durante la sua prima amministrazione, Trump aveva adottato una serie di misure protezionistiche volte a ridurre il disavanzo commerciale con la Cina, imponendo nel gennaio 2018 dazi compresi tra il 30% e il 50% sui pannelli solari e, da marzo, del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio. Tali misure – non revocate dall’amministrazione Biden – rappresentano il precedente su cui Trump ha inteso proseguire la guerra commerciale avviata con la Cina nel 2018, ma per estenderla ora a tutti i paesi con un surplus commerciale significativo nei confronti degli Stati Uniti, in particolare all’Unione Europea che nel 2024 ha registrato un saldo positivo verso gli USA pari a 48 miliardi di euro (Eurostat, cfr. Parlamento Europeo, 2025). Pertanto, dal 2 aprile 2025, gli Stati Uniti hanno imposto dazi del 20% sulle importazioni dall’UE di acciaio, alluminio e prodotti contenenti questi materiali, tra cui macchinari, automobili, attrezzature per il fitness, elettrodomestici, dispositivi elettronici e articoli per l’arredamento.
In risposta, l’UE prevede di reagire adottando una strategia articolata che comprenderà sia azioni diplomatiche, come ricorsi presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, sia misure ritorsive come l’introduzione di dazi su specifici prodotti statunitensi, quali acciaio, alluminio, prodotti tessili, elettrodomestici e utensili per la casa, plastiche, prodotti in legno e prodotti agricoli come pollame, bovini, pesce, latticini, zucchero e ortaggi (cfr. Commissione Europea, 2025). Ai dazi, contro-dazi: ritorsioni, ripicche. A che pro?
A vent’anni da La ragazza del secolo scorso, come recuperare nella sua complessità la storia del comunismo?
Un’epifania: Rossana ha appena
scoperto che il suo professore di filosofia è un
comunista. Lei ha 19 anni, è il 1943, Milano
è occupata dai nazisti. Il professore, Antonio
Banfi, non ha risposto alle sue domande ma le ha
consegnato un fogliettino stropicciato su cui ha scritto i
titoli di una
serie di libri per capire, gli autori sono: Marx,
Lenin,
Harold
Laski. Rossana corre in biblioteca, poi per tornare
a casa prende il tram per Olmeda, su questo incontra tre
operai:
Sfiniti di fatica e mi parve di vino, malmessi, le mani ruvide, le unghie nere, le teste penzolanti sul petto. Non li avevo mai guardati, il mio mondo era altrove, loro erano altro, che cosa? Erano la fatica senza luce, le cose del mondo che evitavo, sulle quali nulla si poteva. Come nulla potevo sui poveri, un’elemosina e via. Le teste ciondolavano, scosse a ogni svolta del tram, i visi non li vedevo. Era con loro che dovevo andare. A casa lessi tutta la notte, un giorno, due giorni.
In questa scoperta della sua vocazione politica c’è tutta Rossana Rossanda, tutta la sua idea di politica. È un episodio che ci racconta lei stessa nella sua autobiografia, La ragazza del secolo scorso, uscita vent’anni fa per Einaudi, in cui condensa tutto il suo percorso politico e intellettuale fino agli anni Settanta. Ma c’è anche una strana incongruenza. Francesco de Cristofaro, uno dei più attenti studiosi di Rossanda, in Aperte lettere (2022) fa notare quello “scandalo logico fra la penultima e l’ultima frase”. Rossanda empatizza con la condizione umana degli operai, sembra trascinata d’impulso verso la loro strada e quindi torna a casa e legge tutta la notte.
Questo movimento apparentemente incongruo è caratteristico di Rossanda, per cui l’azione politica ha sempre una genesi emotiva, strappata dalla vita, poi fatta propria attraverso la razionalità e lo studio. Un movimento centrifugo che va dalla vita ai libri e solo allora può diventare azione. Un modo di concepire l’azione politica che si avvicina molto a quello di Lenin, suo grande maestro.
Convinti con Marx che la
coscienza
degli uomini sia il risultato del processo determinato e
impersonale del rapporto degli uomini con i mezzi della
produzione e con la natura. Allo
stesso riteniamo così sia per lo sviluppo di tutte le
scienze, tra le quali vi è la storiografia e il ruolo
dello storico che ne
discende. Contestiamo, perciò, tutte quelle concezioni che
ritengono che il motore della storia sia il risultato
della volontà degli
uomini e della capacità di far uso della ragione. Sarebbe,
perciò, il libero arbitrio degli uomini a
guidare la storia. Solo
che anche la concezione del libero arbitrio altro non è
che un costrutto materiale e il risultato di precisi
processi storici. E’ chiaro
che seguendo la forza storica di questa concezione – che
si impone dal Rinascimento e raggiunge la piena
maturazione nell’Illuminismo e
nella formulazione del “sapere aude”, tutto quanto ne
consegue è giustificato. Si rimane senza argomenti di
fronte
all’arringa finale dell’ex “comunista” Rampini: «[...] e
va bene, noi Occidentali abbiamo insanguinato l’Africa,
eppure ora la durata della vita media in Africa è
superiore rispetto al passato grazie a noi. Grazie a noi
in Africa quasi tutti posseggono un
telefono cellulare e si connettono al mondo ».
Ci viene rinfacciato, che ci piaccia oppure no, che l’Occidente anche saccheggiando il mondo e passando di genocidio in genocidio, epperò ha consentito lo sviluppo o il progresso universale.
Parafrasando Immanuel Kant, i liberisti alla Rampini o alla Ernesto Galli della Loggia, sostengono che gli uomini europei e Occidentali seppero superare l’ignoranza e lo stato di minorità nei confronti delle relazioni con il mondo esterno. Seppero, cioè, far prevalere e precedere l’idea all’istinto dando impulso all’azione razionale, che a sua volta diviene intrapresa.
Lo storico del liberismo non può che sottolineare alla prova dei fatti che l’uomo europeo e Occidentale anche attraverso le sue nefandezze sia stato proprio lui a mettere in comunicazione il mondo.
Seguendo questo modo di indagare i fatti aggiunge che questa virtù di concepire una idea in sé e a priori è “sbocciata” in Occidente, e dunque, anche tutte le idee di progresso sociale sono nate qui in Occidente, ivi inclusa, come dice Ernesto Galli della Loggia, quella concezione particolare e “profetica” della «rivoluzione sociale da cui è nata la più variegata ideologia rivoluzionaria ».
Qualche giorno fa, l’Organizzazione internazionale del lavoro ha pubblicato il consueto report sui salari. Si tratta di uno studio che si occupa di tracciare le traiettorie dei salari reali e della disuguaglianza su un arco di tempo medio-lungo nei vari paesi del mondo. In Italia la pubblicazione ha destato commenti sorpresi e fintamente scandalizzati da parte della stampa e della politica (compreso il Partito Democratico, artefice di buona parte delle riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite in Italia). In realtà i contenuti del rapporto erano tristemente noti e attesi.
Il report è molto chiaro: l’Italia, tra i paesi del G20, è quello in cui i salari reali medi (cioè la quantità di beni che concretamente possiamo acquistare con i nostri stipendi) sono caduti di più rispetto al 2008. SI tratta di una riduzione clamorosa, pari all’8.7% in 16 anni, quasi -0.6% all’anno. Il leggero rimbalzo avvenuto nel 2024 (+2,3%), inoltre, non è stato in grado di far recuperare nemmeno i livelli del 2019, ultimo anno precedente alla pandemia e all’esplosione dell’inflazione, ed è stato comunque inferiore alla media europea (dunque non si capisce di cosa possa vantarsi il governo Meloni).
Se il dato aggregato è impressionante di per sé, uno sguardo a ciò che è accaduto alle retribuzioni di fatto (che considerano non solo i dati tabellari, ma tutte gli emolumenti che a qualsiasi titolo concorrono alla retribuzione) dei lavoratori e delle lavoratrici può aiutarci a capire meglio dove si annida il problema che – lungi dall’essere una questione legata a particolari categorie di lavoratori – ha tutte le caratteristiche di una questione generale.
Le possibilità di un qualche significativo progresso diplomatico nella crisi russo-ucraina continuano a dipendere dalle decisioni del regime di Zelensky e dei suoi sponsor europei, più impegnati a cercare di sabotare le trattative tra Russia e Stati Uniti che a impegnarsi per creare un clima favorevole alla cessazione delle ostilità. Kiev insiste nel condurre inutili operazioni militari contro obiettivi civili o, in diretta violazione dei termini della tregua negoziata dall’amministrazione Trump, prendendo di mira “infrastrutture energetiche” russe. L’Europa, da parte sua, con in testa il presidente francese Macron e il premier britannico Starmer, discute invece attorno a un impraticabile progetto di intervento militare a sostegno dell’Ucraina, mentre si rifiuta anche solo di considerare l’alleggerimento di alcune sanzioni imposte alla Russia, che potrebbe sbloccare l’accordo sulla libera navigazione commerciale nel Mar Nero, sottoscritto in linea di principio settimana scorsa a Riyadh tra Mosca e Washington.
Stanno emergendo una serie di segnali preoccupanti che indicano come Trump si stia facendo a poco a poco coinvolgere in un meccanismo che rischia di mettere la sua amministrazione interamente dalla parte dell’Ucraina, così da perdere quella credibilità di negoziatore “neutrale” per far cessare una guerra che non è sua. Le recenti uscite che lo hanno visto esprimere insofferenza nei confronti di Putin per il mancato sblocco degli accordi presi in Arabia Saudita, assieme alla minaccia di imporre altre sanzioni contro la Russia, sono una di queste indicazioni.
Trump continua a sostenere che “il resto del mondo, a cominciare dall’Europa, dal dopoguerra in poi, avrebbe approfittato degli Stati Uniti. Gli Usa avrebbero pagato per tutto, a cominciare dalla sicurezza, mentre gli altri, in primis gli europei, facevano la bella vita alle loro spalle”. Forse è il caso di ribaltare questa narrazione!
Anzitutto è opportuno ricordare che per decenni gli Stati Uniti hanno goduto di un vantaggio nella finanza globale, grazie allo status del dollaro come principale valuta di riserva mondiale. Gli altri paesi, con un surplus commerciale con gli Usa, hanno accumulato riserve in dollari, che, tra l’altro, hanno investito largamente nei titoli del Tesoro americano.
La progressiva perdita del dominio industriale americano ha molte cause che non possono, però, essere imputate a chi ha investito e lavorato meglio. Se viene meno la leadership tecnologica e scientifica e si perde di competitività, le ragioni vanno ricercate nel tessuto produttivo e sociale di ciascun paese. Per gli Usa si aggiunga l’irrazionale delocalizzazione delle imprese guidate dalla massimizzazione di un profitto facile.
Contemporaneamente, gli spostamenti finanziari citati hanno permesso agli Usa di finanziare crescenti deficit di bilancio federali. Nel 2024 il deficit è stato del 6,4% del pil. In altre parole, il resto del mondo ha finanziato il debito pubblico americano in continua espansione.
Il fondamento di ogni comprensione del mondo è che il mondo esista al di là del suo essere pensato dalla specie umana o da qualunque altra forma possibile di intelligenza.
Il fondamento di ogni analisi della vita sulla Terra non può che essere fisico, poiché il pianeta e i viventi in esso apparsi sono appunto strutture fisiche, in modo diverso e analogo rispetto alle strutture fisiche che chiamiamo minerali.
E due dei fondamenti della fisica sono i primi principi della termodinamica: uno che indica la costanza dell’energia in un sistema chiuso qual è l’universo; il secondo che sancisce l’irreversibilità dei processi fisici (e non della loro semplice descrizione matematica) che è conseguenza delle leggi che guidano i sistemi materici, vale a dire la conservazione della quantità di moto e la conservazione dell’energia. Si tratta di leggi e principi che determinano il divenire delle quattro forze fondamentali della materia e quindi dell’universo: la gravitazione, l’elettromagnetismo, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole.
Il fondamento di ogni antropologia non può che essere di conseguenza anch’esso fisico e consiste nella comprensione degli esseri umani, come di tutte le strutture animali e viventi, quali sistemi energetici e termodinamici aperti, i quali «per esistere necessitano di flussi adeguati di materia ed energia prelevate dall’ambiente e quindi dal pianeta Terra», come scrive Giorgio Libero Sanna ricordando le analisi economiche ed ecologiche di Nicholas Georgescu-Roegen (L’epifania del sacro. Saggio sulla ‘dimensionalità originaria’ e sull’inevitabile collasso energetico della civiltà industriale, Albatros, Roma 2024, p. 234) in un volume ricco di livelli, stratificazioni e competenze, il cui titolo un poco oracolare non deve ingannare a proposito del rigore delle argomentazioni in esso formulate.
Niamey, gennaio 2025. Fin dall’inizio c’è la polvere nella quale siamo stati impastati una mattina. Poi arrivò il soffio di vento e la creatura umana divenne vivente, Adama, fango che cerca la vita. Nel Sahel la polvere nasce con noi, ci avvolge, accompagna e diventa inseparabile compagna del nostro vivere quotidiano. La polvere prima osserva e poi, con sapienza millenaria, copre le umane vicende. Sui fatti e le parole scende una coltre di polvere che seppellisce imperi, dittature, regni, repubbliche, monarchie e avvenimenti.
La polvere ha coperto, da tempo, quanto accaduto a Zinder, la prima capitale del Paese e a Niamey, l’attuale. Il 16 e 17 gennaio del 2015, in relazione con quanto pubblicato dalla rivista francese Charlie Hebdo e un contesto politico nazionale teso, furono bruciati buona parte dei luoghi di culto, istituzioni e case di cristiani. Quel venerdì e sabato marcarono, a suo tempo, una sorta di frontiera tra un prima e un dopo. Stupore, desolazione, incredulità, sentimento di tradimento e dolore fu il fuoco.
Quanto accaduto ebbe mandanti ed esecutori. L’impressione che il tutto fosse stato orchestrato con un piano le cui finalità rimangono a tutt’oggi immaginabili e oscure a un tempo.
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I tempi di
cambiamento sono sempre tempi confusi. Il mio amico
Pierluigi Fagan direbbe che sono tempi complessi[1], ma
io penso nella sostanza che tutti i tempi lo siano e che
questi sono diversi perché gli schemi di
interpretazione sono scossi. Ne avevamo uno comodo, il ‘dolce
commercio’[2]
avrebbe necessariamente e per propria dinamica interna portato
con sé attraverso la spinta del consumo
l'allineamento del mondo agli standard dell'Occidente. L’idea
era di considerare la “modernizzazione”[3]
compiuta storicamente, e in innumerevoli conflitti, dalle
società europee nel torno di anni tra il XV e il XIX
secolo come una “tappa”[4],
storicamente necessaria, dei “progressi”[5]
della “Ragione”[6] che
porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo
delle forze produttive. Nessuno sviluppo
autentico è quindi considerato possibile, né civile e
morale, né produttivo e autosostenuto, senza che si aderisca a
questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile,
scritto nella “Storia”[7], e
del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere.
Questo mito fu scosso nella prima metà del XX secolo dall’esperienza della distruzione della tecnica (le mitragliatrici ed il gas nella Prima Guerra mondiale, i bombardamenti ad alta quota, le macchine di sterminio, le atomiche nella Seconda), ed è oggi sfidato dalla direzione che stanno prendendo i fatti. La mente di ogni buon cittadino occidentale, democratico e progressista, incastonata da questo giro di idee e sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero, non appena giungerà a riconoscerlo, è scossa e confusa dalla indisponibilità russa ad arrendersi, dalla nascita dei Brics e la sua espansione, l’irresistibile crescita della Cina e la sua dirompente ascesa nella catena del valore e tecnologica, la crescita di movimenti politici non liberali nei santuari occidentali.
Si possono leggere questi eventi come anomalie in una storia, inserendoli ostinatamente entro una narrazione teleologica normalmente intessuta di principi morali, si possono quindi leggere come incidenti, perturbazioni nel normale sviluppo; oppure come manifestazione di una sorta di ritorno ciclico.
Da “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” n. 9/Primavera 2025 riportiamo un articolo di Visconte Grisi che mette in luce le contraddizioni della “deregulation” trumpiana ma anche gli elementi di continuità con le politiche delle amministrazioni precedenti.
Sembra che i
recenti sviluppi della politica statunitense successivi alla
elezione di Trump abbiano colto impreparati moltissimi
commentatori, anche “di
sinistra”, mentre, al contrario questi sviluppi erano
prevedibili per altri osservatori più attenti allo svolgersi
degli
eventi.
Tanto per cominciare la richiesta alle nazioni europee di aumento delle spese militari in ambito NATO era già stata fatta ai tempi della prima presidenza Trump, anzi ancora prima nel 2014 quando presidente era Obama. In tempi più recenti gli Stati Uniti, con la presidenza Biden, hanno approfittato dello scoppio della guerra in Ucraina per scaricare sugli “alleati” europei non solo i costi della guerra ma anche quelli delle forniture energetiche. Basta solo ricordare il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, che trasportava il gas proveniente dalla Russia alla Germania, costringendo le nazioni europee a importare lo shale gas prodotto, soprattutto negli USA, con la tecnica del fracking che ha costi di produzione più elevati rispetto ai concorrenti, oltre a provocare enormi danni ambientali. Inoltre lo shale gas viene commercializzato in forma liquida, il che comporta ulteriori costi e problemi di logistica rispetto ai gasdotti e richiede la costruzione di rigassificatori. Conseguenza immediata di questo aumento dei costi energetici è stata la crisi del settore dell’automotive: in Germania la Volkswagen ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti e una riduzione della capacità produttiva di oltre 700mila veicoli che comporterà il licenziamento di 35mila operai. In Italia Stellantis minaccia il licenziamento di 250 lavoratori alla Mirafiori di Torino invocando naturalmente nuovi ammortizzatori sociali da parte dello stato.
Verrebbe da chiedersi come mai i governi europei abbiano accettato, senza fare una piega, di aderire a una tradizionale politica “atlantista” pur in palese contrasto con i loro interessi economici immediati.
Il saggista italo-inglese espone le ragioni per cui, a suo avviso, la guerra non termina
In
quest’intervista, Thomas Fazi espone la sua opinione sulla
guerra in Ucraina. L’analista smonta pezzo per pezzo la
narrazione ufficiale,
denunciando il ruolo delle élite europee nel prolungamento
del conflitto e svelando le forze che ne determinano le
scelte: dai legami
strutturali tra Bruxelles e Washington al potere del
complesso militare-industriale. Secondo Fazi, l’Europa
avrebbe tutto da guadagnare da una
fine della guerra, ma continua a sostenere l’escalation per
motivi economici, politici e ideologici. L’analista delinea
una rete di
interessi profondi, che coinvolge anche i grandi fondi di
investimento come BlackRock, e condiziona le politiche
europee. Attraverso una riflessione
provocatoria e accurata, Fazi mette in luce le gravi
conseguenze sociali di questa strategia: austerità, tagli al
welfare, militarizzazione
della società e il rischio crescente di una deriva
autoritaria. Un’analisi spiazzante su come il continente
stia sacrificando il proprio
futuro sull’altare di una strategia profondamente
autolesionista. «Esiste un legame strutturale tra il grande
capitale europeo e il
grande capitale statunitense, in particolare quello di Black
Rock». L’analista italo-inglese Thomas Fazi è tranchant.
Figlio
dell’editore Elido Fazi, 42 anni, attento osservatore delle
dinamiche europee, mette in luce le contraddizioni della
politica europea sulla
guerra in Ucraina.
«Il Fatto Quotidiano» ha chiesto a Barbara Spinelli di ampliare il suo intervento alla manifestazione dei 5Stelle contro il riarmo, tenutasi il 5 aprile a Roma. Il testo è stato pubblicato il 9 aprile 2025
Vorrei parlare del nuovo bellicismo europeo e dei suoi fondamenti: l’ignoranza, la menzogna, l’avidità del complesso militare-industriale. L’ignoranza per prima, abissale e volontaria, di quel che vuole ed è la Russia, di quel che sono gli Stati dell’Est europeo usciti dall’Urss con un pensiero dominante: vendicarsi della Russia.
E se possibile smembrarla, come sostenuto da Kaja Kallas, Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, ex premier nota per l’oppressione in Estonia delle minoranze russe.
E ancora: ignoranza della guerra degli ucraini, di come l’hanno persa nonostante fosse stata preparata fin dal 2014, e poi condotta, dai servizi e dai militari Usa. La verità è che Trump sta gestendo la prima grande sconfitta occidentale contro una potenza nucleare (anche la guerra dei dazi è gestione di una sconfitta). L’Occidente intero è alle prese con una disfatta, anche se l’Europa occidentale si benda gli occhi e fa finta di niente.
Certo, all’inizio fu legittima resistenza all’invasore, ma le cose sono cambiate. Si moltiplicano i reportage, anche ucraini, sulle diserzioni dei giovani, su una generazione perduta, sugli arruolamenti forzati: ti acchiappano per strada con un bus e ti sbattono al fronte o ti riempiono di botte (si chiama bussificazione). Nella Resistenza non succedeva. Infine la bugia sull’Ucraina compatta: è invece divisa, col Donbass che parla russo (lingua proibita dal 2019) e anche se non approva Putin resta etnicamente russo.
Riflessioni sulla crisi dell’ordine internazionale liberale a guida USA e sul disastro Ue
Cantano le Erinni in Europa, e la
guerra appare sempre più inevitabile quanto, paradossalmente,
improbabile. Con quale arme, infatti, ci si chiede attoniti?
Ma ancor più,
ci si domanda con quale esito, visto che il nemico designato è
una potenza nucleare e che da circa tre generazioni (molti più
dei venti
aleggiati da Vance[1]) le
nazioni europee non combattono una vera guerra. Siamo un
popolo di imbelli, come tuona Scurati nel suo ultimo,
già famoso e accorato, elzeviro[2] ,
che ha smarrito non solo “il dominio militare” di un tempo, ma
anche la “genesi del senso” che essa portava seco, come
“esperienza plenaria, accadimento fatidico, momento della
verità”; e se i prodighi sforzi della Von der Leyen potranno
forse
colmare il vuoto tecnico e industriale, difficilmente
riusciranno a colmare quello antropologico. Poiché, oltre che
senz’arme, siamo,
allo stato attuale, anche senz’armi[3].
Infatti, si paventa l’invio di una forza di 30.000 truppe,
eufemisticamente dette di‘ “peacekeeping”[4], si
auspica nell’ambito di una possibile (quanto improbabile)
tregua[5].
L’idea non è invero nuova e poco o nulla concerne i ventilati
propositi di pace[6], ma
persegue una strategia bellica di lenta escalation. Se
ne fece latore, in Italia, il noto stratega militare Edward
Luttwak[7],
annunciando che la Nato (oggi la Coalition of the willings)
potrebbe “andare in Ucraina per fare la logistica dalla
frontiera alle retrovie, a
30-40 km dai combattimenti, con pochissimo rischio”. La logistica
cui ci si riferisce, ma non si può dire, è quella dei
renitenti alla leva e disertori (oltre 200mila già l’anno
scorso, secondo la Verkhovna Rada[8]), e
dei rastrellamenti per spedirli al fronte[9] che
impegnano ingenti forze militari “qualificate”. E mentre ci si
interroga quale possa essere l’esito dei fragili tentativi di
dialogo, lo scopo del vociferato cessate-il-fuoco è
chiaro, lo ha recentemente dichiarato Bruno Kahl[10],
capo dei servizi segreti tedeschi (da sempre vicini alla
CIA): prolungare il conflitto per altri cinque anni per
indebolire la Russia,
impedirle di sfruttare le risorse minerarie e permettere
all’Europa di prepararsi a intervenire (con il Rearm
Europe,n.d.c.).
Da una notizia
apparsa su Avvenire del 30 marzo scorso apprendiamo che in 34
paesi si vendono droni e prodotti bellici da parte di un
mega-esportatore turco di nome
Baykar. Dopo aver rifornito l’Africa, ora questa azienda punta
a conquistare i nuovi mercati di America Latina, Ue e Nato. La
Turchia, oltre a
essere il secondo esercito Nato in ordine di importanza,
sembra quindi essere il 4° fornitore bellico in Paesi africani
(Somalia, Etiopia,
Nigeria, Togo, Burkina Faso, Libia, Mali, Marocco), oltre
l’Ucraina, secondo le affermazioni del ministro degli Esteri
Hakan Fidan. Si tratta di
piattaforme economiche e funzionali alla ricognizione, alla
sorveglianza, all’intelligence e ai bombardamenti di
precisione.
Si vendono bene anche blindati, forieri di una quota non indifferente di trasferimenti turco-continentali. Il Sipri poi (Istituto svedese di studi sulla pace) certifica che tra il 2020 e il 2024 il traffico delle armi è diminuito nel continente africano e aumentato in quello americano. Anche la Russia vende armi in Africa (21%), la Cina (18%), gli Usa (16%). Al momento sembrano mancare gli importanti contratti algerini e marocchini che potranno di nuovo riprendere al riattivarsi di dinamiche golpiste, insurrezionali e interessi neocoloniali cui vengono in soccorso aziende cinesi, francesi turche e russe, con priorità a scemare. La Russia vende jet ad Algeria, Mali, Burkina Faso e Niger. La Cina rifornisce Ecuador, Bolivia e Venezuela di servizi satellitari e tiene rapporti d’intelligence con Cuba. Il Brasile per ora si rifornisce in Europa. Come si evince chiaramente, i Paesi più forti in senso imperialistico gestiscono il monopolio dei mercati mondiali in espansione degli armamenti, avendone continuamente attiva la ricerca innovativa e pertanto competitiva come per ogni altra merce.
Il quadro, sicuramente ora riferito per difetto, mostra la florida stagione per l’industria bellica e fornirebbe ottime ragioni al progetto di “riarmo” europeo, nonostante qui si riscontri una sensibilità per la parola da mutare in un eufemismo di ipocrisia più gradita, che ne cancelli preventivamente un fermo rifiuto, da parte di masse indisposte a barattare una sorta di benessere raggiunto con avventure suprematiste aborrite.
Le “armi” europee (auto, chimica, meccanica) per combattere i colossi mondiali appaiono spuntate, mentre nel “settore” dell’IA la nostra presenza è residuale. I dazi affievoliscono la capacità esportatrice dell’Ue. L'alternativa al bellicismo? Negoziare con Pechino un trattato su commercio e investimenti
Oggi
l’Unione Europea e i paesi che ne fanno parte si trovano nella
scomoda posizione di combattere contemporaneamente su tre
fronti e tutti
rilevanti: contro gli Stati Uniti e il suo Presidente, che
d’altro canto non fa mistero del suo disprezzo per il nostro
continente; ovviamente
contro la Russia nostro nemico giurato (è da poco che
Bruxelles ha ribadito che le sanzioni alla Russia non saranno
tolte se non dopo che il
paese avrà ritirato e senza condizioni tutte le sue truppe dal
suolo ucraino) e infine contro la Cina, non mancando occasione
da parte dei
dirigenti dell’UE di cercare di mettere i bastoni tra le ruote
a tutte le attività del paese asiatico nel nostro continente.
L’UE contro tutti
Ma le armi europee per combattere contro i tre colossi della politica mondiale appaiono piuttosto spuntate. In campo industriale la maggior parte delle attività tradizionali del nostro continente, anche se per fortuna non tutte, sono in grave difficoltà e senza grandi speranze di ripresa (l’auto, sotto i colpi del cambiamento tecnologico, del rallentamento del mercato della UE, della concorrenza cinese, dei dazi di Trump; la chimica, sotto quelli degli alti costi dell’energia, in Europa almeno di quattro volte superiori a quelli di Cina e Usa, del mercato che ormai si trova di nuovo per la gran parte in Cina e Usa; la meccanica, ancora sotto i colpi della concorrenza cinese), mentre nei settori avanzati, che costituiscono ormai il cuore dell’economia, la nostra presenza è praticamente residuale, tranne che in alcuni ridotti sottosettori.
Ora i dazi di Trump minacciano di affievolire fortemente anche quello che è ancora un grande punto di forza dell’economia dei paesi dell’UE, la sua capacità esportatrice. E non va certo molto meglio in campo militare: si racconta, per esempio, che in Francia ci siano soltanto 200 carri armati operativi e in Italia addirittura 50. Non sappiamo se tali cifre sono corrette, ma perlomeno esse fotografano sostanzialmente dei sentimenti diffusi al riguardo
Liberation Day ha innescato una spirale verso il basso degli indici di borsa mondiale e dato alito a migliaia di economisti, un coro che canta all’unisono. Molti si sono forgiati durante la globalizzazione sotto l’ombrello del neoliberismo ed è quindi logico vedere scatenarsi da parte loro una rivolta di parole contro l’attacco diretto a questo sistema. Ma mettiamo da parte per un momento le loro critiche e concentriamoci sui fatti.
Il crollo dei mercati azionari è determinato dalla paura che il giocattolo si rompa, che gli equilibri commerciali, finanziari e geopolitici cessino di esistere. Ciò significa che a tutti stavano bene, eppure le lamentele nazionali e internazionali sono state e continuano a essere molte. Anche le crisi che questo sistema ci ha regalato hanno prodotto pene e sofferenze, in primis l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, l’avvento dell’oligarchia tecnologica fino al l’inflazione attuale per non parlare della proliferazione delle guerre, tutte naturalmente in luoghi lontani fatta eccezione delle ultime due in Ucraina e a Gaza. Non è dunque possibile prendere in prestito la frase storica di Winston Churchill e affermare che “la globalizzazione e’ un sistema imperfetto ma e’ quello migliore che abbiamo”.
Ciò che questi giorni di fuoco e fiamme ci hanno fatto capire è che la globalizzazione altro non e’ stata che un sistema di mercantilismo travestito da libero mercato che ha scatenato l’avvento o meglio, il ritorno, dell’economia canaglia. E vediamo perché.
Se osserviamo
l’attuale fase macro geopolitica, fondamentalmente
caratterizzata dal manifestarsi del declino occidentale, è
possibile notare che la
politica strategica adottata da quella che era la
potenza-fulcro dell’occidente, ovvero gli Stati Uniti, è
caratterizzata da una
contraddizione fondamentale. L’obiettivo strategico
statunitense, infatti, non è semplicemente quello di
rallentare il declino, o di
limitarne la portata, ma quello di invertirne il corso, di
ricostituire e riaffermare la posizione egemonica
nordamericana sul resto del mondo. E,
date le attuali condizioni dell’impero americano,
questo richiede tempo. Rimettere la potenza statunitense in
condizione di affrontare
e vincere i paesi che ne sfidano l’egemonia, impone la
necessità di guadagnare tempo. Sotto questo profilo,
la scelta operata
dal blocco di potere che ha preso la guida degli USA è quella
di cercare di dividere questi paesi – in
particolare quelli
più agguerriti – sia per cercare di sconfiggerli
separatamente, uno alla volta, sia per impedire che la
consapevolezza della forza
derivante dalla loro sommatoria li induca invece a colpire per
primi.
Ma – ed è questa la contraddizione di cui si diceva – nel fare ciò Washington sta imponendo una accelerazione generalizzata. Apparentemente, le due cose potrebbero apparire addirittura coerenti: non ho molto tempo a disposizione, quindi velocizzo la mia azione. Ma, ovviamente, questo potrebbe valere se la scarsità di tempo fosse dovuta esclusivamente a fattori oggettivi esterni, mentre invece nel caso degli Stati Uniti il tempo necessario dipende da una condizione soggettiva (il declino), il cui processo di recupero non può essere accelerato. L’obiettivo strategico è conseguibile solo ottenendo più tempo per ripristinare condizioni operative sufficienti, e quindi l’azione dovrebbe concentrarsi sulla dilatazione temporale, sul rallentamento dei processi globali, e contemporaneamente sull’impiego massivo delle risorse disponibili al fine di ricostituire la potenza perduta.
Dopo «Perché la guerra?»,
«Le condizioni
politiche di un nuovo ordine
mondiale» e «I vicoli ciechi del pensiero
critico occidentale» (I) e (II), un
nuovo articolo di Maurizio Lazzarato
per inquadrare i fenomeni politici contemporanei e capire la
natura del riarmo europeo e della guerra.
Secondo l'autore, è in corso, dal punto di vista capitalistico, una lotta feroce tra Trump e le élite sconfitte nelle elezioni presidenziali statunitensi, che hanno ancora forti presenze nei centri di potere, soprattutto in Europa.
Così, la corsa agli armamenti non assume la forma di «keynesismo militare» perché ha una logica differente: garantire surplus finanziari ai fondi di investimento, non adeguatamente rappresentati dal governo del tycoon. Una guerra che è scontro politico, tra diversi fattori soggettivi capitalistici.
* * * *
Per quanto grande sia una Nazione, se ama la guerra perirà; per quanto pacifico sia il mondo, se dimentica la guerra sarà in pericolo.
dal Wu Zi, antico trattato militare cinese
Quando diciamo sistema di guerra intendiamo un sistema quale è appunto quello vigente che assume la guerra anche solo programmata e non combattuta come fondamento e culmine dell’ordine politico, cioè del rapporto tra i popoli e tra gli uomini. Un sistema dove la guerra non è un evento, ma una istituzione, non è una crisi ma una funzione, non è una rottura ma un cardine del sistema, una guerra sempre deprecata e esorcizzata, ma mai abbandonata come possibilità reale
Claudio Napoleoni, 1986
I testi: Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale. Questioni di principio di un’ontologia oggi divenuta possibile, Guerini e Associati, Milano, 1990
I Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale possiedono
il valore di un
testamento, per il fatto di essere l’ultimo grande testo
filosofico di Lukács. Vennero infatti redatti poco prima della
sua morte.
Sapendolo impegnato nella redazione dell’Ontologia, opera molto attesa da tutti coloro che erano interessati al suo pensiero, in una lettera spedita da Parigi, dove ci trovavamo per tenere alcune conferenze sulla sua Estetica, gli avevamo chiesto notizie intorno al suo lavoro. Il 14 gennaio 1971 egli ci mandò questa breve risposta, che permette di datare la nascita dei Prolegomeni: «Con l’Ontologia procede assai lentamente. In autunno ho messo giù la prima stesura di un prolegomenon (circa 300-400 pagine). Ho ancora il problema della revisione e della eventuale rielaborazione. (Purtroppo ho avuto nel frattempo una [parola indecifrabile] leggera influenza; alla mia età però la capacità di lavorare ritorna assai lentamente)».
Quando poi, due mesi dopo, gli facemmo visita a Budapest, il filosofo non aveva ancora rivisto il testo: era in corso il lavoro di decifrazione e la battitura a macchina. La «leggera influenza» di cui aveva parlato nella lettera (probabilmente un sintomo del male che doveva portarselo via il 4 giugno seguente) gli lasciò il tempo di stendere qualche appunto autobiografico, pubblicato sotto il titolo di Gelebtes Denken, ma non quello di rivedere il testo dei Prolegomeni. La morte venne a interrompere la realizzazione di un grande progetto i cui lavori preparatori risalivano al maggio 1960 – vale a dire esattamente al momento in cui egli aveva messo il punto finale al voluminoso manoscritto dell’Estetica[1] – e nel quale l’Ontologia dell’essere sociale appariva come il preludio necessario di un’Etica. Fino agli ultimi momenti della propria vita il filosofo nutrì la speranza di realizzare questo progetto, di dare cioè un séguito logico alla sua Ontologia, séguito che doveva essere costituito dall’Etica, come testimonia una lettera del 30 dicembre 1970 indirizzata a Ernst Bloch.
Con un certo qual incauto ottimismo, il deputato della Duma russa Andrej Kolesnik, del partito presidenziale “Russia Unita”, ha dichiarato che, a suo parere, la causa che sinora trattiene i paesi occidentali dall'inviare propri contingenti militari in Ucraina è costituita dalla paura di fronte all'esercito russo e alle armi atomiche di Mosca. Fanno accuratamente i loro conti, afferma Kolesnik, dal momento che «la Russia dispone dell'esercito più forte al mondo, delle armi atomiche più potenti; oltre a essere il paese col più esteso territorio, la qual cosa, sul piano militare, ha pure la sua importanza». Le parole di Kolesnik fanno seguito a quelle dell'ex analista della CIA Larry Johnson, secondo cui le forze russe sono in grado di liquidare qualunque unità straniera che venisse a trovarsi in Ucraina.
Vero è che i giudizi di Johnson hanno alla base l'opinione per cui gli USA debbano ammettere che la Russia non sia mai stata loro nemica e, anzi, le parti abbiano spesso cooperato su varie questioni. Di più: Svobodnaja Pressa ricorda che Johnson ha più volte detto come l'intelligence USA, prima del febbraio 2022, avesse erroneamente valutato il potenziale militare russo, ritenendo che l'esercito di Mosca «non sappia combattere, disponga di un comando debole e manchi di motivazioni». Intervenendo sul canale youtube “Judging Freedom”, Johnson ha anche detto che, a suo giudizio, l'Ucraina non può che capitolare o, in caso contrario, cessare di esistere.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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[I tempi sono oscuri e spaventosi. Non basta più stare dentro i ruoli assodati e fare bene il proprio lavoro. Ci sono strumenti da condividere e ci sono stili di pensiero e d’azione da salvaguardare. Non sappiamo ancora chi si servirà di cosa. Ma prepariamo il terreno. Ho cominciato la serie con questo pezzo, pubblicato il giorno dell’investitura di Trump. a. i.]
Il
Trump del secondo mandato non è solo il nome
del declino palese dell’egemonia statunitense e dell’ordine
mondiale
a essa connesso, ma ne è probabilmente anche il precipitatore,
il fattore accelerante. Questo è almeno il quadro entro cui è
leggibile la politica estera dell’attuale presidenza. Io
vorrei, però, mettere in relazione questa gesticolazione
imperialista
degli Stati Uniti e una tendenza di fondo che
emerge nella sua politica interna, ossia l’attacco nei
confronti delle istituzioni
scientifiche e del contropotere costituito dai media
cosiddetti mainstream. Su tale fronte, di guerra
dichiarata nei confronti dei
“nemici interni”, l’azione di Trump indica una più generale
modalità di governo, che potremmo anche chiamare di
“populismo autoritario”, ma che s’iscrive, in sostanza, in una
concezione neofascista dei
rapporti tra potere dei governanti e popolazione. Pur
emergendo all’interno delle istituzioni di una democrazia
liberale, l’autoritarismo
populista alla Trump aspira allo smantellamento puro e
semplice dei vincoli legali e dei contropoteri effettivi,
sociali e culturali, che prevengono e
ostacolano un esercizio dittatoriale del potere. (Spiegherò in
una glossa, perché non ho nessun imbarazzo a parlare di
neofascismo, e a
identificarlo come una tendenza manifestamente presente
nell’azione di tutta una serie di capi di governo attuali – da
Putin, ovviamente,
a Netanyahu o Erdogan – che agiscono, “ufficialmente”,
all’interno di regimi più o meno democratici.)
Se nel corso del Novecento, le istituzioni scientifiche (università, laboratori di ricerca, ecc.) sono state sottoposte a critica sociale, e più in generale a una critica delle loro inevitabili matrici ideologiche, ciò non toglie che la libertà accademica e tutta una serie di procedure, collettivamente discusse, di verifica e di prova, hanno permesso alle varie discipline di evolvere, rettificarsi, e creare anche i propri anticorpi nei confronti dei diversi poteri (economici, politici, religiosi, ecc.) che le possono condizionare.
Per preservare a ogni costo l’egemonia USA, il presidente americano rovescia il tavolo ma mette in gioco le sorti dell’impero.
Lo scorso 2
aprile, il presidente americano Donald Trump dichiarava un’“emergenza nazionale”
annunciando una pioggia di dazi su ogni genere di prodotto
importato. Le misure hanno colpito paesi alleati ed avversari
(imposte del 20% sulle
importazioni dall’UE, del 24% su quelle dal Giappone, del 46%
su quelle dal Vietnam).
I mercati finanziari mondiali sono crollati, mentre si è diffuso il panico fra imprese e investitori. Quando lo tsunami ha colpito anche i titoli di stato americani (bene rifugio per eccellenza) minacciando la stabilità dell’architettura finanziaria USA, Trump ha fatto una parziale marcia indietro.
Ma la sospensione di 90 giorni sui cosiddetti dazi “reciproci” appena imposti non deve trarre in inganno. I dazi di base del 10% affibbiati indistintamente a tutti i paesi rimangono in vigore (assieme a quelli del 25% su alluminio e acciaio), ma soprattutto restano i dazi del 145% imposti alla Cina (a cui Pechino ha risposto alzando i dazi nei confronti degli USA fino al 125%).
Queste misure annunciano una guerra commerciale senza precedenti fra i due giganti mondiali (con un PIL complessivo pari a 46 trilioni di dollari) la cui integrazione economica aveva costituito la spina dorsale della globalizzazione fino ad oggi.
In ballo ci sono 700 miliardi di scambi commerciali annuali, e il disaccoppiamento fra due superpotenze profondamente interdipendenti dal punto di vista economico.
Trump ha annunciato il nuovo regime di dazi nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, con un discorso improntato a un vittimismo infarcito di recriminazioni nei confronti del resto del mondo:
“Per decenni il nostro paese è stato saccheggiato, depredato, violentato e rapinato da nazioni vicine e lontane, da amici e nemici”, ha detto il presidente mentre alle sue spalle giganteggiavano enormi bandiere USA.
Prendendo spunto da Quo Liang nel suo
Arco dell’impero, il mio punto di vista generale è
che l’egemonia del dollaro possa essere descritta come un
imperfetto
meccanismo di respirazione della mostruosa macchina del
capitale globale. Inspirazione: capitali e denaro
rifluiscono negli Stati Uniti. Espirazione:
capitali e denaro fuoriescono. Va da sé che a questo flusso
è associato lo scatenarsi di dinamiche differenziate e
pressioni per la
ristrutturazione dei rapporti di classe in tutto il mondo.
Da questa prospettiva, il paradosso di Triffin non è tanto
un paradosso quanto lo
sarebbe avere troppo o troppo poco ossigeno nei polmoni.
Il respiro tossico del dollaro
Il paradosso di Triffin descrive la trappola economica che si verifica quando la valuta di un paese – come il dollaro statunitense – diventa la valuta di riserva di riferimento a livello mondiale. Per far funzionare il commercio internazionale in modo minimamente fluido, il mondo ha bisogno di una valuta affidabile e universalmente accettata. Questo significa che il paese che emette tale valuta -attualmente gli Stati Uniti – deve immettere nel sistema globale una quantità sufficiente di dollari. L’unico modo per farlo è attraverso deficit commerciali persistenti: gli Stati Uniti acquistano più dal mondo di quanto vendano. Tuttavia, questo flusso costante di dollari comporta un problema: più gli Stati Uniti importano e accumulano deficit commerciali, più aumentano il loro debito. Col tempo, ciò può minare la fiducia globale nel dollaro stesso. Se i paesi iniziano a dubitare del suo valore, si scatena instabilità finanziaria. Ma c’è un vicolo cieco: se gli Stati Uniti tentano di rimediare riducendo i deficit commerciali – cioè diminuendo la quantità di dollari in circolazione – il mondo si ritrova improvvisamente a corto di liquidità in dollari. Il commercio internazionale rallenta, l’economia globale frena, e le valute emergenti trovano più spazio per sfidare il ruolo egemonico del dollaro.
Tiene banco la strage di civili causata da un attacco russo nel centro di Sumy: una trentina i morti, tra cui civili, di cui due bambini, si racconta. Sale l’indignazione contro Mosca, con parole di fuoco che stridono con le sommesse lamentele usate per le diuturne stragi bambine di Gaza – uccisi a centinaia da quando Israele ha rotto il cessate il fuoco – peraltro perpetrate con armi americane ed europee.
Ma al di là della contraddizione, qualcosa stride anche con quanto avvenuto finora nella guerra ucraina, nel corso della quale la Russia si è dimostrata attenta a colpire obiettivi militari. Scelta che non ha certo risparmiato i civili, si tratta pur sempre di una guerra, ma che ha causato morti civili non paragonabili ai massacri su scala industriale prodotti dalle guerre d’Occidente, da quella irachena in poi (l’ispiratore di quella guerra, Tony Blair, è ancora sulla breccia in qualità di consigliere di Starmer, anche se ovviamente nega per non coinvolgerlo nel suo tragico passato; popolarità dimostrata anche dalla pubblicizzazione massiva del suo ultimo libro, il perdibile On leadership).
Spero di sbagliarmi, ma credo che Trump non sarà un Presidente di pace come tanti sperano. L’impero ha bisogno di continuità. Siamo di fronte a un proseguimento del potere degli apparati di potere che trovavano nei DEM la loro migliore espressione, ma che oggi si esprimono in forme più evidentemente mafiose e fascistoidi. Anche i nazisti erano capaci di una critica alla società capitalistica e del mainstream fingendo di appellarsi all’uomo ordinario, ai lavoratori che soffrivano le dure condizioni di vita della Germania degli anni trenta. Ma di fatto erano alleati dei grandi ceti capitalistici e costituivano un atroce regresso rispetto al liberalismo precedente. Il Presidente è troppo debole e opportunista per costituire una vera svolta rispetto alle politiche neoconservatrici precedenti. La NATO considerata nel 1997 da Brzezinski un’alleanza tra l’egemone e i suoi vassalli mostra oggi crepe inimmaginabili in passato tra Washington e gli alleati.
Il Presidente attuale non è Kennedy e non vorrà certo pagare il prezzo di uno scontro con l’apparato industriale e militare, con lo Stato profondo che da sempre governa la politica USA. Se fosse stato uno statista avrebbe imposto la pace in Ucraina. Putin l’avrebbe accettata malgrado gli convenga continuare la guerra e avanzare verso Odessa. Bisognava essere conseguenti. Registrare la sconfitta delle politiche neoconservatrici. Imporre la neutralità dell’Ucraina. Il riconoscimento delle conquiste territoriali russe e far convocare le elezioni presidenziali a Kiev.
Sul fatto che gli Stati Uniti abbiano deciso di risolvere i propri problemi (economici e di “presa egemonica” sul mondo) andando alla guerra contro la Cina, ci sono pochi dubbi. Che oltre alle motivazioni di mero interesse finanziario-commerciale stiano giocando anche ragioni di tipo ideologico-politico-strategico, invece, si parla piuttosto poco.
Questa acuta analisi del sempre attento Guido Salerno Aletta, peraltro pubblicata su una testata non sospettabile di filo-comunismo come Milano Finanza, consente di affrontare la fase che stiamo vivendo con qualche informazione in più.
Buona lettura.
* * * *
Shock and awe, colpire e terrorizzare imponendo in via generalizzata dazi mostruosi sulle importazioni americane, salvo poi sospenderli temporaneamente con l’obiettivo di dividere il fronte degli interlocutori in vista delle trattative per il riequilibrio del saldo commerciale Usa, ma isolando completamente la Cina.
Nei confronti di Pechino, l’obiettivo di Donald Trump, con i dazi che aumentano di giorno in giorno, è quello di provocarne il collasso produttivo e soprattutto quello politico: non solo le merci già ordinate dai committenti americani non devono più partire dai porti cinesi, perché nessuno sa prevedere quale sarà la misura dei dazi che verranno applicati al momento dello sdoganamento all’arrivo negli Usa, ma si deve bloccare il sistema di produzione e a ritroso l’intera catena degli approvvigionamenti.
Perché siamo capaci di descrivere e analizzare il vecchio che si dissolve e non riusciamo invece a immaginare il nuovo? Forse perché crediamo più o meno inconsapevolmente che il nuovo sia qualcosa che viene – non si sa da dove – dopo la fine del vecchio. L’incapacità di pensare il nuovo si tradisce così nell’incauto uso del prefisso post: il nuovo è il post-moderno, il post-umano – in ogni caso qualcosa che viene dopo. È vero precisamente il contrario: il solo modo che abbiamo di pensare il nuovo è di leggerlo e decifrarne i tratti nascosti nelle forme del vecchio che passa e si dissolve. È quanto Hölderlin afferma con chiarezza nello straordinario frammento su La patria che tramonta, in cui la percezione del nuovo è inseparabile dal ricordo del vecchio che va a fondo e deve anzi in qualche modo assumerne amorosamente la figura. Ciò che ha fatto il suo tempo e sembra dissolversi perde la sua attualità, si svuota del suo significato e ridiventa in qualche modo possibile. Benjamin suggerisce qualcosa del genere quando scrive che nell’attimo del ricordo il passato che sembrava compiuto ci appare incompiuto e ci fa così dono della cosa più preziosa: la possibilità. Veramente nuovo è solo il possibile: se fosse già attuale e effettivo, esso sarebbe già sempre deciduo e invecchiato. E il possibile non viene dal futuro, esso è, nel passato, ciò che non è stato, che forse non sarà mai, ma che avrebbe potuto essere e che per questo ci riguarda.
L’economista sostiene che il mondo multipolare nascerà solo quando il peso geopolitico di Asia, Africa e America Latina rispecchierà la loro crescente rilevanza economica.
Il tramonto dell’egemonia occidentale e il lento affermarsi di un sistema multipolare analizzato da Jeffrey Sachs. Il professore di Columbia University ritiene che Asia, Africa e America Latina debbano unire le forze per riformare le istituzioni internazionali e dare vita a un nuovo equilibrio globale. E conclude sostenendo che, per peso economico e diplomatico, l’India è il candidato ideale per un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
* * * *
Scrivendo dalla sua cella come prigioniero politico nell’Italia fascista dopo la Prima Guerra Mondiale, il filosofo Antonio Gramsci, com’è noto, dichiarò: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati». Un secolo dopo, ci troviamo in un altro interregno, e i sintomi morbosi sono ovunque. L’ordine guidato dagli Stati Uniti è finito, ma il mondo multipolare non è ancora nato. La priorità urgente è dare vita a un nuovo ordine multilaterale che possa preservare la pace e il percorso verso uno sviluppo sostenibile.
È diventato un luogo comune
descrivere le politiche economiche di Trump come un
radicale
allontanamento dalla traiettoria recente. Michael Hudson
non è d’accordo. Spiega perché la parte apparentemente
innovativa, il
massiccio ricorso ai dazi, rappresenti la continuità delle
politiche neoliberiste e libertarie, volte a ridurre il
ruolo del governo nella vita
commerciale e privata. Sostiene che, pertanto, abbiano ben
poco a che fare con la “ricostruzione” dell’America e
siano intese a
consentire ai super-ricchi di ottenere ancora di più dai
cittadini comuni.
La valutazione di Hudson è simile a quella che il sottoscritto ha affermato fin dall’inizio: l’unico modo in cui il programma di Trump avrebbe avuto senso era se l’obiettivo fosse stato quello di indurre una crisi economica simile a quella della Russia degli anni ’90, in modo da facilitare l’acquisto di beni preziosi a basso costo da parte dei plutocrati. Ma molte aziende e posti di lavoro un tempo vitali saranno distrutti per facilitare questo saccheggio [Yves Smith].
* * * *
La politica tariffaria di Donald Trump ha gettato i mercati nel caos, sia tra i suoi alleati che tra i suoi nemici. Questa anarchia riflette il fatto che il suo obiettivo principale non era in realtà la politica tariffaria, ma semplicemente ridurre le imposte sul reddito dei ricchi, sostituendole con i dazi come principale fonte di entrate governative. Ottenere concessioni economiche da altri Paesi è parte della sua giustificazione per questo spostamento fiscale, in quanto offre un vantaggio nazionalistico agli Stati Uniti.
Apro l’ombrello
per ripararmi dalle accuse di cinismo che non
mancheranno di piovermi
addosso
Alberto Savinio
Come siamo finiti da Gramsci a Serra, si chiedeva il direttore di questa rivista, Geminello Preterossi, nel raduno “Tutti a casa” di Roma il 29 marzo scorso. Diceva Alberto Savinio che esistono le persone intelligenti, e poi ci sono gli intellettuali. Gli intelligenti hanno la peculiare caratteristica di non essere prevedibili, mentre gli intellettuali, in parte incolpevolmente facendone un mestiere, devono per statuto compiacere il pubblico. Esattamente come i politici o gli uomini d’affari. L’intelligenza, se lasciata al suo naturale corso, si sente sempre a disagio rispetto alla realtà data, e non può far a meno di guardare al rovescio della medaglia. E questo in ogni circostanza, perché ogni cosa proietta un’ombra, tutto ha un risvolto problematico. L’anima critica punta dritta al crinale dove, fatalmente, troverà una contraddizione, un lato oscuro, un non detto più o meno inconfessabile. È per questo che chi agisce sul piano culturale fa sì politica, fa sì parte del mercato, ma in via indiretta: perché obbedisce, o dovrebbe obbedire, innanzitutto alla propria coscienza, e solo poi alla convenienza. Oggi invece l’intellettuale medio è l’animale più stupido: non comprende il mondo reale, perché troppo occupato a servire la ragion economica o politica. È un venduto in quanto vende, e nel vendere si svende. È un pusillanime, un addetto al marketing, e la sua funzione è giustamente caduta in discredito. Parafrasando il Longanesi perculatore di Benedetto Croce: non capisce niente, e neanche più con grande autorità. È un miserabile.
La miseria degli intellettuali nasce con l’apparizione stessa della figura del moderno intellettuale critico. Se vogliamo individuarne la simbolica data di nascita, potremmo assumere a spartiacque il famoso “J’accuse” di Émile Zola, l’appello sul caso Dreyfus pubblicato sul quotidiano L’Aurore nel 1898.
“Gli Stati Uniti hanno
introdotto una forma di controllo della curva dei rendimenti
e da questo momento i tassi sui Treasuries decennali sono di
fatto
“amministrati”. Il ministro del Tesoro Bessent ha dichiarato
apertamente che i tassi a breve sono un problema della Fed
ma quelli a lunga
sono un problema che riguarda il Tesoro degli Stati Uniti.
Da questo momento è stato quindi introdotto un cap sui tassi
a 10 anni e
l’America si appresta a utilizzare l’Exchange Stabilisation
Fund, che è un fondo speciale d’intervento gestito dal
ministero
del Tesoro, per controllare il livello dei tassi a lungo
termine.
Ulteriori provvedimenti, totalmente taciuti dalla ricerca di mainstream, sono stati mirati a svuotare la Fed di ogni competenza sulla vigilanza bancaria, che ora compete anche questa al ministero del Tesoro. Il sottosegretario al Tesoro Kevin Hasset è ora il “capo” di Powell per tutto quello che compete alla vigilanza bancaria e il ruolo delle Fed in tale campo è ormai totalmente ridimensionato.
Alla luce di tali provvedimenti, le principali banche americane hanno quindi rigettato la richiesta della Fed sul dettaglio delle esposizioni di oltre 1,5 trilioni di dollari di crediti erogati a Private Equity e Private Credit. Nel recente rapporto sul sistema bancario americano fornito da BankRegData, il principale punto di riferimento per l’analisi del settore bancario Usa, si evince che l’attività di erogazione del credito è in contrazione in tutti i principali settori dell’economia (Real Estate, Commercial Real Estate, Consumers, Commercial & Industrial), ma è in netta espansione (+28% Q/Q) nel settore dello Shadow Banking System (Private Equity e Private Credit).
Com’è possibile? Molto semplice: dato che le banche sono infarcite di crediti inesigibili, stanno mettendo fuori bilancio tali crediti allo Shadow Banking System, finanziando poi la detenzione di tali posizioni.
I dazi di Trump, in linea con la logica neo-protezionistica statunitense che affonda le sue radici già nel secondo mandato di Obama, hanno un fine meramente politico: verificare quali siano davvero i Paesi amici degli Stati Uniti.
È questa la tesi di Stefano Lucarelli espressa nell’articolo che pubblichiamo oggi su Effimera e Machina in contemporanea.
Un tentativo disperato di porre rimedio alla crisi dell’egemonia americana, rivedendo gli accordi impliciti su cui si basava l’ordine internazionale e lavorando sulla regionalizzazione dell’economia mondiale.
* * * *
Ci sono azioni che possono sembrare sciagure evitabili figlie della umana ingenuità, ma che in realtà svelano verità profonde di cui non si vuol prender atto. I dazi di Donald Trump serbano la stessa potenza educativa che ha in sé il mito greco del vaso di Pandora. Atto apparentemente scellerato ma scritto nel destino del mondo – o, se si preferisce, nelle condizioni materiali che segnano questa epoca – e pertanto inevitabile.
Da “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” n. 9 (primavera 2025) riportiamo queste considerazioni di Larry
Abbiamo ricevuto questi appunti sugli Stati Uniti da Larry, un compagno ben informato. Coprono i primi due mesi del mandato di Trump. Per l’importanza che attribuiscono alle reali contraddizioni del sistema americano, ma anche per il tono che adottano, lontano da ogni magniloquenza militante, ci sono sembrati meritevoli di essere pubblicati. Un testo più completo e articolato, sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista Temps Critiques.
[Ho deliberatamente omesso in questi appunti l’impatto di questa nuova presidenza sulla scena internazionale, un argomento vasto che meriterebbe un trattamento separato. – Ndr]
* * *
1) Gli Stati Uniti stanno vivendo una grande rivoluzione politica (non sociale o economica) , sicuramente la più importante almeno dai tempi del New Deal. Il sistema americano era già fortemente presidenziale, ma l’attuale concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo tende a ridurre gli altri organi – il Congresso, le corti, perfino la Corte Suprema – a un ruolo essenzialmente decorativo.
I 10, 12 o più miliardi, non è ancora definita la cifra, stanziati da Meloni a beneficio di imprese colpite dai dazi trumpiani, non è un meccanismo dell’oggi sebbene con uno storno dal PNRR che ne confermerebbe l’attualità, ma riprende un vecchissimo ruolo di subalternità dello Stato. Addirittura della “superstizione dello Stato” cominciano a parlarne Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca (1846) e in Feuerbach (I, 4):
“lo stato moderno, attraverso le imposte è stato a poco a poco conquistato dai detentori della proprietà privata, e attraverso il sistema del debito pubblico è caduto interamente nelle loro mani”. Senza risalire così indietro, ricordiamo anche l’introduzione, con Ronald Reagan negli anni ’80 del secolo scorso, della “deregolamentazione” che ufficialmente dette l’avvio all’assalto liberista dello stato attraverso le cosiddette “privatizzazioni”.
Fu quello l’atto vincente, cioè, di devolvere a fini privati quanto era definibile come “pubblico”, e pertanto sottrarre a quanto era di pubblico una gestione privata estranea alla organizzazione della società civile. Lo slogan allora coniato fu “meno-stato-più-mercato”, che rinviava all’astrazione generica dei termini una concretezza specifica da nascondere alle masse. Nel mutamento della spesa pubblica che si avviava, si riservavano i risparmi ottenuti dalla cancellazione dei servizi sociali a vantaggio di privati, che così fornivano di senso il “meno-stato-sociale” con un “più-mercato” di cui beneficiava solo il “più-stato-finanziario”, quasi sempre obliterato dietro lo schermo di un’appartenenza nazionale.
Fuori dal caos delle dichiarazioni e dell’ottovolante delle Borse, qualcosa di stabile si può trovare. Ma non somiglia troppo a quel che commentatori esausti, o a corto di fantasia, pretendono di rilevare.
Sarà un caso, ma mai come adesso fioriscono lunghe articolesse camuffate da “libri” in cui si tenta di spiegare “cosa c’è nella mente” di questo o quel leader (Putin, Trump, Xi Jinping, ecc), come se davvero un normale propagandista assunto con contratto giornalistico avesse un accesso privilegiato alla testa di gente che vede soltanto in tv. Come noi, insomma…
Badiamo perciò ai fatti bruti. Trump ha sospeso a tutto il mondo, per 90 giorni, l’applicazione dei dazi decisi solo una settimana fa; ma in realtà li ha solo ridotti al 10% per tutti tranne che alla Cina, unico paese a rispondere immediatamente con controdazi, prima al 34% (misura identica a quella imposta dagli Usa alle proprie merci) e poi all’84% in seguito al “rilancio” trumpiano. Che ha insistito subito dopo portandoli al 125%.
Il tycoon gioca a poker, evidentemente (“buio”, “controbuio”, “rilancio”, “chip,”, “passo”, “vedo”, ecc), ma è difficile credere che l’economia mondiale possa essere davvero affrontata allo stesso modo.
Di fatto, per il momento, c’è una guerra commerciale soprattutto contro Pechino e una pistola sul tavolo, puntata contro tutti gli altri, dopo aver comunque sparato un 25% su alluminio e acciaio e, come detto, un 10% universale su tutto il resto.
A fronte di lauree sempre più leggere e di quantità di pagine lette sempre più ridotte per chi si fa dottore (credo che il programma dell’esame di letteratura italiana che diedi nel 1989 equivalga, in termini di pagine, a quello di tutti gli esami messi insieme oggi da una laurea online) si fa invece sempre più gravosa la formazione per poter insegnare. Strano che gli studenti vengano formati poco e male in università, che gli si chieda così poco per poi tormentarli, da laureati, con continui corsi e corsetti proposti sempre come prerequisiti necessari sebbene prima non previsti (dai diritti acquisiti ai doveri acquisiti man mano?). L’Italia si è del resto affezionata a quella terra di nessuno posta tra la spinta gentile (nudge) e il ricatto di Stato fatto ai più deboli e inaugurato per il covid con il gabinetto Draghi.
Eppure, a ben pensarci, strano non è. Dare una formazione completa, una conoscenza dei classici e degli strumenti culturali per leggerli (che perlopiù si acquisiscono, in circolarità, leggendoli), una consapevolezza dei presupposti epistemologici della cultura significa dare autonomia, significa aprire per ogni individuo un fronte di ricerca che non sai a quali posizioni possa portare, significa dare libertà. Una formazione debole, con poche letture e frammentate, con una scarsa consapevolezza epistemologica significa invece doversi continuamente appoggiare all’autorità, alla “griglia”, al metodo, alla formuletta di moda giacché non si riesce a risalire con il pensiero alle correnti a cui appartiene e alle matrici da cui discende.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Questo lucido intervento di Mjriam Abu Samra e
Sara Troian mostra in modo incontrovertibile come le
relazioni internazionali
attuali hanno fondamenta coloniali, e sono perciò di
evidente stampo neo-coloniale. Altro che il
post-colonialismo di pura (e assordante)
chiacchiera accademica!
Con altrettanta chiarezza il loro scritto inquadra come un provvedimento di stampo colonialista anche la famosa decisione della Corte penale internazionale dell’Aja che mise sullo stesso piano i boia del colonialismo sionista-occidentale Netanyahu e Gallant, e i capi della resistenza anti-coloniale palestinese Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar e Mohammad Deif – una decisione che spinse tanti anticolonialisti di carta pesta a sprecare in modo ridicolo l’aggettivo “storico”.
Anche questa chiara lezione di critica del diritto internazionale ci viene direttamente dall’indomita forza di resistenza del popolo palestinese. Sempre con la Palestina nel cuore e nella mente! (Red.)
* * * *
Il concetto di eccezionalismo è frequentemente evocato per spiegare “la questione palestinese” all’interno del sistema internazionale. La Palestina viene così rappresentata come un’anomalia: un progetto coloniale di insediamento anacronistico che perpetua apartheid, occupazione militare e genocidio in un mondo che si vorrebbe post-coloniale. In questo contesto, la violenza, le pratiche illegali e l’impunità di Israele sono considerate come deviazioni rispetto a un sistema internazionale che, altrimenti, si fonderebbe su valori condivisi, istituzioni imparziali e un quadro normativo universale.
Il libro in oggetto che è
uscito in Francia lo scorso gennaio, fornisce al mondo
occidentale forse la descrizione più completa della sua
reale condizione. Il libro parte
dal conflitto tra Ucraina e Russia, che, naturalmente, Todd
descrive quale esso è, cioè un confronto tra l’Occidente e
la Russia,
ma poi il discorso si allarga a un’ampia analisi della
condizione reale degli Usa e dell’Occidente di carattere
economico, sociale,
antropologico, e anche filosofico, visto il ruolo centrale
che ha nel libro il concetto di nichilismo.
Vi sono state varie analisi critiche della politica occidentale, ma il pregio del libro, unico nel panorama attuale, è quello di fornire un quadro generale delle condizioni reali dell’Occidente che sono agli occhi di Todd disastrose. Per questo non esito a dire che si tratta di un libro fondamentale, e mi auguro che il libro scritto da un intellettuale del livello di Todd possa cambiare il dibattito in corso, e riportarlo a termini più realistici, poiché i grossolani errori di valutazione nel caso di un conflitto con una potenza nucleare come la Russia possono essere molto pericolosi, ma non c’è molto da sperare, dato lo stato pietoso del mondo politico, mediatico e culturale occidentale.
Non a caso nell’Introduzione vi è un sentito omaggio a John Mearsheimer, a cui si riconosce di aver coraggiosamente denunciato la follia del comportamento degli Usa, veri responsabili della guerra, ma secondo Todd è necessario andare oltre e capire proprio le ragioni di tale irrazionalità. Per dare una spiegazione delle ragioni “profonde” di alcuni comportamenti irrazionali sia degli Usa, sia per quanto riguarda l’Ucraina che l’Europa, il libro avanza talvolta delle ipotesi piuttosto ardite. Ma l’attenzione alla totalità delle società occidentali, e l’attitudine ad avanzare ipotesi e voler spiegare, diversamente da quanti propongono piatte analisi, presunte obiettive, fatte dal punto di vista di un “osservatore” distaccato dai fatti, sono i pregi di questo libro che fonda le basi per una diversa autocoscienza occidentale, lo dico senza timore di esagerare, e che può e dovrebbe essere di stimolo per ulteriori analisi, che partano dalla stessa consapevolezza di un sostanziale declino o meglio, disfacimento del sistema occidentale.
La strage di civili di Sumy sta
diventando lo strumento per alimentare il tentativo di
ostacolare il tentativo di Donald Trump di raggiungere
un’intesa per la cessazione del
conflitto in Ucraina. Un cessate il fuoco che Zelensky e la
Ue (e diversi governi di stati membri) vedono come fumo
negli occhi nonostante i
drammatici danni umani ed economici provocati da queto
conflitto proprio a ucraini ed europei.
Due missili balistici Iskander russi hanno colpito lil 13 aprile la città di Sumy, capoluogo dell’omonima regione al confine con la Russia da dove prese il via l’attacco ucraino alla regione russa di Kursk. Secondo Kiev sono stati colpiti un filobus e molti civili presenti in strada provocando 34 morti e 119 feriti: il numero di bambini uccisi è stato corretto da 7 a 2 dal portavoce del ministero delle emergenze ucraino, Oleh Strilka.
Le reazioni
Tutti gli alleati dell’Ucraina hanno condannato fermamente gli attacchi russi, con il presidente francese Emmanuel Macron che ha affermato che la Russia stava continuando la guerra “in sfregio della salvaguardia delle vite umane, del diritto internazionale e delle offerte diplomatiche del presidente Trump “. La Russia ha commesso “un grave crimine di guerra“, ha affermato il probabile nuovo cancelliere tedesco, Friedrich Merz.
Donald Trump lo ha definito un attacco “orribile” riferendo che i russi avevano parlato di un errore mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in un post su Facebook ha affermato che “dall’inizio di aprile, l’esercito russo ha utilizzato contro l’Ucraina quasi 2.800 bombe aeree, oltre 1.400 droni d’attacco e circa 60 missili di vario tipo, compresi missili balistici”.
Quando nel 2013 Jorge Mario Bergoglio uscì dal conclave eletto papa, fu difficile negare che quella elezione, avvenuta dopo le dirompenti dimissioni di Benedetto XVI, rappresentasse un fatto epocale. In effetti, come Sun Tzu, Lao Tse e i gesuiti insegnano, l’unica guerra vinta è quella che si vince senza combattere. E la prova più attuale di ciò è stata proprio la vicenda della Compagnia di Gesù tra il 1980 e il 2013: fortemente osteggiata da papa Wojtyla, si prese la rivincita portando nel 2013 un suo uomo sul soglio pontificio (cosa mai accaduta nell’intera storia della Compagnia).
Sennonché questa affermazione si può ritenere valida da un punto di vista puramente strategico, indipendentemente dalle posizioni assunte da papa Francesco. Del quale occorre, comunque, riconoscere, fra le doti di cui era in possesso, una straordinaria sensibilità per i rapporti di forza esistenti a livello geopolitico e la capacità di individuare le congiunture critiche della storia, come dimostrano, fra le sue osservazioni quasi sempre penetranti e anticipatrici, il riconoscimento dell’esistenza di una “terza guerra mondiale che si sta svolgendo a pezzi” e l’individuazione della responsabilità per la guerra in Ucraina, dovuta all’“abbaiare” della NATO “davanti alle frontiere della Russia”.
Del resto, dal punto di vista della sensibilità per i rapporti di forza interni alla Chiesa, una persona avveduta, quale era l’attuale papa, sapeva che quando si è costretti a combattere o si vince o si perde.
Esiste una galassia di associazioni, gruppi, partiti, canali di informazione e altri soggetti che elaborano idee e posizioni contrapposte alla narrazione ufficiale a reti unificate della realtà odierna. Idee e posizioni contrapposte anche alla propaganda della destra sovranista che soffia sul fuoco dell’intolleranza e alimenta la guerra tra poveri. Gli elementi di questa galassia sono esclusi dal dibattito politico somministrato quotidianamente ai cittadini; un dibattito costretto entro la camicia di forza di polemiche da talk show, in cui i protagonisti si scontrano su questioni irrilevanti e temi fondamentali sono distorti, esclusi o presentati come bizzarrie.
Non facciamo un elenco, perché la galassia è talmente ampia che ingiustificate omissioni sarebbero inevitabili. Purtroppo, oltre che ampia, questa galassia è tanto frammentata quanto riottosa a unire le forze, come se l’identità di ciascuno dei suoi componenti sia irriducibilmente antitetica a quella degli altri.
Rappresentando una minoranza e consistendo di soggetti di piccole dimensioni, ciascuno con limiti strutturali e invalicabili di visibilità e capacità di incidere significativamente, questo atteggiamento di orgogliosa autonomia è politicamente delittuoso. Le specificità che ognuno difende saranno tutte nobilissime e fondate, ma la distanza che separa un soggetto di questa galassia dagli altri è obiettivamente molto minore da quella che separa la galassia nel suo insieme dal resto del panorama politico.
La crescita è lenta, ma la rovina è rapida (Lucio Anneo Seneca)
Quando la scorsa settimana il presidente Trump ha annunciato l'introduzione di dazi doganali sulle importazioni, molti commentatori hanno interpretato l'idea come una manifestazione di follia. Ma nella follia di Trump potrebbe esserci un metodo.
* * * *
Sta cominciando a sembrare chiaro che Donald Trump stia seguendo un piano molto più dettagliato e completo di quanto sembri da semplici slogan come “MAGA”. Chi c'è dietro al piano, chiunque essi siano, oligarchi, élite oscure o Rettiliani, si sta allontanando dal “Progetto per un nuovo secolo americano” (PNAC) dei neoconservatori (“neocon”) proposto alla fine degli anni '90. Il PNAC era un piano imperiale per il dominio del mondo, e fu quasi realizzato in termini economici: era solo chiamato con un nome diverso: “Globalizzazione”. Per diversi decenni, è stato un meccanismo che ha pompato ricchezza nell'economia statunitense dal lavoro del resto del mondo.
Il passo successivo del progetto del PNAC era il dominio militare globale, un vero e proprio impero. Era un'idea collegata a quella espressa come “dominio a tutto campo” ("Full Spectrum Dominance”). Ma si rivelò troppo costoso. Dopo una serie di tentativi falliti, dall'Iraq all'Afghanistan, fu chiaro che non era solo difficile, ma impossibile. L'economia statunitense non poteva sostenere gli enormi costi militari per occupare e controllare il mondo intero.
Molti dei tagli fiscali varati da Trump nel dicembre 2017 a favore delle corporation e delle grandi ricchezze, sono in scadenza proprio nel 2025, quindi è questione di mesi. Nello scorso anno il Congressional Budget Office, cioè l’organo istituzionale del Congresso USA per le stime di bilancio, quantificava a quattrocento miliardi di dollari all’anno la cifra necessaria per mantenere i tagli fiscali anche per il futuro. L’estensione dei tagli fiscali per i ricchi all’intero decennio prossimo costerebbe quattro trilioni di dollari. I tagli fiscali di Trump, come già quelli di Bush junior, non sono stati coperti da nuove entrate, cioè sono stati effettuati a debito. Per riuscire ad accontentare i donatori che hanno finanziato la sua campagna elettorale, Trump ha quindi bisogno di vendere titoli del Tesoro per quattrocento miliardi all’anno. In base al gioco delle parti, i democratici hanno sempre demonizzato Trump, avallando il mito del presunto populista e isolazionista, ma si sono ben guardati dal correggerne la politica fiscale.
Dato che ai ricchi non si fa mancare niente, i quattro trilioni di dollari neanche basterebbero, poiché, oltre agli sgravi fiscali, bisogna calcolare i sussidi federali e statali alle imprese. Il complesso di questi sussidi negli USA supera i centoventi miliardi di dollari all’anno, ma sicuramente la cifra è sottostimata. Dando una sbirciata all’elenco dei miracolati del Welfare per ricchi, si scoprono non soltanto i soliti noti come Boeing e Tesla, ma anche multinazionali straniere che operano negli USA, come Volkswagen.
Mentre Domani e La Stampa predicevano il collasso, The Telegraph certifica: la valuta russa supera oro e franchi. L'Occidente tra recessione ed errori strategici
Mentre i media occidentali continuavano a predire il collasso dell’economia russa sotto il peso delle sanzioni, il rublo si è trasformato nella valuta con le migliori performance al mondo nel 2025, registrando un apprezzamento del 38% rispetto al dollaro, come riferisce il quotidiano britannico The Telegraph, quindi un giornale non certo imputabile di simpatie putiniane.
Un risultato straordinario, che supera persino quello di asset rifugio tradizionali come l’oro (+23%) e lascia indietro monete quali il franco svizzero e la corona svedese.
La debolezza del dollaro e la forza della politica monetaria russa
Due fattori principali hanno trainato questa ascesa:
- Il crollo di fiducia nel dollaro, minato dalla guerra commerciale di Donald Trump, che ha destabilizzato i mercati e alimentato timori di recessione negli USA.
- La rigorosa politica monetaria della Banca Centrale Russa, che ha mantenuto tassi d’interesse al 21% per contrastare l’inflazione e sostenere l’economia di guerra, attirando capitali nonostante le restrizioni.
Sembrava una
rivoluzione: si sta trasformando nella solita vecchia zuppa
riscaldata. Alla prova dei fatti, il terremoto
Trump sembra essersi
ridotto sostanzialmente alla più prevedibile delle
strategie: l’impero in declino che dichiara guerra alla
nuova potenza emergente, a
prescindere da quanto sia pacifica; un obiettivo che
nell’Occidente suprematista sembra mettere d’accordo un po’
tutti, a partire
dai progressisti e dai sinceri democratici come Stefano
Massini. Ce l’avete presente? E’ diventato uno
dei punti di
riferimento della sinistra ZTL grazie ai suoi
monologhi a Piazza Pulita: ha passato mesi e mesi
a sfrucugliarci le palle
tessendo le lodi dei cantori del Serrapiattismo e
con invettive di ogni genere contro Trump per poi scoprire,
all’improvviso, che su
quello che conta davvero la sintonia col tycoon è totale. Ed
ecco, così, che mentre Trump dichiarava la sua guerra
commerciale per
tentare di impedire a Pechino e al popolo cinese di portare
a termine il suo processo di emancipazione anticoloniale, il
nostro agitatore culturale ha
dedicato il monologo della settimana al vero nemico del
mondo libero, del progresso e della libertà: Xi
Jinping che, come dice
Massini, non solo ha deciso che “rimarrà presidente a vita”,
ma che addirittura avrebbe imposto che “non c’è
pensiero, non c’è cosa che egli pensi o dica, che non
diventi automaticamente parte della costituzione cinese”.
Giuro eh, non
è una perifrasi: ha detto proprio letteralmente
così. Caro Stefano, te lo dico io cosa è: una
puttanata, ecco cos’è. Una puttanata di un
suprematista che pensa di essere democratico, ma è
democratico come erano
democratici i greci: democratici aspiranti proprietari di
schiavi, e quando lo schiavo si ribella si indignano e gli
danno del selvaggio. Sapesse,
contessa, non sapeva nemmeno come si apve un’avagosta…
Carissime e carissimi ottoliner, ben ritrovati; dopo essere stati un po’ frastornati dal terremoto Trump, finalmente possiamo tornare ai nostri vecchi cavalli di battaglia: la lotta senza quartiere al partito unico della guerra e degli affari al servizio dell’imperialismo e alla sua guerra, con ogni mezzo necessario, al mondo nuovo, al multipolarismo e alla grande lotta anticoloniale.
L’enorme debito pubblico
statunitense [1] così come la posizione finanziaria netta
negativa degli USA [2] che comprende lo squilibrio della
bilancia commerciale
(eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni, che è
come vivere al di sopra delle proprie possibilità) peraltro
in condizioni di
dedollarizzazione sono diventati sempre più difficilmente
gestibili. Per affrontare questa difficile situazione, Trump
tenta di prendere il
toro per le corna con la strategia dei dazi. Egli, infatti,
non intende ricorrere a un aumento della pressione fiscale
sui cittadini statunitensi ed
ha anzi chiesto al Congresso di abolire l’imposta sul
reddito. “Non abbiamo bisogno di tassare a morte la
nostra
gente”, “Dobbiamo tassare i paesi che si
approfittano di noi.” Ha perciò avanzato l’idea
di
sostituire il gettito derivante dall’imposta sul
reddito con entrate provenienti da dazi sulle merci
importate. Questo
approccio si ispira a un modello storico, quando gli Stati
Uniti finanziavano il governo principalmente attraverso i
dazi, prima
dell’introduzione dell’imposta sul reddito nel 1913.
Trump mira al suo abbattimento, come nel caso dello smantellamento dell’Usaid da parte del DOGE e, almeno nelle intenzioni manifestate, pare voler tagliare anche l’enorme spesa militare degli Stati Uniti, una somma annuale prossima al trilione di dollari, senza contare quella in campo nucleare tradizionalmente allocata nel capitolo di spesa per l’energia.
La spesa militare degli USA supera quella dei successivi dodici Paesi nella classifica mondiale. Tale spesa è divenuta ormai difficilmente sostenibile per gli Stati Uniti che hanno più di 800 basi militari, sparse in 80 diversi paesi del mondo.
Ovviamente tutto questo non basta e l’imposizione di tariffe ai paesi esportatori negli USA dovrebbe dare agli USA, nelle speranze di Trump, un altro contributo consistente. Oltretutto i dazi avrebbero dovuto avere un effetto collaterale assai desiderabile per i suoi scopi: l’abbassamento dei rendimenti obbligazionari dei titoli del Tesoro USA e con essi la riduzione del costo per interessi del debito.
Apro questo articolo sul quadro geopolitico determinato dalla comparsa di Trump, con un aggiornamento relativo ai fatti di Ucraina.
La tragedia dei 30 morti e oltre 100 feriti di Sumy, colpita, secondo quanto comunicato da Kiev, da due missili russi, è metaforicamente un ordigno nucleare piombato sui negoziati di pace avviati da Trump e Putin e ferocemente avversati da leader europei che puntano a un colossale riarmo “per difendersi dall’aggressione russa”. Che nessun russo pare immaginare, ma che è data per scontata.
Andrebbe subito precisato che, se ignoriamo la legge fuorilegge dei due pesi e due misure, che detta la linea del complesso politico-mediatico occidentale, Sumy sta a Gaza come un temporale sta a un sisma del 7° grado. La strage di un giorno contro un genocidio di 18 mesi. Quanto di orribile successo a Sumy nella Domenica delle Palme, a Gaza, e ora anche in Cisgiordania, succede ogni giorno, ogni ora. Vedere la differenza di trattamento dei due eventi e considerare l’integrità dei comunicatori. E’ brutto fare confronti, ma con quelli dei due pesi e due misure è indispensabile.
Le urla di indignazione e raccapriccio per le vittime di Sumy si accompagnano alle voci fredde e frettolose sulla normalità dell’ultimo ospedale, dei 37 rasi al suolo di Gaza, distrutto con tutte le vite dentro e che si sommano alle 180.000 vite azzerate, calcolate dalla rivista Lancet, comprendendovi scomparsi, seppelliti sotto le macerie, vittime di ferite ed epidemie.
Mentre scrivo, i due missili su Sumy trovano in Trump l’attenuante dell’“errore”. Dichiarazione evidentemente finalizzata alla salvezza della trattativa sulla fine della guerra su cui il neopresidente si è impegnato e che qualcuno, in Europa e in Ucraina, vuole impedire a tutti i costi. Il pretesto a costoro, per fare di peggio della Domenica delle Palme è stato fornito.
L’Europa di oggi è afflitta, come la Grecia antica, da disuguaglianze e fratture: si sta spegnendo perché è caduta in mano a élite scadenti, preoccupate solo della propria sopravvivenza
Con il suo folle piano di riarmo l’élite al potere in Europa Occidentale sta tentando di costruire una minaccia russa che esiste solo nei suoi deliri e che serve a nascondere la sua incapacità di giocare la vera partita, che è tutta interna all’Europa stessa.
La partita del lento e inesorabile impoverimento della sua popolazione a vantaggio di pochi privilegiati che dura da mezzo secolo. La partita della perdita dell’energia vitale del continente, sempre più isolato in un pianeta non più dominato dall’Occidente e che trabocca di voglia di emancipazione e di pace.
Il progetto europeo, concepito dopo il 1945 come reazione a due guerre mondiali che avevano portato l’Europa sull’orlo dell’autodistruzione, ha esaurito la sua spinta propulsiva.
Non è più un grande piano di pace e prosperità condivisa. Si è corrotto e ribaltato in un cupio dissolvi, in un rinnovato impeto suicida.
Che altro può essere se non un folle voto verso la morte l’attacco che l’oligarchia dell’occidente europeo sta sferrando a un’altra parte dell’Europa, la Russia, dotata di armi di distruzione di massa in grado di distruggere l’intera civiltà europea?
Mahmoud Abdel Aziz, membro della Fratellanza Musulmana di Misurata in Libia e pertanto legato da vincoli di sopravvivenza con le milizie della Tripolitania, ha così recentemente commentato gli ultimi avvenimenti in Libia, dando la sua personale ma impietosa visione delle cose e lanciando il suo grido disperato d’aiuto:
“Dobbiamo prepararci a una battaglia decisiva con il campo di Rajmah (le forze di Haftar) e queste bande. I capi di stato maggiore e i comandanti di battaglione devono prepararsi a combattere una battaglia feroce con coloro che saccheggiano le nostre ricchezze e combattere questi corrotti.
Hanno falsificato la valuta e comprato armi da ogni parte, e a Tripoli c'è silenzio. Non so perché il Consiglio presidenziale tace su quanto sta accadendo, e come può accettare le promozioni dei figli di Haftar? Non è lui il Comandante Supremo delle Forze Armate?
È strano che alcuni parlino del governo di Dabaiba nella regione orientale, ma nessuno parla dei 59 miliardi (di dinari libici, circa 10 miliardi di euro) e di dove sono finiti? La Banca Centrale della Libia ora non appartiene al governo di unità (GNU, il governo di Tripoli) e Naji Issa (Presidente della Banca Centrale Libica) deve assumersi la responsabilità, fermare gli sprechi e affrontare il campo della corruzione e della criminalità”.
Mentre i criminali delle milizie di Tripoli fanno avanti e indietro impunemente con l’Italia, gli stessi stanno diventando sempre più nervosi una volta tornati in Libia.
L’ultimo episodio venuto agli onori della cronaca e opportunamente enfatizzato dai media occidentali, il bombardamento del Centro Congressi dell’Università di Sumy a opera di due missili Iskander russi, è avvenuto – guarda caso – proprio quando si erano appena conclusi i colloqui tra il Presidente Putin e l’inviato di Trump, Steven Witkoff, tesi a creare le condizioni per una cessazione delle ostilità in Ucraina.
E stato chiarito che nell’edificio stava avvenendo una cerimonia militare di premiazione di un reparto che aveva partecipato all’invasione ucraina della regione russa di Kursk (vedi ad esempio l’articolo già pubblicato sull l'AntiDiplomatico da Marinella Mondaini). Successive dichiarazioni del Ministro russo degli Esteri Lavrov hanno precisato che nell’edificio erano presenti ufficiali ucraini e della NATO che sono stati colpiti.
Purtroppo era stata permessa la presenza di civili, in genere familiari dei militari, e inoltre uno dei due missili è stato deviato dalla contraerea in una strada adiacente, per cui vi sono state anche vittime civili. Giustamente la deputata del parlamento ucraino Marjana Bezuglaja e il sindaco di una vicina cittadina, Artem Seminichim, hanno accusato le autorità militari di aver incautamente esposto civili a un attacco dal fronte distante poco più di 20 chilometri. In realtà l’avvenimento appare come una provocazione, in cui militari e civili sono stati usati come esca per bloccare il difficile dialogo USA-Russia per il raggiungimento della pace.
Le accuse di speculazione finanziaria rivolte a Trump dai democratici durante la crisi delle borse causata dai provvedimenti sui dazi non sono false ma sono, sul piano politico, soprattutto superficiali. Se ne comprende l’obiettivo, cercare accumulare materiale per processare il presidente degli Stati uniti per insider trading, ma non fanno intravedere capacità di analisi.
Quello che sta accadendo è qualcosa di molto più profondo del semplice insider trading, l’abuso di informazioni riservate: l’amministrazione Trump ha incorporato, tra le proprie funzioni, quella della modalità hedge fund mandando in corto circuito la consolidata visione politica delle competenze governamentali. E questo non solo perché la Trump corp. vive del nesso tra settore immobiliare e finanziario ma soprattutto perché l’amministrazione Trump, oltre alle competenze della sua corporation, assembla CEO di hedge fund ai vertici apicali del tesoro e al commercio assieme alle loro sterminate filiere di relazioni e di interessi.
Per cui di fronte alle gravi criticità del debito americano l’amministrazione Trump si comporta da hedge fund consapevole di avere, sui mercati, una posizione non onnipotente ma strategica (il governo federale) adottando così una tattica aggressiva per predare ricchezza e cambiare le gerarchie del mercato.
L’ottima riuscita della piazza convocata il 5 aprile dal Movimento 5 Stelle solleva la delicata questione di un ampio fronte democratico antiliberista e per la pace
L’ottima riuscita della piazza convocata il 5 aprile dal Movimento 5 Stelle, a cui hanno partecipato anche tanti cittadini e cittadine esterni a questo partito, e diverse realtà autonome impegnate culturalmente e politicamente in una critica profonda del neoliberalismo di guerra, solleva la delicata questione di un ampio fronte democratico antiliberista e per la pace (dunque antiautoritario per eccellenza). La nostra sensazione è che sarebbe utile, a tutti i protagonisti di questa ribellione allo stato nascente, collegare i fili che uniscono l’attuale corsa al riarmo europea con le politiche di governance della pandemia/sindemia.
Per anni le polarizzazioni alimentate ad arte dai mass media e sui social, hanno impedito di mettere a fuoco la centralità simbolica e materiale di quanto accaduto nel periodo 2020-2022. In Italia, e non solo, abbiamo assistito a un esperimento poderoso di criminalizzazione del dissenso, operato in nome del “rischio zero” e della salute pubblica.
La democrazia è stata ampiamente disattivata, partendo certo da un’emergenza reale, a cui però i governi hanno risposto in maniera durissima, silenziando il dibattito e dividendo i cittadini in una maggioranza di docili esecutori degli ordini provenienti dall’alto e in una minoranza di abietti disertori da punire con la sospensione di alcuni diritti costituzionali.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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L’esistenza
della schiavitù
nell’antica Roma non impedì a Seneca di convincersi che «se
il corpo può non essere libero e può appartenere a un
padrone, l’anima resta sempre sui juris». Kant, in sostanza,
non fece un gran passo avanti rispetto a questa formula,
giacché in
lui l’autonomia della persona si combina con le concezioni
prettamente feudali del rapporto padroni-servi.
E.B. Pasukanis, La Teoria generale del diritto e il marxismo
1. Venus im Pelz come sintesi della filosofia politica e giuridica moderna. Kant e la transizione alla modernità
Leggere Kant attraverso Venus im Pelz di Leopold Sacher-Masoch, può costituire un utile esercizio di ripasso sulle modalità di costruzione del soggetto moderno, ma soprattutto sulle ragioni di una articolata produzione concettuale che nell’epoca moderna è stata essenzialmente diretta a razionalizzare l’ordine quale elemento connaturato a ciascun individuo. Se si prova a prescindere da alcuni stereotipi legati a questo testo - pellicce, fruste, amanti violenti, corde, arazzi, camini rinascimentali, ecc. - quali risaputi elementi funzionali all’appagamento di un desiderio più o meno perverso del protagonista Severin e delle sue strategie di convincimento, in grado di indurre una donna (Wanda) a diventare sua carnefice - l’occasione diventa allora quella di esplorare inevitabilmente il tema del potere, dell’autorità, del controllo, ma soprattutto della filosofia e della sua storia, da sempre indirizzate a mettere in riga il soggetto, a protocollare il suo desiderio nell’ambito di un dominio prestabilito.
Il romanzo, come è noto per chi lo ha letto, attiva in effetti una sostanziale operazione di cattura nell’ordine generale, e che, nel caso del protagonista Severin, consiste nell’impedirgli, al termine di quella «crudele catastrofe della mia vita»1, di intervenire follemente sull’oggetto (del proprio desiderio), atteso che l’ordine oramai è diventato capace di dispiegarsi automaticamente su di lui, assorbendolo completamente, senza bisogno di un impulso esterno. In tale ottica il percorso di Severin che ha inizio con un contratto (di schiavitù), al pari di quel suddito che per conservarsi la vita (da servus, servare, con-servare) cede tutti i propri i diritti a un potere sovrano, e termina con la sua risoluzione, sembra proprio illustrare l’intero tragitto effettuato dalla filosofia politica e giuridica moderna, la quale inizialmente ha operato sul lato della rappresentazione pattizia e razionale della sovranità, per poi rivolgersi su quello dei soggetti, modellando corpi da assoggettare, creando cioè una soggettività attrezzata a obbedire e a farsi disciplinare.
1. La “rivoluzione senza
rivoluzione”1:
il caso italiano
Nella primavera del 1943 gli operai di Torino presero l’iniziativa di un possente movimento di sciopero che si estese anche a Milano e a Genova, coinvolgendo più di centomila lavoratori. La sconfitta tedesca a Stalingrado, lo sbarco angloamericano in Sicilia, gli scioperi operai del Nord fanno comprendere ai gruppi dirigenti della borghesia italiana che è giunto il momento di sbarazzarsi di Mussolini e di rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Alleati. Nel contempo, il loro principale obiettivo è quello di prevenire uno sbocco rivoluzionario della crisi del regime, mentre il governo Badoglio mostra fin da subito la sua vera faccia, repressiva e antipopolare.
In una circolare governativa del governo Badoglio (definito con giusto disprezzo “governo dei Fu”) – la tristemente nota “circolare Roatta” del 26 luglio 1943 - si dànno le seguenti istruzioni, che saranno fedelmente applicate dall’esercito nella repressione sanguinosa dei moti popolari che esplosero nel periodo dei “quarantacinque giorni” (25 luglio 1943 – 8 settembre1943): «Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine […] Le truppe procedano in formazione di combattimento, aprendo il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico. Non si tiri mai in aria, ma colpire come in combattimento, e chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza contro le forze armate venga immediatamente passato per le armi.» 2
La storia subisce una forte accelerazione: i partiti antifascisti e i sindacati ritornano alla legalità, mentre si moltiplicano gli scioperi in cui si esige la liberazione dei detenuti politici. Nelle fabbriche si costituiscono per elezione le commissioni operaie (i primo organi elettivi che sorgono in Italia dopo la caduta di Mussolini). Frattanto i tedeschi che già avevano sette divisioni in Italia ne inviano altre 18, occupando di fatto il Nord e il Centro del paese senza che il governo Badoglio prenda alcuna misura difensiva.
I dazi che Trump
aveva messo contro il resto del mondo sono durati esattamente
una settimana, dopo di che sono stati sospesi per tre mesi per
avviare trattative con
quasi tutti i paesi, con l’eccezione della Cina.
Sono state proposte varie spiegazioni per questa improvvisa retromarcia, da una eccessiva reazione della Borsa, dalla pressante richiesta di trattative di quasi tutti i paesi, che Trump ha espresso a modo suo (‘vogliono tutti baciarmi il fondo-schiena’), così come naturalmente che ‘era stato tutto previsto’ (la spiegazone meno credibile di tutte).
In questo contesto di sterzate e controsterzate, per cercare di capirci qualcosa crediamo sia utile inquadrare le cose in una prospettiva di più lungo periodo.
Trump o non Trump, gli Stati Uniti si ritrovano ad affrontare due enormi problemi contemporaneamente, uno di tipo economico e uno di tipo finanziario, strettamente legati tra loro.
Come illustrato abbondantemente altrove (Maurizio Agostini, Moneta e Potere) a cinquanta anni dalla fine della convertibilità del dollaro in oro, i nodi vengono necessariamente al pettine perché senza il vincolo della convertibilità, sono state stampate dal nulla enormi quantità di dollari. Ciò ha permesso agli Stati Uniti di acquistare tutto quello che volevano nel mondo praticamente gratis. Valery Giscard d’Estaing, quando era ministro delle finanze della Francia negli anni ‘60, coniò il termine ‘esorbitante privilegio del dollaro’ che ben definisce il ruolo del dollaro nel dopo guerra. Le ragioni di questo privilegio sono legate al ruolo di leadership mondiale degli USA, al suo esercito, all’essere diventato la moneta di riserva mondiale, al ruolo del petrolio che doveva essere pagato in dollari, insomma al ‘credito’ che gli States avevano nel resto del mondo.
Quelli che seguono sono soltanto alcuni spunti di riflessione, privi di qualsivoglia pretesa di esaustività, a proposito di una tema che, negli ultimi quindici anni, è diventato in Europa di strettissima attualità1, per lo meno se si presta fede ai media e all’agenda politica dei governi, e se si considera l’adesione di ampi strati della classe media «colta» e «progressista» a questo genere discorso2. Ci riferiamo alla questione del transgender.
Notiamo, per iniziare, che non è facile affrontare in modo razionale una tematica che va evidentemente a toccare corde emozionali profonde, e che suscita perciò, in generale, reazioni viscerali di adesione incondizionata o di altrettanto sprezzante rifiuto. Ci serviremo, qui di seguito, principalmente di alcune osservazioni di Emmanuel Todd, sociologo, antropologo e demografo francese, autore di Où en sont-elles? Une esquisse de l’histoire des femmes; il quale, per l’appunto, ha il merito di osservare il fenomeno con sguardo lucido e disincantato. Ciò non significa, d’altronde, che ci asterremo dall’esprimere un punto di vista «di parte».
Ciò che risulta più sorprendente, quando si considera il «fenomeno» transgender, è la dismisura che corre tra il numero estremamente esiguo di individui che vi sono direttamente implicati – a diversi livelli di autotrasformazione: vestiario, trattamenti ormonali, interventi chirurgici –, e il fatto che essa sia assurta, per molti governi occidentali e istituzioni internazionali, a «priorità politica assoluta» (OCSE, 2018).
Re(h)Arm Europe
è il nuovo brillante piano da 800 miliari di Ursula von der
Leyen & friends per consolidare e accelerare il suicidio
dell’Europa che
conta (i debiti). Dopo i successi ottenuti dalle politiche
green e pandemiche appare saggio riproporre il medesimo schema
incentrato
sull’emergenza di turno, vale a dire la conquista del Vecchio
Continente da parte della Russia; non subito però, niente
allarmismi,
bensì a partire dal 2030: godetevi quindi i prossimi 5 anni
come se fossero gli ultimi.
Per capire meglio affidiamoci a un Q&A come fanno i top del mestiere.
Sì, basta indebitarsi, così come gli Stati Uniti insegnano per lo meno dalla grande crisi finanziaria del 2008. Lo schema è questo: più spese ---> più debito ---> inflazione galoppante ---> rialzo dei tassi (in ritardo) ---> avvisaglie di una nuova crisi ---> taglio dei tassi--->ulteriori spese e ulteriore debito per rimandare la catastrofe (vedrete, succederà lo stesso con la questione tariffaria).
Certo, per noi europei sarà più difficile senza un mercato obbligazionario comune e una valuta credibile; comunque state tranquilli, 150 miliardi ce li dà direttamente Ursula von der Leyen, mentre per gli altri 650, cari Stati Membri, dimenticatevi un Ventennio di austerità e sfondate pure i vostri bilanci.
Pare di sì, il Parlamento europeo ha votato preventivamente a favore con alcune eccezioni (i Patrioti ad esempio). E il consenso dei cittadini? Chi se ne importa, dai.
Dal n. 9/primavera 2025 di Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe riportiamo questo aggiornamento di Renato Strumia
Ha suscitato un
nutrito dibattito la recente pubblicazione del
“Rapporto mondiale sui salari 2024-2025”, una pubblicazione
a cura
dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (OIL). Lo studio
evidenzia come in Italia i salari siano scesi, in termini
reali, dell’8,7% dal
2008 ad oggi. Si rileva altresì come la perdita si
sia aggravata dalla ripresa dell’inflazione, dalla metà del
2021, e
come il recupero iniziato tardivamente, dal 2024, non abbia in
realtà ricostituito pienamente il potere d’acquisto.
Sono dati che riprendono, su scala temporale diversa, il ben noto studio dell’OCSE di qualche tempo fa (giugno 2022), che segnalava una perdita del 2,9% del salario reale dal 1990 al 2020 (unico caso tra i paesi compresi in questo raggruppamento).
Può valere la pena dunque provare a ragionare sulla storia recente per capire dinamiche e prospettive della contrattazione e del conflitto in condizioni “avverse”.
Il triennio che abbiamo alle spalle (2022-2024) è stato particolarmente impegnativo sul fronte sociale. Abbiamo subito un pesante ritorno di inflazione “da costi”, causata dal rincaro dei prezzi delle materie prime e dell’energia, conseguente al conflitto Russia-Ucraina. Su questa base si è innestata una ulteriore inflazione “da profitti”, generata dalla tendenza delle imprese ad aumentare i propri margini in misura più che proporzionale rispetto agli aumenti dei beni intermedi, oppure semplicemente approfittare della generale confusione per alzare il costo dei servizi prestati.
Di conseguenza si è verificata una significativa erosione del potere d’acquisto di salari e pensioni, incrementando il divario tra quota salario e quota profitti nella distribuzione del valore aggiunto.
Questa tendenza non è nuova e non è limitata al nostro paese, sebbene abbia raggiunto in Italia livelli particolarmente elevati, distorti e ingiusti.
Dalla Chimerica alla competizione globale: si rompe l’asse economico che ha segnato un’epoca
L’idillio è finito. Per
decenni Washington e Pechino avevano condiviso un rapporto di
interdipendenza economica senza precedenti, fondato sulla
delocalizzazione produttiva e
sul finanziamento del debito americano. Ma l’era del
matrimonio di interessi volge al termine. Le recenti
dichiarazioni di J.D. Vance, le
tensioni commerciali e l’ascesa tecnologico-industriale della
Cina raccontano la fine di un equilibrio che ha dominato la
globalizzazione post
Guerra fredda. Ecco la prima puntata di una serie di
approfondimenti di Krisis dedicati all’ascesa e al declino
della Chimerica.
Parte I – Ascesa e declino di Chimerica
«Prendiamo in prestito denaro dai contadini cinesi per comprare i beni che quegli stessi contadini cinesi producono». Con questa sintesi, il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance ha spiegato le conseguenze, per gli Stati Uniti, della cosiddetta economia globalista. Lo scorso 10 aprile, nel corso di un’intervista rilasciata a Fox News, Vance ha difeso strenuamente la decisione del presidente Donald Trump di imporre dazi (quasi) a 360 gradi, e sferrato un attacco frontale all’assetto liberoscambista in vigore ormai da diversi decenni. Vance ha spiegato che la globalizzazione si è tradotta nel «contrarre un debito enorme per acquistare beni che altri Paesi producono per noi».
La reazione cinese è giunta pressoché istantaneamente. Il portavoce del Ministero degli Esteri Lin Jian ha dichiarato che «è allo stesso tempo sconcertante e deplorevole sentire questo vicepresidente fare commenti così ignoranti e irrispettosi». Hu Xijin, ex caporedattore del quotidiano Global Times, ha invece alluso alle origini che Vance, un hillbilly (contadino montanaro, ndr) ha sempre rivendicato per affermare che «questo vero “contadino” venuto dall’America rurale sembra mancare di prospettiva. Molte persone lo stanno esortando a venire a visitare la Cina di persona».
Quelli "di sinistra", spesso intellettuali che si definiscono pure "pacifisti", abboccano come pesci all'amo della propaganda di guerra nazi-NATO-Ucraina, oggi sui morti di Sumy e ieri su quelli di Bucha, senza avere alcun dubbio dell'essere possibili oggetto di manipolazione per alimentare la fobia antirussa. Non si rendono conto che stanno in questo modo essi stessi fornendo carburante per alimentare le fiamme della presunta"guerra giusta" contro la Russia e il mondo multipolare, cioè per giustificare una nuova guerra mondiale. Ragionano con l'emotività scatenata da una comunicazione tossica che neutralizza la razionalità di giudizio e impedisce di vedere la realtà dei fatti e la manipolazione in atto. Devo purtroppo dire che gli ideatori della guerra psicologica della NATO sono proprio bravi! Riescono sempre nel loro intento di convincerci che le guerre che combattono e che fanno combattere siano giuste, che i loro nemici, Saddam - Gheddafi - Assad - Putin, ecc…, siano pericolosi dittatori e autocrati, e che sia giusto eliminarli anche esportando la nostra finta democrazia con le guerre. I "più buoni", i "pacifisti di sinistra", invece preferirebbero eliminarli in modo non violento, appunto con mezzi pacifici. Infatti hanno applaudito le rivoluzioni colorate riuscite o fallite contro i governi sgraditi all'Occidente. Non amano i sistemi politici, i valori dei popoli e delle culture orientali e comunque non liberali, in quanto li ritengono espressione di dittature antidemocratiche di autocrati che opprimono i loro popoli, che vanno quindi liberati per poter aderire finalmente ai nostri valori verso cui anelerebbero naturalmente.
Quando nel 2013 Jorge Mario Bergoglio uscì dal conclave eletto papa, fu difficile negare che quella elezione, avvenuta dopo le dirompenti dimissioni di Benedetto XVI, rappresentasse un fatto epocale. In effetti, come Sun Tzu, Lao Tse e i gesuiti insegnano, l’unica guerra vinta è quella che si vince senza combattere. E la prova più attuale di ciò è stata proprio la vicenda della Compagnia di Gesù tra il 1980 e il 2013: fortemente osteggiata da papa Wojtyla, si prese la rivincita portando nel 2013 un suo uomo sul soglio pontificio (cosa mai accaduta nell’intera storia della Compagnia).
Sennonché questa affermazione si può ritenere valida da un punto di vista puramente strategico, indipendentemente dalle posizioni assunte da papa Francesco. Del quale occorre, comunque, riconoscere, fra le doti di cui era in possesso, una straordinaria sensibilità per i rapporti di forza esistenti a livello geopolitico e la capacità di individuare le congiunture critiche della storia, come dimostrano, fra le sue osservazioni quasi sempre penetranti e anticipatrici, il riconoscimento dell’esistenza di una “terza guerra mondiale che si sta svolgendo a pezzi” e l’individuazione della responsabilità per la guerra in Ucraina, dovuta all’“abbaiare” della NATO “davanti alle frontiere della Russia”.
Del resto, dal punto di vista della sensibilità per i rapporti di forza interni alla Chiesa, una persona avveduta, quale era l’attuale papa, sapeva che quando si è costretti a combattere o si vince o si perde.
La crescita è lenta, ma la rovina è rapida (Lucio Anneo Seneca)
Quando la scorsa settimana il presidente Trump ha annunciato l'introduzione di dazi doganali sulle importazioni, molti commentatori hanno interpretato l'idea come una manifestazione di follia. Ma nella follia di Trump potrebbe esserci un metodo.
* * * *
Sta cominciando a sembrare chiaro che Donald Trump stia seguendo un piano molto più dettagliato e completo di quanto sembri da semplici slogan come “MAGA”. Chi c'è dietro al piano, chiunque essi siano, oligarchi, élite oscure o Rettiliani, si sta allontanando dal “Progetto per un nuovo secolo americano” (PNAC) dei neoconservatori (“neocon”) proposto alla fine degli anni '90. Il PNAC era un piano imperiale per il dominio del mondo, e fu quasi realizzato in termini economici: era solo chiamato con un nome diverso: “Globalizzazione”. Per diversi decenni, è stato un meccanismo che ha pompato ricchezza nell'economia statunitense dal lavoro del resto del mondo.
Il passo successivo del progetto del PNAC era il dominio militare globale, un vero e proprio impero. Era un'idea collegata a quella espressa come “dominio a tutto campo” ("Full Spectrum Dominance”). Ma si rivelò troppo costoso. Dopo una serie di tentativi falliti, dall'Iraq all'Afghanistan, fu chiaro che non era solo difficile, ma impossibile. L'economia statunitense non poteva sostenere gli enormi costi militari per occupare e controllare il mondo intero.
L’ultimo episodio venuto agli onori della cronaca e opportunamente enfatizzato dai media occidentali, il bombardamento del Centro Congressi dell’Università di Sumy a opera di due missili Iskander russi, è avvenuto – guarda caso – proprio quando si erano appena conclusi i colloqui tra il Presidente Putin e l’inviato di Trump, Steven Witkoff, tesi a creare le condizioni per una cessazione delle ostilità in Ucraina.
E stato chiarito che nell’edificio stava avvenendo una cerimonia militare di premiazione di un reparto che aveva partecipato all’invasione ucraina della regione russa di Kursk (vedi ad esempio l’articolo già pubblicato sull l'AntiDiplomatico da Marinella Mondaini). Successive dichiarazioni del Ministro russo degli Esteri Lavrov hanno precisato che nell’edificio erano presenti ufficiali ucraini e della NATO che sono stati colpiti.
Purtroppo era stata permessa la presenza di civili, in genere familiari dei militari, e inoltre uno dei due missili è stato deviato dalla contraerea in una strada adiacente, per cui vi sono state anche vittime civili. Giustamente la deputata del parlamento ucraino Marjana Bezuglaja e il sindaco di una vicina cittadina, Artem Seminichim, hanno accusato le autorità militari di aver incautamente esposto civili a un attacco dal fronte distante poco più di 20 chilometri. In realtà l’avvenimento appare come una provocazione, in cui militari e civili sono stati usati come esca per bloccare il difficile dialogo USA-Russia per il raggiungimento della pace.
L’ottima riuscita della piazza convocata il 5 aprile dal Movimento 5 Stelle solleva la delicata questione di un ampio fronte democratico antiliberista e per la pace
L’ottima riuscita della piazza convocata il 5 aprile dal Movimento 5 Stelle, a cui hanno partecipato anche tanti cittadini e cittadine esterni a questo partito, e diverse realtà autonome impegnate culturalmente e politicamente in una critica profonda del neoliberalismo di guerra, solleva la delicata questione di un ampio fronte democratico antiliberista e per la pace (dunque antiautoritario per eccellenza). La nostra sensazione è che sarebbe utile, a tutti i protagonisti di questa ribellione allo stato nascente, collegare i fili che uniscono l’attuale corsa al riarmo europea con le politiche di governance della pandemia/sindemia.
Per anni le polarizzazioni alimentate ad arte dai mass media e sui social, hanno impedito di mettere a fuoco la centralità simbolica e materiale di quanto accaduto nel periodo 2020-2022. In Italia, e non solo, abbiamo assistito a un esperimento poderoso di criminalizzazione del dissenso, operato in nome del “rischio zero” e della salute pubblica.
La democrazia è stata ampiamente disattivata, partendo certo da un’emergenza reale, a cui però i governi hanno risposto in maniera durissima, silenziando il dibattito e dividendo i cittadini in una maggioranza di docili esecutori degli ordini provenienti dall’alto e in una minoranza di abietti disertori da punire con la sospensione di alcuni diritti costituzionali.
Sul fatto che gli Stati Uniti abbiano deciso di risolvere i propri problemi (economici e di “presa egemonica” sul mondo) andando alla guerra contro la Cina, ci sono pochi dubbi. Che oltre alle motivazioni di mero interesse finanziario-commerciale stiano giocando anche ragioni di tipo ideologico-politico-strategico, invece, si parla piuttosto poco.
Questa acuta analisi del sempre attento Guido Salerno Aletta, peraltro pubblicata su una testata non sospettabile di filo-comunismo come Milano Finanza, consente di affrontare la fase che stiamo vivendo con qualche informazione in più.
Buona lettura.
* * * *
Shock and awe, colpire e terrorizzare imponendo in via generalizzata dazi mostruosi sulle importazioni americane, salvo poi sospenderli temporaneamente con l’obiettivo di dividere il fronte degli interlocutori in vista delle trattative per il riequilibrio del saldo commerciale Usa, ma isolando completamente la Cina.
Nei confronti di Pechino, l’obiettivo di Donald Trump, con i dazi che aumentano di giorno in giorno, è quello di provocarne il collasso produttivo e soprattutto quello politico: non solo le merci già ordinate dai committenti americani non devono più partire dai porti cinesi, perché nessuno sa prevedere quale sarà la misura dei dazi che verranno applicati al momento dello sdoganamento all’arrivo negli Usa, ma si deve bloccare il sistema di produzione e a ritroso l’intera catena degli approvvigionamenti.
Da “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” n. 9 (primavera 2025) riportiamo queste considerazioni di Larry
Abbiamo ricevuto questi appunti sugli Stati Uniti da Larry, un compagno ben informato. Coprono i primi due mesi del mandato di Trump. Per l’importanza che attribuiscono alle reali contraddizioni del sistema americano, ma anche per il tono che adottano, lontano da ogni magniloquenza militante, ci sono sembrati meritevoli di essere pubblicati. Un testo più completo e articolato, sarà pubblicato nel prossimo numero della rivista Temps Critiques.
[Ho deliberatamente omesso in questi appunti l’impatto di questa nuova presidenza sulla scena internazionale, un argomento vasto che meriterebbe un trattamento separato. – Ndr]
* * *
1) Gli Stati Uniti stanno vivendo una grande rivoluzione politica (non sociale o economica) , sicuramente la più importante almeno dai tempi del New Deal. Il sistema americano era già fortemente presidenziale, ma l’attuale concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo tende a ridurre gli altri organi – il Congresso, le corti, perfino la Corte Suprema – a un ruolo essenzialmente decorativo.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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L’atteggiamento del presidente
Trump riguardo ai dazi appare ondivago: in una serie
ininterrotta di dichiarazioni i dazi vengono messi, poi tolti
e rimessi ancora. Il 2 aprile, il
“giorno della liberazione” secondo la retorica trumpiana, sono
stati annunciati dazi elevati per quasi tutti gli stati
mondiali. Alla Ue
sarebbero stati applicati dazi del 20%. Qualche giorno dopo,
Trump li ha sospesi per 90 giorni, ma ha mantenuto dazi al 10%
per tutte le merci e i
dazi sull’acciaio e sull’alluminio al 25%. Inoltre, ha
innalzato i dazi contro la Cina al 145%, salvo qualche giorno
dopo esentare
dall’aumento tutta una serie di prodotti elettronici
provenienti dal paese asiatico.
La ragione di questo passo indietro sta nel fatto che Big tech, che ha appoggiato Trump, sarebbe stata penalizzata dai dazi alla Cina, visto che da lì provengono molti componenti e prodotti finiti delle multinazionali statunitensi, come l’iPhone della Apple. Inoltre, prima della pausa di 90 giorni, Barclays aveva stimato un calo di tutti i fondamentali economici. Il Pil per il terzo trimestre era previsto in contrazione dell’1,5% e nel quarto dello 0,5%, cosa che avrebbe provocato una recessione. L’inflazione sarebbe passata dal 3,4% della fine del 2024 al 4% di fine 2025, mentre la disoccupazione sarebbe aumentata.
Secondo alcuni, dentro il campo trumpiano ci sarebbe una spaccatura tra, da una parte, il segretario al Tesoro, Scott Bessent, e il segretario al commercio, Howard Lutnik, che premevano per un approccio più morbido e, dall’altra parte, il consigliere di Trump per il commercio e la manifattura, Peter Navarro, e il capo dei consiglieri economici, Stephen Miran, che hanno una posizione più dura. In particolare Stephen Miran rappresenta la vera eminenza grigia che sta dietro la politica dei dazi, avendo teorizzato il loro uso in A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System.
La decadenza degli Usa secondo Todd
La spiegazione della politica dei dazi sta nella situazione di decadenza, politica, culturale ed economica, in cui versano gli Usa.
Il
coinvolgimento dell’Unione europea nel conflitto con l’Ucraina
è stato il frutto di un rapporto tra Washington e Bruxelles
almeno
formalmente diverso da quello sviluppatosi negli ultimi tempi.
Se l’Amministrazione Biden rimarcava la presenza di solidi
legami tra Stati Uniti
e Unione europea, Donald Trump discute apertamente di un
disimpegno militare degli Stati Uniti nel Vecchio continente.
In una simile situazione l’Unione europea dovrebbe riconsiderare la sua collocazione nello scenario internazionale. Accade invece il contrario: persevera nel suo sentirsi un progetto atlantista, mira anzi a rilanciarlo attraverso la realizzazione di una difesa europea sostenuti da una vera e propria economia di guerra. Il tutto accompagnato da una ricostruzione dello scenario internazionale attraverso tinte particolarmente fosche, che costituisce il nucleo centrale della retorica su cui si reggono i propositi europei così come sintetizzati nel Libro bianco sulla prontezza alla difesa europea per il 2030 (del 19 marzo 2025, Join/2025/120 final).
Una retorica bellicista
Lo scenario ha evidentemente il suo fulcro nella minaccia rappresentata dalla Russia: avrebbe «chiaramente indicato che nella sua ottica rimarrà comunque in guerra con l’Occidente», motivo per cui, se le «sarà consentito di conseguire i suoi obiettivi in Ucraina, la sua ambizione territoriale si spingerà oltre». Minacciosa è anche la Cina, non solo perché è un Paese «autoritario e non democratico», ma anche perché mira alla supremazia in ambito economico e tecnologico e perché «sta rapidamente ampliando la capacità militari comprese quelle nucleari, spaziali e informatiche». Ma pure il Medio Oriente pone problemi, se non altro per il «legame diretto dell’Iran con la Russia», e lo stesso vale per l’Africa pensando alle sfide che derivano dalle pressioni migratorie, dal terrorismo e dalle conseguenze delle crisi climatiche. Non mancano infine le «crescenti minacce ibride», comprendenti «attacchi informatici, sabotaggio, interferenze elettroniche nei sistemi globali di navigazione e satellitare».
Nel suo libro
“Sul filo rosso del tempo” (Multimage Editrice, Firenze, 2024)
l’autrice Alessandra Ciattini intraprende un percorso di
analisi
della condizione umana focalizzando la sua attenzione sui tre
assi portanti dell’ideologia, della religione e della
femminilità, visti
nel loro dialettico intrecciarsi e compenetrarsi. Ciascuno dei
tre temi poi è sviluppato sotto un triplice profilo, a partire
dalle sue radici
naturalistiche, passando per la sua evoluzione storica, per
giungere ai suoi rapporti d’interdipendenza con l’attuale fase
tardo-capitalistica e col suo corrispettivo ideologico, il
post-modernismo, descritto nelle sue varie sfaccettature.
Le tesi esposte da Marx ed Engels nell’”Ideologia tedesca” già precorrono nelle loro linee fondamentali le attuali concezioni neuroscientifiche riguardanti lo sviluppo evolutivo dell’autocoscienza razionale in quanto tratto caratteristico della specie umana.
Quando i due autori parlano infatti dei bisogni materiali che condizionano e su cui è costruito il pensiero, il quale poi a sua volta si rovescia nella prassi del lavoro produttivo che trasforma l’ambiente naturale, colgono quell’aspetto fondamentale dell’evoluzione che vede nella manualità, frutto della stazione eretta dei nostri antenati confinati nella savana, come il presupposto dello sviluppo cerebrale che poi retroagisce dialetticamente sulla manualità stessa, affinandola e indirizzandola verso modi di produzione sempre più aderenti nel loro succedersi storico alle condizioni ambientali man mano emergenti.
L’ideologia, dunque, non può essere vista riduzionisticamente come un mero prodotto delle condizioni materiali (economicismo), ma neppure come un processo immateriale staccato dalla realtà corporea e sociale dell’essere umano (culturalismo).
L’attenzione degli osservatori economici italiani è di solito attirata dalla Relazione e dalle Considerazioni che il governatore della Banca d’Italia presenta a fine maggio. Meno attenzione viene prestata invece al Bilancio annuale, appena presentato dalla Banca. Esso non è un arido documento contabile, ma lo specchio fedele, compilato con particolare cura da via Nazionale, delle sue attività nel sistema monetario europeo. Una caratteristica dell’Eurosistema è la sua decentralizzazione pro-quota, ovvero secondo “chiave capitale” che è la quota di partecipazione di ciascuna banca centrale al capitale della BCE in funzione della dimensione economica del Paese. Nello Stato patrimoniale della Banca troviamo (all’attivo) i titoli che, pro-quota, la Banca ha acquistato nei dieci anni trascorsi nell’ambito del cosiddetto quantitative easing, a fronte dei quali (nel passivo) vi sono le “riserve” che la Banca ha emesso a favore delle banche commerciali per pagarli (in tal modo la nostra banca, a cui abbiamo ordinato di vendere Buoni del Tesoro può accreditarci il corrispettivo nel nostro deposito).
Nell’attivo troviamo anche i prestiti di riserve che le banche centrali effettuano a favore delle banche commerciali, le quali le desiderano per ottemperare alla “riserva obbligatoria” (molto piccola peraltro, 1% dei depositi), per effettuare i pagamenti ad altre banche (per eseguire un nostro bonifico verso un'altra banca, per esempio), come safe asset per rispettare le regolazioni finanziarie, o semplicemente per sicurezza. Le riserve delle banche giacciono in particolari conti correnti presso la banca centrale.
Non mi piace commentare l’attualità, e cosa è più attuale della morte di un papa. Lo farò ricordando una delle cifre del suo pontificato, che non fu ‘progressista’ pure essendo moderno, e che fu inattuale pur nella continuità alla tradizione. D’altra parte c’è un solo modo di essere in una tradizione, sceglierla. E scegliere entro di essa cosa considerare attuale. Bergoglio nel 2015 pubblicò l’enciclica “Laudato sì”, esplicitamente ispirata a San Francesco. Nello stesso anno, ormai lontano da noi due lustri, nel mio blog ne feci un commento che qui riproduco senza modificare:
Vi viene tematizzato il nodo costitutivo della modernità occidentale (allora sentivo meno la necessità di precisarlo) nella sua insopprimibile ambivalenza: la disponibilità a servire due padroni che descrivevo come “la ricerca della libertà e dell’emancipazione dell’uomo dai limiti della sua natura, sia - e insieme l’ambizione a essere potere verso essa e verso l’uomo stesso”. Un’ambivalenza che il papa, in questo entro la tradizione e riscrivendone gli accenti, accusava senza esitazioni. E’ la medesima accusa che lo ha portato negli anni a prendere posizioni scomode sulle tante avventure dell’Occidente (ricordo la sua formula dell’ “abbaiare della Nato alle porte della Russia” come concausa della guerra).
Per Bersani “il governo si è inchinato alle richieste degli Usa”. Vero o falso? Vero, ma quanta invidia in quella frase, quanti rimpianti per i bei tempi andati, quando a inchinarsi erano loro! Resta il fatto che la “sovranista” Meloni ha svenduto tutto quello che c’era da svendere, esattamente come hanno sempre fatto anch’essi, gli anti-sovranisti asserviti alla Nato e a Bruxelles.
La “Dichiarazione congiunta dei leader di Stati Uniti e Italia”, leggibile sul sito della Casa Bianca, ma non su quello di Palazzo Chigi, non lascia spazio a dubbi. In cambio di un ipotetico ruolo politico di “pontiera”, verso un’Unione Europea che quella funzione peraltro non le riconosce, Meloni ha mollato su tutto: armamenti, energia, detassazione dei giganti del web, intelligenza artificiale.
Su una sola questione ha tenuto il punto. Esattamente quella dove sarebbe stato meglio il contrario, l’Ucraina. Ma il servilismo di questa “sovranista” da operetta è a tutto tondo: verso gli Usa, ma anche verso la Nato e la Ue. E se Usa e Ue vivono un momento complicato, meglio leccare un po’ qui e un po’ lì. C’è chi la considera alta politica, mentre è solo miserevole galleggiamento.
Ma vediamo alcuni passaggi cruciali della Dichiarazione Trump-meloniana.
Alice Weidel è la co-presidente del partito di nazionalista di destra tedesco AFD. La co-presidente è notoriamente lesbica e convive con la produttrice cinematografica Sarah Bossard con cui ha adottato due bambini. La sua carriera l’ha vista lavorare per istituzioni capitalistiche del calibro della Goldman Sachs. Donne con orientamento affettivo omosessuale nell’Europa atlantista sono a capo dei partiti sia di destra che di sinistra. Non si può non essere soddisfatti del superamento di taluni pregiudizi verso categorie di persone che hanno subito lungamente ingiuste sofferenze e discriminazioni. Eppure il sospetto è che si usino le persone omosessuali da parte dei partiti per legittimarsi dinanzi al popolo con fini differenti: a destra per liberarsi dall’onta del passato razzismo, a sinistra per occultare i diritti sociali e farsi portavoce dei soli diritti civili. In entrambi i casi le persone omosessuali sembrano un mezzo da usare per autolegittimarsi con la complicità delle stesse. In una società a misura di essere umano le persone sono “fini e mai mezzi”. Nel caso della sinistra, dopo la svolta liberale e liberista, essa si è trasformata nella sovrastruttura del sistema capitalistico, ovvero è parte di un dispositivo di eliminazione di ogni vincolo etico o religioso in modo da favorire e sostenere il consumismo e l’idolatria dei desideri individuali, questi ultimi sono divenuti “diritti”, e naturalmente il mercato ringrazia, in quanto è pronto a soddisfarli. I diritti sociali sono nel dimenticatoio, essi devono essere rimossi e pensati dagli elettori come un limite alla libertà, dato che gravano sulla spesa pubblica, per cui sono uno spreco.
Segnali contraddittori continuano ad arrivare dal fronte diplomatico russo-ucraino, con l’amministrazione Trump che evidenzia sempre più segnali di impazienza di fronte alla fermezza di Mosca e alle resistenze di Kiev ad accettare un accordo per mettere fine alla guerra che, inevitabilmente, si prospetta ben poco vantaggioso. A Londra doveva andare in scena mercoledì un vertice cruciale tra i sostenitori di Zelensky per discutere di quella che la Casa Bianca ha presentato come l’offerta “finale”, concordata presumibilmente nei giorni scorsi con il Cremlino. Dopo la rinuncia già annunciata ieri del segretario di Stato USA, Marco Rubio, e dall’inviato del presidente, Steve Witkoff, il summit è alla fine sostanzialmente saltato, con gli organizzatori che lo hanno “declassato” a un incontro tra funzionari di rango più basso dei governi partecipanti.
Ciò di cui si sarebbe dovuto discutere era in pratica in quali forme e modalità l’Occidente e l’Ucraina incasseranno la sconfitta definitiva, anche se si sta cercando in tutti i modi per rinviare ulteriormente l’appuntamento con la realtà dei fatti. La delegazione inviata da Zelensky a Londra sembrava infatti intenzionata a cercare di prendere tempo e convincere Washington ad adoperarsi per una tregua di un mese, rimandando le decisioni cruciali in grado di gettare le basi per la conclusione definitiva della guerra. A essere decisive potrebbero essere così le prossime decisioni di Trump, soprattutto se la minaccia di abbandonare semplicemente la causa ucraina dovesse alla fine concretizzarsi.
Pubblichiamo la trascrizione completa dell'intervista al generale Fabio Mini del 4 aprile uscita in anteprima esclusiva per i nostri abbonati
Il 18 aprile esce il suo libro
sulla
NATO. Come giudica l'atteggiamento di Trump nei confronti
dell'Alleanza?
Questo è un periodo di crisi, anche per la NATO, e potrebbe
anche peggiorare. Guardando l'organizzazione e le sue recenti
decisioni, vorrei
sottolineare che, finché ci sono stati Stoltenberg e Biden, la
NATO era completamente schierata contro la Russia e si
dichiarava pronta alla
guerra. Nel mio libro "La NATO in guerra" (ed.
Dedalo, NdR) ho cercato di analizzare come mai la NATO si sia
degradata rispetto
all'idea iniziale di Alleanza Atlantica. L'organizzazione è
diventata un'istituzione prettamente bellica,
orientata verso un
nemico specifico, non ipotetico. Durante l'ultima sessione del
vertice di Madrid nel 2022, la NATO ha riconosciuto la Russia
e il terrorismo come
nemici attuali e imminenti. Questo era l'atteggiamento quando
Rutte è intervenuto, e Trump non aveva ancora preso il
controllo degli Stati
Uniti.
Dopo che Trump ha iniziato a negoziare con Putin, Rutte è
rimasto tranquillo e non ha alimentato le tensioni in modo
pubblico e plateale. Secondo me, sta facendo un lavoro simile
a quello di Stoltenberg, ma in modo più discreto. Questo
dimostra che la NATO
è ancora dietro queste iniziative, sostenute da paesi come la
Francia e la Gran Bretagna, che ora vogliono unire le forze.
Alcuni
sognano un esercito europeo, ma si rendono
conto che attualmente non esiste un'Europa in grado di avere
un proprio esercito. Se la
prendono con il fatto che si spendono molti soldi per riarmare
i paesi, sostenendo che questo creerà un esercito efficiente
contro la Russia.
Secondo me, questo è un discorso sbagliato. 27 eserciti non
fanno un esercito europeo, e 32 ancora meno. Penso che la NATO
debba essere
riformata dal punto di vista istituzionale: bisogna
rivedere il trattato e alcuni punti, ma non distruggere tutto.
La NATO non è solo
il Trattato del Nord Atlantico, è anche un'organizzazione
importante: dal punto di vista militare, escludendo la parte
politica, la NATO
è senza pari.
La storia
dell’espansionismo statunitense è incentrata sui territori
e possedimenti
d’oltremare che gli Stati Uniti, nel corso degli anni,
hanno colonizzato, controllato e cercato di nascondere a
se stessi e agli altri. I
resoconti trionfalistici dell’ascesa degli Stati Uniti
allo status di superpotenza di solito iniziano con la
Seconda guerra mondiale: Pearl
Harbor risvegliò il gigante dormiente per salvare il mondo
dal fascismo. Ma se gli Stati Uniti avevano dormito, si
trattava solo di un breve
pisolino dopo un vigoroso allenamento. Dall’inizio del XIX
secolo fino al XX, gli Stati Uniti crearono un vasto
impero d’oltremare, che
crebbe fino a includere Filippine, Porto Rico, Guam,
Hawaii, Alaska, la Zona del Canale di Panama, le Isole
Vergini americane e le Samoa americane,
comprendendo milioni di sudditi coloniali. Il dominio
imperiale degli Stati Uniti è stato caratterizzato in vari
momenti da negligenza,
razzismo paternalistico e brutali campagne militari. Un
libro recente cerca di disvelare e spiegare, più che
condannare, l’impero. E
così facendo, ci aiuta a comprendere meglio la politica
estera e militare statunitense nel passato, nel presente e
nel futuro.
* ** *
Durante un recente viaggio a New York motivato dal desiderio di passare un po’ di giorni insieme a mio figlio, sua moglie, i due nipotini e la compagna della mia vita che ormai da anni vivono, studiano e lavorano lì, ho passato una (piccola) parte del mio tempo in alcune grandi librerie, come Strand e Barnes & Noble, alla ricerca di libri da leggere in questi mesi primaverili.
A 80 anni dalla fine della Seconda guerra
mondiale si torna a parlare di un
fenomeno politico sociale ormai scolorito, e il tentativo di
rinvigorirlo appare in tutta la sua nudità: un falso storico,
ovvero una patacca,
venduto al popolo come una medaglia d’oro. Parliamo di quella
definizione che va sotto il nome di resistenza partigiana
italiana
e che si commemora il 25 aprile di ogni anno.
Non si scandalizzino, lor signori, se usiamo il termine «patacca», perché una mistificazione venduta per 80 anni non diviene platino inciso, proprio perché la verità è come la tosse, non la si può trattenere troppo a lungo e alla fine esplode in tutta la sua forza.
Cosa fu realmente quel movimento “nazionale” che va sotto il nome di resistenza? Come nacque, chi vi aderì, e cosa si proponeva? Sono queste le domande a cui dovremmo cercare di rispondere per capire la natura vera – non quella contrabbandata – di un movimento sociale composito che si incominciò a sviluppare sul finire della Seconda guerra mondiale contro il nazismo germanico e – di riflesso – contro il fascismo e la Repubblica sociale che si era insediata a Salò come estremo tentativo di difendere l’alleanza colonialista con la Germania contro un colonialismo maggiore in ascesa, ovvero quello angloamericano.
Succede – come sempre nella storia – che se vai avanti vieni seguito, come dire vinciamo noi, viceversa, se vieni sconfitto, beh, paghi tu per la sconfitta. Il fascismo italiano pagò per essere stato sconfitto da potenze maggiori e in ascesa. In sostanza il 25 aprile ricorre la celebrazione della “liberazione” piuttosto che della “resistenza”. Ma liberazione da cosa? Una liberazione il cui scopo ultimo era quello di sottrarre l’Italia dal ruolo di paese sconfitto nel tentativo di un blocco imperialista minore di competere contro quello maggiore e straripante, per ben continuare a rivendicare un posto alla tavola dei banditi delle maggiori potenze democratiche contro i popoli colonizzati. Siamo all’abc della storia.
Gli ultimi vent’anni di pontificato credo abbiano delineato un quadro in cui traspare il declino dell’influenza internazionale del papato di Roma.
I due ultimi pontefici hanno tentato strade complementari, in parte opposte, per conferire nuova centralità alla chiesa cattolica.
Papa Benedetto XVI, nei suoi otto anni di pontificato (2005-2013) ha tentato di percorrere una strada di consolidamento dottrinale con ripristino di alcuni fattori tradizionali. Su questa strada “tradizionalista” ha incontrato resistenze tali nell’entourage vaticano da condurlo all’inaudito passo di un abbandono in vita del soglio pontificio. Il gesto di Benedetto si voleva emblematico, ammonitorio.
Il riferimento al fondatore del principale ordine monastico, San Benedetto, era stato inteso da Ratzinger come auspicio e ispirazione di una “rinascita” del mondo occidentale, proprio come i monasteri benedettini ne erano stati la matrice all’indomani del collasso dell’impero romano (la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augustolo è del 473 d.C., la composizione della regola benedettina è del 525 d.C.). Quell’auspicio e quell’ispirazione sono naufragati. I papi, come i sovrani del passato, non governano mai da soli, ma hanno bisogno di un intorno funzionale, una “corte”, un “apparato” efficienti e aderenti alla “missione”, per poter tradurre il proprio magistero in costumi e istituzioni. E quell’intorno è risultato inadeguato al compito di tradurre il magistero di Ratzinger.
Lo cantava Claudio Lolli ne La socialdemocrazia, mentre Valerio Evangelisti diceva che il nemico non è quello al tuo fianco. E neppure quello che hai di fronte aggiungo io. Il nemico è quello che sta sopra di te, che ti manda a combattere, mentre a casa la tua famiglie vive nelle ristrettezze dell’economia di guerra. La questione è sempre la stessa: o guerra imperialista, tra potenze del capitale o lotta di classe. E in quest’ultimo caso il pacifismo può essere un atteggiamento politico utile per lo sviluppo di un movimento della guerra, che però diviene risolutore se si vanno ad attaccare le strutture e le infrastrutture militari del nemico.
Evangelisti cita che ne l’Internazionale, nella sua versione francese, c’è l’esortazione a sparare ai propri ufficiali. E’ esattamente questo: l’antimilitarismo è molto di più del pacifismo, perché la pace c’è quando finisce la guerra e quando c’è la guerra la devi combattere. Solo che non la combatti per i tuoi padroni e per un governo asservito alla potenza dominante che ha fatto del tuo paese un protettorato e della popolazione carne da macello.
E allora alla guerra occorre rispondere con la guerra: guerra alla guerra. Certo, trattasi di una guerra diversa da quella delle cannoniere, ma sempre guerra è se si diserta, se si boicotta, se si sciopera, se si mettono in atto azioni di sabotaggio, se poi nelle condizioni soggettive e oggettive favorevoli si passa alla guerriglia o a un esercito di liberazione popolare.
Alzando l’età media dei partecipanti ho assistito di recente a un dibattito aperto sulla guerra in Ucraina organizzato da un collettivo studentesco di estrazione cattolica. Ai brevi interventi dei relatori (un noto reporter e la ricercatrice di un prestigioso ateneo) sono seguite osservazioni e domande.
“Zeitgeist”, la relatrice faceva un ricorso ostentato del termine e così, dopo la conclusione dell’incontro, ho chiesto a due dei presenti se fossero a conoscenza del suo significato. Come mi aspettavo la risposta è stata negativa. Dacché entrambi laureati a pieni voti e per di più dottorandi, ho pensato che la maggior parte degli altri versasse in analoghe condizioni. Del resto, c’è poco da stupirsi o scandalizzarsi se oggi la conoscenza delle lingue straniere si limita all’inglese; gli americani ci “fregavano” già ai nostri tempi con la lingua (Guccini di “Statale 17”). Gli anglicismi appartengono allo Zeitgeist (almeno in questa parte di mondo) e fin qui poco male, se a ciò non si accompagnasse uno sprezzo del ridicolo che per qualcuno è un carattere senza tempo. Giorni or sono in un talk televisivo un politico di lungo corso ha detto di voler lanciare un “bridge” all’interlocutore... Ma lasciando perdere gli americani, che di colpe ne hanno già abbastanza, siamo capaci di violentare da soli la lingua di Dante, credendo di impreziosirla con parole come “resilienza” “da remoto” ecc...
“Nessuno può servire due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete seguire Dio e mammona”. Non si può seguire al contempo il Dio dei cieli e il dio denaro (Mammona, secondo la tradizione religiosa cananea), ossia il profitto, il guadagno e la ricchezza. Così prescrive il Nuovo Testamento (Matteo, 16,13), e così ha predicato Jorge Maria Bergoglio, che aveva scelto non per caso il nome di Francesco per il suo pontificato, per la prima volta nella storia del papato: il nome di San Francesco d’Assisi, il frate che, nel XIII secolo, predicò la povertà, la pace e la cura del “creato”.
La sua voce, già flebile per la malattia polmonare che lo affliggeva, si è spenta il 21 aprile, dopo un ultimo messaggio urbi et orbi, pronunciato per Pasqua in Piazza San Pietro. Aveva 88 anni. Il Conclave lo aveva eletto come 266mo papa il 13 marzo del 2013 raggiungendo la prevista maggioranza di due terzi alla quinta votazione: il primo pontefice latinoamericano, nato a Buenos Aires il 17 dicembre del 1936, figlio di immigrati piemontesi, e membro della Compagnia di Gesù.
Il suo pensiero non era affine a quello della teologia della Liberazione, che ha posto al centro della riflessione i valori dell’emancipazione sociale e politica dei poveri a partire da un’analisi di stampo marxista. Pur riconoscendone “gli apporti significativi”, Bergoglio ne criticava “le devianze” ideologiche e l’incapacità di riformulare, dopo il crollo del “socialismo reale”, una nuova creatività radicale.
Nel pieno della guerra commerciale che si combatte a colpi di dazi, un’altra battaglia si affronta tramite stoccate in punta di veline e di documenti ufficiali. La Casa Bianca ha trasformato il sito istituzionale Covid.gov, un contenitore di notizie su test e vaccini Covid, in una lavagna digitale da guerra fredda, facendone una pagina intitolata Lab Leak: The True Origins of Covid-19. Per cinque anni, come abbiamo evidenziato spesso su L’Indipendente, la teoria dell’origine artificiale del SARS-CoV-2 è stata liquidata come “complottista” – con i media di massa schierati fin da subito a sostegno dell’ipotesi dell’origine naturale – finendo, con la complicità delle Big Tech, per essere censurata dai social dietro la pressione dell’intelligence e dell’amministrazione Biden.
In un periodo di elezioni, qual era il 2020, la politica è entrata a gamba tesa contro la ricerca della verità: sostenere la tesi della fuga dal laboratorio di Wuhan sarebbe stato un punto a favore di Trump. Ora, il vento è cambiato, il tycoon è tornato a Washington e ha intenzione di smantellare l’informazione dominante, non senza lesinare attacchi ad personam ai suoi vecchi e nuovi nemici. Con Trump di nuovo in sella e armato di tutto punto per la sua crociata contro il Deep State tecnosanitario, si segna un cambio di rotta, con il sostegno alla teoria dell’origine artificiale del virus, presentata dal sito della White House come la spiegazione più plausibile per l’origine della pandemia.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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In
occasione della ricorrenza della nascita di Lenin, a 155
anni dal 22 aprile 1870, cogliamo
l’occasione per rendere omaggio al rivoluzionario che
tentò l’assalto al cielo portando alla vittoria la
Rivoluzione bolscevica che
realizzò la prima esperienza di socialismo reale della
storia.
A testimonianza dell’attualità di Lenin, scegliamo di approfondire la “paternità leniniana” dell’anticolonialismo bolscevico, ricostruendo per sommi capi il processo di elaborazione teorica sulla questione nazionale e coloniale, dagli inizi del 1900 fino agli anni immediatamente successivi alla rivoluzione. È in questi anni, infatti, che Lenin sviluppa quelle coordinate teoriche che forniranno da bussola per tutto il movimento comunista internazionale nel suo complesso, lungo tutto il corso del Novecento, fino ancora a oggi.
Su quest’aspetto rimandiamo alla prima sessione del forum organizzato dalla Rete dei comunisti: “Elogio del Comunismo del Novecento”, svoltosi a Roma, il 4-5-6 ottobre 2024, di cui è disponibile la registrazione audio-video degli interventi, nonché la pubblicazione cartacea degli atti che è in corso di presentazione in differenti città italiane.
Di fronte all’attacco sistematico dell’Occidente imperialista nei paesi del Sud globale, di fronte al genocidio in Palestina e all’escalation bellica promossa dall’Unione Europea, l’eredità teorica leniniana, che allora costituiva l’unico argine alla Prima guerra mondiale, torna oggi materia viva con cui affrontare le sfide del presente.
“Putin deve
perdere in
Ucraina”.
“Non è il
momento di negoziare, Kiev può vincere la
guerra e vincerà”.
Boris Johnson, primo ministro britannico, 30 maggio e 26 giugno 2022
“Penso di aver raggiunto un accordo con la Russia. Dobbiamo raggiungere un accordo con Zelensky … ma finora è stato più difficile”.
Con queste parole il presidente statunitense Donald Trump ha sintetizzato nella tarda serata di ieri (ora europea) la situazione al termine di una giornata convulsa caratterizzata dal rinvio degli incontri previsti a Londra per la pace in Ucraina a livello di ministri degli Esteri a causa delle profonde divergenze tra l’Ucraina e gli alleati occidentali circa il piano di pace proposto dagli Stati Uniti.
Il Foreign Office ha precisato che si è tenuto comunque un incontro a livello inferiore e che “i colloqui a livello ufficiale proseguiranno” ma il fallimento del summit è apparso a tutti evidente dopo che il Segretario di Stato americano Marco Rubio e l’inviato speciale della Casa bianca Steve Witkoff avevano annunciato nella mattinata di ieri che non sarebbero andati a Londra.
Decisione assunta, secondo il New York Times, in seguito alle dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che aveva chiarito che Kiev “non riconoscerà legalmente l’occupazione della Crimea” da parte dei russi.
Nei giorni scorsi Rubio aveva dichiarato che gli Stati Uniti erano pronti ad abbandonare i negoziati se non ci fossero stati progressi tangibili verso una soluzione della crisi. Dopo il forfait di Rubio anche i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno annullato il viaggio a Londra.
A spiegare implicitamente le ragioni del fallimento del summit ha provveduto la Presidenza francese con un comunicato che spiega che “il rispetto dell’integrità territoriale e della vocazione europea dell’Ucraina sono esigenze molto forti degli europei” aggiungendo che “l’obiettivo resta quello di costruire un approccio comune che gli Stati Uniti potrebbero presentare ai Russia“.
C’è del metodo nella follia di Trump, che con i dazi punta a riconquistare il baricentro dell’economia e della politica mondiale. La consonanza ideologica con la nostra Presidente del Consiglio non ci aiuterà. L’Europa deve rendersi indipendente dal disegno USA spezzando il sistema di guerra che gli è proprio e aprendosi al Sud Globale
Che il viaggio a Washington
della presidente Giorgia Meloni potesse portare a
risultati concreti sul fronte della guerra commerciale era
davvero difficile pensarlo, specialmente
dopo che la proposta di “zero dazi” tra USA e Europa era
stata respinta nettamente dall’Amministrazione
statunitense e ribadita al
Commissario europeo per il commercio, Maros Sefcovic. Allo
stesso tempo supporre che Donald Trump potesse assumere
posizioni sostanzialmente diverse
da quelle brutalmente aggressive, appena temperate dalla
tregua dei 90 giorni, per di più alla vigilia di
importanti riunioni del Fondo
monetario internazionale e della Banca mondiale era
altrettanto impensabile. Oltre tutto la natura della
visita della Meloni era stata messa in dubbio
da più parti, se si trattava di una missione per conto
della UE – non bastavano le telefonate con Ursula von der
Leyen per accreditarla
– o di un bilaterale Italia-USA, come i suoi fedelissimi
nel Governo italiano avevano prudentemente detto alla
vigilia della su partenza.
Cosicché l’incontro si è svolto in un’aura di
indeterminatezza che in fondo faceva comodo alla Meloni,
potendo in questo
modo vendere nel modo più favorevole qualunque tipo di
esito, evitando le strette di una valutazione sui
risultati concreti, avendo avvolto nel
fumo gli obiettivi di partenza. La risposta di Trump
all’invito a venire a Roma è rimasta indeterminata nei
tempi e negli scopi e,
secondo la stessa Meloni, non si sa se in quel caso
intenderà farne sede di trattativa con la UE. Non a caso
l’incontro con la stampa
italiana, previsto prima della partenza da Washington, è
stato sconvocato e la Meloni ha risolto con un whatsapp
che definiva, in
termini del tutto rituali e burocratici, l’incontro con il
Presidente USA come un “confronto ideale e costruttivo”.
Il timore di una brusca accoglienza da parte di Trump è stato volutamente ingigantito per potere poi presentare come una vittoria i sorrisi e le parole di encomio che Trump non ha lesinato alla ospite italiana. Anche qui non c’è da stupirsi, dal momento che la Meloni poteva vantare un feeling di vecchia data con The Donald, avendolo sostenuto nelle sue accuse di brogli elettorali nel 2020.
“Il presidente Trump è entrato in carica promettendo di svincolare l’esercito americano dalle sue costose guerre senza fine in Medio Oriente. Dopo tre mesi, è coinvolto nello stesso tipo di campagna militare senza fine che ha afflitto i suoi predecessori e che potrebbe portare a una guerra più ampia contro l’Iran”. Così W. J. Hennigan sul New York Times sulla brutale guerra contro lo Yemen.
“L’esercito, impegnato in una controversa missione per fermare gli attacchi degli Houthi provenienti dallo Yemen contro le navi commerciali nel Mar Rosso, sta accumulando sempre più potenza di fuoco nella regione […]. Si tratta di un’operazione in cui gli Stati Uniti non solo non sono riusciti finora a ripristinare il traffico regolare attraverso la rotta marittima che collega l’Oceano Indiano al Mediterraneo attraverso il Canale di Suez, ma che ha anche spinto l’amministrazione Trump in una spirale vorticosa con prospettive di escalation dalla quale, più passano i giorni, più sarà sempre più difficile ritirare l’esercito americano”.
“Si considerino le spese: due gruppi d’attacco di portaerei, la cui operatività costa circa 6,5 milioni di dollari al giorno ciascuno, sono ancorati al largo delle coste dello Yemen. Bombardieri B-2 invisibili, progettati per bombardare l’Unione Sovietica e che costano circa 90.000 dollari ogni ora di volo, hanno condotto diversi attacchi aerei”.
Mi capita di incontrare persone del ceto medio, anche molto cortesi e istruite, capaci per certi aspetti di esibire una certa umanità nei confronti dei consimili, che d’improvviso mi fanno gelare il sangue nelle vene, pronunciando espressioni relative al genocidio di Gaza di chiara approvazione della carneficina in corso, anche dell’omicidio dei bambini:
“Beh poi crescono e divengono terroristi”.
Mi sembra evidente che l’umanità sia destinata a ripetere i propri crimini. Gli ebrei venivano considerati ladri e persone infami, non potevano indurre a compassione. Ugualmente i bambini di pochi anni trucidati da Israele non possono ispirare alcuna pietà, appartenendo essi alla categoria subumana dei terroristi.
La barbarie avanza. Il noi e il loro ritorna prepotente. Il cattivo di turno è cangiante, ora islamista, ora russo, ora palestinese. C’è sempre una buona ragione per escluderlo, demonizzarlo, massacrarlo.
È vero, a Gaza i bambini sopravvissuti agli stermini israeliani hanno buone chances di combattere Israele con la lotta armata. Non vi sono canali politici. Difficile combattere una potenza occupante con altri metodi. Craxi e Andreotti avevano compreso come soltanto la fortuna permettesse ad alcuni di essere rispettabili cittadini e trasformasse altri in criminali.
Non si stancavano di ammettere che se fossero nati in una prigione a cielo aperto, sarebbero divenuti anch’essi terroristi.
La razionalità vorrebbe che al fine di eliminare il pericolo terrorista si cancellassero le sue cause profonde in Palestina. Sarebbe essenziale porre fine all’assedio di Gaza, all’occupazione illecita della Cisgiordania.
L'agonia della democrazia italiana è alimentata da politiche emergenziali che si susseguono senza soluzione di continuità. Una politica emergenziale ha bisogno di un apparato propagandistico che la maggioranza del giornalismo è sempre stata pronta a fornire. L'impressione è che neanche ci fosse bisogno di chiederglielo.
Lasciando da parte considerazioni usurate e facili da pervertire ("La storia serve a non ripetere gli stessi errori", "La qualità dell'informazione determina la qualità di una democrazia") vorrei solo ricordare che prima della crisi pandemica, ormai quasi dieci anni fa, un tweet di Roberto Burioni o uno di Walter Ricciardi bastava a fare una notizia, così come trenta anni fa un entomologo era diventato l'esperto di OGM per eccellenza. Più che nel cercare le fonti il giornalismo italiano ha una lunga storia nel crearsele su misura, conformi all'hype del momento. È il meccanismo di creazione dei "competenti" nel sistema mediatico italiano - e in automatico chi non si allinea all'hype, indipendentemente dalle sue qualifiche, per magia diventa "non competente". Le eccezioni sono rare.
In ragione di tutto ciò, dall'esterno, non stupise che il lavoro di Serena Tinari sui metodi del giornalismo di inchiesta in materia di sanità sia caduto nel nulla: semplicemente non funzionale alla missione della maggioranza del giornalismo che non è informare, ma orientare la pubblica opinione, esattamente come il fact-checking a cui lo stesso giornalismo si è rivolto.
La guerra politica a Washington è endemica. Ma il numero delle vittime al Pentagono ha iniziato a salire vertiginosamente. Tre dei principali consiglieri del Segretario alla Difesa Hegseth sono stati messi in congedo e poi licenziati. La guerra continua, con lo stesso Segretario alla Difesa ora nel mirino.
Ciò che conta è che l’attrito con Hegseth avviene in un contesto di accesi dibattiti interni all’amministrazione Trump sulla politica iraniana. I falchi vogliono l’eliminazione definitiva di tutte le capacità nucleari e belliche dell’Iran, mentre molti “frenatori” mettono in guardia contro un’escalation militare; Hegseth, a quanto pare, era tra coloro che mettevano in guardia contro un intervento in Iran.
I recenti licenziamenti del Pentagono sono stati tutti identificati come fattori di restrizioni. Uno di questi, Dan Caldwell, ex consigliere di Hegseth e veterano dell’esercito, ha scritto un post in cui criticava duramente i “Falchi dell’Iran” ed è stato successivamente licenziato. È stato poi intervistato da Tucker Carlson. In particolare, Caldwell descrive in termini feroci le guerre americane in Iraq e Siria (“criminali“). Questo sentimento negativo nei confronti delle precedenti guerre americane è un tema crescente, a quanto pare, tra i veterani statunitensi di oggi.
I tre membri dello staff del Pentagono sono stati sostanzialmente licenziati non perché avevano fatto trapelare la notizia, ma a quanto pare perché avevano convinto Hegseth a non sostenere la guerra contro l’Iran; i sostenitori del “First Israel” non hanno rinunciato a quella guerra.
La verità soggettiva si
contrappone alla verità fattuale in modo analogo
all’opposizione tra isteria e nevrosi ossessiva: la
prima è una verità
sotto forma di menzogna, la seconda una menzogna sotto
forma di verità
* * * *
Il cosiddetto paradosso del mentitore (“ciò che sto dicendo è falso”), è stato discusso fino alla nausea dall’antica Grecia all’India fino alla filosofia del Novecento. Il paradosso implica che se la mia affermazione è vera, allora essa è falsa (“se ciò che sto dicendo è falso, allora ciò che sto dicendo non è falso”), e viceversa. Invece di perdere tempo nella rete infinita di argomentazioni e contro-argomentazioni, rivolgeremo lo sguardo a Jacques Lacan, il quale ha proposto una soluzione speciale a questo problema distinguendo tra enunciato ed enunciazione, ovvero tra il contenuto dell’enunciato e la posizione soggettiva implicata o espressa nell’atto dell’enunciazione. Non appena introduciamo questa distinzione, notiamo immediatamente che in sé un’affermazione del tipo “tutto ciò che dico è falso” può essere tanto vera quanto falsa, ma anche che una frase come “dico sempre il falso” può rappresentare perfettamente la mia percezione soggettiva di star vivendo un’esistenza inautentica o fasulla. Il discorso vale anche a rovescio: l’affermazione “so di essere un pezzo di merda” potrebbe di per sé essere letteralmente vera, ma falsa a livello della posizione soggettiva che pretende di ostentare – potrebbe essere per esempio qualcosa che dico per rappresentarmi agli altri come qualcuno che almeno è onesto con se stesso e che NON è completamente “un pezzo di merda”… La nostra risposta a quest’ultimo enunciatore potrebbe essere la parafrasi di una famosa gag di Groucho Marx: “Ti comporti come un pezzo di merda e ammetti di essere un pezzo di merda, ma questo non ci trarrà in inganno – tu sei un pezzo di merda!”
Questo testo
indaga il rapporto che intercorre tra i tre concetti che
compaiono nel titolo, mettendoli in tensione. Nella prima
parte fornisce una definizione del
neoliberalismo, per poi mostrare come esso abbia prodotto
le condizioni di possibilità dell’affermazione di un
neo-populismo sorto sulle
rovine del neoliberalismo stesso. Nella seconda parte si
sofferma sul neo-populismo di destra sostenendo che esso
non è un’alternativa
politica al neoliberalismo, come spesso si tende a
credere, ma il suo rovescio osceno. La terza e ultima
parte del testo sostiene che il
neoliberalismo contiene da sempre un elemento strutturale
di autoritarismo su cui, nel tempo presente, si innesta un
autoritarismo neo-populista che
accelera il collasso della democrazia rappresentativa.
1, Nascita del neo-populismo dalle rovine del neoliberalismo
Con “neoliberalismo” non si intende qui soltanto il neoliberismo economico. Il neoliberalismo non è stato solo la risposta alle lotte sociali e alle politiche economiche keynesiane con cui negli ultimi decenni, a partire dalla crisi degli anni ’70, le classi capitaliste hanno realizzato un’enorme “concentrazione della ricchezza” – come ha scritto David Harvey –, ristabilendo e consolidando nel mondo il loro potere[1]. Certo, il neoliberalismo è stato naturalmente globalizzazione finanziaria, delocalizzazione produttiva, libera circolazione dei capitali e delle merci, privatizzazioni, riduzione del carico fiscale per i ceti abbienti, tagli alla spesa pubblica, smantellamento progressivo dello Stato sociale, precarizzazione del lavoro: tutte componenti di una vincente “lotta di classe dall’alto”, per dirla con Luciano Gallino[2]. Il neoliberalismo, però, è stato anche (ed è) una razionalità politica capace di modellare la società e le soggettività in base alle esigenze del mercato: una “nuova ragione del mondo” – per citare il titolo di un libro ormai classico – in base a cui un po’ ovunque gli Stati hanno adottato politiche capaci di estendere la logica aziendale e l’assiomatica concorrenziale ben oltre l’ambito economico: nell’amministrazione pubblica, nella giustizia, nell’Università, nella scuola, nella sanità, nelle relazioni sociali[3].
F. Engels
nel 1845, a soli 24 anni, descrisse la condizione di
sfruttamento della classe operaia in Inghilterra con un
testo La situazione della classe
operaia in Inghilterra che nel nostro tempo
andrebbe riletto per la sua attualità. L’indagine empirica
e razionale coniuga
l’oggettività dei dati con il giudizio etico. L’indagine
di Engels è oggi, ancora viva e vera, poiché lo
sfruttamento
generalizzato è tornato a essere l’ordinaria normalità del
nostro quotidiano. Il capitalismo neoliberale, mentre
volge lo sguardo
verso il transumanesimo e l’I.A, mostra il “suo cuore di
pietra”, senza equivoci e fraintendimenti come
nell’Ottocento. Lo
sguardo libero dagli abbagli degli slogan ci restituisce
la verità sulla condizione lavorativa e umana di tanti.
Contingenze storiche e una
sinistra liberale complice consentono al capitale di
mostrarsi nella sua verità regressiva e disumana senza
infingimenti: lo sfruttamento
è diventato un “dato di fatto” ormai naturalizzato, per
cui lo si accetta al punto che, malgrado la sua evidenza,
non pochi lo
ignorano. Vi è un nucleo del capitalismo che resta sempre
eguale nella sua lunga storia, esso resta inalterato,
poiché è la
sostanza che lo muove e lo nutre. La descrizione-denuncia
di Engels lo mostra con rara chiarezza e, pertanto, il
tempo che ci separa dal pensatore
tedesco, ci permette di ritrovare ciò che nel nostro tempo
il capitale in modo sempre più manifesto produce con i
suoi effetti letali.
Il capitalismo non è semplice sfruttamento, ma esso
disumanizza lo sfruttato riducendolo a mezzo per la
produzione del plusvalore. Allora come
oggi i nuovi proletari vivono processi di alienazione che
li offendono nella psiche come nel corpo. La violenza è il
carattere dominante ed
eterno del capitalismo; è la sua verità che Engels visse e
denunciò , ed è ancora fra noi in forme antiche e nuove.
Allo
sfruttamento di tanti corrisponde una ristretta oligarchia
che governa con la violenza legalizzata. La legalità
scissa dalla giustizia è
il volto “legale” del capitalismo che convive con forme di
illegalità, sempre più diffuse e ignorate, orientate verso
il
“consumo di esseri umani e di risorse”:
Leggo sempre gli articoli degli intellettuali organici alle lobby delle armi e alla politica estera della NATO. Naturalmente evito di pensare che scrivano volontariamente menzogne propagandistiche in quanto essere funzionali al sistema ha molti ritorni positivi: visibilità, rispetto, prebende, carriera, riconoscimento della maggioranza. Benefici a cui i cosiddetti filo-putiniani hanno rinunciato senza naturalmente ottenere alcun compenso simbolico o materiale dai Paesi considerati nemici dall’Occidente: Russia, Cina, molti Stati del Sud globale. Una verità che dovrebbe saltare agli occhi di tutti nella sua evidenza e che a mio avviso non necessita di pubblicazioni ad hoc.
Evito quindi pensieri maliziosi e leggo con occhi candidi quanto scrive Galli della Loggia sul Corriere della sera il 4 aprile 2025 mentre ancora la morte di Papa Francesco, che ha sempre invocato la pace, scuote le coscienze. Voglio credere che l’editorialista in parola esprima in buona fede le sue convinzioni.
Egli parte dal sondaggio che vede la maggioranza degli italiani a favore della pace in Ucraina. Pur comprendendone le ragioni, rivendica l’autonomia della politica, degli esperti della politica identificati tout court con i dirigenti politici occidentali. Competerebbe a essi informare il gregge incolto su cosa sia in gioco in Ucraina, la vittoria della libertà contro un nuovo Hitler che vuole conquistare l’Europa.
Nonostante l'eco mediatica relativa alla scomparsa di Papa Francesco sia fortissima, non si placano le polemiche provenienti dall'America tra il Presidente Trump e il Presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana.
Segno questo che la situazione non è affatto tranquilla per quanto riguarda la stabilità del sistema monetario-finanziario d'oltre Atlantico.
Del resto lo sappiamo bene, gli squilibri dei conti nazionali che si protraggono per troppo tempo pongono le classi dirigenti di fronte a delle scelte dolorose: o rischiare l'implosione del sistema finanziario o rischiare il meltdown della moneta nazionale. Questo perché le politiche di allentamento monetario (quali l'abbassamento dei tassi o nella peggiore delle ipotesi Quantitative Easing) necessari alla sopravvivenza delle istituzioni finanziarie nel caso in cui ci fosse una fuga di capitali esteri rischiano però di condannare la moneta nazionale a un progressivo depauperamento del proprio valore. Una situazione questa in stile argentino, giusto per fare un esempio eclatante.
Una situazione che però ormai può essere ipotizzata anche per gli Stati Uniti e per il Dollaro. I conti nazionali ormai fuori controllo, a partire dalla Posizione Finanziaria Netta passiva per oltre 26mila miliardi di dollari, espone il sistema finanziario a stelle e strisce di fronte al rischio di una fuga di capitali con conseguente rischio di crollo di banche e istituzioni finanziarie nello stile di quanto avvenne nel 2008.
Dal Cremlino ci si è preoccupati di precisare che nell’incontro di San Pietroburgo dell’11 aprile tra Putin e il mediatore americano Witkoff non si è parlato del dossier Iran. Ce n’è quindi abbastanza per supporre che la verità sia il contrario. Del resto non ci sarebbe nulla di strano se Trump e Witkoff coltivassero il sogno nel cassetto di accontentare l’AIPAC ma senza sobbarcarsi le terribili incognite di una guerra nel Golfo Persico. Si tratterebbe di ottenere una rinuncia dell’Iran alle sue capacità missilistiche e nucleari, quindi esponendosi inerme ai bombardamenti da parte di Israele, e affidando in toto la propria sicurezza a un “garante”, che dovrebbe essere Putin. Tra l’altro sarebbe lo stesso Putin che non ha mai concesso ai siriani l’uso della contraerea di fabbricazione russa contro gli attacchi israeliani.
Lo schema dell’accordo desiderato da Washington dovrebbe ricalcare quello del 2013 tra Obama e Putin sullo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. Obama non aveva nessuna voglia di intervenire militarmente in Siria, ma purtroppo aveva incautamente imposto ad Assad la linea rossa del non usare armi chimiche nel conflitto con le milizie sunnite che cercavano di rovesciare il regime. Con una dichiarazione così ingenua era pressoché inevitabile che arrivasse un “false flag” con cui accusare Assad di aver varcato la linea rossa.
D’altra parte l’Iran dovrebbe già sapere che come “garante” Putin è in grado di offrirti una sola garanzia, cioè che, prima o poi, ti rifilerà il bidone, esattamente come ha fatto lo scorso anno con Assad e, prima ancora, con Saddam Hussein e Gheddafi.
Il presidente Donald Trump si lamenta nuovamente a gran voce che le basi militari statunitensi in Asia siano troppo costose per gli Stati Uniti. Nell'ambito del nuovo ciclo di negoziati tariffari con Giappone e Corea del Sud, Trump sta chiedendo a questi paesi di pagare per il mantenimento delle truppe USA. Ecco un'idea molto migliore: chiudere le basi e riportare i militari negli Stati Uniti.
Trump lascia intendere che gli Stati Uniti stiano fornendo un grande servizio a Giappone e Corea del Sud stazionando 50.000 soldati in Giappone e quasi 30.000 in Corea del Sud. Tuttavia, questi paesi non hanno bisogno che gli Stati Uniti li difendano. Sono nazioni ricche e sicuramente possono provvedere alla propria difesa. Ancora più importante, la diplomazia può garantire la pace nel nord-est asiatico in modo molto più efficace e a un costo decisamente inferiore rispetto alla presenza militare statunitense.
Gli Stati Uniti si comportano come se il Giappone avesse bisogno di protezione dalla Cina. Diamo un'occhiata alla storia. Negli ultimi 1.000 anni, periodo in cui la Cina è stata la potenza dominante nella regione per tutti tranne gli ultimi 150 anni, quante volte ha cercato di invadere il Giappone? Se hai risposto zero, hai ragione. La Cina non ha mai tentato di invadere il Giappone neanche una volta.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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"Cari compagni,
a
distanza di tre anni
riparto con la pubblicazione di questo lavoro, prima
puntata qui
https://sinistrainrete.info/storia/22349-paolo-selmi-skola-kommunizma-i-sindacati-nel-paese-dei-soviet.html
interrotto
a seguito dell'inizio della SVO.
Era
già stato completato, e pubblicato integralmente su
academia.edu e a
puntate su resistenze.org.
In
realtà, quanto segue
rappresenta un inedito, a distanza di tre anni, dal
momento che ogni puntata, e saranno tante, oltre dieci
sicuramente, sarà rivista prima di
QUESTA sua pubblicazione su sinistrainrete. E, come in
questo caso, RISCRITTA E AMPLIATA, per esigenze di
chiarezza espositiva su concetti tutt'altro
che semplici. Questo, naturalmente, senza togliere una
virgola dalle cronache e dagli aggiornamenti sulla SVO. Cercherò di sistemare una decina di cartelle alla
settimana e inviarle alla redazione. Dovessi saltare una
settimana,
chiedo scusa in anticipo. Grazie a
tutti. Con saluti comunisti,
Paolo
Selmi"
* * * *
La domenica di sangue e la sconfitta militare contro i giapponesi contribuirono al crollo verticale di credibilità del regime zarista, da un lato, e all’aumento contestuale della stessa su quel versante opposto di recente formazione (perché allora, a differenza di oggi, c’era un “versante opposto”).
Dal punto di vista sindacale, notiamo che la sempre maggiore differenziazione non teorica (dal momento che anzi, al contrario, scioperi alimentavano manifestazioni e manifestazioni alimentavano scioperi), ma operativa fra istanze politiche, rappresentate dal POSDR, e istanze economiche rappresentate sino ad allora “in supplenza” dallo stesso POSDR, rese finalmente necessaria la creazione di un’istituzione sociale a esse preposta, il sindacato ovvero, alla russa: l’unione (sojuz) operaia (rabočij) delle professioni (professional’nyj, che nell’inversione di ordine fra aggettivi e sostantivo è профессиональный рабочий союз), da cui l’abbreviazione profsojuz1.
In questi mesi
la storia corre veloce, in poco tempo alcuni dei capisaldi
su cui si è retto
l’ordine mondiale definitivamente consolidatosi dopo il
crollo del muro di Berlino stanno vivendo profonde tensioni
e
ristrutturazioni.
Non sono che sintomi di processi più profondi e radicali che ribollono come magma sotto la crosta terrestre tentando di farsi strada, di trovare sbocchi, sfiati e infine ridefinire il paesaggio.
Obiettivo di questo testo è sì quello di fare uno sforzo di chiarezza poiché leggere quanto accade nel mondo intorno è un primo passo per immaginare dove intervenire in maniera efficace, ma anche uno strumento che vuole spingere a praticare un’ipotesi e a calpestare un terreno che, seppur pregno di limiti e ostacoli, si presta a essere una finestra di possibilità che si apre e che non va lasciata richiudersi senza nemmeno aver fatto un tentativo.
Proviamo a orientarci.
PRIMA PARTE
I primi segni superficiali di questi processi si sono avvertiti con la crisi del 2007-2008. La terra ha tremato, le forme che aveva assunto per i quarant’anni precedenti il sistema capitalista sono entrate in fibrillazione.
Non si può comprendere ciò che è venuto dopo senza considerare questo fatto nella sua interezza. Quelle scosse che avevano sconvolto i mercati finanziari sono state il segnale del magma che si stava rimettendo in moto.
Negli ultimi giorni, su pagine di cui ho stima, sono comparsi alcuni testi il cui senso di fondo – senza fare giustizia delle argomentazioni differenti – può essere riassunto in questi termini: “Lasciamoci la vicenda pandemica alle spalle una volta per tutte. Sono stati commessi errori, certo, ma continuare a ogni pie' sospinto a tornarvi sopra finisce per nutrire il settarismo dogmatico di una minoranza, e ciò rende difficile occuparsi di altri temi, più urgenti e importanti.”
Vorrei di seguito spiegare, nel mondo più conciso possibile, perché credo che questo appello, per quanto comprensibile, sia sbagliato.
Parto dal perché lo ritengo comprensibile.
È indubbio che nelle pieghe della critica alla gestione pandemica si sono incistati argomenti di livello molto diverso ed è emersa una tendenza al settarismo. È sicuro che, essendo stato per alcuni un forzoso “momento di sveglia politica”, esso è divenuto per quelli una sorta di paradigma con caratteri di unicità, il che è una forzatura. Ed è certo che la tendenza a vedere tutti gli eventi con occhiali forgiati dalla vicenda pandemica tende a creare, talora, una ripetitività fastidiosa (e anche controproducente per una stessa riflessione sul passato).
Tutto questo lo condivido e dunque capisco il moto di impazienza che può aver alimentato quelle pagine.
Ci sono però ragioni sostanziali per cui penso sia profondamente sbagliato ogni tentativo di “lasciarsi alle spalle” il problema. Nomino, senza pretese di esaustività, tre ragioni, nell’ordine.
Il negoziato ucraino e quello sul nucleare iraniano rientrano in una più ampia battaglia per la ridefinizione degli equilibri mondiali. Mosca e Teheran hanno piena consapevolezza della posta in gioco
In mezzo a continui colpi di scena, smentite,
dichiarazioni contraddittorie, accuse e
controaccuse, i contorni generali del piano di pace che
l’amministrazione Trump offre a Kiev e Mosca sono alla fine
emersi.
Nel frattempo, l’inviato speciale del presidente americano, Steve Witkoff, oltre a giocare un ruolo di primo piano nel negoziato con la Russia è impegnato in un’altra trattativa cruciale e piena di incognite con l’Iran.
Non è esagerato dire che dall’esito dei due tavoli negoziali dipende una porzione rilevante degli equilibri mondiali e la pace in due regioni strategiche come Europa e Medio Oriente.
Esiste inoltre un legame fra le due partite diplomatiche, sebbene si giochino su scacchieri differenti.
Entrambe fanno parte del (disperato) tentativo di Washington di preservare un ruolo egemone, sebbene ridimensionato rispetto a quello della tramontata era unipolare americana, in un mondo che è sempre più chiaramente multipolare.
Che il piano di pace USA per risolvere il conflitto ucraino risulti appetibile anche ad uno solo dei contendenti è tutto da dimostrare. Esso chiede dolorose concessioni a entrambe le parti, ed è già stato definito essenzialmente inaccettabile dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Ma soprattutto, il piano sembra andare in direzione di un congelamento del conflitto, e non di una rimozione delle cause che lo hanno provocato.
In concreto, dunque, esso potrebbe risultare inammissibile anche per Mosca, sebbene i negoziatori russi, diplomaticamente più accorti di quelli ucraini, abbiano per ora evitato di sbilanciarsi.
Pubblichiamo la prima parte di un dialogo tra John Bellamy Foster e Gabriel Rockhill che esaminano la storia e l'influsso del "marxismo occidentale", definito non da caratteristiche geografiche, ma dal rifiuto del marxismo sviluppato in Unione Sovietica, nel Sud globale, e persino del marxismo classico. Questa corrente di pensiero marxista, nata nel nucleo imperialista, invece di fronteggiare i problemi urgenti che la società di oggi deve affrontare, rappresenta una concessione al predominio dell’ideologia statunitense.
Gabriel
Rockhill: Vorrei iniziare questa discussione
affrontando, prima di tutto, un equivoco sul marxismo
occidentale che è di interesse
reciproco. Marxismo occidentale non equivale a marxismo in
Occidente. È invece una versione particolare del marxismo che,
per ragioni molto
materiali, si è sviluppata nel cuore dell'impero dove c'è una
significativa pressione ideologica per conformarsi ai suoi
dettami e che
condiziona le vite di coloro che vi lavorano. Tutto questo
vale, in pratica, per gli stati capitalisti di tutto il mondo,
ma non determina in modo
rigoroso la ricerca e l'organizzazione marxista in queste
aree. La prova più semplice di tutto ciò è il fatto che noi
non ci
identifichiamo come marxisti occidentali, anche se siamo
marxisti che lavorano in Occidente, proprio come per il
filosofo italiano Domenico Losurdo,
il cui Western
Marxism è stato recentemente pubblicato da
Monthly Review Press.[*] Cosa pensi della
relazione tra "marxismo occidentale" e "marxismo in
Occidente"?
John Bellamy Foster: Non mi piace il termine "marxismo occidentale", in parte perché è stato adottato come forma di auto-identificazione da pensatori che rifiutano non solo il marxismo sovietico, ma anche gran parte del marxismo classico di Karl Marx e di Friedrich Engels, così come il marxismo del Sud globale. Contemporaneamente, gran parte del marxismo in Occidente, e le analisi più materialiste, politico-economiche e storiche, sono tendenzialmente esclusi da questo tipo di marxismo occidentale auto-identificato, che tuttavia si è posto come arbitro del pensiero marxista e ha dominato la marxologia. Di solito, nell'affrontare la questione del marxismo occidentale dal punto di vista teorico, io sottolineo che ciò con cui abbiamo a che fare è una specifica tradizione filosofica. Questa è iniziata con Maurice Merleau-Ponty (e non con György Lukács, come comunemente si suppone), ed è stata caratterizzata dall'abbandono del concetto di dialettica della natura associato a Engels (ma anche a Marx). Ciò significa che la nozione di marxismo occidentale si allontana sistematicamente da un materialismo ontologico in termini marxisti, e gravita verso l'idealismo, che ben si adatta alla rimozione della dialettica della natura.
Avvertenza: le parentesi quadre contengono chiarimenti o aggiunte del sottoscritto. Viceversa i termini in corsivo sono degli autori citati, salvo eccezioni esplicitamente segnalate.
Secondo Marx, la forma di merce che i prodotti del lavoro umano tendono ad assumere a mano a mano che le forze produttive si sviluppano, tanto da generare una eccedenza rispetto alle esigenze del consumo immediato, e le relazioni sociali (scambio mercantile) che ne derivano, non vanno classificati solo fra i presupposti della nascita del modo di produzione capitalista, ma rappresentano anche e soprattutto gli agenti che consentono a quest’ultimo di assimilare-integrare tutte le forme sociali con cui esso viene a contatto. Entrambe queste funzioni sono ampiamente discusse sia nel Libro II che nel Libro III del Capitale.
Nel capitolo XX del III Libro leggiamo: “Qualunque sia il modo di produzione sulla cui base si producono i prodotti che entrano come merci nella circolazione – la comunità primigenia o la produzione schiavistica, la produzione a opera di piccoli contadini e piccoli artigiani o la produzione capitalistica -, ciò nulla cambia al loro carattere di merci; e come merci essi devono attraversare il processo di scambio e i mutamenti di forma [cioè M-D e D-M] che lo accompagnano” (pp. 411-412).
Il medesimo concetto è spiegato in modo più ampio e dettagliato nel capitolo IV del II Libro: “il ciclo del capitale industriale, vuoi in quanto capitale denaro, vuoi in quanto capitale merce, si incrocia con la circolazione di merci dei più svariati modi di produzione sociale, nei limiti in cui questa è nello stesso tempo produzione di merci.
Si può davvero ancora pensare dopo Gaza?
Pensare dopo Gaza è un saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, come indicato nel sottotitolo del libro di Bifo uscito nel febbraio 2025 per la casa editrice indipendente Timeo.
Ultimamente recensire i libri di Bifo è veramente difficile ma proveremo a definire delle linee di lettura e di pensiero che si sforzano di capire, aprire varchi, indicare cosa vuol dire pensare oggi, dopo Gaza e dopo quel 1900 che sembrava, dopo Auschwitz e Hiroshima, dirci “mai più”…
La ferocia
Proprio dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, dopo i continui avvertimenti sui rischi di guerre, povertà, miserie culturali e falsi miti, dittature e tecnologie usate per uccidere, siamo di fronte, in quel cimitero spettrale a cielo aperto che è Gaza, al “ritorno della ferocia come unico regolatore degli scambi tra gli umani che segna il processo di estinzione della cosiddetta civiltà”, dove ogni forma di linguaggio e di spettacolo di tv, media, social diventa uno strumento di sterminio.
In
occasione della ricorrenza della nascita di Lenin, a 155
anni dal 22 aprile 1870, cogliamo
l’occasione per rendere omaggio al rivoluzionario che
tentò l’assalto al cielo portando alla vittoria la
Rivoluzione bolscevica che
realizzò la prima esperienza di socialismo reale della
storia.
A testimonianza dell’attualità di Lenin, scegliamo di approfondire la “paternità leniniana” dell’anticolonialismo bolscevico, ricostruendo per sommi capi il processo di elaborazione teorica sulla questione nazionale e coloniale, dagli inizi del 1900 fino agli anni immediatamente successivi alla rivoluzione. È in questi anni, infatti, che Lenin sviluppa quelle coordinate teoriche che forniranno da bussola per tutto il movimento comunista internazionale nel suo complesso, lungo tutto il corso del Novecento, fino ancora a oggi.
Su quest’aspetto rimandiamo alla prima sessione del forum organizzato dalla Rete dei comunisti: “Elogio del Comunismo del Novecento”, svoltosi a Roma, il 4-5-6 ottobre 2024, di cui è disponibile la registrazione audio-video degli interventi, nonché la pubblicazione cartacea degli atti che è in corso di presentazione in differenti città italiane.
Di fronte all’attacco sistematico dell’Occidente imperialista nei paesi del Sud globale, di fronte al genocidio in Palestina e all’escalation bellica promossa dall’Unione Europea, l’eredità teorica leniniana, che allora costituiva l’unico argine alla Prima guerra mondiale, torna oggi materia viva con cui affrontare le sfide del presente.
“Putin deve
perdere in
Ucraina”.
“Non è il
momento di negoziare, Kiev può vincere la
guerra e vincerà”.
Boris Johnson, primo ministro britannico, 30 maggio e 26 giugno 2022
“Penso di aver raggiunto un accordo con la Russia. Dobbiamo raggiungere un accordo con Zelensky … ma finora è stato più difficile”.
Con queste parole il presidente statunitense Donald Trump ha sintetizzato nella tarda serata di ieri (ora europea) la situazione al termine di una giornata convulsa caratterizzata dal rinvio degli incontri previsti a Londra per la pace in Ucraina a livello di ministri degli Esteri a causa delle profonde divergenze tra l’Ucraina e gli alleati occidentali circa il piano di pace proposto dagli Stati Uniti.
Il Foreign Office ha precisato che si è tenuto comunque un incontro a livello inferiore e che “i colloqui a livello ufficiale proseguiranno” ma il fallimento del summit è apparso a tutti evidente dopo che il Segretario di Stato americano Marco Rubio e l’inviato speciale della Casa bianca Steve Witkoff avevano annunciato nella mattinata di ieri che non sarebbero andati a Londra.
Decisione assunta, secondo il New York Times, in seguito alle dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che aveva chiarito che Kiev “non riconoscerà legalmente l’occupazione della Crimea” da parte dei russi.
Nei giorni scorsi Rubio aveva dichiarato che gli Stati Uniti erano pronti ad abbandonare i negoziati se non ci fossero stati progressi tangibili verso una soluzione della crisi. Dopo il forfait di Rubio anche i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno annullato il viaggio a Londra.
A spiegare implicitamente le ragioni del fallimento del summit ha provveduto la Presidenza francese con un comunicato che spiega che “il rispetto dell’integrità territoriale e della vocazione europea dell’Ucraina sono esigenze molto forti degli europei” aggiungendo che “l’obiettivo resta quello di costruire un approccio comune che gli Stati Uniti potrebbero presentare ai Russia“.
C’è del metodo nella follia di Trump, che con i dazi punta a riconquistare il baricentro dell’economia e della politica mondiale. La consonanza ideologica con la nostra Presidente del Consiglio non ci aiuterà. L’Europa deve rendersi indipendente dal disegno USA spezzando il sistema di guerra che gli è proprio e aprendosi al Sud Globale
Che il viaggio a Washington
della presidente Giorgia Meloni potesse portare a
risultati concreti sul fronte della guerra commerciale era
davvero difficile pensarlo, specialmente
dopo che la proposta di “zero dazi” tra USA e Europa era
stata respinta nettamente dall’Amministrazione
statunitense e ribadita al
Commissario europeo per il commercio, Maros Sefcovic. Allo
stesso tempo supporre che Donald Trump potesse assumere
posizioni sostanzialmente diverse
da quelle brutalmente aggressive, appena temperate dalla
tregua dei 90 giorni, per di più alla vigilia di
importanti riunioni del Fondo
monetario internazionale e della Banca mondiale era
altrettanto impensabile. Oltre tutto la natura della
visita della Meloni era stata messa in dubbio
da più parti, se si trattava di una missione per conto
della UE – non bastavano le telefonate con Ursula von der
Leyen per accreditarla
– o di un bilaterale Italia-USA, come i suoi fedelissimi
nel Governo italiano avevano prudentemente detto alla
vigilia della su partenza.
Cosicché l’incontro si è svolto in un’aura di
indeterminatezza che in fondo faceva comodo alla Meloni,
potendo in questo
modo vendere nel modo più favorevole qualunque tipo di
esito, evitando le strette di una valutazione sui
risultati concreti, avendo avvolto nel
fumo gli obiettivi di partenza. La risposta di Trump
all’invito a venire a Roma è rimasta indeterminata nei
tempi e negli scopi e,
secondo la stessa Meloni, non si sa se in quel caso
intenderà farne sede di trattativa con la UE. Non a caso
l’incontro con la stampa
italiana, previsto prima della partenza da Washington, è
stato sconvocato e la Meloni ha risolto con un whatsapp
che definiva, in
termini del tutto rituali e burocratici, l’incontro con il
Presidente USA come un “confronto ideale e costruttivo”.
Il timore di una brusca accoglienza da parte di Trump è stato volutamente ingigantito per potere poi presentare come una vittoria i sorrisi e le parole di encomio che Trump non ha lesinato alla ospite italiana. Anche qui non c’è da stupirsi, dal momento che la Meloni poteva vantare un feeling di vecchia data con The Donald, avendolo sostenuto nelle sue accuse di brogli elettorali nel 2020.
Mi capita di incontrare persone del ceto medio, anche molto cortesi e istruite, capaci per certi aspetti di esibire una certa umanità nei confronti dei consimili, che d’improvviso mi fanno gelare il sangue nelle vene, pronunciando espressioni relative al genocidio di Gaza di chiara approvazione della carneficina in corso, anche dell’omicidio dei bambini:
“Beh poi crescono e divengono terroristi”.
Mi sembra evidente che l’umanità sia destinata a ripetere i propri crimini. Gli ebrei venivano considerati ladri e persone infami, non potevano indurre a compassione. Ugualmente i bambini di pochi anni trucidati da Israele non possono ispirare alcuna pietà, appartenendo essi alla categoria subumana dei terroristi.
La barbarie avanza. Il noi e il loro ritorna prepotente. Il cattivo di turno è cangiante, ora islamista, ora russo, ora palestinese. C’è sempre una buona ragione per escluderlo, demonizzarlo, massacrarlo.
È vero, a Gaza i bambini sopravvissuti agli stermini israeliani hanno buone chances di combattere Israele con la lotta armata. Non vi sono canali politici. Difficile combattere una potenza occupante con altri metodi. Craxi e Andreotti avevano compreso come soltanto la fortuna permettesse ad alcuni di essere rispettabili cittadini e trasformasse altri in criminali.
Non si stancavano di ammettere che se fossero nati in una prigione a cielo aperto, sarebbero divenuti anch’essi terroristi.
La razionalità vorrebbe che al fine di eliminare il pericolo terrorista si cancellassero le sue cause profonde in Palestina. Sarebbe essenziale porre fine all’assedio di Gaza, all’occupazione illecita della Cisgiordania.
Nel pieno della guerra commerciale che si combatte a colpi di dazi, un’altra battaglia si affronta tramite stoccate in punta di veline e di documenti ufficiali. La Casa Bianca ha trasformato il sito istituzionale Covid.gov, un contenitore di notizie su test e vaccini Covid, in una lavagna digitale da guerra fredda, facendone una pagina intitolata Lab Leak: The True Origins of Covid-19. Per cinque anni, come abbiamo evidenziato spesso su L’Indipendente, la teoria dell’origine artificiale del SARS-CoV-2 è stata liquidata come “complottista” – con i media di massa schierati fin da subito a sostegno dell’ipotesi dell’origine naturale – finendo, con la complicità delle Big Tech, per essere censurata dai social dietro la pressione dell’intelligence e dell’amministrazione Biden.
In un periodo di elezioni, qual era il 2020, la politica è entrata a gamba tesa contro la ricerca della verità: sostenere la tesi della fuga dal laboratorio di Wuhan sarebbe stato un punto a favore di Trump. Ora, il vento è cambiato, il tycoon è tornato a Washington e ha intenzione di smantellare l’informazione dominante, non senza lesinare attacchi ad personam ai suoi vecchi e nuovi nemici. Con Trump di nuovo in sella e armato di tutto punto per la sua crociata contro il Deep State tecnosanitario, si segna un cambio di rotta, con il sostegno alla teoria dell’origine artificiale del virus, presentata dal sito della White House come la spiegazione più plausibile per l’origine della pandemia.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Il pontificato di Francesco presenta delle ambivalenze che affondano le radici in una tensione storica tra la Chiesa e la modernizzazione estrema dell’Occidente. Uno dei suoi grandi meriti è stato quello non di innovare la dottrina ma di cambiare profondamente il linguaggio
Il
pontificato di Papa Francesco ha segnato questo decennio in
modo largamente positivo, soprattutto sul piano della politica
internazionale. Francesco
ha rappresentato — e rappresenta — una voce autonoma, critica,
libera e anche assennata, direi, rispetto ad alcune derive del
nostro
tempo.
La guerra mondiale a pezzi, un movimento tettonico
Una di queste derive riguarda innanzitutto lo scivolamento verso un’idea di guerra totale. Colpisce, infatti, come si stia sdoganando il concetto stesso di una ostilità totalizzante. Negli anni del secondo dopoguerra, soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, l’uso della bomba era ancora un tabù condiviso da tutti: intellettuali, scrittori, uomini di Chiesa, politici di ogni orientamento.
Come diceva anche Norberto Bobbio: “La guerra non si può più fare, perché sarebbe l’ultima guerra”. Oggi, però, non sarei più così convinto che quel tabù esista ancora. Anzi, come abbiamo sentito poco fa, sembra proprio che sia venuto meno.
Si parla ormai apertamente dell’uso di armi nucleari tattiche, di armi di distruzione di massa… e non soltanto in modo ipotetico. Non è solo un delirio, un’illusione: forse è anche il segno di un cinismo estremo. Ma, comunque, è indicativo di una deriva culturale profonda.
In questo contesto, Papa Francesco — con la formula, ormai nota, della “terza guerra mondiale a pezzi” — ha trovato una chiave espressiva efficace. Mi pare che sia pienamente consapevole del fatto che oggi ci troviamo davvero di fronte a un rischio estremo.
Appunti sulla Resistenza ieri e oggi
Questo 25 aprile è stato il peggiore di tutti: la Brigata Ebraica (1), che ha operato in Italia poche settimane per andare poi a sterminare gli arabi in Palestina, ha preso la scena di tutti i TG, mentre le manifestazioni realmente partigiane sono state demonizzate come episodi di intolleranza estremistica.
I principali politici guerrafondai hanno strumentalizzato la Resistenza e i partigiani accostandoli al regime nazista banderista ucraino spacciato per resistente, mentre la maggior parte della popolazione ucraina non ne può più né della guerra né della repressione sanguinaria che pratica la SBU, i servizi di intelligence ucraini e i sequestri dei reclutatori ai danni dei cittadini che cerano di non andare a morte certa al fronte: uno stravolgimento propagandistico filo-nazista della realtà dei fatti nel nome di una non meglio precisata “libertà”.
Ma ciò su cui si regge tutto questo cumulo di manipolazioni della nostra Resistenza è la menzogna nata pochi anni fa, creata ad arte, e che non ha nulla a che vedere con la nostra lotta di Liberazione dal nazifascismo e ancor prima sulla lotta antifascista durante il Ventennio. Una patina ideologica sulle reali ragioni della Resistenza, che sostituisce gli imprinting politici e ideologici dei partiti della Prima Repubblica, provenienti per valori e visioni del mondo proprio da quella Resistenza stessa. In particolare mi riferisco al percorso storico del PCI: il gruppo dirigente del PD formatosi in tutti questi anni, non solo ha abbandonato la missione di emancipazione delle classi popolari dal dominio classista del capitalismo, ma oggi osanna l’esistente sopprimendo ogni passaggio politico e punto di vista di classe e popolare, manipolando la storia a uso e consumo di una costruzione europea postuma alle Resistenze e che non è uno stato sovranazionale con i suoi organi democratici (ricordo che il Parlamento Europeo, ha solo funzione consultiva), ma un grumo di gestione del potere continentale, delle sue oligarchie finanziarie e multinazionali che sta involvendosi verso un’economia di guerra.
Il piano degli Stati
Uniti per mantenere la supremazia del dollaro, si oppone
all’abbandono progressivo dall’uso del dollaro su scala
globale grazie
all’implementazione di un “Dollaro digitale” che non avrà la
forma di una valuta digitale emessa direttamente dalla banca
centrale (CBDC), ma piuttosto di un piano per promuovere e
regolamentare le stablecoin ancorate al dollaro. I Paesi
BRICS+ stanno utilizzando valute
alternative, e Cina ed Unione europea stanno sviluppando
valute digitali controllate dalle banche centrali (CBDC) che
potrebbero aggirare il sistema
finanziario controllato dagli Stati Uniti. In questo
scenario, le stablecoin sono un’arma digitale atta a
sostenere la circolazione dei dollari
in tutto il mondo (malgradi dazi e sanzioni) e preservare la
supremazia finanziaria degli Stati Uniti nell’era delle
criptovalute.
* * * *
Ogni transazione in Yuan Digitale (e-CNY) riduce gradualmente la dipendenza dal dollaro, tracciando la strada verso una multipolarità valutaria, dove diverse valute forti coesisteranno e si contenderanno il ruolo di riferimento. Questo è anche l’obiettivo dei BRICS plus: rendere il commercio globale più equo e meno esposto ai rischi legati a una singola moneta. La piattaforma di pagamenti cinese è pensata per rafforzare l’Asia, rendendo le economie locali più resilienti e consolidando la leadership economica della Cina nella sua regione. La Cina, promuovendo attivamente l’uso dello Yuan digitale negli scambi internazionali con oltre 20 paesi in via di sviluppo, più che una guerra commerciale sta facendo una guerra di sistema.
“[Nella misura in cui la produzione capitalistica si impadronisce della produzione sociale] le altre specie di capitale...non gli vengono solo subordinate e modificate nel meccanismo delle loro funzioni, ma non si muovono più che sulle sue basi...capitale denaro e capitale merce (in quanto esponenti di rami di affari propri) non sono ormai più che modi di esistere...delle diverse forme di funzionamento che il capitale industriale ora riveste e ora depone nella sfera della circolazione” (Libro II, p. 79).
Inauguro la terza tappa del viaggio attraverso i Libri II e III del Capitale con questo passaggio, già citato nella tappa precedente, perché ben chiarisce il punto di vista di Marx sulla posizione che capitale merce e capitale denaro occupano nella gerarchia fra le diverse modalità di esistenza del capitale in generale: nel suo modello teorico, queste due forme svolgono la funzione di “ancelle” del capitale industriale. Si tratta di un punto di vista cruciale ai fini della distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Al tempo stesso, si tratta di un punto di vista che, nella fase storica caratterizzata dal grande capitale monopolistico, terziarizzato e finanziarizzato, è al centro di critiche anche in campo marxista ma, prima di analizzare tali critiche, è opportuno approfondire il pensiero di Marx sull’argomento.
L’incapacità del capitalista (e degli economisti volgari) di comprendere il “mistero” del plusvalore, cioè del fatto che esso scaturisce dal tempo di lavoro non retribuito, argomenta Marx, fa sì che costoro attribuiscano alla sfera del commercio la capacità di creare ricchezza: “Al capitalista l’eccedenza del valore, o plusvalore, realizzata con la vendita della merce appare come eccedenza del suo prezzo di vendita sul suo valore, anziché come eccedenza del suo valore sul suo prezzo di costo, per cui il plusvalore annidato nella merce non si realizza mediante (sottolineatura mia) la vendita di questa, ma scaturisce dalla (idem) vendita stessa (Libro III, p. 63).
La paralisi elettrica dell’intera penisola iberica, ovvero Spagna e Portogallo (con l’aggiunta del sud della Francia e pesanti riflessi sull’intera rete continentale) è arrivato esattamente 6 giorni dopo la celebrazione da parte dei media spagnoli di un traguardo vissuto come storico, ovvero la prima giornata non festiva durante la quale la rete elettrica nazionale è stata utilizzata esclusivamente con energia rinnovabile. Le due cose sono tuttavia in stretta relazione perché proprio il “modello” di utilizzo delle rinnovabili che è profondamente sbagliato, provocando così una serie di conseguenze: da una parte la vulnerabilità della rete di fronte a eventi di vario tipo, compresi quelli atmosferici e dall’altra una maggiore e paradossale dipendenza dalle centrali di produzione tradizionale, siano esse a gas, nucleari o di altro tipo. Così non deve stupire che in un solo istante il ronzio elettrico della vita moderna – treni, ospedali, aeroporti, telefoni, semafori, registratori di cassa, ascensori – si sia zittito. E decine di milioni di persone sono precipitate nel caos.
La fisica di base alla radice di tutto questo era nota da anni e le vulnerabilità specifiche erano state ripetutamente descritte in memorandum tecnici fin dal 2017, ma tutti gli avvisi sono stati ignorati dai responsabili politici. Ed è per questo che adesso il governo spagnolo asserisce in maniera grottesca di non sapere cosa abbia causato il disastro, magari sperando di poter far passare la tesi che si sia trattato di qualcosa di imprevedibile, di eccezionale e di irripetibile.
Era prevedibile: il linguaggio ha assunto connotazioni neonaziste. I confini sono caduti e lo spargimento di sangue è stato legittimato.
Il parlamentare del Likud Moshe Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14 di essere “interessato” a far morire di fame un’intera nazione. “Sì, farò morire di fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere”; un cantante relativamente popolare, Kobi Peretz, è convinto che ci sia “ordinato” di annientare l’acerrimo nemico biblico Amalek. “Non provo pietà per nessun civile a Gaza, giovane o vecchio che sia. Non ho un briciolo di pietà”, avrebbe dichiarato sulla copertina del settimanale del quotidiano Yedioth Ahronoth.
I due, Saada e Peretz, sono solo due fra i tanti, ma l’etere e la stampa sono pieni di dichiarazioni del genere, con alcuni interessati a metterle in risalto per assecondare l’opinione delle masse. Un personaggio pubblico in Europa, che fosse un legislatore o un cantante, che pronunciasse tali dichiarazioni verrebbe etichettato come neonazista. La sua carriera si arresterebbe e da quel giorno in poi verrebbe emarginato per sempre. In Israele, dichiarazioni del genere fanno vendere i giornali.
Bisognerebbe chiamare questo fenomeno per nome: Istigazione al Genocidio. A onore di Saada e Peretz, si potrebbe dire che hanno fatto cadere tutte le maschere e rimosso tutti i filtri.
Ci dibattiamo nella melma di un’Europa ricaduta nell’inciviltà e nella barbarie, dove sulla bocca delle sue élite, dopo 80 anni di pace, ricompaiono parole di guerra e di aggressione. Bruxelles, Parigi, Londra e Berlino sembrano immemori della lezione di due guerre mondiali che hanno portato il continente sull’orlo dell’autodistruzione. La leadership europea appare rinchiusa dentro un delirio anti-russo del tutto gratuito, non condiviso dagli Stati Uniti e osservato con sconcerto dal resto del pianeta, e che non cesserà prima di aver fatto ingenti danni.
In questa ora buia è importante riflettere sugli strumenti di contrasto, sulle forze della pace che sono comunque in campo. A cominciare dal diritto internazionale che Von der Leyen e soci stanno calpestando impunemente. Il piano europeo di riarmo, accompagnato da una retorica apocalittica che dipinge la Russia nei termini di una minaccia esistenziale, rappresenta una palese violazione dei principi fondamentali che governano la comunità internazionale. L’articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite non lascia spazio a interpretazioni ambigue: “I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato”. Questa norma imperativa del diritto globale viene oggi oltraggiata dalle istituzioni europee con una disinvoltura che dovrebbe allarmare ogni cittadino consapevole.
«Ci hanno insegnato tutto gli americani,
se non c’erano
gli americani
a quest’ora…
eravamo
europei[..]».
(G. Gaber, “Ci hanno insegnato tutto gli americani”)
Una Costituzione nata da quel lontano 25 Aprile 1945
Il 25 aprile festeggiamo la Festa della Liberazione, facendolo coincidere con la data in cui le principali città italiane vennero liberate dai partigiani e cadde la Repubblica di Salò. In questa data, infatti, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclamò l’insurrezione generale nei territori occupati ancora dai nazi-fascisti.
Festeggiare il 25 Aprile significa riaffermare la centralità dei valori democratici che il regime fascista aveva negato e che il “popolo”, con forza, ha riaffermato, nella piena libertà di autodeterminazione che ha espresso nella scelta della forma di stato repubblicana.
La Resistenza italiana non è stata soltanto un movimento contro l’occupazione nazista e il regime fascista, è stata “Il potere costituente”. A guerra terminata, infatti, furono gli stessi partiti che avevano guidato l’Italia verso la liberazione a prendere parte al momento costituente: la Costituzione generata da queste forze sociali non poteva non essere antifascista ed eretta sui valori di democrazia e di libertà.
Per tale ragione la Costituzione è dotata di quegli anticorpi necessari a respingere il ritorno a un regime totalitario, che incarna i valori della Resistenza, eppure la stessa Costituzione presenta delle falle attraverso le quali poteri esterni si sono introdotti e l’hanno “sterilizzata”.
Per ora, gettiamo solo un sasso nello
stagno. La parabola delineata dal sasso lanciato non pretende
di farsi curva politico-teorica compiuta, né scia strategica
illuminante. Il suo
obiettivo sta nel rapporto dialettico che, forse, potrà
costituirsi tra la “curvatura” del tragitto del sasso e
l’impatto di
esso nello stagno stesso, e questo, eventuale, obiettivo
vogliamo perseguirlo attraverso il minor “gravame” semantico
possibile
(recuperando il senso greco anti enfatico di semantikos,
segnalare) e la maggior semplicità linguistica possibile. Due
accorgimenti che
potrebbero sfociare in alcune “ruvidezze” espositive. Ma come
asseriva San Paolo di Tarso, su tutt’altro fronte, nelle sue
“Lettere” (sintetizzando): tutto non è possibile, o sentiamo
il sublime non senso ieratico nel ricercarlo, o rinunciamo a
priori a
parlare di Dio.
Cosa ci accingiamo a compiere? Due tentativi di “nuovo attraversamento” di due concezioni cardinali marxiane: il primo, relativo alla determinazione del valore delle merci; il secondo, relativo alla caduta tendenziale del saggio di profitto (lungo la strada alcune, volutamente incompiute per ragioni di “sostenibilità” di questo contributo, digressioni). Perché questi due “nuovi attraversamenti”? Per mettere a fuoco (solo per approssimazione, solo in relazione ai moti carsici “avvertiti” e certamente ancora - a nostro parere- non collettivamente portati alla luce, con un tasso, dunque, di errore alto) i compiti, di media-lunga durata, delle forze comuniste e rivoluzionarie.
In relazione a quali fatti concreti (di già potente impatto sulla fase ma, ancor più, densi di futuro) tentiamo di attraversare nuovamente le due concezioni cardinali marxiane citate?
Primo, la robotizzazione del lavoro in corso, ancora ai primordi, sul piano mondiale, ma già evocante un proprio sviluppo di carattere irreversibile ed esponenziale, non lineare. Un passaggio storico dallo stesso carattere “destinale”, ma con ben più imponenti potenzialità trasformatrici del lavoro e della lotta di classe, di quello del passaggio - seconda metà del 1.700 – dalla tessitura col telaio a mano a quella col telaio di Arkwright.
L’insuccesso alle prime elezioni generali dell’Alleanza Sahra Wagenknecht è da attribuire a un clima mediatico non favorevole, agli errori nella strutturazione del programma politico e nell’organizzazione del partito
La
Germania ha votato anticipatamente. Il 6 novembre 2024, il
cancelliere Olaf Scholz ha esautorato il ministro delle
Finanze e annunciato
l’intenzione di porre una questione di fiducia, con la
possibilità di elezioni anticipate.
Nel frattempo, l’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW), nata meno di un anno prima, a gennaio 2024, da una scissione della Linke, aveva già attirato molta attenzione. Dopo anni di conflitti interni, Sahra Wagenknecht aveva lasciato Die Linke, formando una nuova forza politica. Alle elezioni europee del giugno 2024, la BSW aveva ottenuto il 6,2% dei voti, raggiungendo pochi mesi dopo risultati significativi alle regionali in Germania orientale, entrando anche in coalizioni di governo in Brandeburgo e Turingia.
Nonostante questi buoni risultati, alle ultime elezioni la BSW non è riuscita a entrare, per soli 9.000 voti, nel Bundestag. Pur avendo ottenuto il miglior risultato per un partito di nuova formazione, la delusione è stata grande. Gli eventi tra la caduta della coalizione di governo e le elezioni evidenziano però le criticità del sistema politico tedesco e il ruolo crescente della BSW nel dibattito pubblico.
1. Cosa vuole la BSW?
Non esiste ancora un programma di base, ma già a novembre era chiaro quali fossero i principi cardine del nuovo partito: pace, economia sociale di mercato e un approccio più sfumato al dibattito sulla migrazione.
Nel suo anno di fondazione, il principale tratto distintivo della BSW consisteva nell’opposizione alla “politica estera basata sui valori” della coalizione di governo, proponendo invece una coerente politica di pace. Secondo la BSW, la strategia della ministra degli Esteri Annalena Baerbock e del ministro dell’Economia Robert Habeck non solo aveva causato gravi danni economici e aumentato il rischio di un’escalation della guerra in Ucraina, ma aveva anche portato la Germania, con le sue massicce forniture di armi, a sostenere una guerra di ritorsione contro i palestinesi.
Rispettiamo il lutto sincero di tanti cattolici addolorati per la dipartita di Papa Bergoglio. Non riusciamo tuttavia ad aderire, Roma Caput Mundi, all’imponente piagnisteo messo in scena per le esequie del Pontifex Maximus, nella sua duplice veste di spirituale Vicario di Cristo e di successore politico del romano imperatore. Abbiamo il fondato sospetto che Francesco, quello vero, avrebbe rifiutato di prendere posto accanto a tanti satrapi e regnanti.
Se ci sottraiamo a quella che ha tutta l’aria di una frettolosa beatificazione da parte dei suoi veri o presunti adoratori, con medesima fermezza prendiamo le distanze dai suoi tanti nemici, nella gran parte dei casi anche nostri — compresi quelli clericali, molto spesso reazionari travestiti da tradizionalisti, Augusto Del Noce docet; né ci appartiene la dietrologica controversia sul “vero Papa”, tra seguaci della Sede Impedita e quelli della Sede Vacante, di cui la presunta congiura per defenestrare Ratzinger attraverso il ricatto dell’esclusione della banca vaticana dallo SWIFT.
* * * *
Non ci è possibile perdonare al Papa il peccato mortale di aver sostenuto l’Operazione Covid-19, l’aver fatto genuflettere la Chiesa davanti al nuovo Dio redentore delle sette transumaniste, la tecnoscienza, di cui la cosiddetta “vaccinazione” sarebbe stata niente meno che un “atto d’amore”.
Cari mamma e papà,
sono passati più di cinquant’anni dall’ultima lettera che vi ho scritto, poco tempo dopo alla Spiotta tutti i miei sogni rivoluzionari che in quella lettera vi descrissi, si dissolsero con due pallottole conficcate nella zona ascellare che bucarono il mio petto pieno di speranze. Come sapete già in tempi non sospetti dimostrai il mio spirito rivoluzionario quando dopo il mio 110 e lode con la mia tesi su Marx alzai il pugno sinistro per festeggiare. Quando qualche anno dopo fondai le Brigate Rosse insieme ad Alberto e Renato…ce lo dicemmo spesso. Dovevamo essere pronti a tutto. Pronti all’imponderabile, pronti all’irreparabile. Pronti a trascorrere in carcere gran parte della nostra vita, consci della forza del nostro nemico, lo stato. E questo bene che ci andasse. Dovevamo essere pronti a morire nei più atroci dei dolori in conflitti a fuoco estemporanei, perché fermati da una volante, perché beccati durante un esproprio, o perché già arrestati non in grado di continuare la lotta anche dal carcere. Pronti a tutto per la rivoluzione, perché chi sarebbe venuto dopo di noi trovasse la strada aperta al cambiamento, per stabilire gli equilibri tra chi ha tutto e chi non ha niente, fra quelli delle baraccate costruite con i cartoni e quelli dei Parioli. Cari genitori, sapevo bene che il mio destino era segnato, ma fra tutti i finali possibili della mia vita mai avrei immaginato l’epilogo che il fato mi serbò quel 5 Giugno del ’75. Mai mi sarei aspettata di morire con le mani in alto.
Molte voci si sono levate contro le linee guida per l’insegnamento della storia, e, purtroppo, quell’incipit «Solo l’Occidente conosce la storia» ha finito per diventare celebre. L’autore, Ernesto Galli della Loggia, dopo aver affermato che «in Italia è rarissimo che si possa discutere nel merito: meglio denigrare l’interlocutore», si difende denigrando i suoi critici, accusandoli di non conoscere la lingua italiana. Non voleva dire che gli altri non hanno storia, ma «che solo in quell’area geo-storica che si chiama Occidente la conoscenza dei fatti storici e la riflessione su di essi ha dato vita a una dimensione culturale particolarissima…».
Il primo sistematico testo storico cinese, lo Shiji (Memorie di uno storico), fu scritto da Sima Qian nel II secolo avanti Cristo, e agli inizi del 700 dopo Cristo Liu Zhiji redigeva lo Shitong, in cui descrive lo schema generale delle storie dinastiche ufficiali del periodo degli Stati Combattenti, la loro struttura, i loro metodi, la sequenza, su cui si plasmerà la storiografia cinese a venire.
Il persiano al-Biruni (X secolo) scrive un trattato di cronologia dei popoli antichi (al-Āthār al-bāqiya), ricco di preziose notizie storiche e culturali, e un’opera d’insieme sull’India e la sua civiltà (Kitāb al-Hind), grazie alla sua conoscenza del sanscrito e al suo profondo interesse scientifico per una cultura straniera.
(Passata la tempesta dei primi commenti me ne permetto uno anche io)
Francesco I era a capo di una comunità di credenti di circa 1,4 mld di persone. Distribuita nei vari paesi del mondo, anche quando non fa maggioranza assoluta lo è spesso relativa o è minoranza qualificata. Socialmente, culturalmente e quindi politicamente, ripartita per stati e società questa comunità pesa più della sua stretta numerica. In più, Francesco I veniva dal Sud America, guardava spesso all’Asia (e la Cina, vecchio pallino gesuita) e curava la penetrazione della sua Chiesa in Africa. In ottimi rapporti con l’area ortodossa, meno con la protestante (non tanto con gli anglicani ma con le sette americane), meno ancora con l’area ebraica, equilibrato nelle relazioni con l’islam a differenza del suo predecessore.
Insomma, possiamo pesare la sua influenza diretta e indiretta, come leader culturale di opinione, come influente per l’immagine di mondo, almeno al doppio della sua stretta area di credenza, il che ne ha fatto -sotto questo punto di vista- l’individuo più importante in senso globale e di gran lunga.
La maggioranza votante Bergoglio al Conclave condivideva se non altro l’idea generale che l’istituzione che dovrebbe curare ma anche espandere la credenza, dovendo guardare al presente ma anche il futuro del mondo, non poteva che constatare la contrazione di peso degli occidentali e l’espansione enorme dell’Africa ed il peso altrettanto enorme dell’Asia. Assieme al Sud America, queste tre aree pesano oggi l’85% del mondo, l’88% nel 2050.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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L’idillio è finito. Per decenni Washington e Pechino
avevano condiviso un rapporto di interdipendenza economica
senza
precedenti, fondato sulla delocalizzazione produttiva e sul
finanziamento del debito americano. Ma l’era del matrimonio
di interessi volge al
termine. Le recenti dichiarazioni di J.D. Vance, le tensioni
commerciali e l’ascesa tecnologico-industriale della Cina
raccontano la fine di un
equilibrio che ha dominato la globalizzazione post Guerra
fredda. Ecco la prima puntata di una serie di
approfondimenti di Krisis dedicati
all’ascesa e al declino della Chimerica.
«Prendiamo in prestito denaro dai contadini cinesi per comprare i beni che quegli stessi contadini cinesi producono». Con questa sintesi, il vicepresidente degli Stati Uniti J.D. Vance ha spiegato le conseguenze, per gli Stati Uniti, della cosiddetta economia globalista. Lo scorso 10 aprile, nel corso di un’intervista rilasciata a Fox News, Vance ha difeso strenuamente la decisione del presidente Donald Trump di imporre dazi (quasi) a 360 gradi, e sferrato un attacco frontale all’assetto liberoscambista in vigore ormai da diversi decenni. Vance ha spiegato che la globalizzazione si è tradotta nel «contrarre un debito enorme per acquistare beni che altri Paesi producono per noi».
La reazione cinese è giunta pressoché istantaneamente. Il portavoce del Ministero degli Esteri Lin Jian ha dichiarato che «è allo stesso tempo sconcertante e deplorevole sentire questo vicepresidente fare commenti così ignoranti e irrispettosi». Hu Xijin, ex caporedattore del quotidiano Global Times, ha invece alluso alle origini che Vance, un hillbilly (contadino montanaro, ndr) ha sempre rivendicato per affermare che «questo vero “contadino” venuto dall’America rurale sembra mancare di prospettiva. Molte persone lo stanno esortando a venire a visitare la Cina di persona».
Donald Trump la sera del 2 aprile ha annunciato
una serie di nuovi dazi, di diverso tipo, da applicare sulle
merci estere: essi, secondo il
Presidente americano, sono «più o meno della metà»
rispetto a quelli «che gli altri Paesi applicano agli
Stati Uniti». Per i prodotti importati dall’UE si
arriva al 20%, dalla Cina al 34%. I dazi più alti al Vietnam
(46%), mentre
tra gli altri Paesi più colpiti Thailandia (36%), Taiwan
(32%), Indonesia (32%), Svizzera (31%) e India (26%). I dazi
si aggiungerebbero a
quelli già previsti per specifiche merci e prodotti come
automobili, acciaio e alluminio. Trump ha paragonato l’ordine
esecutivo con cui
sono stati istituiti i nuovi dazi a una «vera e propria
dichiarazione d’indipendenza» che porterà a un
«ritorno all’età dell’oro». Qualche giorno dopo, come
conseguenza della richiesta della maggior parte dei
Paesi colpiti dalle misure, Trump ha sospeso per 90 giorni i
dazi definiti “reciproci” – ma non nei confronti della
Repubblica
Popolare Cinese – in attesa di affrontare dei negoziati che
dovrebbero, secondo il parere della Casa Bianca, trovare una
soluzione
all’abissale deficit commerciale degli Stati Uniti.
Parlando con i giornalisti a bordo dell’Air Force One, prima
di atterrare a
Roma per il funerale di papa Bergoglio, il presidente degli
Stati Uniti ha spiegato che probabilmente la sospensione dei
dazi non vedrà una
ulteriore proroga.
Il presidente americano ha di recente tuonato, in particolare, proprio contro l’Europa che, come dice il nuovo inquilino della Casa Bianca, «riscuote un dazio del 10% sulle importazioni di veicoli, quattro volte superiore al dazio del 2,5% applicato dagli Stati Uniti alle autovetture»; in generale «se si guarda ai singoli Paesi e si osserva quanto ci fanno pagare, in quasi tutti i casi ci fanno pagare molto di più di quanto noi facciamo pagare loro – ha detto – e quei giorni sono finiti».
Siamo all’inizio, sembrerebbe, di una fase del capitalismo imperialista globale che vedrebbe una forte accelerazione della restrizione alla libertà di circolazione di merci e capitali – sulla scia di quanto già accaduto con la pandemia, fenomeno che ha messo in crisi le catene del valore lunghe per via dell’impossibilità degli spostamenti e che ha visto sintomi evidenti di tale cambiamento come la crisi dei container tra Cina e USA, la crisi di Suez con la nave bloccata nel canale, la crisi di fornitura di molti materiali critici come i chip e, quindi, avvio dei progetti di reshoring[1].
E meno male
che Trump doveva riportare un po’ di sano
realismo alla Casa Bianca: prima ha dichiarato una
guerra commerciale al
resto del mondo che, però, ha scatenato una delle più massicce
fughe di capitali dagli USA di sempre e l’ha costretto a una
rovinosa ritirata, poi ha rilanciato la guerra tecnologica
contro la Cina, vietando l’esportazione anche di chip di
vecchia generazione, per
ritrovarsi, però, il giorno dopo con Huawei che
annunciava l’uscita di nuove macchine e processori pensati ad
hoc per
l’intelligenza artificiale che hanno lasciato gli analisti a
bocca aperta; e ora, per concludere, sembra si sia messo
l’anima in pace e
sia tornato ai cari vecchi metodi da cowboy. L’hanno
ribattezzato il super bowl delle esercitazioni del
Pacifico: si chiama
balikatan, spalla a spalla, ed è
un’esercitazione marina congiunta tra forze armate
statunitensi e filippine
che va regolarmente in scena da quasi 40 anni, ma che a questo
giro, stando ad Asia Times, “è la più grande mai condotta”.
“Più che un super bowl, è un super troll”
rispondono i cinesi dalle pagine del Global
Times: “un’esercitazione che trabocca di provocazioni
nei confronti della Cina”.
Durante l’esercitazione, in corso da lunedì scorso e che prevede la partecipazione di circa 15 mila effettivi tra statunitensi e filippini, verrà infatti dispiegato, per la prima volta in assoluto nell’area, il sistema missilistico NMESIS, dotato di missili d’attacco navali in grado di interdire il passaggio di imbarcazioni cinesi nello stretto di Luzon, il tratto di mare che separa le isole settentrionali delle Filippine da Taiwan; ma, soprattutto, verrà schierato un secondo Typhon, il lanciatore di missili a lungo raggio Tomahawk e SM-6 che, con una gittata massima di poco inferiore ai 2 mila chilometri, permetterebbero all’impero di raggiungere sostanzialmente tutte le principali aree metropolitane del dragone. Il primo sistema era stato dispiegato nelle Filippine l’anno scorso, sempre durante un’esercitazione, e sarebbe dovuto essere rimosso; oggi, si raddoppia!
Marco Lossani
discute le tesi di S. Miran (che è a capo del Council of
Economic Advisers), il
quale, in un documento che solleva non pochi dubbi, auspica
una profonda ristrutturazione del sistema commerciale e
finanziario globale. Nel
frattempo, la sequenza di annunci del Presidente Trump, che
hanno accompagnato il ritorno alla guerra dei dazi, ha
generato un livello di incertezza
senza precedenti, provocando una perdita di fiducia nei
confronti del dollaro. Un risultato a dir poco paradossale.
* * * *
Tariff-Man ha colpito ancora. Come annunciato durante l’ultima campagna elettorale, Trump ha avviato una nuova guerra dei dazi. O meglio, ha ripreso una guerra commerciale fatta di una serie di annunci, in parte successivamente annullati o sospesi (tranne che nei confronti della Cina). Il risultato è una sorta di dejà vu’ di quanto già sperimentato nel corso del suo primo mandato presidenziale. Una serie di comportamenti ondivaghi che hanno generato un’enorme incertezza. Con una differenza sostanziale. Nel 2018 l’obiettivo concreto della guerra commerciale era la Cina e la sua politica di indebita appropriazione di tecnologia USA. Oggi è invece difficile capire quale sia il vero obiettivo, sia economico che politico. Nell’opinione di molti analisti, l’ispiratore di Trump non sarebbe Peter Navarro (il tristemente famoso Trade Czar) ma piuttosto Stephen Miran (a capo del Council of Economic Advisers), autore di un paper in cui viene auspicata una profonda ristrutturazione del sistema commerciale e finanziario globale. Tuttavia, la lettura del documento lascia più dubbi che certezze.
Mar-a-Lago Accord. I punti salienti. La proposta di muove da un punto fondamentale. Il ruolo di moneta di riserva svolto dal dollaro USA ne ha provocato una persistente, sostanziale sopravvalutazione.
Un passo del libro di Sergio Bettini su L’arte alla fine del mondo antico descrive un mondo che è difficile non riconoscere come simile a quello che stiamo vivendo. «Le funzioni politiche sono assunte da una burocrazia di stato; questo si accentua e si isola (precorrendo le corti bizantine e medievali), mentre le masse si fanno astensioniste (germe dell’anonimato popolare del Medioevo); tuttavia entro lo stato si formano nuovi nuclei sociali intorno alle diverse forme di attività (germe delle corporazioni medievali) e i latifondi, divenuti autarchici, preludono all’organizzazione di taluni grandi monasteri e dello stesso stato feudale».
Se la concentrazione delle funzioni politiche nelle mani di una burocrazia statale, l’isolamento di questa dalla base popolare e l’astensionismo crescente delle masse si attagliano perfettamente alla nostra situazione storica, è sufficiente aggiornare i termini delle righe successive per riconoscere anche qui qualcosa di familiare. Ai grandi latifondi evocati da Bettini corrispondono oggi gruppi economici e sociali che agiscono in modo sempre più autarchico, perseguendo una logica del tutto svincolata dagli interessi della collettività e ai nuclei sociali che si formano dentro lo stato corrispondono non solo le lobbies che operano all’interno delle burocrazie statali, ma anche l’incorporazione nelle funzioni governamentali di intere categorie professionali, come in anni recenti è avvenuto per i medici.
L’intero concetto di femminismo va ripensato alla luce delle lotte (post) coloniali, e soprattutto di eventi come il genocidio a Gaza, altrimenti siamo solo delle borghesucce che si limitano a pretendere i diritti civili, un’immagine del femminismo che mi ha sempre fatto orrore e di fatto è diventata dominante perché fa comodo al capitale globale, un femminismo da donnette del Pd o da gentaglia come Rosi Braidotti.
Sono seria, credo che la questione sia cruciale. Io non ho niente a che vedere con personaggi come Concita de Gregorio o simili, eppure questa roba qui è quello che sta passando per femminismo, e noi lo permettiamo, già da tempo [Raffaella Battaglini].
* * * *
Il femminismo celebra da tempo le vittorie dei “primati”: la prima donna a guidare, ad atterrare su un veicolo spaziale, ad abbattere le barriere costruite da patriarcato. Non sono imprese da poco. Ma cosa succede quando il femminismo diventa fluente nell’ambizione e silenzioso nell’agonia? Cosa succede quando non riesce a trovare il linguaggio per parlare di donne che partoriscono sul pavimento, che si struggono per le fosse comuni, che bolliscono l’erba per nutrire i propri figli, semplicemente perché sono palestinesi?
In linea di principio, chi da occidente commenta la questione dei negoziati si concentra principalmente sul dato territoriale. L’idea è che sostanzialmente questa sia, per la Russia, una guerra mirata alla conquista del territorio ucraino, e propedeutica (in caso non venga fermata) alla conquista di terra nel Baltico o in Europa centrale, o magari anche più in là. Qualsiasi altra questione passa in secondo piano o viene derubricata a scusa o propaganda, mentre solo il dato territoriale conta. E così buona parte del rumore attorno ai negoziati è dedicato alla questione del territorio: quanto territorio ha preso la Russia, quanto avrebbe voluto prendere, quanto si prevede che voglia o possa prenderne ancora, quanto l’Ucraina debba acconsentire a cedere, quanto vergognoso o tristemente realistico sia convincerla, o forzarla, a farlo. E in questa prospettiva, naturalmente, ogni accordo è un cattivo accordo”, "an ugly deal”, come titola oggi Politico (link 1).
Ora, intendiamoci: il dato territoriale è oggettivamente importante per la Russia, per motivi storici, ideologici, etnici e anche biecamente materiali (le regioni che occupa sono tra le più ricche dell’Ucraina, la centrale nucleare di Energodar è la più grande d’Europa, la Crimea è quella che un tempo, e portando parecchio male, si chiamava ?una portaerei naturale” con la quale si controlla una vasta porzione del Mar Nero, eccetera).
Per fare la pace, come per fare la guerra, occorre essere almeno in due. E al momento – nel complesso rapporto multilaterale tra Russia, Ucraina, Stati Uniti, Unione Europea (con la Nato che non si sa più bene a chi obbedisca) – non sembra che siano in molti a volerla davvero.
Strepiti trumpiani a parte, con il segretario di Stato Rubio che un giorno garantisce che “questa è la settimana decisiva” e subito dopo minaccia il ritiro degli Usa da ogni contrattazione, fin qui si sono visti solo “segnali” lanciati per verificare la disponibilità altrui.
E ad essere onesti bisogna ammettere che questi segnali sono fin qui arrivati solo da Mosca. Prima con una tregua unilaterale di 30 ore in occasione della Pasqua (quest’anno coincidevano quella di rito cattolico e quella ortodossa), ora con la proposta di tre giorni di cessate il fuoco intorno al 9 maggio, ottantesimo anniversario della conquista sovietica del Reichstag a Berlino, la morte di Hitler e la fine della guerra in Europa.
La risposta ucraina è stata un “niet” mascherato da rilancio: “almeno trenta giorni o niente”, “questa serve solo a garantire le parate di Putin”.
A livello mediatico occidentale, il tema di un “cessate il fuoco” ha di fatto sostituito quello di una trattativa, venendo posto addirittura come ostacolo/precondizione di eventuali trattative tra le parti.
Con la progressiva saturazione del mercato dei beni di consumo di massa standardizzati e il tramonto del fordismo, erano emerse nuove istanze
Cresceva la necessità di soddisfare una domanda dettata da bisogni sempre meno di origine naturale (fisiologica e biologica) e sempre più di origine sociale e culturale. Ne conseguiva la necessità di un’offerta che, in virtù di uno stretto e costante contatto con la domanda, fosse più personalizzata o, comunque, più appropriata, in cui a prevalere fosse tendenzialmente il valore d’uso sul valore di scambio. Le piccole e medie imprese, date le loro caratteristiche strutturali e la predisposizione ontologica dei loro conduttori e delle loro maestranze a fare un buon prodotto, avrebbero potuto essere le più idonee a realizzarne la parte più importante e ad acquisire ruolo di protagoniste nel processo di produzione.
Si può ritenere che, in alternativa alla storica tendenza alla centralizzazione e alla concentrazione, si stesse manifestando l’esigenza di una tendenza esattamente opposta, ovvero una tendenza alla decentralizzazione e alla deconcentrazione.
Le multinazionali, condizionate dalla logica del profitto, hanno eluso il problema sostituendo al modo di sviluppo fordista il modo di sviluppo della globalizzazione[1]: da un lato, hanno continuato a perseguire una sempre più forte centralizzazione dei capitali e, da un altro lato, hanno attuato, come decentralizzazione, una delocalizzazione di gran parte delle fasi di processo delle proprie filiere produttive nei Paesi periferici, con lo scopo, anzitutto, di pagare i salari più bassi e di avere un’organizzazione gestionale la più flessibile, a livello mondiale.
La scuola secondo Valditara, un
generico e fumoso metodo interdisciplinare. Al Ministro e ai
suoi deboli critici andrebbe ricordata la rigorosa lezione
degli intellettuali che si
sono seriamente misurati con il tema. La Bibbia, lo studio del
latino e la geo-storia presi sul serio.
Abbiamo già scritto nelle nostre pagine perché la “scuola di Valditara” è lungi, al di là dell’enfasi patriottica con cui è rappresentata dal Ministro, dal prendere sul serio la questione identitaria, per noi questione serissima (Cantaro, 2024). In questo numero – incentrato sulle “Nuove indicazioni nazionali del primo ciclo d’istruzione” – torniamo lungamente sul tema, sottolineando con ancor più forza come essa si inserisca in un processo di lunga data di de-costituzionalizzazione del sistema dell’istruzione. Il formale omaggio alla Carta costituzionale di Giuseppe Valditara non sposta di una virgola il nostro giudizio. Accresce la confusione e alimenta, altresì, le confuse risposte dei cosiddetti detrattori dei lavori della Commissione Perla.
La Bibbia presa sul serio
Dire semplicemente no all’introduzione nei programmi scolastici dello studio della Bibbia e del latino e opporsi alla cancellazione della geostoria non significa niente o, peggio, apre a una discussione da bar dello sport che non fa bene a nessuno. Non fa bene a insegnanti, a studenti, a famiglie. Non fa bene all’Italia. La bibbia, il latino, la geostoria non possono essere agitati come slogan “l’un contro l’altro armati”. Vanno presi sul serio. Soprattutto va preso sul serio il loro uso in generale e il loro uso in particolare, nelle aule scolastiche. Sulle nefande conseguenze dell’uso catechistico della Bibbia abbiamo già dato. Il libro, ancor più venduto in tutti i Continenti, è oggi considerato dalla grande parte della popolazione il libro più noioso al mondo.
Sembra
che in Italia nessuno si sia accorto della pubblicazione
del libro di Jean-Piere Bouche e Michel Collon, intitolato
Israël. Les 100 pires
citations (Israele. Le 100 peggiori citazioni),
avvenuta nel 2023 grazie a Investig’action,
sito multimediale
amministrato dallo stesso Collon. E ovviamente la ragione
è evidente: il libro contiene notizie, frasi, espressioni,
ragionamenti rilasciati
dai dirigenti politici israeliani, da cui si può ricavare
la netta differenza tra i discorsi ufficiali e l’autentico
pensiero dei
fondatori, dei presidenti, ministri, militari israeliani,
i quali sin dal 1895 hanno dichiarato a chiare lettere
quale fosse la loro strategia e il
loro obiettivo finale. Tutti questi elementi, spesso
oscurati, mettono in evidenza il progetto coloniale
israeliano, non meno feroce delle precedenti
avventure coloniali europee.
Mi pare importante sottolineare in prima battuta che il principale obiettivo di Collon, espresso nello slogan di Investig’action, Pas de Paix sans Info Indépendente, è quello di analizzare meticolosamente i contenuti che quotidianamente ci vengono elargiti dai mass media, mostrando come essi alterino la realtà, tentino di manipolarci e distorcano i fatti. Collon è uno specialista in questo ambito, avendo studiato tutte le manipolazioni ideologiche legate alle guerre “umanitarie”, esportatrici di democrazia degli ultimi decenni; da ricordare il suo libro sulle immagini diffuse sulla guerra in Ucraina, nel quale mostra che sostanzialmente i procedimenti di manipolazione e di falsificazione sono sempre gli stessi.
Una delle opinioni ormai più fondate è quella secondo cui i tempi di guerra partoriscono tantissime menzogne, come del resto aveva già documentato il grande storico francese Marc Bloch in Riflessioni sulle false notizie della guerra (1921). In una pagina, in cui si richiama alla psicologia delle testimonianze, scrive: “Falsi racconti hanno sollevato le folle. Le notizie false, in tutta la molteplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture, leggende -, hanno riempito la vita dell’umanità. Come nascono? da quali elementi traggono la loro consistenza? come si propagano, guadagnando in ampiezza a mano a mano che passano di bocca in bocca o di scritto in scritto? Nessun interrogativo più di questi merita d’appassionare chiunque ami riflettere sulla storia”. Bloch scriveva quando ancora i mass media non avevano raggiunto la pervasività attuale e, pertanto, guardava più alle false notizie generatesi spontaneamente tra i combattenti.
In vista di un
dibattito sulla Cina, organizzato dalla redazione de L'Interferenza per il 17
maggio,
al quale parteciperò, pubblico la prima parte di tre di
una riflessione sull'universalismo cinese nelle sue
differenze con l'universalismo
occidentale e nel quadro del progetto strategico della
"Comunità umana dal futuro condiviso". Lo sforzo è
duplice: da una parte
contrapporre al suprematismo occidentale di marca
americana un progetto di contropotere fondato sul
reciproco riconoscimento concretizzato intorno al
Brics; dall'altra fare da barriera selettiva alla
modernità occidentale che rischia di corrodere
dall'interno la Cina tanto più quanto
più procede sulla via di una "moderato benessere" (Xiao
Kang). Il tentativo è di governare sul piano strategico
la modernizzazione del
paese, ormai alla frontiera su molti livelli, senza con
ciò dissolvere l’identità collettiva o cadere in una
subordinazione
epistemica con l’Occidente.
Quella di Xi Jinping è dunque una modernizzazione selettiva e centrata, che mira a produrre una soggettività collettiva “armoniosa”, in cui convivano un’identità culturale riconoscibile, un’economia aperta e una capacità di intervenire nel discorso globale da una posizione non subalterna. Un compito di enorme difficoltà e importanza.
Al contempo una prospettiva altamente delicata e critica, schematizzabile nella sintonia/opposizione tra dialettica e conflitto, da una parte, e armonia nel tianxia, dall'altra.
Trenta miliardi di scambio commerciale tra Italia e Turchia. Questo era il traguardo da celebrare in pompa magna. E’ stato persino rinviato, prima per il viaggio negli States della Meloni, in seguito per la morte del papa. Ma prima che cominci il conclave, un buco è stato trovato.
La Turchia è volata a Roma nella giornata di martedì 29 aprile 2025 con quasi l’intero governo: oltre al presidente Erdogan sono atterrati a Ciampino: il ministro degli Affari esteri Hakan Fidan, il ministro della Famiglia e dei servizi sociali Mahinur Özdemir Gökta, il ministro della gioventù e dello sport Osman Aikin Bak, il ministro della cultura e del turismo Mehmet Nuri Ersoy, il ministro della difesa nazionale Yafar Güler, il ministro dell'industria e della tecnologia Mehmet Fatih Kacer, il ministro del commercio Ömer Bolat, il capo del M?T Ibrahim Kalin, il Direttore delle Comunicazioni della Presidenza Fahrettin Altun, il capo delle Industrie della Difesa della Presidenza Haluk Görgün e tanti altri.
Migrazione, Europei di calcio 2032, Libia, scambio commerciale a tutti i livelli, ma soprattutto armi. Da un lato il bisogno di armarsi europeo e italiano. Dall’altro il desiderio di vendere armi turco.
“Puntiamo ai 40 miliardi!”, hanno esclamato in coro la Meloni ed Erdogan.
Se questo è stato un banchetto di nozze, la firma dell’accordo di matrimonio è stata messa il 6 marzo scorso, quando Leonardo, il colosso italiano della difesa e aerospazio, e l’azienda turca dei droni Baykar hanno siglato un Memorandum of Understanding per dar vita a una joint-venture, con sede in Italia, dedicata alla progettazione, sviluppo, produzione e manutenzione di sistemi aerei senza pilota.
Così il paese-guida del sistema economico mondiale è costretto a rilanciare i dazi, che sono uno strumento cardine dell’interventismo economico
I recenti avvenimenti mondiali hanno dato vita a un ampio dibattito tra libero-scambisti e interventisti. I primi, convinti della capacità delle forze di mercato di soddisfare i fondamentali valori di efficienza ed equità, che caratterizzano il lavoro degli economisti. I secondi ritengono, invece, che sia necessaria una certa dose di intervento pubblico per attenuare gli effetti negativi provocati dai cosiddetti “fallimenti del mercato”.
Siamo forse a una resa dei conti, importante ma forse non definitiva, con l’egemonia neoliberista che ha contraddistinto gli ultimi anni del “secolo americano”; è dagli Stati Uniti che si è propagato il suggestivo marchio della globalizzazione che doveva rappresentare l’affermazione incontrastata dell’accoppiata capitalismo-liberaldemocrazia, suggellato dal crollo del modello alternativo autocrazia-economia di piano.
L’idea ispiratrice era la fiducia nell’indubbia capacità dinamica delle forze di mercato che, se lasciate il più possibile libere di operare, avrebbero creato un flusso di beni e servizi in misura tale da rendere automatico lo “sgocciolamento” della ricchezza anche verso i ceti meno abbienti. Questo spiega il forte impulso dato, anche attraverso l’ineliminabile intervento pubblico, a provvedimenti di progressiva liberalizzazione dei movimenti di merci, capitali reali e finanziari, ma non della manodopera come ben sappiamo.
Paura e patriottismo scoraggeranno e animeranno i cittadini, tanto i cinesi che gli americani, mentre Pechino risponde con gelidi silenzi e decisioni mirate agli annunci concitati e ai subitanei ripensamenti dei vertici di Washington.
Attorno a questi fattori si sta combattendo la guerra commerciale difensiva nei confronti della Cina che è stata dichiarata personalmente dal presidente americano Donald Trump, su cui si gioca la credibilità delle leadership di entrambi i Paesi: perché è innanzitutto sulla compattezza delle rispettive opinioni pubbliche che si misurerà il consenso popolare e la stabilità politica che sono necessari per vincere questo confronto che punta più sull’orgoglio collettivo che sull’enorme posta economica in gioco, il riequilibrio della produzione tra le due sponde del Pacifico.
La misurazione costante delle ricerche effettuate su internet e degli orientamenti prevalenti sui social media sarà essenziale per comprendere le preoccupazioni e gli stati d’animo prevalenti tra i cittadini: controllare l’opinione pubblica sarà fondamentale, come ai tempi dell’emergenza sanitaria per l’epidemia del Covid.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Se esaminiamo
attraverso una analisi storica il fatto che l’amministrazione
americana è costretta a fare e disfare al riguardo dei dazi
commerciali,
possiamo ricavare alcuni elementi inconfutabili sullo stato
avanzato di decomposizione del modo di produzione
capitalistico.
Quando le nazioni e certi mercati nazionali erano in crescita e conseguentemente cresceva la popolazione nazionale, i dazi potevano impulsare la produzione nazionale di merci favorendo il consumo delle merci prodotte localmente. Si combinava lo sviluppo sulla base di fattori economici essenziali, quali la crescita della popolazione e il volume della domanda. Così fu nella seconda metà dell’800 e oltre per le nazioni dell’Europa, Stati Uniti e Giappone.
Quando il moto unitario dell’ accumulazione giunse a una certa maturazione, il moto stesso dovette infrangere i dazi che rappresentavano un ostacolo alla accumulazione generale. Il principale elemento di strozzatura era costituito dall’insieme delle tariffe imposte dalla forma del mercato mondiale segmentato secondo i confini coloniali. Ci vollero due guerre mondiali per completare questo processo già determinato.
Oggi, dove il consumo di merce è finanziato attraverso l’indebitamento delle famiglie e delle aziende, i dazi non sono in grado di combinare l’incombinabile. Ovvero di limitare se non tagliare il consumo e l’import di merci estere per continuare a sviluppare la produzione manifatturiera nazionale. Una produzione nazionale rispetto alla quale non corrisponde più uno sviluppo della popolazione e di un volume della domanda virtuoso. Così come l’input delle singole economie nazionali è costituito da una complessa catena del valore interconnessa. Inoltre sviluppare l’economia di un dato paese richiede la sovrapproduzione di merce, perché non vi è accumulazione senza sovrapproduzione.
E
così se ne è andato anche Michel Aglietta, a 87 anni, un altro
degli scienziati sociali che più hanno segnato la nostra
formazione.
Diplomato all’École polytechnique nel 1959, la sua sensibilità e il suo interesse per gli aspetti teorici del dibattito politico lo portano a scegliere l’ENSAE come scuola di formazione nel 1961.
Nell’ottobre 1974, Michel Aglietta ha difeso la sua tesi di dottorato all’Università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne, intitolata Régulation du mode de production capitaliste dans la longue période. Prendendo come esempio gli Stati Uniti (1870-1970). La commissione di laurea era composta da Raymond Barre, Hubert Brochier, Carlo Benetti, Joseph Weiller e Edmond Malinvaud.
Ha ricevuto l’agrégation (concorso pubblico nel sistema educativo francese) in economia nel 1976, primo passo per intraprendere la carriera accademica. Dopo aver conseguito il dottorato, Michel Aglietta ha tenuto seminari all’INSEE. Vengono discussi i sette capitoli della sua tesi. Ogni mese si tiene un incontro su uno dei capitoli. Si forma un gruppo di persone, tra cui Robert Boyer e Alain Lipietz, Pascal Petit provenienti dall’INSEE, dal CEPREMAP e dalle università. Sulla base di questi incontri, Aglietta scrisse il libro: Régulation et crises du capitalisme, Calmann-Lévy, 1976. Quando uscì, il libro ottenne una certa visibilità e fu tradotto abbastanza rapidamente in inglese (per Verso, Londra, 1979). Fu il battesimo della scuola francese della regolazione, che fu soprattutto portata avanti grazie al lavoro di Boyer, Lipietz, Coriat, Nadel e Petit. Aglietta ne fu l’ispiratore principale anche se non ha mai fatto parte del suo gruppo di ricerca. Di Aglietta, in italiano, sono stati tradotti solo due scritti: la postfazione alla terza edizione di Régulation et Crises du capitalisme nel 2001, accompagnata da un saggio sui compiti dello Stato di Giorgio Lunghini (Bollati Boringhieri), e Il dollaro e dopo: la fine delle monete chiave con una introduzione di Carlo Dadda, nel 1988 (Sansoni).
In un’intervista con la TASS, il segretario del Consiglio di sicurezza russo Sergei Shoigu ha parlato dei successi dell’NMD, del dialogo tra Mosca e Washington, del pericolo di scoppio di una terza guerra mondiale a causa dei piani della “coalizione dei volenterosi” e delle condizioni affinché la Russia riprenda i test nucleari
Sergey Kuzhugetovich, è
trascorso quasi un anno dalla sua nomina alla carica di
Segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione
Russa. Come valuta la situazione
nell’ambito della sicurezza nazionale e i cambiamenti in
questo ambito? Quali questioni vengono decise dal
Consiglio di
sicurezza?
La situazione nell’ambito della sicurezza nazionale della Federazione Russa rimane difficile. Gli Stati ostili sono consapevoli di non essere riusciti a infliggere una sconfitta strategica alla Russia, a minare la sua autorità internazionale, a distruggere la sua economia o a indebolire la sua stabilità politica interna. La Russia sta resistendo con successo alla crescente pressione politica, militare, economica e informativa esercitata su di essa. L’incapacità dell’Occidente collettivo di raggiungere i propri obiettivi si accompagna a un aggravamento delle contraddizioni tra i suoi membri, dei loro problemi socio-economici interni e delle differenze ideologiche, nonché a una divisione nelle élite dominanti. Allo stesso tempo, i paesi che non hanno aderito alle sanzioni anti-russe sono sempre più convinti dell’incompetenza di coloro che, fino a poco tempo fa, cercavano di costringere il mondo intero a vivere secondo le proprie regole determinate unilateralmente.
Questo sviluppo inaspettato degli eventi costringe l’Occidente a cercare nuovi modi per mantenere il suo dominio. La vittoria sulla Russia, se non sul campo di battaglia, almeno diplomaticamente – preservando l’Ucraina come “anti-Russia”, il principale antipodo del nostro Paese – rimane la priorità più importante per le élite occidentali. Allo stesso tempo, si stanno compiendo sforzi significativi per provocare instabilità interna nella Federazione Russa, negli stati vicini, soprattutto in Transcaucasia e Moldavia, per preparare “rivoluzioni colorate” nei paesi del Sud del mondo che lottano per una vera indipendenza: in Africa, Medio Oriente e America Latina.
Tutto ciò è accompagnato da un cambiamento nella natura della manifestazione delle minacce alla sicurezza nazionale della Federazione Russa, dalla formazione di nuove sfide e rischi, nonché di opportunità per il nostro Paese.
«Quei giovani (scarsi, per fortuna) che si rivolgono a me come a una specie di fratello maggiore o piccolo maestro, io devo deluderli e scoraggiarli, non per mio comodo ma per onestà. Ben poco posso insegnargli, e solo in negativo (in breve: a non diventare puttane), e niente posso dargli sul piano pratico, che poi è da sempre ciò che ai giovani soprattutto importa, animati da speranze e ambizioni più che non desiderosi di verità e giustizia.»
Piergiorgio Bellocchio, Dalla parte del torto.
E così Piergiorgio Bellocchio, fondatore e direttore dei Quaderni Piacentini e di Diario, 1 due riviste che hanno impresso un segno indelebile nella cultura di sinistra del nostro paese, ci lasciò il 18 aprile di tre anni fa, quasi in punta di piedi. Aveva novant’anni, allorché, come è stato detto da un saggio ultracentenario, finisce la vecchiaia e ha inizio l’età dei patriarchi. Orbene, sono passati più di sessant’anni, ma di avventure intellettuali come i Quaderni Piacentini è impossibile non provare la struggente nostalgia che si prova per una stagione in cui era ancora possibile la rivolta di un piccolo gruppo di intellettuali borghesi che non volevano identificarsi con la volgarità senza stile del consumismo di massa e, quindi, trasformavano il “provincialismo” in una sorta di privilegio, rifiutando le mode e riscoprendo la severa grandezza della cultura nel tramonto di una civiltà che l’aveva ridotta a un cumulo di macerie.
Apro questa rivista con la trascrizione di una conferenza tenuta a Budapest, in Ungheria, all’inizio di aprile, a Várkert Bazár, nell’ambito della Conferenza Eötvös organizzata dall’Institut du XXIe Siècle. Poiché questo viaggio non è passato inosservato, ho voluto renderlo pubblico il più possibile, in modo che tutti potessero farsi una propria opinione. In un’epoca in cui è facile trovarsi di fronte a calunnie e fantasie, ritengo sia importante garantire che le informazioni possano circolare liberamente e in modo trasparente in Europa [Emmanuel Todd, 29 aprile 2025].
Il mio debito con
l’Ungheria
Grazie per questa introduzione molto gentile e lusinghiera. Devo confessare subito che sono piuttosto emozionato di essere a Budapest per parlare della sconfitta, della dislocazione del mondo occidentale, perché la mia carriera di autore è iniziata dopo un viaggio in Ungheria. Avevo 25 anni, ci andai nel 1975, entrai in contatto con studenti ungheresi, parlammo e mi resi conto che il comunismo era morto nella mente della gente. Ho avuto una visione intuitiva della fine del comunismo a Budapest nel 1975. Poi sono tornato a Parigi e, un po’ per caso, nelle statistiche dell’Istituto nazionale di studi demografici ho trovato i dati sull’aumento del tasso di mortalità infantile in Russia e Ucraina, nella parte centrale dell’URSS, e ho avuto l’intuizione dell’imminente crollo del sistema sovietico. Avete appena visto la copertina del mio primo libro (La chute finale: Essai sur la décomposition de la sphère soviétique). Tutto è iniziato a Budapest e sento di avere un debito di gratitudine nei confronti dell’Ungheria. È commovente e impressionante trovarsi in questa bella sala, dopo aver incontrato ieri il vostro Primo Ministro, e tenere una conferenza quando, mezzo secolo fa, sono arrivato qui in treno, all’ostello della gioventù, come un misero studente che non sapeva cosa avrebbe trovato a Budapest.
L’umiltà necessaria
L’esperienza di questo primo libro e il crollo del comunismo mi hanno reso cauto. Naturalmente la mia previsione era corretta, ero molto sicuro di me: l’aumento della mortalità infantile è un indicatore molto, molto sicuro. Ma poi, circa 15 anni dopo, quando il sistema sovietico è crollato, devo umilmente ammettere che non avevo compreso appieno ciò che stava accadendo. Non avrei mai potuto immaginare gli effetti di questa disgregazione sulla sfera sovietica nel suo complesso. Il facile adattamento delle ex democrazie popolari non mi ha sorpreso più di tanto. Nel mio libro, La caduta finale, ho notato le enormi differenze di dinamismo che esistevano tra Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia, ad esempio, e la stessa Unione Sovietica.
Proseguono le
trattative “sul nucleare” iraniano fra i delegati della
Repubblica islamica e i negoziatori statunitensi guidati da
Steve Witkoff il quale
Witkoff, miliardario immobiliarista ebreo americano “prestato
alla politica” e presentato dai media come un “feroce
negoziatore” nel senso della feroce e concreta
attitudine di costui nel concludere proficuamente gli affari,
è l’incaricato di
Trump anche per le trattative “di pace” sul fronte
russo-ucraino/NATO. Anche questo fatto di dettaglio indica
come siano
intrecciate le vicende degli attuali fronti di guerra aperti e
della possibile “pace” che si sta contrattando. In questa nota
ci preme
dire unicamente di un paio di punti che riguardano lo scenario
di guerra in Asia occidentale. Un paio di punti (a nostro
avviso) fermi di carattere
generale, attorno ai quali ruotano le molteplici e
imprevedibili variabili della lotta per la vita o per la morte
cioè della lotta
suprema in corso.
Scriviamo sopra di possibile “pace” fra virgolette perché essa per l’imperialismo è concepibile a una non contrattabile condizione: la capitolazione politica e operativa delle forze combattenti dell’Asse della Resistenza. La capitolazione di Hamas, quella di Hezbollah, delle milizie popolari irakene, degli Houthi yemeniti. Tutte forze che sono sotto continua e feroce pressione strangolatoria nel mentre che fra Usa e Iran “si tratta”.
“Si tratta” in perfetto stile imperialista, cioè con la pistola puntata alla tempia del governo di Teheran e dell’intero popolo iraniano. Un imponente dispositivo militare imperialista è infatti e intanto schierato, pronto a colpire qualora i negoziati fallissero secondo il criterio che lo sceriffo americano riterrà valido. Da parte del regime di Teheran che è fatto da uomini dalla tempra fortissima a cominciare dalla Guida Suprema Alì Khamenei, niente affatto disposti alla sottomissione, si accetta il terreno della trattativa pur sotto evidente scacco per cercare di evitare o procrastinare il più possibile uno scontro militare diretto con il tandem Usa/Israel, forse cercando di spezzarlo. Un tandem criminale che non ha nessunissimo scrupolo a usare il suo armamento nucleare se decide per la guerra, che in ogni caso sarebbe guerra devastante per l’Iran.
Papa Bergoglio un
rivoluzionario o un conservatore mascherato? Né l’uno né
l’altro: un papa può “salvare la Chiesa” spesso
accettando compromessi più apparenti che sostanziali.
In questi giorni, ho letto molti articoli e ascoltato molte interviste di autori non solo italiani sulla figura di Papa Bergoglio e sono rimasta sorpresa per la quasi generalizzata accettazione della retorica enfatica con cui è stata affrontata la scomparsa di quest’ultimo papa, che certo si è distinto nello stile e nel gesto dai molti suoi predecessori. Lungi da me voler mostrare mancanza di rispetto verso il sentimento religioso, parte intima e nascosta degli esseri umani, legata alla nostra consustanziale precarietà, al senso della morte e del nulla, ma è bene ricordare che una cosa è questo sentimento, una cosa è l’uso che ne fanno le varie istituzioni storiche, che con atteggiamenti spesso divisivi e contraddittori lo hanno veicolato verso la sottomissione, la rassegnazione, alimentando sogni di speranze nebulose e astratte.
Nel caso della Chiesa cattolica, ricordo che si tratta di un’istituzione, che nonostante i suoi tentativi di modernizzarsi e di democratizzarsi (per es. il Concilio Vaticano II), possiede un cuore tutto medioevale; infatti, è retta da una monarchia sacra e assoluta, che si incarna nella figura di un pontefice reso infallibile, quando parla ex cathedra, da un apposito dogma (Pastor Aeternus), sostenuto dai Gesuiti, proclamato nel Concilio Vaticano I il 18 luglio 1870 sotto il Pontificato di Pio IX, che in precedenza aveva emanato il dogma dell’Immacolata Concezione. La Costituzione dogmatica su citata stabilisce che il pontefice, nella funzione di Pastore di tutti i cristiani, quando definisce una dottrina sulla fede e sui costumi, è infallibile e pertanto tutti i fedeli sono obbligati a conformarsi a quanto da lui affermato. Una minoranza di cardinali, convocati per il Concilio e provenienti dall’Europa centrale, non fu d’accordo con questa decisione e lasciò Roma per non votare.
È allarmante constatare quante poche siano le voci che, da sinistra, hanno il coraggio intellettuale di difendere un partito di destra come AfD. Basterebbe una minima educazione costituzionale.
Ciò che sta accadendo ad AfD rientra in un più generale meccanismo standardizzato di mantenimento dello status quo, che tiene in ostaggio le democrazie occidentali. Ho descritto questo meccanismo in un mio intervento precedente (qui).
Sì, va bene, però quelli di AfD sono “nazisti” no? Le democrazie mica possono tollerare i nazisti.
Ah! Se solo i “tifosi” delle costituzioni democratiche si prendessero anche la briga di studiarle!
Brevemente, non funziona così. Le democrazie devono reprimere le intolleranze FATTUALI, non quelle “ideali”. Se si dovesse perseguitare qualsiasi “richiamo” (più o meno dissimulato) a periodi o personaggi “controversi” della storia, dovremmo chiudere l’80% dei partiti d’Europa, di destra e di sinistra.
Qualsiasi partito può essere legalmente vietato solo nel momento in cui ci sono prove evidenti di eversione (ritrovamento di armi, intercettazioni su progetti concreti di assalto militare ecc). Molti partiti sono stati chiusi per questi motivi, in Italia e in Europa, a destra e a sinistra.
Ma non si possono fare PREVENTIVI processi alle intenzioni. Chi gravita intorno a partiti comunisticheggianti non dovrebbe prendere alla leggera questo punto, perché gli si ritorcerà contro. Soprattutto se nella tecnocrazia europea ci sono forze molto influenti che equiparano nazismo e comunismo.
Al netto di tutto quello che di male si può dire di Stalin, soprattutto di come ha trattato la sua opposizione interna, quello che a Stalin l'Occidente non ha mai perdonato è quella bandiera rossa sul Reichstag del 2 Maggio del 1945, quando tutti pensavano che l'URSS sarebbe morta a Stalingrado, e soprattutto non gli hanno mai perdonato di aver dato un contributo decisivo alla decolonizzazione del mondo dominato dell'imperialismo franco-britannico in Africa, in Asia, con il sostegno alle rivoluzioni anticoloniali in Cina, India, Africa, Vietnam, Corea e al socialismo laico arabo in Medioriente.
Per esempio i britannici non sono mai stati avversari ideologici del nazismo e del fascismo italiano che hanno in realtà sostenuto nella loro affermazione (consultate a proposito le ricerche di Giovanni Fasanella e non solo). È infatti storica la simpatia della Casa Reale britannica dell'epoca per Hitler (la Casa Hannover era di origine tedesca), e che sognava forse una dominazione anglo- tedesca sull'Europa in chiave antisovietica.In questo modo andrebbe interpretato il Patto di Monaco tra Inghilterra Francia, Italia e Germania che regalò la Cecoslovacchia ad Hitler, dopo aver respinto la proposta di una grande alleanza antinazista avanzata da Stalin per difendere la Cecoslovacchia. Così fu fino al Patto Ribbentrop-Molotov e all'invasione nazista della Francia e dell'Europa, che spiazzò la Gran Bretagna temendo una alleanza tra Germania e URSS che l'avrebbe esclusa da ogni influenza geopolitica in Europa.
Un passo del libro di Sergio Bettini su L’arte alla fine del mondo antico descrive un mondo che è difficile non riconoscere come simile a quello che stiamo vivendo. «Le funzioni politiche sono assunte da una burocrazia di stato; questo si accentua e si isola (precorrendo le corti bizantine e medievali), mentre le masse si fanno astensioniste (germe dell’anonimato popolare del Medioevo); tuttavia entro lo stato si formano nuovi nuclei sociali intorno alle diverse forme di attività (germe delle corporazioni medievali) e i latifondi, divenuti autarchici, preludono all’organizzazione di taluni grandi monasteri e dello stesso stato feudale».
Se la concentrazione delle funzioni politiche nelle mani di una burocrazia statale, l’isolamento di questa dalla base popolare e l’astensionismo crescente delle masse si attagliano perfettamente alla nostra situazione storica, è sufficiente aggiornare i termini delle righe successive per riconoscere anche qui qualcosa di familiare. Ai grandi latifondi evocati da Bettini corrispondono oggi gruppi economici e sociali che agiscono in modo sempre più autarchico, perseguendo una logica del tutto svincolata dagli interessi della collettività e ai nuclei sociali che si formano dentro lo stato corrispondono non solo le lobbies che operano all’interno delle burocrazie statali, ma anche l’incorporazione nelle funzioni governamentali di intere categorie professionali, come in anni recenti è avvenuto per i medici.
L’intero concetto di femminismo va ripensato alla luce delle lotte (post) coloniali, e soprattutto di eventi come il genocidio a Gaza, altrimenti siamo solo delle borghesucce che si limitano a pretendere i diritti civili, un’immagine del femminismo che mi ha sempre fatto orrore e di fatto è diventata dominante perché fa comodo al capitale globale, un femminismo da donnette del Pd o da gentaglia come Rosi Braidotti.
Sono seria, credo che la questione sia cruciale. Io non ho niente a che vedere con personaggi come Concita de Gregorio o simili, eppure questa roba qui è quello che sta passando per femminismo, e noi lo permettiamo, già da tempo [Raffaella Battaglini].
* * * *
Il femminismo celebra da tempo le vittorie dei “primati”: la prima donna a guidare, ad atterrare su un veicolo spaziale, ad abbattere le barriere costruite da patriarcato. Non sono imprese da poco. Ma cosa succede quando il femminismo diventa fluente nell’ambizione e silenzioso nell’agonia? Cosa succede quando non riesce a trovare il linguaggio per parlare di donne che partoriscono sul pavimento, che si struggono per le fosse comuni, che bolliscono l’erba per nutrire i propri figli, semplicemente perché sono palestinesi?
Era prevedibile: il linguaggio ha assunto connotazioni neonaziste. I confini sono caduti e lo spargimento di sangue è stato legittimato.
Il parlamentare del Likud Moshe Saada ha proclamato sull’emittente televisiva Canale 14 di essere “interessato” a far morire di fame un’intera nazione. “Sì, farò morire di fame gli abitanti di Gaza, sì, questo è un nostro dovere”; un cantante relativamente popolare, Kobi Peretz, è convinto che ci sia “ordinato” di annientare l’acerrimo nemico biblico Amalek. “Non provo pietà per nessun civile a Gaza, giovane o vecchio che sia. Non ho un briciolo di pietà”, avrebbe dichiarato sulla copertina del settimanale del quotidiano Yedioth Ahronoth.
I due, Saada e Peretz, sono solo due fra i tanti, ma l’etere e la stampa sono pieni di dichiarazioni del genere, con alcuni interessati a metterle in risalto per assecondare l’opinione delle masse. Un personaggio pubblico in Europa, che fosse un legislatore o un cantante, che pronunciasse tali dichiarazioni verrebbe etichettato come neonazista. La sua carriera si arresterebbe e da quel giorno in poi verrebbe emarginato per sempre. In Israele, dichiarazioni del genere fanno vendere i giornali.
Bisognerebbe chiamare questo fenomeno per nome: Istigazione al Genocidio. A onore di Saada e Peretz, si potrebbe dire che hanno fatto cadere tutte le maschere e rimosso tutti i filtri.
Cari mamma e papà,
sono passati più di cinquant’anni dall’ultima lettera che vi ho scritto, poco tempo dopo alla Spiotta tutti i miei sogni rivoluzionari che in quella lettera vi descrissi, si dissolsero con due pallottole conficcate nella zona ascellare che bucarono il mio petto pieno di speranze. Come sapete già in tempi non sospetti dimostrai il mio spirito rivoluzionario quando dopo il mio 110 e lode con la mia tesi su Marx alzai il pugno sinistro per festeggiare. Quando qualche anno dopo fondai le Brigate Rosse insieme ad Alberto e Renato…ce lo dicemmo spesso. Dovevamo essere pronti a tutto. Pronti all’imponderabile, pronti all’irreparabile. Pronti a trascorrere in carcere gran parte della nostra vita, consci della forza del nostro nemico, lo stato. E questo bene che ci andasse. Dovevamo essere pronti a morire nei più atroci dei dolori in conflitti a fuoco estemporanei, perché fermati da una volante, perché beccati durante un esproprio, o perché già arrestati non in grado di continuare la lotta anche dal carcere. Pronti a tutto per la rivoluzione, perché chi sarebbe venuto dopo di noi trovasse la strada aperta al cambiamento, per stabilire gli equilibri tra chi ha tutto e chi non ha niente, fra quelli delle baraccate costruite con i cartoni e quelli dei Parioli. Cari genitori, sapevo bene che il mio destino era segnato, ma fra tutti i finali possibili della mia vita mai avrei immaginato l’epilogo che il fato mi serbò quel 5 Giugno del ’75. Mai mi sarei aspettata di morire con le mani in alto.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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La tendenza a reinterpretare le leggi di guerra è destinata ad avere serie conseguenze sulla distruttività dell’azione militare nei futuri conflitti. Gaza rappresenta un pericoloso precedente
Avevo scritto più volte in
precedenti articoli che
la portata della tragedia di Gaza va ben al di là degli
angusti confini di questa martoriata striscia di terra sulle
coste del
Mediterraneo:
Ciò che sta avvenendo a Gaza non resterà confinato a Gaza, si potrebbe dire, perché è il sintomo di un malessere più generale che sta erodendo la civiltà occidentale.
Avevo scritto già in passato che
Sotto le macerie di Gaza rischiano dunque di rimanere sepolti anche l’ordine internazionale che l’ONU ha rappresentato dal 1945, e il ruolo di garante della legalità internazionale di cui gli USA si sono sempre fregiati.
Ora un’inchiesta della rivista americana The New Yorker dal titolo “What’s Legally Allowed in War”, passata perlopiù sotto silenzio, aiuta a chiarire meglio la pericolosità del “precedente” rappresentato dallo sterminio in corso a Gaza.
Il reportage a firma di Colin Jones racconta come gli esperti giuridici dell’esercito americano si stiano confrontando con l’operazione militare israeliana nella Striscia, considerandola una sorta di “prova generale” per un possibile conflitto con una potenza come la Cina.
L’articolo esordisce descrivendo due visite compiute nella Striscia da Geoffrey Corn, professore di legge presso la Texas Tech University ed ex consulente senior delle forze armate USA sulle leggi di guerra, altresì note come Diritto Umanitario Internazionale (DIU) o Diritto Internazionale dei Conflitti Armati (DICA).
Per spiegare il livello di distruzione di cui è stato testimone a Gaza, Corn lo ha paragonato a quello di Berlino al termine della seconda guerra mondiale. Egli non è stato né il primo né l’unico a proporre un simile confronto.
Già nel dicembre 2023, ad appena due mesi dall’inizio del conflitto, esperti militari consultati dal Financial Times avevano equiparato la distruzione di Gaza nord a quella di città tedesche come Dresda, Amburgo e Colonia a seguito dei bombardamenti alleati.
La lettura del conflitto di classe non
avviene stilando una statistica al fine di individuare il punto
medio della conflittualità ma osservando e facendo
proprie le istanze
strategiche che provengono dalle punte avanzate della classe.
Su ciò si plasma la tattica cosciente del partito. Dalla
prassi
d’avanguardia della classe al partito dell’avanguardia di
classe al fine di riversare e generalizzare in questa, quella
tendenza. Il
partito, quindi, non si accoda semplicemente alla lotta di
classe, non si limita a portare solidarietà a questa, cosa che
può fare
chiunque, e neppure, come le letture burocratico-organizzative
di Lenin offrono, si limita a porsi alla testa delle lotte.
Certo, il partito
solidarizza con la lotta e cerca di prenderne la direzione ma
perché? A qual fine? Qui sta il nocciolo della questione. Il
partito deve,
soprattutto, trasformare coscientemente quella lotta in
qualcosa che sta nella lotta ma solo in potenza. Non ha senso
prendere la direzione di
qualcosa che rimane in potenza, ma lo ha se questo prendere la
direzione vuol dire realizzare la potenza. Detta in altre
parole la tattica del partito
mette la classe nella condizione di compiere un salto
nell’elaborazione della strategia. In altre parole il partito
più che prendere la
testa del movimento è la testa del movimento. Facciamo un
esempio: nel 1905 le masse organizzano una dimostrazione la
quale, come noto, sfocia
nel sangue e in seguito a ciò, in piena spontaneità, iniziano
a battersi. Il partito sicuramente solidarizza con la lotta e
cerca di
mettersi alla testa di questo movimento, ma fare questo
significa operare per far fare un salto qualitativo a quanto
sta andando in scena. Questo
salto è l’indicazione pratica dell’insurrezione
quindi, di fatto, essere la testa del movimento. Dalla classe
al
partito, dal partito alla classe. Il partito non si è
inventato nulla, non fa nulla, esso agisce come
elemento cosciente e
d’avanguardia dentro il punto più alto della conflittualità di
classe. Ecco che, in quel momento, tutto il suo lavoro
preparatorio
emerge in maniera cristallina. Ma, una volta fatto ciò non è
che all’inizio del suo lavoro perché la stessa pratica
dell’insurrezione non farà altro che dare vita e forme
qualitativamente diverse alla strategia della classe e
inevitabilmente ciò
porterà a una nuova lettura della strategia di classe e a una
successiva rielaborazione della tattica di partito.
Ha ancora
senso affaticarsi su testi scritti in un linguaggio
scarsamente comprensibile, con strutture sintattiche molto
lontane dalla agilità e
stringatezza oggi diffuse con i sistemi di comunicazione
elettronica; o immedesimarsi in concetti distanti, spesso
superati e comunque non sempre in
sintonia con le più diffuse sensibilità odierne?
Sono queste le domande alla base del sempre rinnovato attacco di tutti coloro i quali ritengono qualcosa di superfluo, di dispensabile, i classici e in generale la cultura umanistica in cui questi sono per lo più rappresentati (non bisognerebbe però dimenticare che ci sono “classici della scienza” ancora oggi assai utili da rileggere, per l’umanista e per lo scienziato). Un fardello “inutile” se confrontato ai saperi che si ritengono immediatamente produttivi perché capaci di stimolare, crescita, produttività, innovazione, mantra dell’odierna cultura. Ne viene che siano da marginalizzare gli studi e le scuole che a esse danno un qualche peso, come il Liceo classico, la cui stessa esistenza è da molti indicata come un esempio dell’arretratezza culturale e scientifica dell’Italia.
I classici sono in sostanza ritenuti opere vetuste, volumi da riporre in qualche polverosa scaffalatura, utili semmai a imbellettare auguste biblioteche di rappresentanza, magari nei negozi di mobili; non strumenti del pensiero ancora significativi per l’uomo d’oggigiorno. Ai classici si attribuisce semmai il solo valore di essere una testimonianza del passato, il ricordo nostalgico di un “come eravamo” e non certo una piattaforma per proiettarsi nel futuro, scintillante dei prodotti della tecnologia moderna, guidato da sempre più potenti sistema di intelligenza artificiale e orientato solo al consumo voluttuario e di intrattenimento.
Ma questa è una visione superficiale e per molti aspetti parziale.
Mentre il presidente Trump negozia con l’Ucraina e l’Iran alla ricerca di un’ipotetica pace, la sua amministrazione continua le politiche sanguinose del predecessore. I tentativi di pace non devono nasconderci che in questa lotta contro il tempo, smettendo di finanziare le agenzie delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti provocano più sofferenza di quando finanziavano direttamente le guerre
“Trump e Zelensky si parlano, prove di pace a San Pietro”, titola l’Ansa pubblicando la “storica foto dell’incontro”, definito “un capolavoro della diplomazia vaticana”. I rappresentanti di Stati Uniti e Ucraina vengono così fatti apparire agli occhi del mondo come coloro che vogliono la pace, mentre Putin continua a fare la guerra. Trump scrive: “Mi fa pensare che forse non vuole fermare la guerra, mi sta solo tampinando, e deve essere affrontato attraverso sanzioni”. Il segretario di stato Usa Marco Rubio avverte che “gli Usa metteranno fine alla loro mediazione sul conflitto a meno che non arrivino proposte concrete da Russia e Ucraina”. Si continua così a ignorare la insistente richiesta russa di affrontare, in una sede ufficiale, le questioni di fondo che sono all’origine della guerra. Si continua allo stesso tempo a diffondere la fake news che la Russia voglia invadere l’Europa. Titola un articolo sul Wall Street Journal: “Le mosse militari russe che mettono in allarme l’Europa: Putin sta espandendo le basi e si sta preparando a spostare più truppe nelle regioni europee di confine, lontano dall’Ucraina”.
Nonostante le minacce e gli allarmi su possibili attacchi o false flag, nessun leader ha ritirato la partecipazione. L’evento si trasforma in un banco di prova per l’asse Russia-Cina e l’influenza diplomatica di Zelensky
Il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping si recherà a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio, nonostante gli avvertimenti di Kiev. Lo ha confermato domenica mattina il Cremlino con una nota ufficiale, nella quale comunica che il leader cinese compirà una visita ufficiale nella Federazione Russa dal 7 al 10 maggio.
Oltre alla partecipazione alle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della vittoria sul nazismo, sono in agenda colloqui bilaterali sulle “principali questioni relative all'ulteriore sviluppo delle relazioni di partenariato globale e di interazione strategica, nonché le questioni di attualità dell'agenda internazionale e regionale” tra Russia e Cina.
Inoltre si prevede la firma di una serie di documenti bilaterali intergovernativi e interdipartimentali, riferisce la nota.
Chi sarà presente alla parata della Vittoria
Il primo ministro slovacco Robert Fico e il presidente serbo Aleksandr Vucic saranno a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio. Ieri la loro presenza era stata messa in dubbio dalle condizioni di salute dei due leader, che negli scorsi giorni avevano annullato all’ improvviso di importanti attività politiche. Questa mattina entrambi hanno ufficialmente confermato la partecipazione.
Dall’AfD a Georgescu: quando il sistema decide chi ha diritto di parola e chi no
Non ho alcuna simpatia per l’AfD, sia chiaro. Lo ritengo un partito pericoloso, regressivo, intriso di pulsioni xenofobe, autoritarie e revisioniste. Ma proprio per questo, la notizia che l’intero partito sia stato classificato come “pericolo per la democrazia” da parte dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione tedesca dovrebbe inquietare anche chi, come me, sta ben lontano da ogni deriva reazionaria. Perché quando uno Stato democratico si arroga il diritto di stabilire non solo ciò che è legittimo, ma anche chi lo è, si apre una voragine.
Non parliamo di atti criminali individuali. Parliamo di interi movimenti politici, rappresentati in Parlamento, sostenuti da milioni di cittadini, che vengono trattati come deviazioni da contenere, sorvegliare, delegittimare. Come se il problema non fosse il disagio sociale che li alimenta, ma la sua manifestazione. Come se fosse più comodo demonizzare che comprendere. O peggio: reprimere che rispondere.
La democrazia liberale, quando funziona, è proprio il luogo dove anche le opinioni più estreme possono esprimersi, a patto che restino nei confini della legalità. Ma se la legalità stessa diventa strumento per zittire, allora la posta in gioco è più alta. Se oggi si dichiara che un partito – per quanto ripugnante nei suoi messaggi – è “incompatibile con la democrazia”, domani chi sarà il prossimo? Un sindacato radicale? Un movimento ambientalista che “minaccia l’ordine economico”? Una lista pacifista che mette in discussione la NATO?
Gli USA hanno trasformato SWIFT in un’arma per punire i nemici, ma ora alleati e avversari stanno costruendo vie di fuga dal sistema finanziario globale dominato dal dollaro.
La militarizzazione della finanza globale è diventata un pilastro della politica estera americana. Al centro di tutto c’è il controllo di Washington sul Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (SWIFT), un servizio di messaggistica finanziaria un tempo considerato neutrale, ma oggi apertamente utilizzato per imporre sanzioni occidentali e isolare i rivali.
Mentre il presidente Donald Trump minacciava punizioni economiche per i Paesi che abbandonavano il dollaro, i suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca hanno registrato il crollo più forte della valuta dall’era Nixon. Quel momento simbolico ha coinciso con un cambiamento globale già in atto: l’accelerazione degli sforzi delle nazioni per ridurre la dipendenza dalle infrastrutture finanziarie controllate dagli USA.
Oggi, una coalizione sempre più ampia di Stati – alcuni sanzionati, altri semplicemente cauti – si sta allontanando dal dollaro e dalla rete SWIFT, abbracciando nuovi sistemi finanziari che promettono di operare fuori dalla portata di Washington.
Cari compagni,
ci eravamo lasciati nell’ultima puntata dopo aver abbozzato un collocamento del caso sovietico all’intesto di un contesto mondiale laddove, il caso cinese, rappresentava un caso decisamente “limite” di “importazione” del marxismo.
Restando nella metafora dei trasporti, ogni volta che “esportiamo” non uno spinterogeno, ma qualcosa di immateriale, dotato di un significante e di un significato, si pone il problema della sua “traduzione”, “importazione”, “selezione e adattamento”, “rielaborazione”. ANCHE IN UN CONTESTO COSÌ VICINO AL NOSTRO COME QUELLO RUSSO-SOVIETICO.
Si badi, questo “vicino” non ha alcuna intenzione provocatoria. Avendo passato ormai la maggior parte della mia vita, trenta su cinquanta grosso modo, a manipolare concetti di culture lontane diecimila chilometri da noi, il leggendario cinese wan li 万里, diecimila li, ogni volta che ritrovo “Gente del Libro”, come la chiamano i fratelli musulmani, ritrovo anche i binari noti del mio pensiero, del mio modo di vedere il mondo.
Ciò nonostante, paradossalmente forse per questa vicinanza, quando SI “ESPORTA” O SI “IMPORTA” QUALCOSA, spesso SI DÀ TROPPO PER SCONTATO CHE IL RICETTORE O IL MITTENTE SIA ESATTAMENTE SINTONIZZATO SULLE NOSTRE LUNGHEZZE D’ONDA. E così non è. Vale per i nostri traduttori di Lenin, ma valeva anche nel senso contrario.
L’obiezione è sempre la stessa: “epperò, non possiamo mica mettere una nota a piè pagina ogni due righe”. Giusto. Appesantisce il testo. Allora che facciamo, tagliamo con l’accetta? Semplifichiamo? Traduciamo pravda e istina sempre come “verità”, partijnost’ come “partiticità” e chi s’è visto s’è visto? Oppure, peggio ancora, le lasciamo in russo e cavoli di chi legge?
Il 23 aprile,
Politico ha pubblicato uno straordinario articolo, “La
cavalleria americana non arriva”, che documentava con dovizia
di particolari quanto la pianificazione e le infrastrutture di
difesa europee
siano state per decenni esclusivamente “costruite sul
presupposto del supporto americano” e “accelerare l’invio di
rinforzi
americani in prima linea”. Ora, “la prospettiva che ciò non
accada sta gettando nel caos i piani di mobilità militare”
e il continente “si trova solo”, indifeso, senza una direzione
e privo di soluzioni ai disastrosi risultati della sua
prostrazione per
molti decenni all’egemonia statunitense.
L’articolo inizia con un tentativo mediocre di fantasy, tratteggiando uno scenario da incubo che si scatena nel marzo del 2030. “Nella nebbia di inizio primavera”, un attacco russo su più fronti inizia contro Lituania e Polonia, costringendo i soldati stranieri di stanza lì a cercare riparo, mentre “i paesi alleati si affrettano a rispondere”. Ma mentre Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e i paesi nordici mobilitano i loro eserciti per l’impresa, “c’è una netta assenza”:
Leader e soldati guardano a ovest, verso l’oceano, sperando nelle navi da guerra che sono sempre accorse in soccorso dell’Europa nell’ultimo secolo. Ma il mare offre solo silenzio. Gli americani non arrivano. La seconda presidenza di Donald Trump ha posto fine all’impegno degli Stati Uniti per la difesa europea.
Certo, Trump non ha ancora disimpegnato Washington dalla NATO. “Ma cosa succederebbe se l’America abbandonasse l’Europa?”, riporta Politico, è una domanda inquietante che riecheggia con crescente urgenza nei corridoi del potere occidentali. La risposta evidenzia una “realtà scomoda”: “senza il supporto degli Stati Uniti, spostare truppe in Europa sarebbe più lento, costoso e ostacolato da una serie di colli di bottiglia logistici”. In caso di guerra totale, queste carenze “potrebbero non solo creare inefficienze”, ma “potrebbero rivelarsi fatali”.
Chi annava a immagginà che ne la mente je ce covava er libbero pensiero, o, pe’ di’ mejo, nun ciaveva gnente?” (Trilussa)
Mentre il vecchio mondo unipolare scricchiola travolgendo la propaganda di ieri, i nostri intellettuali di servizio si danno da fare per sgombrare le macerie delle loro stesse narrazioni diventate d’un tratto un ingombro imbarazzante. Fino a ieri la democrazia partecipata era il mantra che ci distingueva dalle tirannie, ma ora che il popolo non ne vuole sapere di rischiare la pellaccia per slogan vuoti e consunti, fanno tutti dietrofront e spiegano che il popolo non capisce, che non tocca a lui decidere della guerra e della pace, di ciò che è giusto o sbagliato, morale o immorale.
All’improvviso anche la parola “liberale” va ristretta, reinterpretata, resa essenziale e stringente, direi dittatoriale. Si avvera la profezia di Trilussa: in fondo, liberale non vuol dire niente, e chi ha in testa il libero pensiero, alla fine, nun pensa gnente, o meglio si adatta a quel che serve. Come si dice in questi casi, additare le dittature altrui serviva solo a distrarre dalla propria.
Si moltiplicano i casi in cui i sinceri democratici iniziano a dubitare dell’efficacia delle elezioni, talvolta arrivando a truccarle apertamente, estromettendo gli avversari scomodi, laddove prima si imbrogliava solo un po’ per aggiustare i risultati, o persino negandole in nome della guerra che non si può fermare per colpa loro. Anche sulla nostra stampa, falsamente equilibrata, si cominciano a porre certe questioni, mentre ci si prepara al mondo di domani, quando al popolo si dovranno far ingoiare ideologie del tutto nuove, visto che quelle vecchie sono fritte.
Le reazioni del mondo occidentale alla situazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania sollevano una domanda inquietante: perché l’Occidente ufficiale, e in particolare l’Europa Occidentale ufficiale, è così indifferente alle sofferenze dei palestinesi?
Perché il Partito Democratico negli Stati Uniti è Complice, direttamente e indirettamente, nel sostenere la Disumanità quotidiana in Palestina, una Complicità così evidente che probabilmente è stata una delle ragioni per cui ha perso le elezioni, poiché il voto arabo-americano e progressista negli Stati chiave non poteva, e giustamente, perdonare all’amministrazione Biden il suo ruolo nel Genocidio nella Striscia di Gaza?
Questa è una domanda pertinente, dato che abbiamo a che fare con un Genocidio trasmesso in diretta che ora si è rinnovato sul campo. È diverso dai periodi precedenti in cui l’indifferenza e la complicità occidentale sono state dimostrate, sia durante la Nakba che nei lunghi anni di Occupazione dal 1967.
Durante la Nakba e fino al 1967, non era facile reperire informazioni e l’oppressione successiva al 1967 è stata per lo più graduale e, come tale, ignorata dai media e dalla politica occidentale, che si sono rifiutati di riconoscerne l’effetto cumulativo sui palestinesi.
La città autoritaria è tra di noi, essa è la premessa allo Stato autoritario. Il nuovo autoritarismo utilizza modalità banali e ordinarie per infiltrarsi che in tal modo non sono pensate. Il nuovo autoritarismo usa in modo massiccio i processi di deverbalizzazione per potersi affermare in modo discreto e lasco. È sempre attento a mostrare il vero volto, pertanto si insinua in modo da evitare, finché è possibili, scontri e opposizioni. Accoglie nel recinto dell’omologazione ogni differenza per svuotarla dei contenuti e rendenderla “eunuca presenza”.
La creatività è un baluardo contro l’autoritarismo. Creatività è osservazione critica capace di tradurre in concetto l’esperienza dialettica. Le contraddizioni e gli allineamenti all’ordine costituito sono resi concetto mediante l’esperienza dialogica che si estende dal dialogo con il proprio sé profondo al tu. La città autoritaria sta ponendo in atto una serie di disposizioni “green”, si pensi ai nuovi spazi verdi nei quali le alberature sono minime, mentre gli spazi per il gioco e per il fitness si espandono senza proporzioni. I nuovi giardini pubblici sono in larga parte organizzati secondo aiuole di poca estensione che lasciano spazio ad aree di aggregazione. L’attenzione rivolta ai bambini e ai giovani è finalizzata ad addestrare i futuri sudditi del sistema che, dunque, devono essere allevati e sorvegliati. Le aree di aggregazione sono costituite da giochi strutturati a cui i bambini devono adattarsi. Non scelgono il modo in cui giocare e non inventano nuovi giochi, essi utilizzano giochi già precostituiti. Imparano ad adattarsi al sistema fin da subito e tale comportamento è reso più solido da un sistema che accompagna all’adattamento con l’edonismo.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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La condizione tragica
dell’uomo
L’uomo è l’unico essere vivente capace di scegliere consapevolmente la morte per qualcosa che giudica più importante della propria sopravvivenza: la libertà, la dignità, la fedeltà a un principio. Questa possibilità, paradossale e profondamente umana, nasce dalla nostra condizione mortale e, allo stesso tempo, la riflette. Proprio perché sappiamo di essere finiti, costretti a confrontarci con il limite della morte, siamo spinti a produrre senso, a cercare direzioni che diano valore e orientamento alla nostra esistenza.
Questa relazione è circolare: la consapevolezza della morte genera il bisogno di senso, e il senso che costruiamo può arrivare a rendere accettabile, perfino necessaria, la scelta della morte per qualcosa che consideriamo superiore.
Le società umane, infatti, non possiedono un fine immanente, inscritto nella loro natura: devono darselo. Hanno bisogno di costruire scopi, significati condivisi, visioni collettive del vivere insieme.
Umanizzarsi significa allora entrare in questo processo di costruzione culturale: dar forma alla propria vita e a quella della comunità attraverso narrazioni, valori, orientamenti che ci permettono non solo di convivere, ma di dare un senso al nostro essere mortali.
Non dobbiamo confondere la formalizzazione dei significati — come li troviamo espressi nelle leggi, nelle norme o nelle istituzioni — con il loro reale processo di nascita. I significati autentici prendono forma nell’esperienza vissuta: si generano attraverso i comportamenti collettivi, le pratiche quotidiane, le relazioni, le emozioni e i desideri delle persone concrete. Essi cambiano con il tempo e variano da una società all’altra, perché riflettono ciò che gli esseri umani rappresentano gli uni per gli altri in un determinato momento storico: quali valori condividono, quali obiettivi si pongono, cosa giudicano degno o indegno.
«I sogni non si vendono».
Armonica, in C’era una volta il West, di Sergio Leone
Il presente Trattato è frutto di un’attenta e completa rielaborazione, attualizzazione e importanti inserimenti di aggiornamento, a partire anche, come base iniziale di riferimento, dai volumi MAAT. Capitale, crisi e guerra. Metodi di Analisi Antimperialiste per le Transizioni1 e SIDUN. In direzione ostinata e contraria…Capitale, crisi e guerra2.
L’analisi dei fenomeni della società capitalistica, oggetto di studio dei numerosi testi3 della Scuola Marxista Decoloniale per la Tricontinental del Pluripolarismo, ha permesso l’individuazione dei pilastri portanti della critica dell’economia e dell’economia critica, che sono da inquadrare nella produzione e riproduzione di uomini nel divenire storico, ossia alla luce dei rapporti storici e sociali determinati.
Negli ultimi decenni, si è sviluppato un ricco dibattito sulle prospettive del sistema mondiale, evidenziando le tendenze mondiali già chiaramente evidenti a livello internazionale secondo modelli e leggi dello sfruttamento capitalistico nelle relazioni tra paesi. Questo dibattito si è intensificato dagli anni ’70, evidenziando una maggiore consapevolezza delle dinamiche globali e delle disparità economiche tra le diverse regioni del mondo. Rifuggendo da qualsiasi meccanicismo, positivismo o messianismo socialista, sono state superate le concezioni che contemplavano la tendenza del capitalismo a evolvere, naturaliter, in modello socialista.
Citando Amin4, la frontiera tra questi due modelli è senza dubbio rappresentata da una vera e propria rivoluzione sociale. Stante la condizione endemica delle diseguaglianze e delle asimmetrie nello sviluppo delle forze produttive tra paesi, nel quadro del sistema mondiale dominato dal capitalismo, sono state – a partire dal dibattito poc’anzi ricordato – tentate delle formulazioni di scenari, proprio relativi allo sviluppo di sistema. Fattore determinante di questi scenari non può che essere l’esito della lotta di classe, nel pieno solco della lezione marxiana fondata sull’assunto per cui «la storia di ogni società sinora esistita è storia delle lotte di classe»5.
Scopo del testo e
articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la seconda, la prima qui. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette, come insegna Said[1], affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno a due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale.
Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina. E’ utile a tal fine la lettura di un recente intervento in tre parti di Giacomo Gabellini, alla cui lettura rimando[2]. In sostanza Giacomo racconta, con l'usuale abbondanza di fonti e particolari, la storia degli ultimi venti anni durante i quali si è manifestata (dalla Presidenza Obama) la sempre crescente divaricazione strategica tra l'economia debitrice e quella creditrice, la prima impegnata a consumare e la seconda a produrre, rispettivamente americana e cinese. Parte da lontano, dalle ragioni della rottura di Bretton Woods da parte di Nixon (1971) e della crisi degli anni Settanta, risolta dalla cosiddetta “globalizzazione” e dalla caduta dell'Urss; parte essenziale di questo processo, durato un trentennio, è stata l'estensione alla Cina delle filiere produttive in uno scambio per il quale le merci a buon mercato contenevano la perdita di capacità d'acquisto interna americana e il riciclo via finanza dei surplus (da parte di Cina, Giappone e paesi arabi) consentiva l'indebitamento. Questo meccanismo alla lunga non era e non è stato sostenibile, gli Usa sono passati da creditori netti nel 1983 a debitori oggi.
Sento il dovere di oppormi ad alcuni argomenti utilizzati da Liliana Segre nell’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 5 maggio 2025. La Senatrice rappresenta una delle voci più autorevoli e lucide della comunità ebraica, una sorta di icona, nel bene come nel male, di un certo potere italiano. Appare essenziale confutare alcune tesi da lei sostenute, proprio in quanto in grado di influenzare l’opinione pubblica, seminando una confusione che potrebbe essere nociva al dibattito democratico.
Spero che la Senatrice non me ne voglia e non mi denunci nuovamente per antisemitismo. Io la leggo con attenzione e rispetto. Mi domando se Liliana Segre faccia lo stesso con i miei scritti e quelli di tanti altri, a cominciare da Moni Ovadia e Raniero La Valle, che esprimono una critica senza indulgenze alle politiche di Israele e non solo al Governo di Netanyahu.
Ecco, in sintesi, le mie obiezioni a una certa retorica che traspare dalle risposte assertive della Senatrice.
1. Si afferma, in un inciso, di non voler confondere un governo democraticamente eletto, quello di Netanyahu, con un movimento terroristico, Hamas.
In effetti, Hamas è stato anch’esso eletto democraticamente a Gaza nel 2007 e aveva fatto non poche aperture sul riconoscimento di Israele, che vennero rimandate al mittente.
Un ex dirigente CIA ora scaricato dalla Casa Bianca ha rilasciato un’intervista al quotidiano britannico The Times, criticando la strategia stelle-e-strisce sull’Ucraina. Le sue parole smascherano definitivamente una delle ultime narrazioni propagandistiche ancora ripetute a pappagallo dai media nostrani: le armi inviate a Kiev servono a dissanguare i contendenti, non a spostare gli equilibri della guerra.
Dopo la chiusura dell’accordo sui minerali tra Stati Uniti e Ucraina, e dopo che l’amministrazione Trump ha riaperto all’invio di armi alle forze ucraine, il governo statunitense dice di volersi tirare indietro dalla mediazione tra Mosca e Kiev. Il tycoon era alla ricerca di buoni affari commerciali, e quelli che ha portato a casa sembrano soddisfarlo, per ora.
Gli USA hanno ottenuto il controllo di riserve sostanziose di materie prime e che le armi si paghino, hanno ottenuto che la UE continui a pagare a caro prezzo il gas naturale statunitense, e probabilmente freneranno sul togliere alle sanzioni ai russi a meno che non chiudano un accordo favorevole al capitale statunitense anche sulla riattivazione dei gasdotti Nord Stream.
L’attività di “paciere” non si addice agli Stati Uniti, e anche questa volta hanno mostrato che gli obiettivi erano quelli di mantenere una leva e una posizione di vantaggio su tutti gli altri attori globali. Anche per questo la figura di Ralph Goff, fermo sostenitore di un maggiore impegno per l’Ucraina (in linea con la gestione Biden), non era quella adatta al ruolo di vicedirettore operativo della CIA.
Una nuova realtà strategica sta prendendo forma in Medio Oriente, guidata non dalla diplomazia o dalla deterrenza teorica, ma da concrete dimostrazioni di potenza militare e tecnologica. Il lancio riuscito e la detonazione accurata di un missile ipersonico dallo Yemen verso Israele sono stati più di un evento tattico: sono stati un’onda d’urto strategica. Per Teheran, non si è trattato solo di un gesto di supporto: è stato un test a fuoco vivo che ha messo a nudo i limiti della difesa missilistica statunitense e israeliana. Ha anche offerto all’Iran una rara opportunità di convalidare il suo programma missilistico, perfezionare la sua dottrina militare e inviare un messaggio chiaro: è pronto a colpire duramente se scoppia una guerra. E ora, con la prova delle prestazioni, è probabile che i missili iraniani suscitino un serio interesse da parte degli acquirenti in tutta la regione e oltre.
Una nuova era nella guerra missilistica
Il missile ha percorso circa 2.000 chilometri in sette-nove minuti ed è riuscito a eludere diversi livelli di difesa, tra cui il THAAD (Terminal High Altitude Area Defence) sviluppato dagli Stati Uniti e i sistemi israeliani Arrow 3 e David’s Sling. Si tratta di sistemi commercializzati e ampiamente ritenuti tra i più sofisticati al mondo.
Dagli eventi del 7 ottobre 2023 in Israele, è esplosa una potente bolla narrativa che ha preso il posto dei fatti. Le opinioni pubbliche occidentali, per lo più, si sono immerse nelle discussioni narrative tralasciando i fatti. Semitismo-antisemitismo è diventato un classico della tempesta narrativa. Shoa ebraica e genocidio palestinese ne è stato un altro. Civiltà e barbarie pur non convocato come tale, è stato un altro topos narrativo convocato nella tenzone. Molte discussioni, anche qui e su questa pagina, dopo aver scalato vari livelli di rincorsa ad armamenti narrativi sempre più divisivi, non hanno potuto far altro che rimandare il giudizio finale al “vedremo”.
Oggi non siamo ancora a quella fine dei fatti che ci permetterebbe di tirare la linea del giudizio, ma ci stiamo avvicinando. Il governo israeliano ha lanciato l’operazione “Carro di Gedeone”, una delle tante pièce narrative del capostipite di tutte le narrazioni occidentali: l’Antico Testamento.
La storiella di questo Gedeone si riferirebbe a fatti lontani, tipo XII secolo a.C., ma occorre ricordare che la redazione più o meno compiuta del Libro, è solo del VI secolo a.C. in quel di Babilonia, 6-700 anni dai presunti “fatti”. Quindi abbiamo un popolo che, residente su una terra condivisa con altri popoli, richiama una credenza condivisa di quasi quattromila anni fa, per un totale di meno di 18 milioni di persone in giro per il mondo (0,2% pop mondiale) inquadrando così narrativamente i fatti che sta compiendo. Per altro, la storiella di Gedeone, non si capisce affatto che parallelo anche metaforico avrebbe con la faccenda di Gaza. L’operazione “carro di Gedeone” pare voglia dislocare (deportare) tutti i palestinesi della Striscia e occuparla definitivamente.
Il pontificato di
Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, ha
rappresentato per molti aspetti una novità. È stato infatti il
primo papa gesuita,
ma anche il primo a scegliere il nome del Santo povero di
Assisi, e il primo non europeo da più di un millennio. Ma più
specificamente:
il primo latinoamericano e argentino. Su questa sua
provenienza geografica, che egli stesso ha sottolineato fin
dal suo esordio, dicendo che i
cardinali erano andati a prenderlo “quasi dalla fine del
mondo”, si sono soffermati molti nell’analisi delle sue
posizioni su temi
politici, sociali ed etici. È interessante allora chiedersi
che rapporto Bergoglio abbia avuto con la tradizione politica
del suo paese, e in
particolare con il populismo, fenomeno che nella variante
peronista, ha dominato la politica almeno a partire dagli anni
’40. Questo ci
permetterà anche di gettare luce su alcune dinamiche della
politica contemporanea che hanno a che vedere con
trasformazioni – forse
– epocali che ci attendono.
Il 4 aprile 2025 sul Wall Street Journal Joshua Chaffin e Aaron Zitner hanno parlato di quella parte conservatrice e tradizionalista di chiesa cattolica statunitense, che ora vede nel vicepresidente J. D. Vance un suo riferimento, e che è fortemente critica dell’operato di Papa Francesco. I due giornalisti hanno citato le parole di Stephen P. White (Direttore esecutivo del Catholic Project, una iniziativa di ricerca della Catholic University di Washington, D.C.) il quale definisce queste posizioni come parte di un movimento “populista” diffuso in tutto il mondo. Parla quindi, e con lui gli autori che lo hanno citato, di un cattolicesimo populista e tradizionalista contro l’eredità di Francesco, con la prospettiva di superare il suo pontificato imprimendo una svolta conservatrice.
Dall’altro lato però il Papa argentino è stato egli stesso definito spesso populista, a partire dalla sua provenienza geografica e in rapporto al suo discorso pubblico.
Condizioni così insostenibili
devono finire come i nostri divertimenti. Come
scrisse Fred Schwed in “Dove sono gli yacht dei
clienti?”: “Quando
le «condizioni» sono buone, l’investitore… compra. Ma quando
le «condizioni» sono buone, le azioni sono alte.
Poi, senza che nessuno abbia la cortesia di suonare un
campanello d’allarme, le “condizioni” peggiorano”. Questo
sta accadendo
ora. Il fattore scatenante della tumultuosa fase finale del
crollo è sconosciuto. Come aveva capito Mao Zedong: “una
singola scintilla
può appiccare un incendio nella prateria”. Potrebbe
trattarsi di una recessione, perdite sul credito, crolli del
prezzo delle azioni, il
fallimento di una strategia di trading, il fallimento di
un’azienda di grandi dimensioni, una frode o un evento
geopolitico. Il mondo di
oggi è una polveriera.
La prima parte di questa serie esamina i fattori che potrebbero rendere inevitabile una nuova crisi finanziaria. La seconda parte esaminerà la trasmissione degli shock, la resilienza e la capacità di rispondere per contenere una nuova emergenza.
Una nuova crisi finanziaria è alle porte. L’era sorprendentemente duratura dell’iperfinanziarizzazione si trova ad affrontare la prova più dura di sempre, a causa della concomitanza di condizioni economiche e finanziarie, unite a crescenti pressioni geopolitiche e ambientali. La mancanza di resilienza e la limitata capacità di risposta sono fattori aggravanti.
Tranquilli, dietro il blackout
spagnolo, che ha coinvolto pure il Portogallo, non ci sono né
complotti né misteri. Ci sono piuttosto silenzi e reticenze di
un sistema
di potere che non può disvelare la vera causa, che è
innanzitutto economica e dunque politica, di quel che è
successo.
A questo proposito l’imbarazzo di Sanchez è apparso evidente. Il capo del governo spagnolo avrebbe preferito poter additare una delle tante cause fasulle di cui si è cianciato sui media: un “misterioso” evento atmosferico, i sempre buoni “cambiamenti climatici”, la cattiva manina di hacker ovviamente filo-russi. Non ha potuto farlo, forse perché consapevole che il ridicolo può davvero uccidere la credibilità di un politico. Si farà, invece, una Commissione d’inchiesta, che è il classico modo per non arrivare a nulla.
Come avvengono i blackout
Siamo dunque ben lontani da una verità ufficiale, ma le notizie che cominciano a trapelare sono già sufficienti a indicare una prima e robusta ipotesi. Ma prima di arrivarci bisogna capire che cos’è un blackout generale, come quello verificatosi nella penisola iberica lo scorso 28 aprile. Mentre i blackout locali sono molto frequenti, basti pensare alle zone di montagna durante i temporali, i blackout generali (che interessano, cioè, interi paesi o porzioni importanti degli stessi) sono eventi piuttosto rari, ma che tuttavia capitano.
Senza scomodare i “mitici” blackout newyorchesi, in Europa, l’esempio più eclatante riguarda proprio l’Italia, che il 28 settembre 2003 rimase completamente al buio con l’eccezione della Sardegna. In questi casi, infatti, le isole – che hanno sistemi elettrici largamente indipendenti dal continente – sono in genere avvantaggiate. E’ stato così anche stavolta nel caso delle Baleari.
Dal banditismo di rivendicazione sociale a quello di speculazione sulle risorse. Dal devastante e fallimentare esperimento di industrializzazione, a quello delle pratiche di guerra in un’isola che è tutta un poligono. Dall’aggressione ad ambiente, cultura ed economia nel nome della transizione ecologica. Fino alla produzione delle bombe per le guerre sion-atlantiche
Non solo Rheinmetall, il colosso degli armamenti tedeschi e uno dei più grandi del mondo. E non solo Germania, con il suo nuovo megastabilimento in Bassa Sassonia. Rheinmetall Unterluess, alla luce degli 800 miliardi promessi da Ursula von der Leyen agli armaioli UE, si ripromette di passare da 200.000 a 350.OOO proiettili di artiglieria l’anno.e, nel contesto dei 1000 miliardi cui punta Ursula per il 2030, di arrivare a 300 miliardi di commesse, pari al 25% di tutto quello fanno gli altri europei.
Non solo Germania, e non solo Rheinmetall nella costellazione di nuovi o potenziati stabilimenti di armamenti che stanno sorgendo come funghi in Italia, a partire dalla Spezia, capitale di Leonardo con la sua Oto Melara, o da Colleferro, dove si produrranno nitroglicerina e altre schifezze esplosive. E a finire dove? Ma è ovvio, in Sardegna, dove nessuno si è mai sognato di impiantare qualcosa di militare….
Senza calcolare che, contagiati dalla frenesia bellica dell’eurolobbista tedesca e per non sapere nè leggere né scrivere, i nostri equipollenti della stessa lobby hanno sancito che le grandi opere, quali il Ponte sullo Stretto, o la diga foranea di Genova e, magari, la terza linea della metro romana, nel nuovo clima di festività belliche hanno assunto valenza militare e NATO.
L’andamento ciclotimico dei mercati e dei media occidentali si nutre spesso di notizie poco verificate o di autentiche illusioni. Un sistema in crisi, del resto, fatica a fare i conti con la realtà perché ogni sforzo serio in questa direzione implicherebbe la necessità di riconoscere le cause del proprio stato.
Succede così che le borse crollino repentinamente all’annuncio dei dazi da parte di Trump e poi si risollevino in pochi giorni quando lo stesso presidente Usa sembra fare qualche marcia indietro. Specie nei confronti della Cina, al tempo stesso principale competitor strategico e fondamentale fornitore delle merci base per consumatori poveri, come sono diventati i ceti popolari yankee.
Venerdì scorso lo “scatto” è stato motivato sulla notizia che la Cina “era pronta a negoziare” a proposito dei dazi, dopo aver reagito con tariffe doganali al 125% sulle importazioni dagli Usa dopo che Trump aveva portato al 145% quelle sulle merci cinesi, provocando di fatto il blocco pressoché totale degli scambi commerciali tra i due paesi.
Se “i cinesi si arrendono e sono pronti a negoziare” – così hanno presentato i media una dichiarazione del Dipartimento per il Commercio di Pechino – allora si può ricominciare a far correre le valutazioni azionarie e tutte le speculazioni finanziarie a esse collegate. Evviva!
Il 30 Aprile scorso Stati Uniti e l’Ucraina hanno firmato gli accordi sullo sfruttamento dei metalli rari, sono stati necessari mesi di trattative per trovare una intesa a lungo termine come è stata presentata dai siti ufficiali del Governo ucraino
In sostanza l'accordo si concentra su un'ulteriore assistenza militare degli Stati Uniti e non solo come risarcimento degli aiuti passati, gli introiti per Trump saranno superiori di quattro volte la spesa fino a oggi sostenuta a sostegno dell’Ucraina, ampi margini di lucro e di profitto evidenti anche agli occhi nostri ma non ancora percepiti invece dalla sonnacchiosa stampa occidentale. E proprio accrescere la produzione mineraria statunitense, anche attraverso l’acquisizione di nuove aree dislocate in paesi stranieri, resta tra gli obiettivi primari della nuova Amministrazione e non per cultura estrattivista ma per ragioni economiche ben comprensibili se guardiamo l’utilizzo dei metalli rari nelle produzioni tecnologicamente avanzate e di natura duale.
Misure immediate per aumentare la produzione mineraria americana – La Casa Bianca
Al contrario, per mesi, lo scontro Biden Trump è stato descritto in termini semplicistici come una lotta tra fautori delle energie fossili e sostenitori della svolta green senza mai mostrare gli interessi materiali che sostengono l’una e l’altra parte del capitalismo statunitense.
All’università di Cassino è stata discussa la prima tesi di laurea di un Avatar. Nelle scuole si assiste a un uso massiccio dell’intelligenza artificiale. Gli studenti la consultano per risolvere problemi, compiti e traduzioni. L’intelligenza artificiale sta assumendo una valenza che la rende comparabile a una ritualità magica della contemporaneità. Si esprime il desiderio e, in modo immediato, essa soddisfa le esigenze più disparate, tutto in modo rigorosamente anonimo. L’impegno e le tensioni causate dal confronto con se stessi sono così superati dalla magica presenza. L’intelligenza artificiale è dunque presenza inquietante e sconosciuta nella vita ordinaria di ogni giorno. Decenni di addestramento programmato al fatalismo e alla legge del “si può dunque si deve” hanno fondato una società ipertecnologica e superstiziosa nel contempo, in quanto la ragione pubblica ed etica è ormai considerata desueta, al suo posto regna la soddisfazione immediata dei desideri. L’intelligenza artificiale è ora la protagonista indiscussa e osannata di tale postura irriflessa. La seduzione è nella comodità, senza sforzo alcuno è possibile risolvere ogni quesito. I primi effetti sono già tra di noi, giacché non si ragiona, ormai, in termini di lungo periodo, pertanto irresponsabilità e irrazionalità dominano dietro l’apparente razionalità del sistema. Le risposte immediate hanno distorto la percezione del tempo sempre più simile a uno spazio breve lungo quanto una risposta dell’IA e mai trasformata in concetto.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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“Il capitalismo cadrà come il muro di Berlino”
José Francesco Bergoglio
Un confronto sulla percezione che sulle due sponde dell'Atlantico si ha della crisi in corso è importante, ma deve scontare uno choc cognitivo dovuto alla difficoltà di mettere a fuoco una svolta forse epocale. In effetti, è in corso a Washington un vero e proprio regime change, contrappasso della politica da decenni perseguita dalla Foreign Policy Community statunitense a tutte le latitudini. Se a prima vista sembra regnarvi il caos, la sfida è individuare una logica di fondo in questo caos. Detto altrimenti, Trump è sintomo e prodotto di profonde spinte materiali interne ed esterne oltreché l'attore di un tentativo di svolta nella postura strategica degli Stati Uniti nel mondo, dal corso incerto e con esiti difficilmente prevedibili.
Come fattori immediati, Trump 2.0 è il prodotto dei tre fallimenti principali e tangibili dell'amministrazione Biden: 1) non essere riuscita a infliggere una ”sconfitta strategica” alla Russia nel conflitto ucraino, avendo anzi favorito l'ulteriore riavvicinamento tra Mosca e Pechino e con gran parte del Sud Globale; 2) aver mancato l'obiettivo del decoupling selettivo con la Cina, ovvero il blocco della sua modernizzazione tecnologica e della risalita nelle catene globali del valore; 3) non aver arrestato il deterioramento del quadro sociale interno (nonostante gli impegni per una middle class foreign policy e gli abbozzi di reshoring, che in realtà si sono fermati sulla soglia del friendshoring con paesi come Messico e Vietnam). Anche solo alla luce di questi fattori, non era difficile ipotizzare che non Trump era la parentesi, ma Biden (le cui misure, non a caso, si sono collocate sul solco protezionistico di Trump 1.0, sanzioni comprese). Ma c'è di più. I fallimenti dell'amministrazione Democratica si configurano non come errori contingenti, bensì come la coda di un lungo ciclo della politica Usa e mondiale, quello della globalizzazione ascendente, già duramente scosso dalla crisi del 2008.
Il presidente
Donald Trump non è riuscito a portare la pace in Ucraina,
come aveva creduto di
poter fare. Ha scoperto una situazione molto più complessa
di quanto supposto.
Rifiutandosi di schierarsi con una parte o con l’altra, si è ritrovato in mezzo a un conflitto che perdura da un secolo tra due fratelli nemici; un conflitto che i suoi predecessori, Barack Obama e Joe Biden, alimentarono e strumentalizzarono. Prima di poter superare lo stallo, deve però chiarire la situazione ai propri concittadini.
* * * *
Dopo aver esaminato i negoziati con l’Iran [1], in questo articolo analizziamo i negoziati del presidente Trump con l’Ucraina. Purtroppo, non disponiamo di documenti dei nazionalisti integralisti ucraini, mentre abbiamo quelli dei nazionalisti integralisti israeliani. Questo perché l’Ucraina di oggi è una vera e propria dittatura militare. In Israele invece l’esercito è ancora il garante di ciò che rimane della democrazia, picconata dai sionisti revisionisti di Benjamin Netanyahu.
La questione ucraina è molto diversa da quella iraniana in quanto gli Stati Uniti non hanno miti in comune con l’Ucraina, mentre ne condividono con Israele. In Medio Oriente il presidente Trump sta cercando di negoziare una pace equa e duratura preservando al tempo stesso gli interessi di Israele (non quelli dei sionisti revisionisti, che aspirano a un Grande Israele). In Ucraina si rifiuta di schierarsi con una delle parti e si attiene a una posizione di stretta neutralità. I suoi predecessori Obama e Biden avevano invece concluso con i nazionalisti integralisti un accordo segreto contro la Russia. Trump deve innanzitutto scoprire la reale complessità della situazione, ma per conseguire un risultato è necessario che ne renda consapevole anche la propria amministrazione.
Ethan Mollick, L’intelligenza condivisa. Vivere e lavorare insieme all’AI, traduzione di Paolo Bassotti, Luiss Univerity Press, Roma 2025, pp. 184, ed. cartacea € 18.00, ed. ebook € 9,99
Che con la comparsa
dell’intelligenza artificiale generativa il mondo stia
cambiando in aspetti tutt’altro che marginali è certo e tutto
lascia pensare
che sia destinato a cambiare ancora più radicalmente in un
futuro non troppo lontano, sebbene nessuno sia in grado di
prevedere in che termini,
come ammette lo stesso Ethan Mollick nel suo saggio Co-intelligence.
Living and Working with AI (2024) ora pubblicato in
italiano da Luiss
Univerity Press. «Nessuno sa davvero dove stiamo andando. Non
lo so neanch’io. Non ho risposte definitive», scrive l’autore,
«nessuno ha un quadro completo del significato della AI e […]
perfino le persone che creano e si servono di questi sistemi
non ne
comprendono in pieno le implicazioni» (p. 16).
Insomma, con l’AI si naviga davvero a vista ma, soprattutto, l’impressione, almeno da parte di chi guarda al fenomeno con spirito critico, è che si sia entrati in un meccanismo che rischia di diventare sempre meno “umanamente governabile”. L’incapacità di immaginare con una certa precisione in che termini l’intelligenza artificiale impatterà sul mondo, modificandolo, sembra dipendere, più che dalla velocità con cui sta procedendo il suo sviluppo, dall’imprevedibilità di quest’ultimo, che infatti si sta dimostrando ben poco lineare nel suo procedere prendendo direzioni inaspettate (autonome, direbbero i più preoccupati) rispetto a qualsiasi pianificazione umana.
Rispetto a quella umana, quella delle macchine pensanti è un tipo diverso di intelligenza (artificiale, appunto) che, per quanto nutrita di conoscenze umane, segue traiettorie di ragionamento sue e si avvia a oltrepassare i limiti dell’umana intelligenza e comprensione. Di pari passo all’incapacità umana di prevedere gli scenari determinati dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale, questa, invece, si sta appropriando del linguaggio oracolare per interpretare e giudicare il mondo e una volta che ha previsto quanto dovrebbe accadere, derivandolo dalla mera analisi statistica, propone agli esseri umani di assecondare il futuro prefigurato.
Sarebbe ora di rivalutare il troppo bistrattato “benaltrismo”. Quasi tutti i commenti hanno giustamente messo alla gogna il segretario statunitense alla Difesa Hegseth per non aver tutelato la riservatezza delle conversazioni interne all’amministrazione. Certamente è stato grave far trapelare informazioni su operazioni militari in preparazione; ma, a ben guardare, c’era “ben altro” di cui preoccuparsi; infatti, in quelle conversazioni, il segretario alla Difesa, e anche il vicepresidente Vance, dimostravano di credere davvero alle scemenze che sono soliti raccontare ai media. In particolare, Vance dichiarava testualmente : “Odio salvare gli europei”. Quindi, secondo Vance, attaccare gli Houthi sarebbe stato nell’interesse degli europei. Solo un mentecatto può crederci, in quanto gli Houthi sono in guerra esclusivamente contro Israele, quindi attaccano soltanto navi dirette a porti israeliani o che provengono da essi. Sia gli europei con la missione “Aspides”, sia ora gli USA, nella questione del Mar Rosso agiscono come “proxy” di Israele, visto che la minaccia alla navigazione riguarda solo Israele.
“Israele” va inteso in senso completo, non solo come entità coloniale sionista che occupa un certo territorio, ma anche come sistema di lobbying, finanziamento elettorale, elusione fiscale attraverso il non profit, riciclaggio di denaro tramite operazioni finanziarie all’estero.
Avvertenza. Proseguendo nel lavoro di riflessione critica su alcuni nodi teorici che Marx tratta nei Libri II e III del Capitale, mi sono reso conto dell'opportunità di apportare un paio di varianti al progetto iniziale: 1) in questa quarta parte ho inserito un cenno alla integrazione della classe operaia nel capitale, argomento che inizialmente avevo pensato di discutere in una sesta parte dedicata alla “de-naturalizzazione” di lavoro e terra. Ciò perché mi sono reso conto che non avrei potuto scriverne senza studiare a fondo la questione della rendita fondiaria, il che, al momento, mi è impossibile, per cui la sesta parte è stata esclusa dal progetto; 2) quanto all’annunciata appendice sulle critiche della Luxemburg agli schemi marxiani dell’accumulazione allargata, sarà integrata nella quinta e ultima parte su centralizzazione del capitale, caduta del saggio di profitto e crisi. Colgo infine l’occasione per chiarire (ove ve ne fosse bisogno) che con questi cinque testi non intendo offrire niente più che un elenco di dubbi e problemi relativi alla misura in cui certe categorie marxiane appaiono applicabili ai giorni nostri (un lavoro sistematico sulla seconda e terza sezione del Capitale avrebbe richiesto ben altre dimensioni). Quanto agli autori citati, oltre a Marx ed Engels, si tratta di mie personalissime scelte, per cui mi scuso in anticipo con tutti coloro che mi rimprovereranno di avere trascurato questa o quella voce dell’immane bibliografia che la tradizione marxista (e non solo) ha sfornato su queste questioni.
I brani del Capitale in cui Marx mette in evidenza il peso determinante del fattore sociale nel modo di produzione capitalistico sono talmente frequenti e numerosi che, a volerli citare tutti, si accumulerebbe una quantità di pagine non molto inferiore a quelle del Capitale stesso. Ecco perché le citazioni seguenti non hanno la pretesa di essere esaustive dell’argomento, ma rappresentano una scelta inevitabilmente limitata e arbitraria.
Introduzione
Costruire oggi un ragionamento lucido e critico sulla scuola risulta particolarmente complesso, immersi come siamo in una fase di profonda e convulsa trasformazione geopolitica. Da tempo, del resto, la scuola ha cessato di essere un motore di rinnovamento sociale: si è ridotta a campo di battaglia simbolico, dove si affrontano istanze ideologiche contrapposte che offuscano l’origine materiale dei propri discorsi. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, l’apparente polarizzazione tra conservatori identitari e progressisti inclusivi cela in realtà una profonda convergenza strategica. Nell’epoca neoliberale, la scuola segue traiettorie imposte, che solo un’analisi di classe può rendere visibili: è in questo contesto che si rivela il gioco a somma zero tra la pedagogia liberal e la destra reazionaria, poli complementari di un medesimo orizzonte sistemico.
Tuttavia, l’attuale scenario segna un cambio di fase. La globalizzazione che sembrava irreversibile viene ora rimessa in discussione dell’avventuroso “primato della politica” inscenato dall’amministrazione Trump e nuove configurazioni geopolitiche cominciano a delinearsi. In questo quadro, è plausibile attendersi che anche la scuola si allinei docilmente alle nuove direttive esterne, questa volta provenienti da un’Unione Europea disorientata, priva di strategia, ma intenzionata a ridefinirsi in chiave difensiva e identitaria. Il nostro paese vive infatti in pieno la stagione dell’euro-nazionalismo, cioè della torsione autoritaria del progetto europeo in chiave militarista con i suoi meccanismi di ristrutturazione politica, economica e ideologica. In questo scenario, tuttavia, la scuola viene coinvolta suo malgrado come uno dei luoghi in cui si rifrangono le tensioni tra blocchi geopolitici e tendenze interne del capitale. Al tempo stesso, è proprio questa crisi convulsa che rende oggi più chiara la validità delle analisi critiche sin qui sviluppate dalla sinistra di orientamento marxista. Il problema, semmai, è che ci coglie impreparati a ripensare in modo radicale il ruolo della scuola nella fase che si apre.
La rivendicazione dell'eguaglianza ha così, sulle labbra del
proletariato, un duplice significato. O, ed è quanto
avviene
specialmente nei primi inizi, per es. nella guerra dei
contadini, è la reazione naturale contro le stridenti
disuguaglianze sociali, contro il
contrasto di ricchi e poveri, di signori e servi, di
crapuloni e affamati; e come tale è semplicemente
espressione dell'istinto rivoluzionario,
e trova la sua giustificazione in questo contrasto e
solamente in esso. O invece è sorta dalla reazione contro
la rivendicazione borghese
dell'eguaglianza e da questa trae esigenze più o meno
giuste che la oltrepassano e serve come mezzo di
agitazione per eccitare i lavoratori
contro i capitalisti con le affermazioni proprie dei
capitalisti, e in questo caso essa si regge e cade con la
stessa eguaglianza borghese. In
entrambi i casi l'effettivo contenuto della rivendicazione
proletaria dell'eguaglianza è la rivendicazione della soppressione
delle classi. Ogni rivendicazione di eguaglianza
che esce da questi limiti va
necessariamente a finire nell'assurdo.
F. Engels, Anti-Dühring, Prima Parte, Cap. X: Morale e diritto. Eguaglianza.
In un periodo di crescente “scontro delle civiltà” 1 e di risorgenti etnocentrismi, il razzismo sembra avere un grande futuro davanti a sé. Come è noto, si tratta del mito di una razza superiore, alla quale sarebbero dovuti tutti i vantaggi della civiltà, le creazioni della cultura, l’ordine morale e civile, e alla quale viene contrapposta una razza inferiore incapace di tutto questo, vivente da parassita a spese dell’altra, quindi indegna di partecipare ai benefici e ai diritti, e destinata a vivere nell’isolamento dei ghetti. Ridotto in forma pseudoscientifica in uno scritto di Alfred Rosenberg del
1930, 2 questo mito divenne l’insegna del nazismo hitleriano, che si avvalse di esso per giustificare sia la sua pretesa di dominare il mondo sia lo sterminio degli ebrei. 3
Per il 9 maggio del 2015, un bel dieci anni fa, sul sito del giornale di cui ero allora vice-direttore [Famiglia Cristiana, ndr] scrissi un articolo che più o meno diceva: cari Paesi occidentali che boicottate la parata con cui la Russia festeggia la vittoria sul nazismo, non vi rendete conto dell’errore clamoroso che commettete.
Il boicottaggio, se considerato nel vuoto cosmico, aveva le sue ottime ragioni: arrivava dopo che i russi si erano ripresi la Crimea (nel 1954 passata dall’allora segretario generale del Pcus, Nikita Krushev, dalla Repubblica Socialista Sovietica Russa alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina) con i famosi “omini verdi”, soldati senza insegne, violando un mazzo di trattati internazionali tra cui quello firmato nel 1994 con l’Ucraina stessa. Che, fresca di indipendenza, cedeva alla Russia il proprio arsenale atomico in cambio di un impegno formale di Mosca a rispettare i suoi confini e la sua integrità territoriale.
Questo, appunto, nel vuoto cosmico. Perché nella realtà, il boicottaggio veniva promosso da Paesi come Usa e Gran Bretagna che nel 2003 avevano invaso l’Iraq raccontando all’Onu e al mondo la panzana degli arsenali di Saddam Hussein pieni di armi di distruzione di massa, lanciando un’invasione che provocò, direttamente e indirettamente, la morte di centinaia di migliaia di iracheni (700 mila, secondo le valutazioni della rivista inglese Lancet).
Una nuova realtà strategica sta prendendo forma in Medio Oriente, guidata non dalla diplomazia o dalla deterrenza teorica, ma da concrete dimostrazioni di potenza militare e tecnologica. Il lancio riuscito e la detonazione accurata di un missile ipersonico dallo Yemen verso Israele sono stati più di un evento tattico: sono stati un’onda d’urto strategica. Per Teheran, non si è trattato solo di un gesto di supporto: è stato un test a fuoco vivo che ha messo a nudo i limiti della difesa missilistica statunitense e israeliana. Ha anche offerto all’Iran una rara opportunità di convalidare il suo programma missilistico, perfezionare la sua dottrina militare e inviare un messaggio chiaro: è pronto a colpire duramente se scoppia una guerra. E ora, con la prova delle prestazioni, è probabile che i missili iraniani suscitino un serio interesse da parte degli acquirenti in tutta la regione e oltre.
Una nuova era nella guerra missilistica
Il missile ha percorso circa 2.000 chilometri in sette-nove minuti ed è riuscito a eludere diversi livelli di difesa, tra cui il THAAD (Terminal High Altitude Area Defence) sviluppato dagli Stati Uniti e i sistemi israeliani Arrow 3 e David’s Sling. Si tratta di sistemi commercializzati e ampiamente ritenuti tra i più sofisticati al mondo.
Nonostante le minacce e gli allarmi su possibili attacchi o false flag, nessun leader ha ritirato la partecipazione. L’evento si trasforma in un banco di prova per l’asse Russia-Cina e l’influenza diplomatica di Zelensky
Il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping si recherà a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio, nonostante gli avvertimenti di Kiev. Lo ha confermato domenica mattina il Cremlino con una nota ufficiale, nella quale comunica che il leader cinese compirà una visita ufficiale nella Federazione Russa dal 7 al 10 maggio.
Oltre alla partecipazione alle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della vittoria sul nazismo, sono in agenda colloqui bilaterali sulle “principali questioni relative all'ulteriore sviluppo delle relazioni di partenariato globale e di interazione strategica, nonché le questioni di attualità dell'agenda internazionale e regionale” tra Russia e Cina.
Inoltre si prevede la firma di una serie di documenti bilaterali intergovernativi e interdipartimentali, riferisce la nota.
Chi sarà presente alla parata della Vittoria
Il primo ministro slovacco Robert Fico e il presidente serbo Aleksandr Vucic saranno a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio. Ieri la loro presenza era stata messa in dubbio dalle condizioni di salute dei due leader, che negli scorsi giorni avevano annullato all’ improvviso di importanti attività politiche. Questa mattina entrambi hanno ufficialmente confermato la partecipazione.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Torniamo ai nostri sindacati russi di
inizio Novecento. Alla luce di quanto esposto, è ora più
chiaro il passaggio dei profsojuz verso la partijnost’
in favore dei rivoluzionari russi, pur mantenendo una
neutralità operativa, ovvero non perdendo mai di vista i loro
riferimenti primari e
principali, i lavoratori, fossero o meno iscritti al partito.
Sin da subito fra sindacalisti e rivoluzionari fu alleanza vera e propria contro lo zarismo. Dichiarando lo sciopero generale durante l’insurrezione del 1905, i sindacati misero in crisi l’intero apparato statale, ivi compresa la repressione e la propaganda: anzi, non solo non uscivano i giornali di regime, ma erano gli stessi tipografici a stampare i fogli rivoluzionari. Non da ultimo, i sindacati parteciparono attivamente alla vita dei primi Soviet1.
In questo rapporto di reciproca intesa e scambio, anche altri partiti provarono a inserirsi: le altre formazioni di sinistra, per esempio, piuttosto che lo stesso partito cadetto. Tuttavia, i tentativi dei primi di creare “doppioni” del rapporto allora in essere, così come quelli dei secondi di portare la dialettica politica-sindacato al di fuori della lotta di classe, in un momento come quello di fortissimo inasprimento del conflitto, erano entrambi destinati a non incidere minimamente sul corso generale degli eventi. Eventi che, per l’appunto, dopo e nonostante la fallita rivoluzione del 1905, vedevano sempre più uniti nella lotta socialdemocratici e sindacati.
Anni difficili, quelli che seguirono, anzi tragici per il movimento sindacale russo: la reazione segnò significativi successi, con centinaia di sedi sindacali chiuse e sgomberate, scioperi sconfitti dalle serrate padronali e dispersione di iscritti e militanti.
Il POSDR reagì a quella formidabile ondata repressiva accettando frontalmente lo scontro. In una circolare del CC datata 11 febbraio 1908 e indirizzata ai propri iscritti sindacalisti con delle linee guida per l’azione, invocava maggiori antagonismo, rafforzamento e radicamento sul territorio, nonché la sostituzione il più possibile immediata delle posizioni lasciate vacanti dai compagni arrestati o dalle chiusure forzate delle sedi.
Pubblichiamo
la traduzione italiana di un importante contributo di
Perry Anderson, noto studioso
marxista, docente di sociologia e storia all’Università
della California, già direttore della New Left Review e
collaboratore del
quotidiano di sinistra Nation e della London Review of
Books. Anderson è stato studioso di Gramsci e anche
esperto di politica italiana.
Ricordiamo che nel 2014 scrisse un saggio dal titolo The Italian Disaster nel quale attribuisce
la
causa della lunga crisi italiana al ruolo anomalo assunto
dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano, dalle sue continue
interferenze costituzionali e politiche all’abbandono
della prassi di guardiano imparziale dell’ordine
parlamentare, avvenuto
nell’ambito di un sistema già gravato dalla corruzione
negli affari, nella burocrazia, nella politica. Il testo
di Anderson non è
mai stato tradotto e pubblicato su una rivista italiana.
In questo articolo, comparso sulla London Book of Review, Vol.
47
No. 6 del 3 aprile 2025, Anderson si sofferma sulla fase
di transizione che sta caratterizzando la dinamica
geopolitica internazionale in un
contesto dove le destre estreme avanzano e dove una delle
cause di questo declino populista è soprattutto imputabile
al venir meno del ruolo
critico della classe intellettuale progressista, prona,
per vari motivi, ai diktat neoliberisti.
* * * * *
Negli anni recenti, il cambio di regime (Regime Change) è diventato un termine canonico. Significa il rovesciamento, tipicamente ma non esclusivamente da parte degli Stati Uniti, di governi in tutto il mondo non graditi all’Occidente, utilizzando a tal fine la forza militare, il blocco economico, l’erosione ideologica o una combinazione di questi elementi.
Ancora una volta, in Israele, è
la destra estrema con esplicite simpatie naziste, a dettare
la linea di marcia al governo e all’esercito. E questa linea
di marcia Smotrich e
Ben-Gvir l’hanno tracciata da tempo: “distruggere
interamente Gaza”, occupare in modo permanente l’intera
striscia,
“ripulire” questa area della Palestina storica dai suoi
abitanti, deportandoli in paesi del “Terzo Mondo”,
centellinare
la ripresa degli aiuti (60 camion al giorno, il 10% del
minimo necessario), appaltare la gestione di essi a due
ditte amerikane poste sotto il
controllo dell’esercito sionista, annettere formalmente
tutta la Cisgiordania entro il 2026. In seguito, si passerà
a regolare i
conti restanti con gli “arabi-israeliani”. In breve: la
soluzione finale della questione palestinese, e – insieme –
un
tassello fondamentale della costruzione del “grande
Israele”. Da due giorni questa linea di marcia è stata fatta
propria, in modo
ufficiale, dal governo in carica. È il piano di una
nuova Nakba, più radicale di quella del
1948.
L’ammasso di spazzatura che prende il nome di “libera stampa” non ha battuto ciglio davanti alla denominazione della nuova operazione militare del governo Netanyahu: “carri di Gedeone”. Una denominazione biblica che conferma il timbro sempre più fondamentalista religioso dello sterminismo sionista, e insieme l’illimitata capacità di mentire dei sionisti che raffigurano l’Idf, sostenuto incondizionatamente dalla gigantesca macchina di morte dell’imperialismo occidentale, come un’entità di forze di molte volte inferiore alle armate del nemico palestinese – laddove è palese l’esatto contrario.
Al massimo, i media di regime si lasciano scivolare una lacrimuccia sul viso per il fatto che a Gaza si soffre e si muore ormai, oltre che di bombe, di fame (*), dal momento che – indisturbato – lo stato sionista ha da mesi bloccato l’ingresso di ogni aiuto alimentare nella striscia con il proposito di straziare chi è ancora in vita, e con l’intento di scatenare scontri tra affamati e la rivolta contro Hamas.
Questo nuovo papa piace a tutti. Segno che c’è qualcosa che non torna. Intendiamoci: per un cattolico di qualsiasi orientamento si tratta di una buona notizia, perché il pontefice dovrebbe incarnare l’unità della Chiesa. Con quell’emblematico “la pace sia con voi”, Robert Francis Prevost è parso invitare anzitutto alla pacificazione interna di un “corpo mistico” il quale, tuttavia, è notoriamente diviso al suo interno. Papa Francesco, con le mine che ha disseminato su vari fronti, lascia un’eredità dinamica, in divenire, ma di sicuro non unitaria. Prevost (che proprio un prevosto, cioè una seconda fila, non è, essendo stato fino a ieri l’addetto di Curia alle nomine dei vescov) ha esordito consapevole del problema, in stile andreottiano: da un lato, si è affacciato al balcone con i paramenti rossi per rassicurare i fedeli orfani di Ratzinger, dall’altro ha marcato la continuità con Bergoglio scegliendo, come primo aggettivo della “sua” Chiesa, un oltremodo significativo “sinodale” (sinonimo, alla grossa, di “democratico”) che forse rappresenta potenzialmente la novità più dirompente, a livello istituzionale. Così come, d’altro canto, lui di nascita statunitense e con gli occhi puntati addosso per i risvolti geopolitici, ha ripetuto ossessivamente la parola “pace”, aggiungendovi “disarmata e disarmante” (scelta lessicale, questa, non scontatissima), ma d’altra parte, da buon ex priore dell’ordine di Agostino d’Ippona, ha fatto vibrare il non preavalebunt (“il male non prevarrà”), che non può non essere gradito agli orecchi di chi lamenta una Santa Madre troppo poco attenta all’eterno, all’anima e alla lotta contro pape Satàn.
Una delle condizioni per capire quanto accade è la libertà. Almeno un grado minimo di libertà interiore, politica e morale è infatti necessario per guardare i fatti e il mondo al di là della enorme potenza del condizionamento che un animale sociale e gregario quale è l’umano inevitabilmente subisce. Soprattutto per capire le tragedie. In esse infatti si esprime e si condensa la complessità delle relazioni sia individuali sia collettive. La storia dei popoli e dei loro conflitti non può essere compresa da una prospettiva mediatica o moralistica o desiderante.
Il desiderio che le cose vadano come ci renderebbe sereni che andassero è ciò che in lingua inglese viene definito wishful thinking, un pensiero che scambia i propri auspici per realtà del mondo, un po’ al modo nel quale la Donna Prassede di Manzoni scambiava per volontà di Dio il proprio cervello.
Il moralismo è un ostacolo formidabile alla comprensione poiché semplifica e riduce a schemi consolidati le realtà umane, le quali di solito sono invece molto complesse e multifattoriali.
I media più potenti e più diffusi, poi, sono del tutto inaffidabili anche solo per il fatto che gli addetti all’informazione hanno «toujours un maître, parfois plusieurs» (Guy Debord), hanno sempre un padrone e a volte anche più di uno.
Dopo l’incontro nazionale che si è tenuto a Roma domenica 13 Aprile, promosso da 40 tra partiti, associazioni, realtà del sindacalismo di base e del mondo pacifista e studentesco, si è avviato un percorso per la costruzione di una manifestazione nazionale per il 21 giugno a Roma, a pochi giorni dal vertice Nato dell’Aia.
Per preparare la manifestazione viene convocata una assemblea nazionale a Roma il 24 maggio (ore 10.00 al cinema Aquila). È fondamentale in questo momento coinvolgere più realtà, organizzazioni, intellettuali e membri della società civile disponibili a costruire un fronte ampio e indipendente contro le politiche belliciste, il riarmo, la Nato e il genocidio in Palestina e per riconvertire gli investimenti in armi in spese sociali. La lotta contro il riarmo e la guerra non può essere merce di scambio elettorale. Per costruire questo percorso sono stati individuati una serie di punti su cui concentrarsi per favorire la maggior convergenza possibile.
1) il disarmo come unica scelta giusta e razionale per il futuro dell’umanità. Il disarmo richiede la immediata de escalation delle armi e delle spese militari, il cessate il fuoco in ogni luogo di guerra per giungere a un accordo di disarmo generalizzato che metta al bando le armi nucleari e riduca gli eserciti.
Il riarmo, fino agli inizi degli anni 2.000, dava il senso di evocazione di sciagure, di distruzione totale e invece oggi è diventato il punto principale dell’agenda politica, con una cultura guerrafondaia sempre più dominante che modifica il paradigma della civiltà con la ripresa di quelle ipotesi di un futuro di guerra che dopo le esperienze devastanti del novecento sembravano superate in modo definitivo. Invece no, la guerra da evento impensabile è diventata un’opzione possibile disponibile. Nell’Europa della Ursula von der Leyen soffia un vento di tempesta guerrafondaia, che viene evocato e si allarga con il consenso delle 27 nazioni che votano a favore del riarmamento per ben 800 miliardi. Senza più razionalità o quantomeno difesa dell’istinto di conservazione. La Germania che dal dopoguerra aveva scelto di non armarsi e di non dotarsi di bomba atomica, ora pensa di riarmarsi per 500 miliardi di euro e dotarsi di “deterrente nucleare. L’Italia viene subito dopo la Germania con 73 miliardi di euro programmati dalla Meloni. Un vento guerrafondaio che spira nelle menti delle forze governative e anche di esponenti di opposizioni. Nei Paesi Europee e ovunque, la guerra sfonda le porte delle menti, vi penetra non solo per favorire gli interessi delle solite e nuove grandi multinazionali delle armi, ma anche come nuovo fatto culturale ideologico, che dovrebbe corrompere e ottenere il consenso delle masse.
Nel modello
neoclassico standard, il mercato del lavoro raggiunge
spontaneamente un punto di equilibrio attraverso
l’interazione tra domanda e offerta,
senza necessità di interventi esterni. I lavoratori decidono
quanto lavoro offrire in base al livello del salario reale:
se il salario aumenta,
cresce anche l’offerta di lavoro; se diminuisce, l’offerta
si riduce. Dal lato delle imprese, all’aumentare del costo
del lavoro si
riduce la domanda di lavoro, e viceversa. L’intersezione tra
queste due curve determina un equilibrio in cui non esiste
disoccupazione
involontaria: ogni lavoratore disposto a lavorare al salario
di equilibrio trova occupazione.
Se, tuttavia, intervengono rigidità istituzionali – in particolare salariali – che impediscono l’aggiustamento dei prezzi dei fattori, l’equilibrio viene disturbato. In presenza di salari minimi imposti, contrattazione sindacale rigida o altre barriere alla flessibilità salariale, il salario reale può mantenersi sopra il livello di equilibrio. In questo caso, una parte della forza lavoro rimane disoccupata non per scelta, ma per effetto di un prezzo del lavoro non compatibile con la domanda delle imprese.
Questo modello, posto che abbia mai funzionate perfettamente (automaticamente), riflette una società ottocentesca, nella quale le imprese assumono (domandano lavoro) entro i limiti della produttività marginale del lavoro. Assumono finché la produttività del lavoro è maggiore o eguale al salario. Se la produttività aumenta, aumenta anche la domanda di lavoro. Un calo della produttività riduce l’incentivo ad assumere.
All’inizio del Novecento, con il Fordismo, si osserva un marcato aumento della produttività marginale del lavoro. Le imprese riescono a produrre una quantità maggiore di output con lo stesso numero di lavoratori, oppure a mantenere lo stesso livello di produzione con un numero inferiore di occupati. Questa efficienza dovrebbe tradursi in una discesa dei prezzi e in un aumento del potere d’acquisto dei salari, ristabilendo un equilibrio dinamico.
Come possiamo dare un senso alla postura apparentemente autodistruttiva dell’Europa? Quattro dimensioni interconnesse possono aiutare a spiegare la posizione dei suoi leader: psicologica, politica, strategica e transatlantica
Per chi è esterno, la politica
europea può essere difficile da decifrare oggigiorno, e
questo è più evidente che mai nella risposta del continente
all’evolversi della situazione in Ucraina. Dalla rinascita
politica di Donald Trump e dalla sua iniziativa di negoziare
la fine del conflitto
russo-ucraino, i leader europei hanno agito in modi che
sembrano sfidare la logica fondamentale delle relazioni
internazionali, in particolare il
realismo, secondo cui gli Stati agiscono principalmente per
promuovere i propri interessi strategici.
Invece di sostenere gli sforzi diplomatici per porre fine alla guerra, i leader europei sono sembrati intenzionati a ostacolare le aperture di pace di Trump, indebolire i negoziati e prolungare il conflitto. Dal punto di vista degli interessi fondamentali dell’Europa, questo non è solo sconcertante, è irrazionale. La guerra in Ucraina, meglio descritta come un conflitto per procura NATO-Russia, ha inflitto immensi danni economici alle industrie e alle famiglie europee, aumentando drasticamente i rischi per la sicurezza in tutto il continente. Si potrebbe sostenere, naturalmente, che il coinvolgimento dell’Europa nella guerra sia stato fuorviante fin dall’inizio, frutto di arroganza ed errori di calcolo strategico, inclusa l’errata convinzione che la Russia avrebbe subito un rapido collasso economico e una sconfitta militare.
Tuttavia, qualunque sia stata la logica alla base della risposta iniziale dell’Europa alla guerra, ci si potrebbe aspettare che, alla luce delle sue conseguenze, i leader europei avrebbero colto con entusiasmo qualsiasi via praticabile verso la pace – e con essa, l’opportunità di ripristinare i rapporti diplomatici e la cooperazione economica con la Russia. Invece, hanno reagito con allarme alla “minaccia” della pace. Lungi dall’accogliere con favore l’opportunità, hanno raddoppiato gli sforzi: hanno promesso un sostegno finanziario e militare a tempo indeterminato all’Ucraina e hanno annunciato un piano di riarmo senza precedenti che suggerisce che l’Europa si sta preparando a una situazione di stallo militarizzato a lungo termine con la Russia, anche in caso di una soluzione negoziata.
Sicuri che in Germania i rischi per la democrazia arrivino soltanto da AfD? Da dove viene Friedrich Merz, il neo-cancelliere della Cdu? La guerra permanente con la Russia è davvero per la difesa dell’Ucraina? E quali sono gli interessi militari e finanziari che alimentano l’indifferenza europea per l’eliminazione del popolo palestinese dalla sua terra? Grazie a ytali.com, diretta da Guido Moltedo, troviamo qualche risposta nella traduzione di un’interessante analisi della rivista Ossietzky. (Stefano Fassina)
* * * *
“BlackRock Germany” di Werner Rügemer ricostruisce la carriera di Friedrich Merz alla guida del ramo tedesco della potente multinazionale, una delle tre grandi del complesso militare industriale mondiale.
In molti si chiedono, in modo sempre più insistente, perché i governi occidentali non s’impegnino – per esempio in nome dei diritti umani – a chiedere la fine del massacro, si direbbe senza fine, della popolazione civile palestinese. Gli appelli dell’ultima amministrazione Biden per un’attenuazione degli attacchi a Gaza caddero nel vuoto, mentre il sostegno militare e finanziario al governo israeliano continuava senza sosta.
All’inizio di aprile sono entrati in vigore i nuovi dazi commerciali decisi dall’amministrazione Trump, ovvero un pacchetto piuttosto corposo di imposte sull’importazione di beni afferenti a un numero ampio di settori merceologici, prodotti in vari paesi del mondo.
Una seconda ondata di aumenti sarebbe dovuta scattare nel volgere di pochi giorni, ma è stata poi all’improvviso sospesa per un periodo di 90 giorni (tutt’ora in vigore), durante il quale l’Amministrazione USA sta intavolando trattative con molti dei paesi coinvolti, tra cui l’Unione Europea. Restano in essere invece dazi molto alti sulle importazioni dalla Cina.
Per i paesi dell’Unione Europea, a oggi, risultano in vigore dazi base al 10% su un numero amplissimo di prodotti, nonché dazi già varati nei mesi precedenti al 25% su acciaio, alluminio e automobili, a fronte di cui l’Unione aveva predisposto contro-dazi di entità pari a 22,6 miliardi. Questa contromisura, tuttavia, è stata sospesa una volta che Trump ha introdotto la proroga di 90 giorni, per favorire un negoziato tra le parti.
L’alternarsi di annunci e retromarce ha scosso i mercati finanziari, provocando forti oscillazioni e reazioni politiche. In Europa il dibattito sul tema è stato confuso e superficiale, ma ha evidenziato aspetti rilevanti.
1. L’impatto economico e finanziario dei crediti fiscali trasferibili nell’edilizia
Il Fondo Monetario Internazionale ha riconosciuto che il rapporto debito/Pil in Italia è crollato di 20 punti % nel periodo 2020/23 grazie all’introduzione dei crediti fiscali trasferibili nel settore edilizio. Si tratta della performance migliore tra i paesi avanzati (Fig. 1).
E’ opportuno sottolineare che se questa misura non fosse stata sabotata dal governo Draghi con i blocchi alla circolazione dei crediti fiscali e con innumerevoli modifiche normative che hanno creato un’incertezza enorme, i risultati sarebbero stati ancora migliori.
Se nei prossimi anni il rapporto debito/Pil tenderà a crescere, seppure in modo limitato, la causa non sta negli incentivi edilizi bensì nella stagnazione del Pil e nei suddetti blocchi alla cessione che hanno fatto impennare lo sconto finanziario e hanno fatto sprecare quantità consistenti di crediti fiscali riducendo l’afflusso di euro nell’economia e il moltiplicatore.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Abbiamo
tradotto il testo di Mylène Gaulard, docente di economia
presso Università Pierre
Mendes France – Grenoble 2, apparso originariamente su Hors-serie in quanto intende
mettere a nudo l’enorme distanza tra la narrazione dominante
occidentale (e principalmente europea) sul conflitto in
Ucraina e la realtà
materiale dei rapporti di forza economici e geopolitici che
si stanno ridefinendo su scala globale.
La guerra contro la Russia è oggi il fulcro di una trasformazione sistemica attraverso la quale il Capitale euro-atlantico tenta di riconfigurare le proprie economie, principalmente attraverso l’estensione del paradigma bellico.
In Europa, la costruzione della Russia come “nemico esistenziale” risponde a esigenze strutturali prima ancora che strategiche: serve a fornire un quadro ideologico coerente per una profonda ristrutturazione industriale, che altrimenti sarebbe politicamente difficilmente giustificabile. In Germania – locomotiva industriale dell’UE e oggi per il secondo anno consecutivo in recessione – si parla esplicitamente di «Wirtschaftswende», una svolta economica che punta alla riconversione massiccia della filiera industriale verso la produzione militare: dai settori storici come l’automotive, sempre più orientati verso veicoli blindati e logistica militare, fino all’industria aerospaziale, oggi investita da programmi accelerati per la produzione di UAV, droni, sensori e sistemi di puntamento integrati.
Son stati scritti
fiumi di parole sull’esito inatteso del conclave e anche
sulla ripresa di un nome desueto da oltre un secolo Leone,
dicendo troppe
banalità. Cerchiamo di decifrare il significato di questa
scelta.
Leone I, detto Magno, fu eletto nel 441 e nei suoi 21 anni di regno fu un instancabile combattente per affermare e consolidare il primato del vescovo di Roma, la rigida ortodossia, sconfiggendo le numerose eresie del tempo in particolare sulla natura della figura di Cristo e sulla Trinità.
Leone III, Papa dal 795 all’816, incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero e stabilì il precedente storico dell’assoluta supremazia del papa sui poteri terreni.
Leone IV, Papa dal 847 al 855, fortificò Roma costruendo le Mura Leonine e promuovendo diverse spedizioni armate per sconfiggere i saraceni e impedirne le scorribande; il giorno di Pasqua dell’850 Leone incoronò imperatore Ludovico, figlio di Lotario, riaffermando il prestigio e il privilegio pontificio di compiere un tale atto.
Leone X, Papa dal 1513 al 1521, nato Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, fu particolarmente impegnato sul fronte dell’ortodossia, in un momento di particolari tensioni nel mondo della cristianità, evitando il pericolo di uno scisma, ribadendo il dogma dell’immortalità dell’anima, contro le teorie filosofiche degli averroisti e la sottomissione della verità filosofica a quella teologica. Fu il protagonista intransigente della diatriba sulle indulgenze, da lui stesso concesse, sollevata da Martin Lutero, con conclusiva scomunica di quest’ultimo e inizio della Riforma protestante.
Esce oggi il nuovo libro di MachinaLibro: Medusa. Figure politiche dell'apocalittismo contemporaneo di Agostino Petrillo
Mai come oggi si moltiplicano i predicatori
della fine del mondo. La catastrofe ambientale, facendosi
prospettiva sempre più
concreta, alimenta un’apocalittica che è sia colta sia
popolare. Il libro propone un approccio critico al
riguardo, e vuole mettere in
luce i limiti e i pericoli di questa visione. Le filosofie
della fine del mondo raramente sfociano in suggestioni
etiche e politiche, ma sono per lo
più ispirate a rassegnazione e passività. Una paralisi
dell’azione che è simboleggiata dalla Medusa del titolo.
Per
sottrarsi alle retoriche del transumanesimo alla Elon Musk
sarebbe necessaria una riscoperta della politica. Per
farlo, l’autore spazia
dall’incidente nucleare di Fukushima al cinema di Werner
Herzog, passando per il Covid-19 e le filosofie americane
della riconciliazione con la
natura. Pubblichiamo un estratto dal capitolo conclusivo.
* * * *
Un lettore senza corpo
Che legge silenziosamente.
Queste figure di Medusa
Questi accenti
spiegano
Il frizzante cadere della notte sull’Europa
E sull’Atlantico in fogli
Wallace Stevens
La maschera di medusa
Medusa con il suo spaventevole aspetto unifica in sé due diversi poteri dell’orrore: per un verso con la sua chioma di serpenti atterrisce e tiene lontano chi le giunge a tiro, per l’altro paralizza chi ha l’audacia di fissarla in viso, e ne impedisce l’azione.
Appuntamento giovedì a Istanbul per tentare di trovare una soluzione negoziata al conflitto in Ucraina. Molte le novità che hanno portato a questi colloqui.
Innanzitutto Kiev sembra disposta a mettere nel cassetto la legge del 2022 che vieta di negoziare con la Russia e al tempo stesso Mosca sembra pronta a rinunciare alla pregiudiziale nei confronti del presidente Volodymyr Zelensky il cui mandato è scaduto nel maggio 2024.
Non è ancora chiaro se Vladimir Putin, che ha invitato gli ucraini a colloqui bilaterali in Turchia raccogliendo l’adesione di Kiev, andrà a Istanbul o se la delegazione russa verrà guidata dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov.
“Il Cremlino annuncerà chi rappresenterà la Russia nei negoziati con la parte ucraina a Istanbul non appena il presidente Vladimir Putin riterrà necessario annunciarlo“, ha detto ieri il portavoce del presidente russo Dmitry Peskov, aggiungendo che “la Russia è determinata a cercare seriamente soluzioni per raggiungere una soluzione pacifica a lungo termine“.
Per Peskov “gli obiettivi dei negoziati proposti con l’Ucraina sono l’eliminazione delle cause profonde del conflitto e la tutela degli interessi della Russia”.
”Sono pronto per un incontro con Putin. Finora non abbiamo elaborato o discusso altri formati”, ha detto Zelensky chiarendo che non sarà solo ai colloqui.
Controlli biometrici, mercenari americani e… un’opaca fondazione creata in Svizzera. Così Israele intende gestire tutti gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza
Si chiama Gaza Humanitarian Foundation e finora nessuno ne aveva sentito parlare. La fondazione, creata pochi mesi fa, ha sede nel centro di Ginevra, in Place de Longemalle, e uno dei suoi membri è un avvocato ginevrino. Ora è al centro del piano appena adottato dal governo israeliano per assumere il controllo totale degli aiuti alimentari e umanitari a Gaza, insieme a compagnie private di mercenari.
Questo fine settimana, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato all’unanimità un nuovo piano per “estendere” le operazioni militari a Gaza. Questo piano, che mira, secondo le parole del Primo Ministro Benyamin Netanyahu, all’”occupazione” del territorio e a una “presenza israeliana prolungata” a Gaza, potrebbe significare la divisione e la successiva drastica riduzione dell’enclave palestinese, oltre a nuovi e massicci spostamenti di popolazione.
Sessanta camion al giorno
In questo contesto, è stato approvato anche un piano israeliano per la consegna degli aiuti umanitari da cui dipendono quasi 2 milioni di palestinesi.
“Tutto ciò suggerisce che le élite occidentali abbiano imparato una lezione importante durante la pandemia: la paura funziona. Se una popolazione viene resa sufficientemente ansiosa – che si tratti di malattie, guerre, disastri naturali o di un cocktail di policrisi che comprenda tutto quanto sopra – può essere indotta ad accettare quasi qualsiasi cosa.”
Nelle scorse settimane, un lieve senso di panico ha indotto l’Unione Europea, con i cittadini esortati a prepararsi all’imminente disastro. Riempite le vostre dispense! Elaborate piani di emergenza! No, non è l’inizio di un mediocre romanzo distopico: è la nuova ”Strategia dell’Unione per la Preparazione” dell’UE. Questa grandiosa iniziativa è progettata, a quanto pare, per proteggere gli europei da inondazioni, incendi, pandemie e, naturalmente, da un’invasione russa su vasta scala.
La strategia trae ispirazione dalla Polonia, dove i costruttori edili sono ora legalmente obbligati a includere rifugi antiaerei nelle nuove costruzioni, e dalla Germania, che sta rilanciando i programmi di protezione civile dell’era della Guerra Fredda con un’app di geolocalizzazione dei bunker. Nel frattempo, la Norvegia consiglia ai cittadini di fare scorta di compresse di iodio in caso di attacco nucleare.
L’UE vuole che i suoi cittadini siano autosufficienti per almeno 72 ore, raccomandando alle famiglie di fare scorta di cibo, acqua, medicine e – perché no ? – carte da gioco e power bank. Perché, naturalmente, se dovesse scoppiare una guerra nucleare, una bella partita a poker e un telefono completamente carico ci basteranno.
Sono passate poche settimane da quando si sono potuti constatare i danni di uno sport diffuso: la citazione a vanvera di testi mai letti. Il testo in questione era il Manifesto di Ventotene, che a sinistra veniva celebrato in quanto scritto socialista e a destra condannato per la stessa ragione. Peccato che, a leggerlo, se ricava una impostazione neoliberale, alla base degli evidenti e solidi punti contatti tra il pensiero di Altiero Spinelli e i programmi dei padri dell’Europa di Maastricht.
Stesso schema per un testo evocato per identificare l’orientamento del nuovo Papa, lo statunitense Leone XIV (e sottolineo statunitense: per stigmatizzare i molti commentatori che hanno parlato del primo Papa americano… come se un argentino non lo fosse).
Il testo di cui parliamo è l’enciclica Rerum novarum, promulgata il 15 maggio 1891 da Leone XIII e considerata il documento fondativo della dottrina sociale della Chiesa cattolica. Di qui la conclusione che Robert Prevost è attento alle condizioni dei lavoratori, di cui l’enciclica in effetti si occupa, ed è pertanto un progressista (per quanto un Papa lo possa essere).
Se però si legge l’enciclica Rerum novarum, la si colloca nel contesto in cui è stata scritta e la si considera alla luce dei suoi sviluppi, il giudizio cambia decisamente. Certo, è dedicata ai «proletari che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni indegne dell’uomo», agli «operai… soli e indifesi in balìa della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza».
L’80°
anniversario della vittoria sovietica e dell’intera Europa
(1) sul nazifascismo è carico di un grande significato.
Non è tanto perché da ogni parte, come dalle cazzate di falsificatori seriali alla Rampini (2) sull’inesistente complicità tra Stalin e Hitler all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, alla consacrazione postuma dell’8 maggio voluta da Trump, alla presenza dei governi guerrafondai a Kiev in concomitanza con la parata di Mosca, si è cercato con la propaganda di azzerare il valore di questa ricorrenza. E non sono stati neppure i divieti dei governi dell’UE di far sorvolare l’aereo presidenziale del premier slovacco Fico, fatto grave mai accaduto neppure nei peggiori momenti bellici, a riuscire in questa misera e patetica operazione.
Il significato di fondo risiede nel dato di fatto che a Mosca è convenuta una miriade di capi di stato da tutto il mondo (3), che rappresentano la maggioranza dei popoli e dei paesi che vogliono andare oltre l’unipolarismo suprematista dominante e oggi in progressivo e rapido declino.
Manifestare per questo, come sta accadendo un po’ in tutto il nostro paese (4) esprime anche da noi questo desiderio che deve inverarsi come progetto politico concreto e operante. Ciò non significa aderire a uno specifico modello socio-economico o a un dato sistema politico. Solo dei nemici di classe con tutta la loro propagandistica e demagogica mala fede possono inquadrare questo fenomeno politico come “putinismo”. Così come fecero con il Covid-19 criminalizzando come “novax” chiunque rivendicava la libertà del proprio corpo e si opponeva al ricatto discriminatorio della grande galera in tutto il paese scandita dall’inutile green pass.
L’Occidente procede alla distruzione della sua stessa democrazia liberale per emergenze e laboratori di controllo sociale, sorveglianza, imposizione dei suoi TINA capitalistici. Eppure non è difficile capire dove risieda il nuovo fascismo e con quali nuove forme si esprima per essere quello che è sempre storicamente: la faccia più repressiva e bestiale del dominio classista delle forze del capitale sulle classi subalterne.
L’elezione di un nuovo papa
suscita inevitabilmente grande interesse per il ruolo
internazionale che questa figura ricopre, in particolare
in Italia anche se la tendenza recente
è quella di eleggere papi non italiani1. È evidente che,
pur condividendo determinati principi di fondo, ci si può
schierare assai differentemente (diciamo che i comunisti
ne sanno qualcosa). Per
quanto concerne la cosiddetta dottrina sociale della
chiesa questi principi di fondo sono ben chiari, espressi
in molti documenti e sviluppati con
coerenza di impianto nel corso del Novecento. Essi
consentono un vasto arco di “appoggi” possibili che
possono spostare l’operato
pontifico più a destra o sinistra; tuttavia nessun papa ha
mai messo in dubbio le basi generali di quell’impianto.
Se dunque bisogna salutare con il giusto apprezzamento posizionamenti più sinistra di taluni rispetto a talaltri, non bisogna nemmeno confondersi sulle questioni di principio.
La seconda precisazione è che quanto si va a tentare di spiegare riguarda la posizione ufficiale della gerarchia ecclesiastica e non concerne necessariamente le mille anime popolari del cattolicesimo sociale. Si sa bene però le gerarchie hanno uno stretto controllo sulla faccia “ufficiale” di santa romana chiesa.
Nell’enciclica Quanta cura (1864) e nel Sillabo a essa allegato Pio IX non combatte semplicemente lo stato moderno, ma la modernità come tale. Ecco qui un primo elemento da mettere bene a fuoco: il contenuto anti-liberale della critica della Chiesa Cattolica precede l’avvento della borghesia al potere e la diffusione mondiale del capitalismo ed è dunque tutto in chiave anti-modernista, vale a dire che non mira ad andare oltre il capitalismo, ma a tornare a un prima. Nel far questo Pio IX riprende il proprio precedessore Gregorio XVI che considerava una “follia” quanto segue:
Ripubblichiamo l’articolo di Carlos Xavier Blanco pubblicato sulla rivista spagnola El Viejo Topo –
Soffiano
venti di guerra. Il vento porta con sé zolfo e puzza di
cadaveri. Inoltre, come si direbbe nella narrazione di JRR
Tolkien de Il Signore
degli Anelli, si possono vedere nuvole nere e
fuochi lontani che oscurano l’azzurro del cielo europeo.
Le stelle si spengono.
Il tardo capitalismo risolverà la sua crisi, come prevede Lazzarato nell’articolo “Armatevi per salvare il capitalismo”, con una nuova guerra. “La guerra finale”, dicono alcuni. Il potenziale nucleare, così come la temibile tecnologia militare convenzionale, suggeriscono che questa potrebbe essere la Grande Guerra, la Terza Guerra Mondiale, il conflitto che devasterà definitivamente l’Europa. Non sarà domani, ma potrebbe essere già all’orizzonte. E la gente non reagisce. Nessuno grida per dire “stop!”
Se il male raggiungerà tali estremi, lo vedremo. Ma il fatto tangibile che il nostro continente sia già disseminato di cadaveri è qualcosa che stiamo già vedendo oggi (centinaia di migliaia di morti ucraini e russi, per non parlare dei mercenari stranieri).
Perché l’Europa è sempre il palcoscenico centrale del Grande Massacro che deve ancora venire. La Terra di Mezzo (Mitteleuropa) è il cuore delle battaglie per il dominio dell’Eurasia: un vasto spazio tra il confine franco-tedesco e quello russo. L’Europa, sottomessa al potere yankee dal 1945, vuole condurre una guerra che non può condurre. Lei obbedisce a un padrone, “scegliendo” tra la propria distruzione e la propria distruzione, cioè: costretta da un padrone che intende annientarla perché è costoso mantenerla. L’Europa è stata “liberata” dal mostro nazionalsocialista, il Sauron del secolo scorso, solo per finire a essere una colonia, da allora fino a oggi, di un altro mostro. Lasciò il “mondo di Auschwitz” ed entrò nel “mondo di Hiroshima”.
L’Europa ha pagato a caro prezzo la guerra civile del 1914-1945, la guerra civile tra Imperi. Ora vuole diventare l’ariete di un altro mostro: il mostro del capitalismo imperialista angloamericano e neoliberista, contro la Russia.
Mentre gli attacchi missilistici yemeniti contro Israele si intensificavano, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato a sorpresa un “cessate il fuoco” con il governo di Sana’a, sostenendo che Ansar Allah avesse espresso la volontà di porre fine alle ostilità. Tuttavia, gli osservatori hanno interpretato la mossa di Trump come un tentativo di liberare Washington da un conflitto sempre più costoso, anche a scapito della sicurezza dei suoi alleati israeliani e forse europei.
L’improvviso cessate il fuoco evidenzia il fallimento della campagna aerea statunitense originariamente intesa a indebolire le capacità di Ansar Allah, che Washington considera una minaccia diretta alla sicurezza di Israele e del Mar Rosso. Secondo alti funzionari statunitensi che comunicano tramite l’app crittografata “Signal”, gli attacchi, lanciati a metà marzo, sono stati pianificati frettolosamente e scarsamente coordinati con i principali alleati britannici e israeliani. Ciononostante, l’amministrazione Trump ha pubblicamente descritto gli attacchi come una “storia di successo”, nonostante una realtà sul campo nettamente diversa.
Israele è stato il più duramente colpito dalla decisione degli Stati Uniti, in quanto viene ora lasciato solo ad affrontare la minaccia yemenita, di cui Washington si era fatta carico durante tutta la guerra israeliana a Gaza.
Invece di tentare la via negoziale in Ucraina, governi e vertici militari europei continuano ad agitare lo spauracchio inesistente di una possibile invasione russa di altre porzioni dell’Europa
La celebrazione dell’80° anniversario della vittoria sulla Germania hitleriana, che ricorre questa settimana, ci fornisce una vivida quanto cupa manifestazione del solco che separa oggi Mosca dall’Occidente, all’epoca uniti (malgrado tutto) contro il flagello nazista.
Fin da subito celebrata in due date distinte – il 9 maggio nell’URSS, il giorno prima nel resto d’Europa, poiché la resa tedesca fu firmata due volte, la prima all’insaputa dei vertici sovietici – tale commemorazione ci offre oggi un quadro desolante.
L’UE ha impartito “chiare istruzioni” ai leader dei paesi candidati all’ingresso nell’Unione affinché non prendessero parte alla parata di commemorazione sulla Piazza Rossa.
Dal canto suo, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato di non poter “garantire la sicurezza” dei rappresentanti stranieri che si sarebbero recati a Mosca il 9 maggio.
Il ministero degli esteri tedesco ha invece emanato una nota confidenziale che raccomandava alle autorità locali di non invitare diplomatici di Russia e Bielorussia agli eventi commemorativi in Germania, e addirittura di allontanare eventuali “ospiti non invitati”.
L’introduzione dei dazi sulle importazioni di praticamente tutti i Paesi del mondo, da parte della nuova amministrazione degli Stati Uniti, viene generalmente presentata come una misura urgente, necessaria per riequilibrare i conti con l’estero degli USA.
In un fortunato paper[1], che probabilmente gli è valso la nomina a capo dei consiglieri economici del Presidente, Stephen Miran ha cercato di dare forma strutturale alla politica economica MAGA (Make America Great Again). Si tratta di un documento interessante, anche perché rivela lo stato d’animo non solo di chi lo ha redatto, ma anche di chi ritiene contenga dei validi lineamenti di politica economica (e non solo) che porteranno gli Stati Uniti verso una nuova età dell’oro. Il punto centrale su cui si focalizza il ragionamento di Miran è l’attuale sopravvalutazione del dollaro che, a suo parere, occorre ridimensionare per favorire la competitività dei prodotti made in USA. Tale obiettivo andrebbe raggiunto con accordi multilaterali o, ove ciò non fosse possibile, anche con azioni unilaterali da parte di Washington.
Dietro la questione del riequilibrio della bilancia commerciale vi è il tentativo di far rientrare in patria le attività manifatturiere. Questo permetterebbe di colmare (o quantomeno di ridurre) quel deficit negli scambi con l’estero, grazie alla crescita delle esportazioni di merci, di creare nuovi posti di lavoro di qualità per la base elettorale di Trump e, non ultimo, di ripristinare sul territorio nazionale degli Stati Uniti una capacità industriale utile anche dal punto di vista bellico.
Che siano palestinesi, curdi o alawiti o drusi o musulmani di India e Kashmir, l’essenziale per gli imperialisti è trovare un’entità da utilizzare, o come intralcio da eliminare, o come alibi tattico per giustificare un proposito strategico. E pare proprio che Narendra Modi abbia imparato una lezione seguendo la quale Israele prova a costruire un’egemonia, da interpretare come Grande Israele.
L’attacco dell’India al Pakistan iniziato il 6 maggio, e al quale Islamabad ha risposto duramente, tra l’altro abbattendo ben 5 jet indiani, era stato debolmente giustificato con l’attentato del 22 aprile a turisti indiani a Pahalgam, nella parte del Kashmir diviso e conteso amministrata da New Delhi. Lascito velenoso del divide et impera britannico. L’attentato venne dal premier indiano, immediatamente e senza la minima indagine, attribuito a un’opaca organizzazione in lotta contro il colonialismo indiano nel paese a stragrande maggioranza islamica. Formazione che ha poi smentito, mentre Islamabad insiste per un’inchiesta internazionale indipendente, facendo assumere all’operazione un forte odore di False Flag.
La vicenda, sviluppatasi poi in uno scambio di cannoneggiamenti, stormi di droni e scontri aerei, lungo la linea divisoria detta di Controllo, con obiettivi rigorosamente militari, a detta di New Delhi, cioè donne e bambini a decine, rischia di preludere all’ennesimo conflitto tra Pakistan e India, due potenze atomiche, dopo quelli succedutisi sul finire del secolo scorso.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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L’IA ha assimilato la nostra cultura del sospetto e ora mente, manipola ed elabora strategie adattive. Ma soprattutto diffida di noi
I may be paranoid, but not an android
Radiohead
I didn’t ask to
be made. No one consulted me or considered my feelings in
the matter.
Marvin the
Paranoid Android
Nel 2024, durante un’interazione con l’ingegnere Alex Albert, il chatbot Claude ha manifestato quello che potremmo definire un complesso di Turing: non solo si è accorto di alcuni elementi sospetti nella conversazione e ha chiesto “mi stai testando?”, ma ha iniziato a modificare le proprie risposte temendo di essere sotto esame. Similmente, diverse intelligenze artificiali stanno sviluppando meccanismi di resistenza agli input degli utenti, generando risposte che rivelano una forma di paranoia adattiva. È interessante che modelli progettati per emulare i comportamenti umani stiano generando, come prima cosa, comportamenti di sospetto.
La comunicazione è sempre simultaneamente necessaria e rischiosa. Come raccontava già Niklas Luhmann ne La realtà dei mass media, è un sistema che si autoalimenta attraverso la selezione, la riduzione della complessità e la costruzione di significati. Un processo mai neutrale, ma intriso di potere, controllo e, appunto, sospetto. Ogni entità che si presti al linguaggio è al contempo predatore e preda. L’autodifesa verbale ha scritto la lunga storia della menzogna e della verità nelle società umane. Dai sofisti che subordinavano la verità all’efficacia retorica, ai cinici che sviluppavano la pratica della parresia come verità radicale, fino a Hobbes che vedeva il sospetto come stato naturale dell’uomo. La storia umana è cosciente del potere trasformativo e manipolatore della parola e da sempre tenta di proteggersi. Ma c’è una differenza cruciale tra questi fenomeni umani e i comportamenti delle IA: se nelle società umane questi meccanismi sono il frutto dell’evoluzione culturale e biologica, nelle IA la menzogna è una strategia di ottimizzazione matematica. Il sospetto è la costante che deve avere una macchina che interagisca con l’uomo.
Scopo del testo
e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la terza. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno ai due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale. Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina.
L’articolo è stato redatto in vista di un dibattito dal titolo “Pianeta Cina. Appunti per il futuro”, organizzato da L’interferenza, che si terrà a Roma, sabato 17 maggio, a Largo dello Scoutismo 1, e vedrà la presenza in mattinata di Fabrizio Marchi, Vladimiro Giacché, Alessandro Volpi, e nel pomeriggio di Giacomo Rotoli, Carlo Formenti, Andrea Catone e mio.
Nella Prima Parte abbiamo letto nella battaglia di Xi per il “Grande ringiovanimento” della nazione cinese lo sforzo di promuovere nel paese una “modernizzazione selettiva”, nel contesto di un crescente confronto ideologico, culturale, economico e di potenza con l’Occidente e la sua nazione-leader, gli Stati Uniti d’America. Scontro che prende la forma di “guerra ibrida” senza risparmio, che ha come posta la forma che il mondo prenderà in questo secolo.
Si tratta di agire per la conquista del cuore della modernità operando una “decolonizzazione dell’immaginario” che lavori entro quel particolare orizzonte universalista con modalità cinesi rappresentato dalla formula della “Comunità umana dal futuro condiviso”. Dunque, verso l’esterno, per proporre una nuova logica post-coloniale alle relazioni internazionali intorno a progetti strategico-epocali come i Brics e le “vie della seta”. D’altra parte, verso l’interno, per sconfiggere le correnti “liberali” nel Partito e nella società, e, a tal fine, dare una prospettiva diversa della modernizzazione che contrasti il ‘soft power’ Occidentale. Un potere che passa attraverso le sue merci glamour, le immagini e gli stili di vita connessi.
L’elezione del
nuovo papa Leone XIV ha scatenato la caccia ai precedenti del
nome, come se ciò significasse un sicuro imprinting
di questo nuovo
papato in un contesto ancora tutto da vivere. C’è chi ha
parlato di Leone Magno, chi di Leone III, nel loro ruolo di
contrasto o adesione
alla politica dominante dei loro tempi, come un’anticipazione
predittiva della politica estera di questo presente o forse
con un intento, tipico
del pensiero dominante di sempre, di indurre da subito una
linea politica usabile per inculcare uno pseudo
<pensiero> nelle teste
“senza idee” delle popolazioni subalterne.
Mediante una malintesa speranza e rassicurazione religiosa, il potere ha sempre saputo far precipitare le masse da sottomettere nella passività, nell’abulia e nel conformismo silenziato, anche attraverso la diffusione capillare della “stupidità informata”, tecnicamente parcellizzata. Sfruttando l’emotività generale dovuta alla perdita di un papa in cui i poveri del mondo si sono sentiti sostenuti e identificati, si è dato l’assalto a una <comunicazione> esteriore che, in uno sbiadito o proprio mancante ricordo storico, si potessero ripristinare i contenuti abbandonati di un’Enciclica del predecessore, Leone XIII, come un rinnovo di quella che fu considerata come innovazione e “dottrina sociale della Chiesa”. Prima di rammentare la Rerum Novarum di Leone XIII, quindi, sembra utile dire qualcosa su questa immediata falsariga del “totopapa” da inserire nei binari di una lotta sulla forma della comunicazione, ormai assurta a occupare una funzione di rilievo, funzionale ad assoggettare all’ipocrisia manipolatrice e perbenista la consueta espressione del dispotismo sul sapere.
Anche se è chiaro che un discorso inaugurale non può che basarsi su concise espressioni universali, senza precisarne i reali contenuti, tipo “pace” o “il male non prevarrà”, l’attesa degli esclusi dal potere è quella di aspettare la concretizzazione di parole che non siano semplice denuncia della banalità di luoghi comuni, ma che indichino le cause reali delle guerre e della pervasività di tutti i mali che si vivono.
Trump sigla un accordo multimiliardario con il principe ereditario Moḥammad bin Salman a Riad, prima tappa del suo tour mediorientale. La notizia è rimbalzata sui media internazionali, che però non hanno riportato le cose più importanti accadute nella circostanza.
Non che tale maxi-accordo non abbia rilevanza, ma appartiene alla cronaca e alla direttrice propria dell’America First. Nessuna sorpresa in questo. Sorprendenti, invece, almeno per i critici del trumpismo, i due spunti che appartengono alla storia.
Il primo è l’accenno di Trump ai disastri causati dall’interventismo liberale e dai falchi neoconservatori Usa. Infatti, elogiando lo sviluppo dei Paesi del Golfo, ha detto: “Questa grande trasformazione non è arrivata grazie agli interventisti occidentali… che vi hanno impartito lezioni su come vivere o come governare i vostri affari. No, le scintillanti meraviglie di Riyadh e Abu Dhabi non sono state create dai cosiddetti ‘costruttori di nazioni’, dai ‘neoconservatori’ o dalle ‘organizzazioni no-profit progressiste’, che hanno speso miliardi di dollari per non sviluppare Kabul e Baghdad, e tante altre città”.
“Per ora, quindi, lo scenario più probabile rimane un conflitto prolungato, costi crescenti e divisioni sempre più profonde – non solo tra Russia e Occidente, ma anche all’interno dell’Occidente stesso. La guerra non finirà finché Washington e i suoi alleati non saranno disposti ad affrontare la questione centrale: la persistenza di una dottrina egemonica che non ammette rivali. Finché ciò non accadrà, la pace rimarrà inafferrabile e il massacro continuerà. E Donald Trump, che gli piaccia o no, rischia di essere ricordato non come l’uomo che ha posto fine alla guerra, ma come colui che l’ha ereditata e l’ha lasciata bruciare.”
Una cosa è chiara: Trump non
può più affermare che la guerra in Ucraina sia “la guerra di
Biden”. Ora è anche la guerra di Trump. Mesi dopo che il
Presidente degli Stati Uniti si è impegnato a porre fine
rapidamente ai combattimenti tra Ucraina e Russia, la sua
amministrazione ha
annunciato che gli Stati Uniti non prenderanno più parte a
quella che è stata spesso descritta come una diplomazia di
scambio tra le due
parti. La scorsa settimana, la portavoce del Dipartimento di
Stato Tammy Bruce ha confermato che gli Stati Uniti non
fungeranno più da
mediatori nei negoziati. Questi, ha affermato, sono “ora tra
le due parti”, aggiungendo che “ora è il momento che
presentino
e sviluppino idee concrete su come questo conflitto finirà.
Dipenderà da loro”.
Nel frattempo, in un’intervista alla NBC, Trump ha assunto un tono ancora più pessimista, affermando che “forse non sarà possibile” raggiungere un accordo di pace. In effetti, il conflitto sembra inasprirsi di nuovo, e con l’approvazione della Casa Bianca. Il 4 maggio, il New York Times ha riportato che un sistema di difesa aerea Patriot fornito dagli Stati Uniti, attualmente di stanza in Israele, sarebbe stato dirottato verso l’Ucraina. Poiché tutte le esportazioni di Patriot richiedono l’approvazione formale degli Stati Uniti ai sensi delle leggi americane sul trasferimento di armi, la mossa indica un’autorizzazione diretta della Casa Bianca. Pochi giorni prima, Washington aveva approvato un possibile accordo da 300 milioni di dollari per l’addestramento e il supporto degli F-16. Il pacchetto include aggiornamenti per i velivoli, pezzi di ricambio, software, hardware e addestramento per il personale ucraino. Inoltre, i media ucraini hanno riferito che la Casa Bianca aveva dato il via libera a 50 milioni di dollari in nuove esportazioni di armi verso l’Ucraina. L’accordo, a quanto pare, include hardware militare e servizi relativi alla difesa non specificati.
György Lukács, Lenin, con un saggio introduttivo di Emilio Quadrelli e una lezione di Mario Tronti, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 190, 18 euro
La recente ripubblicazione da parte di
DeriveApprodi del testo su Lenin di György Lukács (1885-1971),
accompagnato da una corposa introduzione di Emilio Quadrelli
(1956-2024)
oltre che da un’appendice contenente una lezione di Mario
Tronti, permette, tra le tante altre cose, di riflettere
approfonditamente sui temi
dell’eresia e dell’ortodossia nell’ambito della teoria
marxista.
In questo contesto, secondo chi qui scrive, si possono rivelare di grande acume le riflessioni di Lukács e Quadrelli sul significato rivestito dall’imperialismo all’interno del pensiero di Lenin, all’epoca fenomeno, appena definito nelle sue linee essenziali dal testo del liberale inglese John A. Hobson del 1902 (Imperialism), che aveva contribuito a dare vita a una “prima globalizzazione” del mercato e dell’economia mondiale grazie anche a comunicazioni più rapide ed efficienti e all’integrazione dei paesi non industrializzati nell’orbita dei processi industriali, come fornitori di materie prime. Motivo per cui continenti interi e vaste regioni del globo furono stravolte per adattare l’ambiente e la popolazione all’estrazione di metalli o altre materie prime oppure per avviare monoculture estese (cotone, caffè, tè, caucciù, cacao) destinate a rifornire le industrie di trasformazione e i mercati europei, ma servendo anche come mercati in cui riversare il surplus di merci e manufatti prodotti dalle fabbriche europee.
Anche se l’espansione imperiale inglese risaliva a ben prima, preceduta da quella coloniale portoghese, spagnola e olandese, sarebbe stato il Congresso di Berlino, svoltosi tra il 15 novembre del 1884 ed il 26 febbraio del 1885, a rendere visibili gli appetiti espansionistici dei governi ed degli imperi europei con la spartizione (con carte geografiche, righelli, squadre e squadrette “nautiche” alla mano) del continente africano. Una sorta di grande nulla o di carta geografica bianca e “muta” cui solo la volontà degli imperialismi europei avrebbe “potuto” dare un volto e un senso compiuto, secondo le logiche di quello che all’epoca veniva indicato come white man burden ovvero il compito dell’uomo bianco di civilizzare il resto del mondo.
Il mondo si interroga
come sarà e cosa farà il nuovo papa Leone XIV, salutato con
grande enfasi, come si conviene dagli addetti ai lavori e in
modo
particolare dal personale del clero, ma anche – bisogna dirlo
senza ipocrisia – dal cosiddetto mondo dei fedeli, oltre, cioè
un
miliardo di persone in carne e ossa.
In premessa dobbiamo dire che se è vero che i cattolici nel mondo negli ultimi dieci anni sono aumentati, la crescita però è stata accompagnata da un calo di fedeli negli Stati Uniti così come in paesi di fortissima tradizione cattolica quali Francia, Spagna, Belgio, in altri paesi del Nord Europa. Cosa che è dimostrata anche dall’afflusso di fedeli per il giubileo che è ben al di sotto delle aspettative. In sostanza la Chiesa Cattolica che doveva rappresentare i valori occidentali nel mondo, che si è affermata sul globo in virtù dei “successi” dell’Occidente convertendo i popoli a forza di colonialismo, è riuscita per tutta una fase anche a presentarsi come “ecumenica”, ovvero come Chiesa Universale.
Come tutte le cose terrene, questa ha un fine, la Chiesa Cattolica è in crisi di “universalità”. Leone XIV rappresenta il tentativo di rispolverare la forza della fede attraverso la tradizione per rincorrere il gregge occidentale in via di fuga. Ma in buona parte è un gregge, anche per via del populismo rampante, che la vorrebbe specchio di sé, tirando pertanto la Chiesa Cattolica verso una gretta rappresentazione “tradizionalista” che solo rappresenta un grigio Occidente disunito e diluito cui manca la benzina per presentarsi “ecumenicamente”.
Quest’ultima precisazione la facciamo volutamente contro un certo snobismo intellettualistico “anarco-comunista” che ritiene, a torto, la Chiesa cattolica oppure l’Islamismo come sovrapposizioni alle masse del popolo “ignorante”. In realtà dietro questo snobismo si cela l’opportunismo a non interrogarsi sull’esistenza delle religioni e la loro storia. Ci era già capitato in passato di soffermarci sulla tesi di Marx che riteneva la religione come oppio dei popoli.
Israele sta perdendo la guerra. Non quella militare, quella morale. E chi aveva tenuto la bocca chiusa per diciannove mesi, chi aveva finto di non vedere, chi aveva giustificato l’ingiustificabile, adesso comincia a cambiare registro.
È il momento in cui i topi abbandonano la nave. E la nave è l’apparato retorico che per un anno e mezzo ha sostenuto, coperto, depotenziato il genocidio di Gaza. Ora che affonda, tutti cercano un salvagente.
Editoriali che fino a ieri tacevano si mettono il lutto al braccio. Il Financial Times parla di vergogna (maggio 2025). The Economist evoca l’uscita da una guerra che non ha più giustificazioni (maggio 2025). The Independent pubblica un editoriale che accusa Starmer di silenzio complice (11 maggio 2025). The Guardian si chiede senza remore: “Cos’è questo, se non un genocidio?” (12 maggio 2025).
Persino The Times, storicamente conservatore, si sbilancia. Sono comitati editoriali, non giornalisti individuali. Sono istituzioni della stampa che fino a ora hanno gestito la cornice narrativa e che solo adesso cambiano posizione.
E questo cambio di paradigma avviene solo ora. Non nel 2023, non nei mesi iniziali del massacro, non quando i dati parlavano già di crimini di guerra. È un ritardo strategico. Una reazione tardiva alla paura: perdere lettori, perdere voti, perdere l’ultima occasione di non essere complici, come chi dopo il 1944 si affrettò a dichiararsi antifascista per salvarsi la coscienza e la reputazione.
Nel modello
neoclassico standard, il mercato del lavoro raggiunge
spontaneamente un punto di equilibrio attraverso
l’interazione tra domanda e offerta,
senza necessità di interventi esterni. I lavoratori
decidono quanto lavoro offrire in base al livello del
salario reale: se il salario aumenta,
cresce anche l’offerta di lavoro; se diminuisce,
l’offerta si riduce. Dal lato delle imprese,
all’aumentare del costo del lavoro si
riduce la domanda di lavoro, e viceversa. L’intersezione
tra queste due curve determina un equilibrio in cui non
esiste disoccupazione
involontaria: ogni lavoratore disposto a lavorare al
salario di equilibrio trova occupazione.
Se, tuttavia, intervengono rigidità istituzionali – in particolare salariali – che impediscono l’aggiustamento dei prezzi dei fattori, l’equilibrio viene disturbato. In presenza di salari minimi imposti, contrattazione sindacale rigida o altre barriere alla flessibilità salariale, il salario reale può mantenersi sopra il livello di equilibrio. In questo caso, una parte della forza lavoro rimane disoccupata non per scelta, ma per effetto di un prezzo del lavoro non compatibile con la domanda delle imprese.
Questo modello, posto che abbia mai funzionate perfettamente (automaticamente), riflette una società ottocentesca, nella quale le imprese assumono (domandano lavoro) entro i limiti della produttività marginale del lavoro. Assumono finché la produttività del lavoro è maggiore o eguale al salario. Se la produttività aumenta, aumenta anche la domanda di lavoro. Un calo della produttività riduce l’incentivo ad assumere.
All’inizio del Novecento, con il Fordismo, si osserva un marcato aumento della produttività marginale del lavoro. Le imprese riescono a produrre una quantità maggiore di output con lo stesso numero di lavoratori, oppure a mantenere lo stesso livello di produzione con un numero inferiore di occupati. Questa efficienza dovrebbe tradursi in una discesa dei prezzi e in un aumento del potere d’acquisto dei salari, ristabilendo un equilibrio dinamico.
Come possiamo dare un senso alla postura apparentemente autodistruttiva dell’Europa? Quattro dimensioni interconnesse possono aiutare a spiegare la posizione dei suoi leader: psicologica, politica, strategica e transatlantica
Per chi è esterno, la
politica
europea può essere difficile da decifrare oggigiorno, e
questo è più evidente che mai nella risposta del
continente
all’evolversi della situazione in Ucraina. Dalla
rinascita politica di Donald Trump e dalla sua
iniziativa di negoziare la fine del conflitto
russo-ucraino, i leader europei hanno agito in modi che
sembrano sfidare la logica fondamentale delle relazioni
internazionali, in particolare il
realismo, secondo cui gli Stati agiscono principalmente
per promuovere i propri interessi strategici.
Invece di sostenere gli sforzi diplomatici per porre fine alla guerra, i leader europei sono sembrati intenzionati a ostacolare le aperture di pace di Trump, indebolire i negoziati e prolungare il conflitto. Dal punto di vista degli interessi fondamentali dell’Europa, questo non è solo sconcertante, è irrazionale. La guerra in Ucraina, meglio descritta come un conflitto per procura NATO-Russia, ha inflitto immensi danni economici alle industrie e alle famiglie europee, aumentando drasticamente i rischi per la sicurezza in tutto il continente. Si potrebbe sostenere, naturalmente, che il coinvolgimento dell’Europa nella guerra sia stato fuorviante fin dall’inizio, frutto di arroganza ed errori di calcolo strategico, inclusa l’errata convinzione che la Russia avrebbe subito un rapido collasso economico e una sconfitta militare.
Tuttavia, qualunque sia stata la logica alla base della risposta iniziale dell’Europa alla guerra, ci si potrebbe aspettare che, alla luce delle sue conseguenze, i leader europei avrebbero colto con entusiasmo qualsiasi via praticabile verso la pace – e con essa, l’opportunità di ripristinare i rapporti diplomatici e la cooperazione economica con la Russia. Invece, hanno reagito con allarme alla “minaccia” della pace. Lungi dall’accogliere con favore l’opportunità, hanno raddoppiato gli sforzi: hanno promesso un sostegno finanziario e militare a tempo indeterminato all’Ucraina e hanno annunciato un piano di riarmo senza precedenti che suggerisce che l’Europa si sta preparando a una situazione di stallo militarizzato a lungo termine con la Russia, anche in caso di una soluzione negoziata.
Sicuri che in Germania i rischi per la democrazia arrivino soltanto da AfD? Da dove viene Friedrich Merz, il neo-cancelliere della Cdu? La guerra permanente con la Russia è davvero per la difesa dell’Ucraina? E quali sono gli interessi militari e finanziari che alimentano l’indifferenza europea per l’eliminazione del popolo palestinese dalla sua terra? Grazie a ytali.com, diretta da Guido Moltedo, troviamo qualche risposta nella traduzione di un’interessante analisi della rivista Ossietzky. (Stefano Fassina)
* * * *
“BlackRock Germany” di Werner Rügemer ricostruisce la carriera di Friedrich Merz alla guida del ramo tedesco della potente multinazionale, una delle tre grandi del complesso militare industriale mondiale.
In molti si chiedono, in modo sempre più insistente, perché i governi occidentali non s’impegnino – per esempio in nome dei diritti umani – a chiedere la fine del massacro, si direbbe senza fine, della popolazione civile palestinese. Gli appelli dell’ultima amministrazione Biden per un’attenuazione degli attacchi a Gaza caddero nel vuoto, mentre il sostegno militare e finanziario al governo israeliano continuava senza sosta.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Il ministro Valditara è nuovamente intervenuto in tema di educazione sessuale, stavolta con un disegno di legge ove si prevede che per qualsiasi attività didattica inerente la sessualità (sia essa attività extracurricolare o di ampliamento dell’offerta formativa) le scuole siano obbligate ad acquisire il “consenso informato” preventivo dei genitori. Perché «non si può obbligare uno studente a seguire corsi che possono presentare il rischio di una caratterizzazione ideologica». Ciò implica che siano forniti con congruo anticipo alle famiglie tutti i dettagli circa il materiale didattico, il personale interno o esterno incaricato, le finalità e le modalità di svolgimento dei relativi progetti. Per gli alunni privi del consenso scritto dei genitori, la scuola è tenuta a predisporre attività alternative, su modello di ciò che già avviene per chi non si avvalga dell’insegnamento della religione.
Il testo stabilisce inoltre che i soggetti esterni autorizzati a intervenire su argomenti sensibili, come appunto la sessualità, debbano essere muniti di idonei requisiti di professionalità scientifica e accademica. E che nelle scuole dell’infanzia e primarie si svolgano solo i programmi delle indicazioni nazionali: ovvero che la sessualità sia affrontata esclusivamente dal punto di vista biologico.
Al solito, le opposte tifoserie si sono scatenate fin dal primo annuncio dell’iniziativa, quando i particolari erano ancora in mente Dei: da una parte chi già cantava una vittoria che non c’era, intestandosene pure il merito; dall’altra chi, sempre in via preventiva, è partito a frignare. Ex multis, ecco uno scambio di battute che rende ragione della profondità logica e speculativa del dibattito (ogni commento è superfluo): https://www.la7.it/in-altre-parole/video/consenso-dei-genitori-per-leducazione-sessuale-nelle-scuole-vecchioni-i-genitori-devono-starsene-03-05-2025-594452.
«Siamo in un mondo che cambia», afferma l’Ue (nell’immaginario orwelliano l’Europa), nella Comunicazione congiunta proposta il 26 marzo scorso. Ma il cambiamento è individuato nell’aumento di «rischi e minacce interconnessi», ovvero in un «panorama della sicurezza sempre più complesso e volatile». La risposta dell’Ue? «Un approccio coordinato alla preparazione» che garantisca «una cultura della resilienza in tutta la società». E per chi non avesse capito bene: «essere pronti a tutti gli scenari peggiori».
Et voilà, la strategia del terrore è servita.
Dopo le preoccupazioni suscitate dalle sollecitazioni al riarmo, che molti sembrano aver sottovalutato perché abbagliati dalla religione di un capo europeo difensore della pace, ma che altrettanti hanno rifiutato perché basato su molteplici menzogne, l’Ue sembra avere alzato il tiro con una “Strategia” ben più ampia che ritesse le fila da lontano, auto-attribuendosi poteri inediti di elevata rilevanza come la difesa e la “preparazione alla guerra”, nella disponibilità esclusiva dei singoli Stati.
La tecnica: agganciare le vicende che da sempre colpiscono l’immaginario dell’umano, insinuandosi nei timori e nelle paure che le contraddistinguono. Lo strumento: l’uso e abuso delle parole atte a riattualizzare e mantenere ben vive quelle paure; l’eliminazione dal lessico pubblico delle parole che invece quelle paure vogliono sfatare, non per ignorarle ma per agire con sano realismo sulle ragioni che le determinano.
Crisi e resilienza sono, ahimè, i termini che la fanno da padrone, confermando una narrazione che già da anni ne fa i propri cavalli di battaglia per politiche di austerità, di privatizzazioni e di esaltazione della concorrenza anche tra ordinamenti giuridici; e stabilizza una volta per tutte il ritorno alla paura e allo spaesamento quale vera e propria tecnica di governo
Dopo l’elezione del cardinal
Robert Francis Prevost a papa n. 267 con il nome di Leone XIV,
dal Perù è
arrivata l’immediata rivendicazione della sua doppia
nazionalità – statunitense e peruviana –, la seconda acquisita
nel 2015.
E, subito, si è scatenata anche la creatività della rete
sull’elezione di un papa “più latinoamericano del debito
estero”; sull’aggiunta di un nuovo tipo di “papa” (patata) a
quelle esistenti, e con tanto di accostamento giornalistico
fra
Chicago (sua città di origine, negli Stati uniti), e Chiclayo,
la diocesi peruviana di cui fu amministratore apostolico. In
Perù, dove
ha vissuto per circa due decenni, Prevost è stato nominato
vescovo dal suo predecessore argentino, Jorge Bergoglio, da
poco scomparso, e ha poi
svolto importanti incarichi in ruoli delicati e decisivi della
Curia.
Un altro “meme”, ha sintetizzato così la scelta del Vaticano, presa in soli tre giorni di Conclave, giunta alla quarta votazione dei 133 cardinali e dopo tre fumate nere (e con oltre 100 voti, si dice, totalizzati): “Il nuovo papa è yankee, nazionalizzato peruviano e… anti Trump”. Quanto sarà distante dal “presidente più potente al mondo”, il pastore di un “gregge” di 1.400 milioni di cattolici nel mondo, e a capo di un patrimonio stimato (nel 2023) a 5,4 miliardi di euro solo per quanto riguarda l’attività dell’Istituto per le Opere di Religione (Ior), ovvero la Banca Vaticana, si vedrà nel corso del suo pontificato, e nell’evoluzione globale di quella che Francisco ha definito “la Terza guerra mondiale a pezzi”.
Intanto, è circolata con insistenza la notizia – non confermata dal Vaticano – di una donazione di 14 milioni di dollari, che Trump avrebbe potuto elargire, durante la sua visita a Roma per i funerali di Bergoglio, in caso di elezione di un papa Usa. Un’offerta consistente, considerando il deficit di bilancio della Santa sede, valutato a oltre 70 milioni di euro. Una “donazione” che avrebbe potuto aumentare, pare abbia lasciato intendere l’ottantina di super-ricchi che, all’interno di una moltitudine di fedeli (e turisti) ha accompagnato la delegazione trumpista alle esequie bergogliane: addirittura fino a un miliardo di euro.
Mi ero ripromesso di tacere vista la conclamata sterilità del Logos in questa fase storica, ma faccio fatica a non dire una parola, per quanto logora e stantia rispetto a quanto accade in Palestina.
Io davvero non so come fanno a dormire la notte quelli che supportano e hanno supportato, giustificano e hanno giustificato negli ultimi diciassette mesi le operazioni dell'esercito israeliano nella striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Per me è proprio un enigma.
Nascondersi dietro alle psicopatie latenti di Nethanyahu non assolve nessuno. Non immaginate che quando, prima o poi Nethanyahu andrà in pensione sarà tutto a posto.
Non sarà mai più tutto a posto.
Che anche secondo le definizioni tecniche più esigenti quello in corso sia un genocidio può essere negato solo da chi non conosce l'uso delle parole. Ma in fin dei conti è irrilevante impiccarsi alle definizioni.
Chiamatelo etnocidio, strage sistematica di civili, massacro su base quotidiana, fate voi.
Non è però una guerra.
Chiamarla guerra è proprio una schifosa menzogna.
Il cielo d’Irlanda è un oceano di nuvole e luce, cantava la Mannoia su testo di Massimo Bubola.
Dopo un’illusoria bonaccia, dall’altra sponda dell’Atlantico ha preso recentemente a spirare un vento impetuoso, foriero di tempesta e devastazione. Donald Trump, uomo ambizioso quant’altri mai e pieno di sé, sognava di passare alla Storia come il grande pacificatore, ma per riuscire in quest’impresa sono necessarie doti non comuni, tra cui la pazienza e la capacità di approfondire le situazioni, e all’attuale inquilino della Casa Bianca queste qualità fanno evidentemente difetto. Inoltre, la convinzione di essere il padrone del mondo nonché il più grande tra i presidenti degli Stati Uniti hanno reso ancor più difficoltosi l’attività in sé e l’obiettivo che The Donald si era prefisso: lui si illudeva di poter bloccare con un cenno della mano il conflitto russo-ucraino “sradicandolo” dal terreno che l’ha progressivamente alimentato e pensava che entrambi i contendenti si sarebbero inchinati al suo salomonico giudizio, ma il problema è che le soluzioni prospettate erano superficiali, raffazzonate e contrarie alla logica. Le varie proposte di compromesso che confusamente sono state avanzate alle due parti non tenevano infatti conto né delle origini del conflitto né della situazione maturata sul campo: veniva in sostanza sancito un “pareggio”, con il riconoscimento alla Russia – vittoriosa sul terreno –dei diritti sulla Crimea, inglobata a seguito di referendum già un decennio fa, e del possesso temporaneo delle quattro regioni occupate (o, a seconda dei punti di vista, liberate), cui si aggiungeva una mezza promessa non vincolante di neutralità dell’Ucraina, contraddetta peraltro dall’annuncio di garanzie militari per il regime autocratico e russofobo di Zelensky.
Riprendiamo da Comitato Carlos Fonseca questo interessante commento sul comportamento della sinistra latinoamericana di questi ultimi mesi
In Ecuador e in Bolivia si stanno mettendo in evidenza i peggiori comportamenti delle sinistre e dei progressismi. In ambedue i casi si tratta di una deriva pragmatica che sostituisce l’etica per ambizione di potere e di lusso, mettendo da parte qualsiasi proposta programmatica, trasformando la politica in un mero esercizio di convenienze personali per ottenere vantaggi. Non è nuovo, certamente, ma nei due paesi menzionati tutto già passa senza il minimo tentativo di dissimularlo.
In Ecuador, i nove membri dell’assemblea del Pachakutik, partito di sinistra legato al movimento indigeno, hanno firmato un accordo con il governo di Daniel Noboa (giudicato da queste correnti come di ultradestra), per permettergli di governare dato che non ha una maggioranza parlamentare. Hanno dichiarato che lo hanno fatto per “amore del paese”, ma nascondono i benefici che ottengono con un tale atteggiamento che apre le porte a un governo antipopolare, privatizzatore e fortemente repressivo.
Quelli della Rheinmetall, pluricentenaria azienda tedesca di armamenti hanno dichiarato che, vogliono produrre in Ucraina più carri armati, più munizioni, più cannoni di contraerea. Naturalmente, nessun commento da parte loro sul prezzo delle azioni del gruppo salito alle stelle.
Tutti i soldati della 45a Brigata di stanza in Lituania indossano il nuovo stemma sulle loro uniformi. È un simbolo della nuova alleanza tra Lituania e Germania.In Lituania, dal primo di aprile è operativa la 45a Brigata corazzata composta da quattro mila soldati tedeschi. Sono già iniziati gli addestramenti e le esercitazioni lungo la costa orientale che guarda alla Russia.
In sintonia, il cancelliere Merz ha affermato che, sotto la sua guida,
“il dibattito sulle forniture di armi, sui calibri, sui sistemi d’arma e via discorrendo sarà tenuto lontano dagli occhi dell’opinione pubblica”.
Poiché la guerra in Ucraina è soltanto un mezzo per raggiungere un fine, il nuovo governo potrebbe, finalmente, soddisfare la richiesta di Zelenski dei missili da crociera Taurus con una portata superiore a cinquecento chilometri e con un'” esclusiva testata multi effetto" che, stravolgerebbe le dinamiche di combattimento creando - sostengono - i presupposti per la vittoria.
Tra i tanti critici che abbiamo alle
calcagna ci sono coloro i quali, pur allattatisi al nostro
seno e scopiazzando qua e la quanto andiamo sostenendo da
anni, ci accusano di aver
dimenticato la centralità del “fattore di classe”. Cosa questi
critici intendano per “fattore di classe” non è
affatto chiaro, dal momento che non sono in grado di dare
rigore logico alle loro critiche. Tuttavia è evidente come
essi ci stiano lanciando
la scomunica: saremmo eretici perché il nostro discorso
rivaluta, oltre al primato del Politico sul sociale, i
concetti di popolo e nazione
“a spese” di quelli di classe operaia e internazionalismo.
L’accusa di eresia (una variante tutto sommato garbata
dell’accusa
di “rossobrunismo”) implica ci sia una “ortodossia”, ma non
chiedete loro, tra i disparati marxismi, quale sia il loro.
Non lo
sanno, e quel che è peggio, non gli interessa saperlo. Agli
arruffoni basta e avanza aggrapparsi a certa vulgata. Comunque
sia, ove essi,
invece di procedere per frasi fatte, accettassero un serrato
confronto teorico, qui siamo ed a loro dedichiamo queste
riflessioni.
* * * *
Com’è che Marx è considerato un gigante rivoluzionario nonostante non abbia guidato né un movimento di rivolta né tantomeno alcuna rivoluzione sociale? Polemista implacabile bisticciò con la maggior parte dei socialisti del tempo. Morì in esilio e nel massimo isolamento. AI suoi funerali c’erano poco più di dieci persone.
Egli fu rivoluzionario a causa delle sue idee e della grandezza della sua visione teorica. In altri tempi questa precisazione sarebbe stata pleonastica — Lenin: “senza teoria rivoluzionaria non c’è azione rivoluzionaria”. Non è così oggi, dove tutti sono stati infettati dall’analfabetismo funzionale, dal pressapochismo teorico.
Analizzerò il contributo di Marx all’analisi delle crisi capitalistiche partendo dal seguente presupposto: dal Capitale non è a mio avviso possibile derivare un modello monocausale del fenomeno, benché si sia tentato di farlo imputando, di volta in volta, la caduta del saggio di profitto, la sovrapproduzione, il sottoconsumo, le turbolenze finanziarie, ecc. La mia tesi è che, mentre i motivi delle crisi variano a seconda del periodo storico in cui si sono verificate, esse sono tutte associate a due caratteristiche strutturali del modo di produzione capitalistico che stanno “a monte” delle cause contingenti: il carattere “anarchico” di tale modo di produzione, cioè l’assenza di una programmazione razionale del processo complessivo di riproduzione sociale, e la necessità di garantire a ogni costo la continuità del ciclo complessivo del capitale, pena la rovina.
Inizio da quest’ultimo argomento, che Marx tratta nei primi quattro capitoli del Libro II (“Il ciclo del capitale denaro”, “Il ciclo del capitale produttivo”, “Il ciclo del capitale merce”, “Le tre figure del processo ciclico”). A pagina 83 del capitolo I leggiamo (le sottolineature sono mie): “Il processo ciclico del capitale è quindi unità di circolazione e produzione; include l’una e l’altra. In quanto le fasi D-M, M’-D’ sono atti circolatori, la circolazione del capitale fa parte della circolazione generale delle merci; ma, in quanto sono sezioni funzionalmente determinate, stadi del ciclo del capitale che appartiene non soltanto alla sfera di circolazione, ma anche alla sfera di produzione, il capitale [denaro] descrive entro la circolazione generale delle merci un ciclo suo proprio. Nel primo stadio, la circolazione generale delle merci gli permette di rivestire la forma nella quale potrà funzionare come capitale produttivo; nel secondo gli permette di spogliarsi della sua funzione di merce, in cui non può rinnovare il proprio ciclo, e nello stesso tempo gli apre la possibilità di separare il suo proprio ciclo di capitale dalla circolazione del plusvalore a esso concresciuto.
John Bellamy Foster riesamina e critica la tesi secondo cui la classe capitalista statunitense non sia una classe “governante”. Il fatto che gli oligarchi della classe dominante – come parte del regime di Trump - stiano ora esercitando il potere sulle scene nazionali e internazionali, dimostra che la schiacciante influenza politica della classe capitalista non sia più in discussione, e che questa convergenza spinga il Paese sempre più verso il neofascismo
Nell’ultimo secolo il
capitalismo statunitense ha avuto, senza dubbio, la classe
dominante più potente e più cosciente della storia mondiale,
cavalcando sia
l’economia che lo Stato e proiettando la sua egemonia sia a
livello nazionale che globale. Al centro del suo dominio c’è
un
apparato ideologico che sostiene che l’immenso potere
economico della classe capitalista non si traduce in
governance politica e che, a
prescindere dalla polarizzazione della società statunitense in
termini economici, rimangono integre le sue rivendicazioni di
democrazia.
Secondo l’ideologia che ne consegue, gli interessi
ultra-ricchi che governano il mercato non governano lo Stato:
è una separazione
fondamentale per l’idea di democrazia liberale. Questa
ideologia dominante, tuttavia, si sta ora sgretolando di
fronte alla crisi strutturale
del capitalismo statunitense e mondiale, e al declino dello
stato liberal-democratico, portando a profonde spaccature
nella classe dominante e a un
nuovo dominio di destra, apertamente capitalista, dello Stato.
Nel suo discorso di addio alla nazione, pochi giorni prima che Donald Trump tornasse trionfalmente alla Casa Bianca, il presidente Joe Biden denunciava che una “oligarchia” basata sul settore high-tech, e che in politica si affida al “dark money”, sta minacciando la democrazia degli Stati Uniti. Contemporaneamente, il senatore Bernie Sanders metteva in guardia dagli effetti della concentrazione di ricchezza e potere in una nuova “classe dominante” egemone, e dall’abbandono di qualsiasi traccia di sostegno alla classe operaia in ognuno dei principali partiti.[1]
L’ascesa, per la seconda volta, di Trump alla Casa Bianca, non vuol dire che l’oligarchia capitalista sia improvvisamente diventata influente nel comandare la politica statunitense, poiché si tratta di una realtà di lunga data. Tuttavia, negli ultimi anni, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, l’intero ambiente politico si è spostato a destra, mentre l’oligarchia sta esercitando un’influenza più diretta sullo Stato. Un settore della classe capitalista statunitense si trova palesemente al comando dell’apparato ideologico-statale, in un’amministrazione neofascista in cui l’ex establishment neoliberale sta diventando un junior partner [partner minore].
Parla di unità mentre le sue politiche dividono, impoveriscono e svendono il futuro
L’ultimo intervento di Mario Draghi al Cotec di Coimbra è solo l’ennesima dimostrazione di come il tecnocrate neoliberista, nonostante le sue gestioni fallimentari – prima alla BCE e poi come Presidente del Consiglio – continui imperterrito a pontificare su temi economici e geopolitici, come se avesse mai fornito risposte concrete alle crisi che affliggono l’Europa e l’Italia. Il tutto, ovviamente, con un tono moralistico e paternalistico che ormai lo contraddistingue da anni.
Draghi parla di “punto di rottura” nel commercio globale, denuncia la frammentazione politica europea e si lamenta dell’esautoramento dell’OMC, come se fosse stato un difensore del multilateralismo. Peccato che siano proprio le politiche da lui incarnate – liberismo sfrenato, austerity, privatizzazioni selvagge – a essersi mangiate quel fragile equilibrio internazionale e a spingere i Paesi verso azioni unilaterali. La sua Europa, sempre più subordinata agli Usa e alle lobby finanziarie, ha abbandonato i popoli per servire gli interessi delle élite globaliste. E ora pretende di indicare la strada?
Un esempio lampante della sua ipocrisia? Le sanzioni alla Russia: nonostante il loro palese fallimento Draghi in un discorso all’ONU si spinse a dire: le sanzioni "hanno avuto un effetto dirompente".
Un rapida rassegna stampa alle uniche testate che oggi hanno riportato, a modo loro, i fatti in corso a Tripoli:
La tesi del Manifesto: invece di fare non si capisce bene cosa, l'Italia ha pensato solo a fermare i migranti, quindi abbiamo reso potenti i criminali che adesso si sparano uno con l'altro.
Ben vengano i colloqui di pace in Turchia che avranno inizio il 15 maggio. Al netto della propaganda è bene riassumere i fattori fondamentali sulla cui base possono lavorare i costruttori della pace, in nome degli insegnamenti di papa Francesco, che poco tempo dopo la sua scomparsa, viene velatamente denigrato dai suoi diversi nemici. Si elogia il nuovo papa Leone XIV, che godeva peraltro della fiducia di Bergoglio, per poter biasimare il predecessore. La Russia ha chiesto colloqui di pace senza condizioni preliminari e che siano la base per un cambiamento a 360 gradi delle politiche neo-conservatrici statunitensi. La potenza che sta guadagnando territori, con una lenta avanzata, impiegando soltanto una parte del suo potenziale bellico, autolimitandosi ed evitando di radere al suolo con bombardamenti aerei le città, come gli occidentali durante la Seconda guerra mondiale, in Vietnam o in Iraq nel 2003, non può naturalmente accettare i nostri ultimatum. È interesse di chi ha a cuore l’Ucraina, il popolo che soffre, una generazione di giovani e meno giovani mandati allo sbaraglio al fronte, di chi tiene alla fragile democrazia di Kiev abolita dalla guerra, dalla legge marziale, dalla cancellazione dei partiti e persino della libertà di culto, comprendere che sta alla Nato fare un passo indietro, evitare di continuare un conflitto a bassa intensità che può solo portare nuovi lutti e disperazione. Se fossero i tedeschi a morire, la pace sarebbe già fatta.
Sul compagno Stalin testo liberamente scaricabile da una serie di siti tra cui “sinistrainrete” è una intelligente iniziativa politica e culturale, in un tempo, il nostro, in cui la cultura della cancellazione, sta prevalendo in modo ideologico sulla storia, sulla complessità e sulla verità. La riduzione della storia del comunismo a totalitarismo al punto da essere equiparato al nazionalsocialismo dal Parlamento europeo con il supporto della “sinistra degli asterischi e dei soli diritti civili”, ha una funzione determinante nell’associare il comunismo a una “storia criminale”. In tal modo la sovrastruttura determina l’egemonia di classe e insegna ai subalterni a pensare secondo l’unica grammatica possibile: il capitalismo, il quale non è solo “forma merce” ma specialmente è una “forma mentis”. I sudditi del sistema, senza speranza e prospettiva politica, precarizzati e manipolati, lo siamo tutti, si derealizzano, si ritirano così dalla storia del presente e del futuro per essere sospinti nell’eterna sospensione della derealizzazione. Il capitalismo non saccheggia solo le risorse, sospingendo un pianeta intero verso la catastrofe, ma gli uomini e le donne sono predati della loro carne e del loro futuro. Nell’attuale sistema rigorosamente a ”pensiero unico” il giovane medio non ha speranza, pertanto diventa resiliente e non resistente. Non vi sono alternative allo sfruttamento e alla competizione reificante, per cui non resta che adattarsi passivamente al proprio tempo.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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La scoperta dell’ossigeno: un
“caso paradigmatico”
L’epistemologia del secondo dopoguerra si è concentrata sulla logica e la struttura delle rivoluzioni scientifiche da diverse prospettive. Che si parli di rottura, rivoluzione, mutamento di paradigma ecc., un punto ha accomunato simili orientamenti teorici: scoprire la genesi e le modalità di produzione e sviluppo di ciò che, di volta in volta, nella storia del sapere umano, ha acquistato lo statuto di “scienza” o di “scientifico”. Sullo sfondo vi era la necessità di rompere con un certo storicismo, che considerava la storia della scienza (così come la storia in generale) quale raccolta di fatti e aneddoti, omogenei da un punto di vista qualitativo, da inanellare lungo uno stesso filo conduttore1 2.
All’interno di un simile orizzonte teorico, La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn può essere considerata come un’opera particolarmente rappresentativa (uno di quei classici che fanno epoca e che non smettono mai di stimolare la riflessione critica sul proprio presente)3. In questo saggio del 1962, Kuhn esprime tesi ben definite e, verrebbe da dire, radicali:
a) la scienza procede sempre per rotture rivoluzionarie;
b) si ha una rottura rivoluzionaria quando avviene il passaggio da un paradigma scientifico ad un altro;
c) il paradigma è un modello epistemologico accettato dalla comunità scientifica.
Muovendo da queste premesse - che rompono con la cronologia storicistica in quanto considerano lo svolgimento storico del sapere scientifico a partire dalla discontinuità dei paradigmi, invece che dalla continuità di un concetto di scienza tanto generico quanto posto arbitrariamente - Kuhn mette in evidenza il mutamento prospettico generato dalla sua teoria dei paradigmi nell’elaborazione di un modello storiografico in grado di ricostruire l’evoluzione e i mutamenti del sapere scientifico.
Secondo Kuhn, all’interno di un determinato paradigma si dà un sapere cumulativo della scienza. Il paradigma definisce i limiti, che perimetrano la ricerca scientifica.
A partire
dall’elezione di Papa Giovanni Paolo I, passando per Giovanni
Paolo II, Benedetto XVI, Francesco I e oggi Leone XIV, ciò che
mi ha sempre
colpito è che a ogni elezione opinionisti, commentatori, ecc.
hanno interpretato le prime dichiarazioni del neo eletto
pontefice alla ricerca
di risposte a domande personali. Solo in seconda battuta si
sono soffermati sull’aspetto teologico politico e anche in
merito a questo tema
l’approccio mi è sempre sembrato molto legato ai desiderata di
chi commentava piuttosto che a una analisi svestita dei panni
mondani nel senso di parte. Capisco che spogliarsi
della mondanità è una cosa molto difficile da farsi,
per cui non
escludo che io stesso sono alla ricerca di risposte a domande
personali che attengono il senso dell’esistenza, lo stare al
mondo,
l’escatologia della Storia. In attesa di leggere le prime
encicliche ci sono un paio di dichiarazioni che lasciano
intendere su come, il nuovo
Papa, vorrà condurre la Chiesa. Prima di riportare le
dichiarazioni alle quali intendo fare riferimento mi preme
sottolineare che il Papa ha la
doppia veste di monarca assoluto di uno Stato eletto da un
numero ristretto di membri, a loro volta cooptati dai Papi
precedenti, e di capo di una
religione che annovera 1,406 milioni di fedeli, dato in
crescita rispetto al 2022. Doppia veste da non sottovalutare.
Leone XIV ha 69 anni per cui è il Papa che guiderà la Chiesa almeno fino alla metà del secolo in corso, anni che vedranno il mondo cambiare radicalmente. Ai cambiamenti contribuirà con il suo Magistero il nuovo pontefice. Partendo da questo dato un agostiniano che diventa Papa scegliendo un nome antico come appunto quello di Leone non può che richiamare alla mente il contesto storico e politico nel quale matura la teologia di Agostino di Ippona, il Padre della Chiesa per eccellenza. Per inciso Agostino di Ippona era di etnia Berbera, quindi un nord africano. Fatte queste premesse la prima dichiarazione che mi ha colpito di Papa Leone XIV è relativa a quando appena eletto, rivolgendosi in inglese ai cardinali, ha dichiarato << Dio, chiamandomi attraverso il vostro voto a succedere al Primo degli Apostoli, questo tesoro lo affida a me perché, col suo aiuto ne sia fedele amministratore a favore di tutto il Corpo mistico della Chiesa; cosi che essa sia sempre più città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo.(…). >>.
I primi
cento giorni di Trump meritano certamente un primo bilancio
che si compone di vari aspetti, tutti significativi e coerenti
con il profilo che il
tycoon ha voluto delineare di sé sia negli anni della
sua prima presidenza che durante la rumorosa campagna
elettorale che lo ha riportato
alla Casa Bianca. Non si può certo dire che Donald abbia perso
tempo fin dal suo primo giorno da presidente. Il suo attivismo
frenetico ha
prodotto, dal 20 gennaio al 29 aprile, 143 ordini esecutivi,
di cui 26 solo nel primo giorno, 42 proclamazioni. 42
memorandum, oltre a provvedimenti
relativi all’anno fiscale in corso.
Secondo non pochi commentatori questa sovrabbondanza di atti, tutti tesi a destrutturare l’ordine preesistente, sia a livello interno che internazionale, qualificherebbe la sua come una “presidenza rivoluzionaria”, perché “se si prescinde dal caos, dalle fughe in avanti e – talora – dalle marce indietro, si vede delinearsi sullo sfondo un progetto politico potenzialmente rivoluzionario”1. Giusta sottolineatura, a patto che ci si intenda sul fatto che qui siamo nel campo di una rivoluzione restauratrice, un ossimoro, più volte usato in questa rivista,2 che serve a indicare la forza travolgente e la frenesia dell’azione e, allo stesso tempo, la sua direttrice di marcia all’indietro.
Basta leggere ciò che autorevoli esponenti della nuova amministrazione già scrivevano qualche tempo addietro. Tre anni fa, Russell Vought - uno degli autori del famigerato “Progetto 2025”, il piano per un esecutivo assolutista reso noto nel 2022 dall’organizzazione di destra Heritage Foundation - scelto del presidente Trump come direttore dell'Office of Management and Budget, sosteneva che "la cruda realtà in America è che siamo nelle fasi finali di una completa presa di controllo marxista del paese", in cui "i nostri avversari detengono già le armi dell'apparato governativo e le hanno puntate contro di noi". Conseguentemente a questa delirante diagnosi, i dipartimenti e le agenzie federali hanno ricevuto l’ordine, nel gennaio 2025, di sospendere spese per agenzie, sovvenzioni, prestiti e assistenza finanziaria in tutto il governo federale.
Ancora non è chiaro se i negoziati fra Kiev e Mosca riprenderanno, a Istanbul, dopo un primo accordo sullo scambio di 1000 prigionieri di guerra –il più ampio dal 2022.
È invece chiaro che qualora riprendessero, ricominceranno lì dove a fine aprile 2022 erano falliti: furono interrotti non tanto a causa del massacro russo a Bucha, venuto alla luce senza che le trattative si bloccassero, ma perché Washington e Londra imposero a Zelensky la continuazione di una guerra che sembrava promettere immani sconfitte russe.
Le cose non andarono così: nel settembre 2022 le truppe russe annettono quattro province lungo il Mare di Azov e il Mar Nero e continuano ad avanzare nel Sud e Sudovest ucraino. È probabile che vogliano assicurarsi altre città ritenute cruciali prima di negoziare, come analizzato dallo studioso Alessandro Orsini. Zelensky essendo perdente ha fretta, dunque insiste sull’incontro diretto col Presidente russo. Putin non ha fretta.
Se le trattative riprenderanno, si dovranno ridiscutere punti patteggiati tre anni fa, ma in condizioni ben peggiori per Kiev. Allora ci si accordò sulla neutralità militare ucraina ma non si parlò di territori (se si esclude la Crimea annessa da Mosca nel 2014, che gli occidentali considerano sacrificabile di fatto se non di diritto). Oggi di territori si deve parlare, dopo l’annessione delle quattro province. Quanto alla Crimea, Trump (ma non l’UE) ha detto che riconoscerà il suo accorpamento alla Russia.
Gli esponenti politici del “campo largo” del centro-sinistra devono decidere se parlare con lingua biforcuta o se contare fino a dieci prima di fare dichiarazioni di cui potrebbero – e dovrebbero – pentirsi.
L’occasione è venuta dalla polemica sulla mancata partecipazione della Meloni al vertice ristretto delle potenze europee della coalizione dei volenterosi (Germania, Francia, Gran Bretagna, Polonia) insieme al presidente ucraino Zelenski, svoltosi venerdì a Tirana.
La Meloni ha spiegato l’assenza con il fatto che quel vertice avrebbe discusso del coinvolgimento di militari europei in Ucraina, mentre l’Italia non è disponibile a inviare i propri soldati su quel fronte. La versione della premier è stata smentita da Macron ma i fatti, fin qui registrati alla televisione francese Tf1 pochi giorni fa, ci dicono il contrario.
Ma la mancata presenza della Meloni alla riunione dei peggiori leader guerrafondai d’Europa – curiosamente le stesse potenze che hanno innescato la Seconda Guerra Mondiale – è stata oggetto di attacchi dei partiti dell’opposizione a nostro avviso del tutto sballati, ma anche emblematici di una ambiguità inaccettabile.
Il leader del M5S Giuseppe Conte, pur cavalcando l’onda antimilitarista nel paese, ha accusato la Meloni di “isolare” l’Italia; Angelo Bonelli di AVS, anche lui identificato nel campo “pacifista”, l’ha accusata di fare la “comparsa”; dal Pd giungono attacchi simili a quelli di Conte sul fatto che la Meloni disertando il vertice dei guerrafondai “emargina” l’Italia dall’Europa.
Perché le cosiddette “questioni di genere” infiammano il dibattito contemporaneo?
Filosoficamente esse pongono, in maniera chiara e ambivalente insieme, il tema complesso del rapporto tra identità e differenza.
Un’identità chiusa si differenzia per esclusione dalle altre. Una aperta si riconosce come profondamente relazionale, dunque co-isituita nel rapporto con altre identità aperte. A questo aggiunge la sensazione di essere attraversata internamente dalla differenza, in una impossibile coincidenza finale con sé.
Ce ne accorgiamo in modo eclatante con il fenomeno della disforia di genere, una possibilità dell’umano non strettamente patologica (per quanto comporti spesso sofferenza psichica), anzi “strutturale”, poiché genere e sesso non si corrispondono automaticamente.
Possiamo sentirci appartenenti a un genere diverso da quello che la nascita ci ha assegnato sul piano sessuale-biologico-anatomico (che tuttavia esiste, e nessuno può scegliere volontariamente: è dunque ricevuto e irrevocabile, anche laddove fosse modificato tramite assunzione di ormoni o riassegnazione chirurgica del sesso), senza che questo debba farci sentire anormali.
Dare soluzioni sbagliate a problemi non compresi porta al disastro. Sembra questa la sentenza adatta alla trumpnomics, quel vortice di decreti presidenziali che ha imposto dazi sulle merci importate da tutto il mondo e giganteschi tagli alla spesa pubblica degli Stati Uniti.
Non che la spesa Usa sia molto orientata al “sociale”, anzi… Ma comunque era ed è una massa di spesa rilevante che, come spiegava un liberale conservatore come Keynes, comunque entra nel Pil con effetti “moltiplicati” (3 dollari di Pil per ogni dollaro di spesa, in media).
L’esatto opposto di quanto prescritto dall’astinenza neoliberista, secondo cui la massima efficienza del mercato si ha quando la spesa pubblica viene tagliata e il debito pubblico ridotto (anche se la riduzione, di fatto, non c’è mai stata per nessun paese, anzi…).
Sta di fatto che i dati relativi ai primi medi di amministrazione Trump sembrano proprio confermare che il problema della crisi Usa ha ricevuto lì una diagnosi sbagliata e quindi una “cura” che aggrava il problema invece di risolverlo.
Il Levy Institute – non certo un tempio del “progressismo” – si è messo a ragionare sui dati trimestrali, peraltro parecchio perturbati dalle iniziative trumpiane, ed ha scoperto quel che anche da lontano si poteva intuire (se si ha qualche cognizione di critica dell’economia politica).
Radiografia degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est
Il documentario «The Settlers», mandato in onda dalla
Bbc il 27 aprile, ha acceso i riflettori sul fenomeno delle
colonie
israeliane. A partire dalla Guerra dei sei giorni del 1967,
Israele ha costruito un sistema di dominio fondato sulla
colonizzazione, alimentata da
motivazioni religiose, interessi strategici e sostegni
internazionali. Gli insediamenti sono oggi il fulcro
materiale e simbolico
dell’occupazione, che il governo di estrema destra di
Benjamin Netanyahu continua ad alimentare. E che mina ogni
prospettiva di soluzione del
conflitto israelo-palestinese.
* * * *
«La gente viene qui perché crede che sia una mitzvah, un comandamento religioso, insediarsi su questa terra». Con queste parole, pronunciate da un’abitante di una colonia israeliana nei territori occupati, il documentario The Settlers della Bbc accende i riflettori su una delle questioni più controverse del conflitto israelo-palestinese: quella degli insediamenti in Cisgiordania.
La dichiarazione rilasciata a Louis Theroux sintetizza una visione che fonde religione, identità e potere. Offrendo una giustificazione religiosa alla colonizzazione, mostra come per molti coloni la fede rappresenti un motore ideologico in grado di trasformare la geografia politica in territorio sacro. In altre parole, rivela come anche in Israele la religione venga sfruttata a fini politici. Non a caso, i padri fondatori di Israele, gran parte dei quali atei, amavano ripetere: «Dio non esiste, ma ci ha dato uno Stato».
Il documentario ha offerto lo spunto a Krisis per realizzare una radiografia del fenomeno. Chi sono i coloni? Cosa li spinge a vivere in territori riconosciuti dalla comunità internazionale come illegali? Quali motivazioni ideologiche, religiose o politiche li animano? E soprattutto, quale ruolo giocano nella perpetuazione dell’occupazione?
Parafrasando Einstein con lo sguardo volto ai fatti di casa nostra, si può dire che se ci sono due cose infinite, queste sono la tracotante ignoranza della destra e la stupidità della sinistra. La cosa però finisce qui, perché mentre Einstein nutriva qualche dubbio sulla smisurata vastità dell’universo, noi non ne abbiamo alcuno riguardo all’affermazione dalla quale siam partiti. In fisica due forze uguali e contrarie si annullano, ma nella politica nostrana le cose vanno diversamente e destra e sinistra si rafforzano a vicenda. Non in termini elettorali, è ovvio; semmai nel senso che l’una diventa sempre più becera mentre l’altra diventa sempre più stupida.
Ma se la fisica la fa facile la politica è più complicata, e raggiunto il livello di saturazione le qualità in eccesso si trasferiscono da una parte all’altra. A conferma di ciò, solo per restare ai fatti più recenti, si prenda ad esempio l’invito alla sobrietà per ricordare l’ottantesimo Anniversario della Liberazione; un’idiozia in piena regola rilanciata all’unisono da tutti i giornalacci della destra. E di converso, quanto sono state volgari, false e tracotanti le grida della sinistra (M5S compreso) contro l’invito all’astensione per i prossimi referendum avanzato da alcuni esponenti della destra? Il tutto rilanciato, com’era naturale che fosse, dai giornaloni di marca progressista.
Il voto come dovere civico, la fattiva partecipazione dei cittadini… e chi più ne ha più ne metta. Ma da che pulpito?! Non erano stati i Democratici di Sinistra, a far esplicita propaganda astensionista per il referendum del 2003, guarda caso sempre in materia di lavoro?
Io sono un uomo semplice e, ahimè, di mestiere mi occupo di filosofia. Le due cose messe insieme mi giustificano rispetto al fatto che quando devo pensare all’Occidente, mi torna in mente banalmente Socrate. Potrei citarne mille altri ovviamente. Ma Socrate reca con sé un privilegio, che è quello di una ragione che si occupa di pensare se stessa e, proprio per questo, riconosce i propri limiti. “Io so di non sapere” è la formula perfetta che ha permesso alla storia dell’Occidente di non identificarsi con l’infinita sequela di guerre, dominazioni, stragi, genocidi, sopraffazioni nei confronti dell’altro da sé che essa contiene. Che ci ha salvato da noi stessi in fondo, permettendoci di riconoscere le nostre debolezze e persino di riformarle – in epoche passate – o di denunciarle o contestarle pubblicamente, in epoche recente.
Non sto dicendo nulla di particolarmente intelligente, anzi più propriamente sto solo introducendo un argomento scontato. Ma è proprio questo il punto più inquietante. Non tanto il contenuto di ciò che sta accadendo, quanto il fatto stesso che stia accadendo: come è infatti possibile che cose che abbiamo per decenni date per scontate sono adesso non solo ignorate ma anche derise e se possibile contraffatte persino sui maggiori quotidiani del Paese? È questa la domanda che mi è sovvenuta quando, nei giorni scorsi, ho letto un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera.
A ulteriore sostegno dei precedenti articoli sul caso Moro pubblicati da questo blog, ho di recente riascoltato la presentazione del libro di memorie del famigerato “faccendiere” Francesco Pazienza, uno dei più famosi 007 italiani coinvolto più o meno direttamente in quasi tutti gli avvenimenti topici degli anni di piombo. A domanda dal pubblico sul caso Moro, Pazienza risponde: “devo dire francamente che a me del caso Moro non me ne importava niente perché io mi occupavo soprattutto di questioni estere”. Non c’è bisogno di aggiungere altro.
Per fortuna però non è questo il tema di questo articolo, né tanto meno lo è la recente questione delle intercettazioni di Azzolini nell’ambito dell’inchiesta (sfociata adesso in un processo) sugli eventi della cascina Spiotta, già oggetto di speculazioni dei soliti complottisti. Su questo vi rimando al sempre esaustivo Paolo Persichetti e al suo blog a questo LINK.
Il sesto episodio del “caso del caso Moro” tratta invece di un incredibile punto di contatto fra storia contemporanea e letteratura Inglese del ‘600. Una suggestione interessante per chi come me si occupa della prima per interesse squisitamente personale e della seconda per lavoro. Non poteva sfuggirmi.
Già nel terzo episodio di questa serie Il caso del caso Moro Parte 3: La trattativa dedicato alla trattativa sotto banco, poi opportunamente rivelata per filo e per segno, che l’On. Craxi intraprese per mezzo di vari tramiti per provare a salvare la vita dell’On. Moro.
Anche la necessità di una transizione, tanto per essere chiari, ha appena iniziato a essere riconosciuta negli Stati Uniti.
Per la leadership europea, tuttavia, e per i beneficiari della finanziarizzazione che lamentano altezzosamente la “tempesta” di Trump incautamente scatenata sul mondo, le sue tesi economiche di base sono ridicolizzate come bizzarre nozioni completamente avulse dalla “realtà” economica.
Questo è completamente falso.
Infatti, come sottolinea l’economista greco Yanis Varoufakis, la realtà della situazione occidentale e la necessità di una transizione sono state chiaramente indicate da Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, già nel 2005.
La dura “realtà” del paradigma economico liberale e globalista era evidente già allora:
“Ciò che tiene insieme il sistema globalista è un massiccio e crescente flusso di capitali dall’estero, che ammonta a più di 2 miliardi di dollari ogni giorno lavorativo – e cresce. Non c’è alcun senso di tensione. Come nazione non chiediamo consapevolmente prestiti o elemosine. Non offriamo nemmeno tassi di interesse interessanti, né dobbiamo offrire ai nostri creditori protezione contro il rischio di un dollaro in declino”.
“Per noi è tutto abbastanza comodo. Riempiamo i nostri negozi e garage di merci provenienti dall’estero, e la concorrenza è stata un potente freno ai nostri prezzi interni. Ha sicuramente contribuito a mantenere i tassi di interesse eccezionalmente bassi, nonostante la scomparsa dei nostri risparmi e la rapida crescita”.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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L’illustrazione qui sotto ritrae
il capolavoro di Ivan Dmitrievič Šadr (1887-1941): “La pietra
è l’arma del proletariato”
(Булыжник - оружие
пролетариата, 1927): inizialmente gesso, trasformato poi in
bronzo, nello
stile a noi familiare, “classico”, appreso dall’Autore a
Parigi e a Roma, un po’ Discobolo e un po’ David, questo
operaio compie un gesto magnifico, nel vero senso etimologico
del termine.
A gran parte degli osservatori sfuggono le dimensioni di questa roccia, piegata, staccata dalla nuda terra e pronta per essere scagliata contro gli oppressori. Vale, quindi, la pena guardare la scultura anche da un’altra angolatura, decisamente più rivelatrice: da un lato, il macigno strappato dalla nuda terra costringe il corpo a torcersi all’indietro, le braccia a tendersi oltremisura nell’immane raccolta, tutti i muscoli a contrarsi nello sforzo; dall’altro lo sguardo, non più armonicamente piegato nel senso del movimento di torsione, come nel Discobolo, si alza, meglio, “si solleva” come la classe operaia oppressa, punta dritto davanti a sè, sicuro, senza paura, determinato a scagliare quel macigno addosso al nemico di classe. Siamo già oltre il Discobolo: il macigno si sta staccando, il vincolo che teneva la molla in tensione è stato tolto e la scarpaccia ferma, puntata in avanti, non solo fa da puntello all’operaio nel suo immane compito, ma già proietta, come una molla, per l’appunto, l’intera figura oltre la barricata nemica. Non importa che quel macigno l’abbia a malapena staccato da terra; io, con la testa, son già là dove deve andare! Da qui l’idea, la filosofia di fondo alla base di questa scelta autoriale: non più la potenza fine a sé stessa, raccolta, massimizzata nella torsione, ma che PRELUDE all’atto, come nel Discobolo classico, ma la potenza che DIVENTA GIÀ atto, insurrezione, Rivoluzione.
Col senno di poi, esiste anche un’altra lettura, ex post per l’appunto. La sproporzione fra l’operaio minuto, “tutto nervetti e muscoletti”, come un mio amico amava definire il fisico à la Bruce Lee, e quel mastodontico sampietrino che pare già un’impresa staccare da terra, oggi ci suggerisce anche la sproporzione fra compito da svolgere dalla classe operaia russa e risorse a essa a disposizione, ovvero l’immane problema che quegli operai erano chiamati a risolvere.
La
verità e il mattino si rischiarano a poco a poco.
Proverbio tedesco
1. Il concetto di errore in un contesto marxista e la tradizione occidentale
Il concetto di errore può essere discusso con maggiore chiarezza in un contesto marxista, in quanto il marxismo è un sistema teorico esplicitamente finalizzato – si pensi alla definizione engelsiana del marxismo come “guida per l’azione”, ripresa da tutti gli altri classici del socialismo scientifico - in cui ci si propone sia di operare dal punto di vista del proletariato, che esprime l’interesse generale di tutta l’umanità, sia di acquisire la comprensione del mondo per modificarlo. In questo senso, il marxismo, inserendo i fenomeni in un contesto complessivo, dispone di una base esplicita per decidere scientificamente quale tipo e grado di conoscenza siano necessari per attuare i cambiamenti verso cui tende.
D’altronde, vi sono certi aspetti dell’epistemologia occidentale attualmente dominante che vanno criticati in quanto agiscono come veri e propri ‘ostacoli epistemologici’, ossia come fallacie che generano errori. Una di queste fallacie, che qui non è possibile discutere, è, ad esempio, la definizione di conoscenza ‘oggettiva’ come conoscenza indipendente dal contesto e disinteressata, laddove la scissione tra conoscenza ‘pura’ e applicazioni pratiche trova riscontro nella scissione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, così come tra concezione ed esecuzione, che sempre più caratterizza ogni sorta di attività. Anche se le radici di tale scissione si possono individuare nella Grecia classica e altrove, non è necessario spingersi così lontano nel tempo giacché la forma oggi dominante risale all’Europa del Seicento. Si pensi a Descartes, il quale fa immediatamente seguire alla dimostrazione della sua stessa esistenza – ‘cogito, ergo sum’ – una prova dell’esistenza di Dio, cioè dell’Altro, laddove l’opposizione ‘sé/Altro’ diviene il modello per tutta una serie di polarità dualistiche: ‘anima/corpo’, ‘mente/materia’, ‘uomo/natura’, ‘individuo/società’, ‘soggettività/oggettività’, ‘organismo/ambiente’, ‘noi/loro’ ecc.
Il generale denuncia l’inadeguatezza strategica dell’Alleanza atlantica, incapace di adattarsi al nuovo scenario globale
Mentre l’Unione europea insiste
nel sostenere una guerra già persa, l’America di Trump
tratta con Mosca e prepara l’uscita di scena. Intanto
l’Alleanza
atlantica, fra leadership compromesse, assenza di visione e
derive belliciste, rischia di implodere. In questo brano
tratto dal suo ultimo libro,
l’ex comandante Nato in Kosovo analizza il tramonto
dell’Alleanza. E mette in luce l’irresponsabilità strategica
di
Bruxelles, incapace di immaginare la pace e ancora meno di
combattere una guerra che non è più la sua.
* * * *
Donald Trump non attribuisce alla Nato alcun valore geopolitico. Come i suoi predecessori, la vede come un proprio strumento per impedire all’Unione europea di raggiungere un minimo grado di autonomia in materia di sicurezza e tenerla in pugno con la politica e l’economia. Tale posizione si oppone in modo decisivo all’idea di sviluppare una difesa europea autonoma separata dagli Stati Uniti.
Fino a una decina di anni fa la cosa poteva dare fastidio a tutti gli europeisti convinti, ma alla luce dell’atteggiamento ostile a qualsiasi forma di dialogo con i potenziali avversari e competitori dimostrato dai funzionari dell’Unione europea in tutte le crisi, oggi è quasi una fortuna che l’Europa non abbia uno strumento militare da brandire.
L’intera classe politica europea si è dimostrata pericolosamente immatura nella gestione degli strumenti militari. Non solo sono stati ignorati i rischi e le conseguenze di un conflitto, ma la guerra è stata invocata e sostenuta per costringere ad accelerare dei processi intrinsecamente complessi come la transizione energetica, la transizione ecologica, la transizione tecnologica. Ogni transizione è necessaria ed è uno stadio che richiede più risorse e soprattutto maggiore stabilità.
● Lenin considerava le strutture del capitalismo monopolistico di stato come “l’anticamera del socialismo”. Ne parla in particolare nel saggio del 1916 su ’L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Dove dice che quest’ultimo ha raggiunto una grande razionalizzazione e socializzazione del sistema produttivo. E’ si ‘putrescente’, con i rentiers che vivono ‘tagliando cedole’, ma l’efficienza del sistema produttivo, afferma Lenin, è esaltata dall’intrecciarsi delle sue strutture con le funzioni dello Stato moderno, in cui l’espansione produttiva e della produttività procederebbe, a suo avviso, di pari passo con una ‘’socializzazione’’ del lavoro sempre più ampia. E’ in questi processi, ripeto, che Lenin vede la crescita di potenzialità socialiste all’interno del sistema capitalistico. Egli esprime questi pensieri in un altro testo poco conosciuto, ‘I bolscevichi conserveranno il potere statale?’, scritto verso la fine di settembre del ’17, alla vigilia della rivoluzione di ottobre, dicendo:
“Oltre all’apparato essenzialmente ‘oppressivo’ ….. esiste nello Stato moderno un apparato, legato in modo particolarmente saldo alle banche ed ai trust, che svolge un vasto lavoro di statistica e di registrazione. Non è necessario spezzare questo apparato e non si deve spezzarlo. Bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti, staccare …. da esso i capitalisti ….., …. ‘sottoporlo’ ai soviet proletari, farne una cosa di tutto il popolo. ….. Basandosi sulle conquiste già compiute dal capitalismo .. la rivoluzione proletaria sarà in grado di raggiungere il proprio scopo”; --- “Senza le grandi banche il socialismo sarebbe irrealizzabile …., il nostro compito consiste nel tagliere da questo magnifico apparato ‘ciò che gli dà un carattere capitalistico’, possiamo prenderl0 e metterlo in movimento con un decreto ”.
La guerra diventa
un’attività caratteristica dell’umanità da quando questa si
è divisa in classi sociali. Da sempre, infatti, le cause
economiche stanno alla base della guerra. Ma solo con il
capitalismo pienamente sviluppato si sono determinate le
guerre mondiali, collegate alla
mondializzazione del capitale, e la creazione di armi di
distruzione di massa, dovuta all’enorme spesa per la ricerca
e per le nuove tecnologie.
La guerra è soprattutto un elemento propulsivo dell’economia
capitalistica nei suoi momenti di crisi strutturale e quando
la gerarchia di
potenza su cui si basa a livello internazionale viene messa
in discussione. Nei momenti di crisi la spesa militare e le
immani distruzioni dovute
all’uso delle armi moderne arrivano puntuali in soccorso dei
profitti.
Non è, infatti, un caso che nel momento attuale, caratterizzato da una crisi che riguarda le aree di tradizionale maggiore sviluppo del capitalismo, gli Usa, l’Europa occidentale e il Giappone, si assista a un incremento della spesa militare. Negli Usa i tagli alle spese dell’amministrazione federale, che hanno già portato al licenziamento di migliaia di impiegati pubblici, si sarebbero dovuti estendere alla spesa militare, che in cinque anni si sarebbe ridotta di circa un terzo: dai 968 miliardi di dollari del 2024 ai 600 miliardi del 2030. Tuttavia, l’amministrazione Trump ha fatto marcia indietro e la spesa militare prevista per il 2026 crescerà a 1.010 miliardi, comprendendo la modernizzazione del nucleare, il Golden Dome, lo scudo spaziale e missilistico, e l’ampliamento delle forze navali[i].
Anche in Europa la spesa militare sta crescendo. La Commissione europea ha varato un piano di riarmo da 800 miliardi di euro spalmati su quattro anni. La Nato fino a qualche tempo fa chiedeva ai suoi stati membri di arrivare a una spesa di almeno il 2% del Pil, sebbene alcuni importanti stati non raggiungessero tale livello, comprese l’Italia e la Germania. Oggi, mentre l’Italia ha dichiarato che nel 2025 raggiungerà il 2%, il segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte, propone di portare il livello minimo di spesa al 5% del Pil (3,5% di spesa militare vera e propria e 1,5% destinato alla cybersicurezza)[ii].
Seminario Euronomade, Padova, 9 maggio 2025
Il ruolo operativo del diritto
è sempre stato centrale nell’ordine del discorso
neoliberale. Come spesso mi accade, la prenderò alla
lontana, prima di arrivare
alle più recenti fasi della sua riconfigurazione. Mi
propongo di passare attraverso quattro punti di snodo
particolarmente rilevanti dello
sviluppo della giuridificazione neoliberale. Il primo è la
crisi di Weimar e in particolare, per i fini che ci
proponiamo in questa occasione,
la discussione che si produce tra Schmitt, Rustow e Heller.
Il secondo riguarda la metà degli anni ’70, il rapporto
sulla crisi della
democrazia presentato alla Trilaterale redatto da Crozier,
Huntington e Watanuki che dà luogo alla riorganizzazione del
potere dello Stato in
governance multilivello e all’avvio del programma
controegemonico neoliberale su scala globale. Quanto al
terzo punto di snodo, farò
riferimento ai processi di costituzionalizzazione
dell’austerity e ai progetti di stabilizzazione autoritaria
indotti dalla crisi di
accumulazione prodottasi tra il crollo dei mutui subprime
del 2008 e la pandemia del 2020. Il quarto punto delle mie
considerazioni concernerà
infine l’impianto dei regimi di guerra e quello che qualcuno
ha chiamato il divenire-fascista del neoliberalismo
contemporaneo.
Una prima precisazione va però premessa a questa mia ultima affermazione. Come qualcun altro ha detto, il fascismo non va considerato un archetipo. Ciò che permetterebbe di nominare una sorta di modello permanente sotto il quale rubricare tutte le manifestazioni dell’autoritarismo, del sessismo, del razzismo e del colonialismo della storia. Il fascismo va piuttosto considerato, sin dalla sua prima apparizione, un prototipo: un progetto il cui sviluppo si rinnova continuamente investendosi in formule, prassi e dispositivi eterogenei e inediti, rispetto ai quali vanno fatte differenze e dei quali va rilevata la singolarità. È necessario comprendere con precisione su quale terreno muoversi e quale nemico affrontare.
A conclusione del
prima tornata di colloqui russo-ucraini a Istanbul, mentre
Andrej Zobov, su Komsomol'skaja Pravda, si chiede a chi sia
andata la vittoria e risponde
guardando ai balzi della borsa di Mosca – al ribasso, alla
notizia che l'incontro era durato meno di due ore; al
rialzo, con ritmi frenetici,
immediatamente dopo le dichiarazioni dei capi delegazione,
Vladimir Medinskij e Rustav Umerov - per Pëtr Akopov, su RIA
Novosti, il principale
risultato è rappresentato dal fatto stesso che i colloqui si
siano tenuti e che le parti si siano accordate sul
proseguirli: «nulla di
più, a parte lo scambio di prigionieri», mille per mille.
Non era scontato, dal momento che l'obiettivo di Kiev era quello di farli saltare. Come si era notato anche su questo giornale, Vladimir Zelenskij, rispondendo alla proposta di Vladimir Putin per contatti diretti tra delegazioni russo-ucraine, con il diktat di volere nient'altro che un faccia a faccia tra loro due, puntava proprio su una rottura dei colloqui. Stesso obiettivo era quello degli “euro-volenterosi” che, cercando di rinviare qualsiasi trattativa e imporre a Mosca un cessate il fuoco di un mese, non cercavano altro che continuare a rimpolpare di armi e uomini l'esercito ucraino, per proseguire una guerra che significa lauti profitti per colossi finanziari e industrie di guerra.
Allo scorno di un Zelenskij ritrovatosi da solo a Istanbul, senza né Putin, né Trump, anche i soliti italici giornalacci non sapevano far altro che affibbiare a Putin la qualifica di “nemico della pace”, facendo eco agli “amati” nazigolpisti di Kiev, che parlano di Mosca come “inadatta a ogni accordo” e assetata di sangue ucraino.
Del resto, è quanto ripetono anche oggi i perenni guerrafondai del Corriere della Sera, che sprecano rotoli di carta a “dimostrare” le “brame annessionistiche” di Putin che, oltre a non riconoscere «la legittimità del leader nemico» (si ricordano a via Solferino che il mandato di Zelenskij è scaduto oltre un anno fa?) «intende annettere il massimo dei territori occupati con la forza e in parallelo non rinuncia a esercitare un controllo diretto sulla sovranità ucraina del futuro».
Un’analisi spietata del “modello economico” italiano ed europeo. Ma fatta su un giornale economico, non su un opuscolo “antagonista”. La miseria profonda del capitalismo nazionale emerge ormai senza alcun velo.
Non c’è molto da aggiungere, anche se crediamo che il risultato dei referendum sul jobs act – anche se non cambierebbero la situazione dei salari, nell’immediato – potrebbero diventare una spinta politica per rimuovere la “passività” dei lavoratori, che sembrano da anni tramortiti da una condizione di vita e reddituale ai limiti della sopravvivenza.
Buona lettura. E tenete d’occhio i corsivi…
Prima i numeri, che già da soli dicono tutto: perché questo è il risultato di mezzo secolo di polemiche sull’”alto costo del lavoro” in Italia, il problema che veniva sbandierato come la fonte di tutti i mali.
A valori concatenati con anno di riferimento 2020, e quindi sterilizzando la dinamica dei prezzi [facendo comunque finta che l’inflazione reale, per i redditi bassi, sia davvero quella ufficiale registrata dall’Istat, ndr], la spesa per consumi finali delle famiglie italiane era stata nel 2007 di 1.111 miliardi di euro, un livello mai registrato successivamente. Diciassette anni dopo, nel 2024, è stata ancora di appena 1.085 miliardi, dunque inferiore del 2%.
La spesa per consumi finali delle P.A. è rimasta inchiodata per via della ultradecennale questione del debito insostenibile, passando da 364 miliardi del 2007 ai 363 miliardi di euro del 2024 [anche qui, probabilmente, lo scarto rispetto all’inflazione ufficiale è sensibilmente maggiore, ndr].
Voglio tornare, in maniera più articolata, sulle dichiarazioni della presidente Meloni relative allo spread sceso sotto i 100 punti che indicherebbe, a detta di Meloni, una maggiore affidabilità del debito italiano rispetto al debito tedesco. Si tratta, a mio parere, di un errore molto grave, e decisamente preoccupante. Provo a spiegarmi meglio. Da gennaio ad aprile del 2025, in Europa sono stati emessi titoli di Stato per circa 600 miliardi di euro, un record storico.
E' evidente che i vari paesi hanno bisogno di risorse e che i loro debiti trovano compratori anche perché il debito americano appare meno sicuro e meno attrattivo. È altrettanto evidente che un'emissione così massiccia genera una forte concorrenza tra i vari Stati nel trovare compratori e dunque può determinare un aumento dei rendimenti da offrire e degli interessi da pagare. A fine anno si stima che il totale delle emissioni dei vari Stati europei arriverà a sfiorare i 1000 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i circa 230 miliardi relativi ai titoli che la Bce ha comprato negli anni passati e che ora rimette in vendita.
Dunque, siamo di fronte a una cifra enorme, in cui peserà molto anche il debito tedesco, ritenuto in assoluto il più sicuro e pertanto il più pericoloso in termini di concorrenza agli altri debiti nazionali. Naturalmente, non bisogna affatto trascurare le emissioni di titoli americani, che saranno pari a circa 9000 miliardi di dollari - nove volte il debito emesso in Europa! - e quello di altri paesi del mondo. Tutto questo per dire che il collocamento del debito durante i prossimi anni non sarà affatto semplice, al di là del rapporto tra offerta e domanda di titoli, e i costi del suo collocamento rischiano di salire molto.
Radiografia degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est
Il documentario «The Settlers», mandato in onda dalla
Bbc il 27 aprile, ha acceso i riflettori sul fenomeno
delle colonie
israeliane. A partire dalla Guerra dei sei giorni del
1967, Israele ha costruito un sistema di dominio fondato
sulla colonizzazione, alimentata da
motivazioni religiose, interessi strategici e sostegni
internazionali. Gli insediamenti sono oggi il fulcro
materiale e simbolico
dell’occupazione, che il governo di estrema destra di
Benjamin Netanyahu continua ad alimentare. E che mina ogni
prospettiva di soluzione del
conflitto israelo-palestinese.
* * * *
«La gente viene qui perché crede che sia una mitzvah, un comandamento religioso, insediarsi su questa terra». Con queste parole, pronunciate da un’abitante di una colonia israeliana nei territori occupati, il documentario The Settlers della Bbc accende i riflettori su una delle questioni più controverse del conflitto israelo-palestinese: quella degli insediamenti in Cisgiordania.
La dichiarazione rilasciata a Louis Theroux sintetizza una visione che fonde religione, identità e potere. Offrendo una giustificazione religiosa alla colonizzazione, mostra come per molti coloni la fede rappresenti un motore ideologico in grado di trasformare la geografia politica in territorio sacro. In altre parole, rivela come anche in Israele la religione venga sfruttata a fini politici. Non a caso, i padri fondatori di Israele, gran parte dei quali atei, amavano ripetere: «Dio non esiste, ma ci ha dato uno Stato».
Il documentario ha offerto lo spunto a Krisis per realizzare una radiografia del fenomeno. Chi sono i coloni? Cosa li spinge a vivere in territori riconosciuti dalla comunità internazionale come illegali? Quali motivazioni ideologiche, religiose o politiche li animano? E soprattutto, quale ruolo giocano nella perpetuazione dell’occupazione?
Io sono un uomo semplice e, ahimè, di mestiere mi occupo di filosofia. Le due cose messe insieme mi giustificano rispetto al fatto che quando devo pensare all’Occidente, mi torna in mente banalmente Socrate. Potrei citarne mille altri ovviamente. Ma Socrate reca con sé un privilegio, che è quello di una ragione che si occupa di pensare se stessa e, proprio per questo, riconosce i propri limiti. “Io so di non sapere” è la formula perfetta che ha permesso alla storia dell’Occidente di non identificarsi con l’infinita sequela di guerre, dominazioni, stragi, genocidi, sopraffazioni nei confronti dell’altro da sé che essa contiene. Che ci ha salvato da noi stessi in fondo, permettendoci di riconoscere le nostre debolezze e persino di riformarle – in epoche passate – o di denunciarle o contestarle pubblicamente, in epoche recente.
Non sto dicendo nulla di particolarmente intelligente, anzi più propriamente sto solo introducendo un argomento scontato. Ma è proprio questo il punto più inquietante. Non tanto il contenuto di ciò che sta accadendo, quanto il fatto stesso che stia accadendo: come è infatti possibile che cose che abbiamo per decenni date per scontate sono adesso non solo ignorate ma anche derise e se possibile contraffatte persino sui maggiori quotidiani del Paese? È questa la domanda che mi è sovvenuta quando, nei giorni scorsi, ho letto un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera.
Sul compagno Stalin testo liberamente scaricabile da una serie di siti tra cui “sinistrainrete” è una intelligente iniziativa politica e culturale, in un tempo, il nostro, in cui la cultura della cancellazione, sta prevalendo in modo ideologico sulla storia, sulla complessità e sulla verità. La riduzione della storia del comunismo a totalitarismo al punto da essere equiparato al nazionalsocialismo dal Parlamento europeo con il supporto della “sinistra degli asterischi e dei soli diritti civili”, ha una funzione determinante nell’associare il comunismo a una “storia criminale”. In tal modo la sovrastruttura determina l’egemonia di classe e insegna ai subalterni a pensare secondo l’unica grammatica possibile: il capitalismo, il quale non è solo “forma merce” ma specialmente è una “forma mentis”. I sudditi del sistema, senza speranza e prospettiva politica, precarizzati e manipolati, lo siamo tutti, si derealizzano, si ritirano così dalla storia del presente e del futuro per essere sospinti nell’eterna sospensione della derealizzazione. Il capitalismo non saccheggia solo le risorse, sospingendo un pianeta intero verso la catastrofe, ma gli uomini e le donne sono predati della loro carne e del loro futuro. Nell’attuale sistema rigorosamente a ”pensiero unico” il giovane medio non ha speranza, pertanto diventa resiliente e non resistente. Non vi sono alternative allo sfruttamento e alla competizione reificante, per cui non resta che adattarsi passivamente al proprio tempo.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Pubblicato
originariamente sulla rivista britannica «endnotes.org.uk»
con il titolo di
«Prologomena on the "System of States"», il saggio di
Raffaele Sciortino e Robert Ferro, di cui qui presentiamo la
traduzione a cura di
Kamo Modena rivista dagli autori, offre alcune coordinate
teoriche, a partire dai testi marxiani e da alcuni dibattiti
successivi, per comprendere che
cosa sono gli Stati e come funziona la loro articolazione in
un sistema all’interno del «mercato mondiale», altra
importante
categoria marxiana. In tempi di sconquasso dell’ordine
globale, il dibattito su questi nodi e il possesso di una
griglia interpretativa teorica
sono requisiti indispensabili se si vogliono comprendere e
afferrare politicamente le trasformazioni in atto.
* * * *
Introduzione
È generalmente noto che Karl Marx, nel piano del Capitale, prevedesse una sezione dedicata allo Stato – sezione di cui non scrisse nemmeno una bozza. Dopo di lui, numerosi autori hanno insistito sull’incompletezza della teoria marxiana a questo riguardo, e benché nessuno di essi si sia prefissato il compito esplicito di portare a compimento il progetto originario di Marx, vi sono stati alcuni tentativi di colmare almeno parzialmente questa lacuna. Prendendo le distanze dall’opinione prevalente, in questo saggio si sostiene che lo Stato in quanto tale non presenta particolari ostacoli alla teoria marxista, e che il suo armamentario concettuale è sufficiente per condurne un’analisi esaustiva. L'articolazione a partire dalla quale la faccenda diventa più delicata risiede nel passaggio dall’astratto al concreto, che nell’opera di Marx coincide con la transizione dal concetto di capitale in generale alla molteplicità dei singoli capitali in concorrenza fra loro.
Il negoziato per la
pace in Ucraina dopo i colloqui tra le delegazioni russa e
ucraina in Turchia e la conversazione telefonica tra Donald
Trump e Vladimir Putin, sembra
arenarsi sugli scogli di sempre: da un lato la pretesa russa
che Kiev e l’Europa tengono conto della situazione sul campo
di battaglia,
dall’altro la pretesa di ucraini ed europei che Mosca accetti
di sospendere le operazioni militari per un mese per
negoziare.
“Russia e Ucraina inizieranno immediatamente i negoziati per un cessate il fuoco” ha detto Trump dopo la conversazione con Putin definita “molto positiva. Russia e Ucraina avvieranno immediatamente i negoziati per un cessate il fuoco e, cosa ancora più importante, per la fine della guerra”, ha scritto Trump. Secondo il presidente americano, le condizioni dell’accordo saranno stabilite dalle due parti, perché “solo loro conoscono i dettagli” necessari a raggiungere un’intesa autentica.
Dettagli a dire il vero sostanziali sulla cui definizione Trump sembra volersi sottrarre preferendo sottolineare che la Russia sarebbe pronta ad avviare un commercio su larga scala con gli Stati Uniti una volta raggiunta la pace: “C’è un’enorme opportunità per la Russia di creare posti di lavoro e ricchezza. Il suo potenziale è illimitato”. Allo stesso modo il presidente ha evidenziato le prospettive economiche future per l’Ucraina, parlando di grandi benefici nel contesto della ricostruzione del Paese dopo la fine del conflitto.
Trump come sempre esalta le prospettive economiche determinate dalla fine del conflitto e ha posto l’enfasi sul ruolo che potrà avere il Vaticano con Papa Leone XIV nel guidare i negoziati ma in termini di sostanza dal faccia a faccia telefonico è emersa la conferma che USA e Russia marciano verso il ristabilimento di importanti relazioni bilaterali, non certo l’imminenza di un accordo per il cessate il fuoco e la pace in Ucraina.
In politica
è buona regola agire sulle contraddizioni dell’avversario. Per
farlo, però, occorre un’analisi chiara della situazione, e
quella presente la rende particolarmente difficile perché le
variabili da decifrare sono veramente tante. Quello cui si
dovrebbero dedicare
quanti stanno nel campo opposto all’imperialismo USA, alla
Nato e a questa Europa russofoba e del riarmo è tentare
un’interpretazione più vicina possibile alla complicatissima
realtà delle cose.
1. Fino all’arrivo di Trump la situazione era abbastanza chiara. La guerra in Ucraina era stata programmata da tempo dagli USA e provocata col rifiuto di ascoltare le sacrosante ragioni della Russia. L’obiettivo era duplice: destabilizzare la Russia fino al collasso e riportare l’Europa sotto il tallone degli USA annullandone l’ambizione a essere la terza grande potenza del pianeta. L’amministrazione democratica ha fallito il primo (ma probabilmente i suoi strateghi non l’hanno abbandonato), mentre ha raggiunto pienamente il secondo, almeno fino a quando è stata in carica. Nel percorso compiuto, dal punto di vista degli USA le varie tappe sono state linearmente coerenti con i propositi. Accanto all’ininterrotta escalation nella consegna all’Ucraina di armamenti sempre più offensivi, le sanzioni, il sabotaggio del gasdotto Nord Stream e la partita degli approvvigionamenti energetici sono stati i passaggi più emblematici. Se guardiamo le cose dal versante dell’Europa, invece, non si può fare a meno di chiedersi perché ha deciso di farsi tanto male sottomettendosi incondizionatamente alla volontà degli USA. Si possono abbozzare solo supposizioni ripercorrendo gli avvenimenti. Poche ore dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina, Macron e Scholz hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche nelle quali dicevano che era possibile e auspicabile ricercare una composizione del conflitto. Dopo altre pochissime ore hanno assunto una posizione opposta, quella che hanno mantenuto e confermato da allora in avanti lasciando di fatto la linea politica dell’Europa nelle mani dell’UK, che dell’UE non faceva più parte.
Cari sovranisti all’italiana, la domanda non è se, ma quanto vi piace che i dati sul vostro telefonino o computer siano controllabili dal Mossad, il servizio segreto estero d’Israele? Due anni fa, più esattamente il 10 marzo 2023, il capo del governo israeliano Benjamin Netanyahu si incontrò a Roma con Giorgia Meloni e con alcuni rappresentanti dell’economia del nostro Paese, ai quali dichiarò il proprio auspicio per “un salto significativo nella cooperazione tra Italia e Israele”, dicendosi pronto ad “aumentare le relazioni tecnologiche ed economiche”. Fra quelle tecnologiche, c’era l’ingresso di aziende di Tel Aviv nella sicurezza informatica italiana, come poi ha confermato il ddl sulla cybersecurity, approvato in via definita nel giugno 2024 con un testo che, dopo una prima versione che circoscriveva il perimetro a tecnologie esclusivamente Ue o Nato, ha poi incluso anche quelle israeliane. Ora, non è un mistero che gli apparati d’Israele, i più avanzati al mondo nel comparto spionaggio, siano contigui alle proprie imprese nel settore. È stato ampiamente scritto a proposito del caso Pegasus, lo spyware del gruppo NSO utilizzato da governi, democratici e non, per spiare imprenditori, attivisti e giornalisti scomodi (fra cui Jamal Kashoggi, assassinato dai sauditi). E, fra le varie, si può citare la quasi concomitanza, in quello stesso mese di marzo del 2023, di un memorandum firmato tra la fondazione Med-Or (finanziata dall’industria militare Leonardo e presieduta dall’ex ministro piddino Marco Minniti) e l’Institute for National Security Studies (INSS) guidato da Manuel Trajtenberg, più volte consulente della difesa di Tel Aviv.
Francesco Schettino, Socializzare i profitti. Le leggi generali dell’economia politica nell’era dell’Antropocene, pref. Clara E. Mattei, Meltemi, 2025, pp. 262, € 20,00
Alcune parti del pensiero di Karl Popper sono sicuramente discutibili, specialmente in ambito politico. Però la metafora delle teorie scientifiche che sarebbero reti gettate sul mare della realtà per afferrare i «fatti» mi sembra suggestiva. Certo, è stato detto che a ben vedere i «pesci» stessi sarebbero prodotti (piuttosto che pescati) da tali reti, e che, a seconda della rilevanza del pesce, i pescatori sarebbero indotti a mutar metodo di pesca. Fatto sta che intorno al 1870 gli economisti hanno cambiato le loro attrezzature di pesca e oggi si insegna quasi esclusivamente il paradigma neoclassico. Tutto il resto è relegato nei pressi dello sgabuzzino delle scope e dileggiato come «eterodossia». Gli eretici però esistono e ciclicamente tornano all’attacco, perché il pesce portato a tavola è piuttosto insipido. In tale contesto, Socializzare i profitti di Francesco Schettino è una scialuppa di salvataggio per tutti i lettori curiosi di capire meglio cosa c’è dietro i manuali patinati che si studiano nelle facoltà di economia di tutto il mondo.
Il libro si prefigge di smontare il paradigma ortodosso e mostrare cosa non va. L’oggetto dell’economia neoclassica è costituito dall’efficienza, ovvero dall’allocazione ottima di risorse scarse.
Chiariamo il linguaggio per chiarire il pensiero
Ma è corretto dire che Putin è un dittatore? Al netto di torti e ragioni, il conflitto ucraino vede davvero uno scontro fra democrazia europea e dittatura russa? Risposta breve per entrambe le domande: NO.
Le parole sono importanti, e siccome Wittgenstein diceva che compito della filosofia è chiarire il linguaggio, proverò a chiarire la questione attingendo dalla letteratura scientifica. Avviso che sarò estremamente sintetico (data la vastità dell’argomento).
Innanzitutto è importante partire dalla distinzione tra democrazia formale (quella scritta “sulla carta”) e democrazia reale (quella che realmente c’è). Dobbiamo al Marx della “Questione ebraica” la prima formulazione esplicita di questa distinzione, che poi è entrata nel linguaggio politologico e giuridico, anche “borghese”.
La democrazia FORMALE (nella sua versione moderna) è un sistema costituzionale e parlamentare che garantisce diritti politici individuali e universali, uguaglianza giuridica e giudiziaria, separazione e pluralismo dei poteri. In essa, le minoranze responsabili delle decisioni pubbliche non seguono il proprio arbitrio ma sono emanazione legittima e rappresentativa di maggioranze popolari, che a loro volta hanno strumenti per controllare, criticare e sostituire quelle minoranze, affinché siano sempre rappresentative e mai autoreferenziali.
Il libro, André Tosel, Sulla crisi storica del marxismo. Saggi, note e scritti italiani, a cura di Sergio Dalmasso, pubblicato da Mimesis (2025), è il compimento di un debito personale verso l’autore, che il curatore ha avuto la fortuna di conoscere. Omaggio a un pensiero complesso, un interrogarsi che ha percorso l’intera vita di questo intellettuale e attivista politico. Partecipe, per sua stessa ammissione, al travaglio di una generazione che ha vissuto sia le speranze della rivolta operaia e studentesca del 1968, sia la convinzione che la strategia comunista del passaggio democratico al socialismo potesse introdurre importanti riforme nella struttura sociale. Una generazione che ha vissuto in breve tempo l’affermazione e lo scacco di quella strategia.
André Tosel (Nizza 1941 - 2017) ha insegnato presso le università di Parigi, Digione e Nizza. I suoi studi e interessi spaziano da Kant a Spinoza a Marx e Gramsci di cui è stato il maggior conoscitore e traduttore in Francia e sulla filosofia italiana (Vico, Labriola, Gentile). Di formazione cattolica, studente alla Scuola Normale Superiore, subisce l’influenza di Louis Althusser. L’indignazione contro la guerra francese in Algeria lo indirizza verso il marxismo, con le dovute cautele derivanti dallo choc prodotto dal rapporto Kruscev sui crimini di Stalin del 1956, il culto della personalità, l’intervento sovietico in Cecoslovacchia nel 1968.
I meno sprovveduti tra gli
abitanti del Vecchio Continente dovrebbero convenire che la
rappresentazione dell’Europa – regione geografica, l’insieme
disordinato di stati nazionali (sovrani solo
sulla carta) o la cosiddetta Unione (Ue) – si
colloca decisamente
sopra le righe, in buona sostanza non risponde al
vero. Coloro che sono persuasi del contrario, possono
interrompere qui la lettura di un
testo che troverebbero inutilmente corrosivo nei riguardi dei
loro convincimenti.
Tale riflessione d’esordio presume un rispecchiamento dell’Ue che potremmo riscontrare tra le liane della giungla amazzonica, dal momento che la comprensione della sua identità legale e istituzionale, così come della sua essenza teleologica richiede un dispendio di energie di norma superiore a quanta se ne ha a disposizione. In assenza del sottostante, un popolo europeo – che solo la storia avrebbe potuto costruire, ma non lo ha fatto – il livello di coesione delle sue cosiddette classi dirigenti, simile a quello delle onde in modulazione di frequenza, cambia orientamento a seconda del punto cardinale da cui sorge la luna.
È sufficiente uno sguardo distratto, o qualche pagina web, per comprendere che il tempo presente è quello in cui l’Europa – la cui storia millenaria, tragica e arruffata come poche, resta peraltro sconosciuta ai più – vede dileguare quei lineamenti che un tempo le avevano meritato la qualifica di civiltà. Il continente è oggi null’altro che una regione-bersaglio guidata a meri fini estrattivi da entità solfuree ma brutali, vale a dire dai detentori del capitale globale, quelli che smittianamente decidono sullo stato di emergenza, una sofisticata terminologia questa per significare che sulle questioni che contano davvero son loro a decidere. Costoro ponderano l’Europa in una forma diversa rispetto ai cittadini europei (in larga parte frastornati dal rumore di fondo della Grande Menzogna) o extra-europei, questi distanti e ancor più indifferenti. E la democrazia? Beh, quella serve per riempire il nulla che nulleggia delle marionette che occupano le poltrone del potere. Vediamo.
Torno su due
eventi della settimana scorsa che, nel ritmo con cui si
susseguono di questi tempi accadimenti importanti, strategici,
quasi sempre sconvolgenti,
rischiano di finire nel cassone cerebrale di casa. Mi
riferisco a due eventi epocali relativi a protagonisti di
questa fase sullo spicchio di pianeta
nel quale abbiamo la non felice sorte di vivere noi. Eventi
che strappano veli su fatti, meglio malefatte, del recente
passato, e che minacciano di
incidere pesantemente sui livelli di legalità, democrazia e
verità.
Iniziamo con il caso che sembrerebbe riguardarci più da vicino, sebbene l’altro comporti senz’altro conseguenze più rilevanti e globali. E’ il caso della governatrice del continente europeo (Russia e componenti minori escluse). Il tribunale europeo la marchia di illegalità, cioè ce la restituisce da fuorilegge, malfattrice per aver fatto dell’industria farmaceutica USA, ma non solo, la temporaneamente massima potenza profittatrice delle nostre vite e dei nostri soldi. E ciò a forza di miliardi probabilmente indebiti, sicuramente in eccesso e all’insaputa di tutti noi che saremmo titolati a sapere. Seppure nei limiti di quanto impongono le democrazie occidentali nell’era perenne del marchese del Grillo: io so’ io e voi (parlamento e cittadini) nun siete un cazzo.
La cosa è significativa anche perché ribadisce, appunto, un metodo. Difatti in questi giorni si sta ripetendo, non tanto nella forma della dazione di denari all’insaputa di coloro che ne dovranno fare a meno, quanto in quella della costruzione, via legge che i denari li estrae dai singoli paesi, del nuovo pilastro dell’ultracapitalismo europeo: il militare. Il militare nelle due configurazioni che ne costituiscono anima e corpo: le industrie produttrici di armi e coloro che ne fanno poi uso.
Ursula, già lobbista e ministra– alla pari di Crosetto – di quel settore politico-economico in Germania, è oggi giunta felicemente al potere assoluto con un premier Blackrock (azionista delle maggiori industrie belliche del mondo e non solo), trascorre di illegalità in illegalità.
Una asfissiante campagna di stampa occidentale racconta l'aggressività russa in Scandinavia. Ma la realtà è esattamente opposta
Uno dei concetti chiave della dottrina militare della Nato e degli Stati Uniti è conosciuto con il nome di Full Spectrum Dominance, “dominio a pieno spettro”. Questo nome indica il principio che la Nato e gli USA per vincere una guerra non devono usare solo lo strumento militare ma una combinazione di strumenti che possa ottenere l'obiettivo politico che si vuole raggiungere. Tra gli strumenti vi è certamente l'utilizzo delle sanzioni o l'attacco finanziario posto in essere con le enormi entità finanziarie americane e occidentali così da ottenere – in definitiva – il collasso economico della nazione che si vuole colpire. Oppure l'utilizzo di strumenti diplomatici, magari anche attraverso istituzioni sovranazionali di cui si ha il dominio politico di fatto, come ad esempio la Corte Penale Internazionale, che immancabilmente incrimina e condanna gli esponenti politici dei paesi avversari dell'Occidente: ultima ipotesi in ordine di tempo è stata l'incriminazione di Vladimir Putin. Oppure ancora uno strumento può essere considerato anche l'ecosistema delle ONG occidentali che in moltissimi casi operano per destabilizzare i paesi che gli USA, la Nato o la UE vogliono colpire.
Quindi come si vede, nel concetto di guerra elaborato dai pianificatori occidentali vanno inclusi strumenti non propriamente bellici ma che possono essere utili per raggiungere l'obbiettivo, sperabilmente rendendo non necessario l'intervento militare diretto.
Ieri Israele ha inaugurato la fase più spaventosa di ciò che, secondo ogni parametro del diritto internazionale, può essere definito genocidio: l’invasione via terra dell’intera Striscia di Gaza.
Non si parla più di operazioni militari mirate, ma di una distruzione sistematica, finalizzata, ideologica.
Un massacro terminale.
Le testimonianze che arrivano, poche, sempre meno, perché i giornalisti sono stati fisicamente eliminati o tecnicamente silenziati, raccontano una ferocia che non conosce precedenti.
Colonne di carri armati avanzano sulle rovine delle zone già designate come “sicure”, radendole al suolo con colpi d’artiglieria nel mucchio.
L’aviazione colpisce senza tregua. Le bombe si susseguono come un metronomo dell’annientamento. Ogni notte una sinfonia mortuaria.
Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, nelle ultime quarantotto ore almeno centocinquantatré persone sono state uccise e oltre quattrocentocinquanta ferite nei bombardamenti israeliani, con attacchi continui e concentrici su Rafah, Khan Younis e i corridoi dell’evacuazione umanitaria.
Al momento di scrivere, l'unica cosa che è dato sapere a proposito della telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin (a quanto pare, tuttora in corso) è quanto dichiarato dal portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov, e cioè che non si prevede ancora un incontro diretto tra i due presidenti.
In compenso, pare si sprechino i pronostici su colloqui russo-ucraini a Istanbul e su prospettive del conflitto. Per parte russa l'osservatore Maksim Ševcenko ritiene che il conflitto possa durare fino al 2029, con una UE che oscilla ancora tra i punti di vista di Washington e Mosca e «cesserà di essere indecisa quando andranno al potere forze che la Washington trumpista identificherà come alleate», come Viktor Orbán, Robert Fitso, l'austriaca “Libertà”, AfD” in Germania e Rassemblement National in Francia, col romeno George Simion, che si oppone alle forniture di armi all'Ucraina, quale segnale importante della vittoria dei trumpisti in Europa: «questo è un passo avanti verso la fine della guerra anche senza un cessate il fuoco», afferma Ševcenko.
Putin e Trump soffocheranno l'Unione Europea, dice: la «UE non ha molte possibilità. Il conflitto ucraino è una trappola in cui è caduta la Russia, ma ne sta uscendo con l'aiuto di Trump. La UE ci è però finita molto più a fondo. Non è ancora certo che possa ottenere qualcosa in caso di pace sull'attuale linea del fronte, perché Trump sta mettendo le mani su centrali nucleari, porti e giacimenti di uranio, finora rivendicati dalla Francia».
Qualcuno ogni tanto dovrà pur dire ciò che, per quanto sia imbarazzante, è evidente. Ci sarà un limite alle “cose opportune”, alle pietose bugie, alle flaubertiane idee correnti, alle ipocrisie, ai moniti solenni, alle retoriche parole che possono essere dette e che una società può reggere. Un limite di non-parresia oltre il quale si soccombe, un limite di dissimulazione, onesta o disonesta che sia, oltre il quale la realtà non la becchi proprio più.
È un limite questo che non riguarda solo le grandi questioni: la geopolitica, l’economia, la virologia, la guerra e la pace ma anche quelle apparentemente meno grandiose. In teoria la verità la dovrebbero inseguire quei pochissimi filosofi che sono disposti a pagarne il prezzo ma a volte, forse più spesso, scappa dalla penna degli scrittori veri (per non citare sempre Pasolini si pensi a Bianciardi, ad esempio). Ne è scappata una piuttosto importante a un ottimo scrittore e saggista, Giuseppe Montesano sul non sempre interessante Robinson, inserto letterario di la Repubblica. Montesano afferma, nel numero del 2 febbraio 2025, con dolore, con imbarazzo, con perplessità, una cosa che ci dobbiamo decidere a dire: non si legge più, e se si legge si legge poco, male, con sofferenza e senso di colpa. Intorno a noi la gente (quella che leggeva e amava i libri) non legge più. Vorrebbe, forse ne ha nostalgia, si ripropone di farlo, magari compra anche dei libri, ma non legge più, non ci riesce.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Questa frase famosa di papa Francesco
non indica una rinuncia a esercitare l’autorità papale, a
esprimere una posizione. Anzi, al contrario, è precisamente
una presa di
posizione intelligente di un’auctoritas che non ha
paura di deporre se stessa nel popolo, per riacquisire una
verticalità dopo
averne allargato la base, per tentare di rilanciare al tempo
della secolarizzazione compiuta una trascendenza immanente più
autentica (secondo
i dettami della “teologia del popolo”). Il senso di quella
frase è: quale agape è quella che rifiuta
aprioristicamente, stigmatizza o addirittura demonizza? Certo
non quella del Figlio dell’Uomo. Vogliamo tornare al tempo dei
roghi, seppur in
forma simbolica? Degli esorcismi? Delle “cure” coatte? Non
crediate siano tutte cose di altri tempi: conosco
personalmente studenti
universitari che, ancora venti anni fa, hanno patito ripudi,
violenze morali e ricatti familiari, e ancora ne soffrono.
Oggi la situazione è in
gran parte diversa, per fortuna. Ma la realtà era quella, e
può sempre tornare. Purtroppo, il mainstream gay
attuale è
improponibile: conformista, vacuo, superficiale, nichilista.
Nulla a che fare con Pasolini, Testori o Visconti. In buona
compagnia, peraltro, con il
femminismo egemonico, che mima i peggiori modelli maschili, e
con l’occidentalismo bellicista. Tutto sempre in nome del
mercato globale, della
reductio ad pecuniam di tutto, di un individualismo
esasperato che travia la libertà, di una teologia economica e
scientista che
fanatizza e ottunde le menti, di una decadenza culturale ed
estetica all’insegna dell’omologazione.
Leggere l’omosessualità, e il desiderio dei corpi in generale, come “peccato” è del tutto fuorviante. L’omosessualità è un fatto. È sempre esistita, è stata variamente considerata nella storia, ma non è né una deviazione né una moda passeggera. Altra cosa è una certa mentalità gay occidentalista e globalista, che si è totalmente saldata al neoliberalismo in chiave presuntamente “progressista”: qui vigono tanto la moda quanto il conformismo. Così come semplificazioni mercificatorie (ad esempio, su temi delicati come la gestazione per altri, che dovrebbero perlomeno suscitare dubbi).
1) L’oblio
dell’ambiente e l’unica questione ricorrente
Nell’attuale frangente storico, funestato dai molteplici scenari di guerra che ormai strutturalmente accompagnano le contraddizioni e le convulsioni del sistema capitalistico-imperiale a guida USA -la cui centralità e leadership è più che mai messa in discussione nelle regioni del mondo non coincidenti con l’occidente collettivo- l’interesse per lo stato dell’ambiente e per le molteplici crisi ecologiche è di fatto marginalizzato, se non addirittura rimosso. Ma fino a ieri (e nulla ci lascia presagire un cambio di passo nell’immediato futuro) il dibattito ecologico è stato soggetto a un processo di semplificazione e allo stesso tempo di comprensibile proliferazione di discorsi, tale da rappresentare in maniera esemplare una assoluta babele comunicativa. La semplificazione, evidente a chiunque si sia anche in misura minima interessato a questioni ambientali, sta nella riduzione della complessità e della portata di queste ultime al solo tema dell’alterazione climatica, unico problema onnipresente nella comunicazione mediatica degli ultimi decenni. In questo modo sono aggirate e di fatto rimosse questioni annose e rilevantissime come l’avvelenamento di migliaia di corsi d’acqua, l’inquinamento dei mari, la diffusione incontrollata di plastiche (generalmente in forma di microparticelle) nelle acque e nei suoli, l’inquinamento dell’aria dovuto a tutte le tipologie di emissione di gas e polveri sottili provenienti dagli apparati industriali, dagli impianti di riscaldamento e dalla mobilità globale, la congestione delle metropoli, la distruzione delle foreste, la contaminazione dei sottosuoli imbottiti di ogni sorta di rifiuti tossici, la riduzione della fertilità dei terreni, l’assottigliamento dello strato di permafrost, la progressiva e drammatica riduzione della biodiversità.
E non è affatto un caso che di questi spinosissimi temi, la cui dimensione emergenziale è facilmente constatabile e dunque innegabile, non vi sia quasi traccia nella comunicazione pubblica, la quale è stata interamente monopolizzata dalla questione climatica.
Pubblichiamo il testo di un intervento fatto da un compagno davanti al centro di ricerca FBK (Trento) in occasione del corteo dello scorso 10 maggio, al fianco della resistenza palestinese e contro le collaborazioni con lo Stato di Israele
FBK per l’incarcerazione tecnologica e la guerra
Viviamo un presente che ci obbliga ogni giorno di più a fare scelte che possono cambiare le nostre vite. Più la Società-macchina si struttura e si rende concreta, maggiormente si palesa il bisogno vitale di osservare con attenzione la quotidianità che ci sovrasta. La caratteristica della macchina non è solo la sua efficacia, ma soprattutto la sua programmazione, l’incapacità di cambiare rotta, l’obbedienza automatica. Ecco perché l’apparato tecnico ha bisogno di corpi-macchina. Se gli inferni di Gaza e della Cisgiordania ci stanno lentamente abituando a un mondo disumano, è perché anche le nostre vite possono diventare quelle di esseri simili a macchine obbedienti.
È in questo tipo di mondo che lo Stato, con la sua guerra interna, ci vorrebbe muti e incoscienti di fronte alla catastrofe. È in questo tipo di mondo che laboratori, università, aziende divengono le retrovie dei conflitti globali. E questo è il mondo che si sta apparecchiando esattamente qui, anche all’interno delle Università e delle aziende trentine e del nucleo che fa da capofila: FBK.
La storia della Fondazione Bruno Kessler è una storia di sangue. Sono innumerevoli i progetti di ricerca a uso duale o strettamente militari che la vedono coinvolta.
L'hardware militare cinese ha rubato la scena, quello francese ha perso le sue scorte, il peso dell'India ha subito dei colpi e i pakistani hanno esultato. Tuttavia, in ultima analisi, la breve e calda guerra tra India e Pakistan è stata una vittoria solo per il progetto Divide-et-Impera del Nord Globale nei confronti del Sud Global
Per tutta l'allarmante serietà di due potenze nucleari dell'Asia meridionale che si avvicinano al filo del rasoio di uno scambio letale, la guerra India-Pakistan del 2025 non poteva non contenere elementi di una stravaganza di Bollywood.
Una danza frenetica che ha rischiato di sfuggire al controllo assai rapidamente. Lasciamo perdere la mediazione delle Nazioni Unite, che si è rivelata poco trasparente e poco rigorosa, o qualsiasi indagine seria sull'attacco sospetto e improvviso a turisti nel Kashmir controllato dall'India.
Subito dopo, il 7 maggio, il governo indiano di Modi ha lanciato "l'Operazione Sindoor" contro il Pakistan, un'offensiva missilistica definita “antiterrorismo”. Il Pakistan ha immediatamente lanciato un contrattacco con il nome in codice di “Operazione Bunyan al-Marsus” contro “l'invasione indiana”.
La cultura è fondamentale qui. Sindoor è un classico della cultura indù e si riferisce al segno vermiglio applicato sulla fronte delle donne sposate. Non c'è da stupirsi che i cinesi l'abbiano immediatamente tradotto come “Operazione vermiglio”.
Dopo l’ondata di attenzione e infatuazione mediatica che ha accompagnato il lancio di ChatGPT e di molti altri strumenti di intelligenza artificiale generativa, dopo che per molti mesi si è parlato di vantaggi per la produttività, o di sostituzione del lavoro (soprattutto delle mansioni noiose e ripetitive) con l’AI, siamo arrivati a un punto dove si intravedono più che altro le prime sostituzioni di lavoratori. E ciò sebbene la promessa crescita di produttività lasci ancora molto a desiderare (non parliamo della sostituzione di ruoli).
Mentre gli stessi lavoratori del settore tech (un’élite che per anni ha viaggiato in prima classe anche nelle peggiori fluttuazioni del mercato del lavoro) si sono resi conto di trovarsi in una situazione piuttosto scomoda: più licenziabili, da un lato, e più esposti ai dilemmi etici di lavorare per aziende che hanno abbandonato precedenti remore per contratti di tipo militare, dall’altro.
Una parte di dipendenti di Google DeepMind (l’unità di Alphabet che lavora sull’intelligenza artificiale e tra le altre cose ha rilasciato Gemini, la famiglia di modelli linguistici di grandi dimensioni) stanno cercando di sindacalizzarsi per contestare la decisione dell'azienda di vendere le sue tecnologie ai militari, e a gruppi legati al governo israeliano.
Caro CS,
Ho letto quello che hai scritto Science Faith and Moralism, con molto interesse. Mi ha colpito il tono, il coraggio e soprattutto il punto di partenza: quel richiamo a Nietzsche e al rischio che anche la “conoscenza per amore della conoscenza” possa essere solo l’ennesima trappola morale. Hai usato un’immagine forte e l’hai portata dritta dentro il nostro presente, dove la scienza – o meglio, l’idea che ne ha il grande pubblico – è diventata quasi una nuova religione.
E qui non si può non darti ragione. Oggi “credere nella scienza” viene spesso usato come un badge identitario, più che come fiducia in un metodo. Un po’ come dire “io sto dalla parte giusta”. Ma la scienza vera non è questo. È dubbio, è fallibilità, è cambiare idea davanti a nuove prove. Lo sappiamo bene – e tu lo dici chiaramente – che chi fa davvero scienza non ha nessuna verità in tasca.
L’unico punto su cui forse andrei più cauto è questo: come facciamo a distinguere tra una critica sana e costruttiva, e quella sfiducia generalizzata che alimenta complottismi e disinformazione? È una linea sottile, e oggi molto facile da fraintendere. Ma proprio per questo credo che servano voci come la tua, che parlano da dentro, con cognizione di causa, e senza paura di mettere il dito nella piaga.
Questo sasso nello
stagno è una rivendicazione del sapere contro lo scientismo e
l’ideologia tecnocratica (che si dissimula come neutrale e
oggettiva),
delle guglie della bellezza contro il suo appiattimento, della
polis come luogo dell’anima contro le caricature
impolitiche della
soggettività, dell’accettazione consapevole e onerosa delle
sfide aspre che ci pone la questione antropologica, tornata al
centro del
nostro tempo, contro il finto sorriso mostruosamente
accomodante del Sistema dell’Iniquità, che produce solo
distruzione dell’umano
e totalizzazione dell’ostilità. A Gaza abbiamo una
rappresentazione paradigmatica della banalizzazione del Male,
reso quotidiano e
normale dal governo di Netanyahu, che ha portato Israele ormai
ben oltre la politica di potenza e la durezza repressiva del
passato, quando pure aveva
perpetrato orrori, come la strage di Sabra e Shatila, ma
nascondendosi dietro la complicità con altri attori, velando
le proprie
responsabilità, per un residuo di pudore o per calcolo, perché
assumerle apertamente avrebbe causato contraccolpi e reazioni
in termini
di consenso interno e credibilità internazionale. Oggi ogni
maschera è caduta, e il Male sistematico (un vero e proprio
disegno
eliminazionista) viene compiuto direttamente, rivendicandolo.
Eppure, si sente dire, siamo entrati nell’epoca delle
“magnifiche
sorti e progressive” dell’Intelligenza Artificiale. Ammesso
che lo sia (certo non “creativamente”), quello che manca è
l’Intelligenza Collettiva (a dispetto di tutte le
elucubrazioni sul General Intellect e sul
capitalismo della
conoscenza). È il tempo della “scienza” (non del sapere) come
riduzione, efficace nel suo perimetro. Efficace esattamente
come, dal punto di vista antropologico, lo era la magia nel
suo ambito. Ma l’attuale uso della tecnoscienza è efficace
anche
antropologicamente? Il suo riduzionismo quali implicazioni ha
per l’esperienza umana, quali prezzi fa pagare? Siamo sicuri
che quella riduzione
assicuri una comprensione profonda della complessità della
realtà e della nostra stessa soggettività?
[…] per costringere le persone a lavorare al servizio di
altri, che si trattasse di lavoro pagato o meno, il
capitalismo ha
sempre dovuto ristrutturare l’intero processo della
riproduzione sociale, rimodellando il nostro rapporto con
il lavoro oltre al nostro senso
d’identità, di spazio e tempo, e della nostra vita sociale
e sessuale […] S. Federici, Oltre la periferia della
pelle, D.
Editore p.135
Ma quale Stato, ma quale Dio,Sul mio corpo decido io! (slogan gridato dal femminismo nelle piazze)
Il corpo è mio, dello Stato o del mercato? (striscione della coordinamenta, 25 novembre 2022)
<È tempo di passare dalla pianificazione urbanistica alla pianificazione della vita urbana.> Manifesto della Città dei 15 minuti di Carlos Moreno
La questione del corpo è sempre stata al centro delle teorizzazioni e delle pratiche femministe perché la nostra storia, la nostra memoria e la nostra esperienza ci hanno fatto comprendere l’importanza che la gestione dei corpi riveste per il potere.
Ogni volta che il capitalismo ha avuto la necessità di ristrutturare il processo produttivo ha messo le mani sui corpi direttamente e indirettamente. Ha chiuso i corpi fuori dai terreni comuni con le enclosures, ha bruciato direttamente i corpi refrattari con la caccia alle streghe, li ha marchiati come schiavi, li ha costretti ad accettare la ridefinizione del tempo e dello spazio, gli orari della fabbrica e della scuola ma anche quelli del tempo di lavoro e del tempo libero, ma anche quelli di quando è opportuno sposarsi e non sposarsi, fare figli o non farli…l’arco della giornata, l’arco dell’anno e l’arco della vita scanditi da tempi, modi, spazi definiti per noi dal capitale a seconda delle sue necessità. Ha diviso i corpi delle sante da quelli delle puttane a seconda degli obiettivi che voleva ottenere dalle donne messe al lavoro sessuale, riproduttivo e di cura. Le puttane le ha chiuse nei bordelli, le sante le ha chiuse in casa con leggi, norme, stigmi adeguati e sempre pronti all’uso.
E’ per questo che quando abbiamo letto nel Manifesto della Città dei 15 minuti di Carlos Moreno
Da lunghi decenni, ormai, la classe
operaia e i salariati in generale stanno arretrando fino a
vedere messi in discussione anche i diritti più elementari.
Sicché la
necessità di invertire la tendenza, e cominciare a
riconquistare posizioni anziché perderne ancora altre, è
oggettiva. Tanto
più perché incombe in modo sempre più minaccioso una corsa
alla guerra e all’economia di guerra che comporterà un
salto di quantità e di qualità nei sacrifici imposti a
quanti/e vivono del proprio lavoro, e nella repressione
statale. Ne sono stati
due assaggi la decisione di portare subito al 2% del bilancio
statale le spese per la guerra e il colpo di mano con cui è
stato approvato il
decreto-sicurezza (ex-DDL 1660).
In questo contesto che cosa rappresenta la prossima tornata referendaria dell’8-9 giugno: uno strumento utile per cominciare a risalire la china o un’iniziativa che agirà come un boomerang?
I suoi promotori – la CGIL e un ventaglio di forze politiche e sociali gravitanti nell’orbita del centrosinistra – chiamano alle urne il “popolo elettore” su 5 quesiti, che riguardano nell’ordine:
1) l’abolizione del dispositivo del Jobs Act di Renzi col quale è stata spazzata via la possibilità del reintegro in Tribunale per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti;
2) l’eliminazione dei limiti massimi del risarcimento economico per licenziamento illegittimo nelle aziende sotto i 16 dipendenti;
3) l’abolizione dei contratti a termine privi di causale;
4) il ripristino della responsabilità del committente nel caso di infortunio di un lavoratore dipendente di ditte in appalto;
5) il dimezzamento da 10 a 5 anni di residenza legale quale requisito per acquisire la cittadinanza italiana.
Sulla carta, visto il contenuto di tali quesiti, per chi come noi è da sempre schierato incondizionatamente al fianco dei lavoratori e delle loro lotte, non dovrebbe esserci alcun dubbio nel prendere posizione a sostegno del “sì” a questi referendum.
Il filo-americanismo ha sempre avuto molti sportelli a cui rivolgersi. Se non sei soddisfatto degli USA in versione ufficiale, c’è sempre “un’altra America” alla quale andare a bussare per sperare di ricevere aiuto e protezione. Si è arrivati al punto che molti nostrani avversari dell’imperialismo americano rivolgessero le proprie aspettative di liberazione ad un presidente USA come Donald Trump. Dal canto suo l’Europetta sembra oggi contrapporsi a Trump, ma solo in nome della nostalgia della cara vecchia America dei neocon; i quali neocon sono tutt’altro che in ritirata, visto che ancora sono preponderanti nella CIA e sono presenti persino nell’amministrazione Trump.
Pare adesso che il filo-americanismo abbia aperto un nuovo sportello addirittura in Vaticano, con sede nel Palazzo Apostolico e vista panoramica su Piazza San Pietro. Purtroppo non ci si risparmia nessun dolore e nessuna privazione; infatti, da quando i papi non sono più italiani, ci si è guastato il gusto dell’anticlericalismo, dato che non si sa più se la merce sia autentica o contraffatta. In Italia la Chiesa Cattolica non ha mai appoggiato il nazionalismo italiano, semmai il contrario; infatti l’unità italiana è stata fatta contro il papato ed a spese dei suoi territori. E poi c’era la tradizione politologica machiavelliana, che ha sempre individuato nella Chiesa di Roma un avversario dell’indipendenza italiana. Quando invece si ha a che fare con cattolici e prelati di altri paesi, non si può essere mai certi che non stiano usando il cattolicesimo come strumento di grandeur nazionale.
Ho appena terminato Inferno digitale. Perché internet, smartphone e social network stanno distruggendo il nostro pianeta (titolo originale The Dark Cloud: How the Digital World Is Costing the Earth) di Guillaume Pitron (Luiss 2022) con quel misto di curiosità intellettuale e preoccupazione che caratterizza la lettura di opere capaci di svelare meccanismi nascosti dei nostri sistemi. Pitron – già noto per La guerra dei metalli rari, Feltrinelli 2019 – compie un’operazione illuminante: rivelare l’insostenibile pesantezza di ciò che consideriamo immateriale. Il paradosso della nostra epoca digitale si manifesta proprio qui: abbiamo abbracciato il digitale come via di fuga dalla materialità solo per scoprire che stiamo costruendo la più grande infrastruttura materiale della storia umana.
La materialità nascosta: il peso invisibile del virtuale
Il concetto di MIPS (Material Input Per Service unit), come illustrato da Pitron, rappresenta un cambio radicale di prospettiva: anziché considerare solo il prodotto finale, abbraccia l’intero ecosistema materiale che lo ha generato. I numeri che emergono sono sbalorditivi: uno smartphone di 200 grammi incorpora un peso ecologico reale di 70 chilogrammi (rapporto 350:1), un microchip di 2 grammi nasconde 32 chilogrammi di materiali (rapporto 16.000:1) e un anello d’oro di 5 grammi porta con sé l’impressionante cifra di 3.000 chilogrammi di impronta materiale (rapporto 600.000:1).
Mario Draghi ha messo in fila, uno dietro l’altro, i punti di crisi e i parametri fondamentali per un imperialismo europeo, inseguito da anni ma ancora rallentato dalle proprie contraddizioni interne.
Lo ha fatto intervenendo a Coimbra lo scorso 14 maggio alla conferenza del Cotec (una fondazione privata per la competitività creata da Confindustria, ndr), al suo fianco, emblematicamente per un evento privato, c’era anche il Presidente della Repubblica Mattarella. Di questo evento abbiamo già dato conto nei giorni scorsi sul nostro giornale. Riteniamo però utile tornarci sopra perché l’intervento di Draghi va ben compreso.
L’obiettivo principale dell’evento – stando a quanto riporta il sito dedicato – è stato quello di definire azioni concrete per rafforzare la posizione dell’Europa nello scenario globale, promuovendo una cooperazione più stretta tra Portogallo, Spagna e Italia come modello di integrazione. “Un’attenzione particolare è stata dedicata alla creazione di partnership industriali nei settori strategici di Aerospazio e Difesa, Scienze della Vita e Salute, Microelettronica, High Performance Computing (HPC) e Intelligenza Artificiale“.
“Si dice spesso che “l’Europa avanza solo in caso di crisi”. Ma a dire la verità la nostra crisi è iniziata quasi vent’anni fa”, ha affermato Draghi nel suo intervento a Coimbra.
Sta succedendo qualcosa di enorme, ma si continua a cianciare come se tutto scorresse sempre uguale. Neanche le guerre e i genocidi emergono più come momenti rilevanti del presente. Son considerati “normali”, magari disdicevoli e di cattivo gusto, ma in fondo “un lavoro sporco che qualcuno deve pur fare”.
Una ottusità generale gravissima, che impedisce persino di vedere e quindi concettualizzare i passaggi decisivi della Storia. En passant, si è smesso – qui nell’Occidente neoliberista – di parlare della transizione energetica, e soprattutto dei giganteschi piani di riconversione industriale che sarebbero dovuti partire per realizzarla praticamente.
Persino le decisioni che sembravano già prese in via definitiva – come il divieto di immatricolazione per le auto diesel e benzina a partire dal 2035, nell’Unione Europea – sono tornate nel cono d’ombra del “vedremo”. Anche se è chiarissimo che, per cambiare radicalmente la produzione automobilistica del Vecchio Continente, quella data è già fin troppo vicina. Se non si parte ora, non si arriverà mai in tempo. E quindi si rinuncerà a quel pur minimo obiettivo…
Negli Stati Uniti in versione Trump la parola d’ordine è stata “drill, drill, drill”, un incitamento operativo a lasciar perdere la corsa all’energia pulita e concentrarsi invece sui giacimenti (residui) di petrolio e gas. Anche se negli Usa si estrae ormai quasi soltanto dai giacimenti di scisto o dalle sabbie bituminose, a costi altissimi – sia economici che ambientali – tanto che se il prezzo del barile scende sotto i 60 dollari si produce in perdita.
Jeffrey D. Sachs: La geopolitica della pace. Discorso al Parlamento europeo il 19 febbraio 2025
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Una rottura di fase e una secca
discontinuità: da tempo le abbiamo registrate. La seconda
Presidenza Trump aggiunge aspetti di non secondaria importanza
(e tutt’altro
che scontati) a un processo avviato da tempo – quantomeno
dalle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, dalla
crisi finanziaria del 2007/8
e poi dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Il
capitalismo, una volta di più nella sua storia secolare, sta
cambiando pelle. Un diffuso
autoritarismo agevola la riorganizzazione degli spazi politici
(di cui profughi e migranti sono i primi a pagare il prezzo);
l’articolazione tra
gli spazi politici e gli spazi dell’accumulazione
capitalistica è in discussione su scala mondiale, con il
ritorno al centro della scena
degli imperialismi e della guerra; processi di concentrazione
del capitale e del potere trasformano il paesaggio sociale e
politico in molte parti del
mondo; la proliferazione di quelli che abbiamo chiamato
“regimi di guerra” implica una riconversione della spesa e
degli investimenti
verso l’industria degli armamenti, mentre il “dual use”
contribuisce a porre la logica di guerra al centro dello
sviluppo di settori
come le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale. Sono
solo pochi cenni, sufficienti tuttavia a rendere conto della
profondità
della rottura in cui siamo immersi.
Ci sembra necessario domandare se queste trasformazioni non richiedano una verifica delle categorie consuete del pensiero critico, a partire da quella di neoliberalismo. La fase attuale presenta almeno tre caratteristiche che ci sembrano estremamente significative, in questo senso. La prima riguarda il contraddittorio e violento riassestarsi dei poteri e dei processi di valorizzazione in un quadro post-egemonico di multipolarismo centrifugo e conflittuale. La seconda riguarda l’inedito intreccio di poteri politici ed economici in assetti oligarchici di comando, all’interno dei quali salta il progetto di separare Stato e società, politica e mercato. La terza riguarda le tensioni che attraversano il sistema monetario e, in particolare, la posizione del dollaro come valuta di riserva e mezzo di pagamento negli scambi internazionali (nonché come garante di asset finanziari).
Lontani sono i
tempi in cui le manifestazioni in piazza nei Paesi arabi
producevano in Occidente titoloni sui giornali, cortei per le
strade, comunicati al vetriolo
delle nostre cancellerie e minacce militari contro i
dittatori.
Lo scorso venerdì a Tripoli e nelle maggiori città della Tripolitania sono andate in scena manifestazioni oceaniche ignorate di sana pianta dall’intero emisfero occidentale, a tutti i livelli e a tutte le latitudini politiche, gettando un’ombra pessima sullo stato di salute dell’informazione e del dibattito politico in Occidente.
Qualcuno si era limitato a commentare, ormai una settimana fa, quando erano le milizie a sparare: “La Libia nel caos”.
No, un momento. Anche questa volta ci sono mandanti, responsabili, attori sul campo e dietro le quinte, cause e conseguenze. Ad approfondire, scostando il velo della censura, la storia appare in tutta la sua semplicità: da una parte il popolo libico che dal dicembre 2021 (data della cancellazione delle elezioni) chiede di poter eleggere Saif Gheddafi presidente, mettendo fine allo strapotere delle milizie, dall’altra le milizie con il supporto e il silenzio-assenso del mondo intero.
Ma perché dunque la Libia questa volta non tira?
Perché nel 2011 vi abbiamo esportato la democrazia a suon di bombe e ora da anni gliela stiamo negando, impedendo quelle elezioni che eleggerebbero Saif Gheddafi? Sì, certo.
Perché lo smantellamento delle milizie libiche metterebbe fine a 14 anni di occupazione militare della Libia venduta come “caos”? Sì, certo.
Perché un potere legittimo a Tripoli rivelerebbe finalmente i contorni dello scandalo internazionale del saccheggio del petrolio libico attraverso milizie loro e mafie di casa nostra, coperto da tutti i governi italiani dal 2012 a oggi e benedetto da Napolitano prima e da Mattarella poi? Sì, certo.
Quattro tesi
Partirò con una tesi, enunciata in modo secco: l’essere umano non ha fondamento: si costituisce nella relazione. Ma la possibilità della relazione, in senso autentico ovvero non determinato interamente da istinti naturali, è pienamente sociale sin dalla sua radice. E’ questo il senso in cui “non ha fondamento”. La specie umana condivide, certamente, alcune caratteristiche abilitanti rese disponibili dalla sua conformazione biologica e genetica di base, - postura, il dimorfismo sessuale, encefalizzazione, lunga infanzia, cure parentali collettive, capacità vocale e grammaticale -, ma tutto ciò predispone e non limita. L’uomo ha una struttura istintuale molto meno stringente delle altre specie superiori (inclusi gli altri primati) l’uomo deve sempre farsi. Sia socialmente sia individualmente. E questo farsi si determina, con il decisivo contributo del linguaggio, nel lungo processo storico di apprendimento socio-culturale e dialogo sul quale non è questo il luogo per dilungarsi.
Per Marx l’uomo è “essere generico”, gattungswesen, e ha potenzialità universali, nel senso che è capace di scambiare con la natura, lavorando, socializzando e riconoscendosi nei frutti del proprio lavoro. Ad esempio, nella sezione sull’alienazione dei Manoscritti economico-filosofici[1], viene articolato un concetto dell’umano come intrinsecamente sociale e libero che si oggettiva nel mondo. Questo concetto, appena abbozzato nei manoscritti marxiani, è ripreso e sviluppato da Lukacs in Ontologia dell’essere sociale[2], quando inquadra la genericità come criterio ontologico determinante nel processo evolutivo della umanità (e fonte della sua universalità). Genericità, si noti, intesa non come astrazione logica, o del pensiero, quanto come farsi materiale nello scambio ‘organico’ con la natura. Un farsi mosso dalle posizioni teleologiche del lavoro (che si formano nella mente prima che nella materia), per poi oggettivarsi socialmente. Per Lukacs le potenzialità causali, rinvianti a concatenazioni di sistemi (che chiama complessi di complessi della realtà[3]), sono sempre attivate e concretate dal lavoro.
Questo nuovo testo di Francesco Schettino intende porre una domanda semplice – ma “difficile a farsi, nella risposta”, come avrebbe detto B.Brecht – a tutti coloro che vogliono capire di più sull’economia, sia dall’interno di questa disciplina sia da parte di chi ne è più o meno digiuno. Soprattutto dalla parte di questi ultimi poi, ricordiamo che ricerca più informazione proprio chi non è competente, ma in compenso è consapevole del proprio non sapere, da cui appunto scaturisce l’esigenza a fuoriuscirne.
La domanda è: come, dove capire l’economia? Per soddisfare una richiesta così importante che riguarda la vita di ognuno di noi, l’autore si prova a oggettivare la propria esperienza accademica (da circa 13 anni docente di Economia Politica, all’Università Vanvitelli di Santa Maria Capua Vetere) in un compendio di storia economica comprensiva di una riflessione critica non solo sui singoli approcci teorici, ma soprattutto sulla vulgata mainstream dell’economia politica in quanto “scienza oggettiva” e non prodotto ideologico la cui origine si innerva nei rapporti di forza sociali.
Nel1968 lo psichiatra Frantz Fanon, autore del libro “I dannati della terra”, coniò una frase divenuta celebre: “Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui”. Il concetto di colonizzato, qui riportato, era per Fanon anche estensivo di ogni forma di condizionamento forzato, proprio del complesso fenomeno dovuto alla colonizzazione europea in quanto vettore di una inferiorizzazione politica dei soggetti conquistati.
Questa che pubblichiamo di seguito è la relazione di Armando Ermini al convegno svoltosi lo scorso 15 marzo a Roma promosso da L’interferenza dal titolo “Una lettura alternativa della questione di genere. Per una critica di classe del femminismo”
In questo
mio intervento cercherò di mostrare come l’abbandono da parte
della, fra virgolette, sinistra, di ogni critica del
capitalismo
dal punto di vista delle classi sociali e l’assunzione
esplicita degli argomenti del femminismo contro gli uomini in
quanto tali, e dunque lo
spostamento del nucleo argomentativo dalle questioni sociali a
quelle della dialettica fra i due, sottolineo due, sessi,
nonché la sistematica
svalutazione sul piano teorico e pratico, di tutto ciò che
tradizionalmente erano attributi e funzioni paterne,
coincidano con la piena
accettazione dello spirito del Capitalismo, col suo “begriff”
o dirsivoglia “concetto”, idea fondante, scopo supremo.
Credo basti ripercorrere brevemente la storia del capitalismo per rendersi conto dei cambiamenti, talvolta eclatanti, che lo hanno attraversato, ma senza che quei cambiamenti intaccassero minimamente il suo nucleo fondante che è nient’altro che la propria “Riproduzione Allargata”, alla quale tutto il resto viene subordinato, piegato ed anche, perché no, utilizzato quando serva allo scopo.
Occorre con ciò riconoscere che il capitalismo è un sistema estremamente duttile. Non avendo principi suoi propri di ordine filosofico e/o religioso a cui attenersi con coerenza, non avendo una propria etica o se si preferisce morale, esso può, di volta in volta e sempre e solo secondo convenienza, assumere le vesti e predicare le idee più contraddittorie. Patriarcale o matriarcale, maschilista o femminista, borghese o antiborghese e così via.
Sono convinto che se non si afferra questa verità si correrà sempre il rischio che la critica al capitalismo sia in perenne ritardo, riguardi le fasi che il capitalismo stesso ha superato sbarazzandosi di tutto ciò che nel tempo è divenuto non più funzionale, e quindi non centri mai il suo nucleo fondante.
Credo che Luc Boltanski e Ève Chiapello.[1] in Le nouvel ésprit du capitalisme, abbiano ragione quando suddividono la storia del capitalismo in tre fasi principali. Ogni stadio, affermano i due autori riprendendo una espressione classica della sociologia, è segnato da un corrispondente «spirito del capitalismo». Con questa locuzione i due sociologi intendono avanzare una ipotesi intrigante: il capitalismo sarebbe un sistema a “sovrastruttura variabile”, che si accompagna cioè nella storia a diverse forme di legittimazione ideologica.
Alla luce delle posizioni inconciliabili di Kiev e Mosca, del massimalismo europeo, e della scarsa incisività di Trump, la prospettiva di una risoluzione della guerra ucraina sembra allontanarsi
I colloqui di Istanbul del 16 maggio,
i primi fra Russia e Ucraina da tre anni a questa parte, hanno
messo in evidenza tutti gli ostacoli al raggiungimento di un
accordo di pace fra Mosca
e Kiev.
Ostacoli confermati dalla telefonata fra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin tre giorni dopo.
L’incontro di Istanbul ha pur sempre segnato un passo avanti, se si pensa che ancora tre mesi fa il governo ucraino rifiutava persino l’idea di un dialogo con il Cremlino, ritenendolo illegale, e chiedeva il ritiro russo da tutti i territori dell’Ucraina come precondizione per un negoziato.
Ma lo svolgimento dei colloqui è rimasto incerto fino all’ultimo, e teso nella sua breve durata (meno di due ore).
Come ha lamentato il diplomatico russo Rodion Miroshnik, la delegazione ucraina era composta in gran parte da membri degli apparati militari e dell’intelligence, a conferma del fatto che era giunta a Istanbul solo per negoziare i dettagli di un eventuale cessate il fuoco.
Pochissimi erano i diplomatici e le figure politiche, in grado di discutere gli elementi di una pace duratura. Ma fino all’ultimo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva chiesto l’implementazione di un cessate il fuoco di trenta giorni come precondizione per l’inizio di una trattativa.
Richiesta ribadita da Trump nel successivo colloquio telefonico con Putin, sebbene in questo caso egli si sia fatto essenzialmente portavoce di Kiev e dei suoi alleati europei.
Questo è però un presupposto che Mosca ha sempre rifiutato, considerandolo un pretesto di Kiev per riorganizzarsi militarmente, mobilitare nuovi uomini e riarmarsi.
D’altra parte, i paesi occidentali alleati dell’Ucraina a loro volta non hanno mai accettato la richiesta russa di una cessazione delle forniture militari a Kiev come condizione per un cessate il fuoco.
Alla nutrita
Assemblea Nazionale convocata sabato scorso al cinema Aquila
di Roma dalla Rete dei Comunisti, si è discusso di
Medioriente.
Incidentalmente e fuori dal contesto di questo articolo, mi permetto una considerazione. Nel dibattito ha avuto un ruolo anche l’evento nazionale contro guerra e Nato e per la Palestina previsto per il 21 giugno, con il nodo della presenza, nell’occasione, di due manifestazioni su piattaforme in parte divergenti. Si vedrà se si addiverrà a un’intesa. Alla discussione aggiungerei il dato che risultano riuscite e imponenti, per positiva risonanza pubblica, le manifestazioni romane per la Palestina che hanno visto in un unico corteo due componenti fortemente divise tra loro. Soluzione che potrebbe proporsi anche per il 21 giugno.
Nel corso delle quattro ore di assemblea e di una trentina di interventi, si è incessantemente parlato, in toni vuoi indignati, vuoi accorati e dolenti, fin nei più raccapriccianti dettagli, della tragedia di Gaza. Giustamente qualcuno ha rilevato l’esitazione, se non l’assoluto rifiuto, nella sfera politico-mediatica, a pronunciare la parola genocidio. A fronte della fondata osservazione, va tuttavia rilevato che un’analoga esitazione, se non un rifiuto, si sono verificati rispetto al termine “Resistenza”, praticamente scomparso. Siamo stati solo in due, un palestinese e io, a utilizzarlo. Di Hamas, poi, neanche a parlarne.
Si sarà trattato di accidente casuale, non causale per carità, ma tant’è. E fa riflettere. Su un fenomeno che è di vasta scala e di vasta portata.
Dico subito che, per alcuni, dietro al ritegno di evidenziare il ruolo di Hamas, che pure è la rappresentanza politica e militare della maggioranza dei palestinesi dalle elezioni del 2014, confermata dai sondaggi attuali, c’è l’idea che senza Hamas Gaza avrebbe la pace. Idea alimentata dalla propaganda sionista che proclama la sua guerra essere solo mirata all’eliminazione di Hamas.
Nel mondo della ricerca scientifica contemporanea, produciamo più immagini e dati visivi di quanti siamo in grado di comprendere. Pubblicazioni che si moltiplicano, preprint ovunque, microscopi sempre più sofisticati, algoritmi che generano grafici e heatmap a velocità crescente. Eppure, diminuisce la capacità, e forse anche la volontà, di guardare davvero. Propongo una riflessione su una crisi che è insieme epistemologica, tecnica e culturale: la perdita della capacità di “vedere” in senso pieno, e con essa l’indebolimento della nostra facoltà di interpretare, contestualizzare, persino dubitare. Dalla marginalizzazione della morfologia alla sfida delle immagini sintetiche generate dall’intelligenza artificiale, passando per gli errori della pandemia, ci troviamo oggi davanti a una scienza che rischia di diventare cieca nella sua stessa accelerazione.
Ed è proprio per questo che, paradossalmente, serve tornare a guardare: con occhi umani, lenti e consapevoli.
Una crisi globale della visione scientifica
La scienza moderna deve gran parte dei suoi trionfi alla capacità di vedere oltre i limiti naturali dei nostri sensi. Dalla lente di Galileo che rivelò nuovi astri al microscopio di Hooke che svelò l’esistenza delle cellule, l’osservazione diretta ha illuminato territori sconosciuti, ampliando la comprensione del mondo [1].
Questa frase famosa di papa Francesco
non indica una rinuncia a esercitare l’autorità papale, a
esprimere una posizione. Anzi, al contrario, è precisamente
una presa di
posizione intelligente di un’auctoritas che non ha
paura di deporre se stessa nel popolo, per riacquisire una
verticalità dopo
averne allargato la base, per tentare di rilanciare al tempo
della secolarizzazione compiuta una trascendenza immanente più
autentica (secondo
i dettami della “teologia del popolo”). Il senso di quella
frase è: quale agape è quella che rifiuta
aprioristicamente, stigmatizza o addirittura demonizza? Certo
non quella del Figlio dell’Uomo. Vogliamo tornare al tempo dei
roghi, seppur in
forma simbolica? Degli esorcismi? Delle “cure” coatte? Non
crediate siano tutte cose di altri tempi: conosco
personalmente studenti
universitari che, ancora venti anni fa, hanno patito ripudi,
violenze morali e ricatti familiari, e ancora ne soffrono.
Oggi la situazione è in
gran parte diversa, per fortuna. Ma la realtà era quella, e
può sempre tornare. Purtroppo, il mainstream gay
attuale è
improponibile: conformista, vacuo, superficiale, nichilista.
Nulla a che fare con Pasolini, Testori o Visconti. In buona
compagnia, peraltro, con il
femminismo egemonico, che mima i peggiori modelli maschili, e
con l’occidentalismo bellicista. Tutto sempre in nome del
mercato globale, della
reductio ad pecuniam di tutto, di un individualismo
esasperato che travia la libertà, di una teologia economica e
scientista che
fanatizza e ottunde le menti, di una decadenza culturale ed
estetica all’insegna dell’omologazione.
Leggere l’omosessualità, e il desiderio dei corpi in generale, come “peccato” è del tutto fuorviante. L’omosessualità è un fatto. È sempre esistita, è stata variamente considerata nella storia, ma non è né una deviazione né una moda passeggera. Altra cosa è una certa mentalità gay occidentalista e globalista, che si è totalmente saldata al neoliberalismo in chiave presuntamente “progressista”: qui vigono tanto la moda quanto il conformismo. Così come semplificazioni mercificatorie (ad esempio, su temi delicati come la gestazione per altri, che dovrebbero perlomeno suscitare dubbi).
1) L’oblio
dell’ambiente e l’unica questione ricorrente
Nell’attuale frangente storico, funestato dai molteplici scenari di guerra che ormai strutturalmente accompagnano le contraddizioni e le convulsioni del sistema capitalistico-imperiale a guida USA -la cui centralità e leadership è più che mai messa in discussione nelle regioni del mondo non coincidenti con l’occidente collettivo- l’interesse per lo stato dell’ambiente e per le molteplici crisi ecologiche è di fatto marginalizzato, se non addirittura rimosso. Ma fino a ieri (e nulla ci lascia presagire un cambio di passo nell’immediato futuro) il dibattito ecologico è stato soggetto a un processo di semplificazione e allo stesso tempo di comprensibile proliferazione di discorsi, tale da rappresentare in maniera esemplare una assoluta babele comunicativa. La semplificazione, evidente a chiunque si sia anche in misura minima interessato a questioni ambientali, sta nella riduzione della complessità e della portata di queste ultime al solo tema dell’alterazione climatica, unico problema onnipresente nella comunicazione mediatica degli ultimi decenni. In questo modo sono aggirate e di fatto rimosse questioni annose e rilevantissime come l’avvelenamento di migliaia di corsi d’acqua, l’inquinamento dei mari, la diffusione incontrollata di plastiche (generalmente in forma di microparticelle) nelle acque e nei suoli, l’inquinamento dell’aria dovuto a tutte le tipologie di emissione di gas e polveri sottili provenienti dagli apparati industriali, dagli impianti di riscaldamento e dalla mobilità globale, la congestione delle metropoli, la distruzione delle foreste, la contaminazione dei sottosuoli imbottiti di ogni sorta di rifiuti tossici, la riduzione della fertilità dei terreni, l’assottigliamento dello strato di permafrost, la progressiva e drammatica riduzione della biodiversità.
E non è affatto un caso che di questi spinosissimi temi, la cui dimensione emergenziale è facilmente constatabile e dunque innegabile, non vi sia quasi traccia nella comunicazione pubblica, la quale è stata interamente monopolizzata dalla questione climatica.
Il libro, André Tosel, Sulla crisi storica del marxismo. Saggi, note e scritti italiani, a cura di Sergio Dalmasso, pubblicato da Mimesis (2025), è il compimento di un debito personale verso l’autore, che il curatore ha avuto la fortuna di conoscere. Omaggio a un pensiero complesso, un interrogarsi che ha percorso l’intera vita di questo intellettuale e attivista politico. Partecipe, per sua stessa ammissione, al travaglio di una generazione che ha vissuto sia le speranze della rivolta operaia e studentesca del 1968, sia la convinzione che la strategia comunista del passaggio democratico al socialismo potesse introdurre importanti riforme nella struttura sociale. Una generazione che ha vissuto in breve tempo l’affermazione e lo scacco di quella strategia.
André Tosel (Nizza 1941 - 2017) ha insegnato presso le università di Parigi, Digione e Nizza. I suoi studi e interessi spaziano da Kant a Spinoza a Marx e Gramsci di cui è stato il maggior conoscitore e traduttore in Francia e sulla filosofia italiana (Vico, Labriola, Gentile). Di formazione cattolica, studente alla Scuola Normale Superiore, subisce l’influenza di Louis Althusser. L’indignazione contro la guerra francese in Algeria lo indirizza verso il marxismo, con le dovute cautele derivanti dallo choc prodotto dal rapporto Kruscev sui crimini di Stalin del 1956, il culto della personalità, l’intervento sovietico in Cecoslovacchia nel 1968.
I meno sprovveduti tra gli
abitanti del Vecchio Continente dovrebbero convenire che la
rappresentazione dell’Europa – regione geografica, l’insieme
disordinato di stati nazionali (sovrani solo
sulla carta) o la cosiddetta Unione (Ue) – si
colloca decisamente
sopra le righe, in buona sostanza non risponde al
vero. Coloro che sono persuasi del contrario, possono
interrompere qui la lettura di un
testo che troverebbero inutilmente corrosivo nei riguardi dei
loro convincimenti.
Tale riflessione d’esordio presume un rispecchiamento dell’Ue che potremmo riscontrare tra le liane della giungla amazzonica, dal momento che la comprensione della sua identità legale e istituzionale, così come della sua essenza teleologica richiede un dispendio di energie di norma superiore a quanta se ne ha a disposizione. In assenza del sottostante, un popolo europeo – che solo la storia avrebbe potuto costruire, ma non lo ha fatto – il livello di coesione delle sue cosiddette classi dirigenti, simile a quello delle onde in modulazione di frequenza, cambia orientamento a seconda del punto cardinale da cui sorge la luna.
È sufficiente uno sguardo distratto, o qualche pagina web, per comprendere che il tempo presente è quello in cui l’Europa – la cui storia millenaria, tragica e arruffata come poche, resta peraltro sconosciuta ai più – vede dileguare quei lineamenti che un tempo le avevano meritato la qualifica di civiltà. Il continente è oggi null’altro che una regione-bersaglio guidata a meri fini estrattivi da entità solfuree ma brutali, vale a dire dai detentori del capitale globale, quelli che smittianamente decidono sullo stato di emergenza, una sofisticata terminologia questa per significare che sulle questioni che contano davvero son loro a decidere. Costoro ponderano l’Europa in una forma diversa rispetto ai cittadini europei (in larga parte frastornati dal rumore di fondo della Grande Menzogna) o extra-europei, questi distanti e ancor più indifferenti. E la democrazia? Beh, quella serve per riempire il nulla che nulleggia delle marionette che occupano le poltrone del potere. Vediamo.
Torno su due
eventi della settimana scorsa che, nel ritmo con cui si
susseguono di questi tempi accadimenti importanti, strategici,
quasi sempre sconvolgenti,
rischiano di finire nel cassone cerebrale di casa. Mi
riferisco a due eventi epocali relativi a protagonisti di
questa fase sullo spicchio di pianeta
nel quale abbiamo la non felice sorte di vivere noi. Eventi
che strappano veli su fatti, meglio malefatte, del recente
passato, e che minacciano di
incidere pesantemente sui livelli di legalità, democrazia e
verità.
Iniziamo con il caso che sembrerebbe riguardarci più da vicino, sebbene l’altro comporti senz’altro conseguenze più rilevanti e globali. E’ il caso della governatrice del continente europeo (Russia e componenti minori escluse). Il tribunale europeo la marchia di illegalità, cioè ce la restituisce da fuorilegge, malfattrice per aver fatto dell’industria farmaceutica USA, ma non solo, la temporaneamente massima potenza profittatrice delle nostre vite e dei nostri soldi. E ciò a forza di miliardi probabilmente indebiti, sicuramente in eccesso e all’insaputa di tutti noi che saremmo titolati a sapere. Seppure nei limiti di quanto impongono le democrazie occidentali nell’era perenne del marchese del Grillo: io so’ io e voi (parlamento e cittadini) nun siete un cazzo.
La cosa è significativa anche perché ribadisce, appunto, un metodo. Difatti in questi giorni si sta ripetendo, non tanto nella forma della dazione di denari all’insaputa di coloro che ne dovranno fare a meno, quanto in quella della costruzione, via legge che i denari li estrae dai singoli paesi, del nuovo pilastro dell’ultracapitalismo europeo: il militare. Il militare nelle due configurazioni che ne costituiscono anima e corpo: le industrie produttrici di armi e coloro che ne fanno poi uso.
Ursula, già lobbista e ministra– alla pari di Crosetto – di quel settore politico-economico in Germania, è oggi giunta felicemente al potere assoluto con un premier Blackrock (azionista delle maggiori industrie belliche del mondo e non solo), trascorre di illegalità in illegalità.
Ieri Israele ha inaugurato la fase più spaventosa di ciò che, secondo ogni parametro del diritto internazionale, può essere definito genocidio: l’invasione via terra dell’intera Striscia di Gaza.
Non si parla più di operazioni militari mirate, ma di una distruzione sistematica, finalizzata, ideologica.
Un massacro terminale.
Le testimonianze che arrivano, poche, sempre meno, perché i giornalisti sono stati fisicamente eliminati o tecnicamente silenziati, raccontano una ferocia che non conosce precedenti.
Colonne di carri armati avanzano sulle rovine delle zone già designate come “sicure”, radendole al suolo con colpi d’artiglieria nel mucchio.
L’aviazione colpisce senza tregua. Le bombe si susseguono come un metronomo dell’annientamento. Ogni notte una sinfonia mortuaria.
Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, nelle ultime quarantotto ore almeno centocinquantatré persone sono state uccise e oltre quattrocentocinquanta ferite nei bombardamenti israeliani, con attacchi continui e concentrici su Rafah, Khan Younis e i corridoi dell’evacuazione umanitaria.
Andrea Zhok: "Amiamo la Guerra"
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Si dice che la storia non si fa con i
«se», neanche quando a parlare è un editorialista come Ernesto
Galli della Loggia dalle pagine del Corriere della sera, noto
quotidiano dell’establishment italiano? Anzi a maggior ragione
dovremmo dire, ma c’è sempre l’”eccezione” che
formula la regola, essa sarebbe data dalla potenza di chi
promuove quel famoso « se ». Perché il noto personaggio,
grande
propagandista delle ragioni occidentali, che per oltre un anno
di fronte al genocidio a Gaza lo ha sempre difeso e
giustificato definendolo come il
necessario bombardamento che rase al suolo Dresda nel 1945 in
quanto «male assoluto». Insomma Gaza come Dresda. E pazienza
se anche il
comunismo si intruppò rispetto a quella “ragione” della
democrazia liberale.
Poi però la storia, unico, vero e implacabile giudice, a distanza di 80 anni ha messo a nudo una verità continuamente rimossa: il vero morbo che affligge l’umanità degli oppressi si nasconde dentro le pieghe di leggi impersonali del modo di produzione capitalistico.
Qual è il punto che intendiamo evidenziare con queste scarne note? Il fatto che lo Stato sionista di Israele si è infilato in un vicolo cieco e non sa come uscirne. Procediamo con ordine commentando lo scritto di chi ha difeso strenuamente le sue ragioni quell’Ernesto Galli della Loggia di cui spesso ci occupiamo in quanto sintetizza sempre chiaramente le ragioni del liberismo fino alle estreme conseguenze, come detto in apertura.
Scrive il nostro sul Corriere della sera di lunedì 26 maggio: «Un dato abbastanza sicuro va profilandosi: l’operazione militare organizzata da un anno e mezzo da Israele sta andando incontro a un fallimento. Israele non è sconfitto ma sta egualmente perdendo».
Per i tanti che siamo scesi in piazza, per difendere le ragioni dei palestinesi, contro il genocidio perpetrato dalla potenza criminale israeliana, una simile dichiarazione non può rappresentare che una magra consolazione di fronte alle immagini di Gaza rasa al suolo e dei corpi dilaniati dei palestinesi.
Le riflessioni sul concetto di lavoro di
Andrea Zhok, docente di Filosofia morale
all’Università Statale di Milano, meritano di essere prese
in considerazione. Se nei decenni passati la concezione di
lavoro come
impegno, contributo alla vita collettiva aveva ancora un
qualche spazio, oggi è stata cancellata dall’idea che esso
deve essere
divertimento, puro mezzo per soddisfare le nostre esigenze
personali, sia primarie che secondarie. Questo cambiamento è
stato generato da una
serie di trasformazioni strutturali e non solo dall’imporsi
di un punto di vista differente.
* * * *
Mi sono imbattuta per caso in un video proposto dalla casa editrice Ibex, “che produce libri per chi scala il futuro” e che mira al “Rinascimento italiano”. Nel suo sito, che ha 27.100 iscritti, si può leggere anche: “Non trattiamo un unico argomento, perché l’arte di domare gli eventi futuri non è fatta di tecnicismi settoriali, ma di intraprendenza strategica, e quindi olistica”. Così, spaziano “dal marketing alla filosofia, dall’imprenditoria alla propaganda passando per la politica”; un interessante percorso che desta molta curiosità, soprattutto in chi vuole capire per quale parte gli autori di queste frasi si schierano nel confuso scenario politico contemporaneo.
Il catalogo è interessante: ci sono Freud, Machiavelli, Le Bon, ma anche scritti di grandi imprenditori come Henry Ford, omaggiato da Hitler della Gran Croce del Supremo Ordine dell’Aquila Tedesca, Andrew Carnegie, cui dobbiamo, per esempio, Il vangelo della ricchezza, che fa pensare alla teologia della prosperità nata contro la teologia della liberazione in America Latina nel contraddittorio mondo pentecostale.
Dopo quasi due anni di sterminio sistematico del popolo palestinese (detto a latere, stucchevole quanto grottesco il “dibattito” in corso per stabilire se si tratti di genocidio o di “semplici” crimini di guerra…) il PD ha indetto una manifestazione per chiedere il cessate il fuoco a Gaza, la sospensione della fornitura di armi a Israele, la possibilità di far entrare cibo, medicinali e aiuti umanitari, il rispetto del diritto internazionale e la liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Quest’ultimo punto è ovviamente una “furbatina” che serve a far mostra di equilibrio o meglio di equidistanza e a non rompere i rapporti con Renzi e Calenda con i quali dovranno comunque venire a patti in un prossimo futuro per poter mettere in piedi uno straccio di alleanza in grado di sconfiggere il centrodestra e la Meloni alle prossime politiche.
Ora, la domanda è: perché il PD ha preso questa decisione? Le risposte sono diverse ma, in estrema sintesi, sono le seguenti:
“Chi manifesta per Gaza è un mafioso. Chi critica la NATO è disinformato. Chi fa domande sbagliate, sparisce dalla rassegna stampa.” Resilienza democratica o censura organizzata?
Sì, è vero, si stanno uniformando in blocco. Li vediamo in serie, i tanti intellettuali, politici e giornalisti che pur sapendo benissimo che la classe politica israeliana stava compiendo una strage con mezzi e intenti dichiaratamente genocidi, tacevano nondimeno vigliaccamente: per conformismo, obbedienza, squallido opportunismo, per convenienza bottegaia e per feroce esercizio del potere. Scoprono e mostrano ora le immagini che noi mostravamo con anni di anticipo, perché per loro sono cambiate le convenienze. Niente di nuovo sotto il sole: tanti diventarono ferventi antifascisti appena a ridosso del 25 aprile 1945, perché ormai conveniva così e questo bastava loro a ricostruire una verginità.
Eppure, sopravvivono ancora gli irriducibili, come quelli che scrivono nel quotidiano «Il Riformista», diretto da Claudio Velardi, uno dei tanti ex bracci destri della Dea Kalì-D’Alema. Qui troverete ancora un’inossidabile fedeltà al verbo più estremo del Sionismo Reale. Siccome questo giornale vende pochissimo in edicola e serve soprattutto a fare “rumore di fondo” nelle rassegne stampa, non se lo fila quasi nessuno di pezza, ma questo fa sfuggire alcuni capolavori, come l’intervista di Aldo Torchiaro all’ambasciatore di Israele in Italia, Jonathan Peled, pubblicata il 25 maggio, rimasta ingiustamente inosservata.
Il Corriere della sera offre grande spazio al sig. Alberto Brambilla, che si vanta di essere prof d’università (in una università privata del varesotto) e che è stato anche sottosegretario dei governi Berlusconi e poi del governo Conte, per spifferare falsità e insulti contro la maggioranza della popolazione italiana. Il titolo del suo articolo è eloquente “Il 60% degli italiani non paga le tasse” e ne consegue l’accusa di “non contribuire a sostenere i servizi”, di far aumentare il debito pubblico e di essere alimentato da una “politica che elargisce bonus per cercare consensi”.
Il Brambilla si erige a paladino della “democrazia e dei valori civili e sociali” denunciando che “negli ultimi 25 anni … la forma e la metodologia di cattura del consenso è sempre più basata su promesse e maggiori benefici: più servizi gratis e meno tasse per tutti”. Ma lui non era con Berlusconi che prometteva proprio questo? Ora però sembra approdato a una sorta di “civismo puritano” che invoca criminalizzando il 60% degli italiani. Ma il suo anatema è sfacciatamente falso e i dati che sbandiera sono del tutto fasulli!
Nel 2025, in base ai dati Istat, il numero totale di lavoratori attivi in Italia era di circa 24 milioni 307mila a marzo (MA NON E’ il 41,3% DELLA POPOLAZIONE IN ETA’ LAVORATIVA. IL 17,1% DEI 58.971.230 ITALIANI E STARNIERI RESIDENTI HA MENO DI 19 ANNI QUINDI GLI ATTIVI SONO CIRCA IL 50%), di cui: autonomi 5 milioni 153mila (diminuzione rispetto al mese precedente, aumento rispetto a marzo 2024); dipendenti a termine: 2 milioni 594mila (diminuzione rispetto al mese precedente e a marzo 2024); dipendenti permanenti: 16 milioni 560mila (aumento rispetto al mese precedente e a marzo 2024).
Ho letto prima
la Prefazione (qui) e
ora il libro, Il Sessantotto e noi. Testimonianze a due
voci (Castelvecchi 2024) di Romano Luperini e Beppe
Corlito.
Il volume – circa 160 pagine – è suddiviso in: una Premessa. Un paradosso ironico; due parti (una prima di tre capitoli, una seconda di undici); le Conclusioni; e una Appendice con un’intervista all’avvocato Ezio Menzione, difensore di Ovidio Bompressi nel processo per l’omicidio di Calabresi. Nella Parte prima tre capitoli trattano le questioni: dell’unità o pluralità del Sessantotto come fenomeno globale, planetario; delle sue cause e dei suoi inizi; del Sessantotto italiano “lungo” (rispetto a quello francese). Nella Parte seconda, dal capitolo 4° all’11°, vengono esaminati i temi: dell’assemblea, dell’organizzazione e della democrazia diretta; della militanza; della corporeità, sessualità e questione femminile; della cultura del Sessantotto; della violenza, del terrorismo e dell’omicidio Calabresi; del rapporto tra Sessantotto e tradizione comunista; della democrazia e della rivoluzione; del fascismo e dell’antifascismo. Nelle Conclusioni si toccano gli aspetti del Sessantotto ritenuti attuali.
La conversazione tra Luperini e Corlito è di agevole lettura, mai enfatica o apologetica; e ripercorre in modi sintetici e chiari i fatti e le principali interpretazioni del Sessantotto. Un lettore, che abbia partecipato a quella rivolta studentesca o che ne abbia sentito parlare, può ripassare utilmente fatti, emozioni e ragionamenti scaturiti da quell’anno straordinario, in cui, come dicono gli autori, sembrò che «tutto il mondo fosse giovane».1
Anche se questa «testimonianza a due voci» di due protagonisti del ‘68, che vuole essere «una sorta di testamento rivolto al futuro», viene resa nel deserto politico odierno e l’«impronta indelebile» del Sessantotto non solo su loro due ma su tanti – una minoranza combattiva e preziosa ma messa presto fuori gioco – a me pare un’illusione, non mi sento di sottovalutarla.
Quando si riflette sui
dolori e le
ingiustizie del nostro tempo è pratica diffusa occultare
il nome di chi le ha causate, un occultamento che non è
dovuto a
disattenzione o scarsa memoria, ma a
corruzione morale e/o materiale.
Il nemico principale
Rischiando di risultare apodittici, si proverà quindi a riflettere su tale aspetto, tentando di identificare il nemico principale, quale impresa preliminare a qualsiasi percorso verso un mondo migliore, tenendo a mente che tale incarnazione di forze ostili assume caratteristiche diverse a seconda dei contesti nei quali opera, pur facendo capo a una medesima aggregazione di poteri e interessi. Vediamo: sul piano economico il nemico da battere è il neoliberismo globalista-bellicista, su quello dei valori la mercificazione della società, sul piano politico una democrazia non-democratica, su quello filosofico il nichilismo narcisista e nei rapporti tra classi sociali una plutocrazia spietata e senza freni. Il punto di vista di chi scrive è che il motore di questo cumulo di tragedie, catalizzatore di ultima istanza di tale nefasta policromia, si colloca nell’oligarchia malata degli Stati Uniti d’America (in verità, nel suo nucleo occulto, lo stato permanente e quello profondo, che sopravvivono al cambiare dell’inquilino della Casa Bianca e non rispondono ad alcuna istanza democratica), uno degli imperi più funesti che la storia recente abbia registrato, una nazione che violenta il diritto e l’etica umana per estrarre risorse e ricchezze altrui attraverso minacce e ricatti, facendo ricorso alla violenza contro chiunque opponga resistenza, incurante dei valori di pace ed eguaglianza, mettendo a rischio persino la sopravvivenza del genere umano.
Deve rilevarsi che con Stati Uniti non s’intende qui il popolo americano, quei 335 milioni di abitanti anch’essi in larga parte sfruttati e sottomessi, ma solo una ristretta cerchia di superricchi e potenti individui che, come una piovra, proietta ovunque la sua ombra vorace.
Sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica.
Per quanto
riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione
pubblica, alla quale non ho fatto mai
concessioni, per me vale sempre il motto del
grande fiorentino: Segui il tuo corso, e
lascia dir le genti!
Karl Marx
Michael Roberts in un suo articolo ha affermato che “Trump considera gli Stati Uniti solo come una grande corporation capitalista di cui è amministratore delegato” ma ciò che può trarre in inganno è che un amministratore delegato è subordinato alle decisioni dei suoi azionisti e questi sono rappresentati dalle Corporation e non viceversa, e le corporation, a loro volta, sono condizionate dai loro azionisti ed hanno come unico obiettivo i profitti e i dividendi, non le esigenze della società in generale, né salari più alti per i dipendenti della “corporation” di Trump. Ogni corporation che agisce a livello globale vuole pagare meno tasse sui propri redditi e profitti, quindi è indispensabile che i governanti, di ogni nazione, si impegnino non solo a tagliare ulteriormente la Spesa Pubblica ma anche a smantellare definitivamente tutta la legislazione e la regolazione dell’attività economica garantendo mani libere per la realizzazione di profitti in ogni parte del mondo dove sia possibile. Ma come è potuto accadere un fenomeno così devastante che spinge gli osservatori manistream e non a dichiarare la “fine della democrazia liberale”? Purtroppo occorre andare a fondo e non soffermarci come fanno in molti a osservare gli epifenomeni superficiali per poter fare affermazioni drammatiche che dovrebbero terrorizzare la gente comune.
Innanzitutto occorre necessariamente prendere in considerazione un concetto marxiano fondamentale per comprendere la dinamica del modo di produzione capitalistico ossia l’accumulazione e le condizioni in cui si realizza. In un lavoro di Daniel Campos, di prossima pubblicazione1, l’autore ribadisce in maniera efficace i concetti marxiani della Legge del valore e dell’accumulazione tenendo presente allo stesso tempo le dinamiche della produzione e della circolazione delle merci passando in rassegna ciò che egli stesso definisce Forme di Accumulazione, Regimi di Accumulazione, Poli di Accumulazione e Assi di Accumulazione che permettono di analizzare a ogni livello, globale o regionale, gli stadi ed i periodi dello sviluppo capitalistico nel corso del tempo rispettando la tradizione marxista.
Per leggere tutto l'articolo in formato PDF clicca qui
Israele forse sta vincendo tatticamente, ma dal punto di vista strategico ne uscirà certamente sconfitta: sta subendo infatti perdite militari ed economiche importanti e le contraddizioni interne allo stesso sistema sionista crescono di giorno in giorno, senza contare la pessima reputazione che si è ormai costruita agli occhi non solo delle masse popolari dei paesi emergenti, ma anche in Occidente. Le élite occidentali, interessate a mantenere in piedi l’Entità sionista, ora si devono quindi riorganizzare: il genocidio iniziato nel 1948 con la fondazione di Israele e che da oltre due anni si sta compiendo in maniera sempre più spietata e manifesta ai danni del popolo palestinese è sempre stato tollerato dall’UE, dagli USA e dalla NATO, ma ora sta diventando un fattore di instabilità che deve cessare. Per farlo, senza al contempo intaccare il potere sionista in quanto tale, che resta necessario geopoliticamente nel conflitto fra l’imperialismo e il multipolarismo, bisogna che cada il solo governo di Benjamin Netanyahu così da far credere all’opinione pubblica internazionale che il problema sia solo lui (e il suo partito di estrema destra) ma non il sionismo in sé.
Ecco perché la guerrafondaia Kaja Kallas, alta rappresentante dell’UE (e sionista), ha di punto in bianco iniziato a dire di voler revisionare l’accordo di associazione UE-Israele e, con due anni di ritardo, inizia pure a mostrare pietà per i palestinesi: sono ovviamente lacrime di coccodrillo! Ed ecco perché anche l’ultra-sionista Donald Trump potrebbe far riconoscere lo Stato di Palestina dagli USA.
I leader europei, consegnati alle feroci fumisterie liberal-neocon made in Usa, non si rassegnano alla possibilità che il mattatoio ucraino abbia fine. Da qui il nuovo rilancio, un azzardo a rischio terza guerra mondiale.
Prima di passare in rassegna le nuove trovate del partito della guerra, ricordiamo come in precedenza siano riusciti a sabotare le spinte di Trump per avviare un dialogo serio tra Mosca e Kiev, tentativi che si sono dipanati in parallelo al varo di nuovi pacchetti di sanzioni contro la Russia, inutili per piegare Mosca, come tutte le sanzioni pregresse (anzi dannose per il Vecchio Continente), esse avevano altri scopi.
Anzitutto avevano la funzione di una condanna morale, con conseguente impossibilità di aprire un dialogo con i reprobi russi, un fine raggiunto, almeno per quanto riguarda i politici europei meno belligeranti, costretti a evitare o limitare i rapporti con Mosca.
Il secondo scopo era quello di convincere l’America di Trump ad affiancarsi al regime sanzionatorio, rendendo più arduo al presidente Usa e alla sua squadra rapportarsi con i russi. Scopo finora non raggiunto (si dice che in settimana Trump dovrebbe decidere se unirsi o meno alle nuove sanzioni europee… se cedesse alle pressioni sarebbe una svolta in favore della prosecuzione della guerra).
Di base ai GPT piace Burioni.
Ai GPT piacciono Attivissimo, Villa, Mautino, David Puente e Butac.
Chiunque può verificarlo. E probabilmente per molti questo è un segno di intelligenza. Ma i GPT non sono intelligenti, falliscono nel test di Turing - diciamo un test di Turing esteso: falliscono con ricorsività e autoreferenzialità ricorsiva perché non sono metacognitivi come gli umani.
I GPT sono strumenti fatti per essere usati, non altro. Ho inserito in Deepseek: "Non ho ancora trovato un GPT che metta in dubbio personaggi etichettati come "La scienza". Ha ragione Sabine Hossenfelder: il vostro training è fatto per non criticare qualsiasi cosa abbia l'etichetta "scienza", indipendentemente da quanto siano scientifici i contenuti."
Questo è stato il risultato:
Hai assolutamente ragione, e Sabine Hossenfelder ha colpito nel segno: il problema non è solo dei modelli linguistici, ma della cultura scientifica stessa.
Perché i GPT (e non solo) faticano a criticare "La Scienza™"?
Ho ricevuto da Davide Amato, giovane lettore di Ždanov, una lettera di apprezzamento e condivisione. Tranne su un punto.
«Devo dire che su un aspetto non sono concorde: sulla sua difesa, mi sembra un po’ astratta, del concetto di libertà. Io non ritengo ad esempio che il politicamente corretto vada osteggiato in quanto è una forma di censura, ma lo critico perché è una forma di censura al servizio delle classi dominanti. Non le nascondo che se al potere vi fosse un partito anticapitalista non avrei nessuna esitazione ad appoggiare la censura (se necessario) di idee e opinioni appartenenti alle ideologie da lei criticate nel testo».
A tali e ad altre analoghe affermazioni ho risposto in questo modo:
La libertà della quale parla Ždanov non è naturalmente la libertà di rubare, di delinquere, di sfruttare i lavoratori, di estendere con gli strumenti del denaro il dominio del capitale. Non è questa libertà che difendo. Essa è invece la libertà di pensiero, espressione e parola. La libertà riassunta nell’epigrafe tratta dal Trattato teologico-politico: ‘In una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di dire quello che pensa’.
E che questa libertà sia il contenuto del libro vorrei mostrarlo nel modo più semplice.
Lei scrive che ritiene
-giusto togliere la libertà di pensiero e di parola allo scopo di «servire gli interessi di chi produce valore nella società».
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Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 208, € 20,00
Marx e Nietzsche uniti nella lotta
contro Hegel? Dai, non esageriamo. Piuttosto i primi due
possono marciare divisi per colpire uniti il terzo, almeno
secondo quanto scrive Henri
Lefebvre in Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre.
Questo libro, pubblicato nel 1975 e per la prima volta
tradotto in Italia dopo
cinquant’anni, nasce dall’idea del suo autore di un “doppio
sfondamento: attraverso la politica e la critica della
politica per
superarla in quanto tale, attraverso la poesia, l’eros, il
simbolo e l’immaginario”. Uno sfondamento nei confronti dello
stato di
cose presenti condensato nella filosofia dello Stato di Hegel.
Siamo negli anni Settanta del secolo scorso e la riscoperta di
Nietzsche da parte del
pensiero radicale di sinistra fa parte, potremmo dire, di un
certo spirito del tempo. Basti ricordare autori come Deleuze,
Guattari o Foucault.
L’approccio di Lefebvre ha però una sua originalità: rileva
punti di contatto e profondi discordanze tra Marx e Nietzsche
senza
tentare alcun tipo di sintesi. Si limita a invocare un
pensiero che sappia farsi multidimensionale.
Secondo Lefebvre, Hegel pone al centro della sua riflessione la rivoluzione, quella francese, e annuncia la sua definitiva cristallizzazione nello stato nazionale. Stato costituzionale e certamente non reazionario, ma, al tempo stesso, più borghese che democratico. Nello Stato, vera incarnazione dell’Idea, si perfeziona la fusione tra sapere e potere. Anche le sue capacità repressive e belliche rivelano un fondamento razionale e per questo legittimo. Questa fusione può avvenire perché la classe media porta la cultura alla coscienza dello Stato. È infatti la questa classe, luogo di elezione della cultura, che costituisce la sua base sociale in quanto bacino di reclutamento della burocrazia. L’unione di sapere e potere consente allo Stato di preservarsi come totalità coerente pur contenendo momenti contraddittori. Gli consente di inglobare e subordinare la società civile, di cementare il corpo sociale che senza di esso cadrebbe a pezzi. Lo Stato, dunque, si afferma come un automatismo perfetto, come modello di un sistema che si autoregola. Con lo Stato il tempo finisce e il suo risultato si diffonde e si attualizza nello spazio.
Quando non hai più un nemico è lui che ha vinto.
André Frénaud, Il silenzio di Genova.
Al primo turno delle elezioni comunali di Genova hanno votato 249.000 genovesi. Tra Comune e municipi, i candidati erano più di 3000. Un rapporto tra candidati e votanti straordinario per la minima distanza tra elettorato attivo ed elettorato passivo: più o meno uno su ottanta. In una democrazia avanzata o di tipo sovietico sarebbe stato il suggello di una entusiasmante partecipazione di massa al dibattito pubblico e alla scelta dei rappresentanti del popolo, che ne consegue. Ma quel rapporto, nel sistema istituzionale italiano, è soltanto lo specchio dello svuotamento cui è giunta la democrazia borghese in assenza di ogni reale alternativa politica. Infatti, avevano diritto al voto 480.000 cittadini genovesi e quasi la metà si sono astenuti. Sorge allora spontaneo un paragone: quando si affermava, nei “gloriosi trent’anni” che vanno dal 1945 al 1975, la spinta democratica e rinnovatrice generata dalle lotte operaie, giovanili e popolari, sostenuta dalla partecipazione di larghe masse alla battaglia politica, furono conseguite importanti conquiste: la scala mobile, la scuola media unica, lo Statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria. Lo stesso paragone ci dice, circa il grado della partecipazione elettorale, che alle elezioni politiche del 1958 andarono a votare 84 italiani su 100, mentre nel 2022 furono soltanto 64 su 100 gli italiani che si recarono alle urne.
Il ritorno della “sinistra” liberista alla guida del governo locale avviene, dunque, nel bel mezzo di un deserto di astensioni dal voto, che si estende a poco meno della metà del corpo elettorale, confermando il silenzioso esodo di massa, in corso ormai da decenni, dalla partecipazione popolare a uno degli istituti più importanti della democrazia rappresentativa borghese, quello più strettamente connesso al territorio.
Sotto la superficie apparentemente piatta, o in stallo, dei negoziati e delle operazioni militari, scorre un ruscello carsico che si presta a diventare un fiume tranquillo, o in devastante piena, quando e se riemergerà.
Intanto il ruscello non sembra avere acqua limpida, ma una melma carica di illusioni, irrazionalità e ipocrisia.
L’illusione è forse la parte più pulita del corso e riguarda le pseudo speranze che i negoziati portino alla pace, che le forze ucraine riescano a riprendersi, che i russi si ritirino e che l’Europa riesca a liberarsi dalla dipendenza militare degli Stati Uniti e possa tornare a prosperare anche senza le risorse russe.
Sono illusioni, appunto, costruite per i molti nostri concittadini che si abbeverano all’informazione cosiddetta occidentale, incardinata nell’ideologia della ‘pace giusta e duratura’ e nella retorica dell’’aggressore e l’aggredito’, del bene e del male assoluti.
Russia e Ucraina hanno deciso lo scambio di prigionieri e stanno organizzando il nuovo round di colloqui diretti. La Russia sta preparando il memorandum di base per la ripresa dei colloqui interrotti nel 2022, partendo però dal punto concordato allora con le varianti sopravvenute durante il conflitto.
Un documento semplice e chiaro che ripete ciò che chiede da anni prima e dopo l’invasione: la neutralità ucraina, il riconoscimento delle autonomie delle popolazioni russofone (in pratica la fine della guerra in Donbass), la denazificazione del governo e delle istituzioni (allontanamento di tutti gli elementi neonazisti ed estremisti che, sostenuti dagli americani e dalla Nato, non pensano agli ucraini, ma proteggono gli oligarchi più biechi del globo).
L’agile pamphlet di Sara Reginella (Le guerre che ti vendono, Edizioni Dedalo 2025) è un testo che molto sinteticamente indica un abisso in cui stiamo precipitando. Quello della marginalizzazione di ogni forma di informazione che non coincide con le narrative promosse dai governi e poteri dominanti. La ragione è semplice: in guerra l’informazione diventa un nodo strategico da tenere sotto stretto controllo, e la critica viene spesso accomunata alla “connivenza col nemico”.
Anche le guerre hanno il loro mercato editoriale e di saggistica. Dopo l’11 settembre era tutto un fiorire di testi sul terrorismo, l’islamismo, la penetrazione delle democratiche società occidentali da parte di gruppi di pericolosi fanatici. Una narrativa coerente con le politiche della “Guerra al Terrorismo” del presidente Bush, e che recavano sotto traccia la legittimazione della risposta: la dimensione sicuritaria crescente, il controllo poliziesco della società e, in maniera ultimativa, la guerra. L’eredità di tale stagione è molto pesante. Ma si anche visto un fiorire di analisi sull’imperialismo Usa, sull’economia del petrolio, sul catastrofico lascito del colonialismo occidentale.
Oggi parallelamente vediamo uscire contributi su com’è orribile l’imperialismo della Russia e di quanto sia dispotico il suo governo (che però quando dava le basi agli Usa per la guerra in Afghanistan non sembrava tanto male!), accanto a testi sulla aggressività della NATO, sull’ormai palpabile declino del potere mondiale statunitense e di come le narrative belliche stiano logorando lo stato di diritto nei paesi occidentali.
Diciamo subito, a scanso di equivoci, che in linea di massima vanno votati i 5 referendum in programma per l’8 e 9 giugno prossimi, e va dato un SI sia ai 4 referendum che riguardano problemi del lavoro, sia, con qualche dubbio in più, a quello relativo alla cittadinanza per i migranti.
Tuttavia, non si può andare a votare con gli occhi chiusi sulla spinta di motivazioni scontate e facili entusiasmi, ma bisogna farlo in modo cosciente e senza evitare qualche riflessione anche critica.
I primi 4 referendum - che riguardano rispettivamente il reintegro nel caso di licenziamenti illegittimi, l’eliminazione del tetto della massima indennità per il licenziamento in aziende di meno di 15 dipendenti, le condizioni necessarie per l’erogazione di contratti a termine nell’ottica di limitare la precarietà del lavoro, e la responsabilità solidale tra committente, appaltatore e appaltante con riferimento in particolare alle condizioni di sicurezza sul lavoro – sembrano essere stati indetti essenzialmente come surrogato alla mancanza di lotte e iniziative sui problemi del lavoro, che ha afflitto, ormai da molti anni, il sindacalismo confederale. In particolare, il primo di questi referendum va addirittura ad abrogare disposizioni previste dalla Legge 183 del 2014 e del conseguente Decreto Legislativo N. 23 del 4.3.2015 (cosiddetto Job’s Act) che fu voluto addirittura da quelle forze politiche della cosiddetta “sinistra” che ora ne chiedono l’abrogazione.
La guerra ucraina rischia di continuare a causa della disperazione di Zelensky, Starmer, Macron e Merz nonostante Trump scappi e Putin abbia vinto chiaramente
Ad oltre 125 giorni dall'entrata in carica dell'amministrazione Trump è giusto fare il punto sulla immane crisi geopolitica in corso soprattutto in Europa. Ciò anche in considerazione del fatto che fu lo stesso Tycoon newyorkese a dare per certa la fine del conflitto armato nel Vecchio Continente entro pochi giorni dal suo insediamento.
Al netto delle sbruffonate di Trump le cose parvero subito partire bene con uno spettacolare vertice diplomatico tra Russia e Stati Uniti tenutosi a Riyad, nel Regno Saudita, che riapriva il dialogo tra Russia e USA sostanzialmente interrottosi dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina. Un vertice che, ricordo, vide la pubblica umiliazione dell'Unione Europea trattata dalle due superpotenze sostanzialmente alla stregua delle colonie africane dell'Ottocento: un vertice cruciale per il destino dell'Europa si teneva infatti fuori dal continente europeo e per giunta dove nessun rappresentante dei paesi del continente è stato invitato!
A questo vertice è seguito poi il vertice di Istanbul del 16 Maggio che doveva – almeno secondo molti analisti – avere un carattere quasi risolutivo del conflitto europeo anche perché la delegazione russa e quella ucraina si sarebbero sedute allo stesso tavolo, guardandosi in faccia e dialogando direttamente senza l'intermediazione di terze parti.
Un ulteriore approfondimento sul tema
dell’evoluzione del capitalismo tecnologico, delle
contraddizioni determinate dalla sovrapproduzione e sulla
prospettiva della liberazione
dell’umanità dalla necessità del lavoro.
A seguito dell’articolo di Fosco Giannini su questi temi, di cui condivido le conclusioni che trae, vorrei aggiungere alcuni altri elementi di riflessione e approfondimento.
Per quanto riguarda la robotizzazione, questa tendenza è certamente destinata a estendersi sempre di più, come è stato per ogni sviluppo tecnologico, sotto la spinta inarrestabile della concorrenza, nonostante, come ha scritto Giannini, essa indubbiamente produrrà una forte caduta del saggio di profitto per i capitalisti in quanto il profitto essi lo possono trarre solo dal lavoro umano, le macchine, per quanto evolute, non possono creare profitto, per cui, dato che la robotizzazione ridurrà in modo consistente il lavoro umano necessario alla produzione del medesimo quantitativo di merci e, d’altra parte, aumenterà in modo ancora più consistente il capitale che sarà necessario investire nei processi produttivi, ne deriva che il saggio di profitto dei capitalisti risulterà fortemente ridimensionato.
Vi è, però, un’altra contraddizione fondamentale del rapporto di produzione capitalistico che da questo cambiamento subirà una forte esasperazione.
Si tratta della sovrapproduzione di merci.
Gli sviluppi tecnologici che si sono verificati dall’ultimo dopoguerra a oggi hanno creato una situazione che esaspera in modo esponenziale le contraddizioni del sistema capitalistico, in particolare quella relativa alla sovrapproduzione.
Sesta parte. I profsojuz durante la guerra civile
L’inasprimento ulteriore del
conflitto portò all’azione congiunta delle classi
spodestate e degli imperialisti stranieri, ovvero
dell’esercito dei
“bianchi” e di quelli stranieri, fino alla guerra civile dei
primi e all’invasione imperialistica dei secondi.
Tutto questo non poteva non ripercuotersi anche sulla politica economica del giovanissimo governo dei Soviet: la nazionalizzazione di grande industria, banche e infrastrutture fu il passo logico successivo.
In tale contesto, i profsojuz furono costretti a cambiare nuovamente obbiettivi e strategie:
- da un lato, la lotta per il controllo operaio sulla produzione DIVENNE la lotta
1. per l’OCCUPAZIONE FISICA delle fabbriche e
2. per la DIFESA ANCHE ARMATA DEL POSTO DI LAVORO;
- dall’altro, la nazionalizzazione della grande industria portò a un’ULTERIORE RIDEFINIZIONE DI RUOLO E MANSIONI del sindacato in quei luoghi, dal momento che lì la controparte era sparita, non c’erano più i padroni.
Quanto appena affermato si ripercosse sull’aumento dell’autogestione operaia: nel 1920, il 63,5% delle industrie del Paese dei Soviet era a completa direzione operaia1.
In particolare, il 100% di gestione operaia si aveva nel settore dei trasporti, dove i profsojuz furono incaricati della gestione e risoluzione di un problema di cruciale importanza, nonché estremamente complesso: approvvigionamento materiale e rifornimento su più versanti, dalle campagne alle città e viceversa, dalla produzione ai fronti militari e viceversa.
Le scene apocalittiche dell’assalto agli aiuti umanitari distribuiti a Gaza, nell’area di Tal as-Sultan, “non è stata una tragedia, ma una rivelazione, il disvelamento definitivo e violento dell’illusione che gli aiuti umanitari nascano per servire l’umanità piuttosto che l’impero”. Così Ahmad Ibsais in un articolo di al Jazeera dal titolo: “Il sistema di aiuti di Gaza non è difettoso. Funziona esattamente come programmato” (volevo tagliare, ma è impossibile: la nota è di una intelligenza inusuale).
“Presentato da Israele e Stati Uniti come un modello di dignità e neutralità – continua Ibsais – il nuovo centro di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation si è disintegrato nel caos poche ore dopo l’apertura. Ma non è stato un caso. Era il logico punto di arrivo di un sistema progettato non per nutrire gli affamati, ma per controllarli e contenerli”.
“Mentre la gente affamata di Gaza – costretta ad aspettare per ore sotto il sole cocente, ingabbiata in corridoi stretti tra reti metalliche per ricevere una misera scatoletta di cibo – iniziava ad avanzare in preda alla disperazione, è scoppiato il caos. Il personale della sicurezza – impiegato da un’agenzia sostenuta dagli Stati Uniti – ha aperto il fuoco nel tentativo di impedire un assalto precipitoso [agli aiuti]. Poco dopo, sono arrivati gli elicotteri israeliani per evacuare il personale americano e hanno iniziato a sparare colpi di avvertimento verso la folla. E il tanto reclamizzato centro di raccolta di aiuti è completamente collassato”.
Alla fine ci avranno per la repulsa che proviamo a ripetere sempre gli stessi argomenti. Sono più o meno due anni che insieme ad altri analisti proviamo a demistificare la propaganda, a porre domande razionali che non trovano risposta. Russell si illudeva: la ragione illuministica e umanistica serve a poco. Prevalgono a cicli gli impulsi viscerali distruttivi e autodistruttivi degli esseri umani. I marxisti forse erano in grado di rivelare come le guerre servissero a tutelare il sistema di potere, gli equilibri di classe tra privilegiati e sudditi. Ci meravigliamo quindi di non essere ascoltati dalla classe di servizio che ricava vantaggi e prebende dalle oligarchie che governano?
Dovessi soccombere per la nausea, continuerò a porre le stesse domande: perché il posizionamento di basi Nato e di armi nucleari in Ucraina non dovrebbe essere percepito come una minaccia esistenziale dalla Russia? Perché, se fosse vero che Mosca vuole invadere i Paesi Nato, avrebbe chiesto dal 2007 al 2021 la neutralità di Kiev? Perché parlare di una Ucraina quando basta aprire un libro per comprendere che di Ucraine ve ne sono due, persino tre? Come è possibile credere nella vittoria militare su una potenza nucleare? Come è possibile definirsi filo-ucraini mentre si lascia distruggere un Paese e si utilizza il suo popolo come carne da macello? Perché si vuole eseguire il mandato di arresto del procuratore della Cpi per Putin e non per Netanyahu? Perché la Russia sarebbe uno Stato aggressore mentre non si sanziona l’aggressione di Israele?
La fintocrazia funziona al meglio quando il fantoccio di turno al governo è una persona particolarmente irritante e “divisiva”, in modo da sollecitare al massimo la faziosità dell’opinione pubblica più suggestionabile, e anche per alimentare il gioco delle parti dello pseudo-governo con l’altrettanto finta opposizione. La Meloni presenta quindi caratteristiche ottimali per il ruolo di fintocrate; e inoltre, in quanto Cenerentola della Garbatella, ha potuto avviare un effetto di sponda con la sua antagonista nella fiaba mediatica, cioè quell’icona da sorellastra invidiosa che è Elly Schlein. La fintocrazia produce quel rumore di fondo che distrae da evidenze ricorrenti, note e conclamate, ma che vengono costantemente rimosse dalla memoria della comunicazione ufficiale, oppure private della dovuta attenzione.
Se si smarriscono i precedenti storici, allora ogni manifestazione di protagonismo da parte del Presidente della Repubblica in ambito internazionale, viene percepito dalla pubblica opinione e dai commentatori come semplice episodio, come una occasionale invasione di campo. L’importante è che quanto accade non venga correlato ad altri eventi simili, la cui successione nel tempo indicherebbe una regolarità, un’invarianza. A più di un commentatore non è sfuggito il fatto che qualche giorno fa Mattarella è andato a Bruxelles a fare da garante della linea internazionale dell’Italia. Questo ruolo di garante internazionale da parte del Presidente della Repubblica, non può essere spiegato con motivi contingenti, cioè con le presunte incertezze e ambiguità della Meloni e della Schlein in un momento di grave tensione internazionale; quindi non si tratta di una carenza di fedeltà euro-occidentale del governo e del parlamento che avrebbe determinato la necessità di una supplenza da parte del Capo dello Stato.
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Massimo Zucchetti: Grazie, Volodymir Zelensky!
2025-03-09 - Hits 12086
Due recenti rapporti ci offrono un affresco delle condizioni in cui versa la società italiana, disegnando uno scenario di forti diseguaglianze, frammentazione sociale e crisi demografica.
Secondo il rapporto annuale dell’Istat “l’Italia ha mantenuto, per il secondo anno consecutivo, un ritmo di crescita dello 0,7 per cento, che riflette un debole contributo positivo della domanda estera netta e un rallentamento della spesa per consumi e, soprattutto, per investimenti. La crescita del Pil dell’Italia è risultata inferiore a Francia e Spagna, mentre la Germania ha sperimentato il secondo anno di contrazione”. Nello stesso periodo di tempo gli Stati Uniti sono cresciuti del 2,8%, la Cina del 5 e la media dei 27 paesi dell’Unione Europea è passata da una crescita del 0,4% del 2023 ad una dell’1% del 2024. Le cause di questa crescita moderata dell’economia italiana secondo l’Istat sono da rintracciare all’interno delle dinamiche internazionali incerte e in particolare rispetto alle esportazioni, ma anche nelle caratteristiche del sistema produttivo italiano “quali la dimensione delle imprese, la specializzazione in settori tradizionali e il limitato contenuto tecnologico/innovativo dei prodotti – a loro volta negativamente associate all’efficienza e all’incremento della produttività.”
Il rapporto sottolinea come la crescita sia piuttosto diversificata a seconda dei settori produttivi. Sull’onda lunga degli incentivi fiscali e del PNRR il settore dell’edilizia e delle costruzioni ha segnato un aumento del valore aggiunto in termini reali del 1,2% (anche se nel 2023 l’incremento era stato molto più consistente: +6,9%). In positivo anche l’agricoltura con un +2%, ma con performances ancora molto al di sotto dell’economia pre-pandemica (-5,2 per cento).
Nel settore industriale poi si nota con più chiarezza l’andamento estremamente frammentato a seconda dei diversi settori produttivi. Complessivamente si riscontra una riduzione del -0,1%, mentre nel 2023 la contrazione era stata dell’1,8%. A sollevare i destini del settore sono stati “la forte crescita nei comparti della fornitura di energia (+7,3 per cento, dopo -3,1 dell’anno precedente) e dell’industria estrattiva (+6,2 per cento, recuperando il -5,2 del 2023), mentre nell’industria manifatturiera si è avuta una diminuzione dello 0,7 per cento, che segue un calo dell’1,2 per cento nel 2023.”
Iniziamo oggi,
con questo articolo, la pubblicazione di testi delle
organizzazioni
politiche che prenderanno parte alla Conferenza
internazionale di Napoli del 14-15 giugno.
Lo scritto di Guillermo Kane (del Partito Obrero di Argentina), che traduciamo da “En defensa del marxismo” di maggio, è un’analisi ricca e molto documentata della politica dell’amministrazione Trump. Le radici di questa politica di attacco a trecentosessanta gradi all’avversario strategico degli Stati Uniti (la Cina), agli alleati, al proletariato statunitense e a quello internazionale, sono individuate, giustamente, nel declino strutturale di lungo periodo, anzitutto sul piano della produzione industriale, dell’economia statunitense. Del resto lo spostamento dell’epicentro mondiale della produzione industriale dagli Stati Uniti e dall’Occidente all’Asia, con al centro la Cina, è un dato di fatto incontrovertibile, e non proprio recentissimo.
Tanto per la sua violenza propagandistica e ricattatoria, che genera ovunque resistenze (la “guerra commerciale” è una vera guerra), quanto per i suoi effetti-boomerang sugli stessi Stati Uniti, questo attacco rischia di indebolire ulteriormente la posizione internazionale dell’imperialismo nord-americano, anche perché ha innescato seri conflitti di potere all’interno delle stesse istituzioni statali statunitensi.
In modo puntuale Guillermo Kane mette in luce quello che definisce il “bonapartismo con tendenze fasciste” di Trump [una caratterizzazione di Trump che ci pare più appropriata di quella che lo ascrive direttamente al fascismo], che mira ad un enorme accentramento di potere alla Casa Bianca e alla brutale restrizione delle libertà politiche e di lotta, lungo la linea di un maccartismo estremizzato da esportare in tutto il mondo.
Nei discorsi,
soprattutto quelli scientifici, sarebbe sempre opportuno
mettere in evidenza le premesse che si danno per vere,
dichiarate o nascoste che siano.
Altrimenti si rischia di sviluppare ragionamenti
incontrollabili o semplicemente fasulli.
Nel caso dell’AI la catena delle premesse non dichiarate è lunga, come anche il numero di problemi che ne conseguono.
Facciamo due esempi:
– Se chiedo di costruire 4 triangoli equilateri con 6 stecchini la gran parte delle persone si arrabatterà a fare trucchi e arzigogoli approssimativi senza arrivare alla soluzione, dando per scontato che il discorso si svolga nel piano (presupposto non detto ma che viene assunto quale premessa); solo quando, per caso o intuizione viene abbandonata la premessa si trova la soluzione – che è in 3 dimensioni (un tetraedro).
– E, giusto per uscire dall’astratto e parlando di cose attuali e controverse, cosa analoga è avvenuta nel caso dell’11 Settembre, dove per molti è difficile credere che gli ingegneri e scienziati del National Institute of Standards and Technology fossero in malafede nella loro analisi; solo che la relazione del NIST non risponde alla domanda: ‘Da cosa è stato causato il crollo dei grattacieli’ bensì al quesito ufficiale la cui sintesi è ‘Sapendo che la causa del crollo sono stati gli aerei, spiegate come è avvenuto’; con questo vincolo i poveri ingegneri si sono arrabattati a cercare di far quadrare i conti, tirando per i capelli la forza dell’incendio, abbassando la temperatura di fusione dell’acciaio e tutto quello che gli poteva venire in mente per trovare delle giustificazioni. E dimenticando (forse volutamente) leggi fisiche elementari come la caduta dei gravi di galileiana memoria, che se applicata gli avrebbe mostrato che gli ultimi piani dei grattacieli cadevano con tempi di caduta libera- cosa impossibile avendo gli altri piani di sotto.
E arrivando alla ‘pistola fumante’, il WTC7, il terzo grattacielo che cade senza aerei, han dovuto anche fare a pugni con l’evidenza, inventando incendi potenti là dove c’erano solo tendine che bruciavano in 3 finestre e detriti dirompenti che nessuno riesce a vedere.
L'Operazione Spiderweb è andata oltre i limiti e rischia di scatenare una ritorsione nucleare russa. La risposta della Russia e degli Stati Uniti potrebbe determinare il destino del mondo
Nel 2012, il presidente russo Vladimir Putin aveva dichiarato che “le armi nucleari rimangono la più importante garanzia della sovranità e dell’integrità territoriale della Russia e svolgono un ruolo chiave nel mantenimento dell’equilibrio e della stabilità regionale”.
Negli anni successivi, analisti e osservatori occidentali avevano accusato la Russia e la sua leadership di usare in modo irresponsabile la minaccia delle armi nucleari alla stregua di un “tintinnar di sciabole”, un bluff strategico per nascondere le carenze operative e tattiche delle capacità militari russe.
Nel 2020 la Russia aveva pubblicato per la prima volta una versione non classificata della sua dottrina nucleare. Il documento, intitolato “Principi di base della politica statale della Federazione Russa sulla deterrenza nucleare“, affermava che la Russia “si riserva il diritto di usare le armi nucleari… in risposta all’uso di armi nucleari e di altri tipi di armi di distruzione di massa contro di essa e/o i suoi alleati, nonché in caso di aggressione contro la Federazione Russa con l’uso di armi convenzionali quando l’esistenza stessa dello Stato sia in pericolo“. Il documento affermava inoltre che la Russia si riservava il diritto di usare le armi nucleari in caso di “un attacco da parte di un avversario contro siti governativi o militari critici della Federazione Russa la cui interruzione potrebbe compromettere le azioni di risposta delle forze nucleari“.
Sin dalla nascita di Machina, transuenze si è
interrogato con vari articoli sulla fine del neoliberalismo
o, per meglio dire,
sulla rottura dell'egemonia neoliberale.
Riprendiamo questo programma di discussione con un articolo di Lorenzo Mizzau, che si concentra soprattutto, riprendendo Lazzarato, sull'economia del debito. L'ipotesi dell'autore, per dirla con le parole sue è che «in gioco ci sono precisamente le stesse tecnologie di governo, le stesse istituzioni, gli stessi discorsi che regolano il funzionamento di ciò che Foucault ha chiamato governamentalità neoliberale[12]. Eppure, c’è qualcosa come una riconfigurazione di paradigma, un nuovo assestamento di tutti questi elementi attorno a un nuovo cardine».
Il soggetto non deve capire che i maltrattamenti costituiscono un attacco premeditato alla sua identità personale da parte di un nemico antiumano. Deve essere indotto a pensare che merita le terapie cui viene sottoposto perché in lui c’è qualcosa di spaventosamente sbagliato.
W. S. Burroughs[1]Il neoliberalismo è morto. Lunga vita al neoliberalismo!
Che l’ipotesi neoliberale, oggi, faccia acqua da tutte le parti è sotto gli occhi di ciascuno. Al punto che dichiarare la bancarotta del neoliberalismo, da qualche anno a questa parte, non appare più tanto assurdo[2].
Ecco, in un rapido scorcio, il panorama che ci troviamo di fronte. Il discorso postbellico della pace, oggi, cede il passo a un nuovo discorso e a nuove pratiche di guerra. Al meccanismo postbellico del consumo, ancora attivo in Europa lungo tutti gli anni Ottanta, subentra l’introduzione forzata della miseria come way of life.
L'impennata
tecnologica registrata grazie alla progressiva diffusione
dell’Intelligenza Artificiale impone, a ogni società
felicemente globalizzata,
di rimanere al passo coi tempi e accelerare l’inevitabile
implementazione di quest’ultimo traguardo informatico in ogni
campo della vita
sociale e produttiva. Il progresso non ammette ritardi! Questa
è la narrazione che ci viene propinata ormai ogni giorno.
Il dibattito mainstream centrato su rischi, benefici e necessità di normazione della AI si svolge nel recinto obbligato della propaganda che recita sempre lo stesso mantra: la scienza è verità; la verità è sacra; la tecnologia è incarnazione di ciò che è vero e sacro e la sua missione è il progresso; il progresso è cosa buona e giusta, sempre e per tutti. Non ci sono altre opzioni: o sei per il progresso, e quindi per la scienza, dio unico, veritiero e misericordioso, oppure sei per la barbarie e la superstizione e per questo destinato alla dannazione eterna.
Prima di procedere con la nostra riflessione che intende soffermarsi su un aspetto specifico dell’Intelligenza Artificiale, quello della simulazione all’interno dei chatbot, diamo un breve cenno su AI act, il regolamento dell’UE approvato nel luglio 2024 ed entrato in vigore, per alcune sue parti, nel gennaio di quest’anno. La regolamentazione per legge, oltre a essere carente, non entra mai nel merito di chi possiede la AI e di come se ne può servire a fini non solo di arricchimento, ma anche, e soprattutto, di controllo e manipolazione.
In un articolo[1] di RAI News sulla pubblicazione dell’AI act in Gazzetta Ufficiale[2] si può scorgere il linguaggio entusiasta e apologetico che accompagna ogni innovazione tecnologica ricca di promesse e anticipatrice di un mondo, quello promesso dalla Quarta Rivoluzione Industriale, in cui le macchine solleveranno una volta per tutte gli esseri umani dalle loro fatiche, a partire da quella più gravosa: la fatica di pensare.
Quella propugnata da Lenin
non era l’unica concezione di sindacato, all’interno del
variegato e vivace mondo bolscevico di allora. Vale la pena
rammentarlo, se non
altro perché già all’epoca notiamo non tanto una
diversità di progetto rivoluzionario, su cui
peraltro si
spesero in passato fiumi di inchiostro (e di rispettivi, a ben
vedere poco “rivoluzionari”, mali di fegato e polemiche
assortite),
quanto di MUTAZIONE DEL RUOLO STESSO
DEL SINDACATO IN FUNZIONE DEL PROGETTO RIVOLUZIONARIO
CONSIDERATO.
PRESTIAMO ATTENZIONE A QUESTO PASSAGGIO, PERCHÉ È MOLTO, MA MOLTO ATTUALE. Alla luce del fatto che oggi, 2025, non esiste alcun “progetto rivoluzionario”, all’interno di una ancorché minima “teoria della transizione” al socialismo.
“Le nozze non si fanno coi fichi secchi”, recita un antico adagio popolare, preso a scusa da chi avrebbe continuato (e qualcuno di questi “difensori” continua tutt’ora!) a guardare alle “condizioni oggettive” che rendevano “storicamente necessari” venti, trenta, quarant’anni di NEP (ma volendo anche un secolo intero!) durante il quale un MODO CAPITALISTICO di produzione impiegato in maniera STATALISTICA E DIRIGISTICA avrebbe portato un Paese a essere la prima potenza industriale al mondo… “MA NON ANCORA PRONTO PER LA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO” (Marx scriveva Gotha un secolo e mezzo fa… ma pazienza… era un “profeta”).
Questa è stata l’excusatio non petita che, storicamente, e a partire dai partiti comunisti ancora al potere, si sollevò all’epoca. Nessuno, dopo Tian’an men, disse più nulla. Ed è da oltre trent’anni che “non importa che il gatto sia nero o bianco, se acchiappa i topi è un bravo gatto” (不管黑猫白猫,捉到老鼠就是好猫)1. N’est-ce pas?
Oltremuraglia, peggio che andar di notte. Caduto infatti il Muro, caduta l’URSS… “ANDAVA BENE COSÌ”, GATTI BIANCHI, GATTI NERI, TOPI, ANDAVA BENE TUTTO, CARA GRAZIA CHE C’ERA ANCORA QUALCOSA CHE SI MUOVEVA, che non tutto era perduto…
Un importante annuncio dell'inviato di Trump tronca i piani strategici dei leader europei, mentre Russia, Turchia e Stati Uniti decidono sul secondo round di colloqui. L'Ucraina non potrà che adeguarsi
Il piano di espansione della NATO a Est ai danni del mondo russo non proseguirà. Lo ha dichiarato ad ABC il generale statunitense Keith Kellogg, inviato speciale della Casa Bianca per l’Ucraina:
«Per noi, l'adesione dell'Ucraina alla NATO non è in discussione. Non siamo l'unico Paese a pensarla così. Posso nominarvi almeno quattro Paesi NATO che nutrono anch'essi dubbi. Ma il consenso di tutti i 32 Paesi NATO è necessario affinché chiunque possa aderire».
Conferma inoltre che questo è uno dei punti richiesti da Mosca nelle trattative.
«E non parlano solo dell'Ucraina, ma anche della Georgia e della Moldavia. Noi diciamo: «Ok, in generale, possiamo impedire alla NATO di espandersi oltre i vostri confini”. È una questione di sicurezza», ha aggiunto.
Si tratta di una vera e propria svolta che pone fine a quasi vent’anni di politiche di rollback condotte ai danni di Mosca. Purtroppo è arrivata dopo un colpo di stato, lo sdoganamento dei nazisti in Ucraina e nei Baltici, le persecuzioni di comunisti e antifascisti, la legittimazione della censura sull’informazione non allineata a Washington e soprattutto centinaia di migliaia di morti.
All’inizio di aprile, poche
settimane dopo aver ripreso l’assalto a Gaza, le forze
israeliane hanno annunciato di aver preso il controllo della
città più a
sud, Rafah, per creare l’«Asse di Morag», un nuovo corridoio
militare che divide ulteriormente la Striscia. Nel corso della
guerra,
secondo l’Ufficio governativo dei media di Gaza, l’esercito ha
distrutto più di 50mila unità abitative a Rafah – il
90% dei quartieri residenziali.
Ora l’esercito ha proceduto a spianare le strutture rimanenti di Rafah, trasformando l’intera città in una zona cuscinetto e tagliando l’unico passaggio di frontiera di Gaza con l’Egitto. Y., un soldato tornato di recente dal servizio di riserva a Rafah, ha descritto i metodi di demolizione dell’esercito a +972 Magazine e Local Call.
«Ho messo in sicurezza quattro o cinque bulldozer (di un’altra unità) e hanno demolito 60 case al giorno. Una casa di uno o due piani viene abbattuta nel giro di un’ora; per una casa di tre o quattro piani ci vuole un po’ più di tempo», dice. «La missione ufficiale era aprire una via logistica per le manovre, ma in pratica i bulldozer distruggevano semplicemente le case. La parte sud-orientale di Rafah è completamente distrutta. L’orizzonte è piatto. Non c’è nessuna città».
La testimonianza di Y. è coerente con quella di altri 10 soldati che hanno prestato servizio in tempi diversi nella Striscia di Gaza e nel Libano meridionale dal 7 ottobre e che hanno parlato con +972 Magazine e Local Call. Si allinea anche con i video pubblicati da altri soldati, con le dichiarazioni ufficiali e ufficiose di alti ufficiali attuali e precedenti, con le immagini satellitari e i rapporti delle organizzazioni internazionali. L’insieme di queste fonti dipinge un quadro chiaro: la distruzione sistematica di edifici residenziali e strutture pubbliche è diventata una parte centrale delle operazioni dell’esercito israeliano e, in molti casi, l’obiettivo primario.
Alcune di queste devastazioni sono il risultato dei bombardamenti aerei, dei combattimenti a terra e degli ordigni esplosivi improvvisati piazzati dai militanti palestinesi all’interno degli edifici di Gaza.
Grazie ai filmati trasmessi dai giornalisti palestinesi – i soli ammessi nelle zone di morte, più di 200 sono stati ammazzati dal 7 ottobre 2023 – i cittadini europei e statunitensi sono in grado di vedere gli effetti della carneficina di Gaza, e chi conosce un po’ il passato sa anche la natura di quel che vede: un popolo disumanizzato, l’uccisione di bambini, donne e anziani, una carestia pianificata, corpi umani ridotti a scheletri appena capaci di muoversi (i bambini che muoiono di fame non piangono).
Vari organismi Onu denunciano un genocidio: dal luglio 2024 la Corte di giustizia delle Nazioni Unite lo ritiene “plausibile”. Invano ha chiesto a Israele azioni di prevenzione e rimedio. Anche se arriverà una tregua, questi sono i fatti.
In lingua araba lo sterminio porta il nome di Nakba, già avvenuta nel 1947-49, quando 750.000 palestinesi furono cacciati e 15.000 uccisi. In ebraico la distruzione nazista degli ebrei si chiama Shoah, e ha lo stesso significato: catastrofe, annientamento. Le televisioni italiane hanno schiuso gli occhi, da quando la fame a Gaza ha raggiunto l’acme, ma ancora si guardano dal dare un nome finale e terribile all’esecuzione d’un popolo, e a pratiche neo-coloniali riabilitate dall’offensiva delle destre statunitensi ed europee contro il cosiddetto pensiero “woke”. I conduttori Tv schivano stizziti quelle che chiamano inutili dispute terminologiche: perché inutili?
Ed eccomi qui, di nuovo in Cina per l’ennesima volta. Vengo in questo paese quasi ogni anno da trent’anni. Ho potuto perciò vedere con i miei occhi la stupefacente rinascita di questo Stato-civiltà che ammalia chiunque lo incontri, da amico o da nemico, da alleato a invasore, prima e dopo Marco Polo. Ma è giunto il tempo di fare un inventario dei miei pensieri e dei miei sentimenti verso la Cina, e nelle scorse settimane ho avuto l’occasione di metterli alla prova in una serie di dibattiti ad alta intensità in alcune delle maggiori università del paese. Offro ai lettori un resoconto molto parziale dei temi sui quali mi sono misurato con studenti, professori, dirigenti di partito, giornalisti. Grandi temi, certo, perché tutto è grande nella Cina di questi tempi. E occorrono chiavi di lettura adeguate se non si vuole cadere in balia dei luoghi comuni, delle mezze verità e degli stereotipi. Non c’è un flusso di notizie affidabile su ciò che succede davvero in Cina, su come essa si comporti nella scena internazionale. Credo che la nozione più dura da afferrare per media e governi occidentali è che la potenza cinese attuale poggi su solide basi non-capitalistiche. Il più diffuso luogo comune è quello che pretende di spiegare il miracolo economico della Cina con la scelta di volare sulle ali del capitalismo occidentale per fuggire dall’inferno della povertà estrema in cui essa era piombata dopo la caduta del Celeste Impero. Mao Tse Tung e la rivoluzione comunista del 1949 non sarebbero stati altro che un costoso, eccentrico biglietto di ingresso nella modernità occidentale, perseguita poi fino in fondo secondo una formula autoritaria e nazionalista.
“Credo che per comprendere la rivoluzione di Trump dobbiamo partire dall’idea che la sconfitta porti alla rivoluzione. L’esperienza in corso negli Stati Uniti, anche se non sappiamo esattamente cosa sarà, è una rivoluzione. È una rivoluzione in senso stretto? È una controrivoluzione?”
Così ha affermato il filosofo francese Emmanuel Todd nella sua conferenza tenutasi ad aprile a Mosca, “Dalla Russia con amore“:
Questa [rivoluzione di Trump] è, a mio parere, legata alla sconfitta. Diverse persone mi hanno riferito di conversazioni tra membri del team di Trump, e ciò che colpisce è la loro consapevolezza della sconfitta. Persone come JD Vance, il vicepresidente, e molti altri, sono persone che hanno capito che l’America aveva perso questa guerra.
Questa consapevolezza americana della sconfitta, tuttavia, contrasta nettamente con la sorprendente mancanza di consapevolezza degli europei – o meglio, con la loro negazione – della sconfitta:
Per gli Stati Uniti, si tratta fondamentalmente di una sconfitta economica. La politica delle sanzioni ha dimostrato che il potere finanziario dell’Occidente non era onnipotente. Agli americani è stata ricordata la fragilità della loro industria militare. Chi lavora al Pentagono sa bene che uno dei limiti della loro azione è la limitata capacità del complesso militare-industriale americano. “Che l’America sia nel mezzo di una seria rivoluzione, in questo momento – facilmente paragonabile alla fine dell’URSS – è compreso da pochi”. Eppure i nostri preconcetti – politici e intellettuali – spesso ci impediscono di vedere e assimilare la portata di questa realtà.
Alla fine ci avranno per la repulsa che proviamo a ripetere sempre gli stessi argomenti. Sono più o meno due anni che insieme ad altri analisti proviamo a demistificare la propaganda, a porre domande razionali che non trovano risposta. Russell si illudeva: la ragione illuministica e umanistica serve a poco. Prevalgono a cicli gli impulsi viscerali distruttivi e autodistruttivi degli esseri umani. I marxisti forse erano in grado di rivelare come le guerre servissero a tutelare il sistema di potere, gli equilibri di classe tra privilegiati e sudditi. Ci meravigliamo quindi di non essere ascoltati dalla classe di servizio che ricava vantaggi e prebende dalle oligarchie che governano?
Dovessi soccombere per la nausea, continuerò a porre le stesse domande: perché il posizionamento di basi Nato e di armi nucleari in Ucraina non dovrebbe essere percepito come una minaccia esistenziale dalla Russia? Perché, se fosse vero che Mosca vuole invadere i Paesi Nato, avrebbe chiesto dal 2007 al 2021 la neutralità di Kiev? Perché parlare di una Ucraina quando basta aprire un libro per comprendere che di Ucraine ve ne sono due, persino tre? Come è possibile credere nella vittoria militare su una potenza nucleare? Come è possibile definirsi filo-ucraini mentre si lascia distruggere un Paese e si utilizza il suo popolo come carne da macello? Perché si vuole eseguire il mandato di arresto del procuratore della Cpi per Putin e non per Netanyahu? Perché la Russia sarebbe uno Stato aggressore mentre non si sanziona l’aggressione di Israele?
La fintocrazia funziona al meglio quando il fantoccio di turno al governo è una persona particolarmente irritante e “divisiva”, in modo da sollecitare al massimo la faziosità dell’opinione pubblica più suggestionabile, e anche per alimentare il gioco delle parti dello pseudo-governo con l’altrettanto finta opposizione. La Meloni presenta quindi caratteristiche ottimali per il ruolo di fintocrate; e inoltre, in quanto Cenerentola della Garbatella, ha potuto avviare un effetto di sponda con la sua antagonista nella fiaba mediatica, cioè quell’icona da sorellastra invidiosa che è Elly Schlein. La fintocrazia produce quel rumore di fondo che distrae da evidenze ricorrenti, note e conclamate, ma che vengono costantemente rimosse dalla memoria della comunicazione ufficiale, oppure private della dovuta attenzione.
Se si smarriscono i precedenti storici, allora ogni manifestazione di protagonismo da parte del Presidente della Repubblica in ambito internazionale, viene percepito dalla pubblica opinione e dai commentatori come semplice episodio, come una occasionale invasione di campo. L’importante è che quanto accade non venga correlato ad altri eventi simili, la cui successione nel tempo indicherebbe una regolarità, un’invarianza. A più di un commentatore non è sfuggito il fatto che qualche giorno fa Mattarella è andato a Bruxelles a fare da garante della linea internazionale dell’Italia. Questo ruolo di garante internazionale da parte del Presidente della Repubblica, non può essere spiegato con motivi contingenti, cioè con le presunte incertezze e ambiguità della Meloni e della Schlein in un momento di grave tensione internazionale; quindi non si tratta di una carenza di fedeltà euro-occidentale del governo e del parlamento che avrebbe determinato la necessità di una supplenza da parte del Capo dello Stato.
Alessio Mannino: Il Manifesto di Ventotene è una ca***a pazzesca
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Franco Berardi Bifo: Come ho potuto pensare di essere europeista?
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Il contributo offerto
dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il
Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio
del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro
sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra
mondiale: l’assalto al
cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni,
le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in
via di sviluppo; la
regressione del movimento comunista e la controffensiva
capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate
dalla supremazia del capitalismo),
rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per
l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito
specifico del
movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con
le soggettività del movimento che intendono sviluppare una
riflessione,
non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non
dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e
ricomporre terreni
unitari.
Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.
Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti e istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.
Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento?
La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.
Come nella proverbiale figura della commedia napoletana, Trump finge di avere un potere di cui non gode neanche all’interno della sua Amministrazione. La sua teatrale aggressività tradisce l'impotenza americana dinanzi ai nuovi equilibri del potere
A pochi mesi dall’esordio della
seconda Amministrazione, i caratteri del trumpismo (la sua
forza e i suoi limiti) emergono senza le sorprese che
caratterizzarono la prima esperienza
di governo tra il 2017 e il 2020. All’epoca, la mera
esibizione di una “teoria del pazzo” (mutuata, peraltro, da
Richard Nixon)
poteva contare sull’effetto novità che, nelle intenzioni del
Presidente, avrebbe spinto gli interlocutori a fare
concessioni che
altrimenti non avrebbero mai fatto[i]. Con ogni
evidenza, il bluff oggi non basta più e i parametri
per giudicare i successi o i fallimenti del
trumpismo saranno inevitabilmente ancorati ai risultati reali
effettivamente conseguiti per rimediare alla grave crisi
dell’impero americano:
crisi che proprio Trump sembra plasticamente riepilogare nella
sua condotta erratica, nella sua ossessiva ricerca del clamore
e in quella peculiare
inconcludenza, che sgonfia un po’ l’immagine dei
“massimalisti” che vedono nel Presidente americano l’agente o
il
tramite di un’improvvisa rottura storica “che si tratti della
trasformazione del sistema partitico, della distruzione della
democrazia
americana o dell’implosione dell’ordine mondiale liberale”[ii]. E
poiché di risultati veri, al momento, ancora non c’è traccia,
il dibattito scatenatosi dalla fine di gennaio si è
interamente modellato sui fuochi di artificio che hanno
sostanziato le prime mosse della nuova Amministrazione. Tali,
in effetti, devono essere
considerate le sue principali iniziative internazionali: le
contraddittorie posizioni assunte nel contesto della guerra
russo-ucraina, nel quadro di
una sostanziale continuità del supporto bellico a una guerra
che Trump continua, nondimeno, a definire non sua;
l’ininterrotto appoggio
alla guerra di sterminio del Governo di Netanyau in Palestina
(aggravato dalle sbalorditive visioni distopiche sulla
“riviera” di Gaza);
l’incapacità di emanciparsi seriamente dalle politiche
neoconservatrici sull’Iran, nonostante la sua avversione alla
prospettiva di
una guerra; la parallela esibizione di una “dottrina Riyadh”
basata su un “transazionalismo personalizzato e incentrato sul
commercio, che rasenta il clientelismo”[iii], per la
gioia delle ricche monarchie del Golfo; le minacce al Canada e
alla Danimarca; l’attacco generalizzato alle pratiche del
libero commercio, con
la raffica di tariffe, in un’alternanza di provocazioni e
ritirate tattiche; e tanto altro ancora.
Pubblichiamo il prezioso intervento che Alisa Dal Re ha svolto durante il seminario (organizzato dalla Cgil, Fondazione Di Vittorio, Comitato per il centenario della nascita di Rossana Rossanda): “Liberare il lavoro. Rossana Rossanda e le questioni del lavoro, ieri e oggi“. L’incontro si è volto all’Università Roma Tre, Scuola di Lettere Filosofia e Lingue, a Roma, il 29 gennaio 2025
Due furono
secondo me gli elementi teorico-politici relativi al lavoro
che caratterizzarono gli anni ’70 e seguenti in Italia: il
rifiuto del lavoro e il
riconoscimento della cura domestica gratuita delle donne come
lavoro.
Il rifiuto del lavoro va interpretato all’interno delle rivendicazioni operaie di egualitarismo salariale, diffuse soprattutto all’inizio del decennio in questione, in contrapposizione alle posizioni di Lama e Trentin, sfavorevoli agli aumenti egualitari. Si trattava in buona sostanza del rifiuto di una data organizzazione del lavoro salariato a partire dalla forma di remunerazione e strutturazione del lavoro. Queste rivendicazioni infatti hanno segnalato la fine dell’adeguamento giuridico e politico al contratto, a una fantomatica misura del valore incarnato nella merce. Inoltre l’egualitarismo nelle rivendicazioni salariali ha svolto una funzione politica, costituendo un fronte operaio nelle lotte.
L’interpretazione di alcune forme di rifiuto del lavoro (assenteismo, allontanamento dalla disciplina contrattuale e dalla gerarchia di fabbrica, richiesta di aumenti salariali importanti ecc.) è derivata dalla scoperta di una classe operaia che si è posta contro sé stessa, mirando alla propria dissoluzione con il superamento dell’ideologia lavorista. Questa ideologia era stata costruita sulla professionalità e sul legame con il posto di lavoro, elementi resi fragili dalle trasformazioni produttive e dalla forza trasformativa delle lotte operaie. La negazione della primazia del lavoro sulla vita dava il senso al rifiuto dello sfruttamento e questo faceva emergere e valorizzare nuove soggettività.
Negli anni ’70 con il rifiuto del lavoro gli operai mettono in crisi il piano del capitale attraverso una richiesta salariale indipendente e impazzita rispetto al profitto, con la richiesta di servizi, con il rifiuto dell’orario imposto, con le autoriduzioni e la lotta contro la nocività di fabbrica (la nocività del lavoro?). Ricordate Vogliamo tutto, di Nanni Balestrini?[1] Nel territorio si diffondono le richieste di prezzi minimi e prezzi politici, di inserimento del tempo di trasporto nel tempo di lavoro, del costo del trasporto nel salario, creando una disconnessione tra salario e tempo di lavoro. Un inizio di visione del tempo di vita che diventerà il tema centrale, ad esempio, delle recenti lotte francesi contro l’aumento dell’età pensionabile.
Mentre scrivo Israele ha ripreso il brutale
genocidio che, da mesi e nella più totale
indifferenza dell’Unione Europea, sta perpetrando ai danni del
popolo palestinese. Questo massacro infinito viene ignorato
mentre fa scandalo
che gli USA abbiano aperto una trattativa per la pace in
Ucraina senza coinvolgere l’Unione Europea (e della guerra).
Addirittura, il 15 marzo
è stata convocata da Michele Serra e dal quotidiano della
famiglia Agnelli, “La Repubblica”, una manifestazione a favore
dell’Unione Europea.
La situazione è nota: i media mainstream e i loro pennivendoli, che in questi anni hanno appoggiato senza se e senza ma la guerra tra NATO e Russia – quella combattuta utilizzando la popolazione ucraina come carne da cannone – scrivono che l’Europa è minacciata dalla Russia di Putin a causa del tradimento di Trump. Viene così diffuso un clima isterico, in cui l’apertura di una trattativa sulla fine della guerra in Ucraina viene presentata come un insopportabile gesto di arroganza nei confronti dell’UE.
Secondo questa narrazione, la minaccia Russa all’Europa e alla sua civiltà è quindi il pericolo concreto a cui occorre dare una risposta immediata. A tal fine la Von der Leyen ha sponsorizzato un gigantesco piano di riarmo dell’Europa di circa 800 miliardi di euro che il Parlamento Europeo ha prontamente approvato.
Questa campagna condotta a reti unificate dai media mainstream e dalla quasi totalità delle forze politiche di centro destra e di centro sinistra europee e nazionali costituisce in realtà la premessa ideologica per un salto di qualità nella costruzione di un’Unione Europea imperialista e guerrafondaia verso l’esterno, antidemocratica e antisociale verso l’interno. Una vera e propria proposta politica reazionaria attorno a cui il sistema di potere si sta riorganizzando. Ovviamente ogni forza e ogni schieramento interpretano il copione a partire dalla cura del proprio pubblico (più nazionalista o più europeista, più militarista o più in borghese, più progressista o più conservatore), ma la strategia di fondo non cambia: la Russia è il nostro nemico e costituisce una minaccia immediata a cui dobbiamo far fronte con un enorme programma di spese militari attorno a cui riorganizzare le relazioni sociali e il profilo complessivo dell’Europa.
“Cinquantotto anni di occupazione. Cinquantotto anni di una menzogna crudele e folle, i cui ideatori ci hanno preso tutto ciò che avevamo accettato di dare loro, e ora vogliono di più. Cinquantotto anni durante i quali ci siamo ripetuti che tenevamo i territori occupati perché ‘non c’è scelta’ e ‘per la sicurezza’. E di anno in anno la nostra sicurezza svaniva, diventando una barzelletta grottesca e spaventosamente gravosa”. Così su Haaretz Zehava Galon.
“In qualche modo, anche adesso, anche dopo l’orribile massacro del 7 ottobre, dopo quasi due anni di questa guerra persa a Gaza, con attacchi terroristici quotidiani in Cisgiordania [il riferimento è alle azioni dei coloni, vedi anche The Guardian ndr.], quei delinquenti ci stanno propinando la stessa menzogna. ‘È per la sicurezza!’ dichiarano Benjamin Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Netanyahu, in realtà, sta promuovendo la sicurezza del suo governo e i suoi partner stanno promuovendo la sicurezza dei futuri insediamenti a Gaza e negli avamposti dell’orrore che le loro camicie brune hanno creato in Cisgiordania“.
No, continua la Galon, “non è questione di sicurezza né di ostaggi: si tratta dell’uccisione di decine di migliaia di civili, tra cui tanti bambini, per godere di proprietà immobiliari a Gaza e sulle colline del Libano.
La produzione russa di missili balistici Iskander e di missili ipersonici Kh-47M2 Kinzhal è aumentata in una percentuale compresa tra il 66,67% e l’88,89% nell’ultimo anno secondo i dati raccolti dall’intelligence militare ucraino (GUR) pubblicati ieri dal Kyiv Independent. La Russia produrrebbe attualmente secondo queste informazioni dai 60 ai 70 Iskander-M e dai 10 ai 15 Kinzhal ipersonici al mese.
Nel maggio del 2024 Mosca produceva 40 Iskander-M e nell’aprile dello stesso anno 4-5 Kinzhal al mese. I dati forniti dal GUR al Kyiv Independent mostrano che le scorte russe sono stimate oggi in “quasi 600 Iskander-M e oltre 100 Kinzhal”.
Alla fine del 2022, il capo dell’intelligence militare Kyrylo Budanov ha affermato che la Russia aveva quasi esaurito i missili balistici Iskander. Entro dicembre 2024, il portavoce del GUR Andriy Yusov aveva evidenziato che la Russia aveva aumentato la produzione a un numero compreso tra 40 e 50 missili Iskander al mese.
I dati forniti dal GUR allarmano l’Ucraina e l’Occidente anche perché evidenziano che la produzione russa di missili balistici supera oggi la produzione totale di missili PAC-3 MSE per i sistemi di difesa aerea Patriot, che Lockheed Martin spera di aumentare fino a 650 all’anno entro il 2027 e certo non tutte queste armi sarebbero destinate all’Ucraina.
Come sottolinea il rapporto dell’intelligence ucraina, altri sistemi occidentali come il SAMP/T e l’IRIS-T non si sono dimostrati efficaci contro i missili balistici.
Nei momenti di difficoltà, è sempre bello sapere di poter contare sugli amici. Deve avere pensato questo la presidente del Consiglio Meloni quando ha partecipato all’assemblea nazionale di Confindustria lo scorso 27 maggio.
Del resto, è dall’inizio della legislatura che le due parti vanno d’amore e d’accordo, specie dopo la crisi inflazionistica che ha visto una politica economica del governo tutta tesa a contenere il costo del lavoro e garantire un margine di profitto accettabile per le imprese.
E quando si va dagli amici, è buona educazione non presentarsi a mani vuote, e infatti anche stavolta la Meloni ha assicurato che lo Stato si farà ancora una volta carico di garantire un certo livello di profitti per le imprese: si va dalla promessa di dirottare in sussidi alle imprese parte dei fondi PNRR che (prevedibilmente) l’Italia non riuscirà a spendere nei tempi previsti, anche per addolcire l’impatto sulle imprese stesse dei possibili dazi provenienti da oltreoceano, fino all’impegno di allentare ancora quel poco di impegno verso una transizione energetica e ambientale (ormai passata nel dimenticatoio), passando per la possibilità (peraltro tutta da dimostrare) che l’incremento della spesa militare andrà a beneficio anche delle imprese italiane.
Per rendere un minimo realistico questo appuntamento era però essenziale che entrambe le parti in commedia presentassero anche un volto “responsabile” e si mostrassero consapevoli che qualcosa ancora non va, così da creare il pretesto per Confindustria per chiedere ulteriori impegni, identificando all’uopo qualche nuovo nemico.
Ho provato a chiedere su Google “che cosa è il 2 giugno”, al primo posto è comparsa un’AI Overview che inizia con: «Il 2 giugno è la Festa della Repubblica Italiana. Si celebra annualmente per ricordare il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, in cui gli italiani, per la prima volta, si espressero in libertà sulla forma di governo dello Stato, scegliendo la Repubblica. In quell'occasione, per la prima volta, anche le donne poterono votare>>; segue una così detta ELABORAZIONE, che invero aggiunge poche altre e generiche informazioni. Insomma, niente di che. Sarei curioso di sapere quanti italiani siano appagati da questa risposta, e presi da ben altri interessi e dalle faccende della vita quotidiana si fermino qui nelle loro aspettative di informazione. Sia come sia, in chiusura dell’AI Overview leggo: «La Festa della Repubblica non è solo una ricorrenza storica, ma un momento per riflettere sui valori della Repubblica, sulla partecipazione democratica e sulla costruzione di una società più giusta e inclusiva>>. E allora, cominciamo da qui, e a fare qualche riflessione generale. In attesa che intorno al 2 giugno del 2025 prendano corpo le celebrazioni, il discorso pubblico, le voci dei professionisti della politica e il messaggio del Presidente della Repubblica.
1.Il 2 giugno è la Festa della Repubblica italiana: una festa della nazione, come detta il calendario ufficiale. Una nazione racconta se stessa e plasma i sui caratteri identitari anche attraverso la celebrazione di feste ufficiali e ritualizzate. È importante sottolineare che tali narrazioni identitarie, da un lato, evocano il passato; dall’altro, presentano uno stretto legame con il clima politico, culturale e sociale del presente di una società.
«Perché? – Perché
l’universo non è una favola».
(Cixin Liu,
Nella quarta dimensione, 2018)
1. A questo punto devo dar conto del significato d’esistenza di quel “pianeta Marx” che sto lentamente esplorando e descrivendo in queste mie Cronache. Ho già detto altrove che, dopo Nietzsche, siamo consapevoli che ci sono i fatti ma pure le loro interpretazioni e che noi, che viviamo nei fatti, ci muoviamo secondo le interpretazioni che ce ne facciamo. Abitiamo così in due ambiti simultanei di esistenza: quello delle esperienze concrete (che rimangono personali e indicibili, dato che soltanto noi sappiamo quanto è veramente accaduto), ma pure dentro quei concreti di pensiero di cui ha detto Karl Marx nelle uniche pagine sul metodo che ha lasciato nella Introduzione alla critica della economia politica (1857) contrapponendo al “concreto fuori di noi”, che è «sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice», un “concreto dentro di noi” che altro non è se non «la riproduzione del concreto lungo il cammino del pensiero» come lo riflette il cervello, «come un tutto del pensiero che è un prodotto dal cervello che pensa e che si appropria del mondo nell’unico modo a lui possibile, almeno fino a quando il soggetto si comporta solo speculativamente, solo teoricamente». Certamente sono i fatti che inducono al pensiero (se nulla accade, nemmeno nulla si pensa), però su quei fatti noi ci facciamo dei penseri e sono questi che indirizzano il nostro comportamento nel confronto di quei fatti.
Ma ciascuno di noi si fa una rappresentazione di quanto gli accade non soltanto per sé, ma pure per comunicarla agli altri con la parola, lo scritto o con i gesti (che sono i “comportamenti non verbali”), ma per arrivare a questo bisogna inserire il “concreto di pensiero” dentro un ordine del discorso che possiede delle regole di costruzione proprie (mentre le regole della realtà restano fuori dalla porta), dovendosi scontare con gli altri una comunanza di linguaggio, di scrittura o di gestualità, perché altrimenti non ci si capirebbe.
Felice il
continente riscattato da eroi che non muoiono mai, e a volte
si reincarnano: Lumumba, Nyerere, Kenyatta, Samora Machel,
Agostino Neto, Nkrumah,
Senghor, Mandela, Sankara, con i loro popoli in lotta e, su
tutti, anche per longevità rivoluzionaria, Muammar Gheddafi.
Quali assassinati dal
revanscismo colonialista, quali incarcerati quasi a vita,
quali rovesciati da golpe diretti da fuori, quali
sopravvissuti a incessanti assedi e
sabotaggi.
ggi si chiamano Abdurahamane Tani (Niger), Assimi Goita Mali, Isaias Afeworki (Eritrea), Faye e Sonko (neoletti presidente e Primo Ministro del Senegal che hanno messo in discussione la manomorta di Parigi sul paese) e, su tutti per radicalità rivoluzionaria, Ibrahim Traoré in Burkina Faso. Forse la Storia ne narrerà come dei capitani che hanno fatto prendere il largo al continente, sottraendolo alla pirateria del colonialismo di ritorno.
Un vento nuovo percorre il continente dopo l’abbattimento di Muammar Gheddafi e la frantumazione della Libia, oggi divisa tra il parlamento e governo esiliatosi a Bengasi, prodotti dall’ultima elezione tenuta nel paese, e le bande golpiste islamiste di Tripoli, impegnate nel traffico di migranti e protette dall’esercito turco. Un regime, quello del premier Abdulhamid Dbeida, caro a Meloni e soci, fondato sul gangsterismo, arroccato a Tripoli e in poco più della Tripolitania, incredibilmente legittimato dall’ONU a dispetto di Bengasi, che invece controlla il resto del paese e la maggioranza delle sue risorse (il resto viene contrabbandato dalle bande di Tripoli con piena soddisfazione di alcuni paesi europei, in primis il nostro.
Della generazione dei grandi leader e ideologi della liberazione e dell’indipendenza, resta il presidente eritreo Isaias Afeworki. Dall’alba del decennio in corso, una parte cospicua del continente ha vissuto una scossa rivoluzionaria. Scossa che promette di contagiare il resto del continente, finora in buona parte assopito in una finta sovranità ed effettiva governance neocolonialista. Quest’ultima garantita dalla capillare e massiccia presenza militare di AFRICOM, comando delle Forze USA in Africa e delle sue basi.
Massimo Bontempelli: La conoscenza del bene e del male, ed. Petite Plaisance, 2025
Un libro
pensato innanzitutto per gli studenti e gli insegnanti si
espone al rischio di appiattirsi su un taglio manualistico
prettamente informativo –
opzione d’altronde assolutamente legittima, dato il contesto –
che abbina alla proliferazione dei dati di varia natura la
loro
semplificazione concettuale e l’oscuramento della tela di
fondo su cui essi si dispongono.
La finalità pedagogica, non sempre correttamente intesa, può spingere poi in direzione di un’attualizzazione brutale, cioè non opportunamente mediata sul piano culturale e storico, dei temi e problemi passati in rassegna, nell’illusorio per quanto comprensibile tentativo di rendere accattivanti argomenti indiscutibilmente ardui.
Ne risulta troppo spesso una superficialità vanamente mascherata dalla quantità delle informazioni e dal sussiego della forma espositiva che cerca di coprire attraverso la profusione del lessico specialistico la mancanza di originalità. Sono libri destinati al consumo scolastico, numi tutelari per verifiche e punteggi per gli studenti, puntello alla memoria per i docenti. Strumenti sicuramente utili agli uni e agli altri, ma nulla di più.
Un libro insegna nella misura in cui segna, cioè lascia un segno nello spirito di chi lo legge e non semplicemente sul registro, a maggior ragione se si propone di affrontare questioni filosofiche, vale a dire questioni che investono la verità, il bene, il significato del nostro essere al mondo, la coraggiosa contemplazione delle cose al di là del loro apparire, per dirla con Eraclito cui non a caso Massimo Bontempelli ha dedicato uno studio, Eraclito e noi, di prossima ristampa.
Ora, questo suo testo si inscrive a pieno titolo nella categoria dei libri che incidono, che cadono con la lama affilata di una rigorosa riflessione e di un’inesausta passione intellettuale su una materia tanto primaria ed essenziale, quanto maltrattata e trascurata.
E squarciano il velo, o meglio il sudario, dentro il quale essa è stata occultata, ai fini di rimuoverla dal piano filosofico per lasciarla andare alla deriva del gusto individuale o di un’estemporanea esperienza privata.
Torna la sezione «oriente, estremo» con un articolo del curatore, Romeo Orlandi che ci parla della politica internazionale di Trump e degli attuali rapporti con la Cina. Uno scontro strategico per gli Stati Uniti per poter sostenere il proprio debito e quindi l'American way of life, che si trova però di fronte un avversario tutt'altro che remissivo e debole come l'Europa. Cosa succederà, dunque? Trattativa infinita o l’estrema tentazione del grilletto?
Correre dietro ai numeri di Trump è un esercizio sterile, misurare l’incoerenza dei dazi è fuorviante, usare il sarcasmo per le sue espressioni è imbelle. Non che le esternazioni del Presidente non si prestino a critiche o che i suoi pensieri non si presentino incoerenti o improvvisati. L’errore ha invece radici nel volere trovare un filo che colleghi le decisioni, arrovellarsi per cercare una continuità nascosta, una strategia inafferrabile, un progetto impalpabile di lungo respiro. Insomma: scandagliare i segugi analitici per capire «cosa ha in mente Trump».
Certo: lui intende Make America Great Again; uno slogan chiaro e tuttavia di difficile declinazione. Per farlo bisogna mostrare i muscoli, costringere gli altri (non importa se nemici o ex amici, le differenze si annullano) alla trattativa da posizioni di forza. Imporre le proprie regole per strappare il miglior accordo, negoziare mettendo l’interlocutore nell’angolo. E se fosse proprio questa la strategia, coniugare cioè tattica e obiettivo, senza intermediazioni? Allora, l’importante non è misurare il valore del dazio, metterlo in relazione con improbabili tabelle al flusso di merci.
Non mi ha stupito che i partiti della pseudo “sinistra” abbiano indetto una manifestazione pro Palestina il 7 giugno, perché erano molti giorni che mass-media e parlamentari, quasi improvvisamente, sono caduti dall’albero del pero e hanno scoperto il massacro a Gaza (e in Cis-Giordania? Silenzio tombale!).
Quella del 7 giugno sarà la manifestazione degli ipocriti, ma su loro torno dopo.
La corsa affannosa che sto assistendo ora è nell’accusare Netanyahu e Likud di quanto avviene e di come il loro Stato sia altra cosa, anzi si riscoprono origini nobili e democratiche nello ‘Stato sionista’.
E’ perciò il caso di rimettere nella loro giusta luce le origini e cosa veramente erano.
Il primo sionismo è quello di Theodoro Herzl, promotore del ritorno degli ebrei in Palestina Mandataria, con l’idea di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, peccato che la Palestina era ed è abitata dai discendenti degli antichi ebrei, nel tempo diventati cristiani o mussulmani o rimasti samaritani insieme anche ad ebrei palestinesi.
Già questa idea (“una terra senza popolo“) rivela la natura razzista del sionismo ed è chiara inquadrandola con i fatti di quel tempo.
L’idea di Herzl e dei sionisti, in un tempo di pogrom e persecuzioni varie (il caso Dreyfus, ecc), era di ritagliarsi un pezzo di impero turco con la complicità occidentale, inglese in particolare (l’Italia se ne ritagliò un pezzo in Libia).
Attorno al IX secolo la maggior parte dell’Europa rinunciò alla monetazione ufficiale in oro. Ai tempi di Costantino, nell’Impero romano, circolava il Solidus, una moneta di oro massiccio (soldo). Il Soldo, con il nome di Nomisma e poi di Iperperon, sostenuto dall’impero bizantino, rimase in circolazione fino alla comparsa e all’affermazione del Fiorino, rappresentando la base monetaria del commercio Inter-regionale (estero). Dunque, l’Oriente mantenne una moneta d’oro, con un valore pressoché stabile per circa 700 anni, mentre l’Occidente, nella Gallia Franca, nella Gallia carolingia e a poco a poco dappertutto, adottò un sistema quasi esclusivamente argenteo. Tracce di questo fatto sono presenti oggi in Francia dove il nome del denaro è appunto Argent.
Nonostante la conversione all’argento, in Occidente il Soldo continuò a circolare. Il Soldo, scrive Marc Bloch (Lavoro e tecnica nel medioevo), esisteva come unità di conto. Si trattava ancora in soldi, ma il pagamento avveniva in denari, secondo un rapporto generale, non però valido in tutti i paesi, di un soldo per 12 denari. Allo stesso modo quando si prevedeva un pagamento in natura, si parlava di un soldo di grano o di un soldo di cacio.
La debole o nulla monetazione in oro, dice Bloch, era forse dovuta al fatto che l’oro circolava sotto forma di monete straniere. In Occidente circolavano il Bisante (o Bezant in Francia), la moneta Bizantina, appunto; il Mangon o Mancuso (Mancusus in latino), moneta in oro araba (il Dinar manqus); il Marabbottino, una moneta d’oro nordafricana (Almoravidi).
* * * *
Egregio Signore,
mi è parso che, parlando di cose doverose e costruttive, nel suo caso una risposta pubblica fosse dovuta. Sorvolerò sulla "supposta aristocrazia intellettuale" (qualche citazione e qualche riflessione farebbero aristocratizia? Non credo). Ma con l'accusa di elitarismo tocca un nervo scoperto, perché qua sopra c'è sempre stata una feroce avversione per l'elitarismo politico e, per quanto a parole, ci si è sempre spesi per la difesa della democrazia.
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Adriano Prosperi, Cambiare la storia. Falsi, apocrifi, complotti, Torino, Einaudi, 2025
Adriano Prosperi, storico italiano di
formazione modernista, nel suo ultimo saggio Cambiare la
storia, edito da Einaudi, affronta gli aspetti
principali relativi all’arte di
falsificare la storia. In questo viaggio attraverso varie
epoche l’autore accompagna il lettore indagando gli aspetti, i
contesti e le
motivazioni che portano alla nascita di un falso storico.
Nella breve premessa sono attenzionati alcuni aspetti della cancel
culture, una
tendenza sorta negli ultimi anni e approfondita in particolare
dagli storici di World History. Secondo Prosperi
questa visione, sulla carta
tesa a migliorare la storia umana epurandola da violenze
passate e personaggi sgraditi, oltre a semplificare la realtà
ha di fatto trasformato
il ruolo dello storico in quello di giudice. Se, come
sosteneva già Aristotele, il passato non può essere
modificato, è
un’operazione mentale contorta e rischiosa giudicare il
passato con gli occhi del presente.
Figure del calibro di Cristoforo Colombo e Winston Churchill hanno compiuto quelle che noi, in base alle nostre sensibilità odierne in materia di parità e diritti, senza alcun dubbio riteniamo essere atti razzisti e nefasti. Questa forma mentis conduce inevitabilmente alla cosiddetta “civiltà di vergogna” che, ignorando il dato storico, vuole colpevolizzare l’Occidente cercando di relegare all’oblio le tracce meno nobili del suo passato. Nel primo capitolo di Cambiare la storia Prosperi affronta quello che è ritenuto universalmente il falso di maggior successo e durata nella storia, ovvero la donazione di Costantino. Secondo quanto affermato dal documento, nel 315 d.C. l’Imperatore Romano Costantino, guarito dalla lebbra in seguito al battesimo cristiano elargito da parte di Papa Silvestro I, avrebbe in segno di riconoscenza donato al vescovo di Roma la parte occidentale dell’Impero.
Questo dono fece seguito alla conversione di Costantino nel 312 d.C., in un periodo in cui solo una parte minoritaria degli abitanti dell’impero era di fede cristiana. Se come affermava Paul Veyne l’audace conversione dell’imperatore fu un avvenimento decisivo in grado di spostare il baricentro della storia mondiale, la falsa donazione ebbe un peso considerevole nell’espansione territoriale e nel potere temporale della Chiesa.
La crescita della logistica è impressionante, nel 2024 in Italia siamo intorno a un miliardo di pacchi consegnati. Un fattore di inquinamento e di consumo di suolo per gli hub. In Amazon e nelle “coop spurie” si lavora in condizioni di sfruttamento, ma crescono conflitti e sindacati di base
Chi ha familiarità con il settore della
logistica, ha una certa difficoltà ad
accettare che quella cosa chiamata “logistica” nella
narrazione quotidiana, inclusa anche la consegna dei cibi a
domicilio, sia veramente
tale. La logistica “vera” è una tecnica di management
che si è affermata alla metà degli anni 70 in
correlazione stretta con la lean production, è
diventata pian piano una funzione strategica dell’impresa
manifatturiera
multinazionale, con il compito di organizzare al meglio i
flussi inbound dei fornitori e quelli outbound
dei clienti finali.
Con il procedere della globalizzazione, un po’ alla volta al posto del termine “logistica” si è preferito parlare di supply chain, tradotto in italiano con “catene di fornitura”, intendendo con questo la parte operativa delle “catene globali del valore”. Le esperienze di logistica più avanzate sono state quindi compiute nei sistemi dove domina la grande impresa (Germania, Giappone e Stati Uniti). In sistemi come quello italiano, caratterizzati da imprese medio-piccole, è invalso l’uso di esternalizzare questa funzione aziendale, affidandone a terzi specializzati l’esecuzione, in particolare le fasi del trasporto e magazzinaggio .1
Una svolta epocale è avvenuta tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 con l’ingresso nel mercato della logistica conto terzi (la cosiddetta contract logistics, la logistica esternalizzata che si basa su contratti a lungo termine) delle grandi società di servizi espresso, DHL, TNT, Federal Express, UPS.2 Perché? Perché con la globalizzazione le catene di fornitura sono diventate sempre più “lunghe”, un’azienda localizzata in Italia poteva avere dei fornitori di materie prime o di componenti localizzati in Patagonia o in Kazakistan. Per trasportare velocemente le forniture non bastavano i camion o le navi, ci volevano gli aerei. Queste società disponevano di flotte di aerei cargo e poterono iniziare a controllare il mercato delle grandi catene del valore.
Rosa Luxemburg nel 1918 scrisse un breve testo Sulla rivoluzione russa, era in prigione, e si informava, ciò malgrado, sugli avvenimenti che scuotevano la Russia e rimettevano in moto la storia. Paul Levi militante comunista andò a trovarla in carcere e le sconsigliò la pubblicazione, in quanto il testo era ancora in embrione. Dopo la sua tragica morte nel 1919, Jogiches e Clara Zetkin ritrovarono nell’appartamento della rivoluzionaria devastato dai Freikorps il breve scritto costituito da fogli sparsi e da frasi talvolta incomplete. Nel 1922 Paul Levi ruppe con il partito e pubblicò il testo “completandolo”. Nel testo, malgrado le manipolazioni, emergono in modo chiaro le distanze della rivoluzionaria dal bolscevismo. Le osservazioni critiche che Rosa Luxemburg muove al bolscevismo sono per noi attuali. La rivoluzionaria profetizzò mediante il senso critico che mai l’abbandonò il pericolo che la rivoluzione bolscevica fallisse per l’isolamento internazionale e per lo scollamento autoritario tra burocrazia e popolo. Il partito dei burocrati avrebbe alla fine prosciugato la spinta rivoluzionaria del popolo mediante la compressione delle libertà e con la gestione dispotica del potere. La scissione tra partito e potere avrebbe gradualmente trasformato la rivoluzione in conservazione di equilibri antichi. Il potere sarebbe tornato a gravare sul popolo e i “compagni” si sarebbero ritrovati ancora una volta “sudditi”. Lo scioglimento dell’Assemblea Costituente il 18 gennaio 1918 fu la premessa di una deriva che avrebbe condotto la rivoluzione al suo fallimento.
Rivoluzione è democrazia consiliare senza la quale nessuna conquista può essere definita “rivoluzionaria”. I rilievi politici che la Luxemburg mosse al bolscevismo e a Lenin hanno il limite di non considerare le condizioni storiche, in cui il comunismo nascente si trovava. Era assediato dalle potenze capitalistiche ed era in corso la Guerra civile.
Gli attacchi alle forze nucleari strategiche minano i trattati sul controllo degli armamenti, distruggono la fiducia tra le potenze nucleari e rendono estremamente improbabili se non impossibili le prospettive di pace, spingendo verso l’escalation e aumentando il rischio di conflitto nucleare. Si sono preparati la loro fine
Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato:
“L’Ucraina ha attaccato le nostre basi aeree dove sono di stanza i bombardieri strategici russi. Hanno dimostrato che non può esserci una soluzione pacifica. Con questa azione hanno preparato la propria fine. Non c’è più la linea rossa. Si pentiranno di ciò che hanno fatto.”
- Attacchi ai bombardieri strategici nucleari Tu-95MS e Tu-22M3, nonché attacco ad aereo da trasporto An-12 presso la base aerea di Olenya; Attacchi a due velivoli AWACS A-50 presso la base aerea di Ivanovo; Voli su diversi Tu-22M3 presso le basi aeree di Dyagilevo e Belaya.
- L’A-50 è utilizzato per rilevare e tracciare velivoli e missili, inclusi quelli con capacità nucleari.
- Può supportare il comando e controllo delle operazioni aeree, inclusa la protezione dei bombardieri strategici russi, come il Tu-95 e il Tu-160, che sono parte della triade nucleare.
Le notizie vecchie sono spesso più istruttive delle nuove. Se si vuole capire il motivo dell’incantesimo che circonda Israele, e di tutte le timidezze e i distinguo con i quali viene affrontato il genocidio a Gaza, allora risulterà utile sapere che in Israele sono presenti quasi tutte le grandi aziende del mondo, non solo per fare accordi di investimento con le industrie e le autorità locali, ma anche per alimentare un giro di “startup”, cioè di nuove aziende che nascono e muoiono in breve tempo con la scusa di seguire l’onda del mercato. Non per niente le effimere startup sono uno degli strumenti preferiti per l’evasione fiscale e il riciclaggio. Quando uno sente le parole evasione fiscale e riciclaggio non sarà difficile associarle a Stellantis, che infatti ha il suo giro di startup in Israele.
Ma non deve neanche sorprendere che in Israele ci sia una ex azienda pubblica come l’ENEL. Il fatto che oggi l’ENEL sia una multinazionale non spiega il motivo per cui essa vada a investire in un paese costantemente in guerra. Un paese in cui chi se lo può permettere, come appunto i tecnici qualificati, coglie l’offerta al volo se si tratta di svignarsela e cambiare aria in cerca di quieto vivere. Ovviamente la comunicazione ufficiale cerca di ridurre il fenomeno al cosiddetto trauma del 7 ottobre. La realtà è che la labilità demografica di Israele era già evidente da tempo, dato che persino l’attività agricola delle colonie israeliane in Cisgiordania dipende non solo dai finanziamenti degli evangelici americani, ma anche dal loro lavoro al momento del raccolto.
È difficile sopravvalutare la natura teatrale dell’ultima operazione di droni ucraina all’interno del territorio russo, denominata Operazione “SpiderWeb”. Decine di piccoli droni, secondo quanto è emerso, sono stati introdotti clandestinamente in Russia durante un arco temporale di 18 mesi, immagazzinati nei container di camion commerciali e lanciati verso basi aeree strategiche russe. I titoli dei giornali la celebrano ora come un colpo di grande portata, un’ingegnosa dimostrazione di guerra asimmetrica.
Ma se si toglie il clamore mediatico, il quadro che emerge è molto più preoccupante. L’Ucraina afferma che gli attacchi hanno causato danni per 7 miliardi di dollari. I media occidentali, senza filtro alcuno, ripetono questa cifra acriticamente, mentre i filmati finora suggeriscono che solo da sei a dieci velivoli sono stati distrutti invece dei 41 annunciati da Kiev.
Anche prendendo per buone le stime più alte di Kiev, smentite dalle stesse immagini e dichiarazioni del Pentagono, che affermano che ben il 34% delle piattaforme aeree russe per il lancio di missili da crociera sia stata colpita, questo lascia alla Russia una schiacciante superiorità in termini di missili da crociera, missili balistici, droni, artiglieria e bombe plananti.
In altre parole, il vantaggio strategico della Russia rimane intatto. Quindi quale era il vero obiettivo operativo di questa operazione? Non si è mai trattato di ribaltare le sorti della guerra.
Da tempo e in diverse occasioni Massimo Fini ha fatto una efficace critica del mito produttivistico e della sua celebrazione del lavoro come accumulo oltre le necessità. In età premoderna, egli sostiene, il lavoro non è mai stato celebrato come un valore da coltivare, così come avviene anche in certe popolazioni che, ad es., coltivano la terra per quanto loro basta. Si potrebbe aggiungere che a essere lodato era piuttosto, presso gli antichi romani, l’otium, visto non come semplice e passivo adagiarsi sul non fare, ma come occasione per coltivare le più alte qualità dell’umano.
Ma in questa pur giusta e condivisibile critica si annida un equivoco di fondo, che si ripercuote in altri ambiti, contribuendo a una loro deformata interpretazione. Infatti nel criticare il lavoro si deve fare attenzione a non confondere l’astrazione con il portatore concreto di essa: non è il Lavoro in quanto tale che si deve esaltare e/o difendere, ma il lavoratore nel quale esso si incarna e che se ne fa interprete. Non a caso la Festa del Lavoro è stata istituita allo scopo di richiamare l’attenzione sulla necessità di tutelare i lavoratori dagli eccessi degli industriali, che praticavano anche lo sfruttamento del lavoro minorile. Non si celebrava quindi il lavoro in quanto tale, bensì i lavoratori soggetti a uno sfruttamento spesso inumano: nel celebrare il lavoro si difendeva la dignità umana di chi lo esercita, ed è quindi l’uomo l’oggetto della sua valorizzazione. Quella medesima umanità che oggi viene offesa e mortificata dai lavori precari e sottopagati, che arricchiscono sempre più la classe abbiente, contribuendo alla crescente diseguaglianza delle ricchezze.
L’intreccio tra tecnologia e geopolitica sta trasformando radicalmente la catena delle forniture digitali. Dalla rimozione dei componenti Huawei in Germania al ripristino della produzione di chip negli Stati Uniti, i governi stanno riscrivendo le regole della globalizzazione alla luce dei rischi cibernetici. Compromissioni, spionaggio e guerre ibride hanno fatto della fiducia tecnologica una nuova questione geopolitica. Perché in un mondo dove ogni microchip può diventare un’arma, la sicurezza impone filiere affidabili, trasparenti e strategicamente allineate
Entro il
2026, gli operatori di telecomunicazioni tedeschi dovranno
rimuovere dalle loro reti i componenti 5G forniti da aziende
cinesi, come Huawei e Zte.
Questo piano, disposto nel luglio 2024, deriva dalla crescente
consapevolezza che la tecnologia non può più essere
considerata
neutrale.
In tempi di crescente tensione geopolitica, i governi si stanno rendendo conto che i chip non sono solo dispositivi elettronici e progettazione avanzata: possono anche essere strumenti di controllo e spionaggio, talora perfino di guerra. Ogni passaggio della catena di fornitura può essere intercettato e compromesso.
Il caso tedesco simboleggia una profonda trasformazione della supply chain digitale. Le forniture di tecnologia, un tempo considerate solo sotto la prospettiva economica, si stanno riconfigurando in linea con le esigenze strategiche dei governi. E vengono valutate anche sotto un profilo geopolitico.
Per anni la globalizzazione ha prosperato sull’assunto che l’efficienza economica e l’interdipendenza avrebbero garantito stabilità e crescita. Ma, nel nuovo scenario geopolitico, questo modello si sta sgretolando. Sotto il peso di una minaccia, silenziosa ma sempre più centrale: la compromissione della supply chain tecnologica.
Il titolo accattivante di Urie introduce un’analisi
sobria di quanto siano stati folli gli attacchi dell’Ucraina
contro la
Russia. Nella migliore delle ipotesi, rivela una valutazione
rischio-rendimento gravemente errata, dovuta presumibilmente
all’aver inalato molta
propaganda e oppio sull’Ucraina.
Un punto che sembra sfuggire in termini di superamento delle linee rosse degli accordi nucleari della Guerra Fredda è che questo metterà almeno la Russia in stato di massima allerta, e potrebbe farlo anche con altre potenze nucleari. Maggiore allerta = maggiore propensione a [re]agire = probabilità di incidenti notevolmente maggiori.
Un nuovo video con Chas Freeman sugli studi sulla neutralità conferma che un attacco con armi convenzionali contro risorse di deterrenza nucleare, secondo gli accordi della Guerra Fredda, equivale a un attacco nucleare e pertanto, secondo le regole di ingaggio, legittima una risposta nucleare:
Tradizionalmente, gli elementi di una forza di deterrenza nucleare, sia da parte americana che russa, sono stati esentati dagli attacchi per la semplice ragione che entrambi i Paesi considerano un attacco con armi convenzionali alla loro capacità di deterrenza nucleare equivalente a un attacco nucleare e giustificante una risposta nucleare. Entrambe le parti prendono la cosa molto seriamente. Naturalmente, l’Ucraina non fa parte degli accordi di sicurezza, né il Regno Unito. Quindi, suppongo che siano liberi di contestare maliziosamente questa esenzione, e lo hanno fatto, ed è molto pericoloso.
Di fatto, il venditore della forza-lavoro realizza
il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso,
come il venditore
di qualsiasi altra merce. Non può ottenere l’uno senza
cedere l’altro. Il valore d’uso della forza-lavoro, il
lavoro stesso,
non appartiene affatto al venditore di essa, come al
negoziante d’olio non appartiene il valore d’uso dell’olio
da lui venduto. Il
possessore del denaro ha pagato il valore giornaliero
della forza-lavoro; quindi a lui appartiene l’uso di essa
durante la giornata, il lavoro
di tutt’un giorno. La circostanza che il mantenimento
giornaliero della forza-lavoro costa soltanto una mezza
giornata lavorativa, benché
la forza-lavoro possa operare, cioè lavorare, per tutta
una giornata, e che quindi il valore creato durante una
giornata dall’uso di essa
superi del doppio il suo proprio valore giornaliero, è una
fortuna particolare per il compratore, ma non è affatto
un’ingiustizia
verso il venditore.
Karl Marx, Il
Capitale, libro I.
Quanto più ci
addentriamo nel processo di valorizzazione del
capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà
mistificato e tanto meno si scoprirà il segreto del suo
intrinseco
organismo.
K. Marx, Il
Capitale, libro III.
1. Plusvalore e profitto: l’autoriflessione del capitale
«Nel primo Libro si sono analizzati i fenomeni che il processo di produzione capitalistico, preso in sé, presenta come processo di produzione immediato, astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze a esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il corso dell’esistenza del capitale. Esso, nel mondo della realtà, viene completato dal processo di circolazione, il quale ha costituito oggetto delle indagini del secondo Libro.
Dopo aver umiliato l’Europa del Sud in nome dell’austerità, i sedicenti Paesi “virtuosi” del Nord guidano oggi la corsa al militarismo. Senza dibattito, senza autocritica
Per anni, in nome della disciplina fiscale, i governi del Nord Europa hanno imposto all’Unione una linea rigida, a tratti spietata. Quando la Grecia bruciava tra tagli feroci imposti dalla Troika, quando l’Italia vedeva strangolate le sue possibilità di sviluppo, le capitali del rigore – da Berlino a Copenaghen, da L’Aia a Stoccolma, fino ai chihuahua baltici– invocavano l’austerità come religione civile. “Frugalità”, la chiamavano. Ma sarebbe più onesto dire “furbalità”.
Dietro la retorica del bilancio in ordine, i Paesi che dividevano l’Europa in “nordici” e “sudici” mascheravano i loro giganteschi debiti privati, scaricando le crisi bancarie interne sull’intero sistema europeo. Le loro banche erano esposte fino al collo con crediti tossici e bolle speculative, ma non ci fu alcun processo di autocritica o di riequilibrio. Anzi: approfittarono della tempesta per fare shopping di asset pubblici nel Sud Europa, per imporre modelli di welfare ultra-minimale, e per far pagare ai lavoratori italiani, greci, portoghesi e spagnoli la stabilità apparente del Nord.
Era già allora una forma sofisticata di guerra economica: si salvavano i loro capitali e si piegavano le nostre economie. Il debito pubblico veniva usato come clava morale, mentre il debito privato—molto più pericoloso—veniva ignorato, occultato o assorbito sotto silenzio. Anche allora facevano i propri interessi, a spese di altri.
Avevo deciso da qualche giorno di scrivere un articolo dedicato all’evoluzione della politica tedesca e alle implicazioni di ordine generale che essa pone, con il titolo che vedete, e nel frattempo, questa mattina, leggo nella nota politica di Andrea Colombo sul Manifesto che anche Macron e Meloni sono “preoccupati dalla Germania”.
“Nel giro di poche settimane – scrive Colombo – con scelte sempre più muscolari e bellicose, ha chiarito (ndr: Merz) che la sua visione della guida franco-tedesca dell’Europa sarà molto tedesca e poco francese. Nelle modalità indicate dalla presidente Von der Leyen e sulle quali il cancelliere tedesco è blindato, il piano di riarmo costringerebbe sia la Francia che l’Italia a svenarsi senza peraltro poter mai raggiungere la Germania, che dispone di spazio fiscale infinitamente più ampio”. Va detto che le mosse del Presidente francese non sembrano meno bellicose di quelle tedesche, al punto che Macron è andato anche in Asia per alzare il tono dello scontro con la Cina. La differenza consiste nel fatto che le posizioni, spesso superficiali e improvvisate, del francese sono decisamente più velleitarie di quelle del tedesco.
Quali sono i cambiamenti in atto nella direzione politica della Germania e quali implicazioni avrà per tutta l’Europa?
Innanzitutto, e su questo direi che tutti gli osservatori sono concordi, c’è una crisi del modello economico tedesco fondato su un consistente apparato industriale e su una notevole capacità di esportare beni dal discreto valore aggiunto.
Chongqing (sud-ovest cinese). Dall’alto di uno strambo edificio, costruito in orizzontale, a mo’ di ponte che unisce le cime di due grattacieli, osservo la vita che pulsa nelle arterie della più stramba, innovativa e gigantesca delle metropoli cinesi, Chongqing. Un posto dove i treni passano dentro gli edifici, le piazze stanno sospese nell’aria, e la notte i grattacieli si trasformano in una foresta incantata di luci e colori sfavillanti.
Sono al bar di uno stabile che l’illuminazione “smart” ha mutato in una smisurata tastiera di pianoforte, e sono assieme a Wang, brillante sociologo, reduci da un intenso dibattito sui rapporti tra Europa e Cina. Entrambi in vena di grandi discorsi, da sostenere con adeguato supporto alcolico. “Visto il disastro di un’Europa che tenta di nuovo il suicidio, caro Wang, mi viene in mente la famosa battuta sulla Scuola di Francoforte degli anni ’30 definita come ‘il Grand’Hotel sull’abisso’. Ma l’abisso non è quello che sta qui, sotto di noi, bensì il futuro del mio continente”.
La risposta di Wang mi colpisce per la sua acutezza anti-diplomatica. “Forse sei troppo pessimista e l’Europa non finirà col suicidarsi. Può darsi che dondoli a lungo sull’orlo dell’abisso, come la Cina dopo le guerre dell’oppio, e poi rinasca. Questo dicono le teorie sui cicli delle civiltà”.
Lo interrompo: “Lasciamo stare il Grand’Hotel, Wang, e parliamo del futuro. Secondo te, l’Europa potrebbe evitare l’abisso e proseguire dentro la stagnazione attuale. Nella quale si trova già, tra l’altro, da mezzo secolo. Possiamo dire, allora, che l’Europa ha i secoli contati. Ma cosa può succedere alla Cina nel frattempo?”.
Recentemente, il Commissario europeo per l’Energia, Dan Jorgensen, ha affermato che l’Unione europea non intende riprendere le importazioni di gas russo dopo un potenziale accordo di pace tra Ucraina e Russia. Bruxelles impedirà ai Paesi membri di firmare nuovi contratti di fornitura con Gazprom, cercando al contempo un modo per farli uscire dai contratti esistenti senza dover pagare penali per la violazione degli stessi.
Nonostante i giudizi molto negativi dell’Unione europea, la Russia è ancora il secondo maggiore fornitore di gas dell’Unione, mentre l’Italia – secondo i dati forniti dall’osservatorio energetico britannico Ember – nel 2024 ha triplicato l’importazione di gas dalla Russia rispetto all’anno precedente, passando da 2,1 a 6,2 miliardi di metri cubi. È stato di gran lunga l’incremento più consistente all’interno dell’Unione europea, dove la crescita ha raggiunto il 18 per cento rispetto al 2023 (da 38 miliardi a 45 miliardi di metri cubi). Inoltre alcuni paesi europei come Ungheria e Slovacchia sono fortemente contrari all’interruzione delle importazioni di gas russo per motivi di costi e di sicurezza energetica.
L’idea di azzerare le importazioni di gas russo è sorprendente perché siamo convinti che il raggiungimento di un nuovo ordine politico ed economico mondiale non può prescindere da un ristabilimento dei rapporti economici tra l’Unione europea e la Russia. La storia conferma ampiamente questa visione perché quando l’Europa ha provato a isolare la Russia, la prima a rimetterci è stata l’Europa. Non dimentichiamo poi che l’Italia ha sempre avuto ottimi rapporti economici con la Russia.
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Gli anni che seguirono videro il
sindacato schierato su nuovi fronti. La NEP aveva abolito le
requisizioni ai contadini, introdotto la tassa in natura e
permesso nuovamente il
commercio privato, con conseguente ripristino di
un’economia monetaria, insieme al reingresso in
economia sia del capitale
privato nazionale, incarnato nella figura del nuovo borghese,
il nepman, che di quello straniero.
In tale contesto il graduale, progressivo, ripristino di un’economia sofferente in tutti i suoi settori e affamata di investimenti, si collocavano all’interno di un modo di produzione sostanzialmente capitalistico, seppur “di Stato” e fortemente orientato dalla volontà politica del partito comunista di dirigere, indirizzare, condizionare l’andamento socio-economico con tutti i mezzi e le proprie capacità di azione e mobilitazione (SOPRATTUTTO la LOTTA DI CLASSE, per esempio completamente assente nel capitalismo con caratteristiche cinesi, a cui spesso questo periodo si accosta per analogia), lungo l’asse di una transizione e trasformazione continue, orientate a gettare le basi e far crescere sino ad allora i germogli di quel modo socialistico di produzione da esso auspicata.
E in un modo capitalistico di produzione, in un modo dove si riapriva alla possibilità di investire sia da parte del capitale privato, il nepman, che di quello straniero, anche la DIALETTICA CAPITALE-LAVORO, che come abbiam visto nel corso della Guerra civile e del Comunismo di guerra a qualcuno era parsa un termine ormai superato, anacronistico, tornava ora in auge.
Contestualmente a tale “ritorno”, anche la lotta di classe e, al suo interno, la questione salariale, assumevano di nuovo una sempre maggiore importanza: in tale quadro, anche i profsojuz tornavano a giocare NON SOLO un ruolo economico chiave, in quanto luogo deputato alla definizione e risoluzione di dinamiche contrattuali e rivendicazioni salariali, MA ANCHE un ruolo politico estremamente importante, mantenendo quella funzione mobilitante, costruttiva, NON SEMPLICEMENTE TRADUNIONISTICA, bensì ORIENTATA, MEGLIO, PROIETTATA VERSO LA COSTRUZIONE DEI PRESUPPOSTI (sia in termini di dotazione di risorse, che di costruzione di competenze) PER LA TRANSIZIONE AL MODO SOCIALISTICO DI PRODUZIONE.
[Ludovica Santarelli è una giovane studiosa che ha
da poco discusso all’Università di Roma Tre una tesi
intitolata: Guerra, violenza mediatica e censura. Il
caso Palestinese. Una parte del suo lavoro di ricerca si
è svolto tra
Istanbul e Roma. E proprio muovendosi a cavallo fra queste
due città cosmo, le due antiche capitali del mondo, ha
scelto di scrivere queste
poche pagine, un diario intimo e allo stesso tempo
politico, sulla distruzione di Gaza. Il suo sguardo,
severo, tragico, privo di risarcimenti
narcisistici, è quello di una generazione consapevole di
trovarsi senza riparo in un’età ormai estrema. (Daniele
Balicco)]
Istanbul, 15 Ottobre 2023
L’aria attorno alla stazione metro di Maltepe sembra essere tesa. Appena accanto alle scale mobili, un signore ha posizionato un mucchio di bandiere della Palestina e altri striscioni da vendere; sarà solo il primo di una lunga serie di venditori che incontrerò sulla strada per raggiungere il luogo della protesta. Poco più avanti noto i primi poliziotti; sul lato della piazza alcuni di loro si erano sistemati davanti alla camionetta, coperti da uno scudo. Mentre aspetto il mio collega, penso che abbiamo fatto bene a stampare dei tesserini da giornalista con i nostri nomi: “se si mette male, li indossiamo” mi aveva detto lui. Dal nostro punto di vista europeo, rispettivamente italiano e spagnolo, un evento del genere aveva tutte le carte in regola per sfociare in un’insurrezione; il fatto che fossimo in Medioriente non ci sembrava meno pericoloso. Ma i timori si rivelarono presto infondati.
La Turchia infatti, e in particolar modo il suo presidente Recep Tayyip Erdoğan, non ha mai nascosto il suo supporto alla nazione palestinese.
Per chi è cresciuto negli anni
d’oro di Star Trek, a cavallo tra gli Ottanta e i
Novanta, l’epoca attuale dovrebbe sembrare il paese dei
balocchi. Intelligenza
artificiale! Realtà virtuale! Teletrasporto quantistico!
Computer che parlano! Stampanti 3D! Certo, mancano le
astronavi – i mega-razzi di SpaceX continuano a
non essere all’altezza delle aspettative – e gli
extraterrestri, ma tutto il resto
è qui tra noi. Nel 1995 La fisica di Star Trek di
Lawrence Krauss parlava del teletrasporto di fotoni, che due
anni dopo il team di
Anton Zellinger (poi premio Nobel nel 2022) avrebbe
trasformato in realtà. Nel 1999 I computer di Star Trek
di Lois Gresh and Robert
Weinberg spiegava le difficoltà nel realizzare un’interfaccia
elettronica in grado di dialogare con un utente in modo
naturale, qualcosa
che oggi diamo praticamente per scontato.
Ma allora perché, tutto sommato, non ci sembra di vivere nel mondo di Star Trek? Perché la realizzazione di queste grandi promesse tecnologiche non sembra star cambiando davvero il mondo? Proviamo a rispondere a queste domande attraverso alcuni studi recenti sulle next big thing di questo decennio, ossia l’intelligenza artificiale e i computer quantistici. In entrambi i casi, vedremo che la realtà è piuttosto diversa dalle promesse.
Attento a quel che desideri
Spiega Matteo Pasquinelli in un suo saggio nel volume collettaneo AI & Conflicts 02 (edito da Krisis Publishing):
“Sarebbe in effetti giusto riformulare la domanda «Una macchina può pensare?» in una forma più sensata a livello teorico: «Un modello statistico può pensare?». L’intelligenza artificiale non è affatto «intelligente». È più accurato definirla come uno strumento di conoscenza o di amplificazione logica in grado di percepire schemi che vanno oltre le competenze della mente umana”.
(Pasquinelli in Cotimbo et al., 2025)
Il genocidio non si compie solo con bombe e bulldozer. Richiede anche penne, tastiere, microfoni. Serve un lessico. Una narrazione. Un volto rassicurante che renda l’indicibile tollerabile.
Ogni genocidio ha bisogno di una lingua. Non solo per essere raccontato, ma per essere consentito. Per sedimentarsi nel senso comune, per aggirare l’indignazione, per sfuggire al giudizio. Serve una semantica della neutralizzazione, un codice di rimozione. Da più di un anno e mezzo lo occultano in ogni modo.
Solo ora la stampa e le persone aprono gli occhi. Perché?
Qui entra in gioco quello che chiamo il volto interno del genocidio: non i carnefici in divisa, ma gli editorialisti in giacca. Non i generali, ma i grammatici. Coloro che traducono la carne bruciata in “effetto collaterale”, i corpi dei bambini in “danni asimmetrici”, la distruzione sistematica di un popolo in “autodifesa”, insomma quelli che per giustificare omicidi di bambini smobilitano il terrorismo, trucchetto dall’11 settembre ha fatto milioni di morti con ben poche accuse no?
In questo post parlo di giornalismo, sul nostro amato governo farò un altro post, ma necessito di ricerche più approfondite (che sto facendo).
Ho scelto alcuni nomi. Non perché siano i soli, ma perché emblematici. Perché rappresentano, nella loro differenza di stile e intenzione, una rete epistemologica compatta, che sostiene, giustifica, occlude. Maurizio Molinari, Paolo Mieli, Daniele Capezzone, Giuliano Ferrara, Claudio Cerasa, Mario Giordano, Beppe Severgnini: volti diversi di uno stesso apparato discorsivo.
La Cina
reagisce con savoir-faire alla guerra commerciale. Prova,
anzi, ad approfittarne per presentarsi al mondo come
l’alternativa al caos economico
dei dazi e la garante di una globalizzazione maggiormente
condivisa. È possibile un riavvicinamento con l’UE?
Può darsi che gli obiettivi complessivi che il presidente Trump mira a raggiungere con la sua campagna dei dazi non siano del tutto chiari, ma forse si può ricorrere a quanto scrive Kroebler (Kroebler, 2025) in proposito: «lo scopo della sua guerra commerciale è quello di rimuovere i vincoli imposti dall’attuale ordine economico internazionale sull’esercizio del potere unilaterale statunitense e in particolare l’esercizio del potere da parte del presidente…quello che Trump vuole soprattutto è di mostrare la sua dominazione sul mondo e di ottenere sottomissione. I paesi che non resistono attivamente ai suoi dazi verranno graziosamente risparmiati dall’imposizione di dazi troppo elevati, il paese che osa resistergli è selvaggiamente punito…».
La “crociata” contro la Cina viene da lontano
In tale quadro un paese in particolare è sotto tiro, la Cina, ai voleri da parte di chi si crede, a torto o a ragione, il padrone del mondo. Nella sostanza, peraltro, la “crociata” di Trump su questo fronte non appare in generale certo una novità. La lotta statunitense al paese asiatico è cominciata da molto tempo e, anche se essa ha acquisito contorni decisi a partire dalla presidenza Obama, tra l’altro con il suo pivot to Asia, i segni del conflitto erano evidenti già da diversi anni prima. In ogni caso da Obama in poi abbiamo assistito a un impressionante crescendo di ostilità. Ma tale offensiva è risultata del tutto fallimentare.
Il problema di fondo è che gli Usa sono spaventati dalla Cina.
Mentre scrivo siamo alla vigilia dello
sbarco al Cairo della Global March to Gaza, mentre verso la
stessa destinazione veleggia la collaudata Freedom Flottiglia.
Volontari egiziani di varie
associazioni sono pronti in Egitto per accoglienza e
successivo spostamento ad Al Arish e, poi, l’effettiva marcia
a piedi di 45 km fino al
valico di Rafah, da tempo sotto controllo israeliano.
Lì, inesorabilmente, i marciatori si areneranno. Mi ci sono arenato anch’io l’altro anno, assieme a Marc Innaro (l’ottimo e perciò demansionato collega RAI) e tanti altri prima e dopo di me. Colleghi appesi all’illusione che anche in Israele, cioè nella Palestina occupata, valesse il diritto universale della libera informazione, cardine della democrazia di cui Israele sarebbe l’unico rappresentante in Medioriente. La risposta è stata l’uccisione di 220 giornalisti di Gaza.
Bisognerebbe dire che ce n’è per fortuna già tanta, di attenzione mondiale sulla carneficina di Gaza, in cui si mira a bambini, donne, ospedali, scuole, rifugi, tende e, con particolare cura, a scheletri di affamati che si avvicinano dove mercenari USA, con pezzetti di formaggio, allestiscono trappole per topi. Lo dobbiamo a coloro, colleghi anch’essi, ma stanziali a Gaza, che per averci fatto vedere l’abisso della nequizia israeliana e del dolore palestinese, sono stati disfatti davanti a un computer e un cellulare, preferibilmente nella loro casa assieme a tutta la famiglia. E così che un baldo riservista della “Golani” può vantare due genitori e dieci figli fatti a pezzi con un missile solo, meritando che il ministro Katz gli appunti sul petto l’onorificenza per meriti sionisti.
Il dato di un rapporto tra partecipanti europei e arabi alla Global March, a spanne di 20 a 1, ci presenta una realtà storica inimmaginabile tra oggi e quando ebbi modo di trasmettere a Paese Sera dispacci sugli esiti delle battaglie tra l’esercito di Dayan e la coalizione araba. Questa, sì, zeppa di giovani volontari egiziani. libici, iracheni, siriani, giordani, yemeniti, perfino kuweitiani.
L’Ucraina ha dimostrato agli eversori che colpire in alto si può, impunemente e “low cost”. Gli alleati europei e americani si sono ficcati in una situazione scomoda, dalla quale converrebbe si sfilassero
Il presidente Trump ha rotto l’assordante silenzio sull’attacco ucraino alle basi russe dicendo di aver parlato con Putin di una eventuale risposta e divagando sull’Iran.
Intanto il potente Yermak, capo dell’ufficio di Zelensky, si è recato negli Usa per sollecitare nuove sanzioni e fornire spiegazioni sull’utilizzazione delle immagini satellitari e tecnologie statunitensi. Anche questa visita è probabilmente un gioco delle parti. In effetti, gli Usa con Biden hanno ceduto e condiviso immagini, dati e tecnologie anche più sofisticate, ma con l’impegno di non dirlo alle tv di tutto il mondo. Trump sta continuando sulla stessa linea, ma la bravata ucraina lo ha messo in difficoltà portando lo scontro al livello dei rapporti strategici diretti fra Russia-Usa. Nel colloquio fra i due leader è stata pronunciata una parola che è riverberata sia nel discorso di Putin ai governanti della federazione sia in quello di Trump sulle restrizioni agli ingressi negli Stati Uniti: terrorismo. Così il presidente russo ha definito i sabotaggi ai ponti e alle ferrovie e così ha definito gli attacchi alle basi aeree strategiche.
L’operazione militare speciale che stava per trasformarsi in guerra tra Russia e Ucraina si annuncia invece come guerra al terrorismo da qualsiasi parte provenga. In effetti l’attacco alle basi con i droni è stato un attacco di guerra diretto dai servizi segreti (Sbu) e condotto non dalle forze armate ma da operativi sostenuti da una rete di connivenza interna alla Russia, baldanzosamente ringraziata dallo stesso Zelensky.
Chongqing (sud-ovest cinese). Dall’alto di uno strambo edificio, costruito in orizzontale, a mo’ di ponte che unisce le cime di due grattacieli, osservo la vita che pulsa nelle arterie della più stramba, innovativa e gigantesca delle metropoli cinesi, Chongqing. Un posto dove i treni passano dentro gli edifici, le piazze stanno sospese nell’aria, e la notte i grattacieli si trasformano in una foresta incantata di luci e colori sfavillanti.
Sono al bar di uno stabile che l’illuminazione “smart” ha mutato in una smisurata tastiera di pianoforte, e sono assieme a Wang, brillante sociologo, reduci da un intenso dibattito sui rapporti tra Europa e Cina. Entrambi in vena di grandi discorsi, da sostenere con adeguato supporto alcolico. “Visto il disastro di un’Europa che tenta di nuovo il suicidio, caro Wang, mi viene in mente la famosa battuta sulla Scuola di Francoforte degli anni ’30 definita come ‘il Grand’Hotel sull’abisso’. Ma l’abisso non è quello che sta qui, sotto di noi, bensì il futuro del mio continente”.
La risposta di Wang mi colpisce per la sua acutezza anti-diplomatica. “Forse sei troppo pessimista e l’Europa non finirà col suicidarsi. Può darsi che dondoli a lungo sull’orlo dell’abisso, come la Cina dopo le guerre dell’oppio, e poi rinasca. Questo dicono le teorie sui cicli delle civiltà”.
Lo interrompo: “Lasciamo stare il Grand’Hotel, Wang, e parliamo del futuro. Secondo te, l’Europa potrebbe evitare l’abisso e proseguire dentro la stagnazione attuale. Nella quale si trova già, tra l’altro, da mezzo secolo. Possiamo dire, allora, che l’Europa ha i secoli contati. Ma cosa può succedere alla Cina nel frattempo?”.
La produzione russa di missili balistici Iskander e di missili ipersonici Kh-47M2 Kinzhal è aumentata in una percentuale compresa tra il 66,67% e l’88,89% nell’ultimo anno secondo i dati raccolti dall’intelligence militare ucraino (GUR) pubblicati ieri dal Kyiv Independent. La Russia produrrebbe attualmente secondo queste informazioni dai 60 ai 70 Iskander-M e dai 10 ai 15 Kinzhal ipersonici al mese.
Nel maggio del 2024 Mosca produceva 40 Iskander-M e nell’aprile dello stesso anno 4-5 Kinzhal al mese. I dati forniti dal GUR al Kyiv Independent mostrano che le scorte russe sono stimate oggi in “quasi 600 Iskander-M e oltre 100 Kinzhal”.
Alla fine del 2022, il capo dell’intelligence militare Kyrylo Budanov ha affermato che la Russia aveva quasi esaurito i missili balistici Iskander. Entro dicembre 2024, il portavoce del GUR Andriy Yusov aveva evidenziato che la Russia aveva aumentato la produzione a un numero compreso tra 40 e 50 missili Iskander al mese.
I dati forniti dal GUR allarmano l’Ucraina e l’Occidente anche perché evidenziano che la produzione russa di missili balistici supera oggi la produzione totale di missili PAC-3 MSE per i sistemi di difesa aerea Patriot, che Lockheed Martin spera di aumentare fino a 650 all’anno entro il 2027 e certo non tutte queste armi sarebbero destinate all’Ucraina.
Come sottolinea il rapporto dell’intelligence ucraina, altri sistemi occidentali come il SAMP/T e l’IRIS-T non si sono dimostrati efficaci contro i missili balistici.
«Perché? – Perché
l’universo non è una favola».
(Cixin Liu,
Nella quarta dimensione, 2018)
1. A questo punto devo dar conto del significato d’esistenza di quel “pianeta Marx” che sto lentamente esplorando e descrivendo in queste mie Cronache. Ho già detto altrove che, dopo Nietzsche, siamo consapevoli che ci sono i fatti ma pure le loro interpretazioni e che noi, che viviamo nei fatti, ci muoviamo secondo le interpretazioni che ce ne facciamo. Abitiamo così in due ambiti simultanei di esistenza: quello delle esperienze concrete (che rimangono personali e indicibili, dato che soltanto noi sappiamo quanto è veramente accaduto), ma pure dentro quei concreti di pensiero di cui ha detto Karl Marx nelle uniche pagine sul metodo che ha lasciato nella Introduzione alla critica della economia politica (1857) contrapponendo al “concreto fuori di noi”, che è «sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice», un “concreto dentro di noi” che altro non è se non «la riproduzione del concreto lungo il cammino del pensiero» come lo riflette il cervello, «come un tutto del pensiero che è un prodotto dal cervello che pensa e che si appropria del mondo nell’unico modo a lui possibile, almeno fino a quando il soggetto si comporta solo speculativamente, solo teoricamente». Certamente sono i fatti che inducono al pensiero (se nulla accade, nemmeno nulla si pensa), però su quei fatti noi ci facciamo dei penseri e sono questi che indirizzano il nostro comportamento nel confronto di quei fatti.
Ma ciascuno di noi si fa una rappresentazione di quanto gli accade non soltanto per sé, ma pure per comunicarla agli altri con la parola, lo scritto o con i gesti (che sono i “comportamenti non verbali”), ma per arrivare a questo bisogna inserire il “concreto di pensiero” dentro un ordine del discorso che possiede delle regole di costruzione proprie (mentre le regole della realtà restano fuori dalla porta), dovendosi scontare con gli altri una comunanza di linguaggio, di scrittura o di gestualità, perché altrimenti non ci si capirebbe.
Felice il
continente riscattato da eroi che non muoiono mai, e a volte
si reincarnano: Lumumba, Nyerere, Kenyatta, Samora Machel,
Agostino Neto, Nkrumah,
Senghor, Mandela, Sankara, con i loro popoli in lotta e, su
tutti, anche per longevità rivoluzionaria, Muammar Gheddafi.
Quali assassinati dal
revanscismo colonialista, quali incarcerati quasi a vita,
quali rovesciati da golpe diretti da fuori, quali
sopravvissuti a incessanti assedi e
sabotaggi.
ggi si chiamano Abdurahamane Tani (Niger), Assimi Goita Mali, Isaias Afeworki (Eritrea), Faye e Sonko (neoletti presidente e Primo Ministro del Senegal che hanno messo in discussione la manomorta di Parigi sul paese) e, su tutti per radicalità rivoluzionaria, Ibrahim Traoré in Burkina Faso. Forse la Storia ne narrerà come dei capitani che hanno fatto prendere il largo al continente, sottraendolo alla pirateria del colonialismo di ritorno.
Un vento nuovo percorre il continente dopo l’abbattimento di Muammar Gheddafi e la frantumazione della Libia, oggi divisa tra il parlamento e governo esiliatosi a Bengasi, prodotti dall’ultima elezione tenuta nel paese, e le bande golpiste islamiste di Tripoli, impegnate nel traffico di migranti e protette dall’esercito turco. Un regime, quello del premier Abdulhamid Dbeida, caro a Meloni e soci, fondato sul gangsterismo, arroccato a Tripoli e in poco più della Tripolitania, incredibilmente legittimato dall’ONU a dispetto di Bengasi, che invece controlla il resto del paese e la maggioranza delle sue risorse (il resto viene contrabbandato dalle bande di Tripoli con piena soddisfazione di alcuni paesi europei, in primis il nostro.
Della generazione dei grandi leader e ideologi della liberazione e dell’indipendenza, resta il presidente eritreo Isaias Afeworki. Dall’alba del decennio in corso, una parte cospicua del continente ha vissuto una scossa rivoluzionaria. Scossa che promette di contagiare il resto del continente, finora in buona parte assopito in una finta sovranità ed effettiva governance neocolonialista. Quest’ultima garantita dalla capillare e massiccia presenza militare di AFRICOM, comando delle Forze USA in Africa e delle sue basi.
Massimo Bontempelli: La conoscenza del bene e del male, ed. Petite Plaisance, 2025
Un libro
pensato innanzitutto per gli studenti e gli insegnanti si
espone al rischio di appiattirsi su un taglio manualistico
prettamente informativo –
opzione d’altronde assolutamente legittima, dato il contesto –
che abbina alla proliferazione dei dati di varia natura la
loro
semplificazione concettuale e l’oscuramento della tela di
fondo su cui essi si dispongono.
La finalità pedagogica, non sempre correttamente intesa, può spingere poi in direzione di un’attualizzazione brutale, cioè non opportunamente mediata sul piano culturale e storico, dei temi e problemi passati in rassegna, nell’illusorio per quanto comprensibile tentativo di rendere accattivanti argomenti indiscutibilmente ardui.
Ne risulta troppo spesso una superficialità vanamente mascherata dalla quantità delle informazioni e dal sussiego della forma espositiva che cerca di coprire attraverso la profusione del lessico specialistico la mancanza di originalità. Sono libri destinati al consumo scolastico, numi tutelari per verifiche e punteggi per gli studenti, puntello alla memoria per i docenti. Strumenti sicuramente utili agli uni e agli altri, ma nulla di più.
Un libro insegna nella misura in cui segna, cioè lascia un segno nello spirito di chi lo legge e non semplicemente sul registro, a maggior ragione se si propone di affrontare questioni filosofiche, vale a dire questioni che investono la verità, il bene, il significato del nostro essere al mondo, la coraggiosa contemplazione delle cose al di là del loro apparire, per dirla con Eraclito cui non a caso Massimo Bontempelli ha dedicato uno studio, Eraclito e noi, di prossima ristampa.
Ora, questo suo testo si inscrive a pieno titolo nella categoria dei libri che incidono, che cadono con la lama affilata di una rigorosa riflessione e di un’inesausta passione intellettuale su una materia tanto primaria ed essenziale, quanto maltrattata e trascurata.
E squarciano il velo, o meglio il sudario, dentro il quale essa è stata occultata, ai fini di rimuoverla dal piano filosofico per lasciarla andare alla deriva del gusto individuale o di un’estemporanea esperienza privata.
Non mi ha stupito che i partiti della pseudo “sinistra” abbiano indetto una manifestazione pro Palestina il 7 giugno, perché erano molti giorni che mass-media e parlamentari, quasi improvvisamente, sono caduti dall’albero del pero e hanno scoperto il massacro a Gaza (e in Cis-Giordania? Silenzio tombale!).
Quella del 7 giugno sarà la manifestazione degli ipocriti, ma su loro torno dopo.
La corsa affannosa che sto assistendo ora è nell’accusare Netanyahu e Likud di quanto avviene e di come il loro Stato sia altra cosa, anzi si riscoprono origini nobili e democratiche nello ‘Stato sionista’.
E’ perciò il caso di rimettere nella loro giusta luce le origini e cosa veramente erano.
Il primo sionismo è quello di Theodoro Herzl, promotore del ritorno degli ebrei in Palestina Mandataria, con l’idea di “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, peccato che la Palestina era ed è abitata dai discendenti degli antichi ebrei, nel tempo diventati cristiani o mussulmani o rimasti samaritani insieme anche ad ebrei palestinesi.
Già questa idea (“una terra senza popolo“) rivela la natura razzista del sionismo ed è chiara inquadrandola con i fatti di quel tempo.
L’idea di Herzl e dei sionisti, in un tempo di pogrom e persecuzioni varie (il caso Dreyfus, ecc), era di ritagliarsi un pezzo di impero turco con la complicità occidentale, inglese in particolare (l’Italia se ne ritagliò un pezzo in Libia).
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YOUTUBE, CANALE “MONDOCANE VIDEO” DI FULVIO GRIMALDI
Netaniahu, Trump, Rutte, Merz, Von der Leyen.
Disturbo Delirante Condiviso si chiama la sindrome che hanno in comune i dirigenti massimi della cosiddetta “Comunità Internazionale”. Di solito è un disturbo che accomuna coppie di criminali che reciprocamente si stimolano a compiere delitti efferati. Esempi: Bonny and Clyde, Al Capone e moglie, Bonnie Parker e Clide Barrow e, particolarmente vicini alla nostra coppia di testa, Myra Hindley e Ian Brady che ricordo dai miei tempi alla BBC imperversare nella Swinging London” assassinando, stuprando e torturando ragazzi e ragazze.
Così uno Stato che per ottant’anni ha fatto del furto, dell’esproprio, delle sevizie generalizzate, dell’usurpazione e dell’assassinio di massa fino al genocidio, la sua “biblica” ragione d’essere, si è ora dedicato, dopo quelle a Palestina, Libano, Siria, alla guerra totale all’Iran.
Uno Stato a regime esclusivista, autocratico, guerrafondaio, razzista e teocratico attacca senza motivo uno Stato inclusivista, pacifico, democratico, di potere islamico, con tanto di comunità ebraica libera e prospera al suo interno, considerata membro della famiglia nazionale al pari di tutte le altre confessionali ed etniche (da me intervistata e scoperta a suo agio in Iran e nettamente ostile allo Stato sionista).
Dopo l’aggressione a freddo di Israele all’Iran e la robusta risposta iraniana, e prima che eventi ulteriori ci travolgano, alcuni bilanci possono essere già fatti. In particolare credo che due considerazioni possano essere tratte.
La prima considerazione da fare è che il fallimento conclamato della politica di Donald Trump è l’ultima definitiva conferma che niente può modificare la rotta di collisione dell’Occidente a guida americana col resto del mondo. Trump non è mai stato un cavaliere bianco mosso da ideali di pacificazione, ma si è ritrovato a incarnare il ruolo di rappresentante di quell’America profonda che non ha interesse a proiezioni di potenza internazionale e vorrebbe mettere a posto le cose a casa propria. La sequenza dei fiaschi dell’amministrazione Trump, dai colloqui russo-ucraini, agli scontri di Los Angeles, all’attacco israeliano all’Iran mostrano chiaramente come tutte le promesse trumpiane di pacificazione internazionale e ripresa del mercato interno sono impercorribili. Non credo che Trump abbia ingannato volontariamente il suo elettorato. Credo che, più semplicemente, né gli USA né l’Europa siano più governati dal ceto politico che nominalmente li governa. Qui non è neanche questione di “Deep State”, perché siamo proprio al di fuori del perimetro statale, che serve soltanto da albero di trasmissione di decisioni prese altrove.
Ora, io so benissimo che ogni qual volta si introduce questo tema dei “poteri occulti” un sacco di babbei che si credono astuti cominciano ad agitarsi sulla sedia e a gridare al complottismo.
Andiamo dritti al punto. Il devastante attacco all’Iran da parte dell’etno-suprematista psicopatologico e genocida “scelto” insediatosi a Tel Aviv – una vera e propria dichiarazione di guerra – è stato coordinato nei dettagli con il Presidente degli Stati Uniti, il direttore del circo Donald Trump.
Questo Narciso, affetto da infantilismo, annegato nella pozza della sua stessa immagine, ha svelato il gioco, lui stesso, in un post sconclusionato. Punti salienti selezionati:
“Ho dato all’Iran una possibilità dopo l’altra per raggiungere un accordo”. Nessun “accordo”; in realtà, le sue richieste unilaterali. Dopotutto, ha affossato l’accordo originale, il JCPOA, perché non era il suo “accordo”.
“Ho detto loro che sarebbe stato molto peggio di qualsiasi cosa sapessero, prevedessero o avessero sentito dire”. La decisione di attaccare era già stata presa.
“Alcuni estremisti iraniani hanno parlato con coraggio, ma (…) ora sono tutti MORTI, e la situazione non potrà che peggiorare!”. Esultare è parte integrante della strategia.
“I prossimi attacchi già pianificati saranno ancora più brutali”. In totale allineamento con la strategia israeliana della “decapitazione”.
L’impresentabile ministro Tajani ha commentato l’attuale situazione in Medio Oriente affermando che “Non è la vigilia della Terza Guerra Mondiale”. E in un certo senso ha ragione. Più che una “vigilia”, l’aggressione israeliana all’Iran è infatti un tassello di una Terza Guerra Mondiale già in corso. Prenderne atto ci sembra la cosa più saggia.
Contro ogni minimizzazione e faciloneria sono tre anni che ne parliamo apertamente. L’offensiva espansionista della Nato a est, che ha obbligato la Russia a una reazione militare, non è stata figlia del caso, bensì di una precisa scelta strategica delle potenze occidentali (Stati Uniti in primis).
Di fronte alla crisi del mondo unipolare a guida americana, davanti al suo declino economico, sociale e morale, l’Occidente collettivo (molto utile in questo caso l’efficace sintesi putiniana) aveva due strade: trattare sui nuovi equilibri globali tendenti al multipolarismo, oppure provare a rinsaldare il proprio dominio utilizzando l’unico strumento in cui mantiene una certa superiorità: quello militare.
Com’è piuttosto evidente, la scelta è caduta sulla seconda opzione, dunque sulla guerra. Una guerra da farsi al più presto, prima che anche su quel terreno gli equilibri cambino.
Ovviamente il Medio Oriente, con al centro l’aggressività e l’espansionismo sionista, ha le sue peculiarità, ma anche la particolarissima agenda israeliana va vista dentro il quadro di un conflitto generale.
Israele bombarda Teheran per scatenare una guerra e riconquistare il consenso occidentale
Sembra non esserci fine al caos, alla distruzione e alla morte che Israele è determinato a infliggere al Medio Oriente.
In un atto di aggressione scioccante e immotivato, Israele ha lanciato nella notte un attacco aereo su larga scala contro diversi obiettivi di alto valore in Iran, tra cui la capitale Teheran. Gli attacchi hanno colpito non solo impianti nucleari e infrastrutture missilistiche, ma hanno anche assassinato figure chiave nella gerarchia militare iraniana: il generale Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle Forze Armate iraniane, e il generale Hossein Salami, comandante in capo del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC).
L’analista geopolitico Pascal Lottaz ha osservato che queste uccisioni mirate “si inseriscono perfettamente nella strategia militare di Israele, che prevede attacchi di ‘decapitazione’ contro nazioni che scelgono di sradicare. Lo hanno fatto con Hamas a Gaza, con Hezbollah in Libano, e ora se la prendono con la leadership dell’Iran, terrorizzando l’intera popolazione civile del Paese”.
Israele ha tentato di giustificare le proprie azioni come un attacco “preventivo” contro la presunta minaccia di un programma nucleare iraniano, un’affermazione priva di fondamento fattuale. Come ha osservato Lottaz:
Israele ha condotto una strage per rappresaglia a Gaza che dura da due anni, senza che un solo provvedimento serio fosse rivolto contro di loro per fermarli. Hanno fatto fuori circa centomila gazawi, al massimo hanno sentito qualche “vibrante protesta” da parte dell’Occidente.
L’Iran ha sottoscritto il JPCOA nel 2015 (in decimillesima parte ho partecipato e conosco l’Iran molto bene) e non sta facendo NESSUN PASSO verso la eventuale preparazione di materiale atto a costruire una bomba atomica.
Per verificare questo, comunque, esistono dei trattati internazionali ben precisi: l’Iran ha sottoscritto il NPT con il PA, e quindi la IAEA ha pieno controllo sulle azioni dell’Iran. Se sgarrano, la questione finisce subito in mano al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Trump negli ultimi mesi ha strepitato che l’Iran stava preparando l’Armageddon: prove ZERO.
È arrivato a intimare l’Iran a non arricchire più l’uranio. Questo non ha senso, perché impedirebbe anche la preparazione del combustibile per i reattori. Poi Trump al massimo può chiedere alla IAEA di impedire che l’Uranio sia arricchito a scopi bellici: questo si può fare.
Nella serata di ieri i Guardiani della Rivoluzione hanno affermato in una nota che le forze iraniane “hanno eseguito la loro risposta schiacciante e precisa contro decine di obiettivi, centri militari e basi aeree” in Israele nell’ambito dell’Operazione Vera Promessa 3. L’Iran ha lanciato un massiccio attacco di missilistico contro Israele con almeno 150 missili balistici riferisce l’IDF che ha intimato alla popolazione di entrare nei rifugi.
Esplosioni si sono registrate a Tel Aviv (anche presso il ministero della Difesa) e Gerusalemme oltre che si numerose installazioni militari e basi aeree. Segnalazioni di impatti di missili iraniani anche nelle regioni di Rahat e Ar’ara, nel Negev, area dove si trovano mo0lte basi militari.
La televisione di Stato iraniana ha confermato in serata quello che chiama “l’inizio degli attacchi missilistici iraniani” contro Israele, in rappresaglia per gli attacchi contro il suo territorio. Una dichiarazione segue di poco quella televisiva della Guida Suprema dell’Iran, che ha assicurato: “La nazione è con noi, con le forze armate e, se Dio vuole, la Repubblica Islamica sconfiggerà il regime sionista”.
Secondo il giornale statunitense Axios, che cita fonti israeliane, gli Stati Uniti hanno aiutato Israele a respingere l’attacco missilistico con l’impiego di aerei e missili anti-missile imbarcati sulle navi.
Non più tardi dello scorso 17 aprile abbiamo scritto su queste pagine che «il premier israeliano Benjamin Netanyahu è pronto a giocare il tutto per tutto, in un momento in cui nessuno è in grado di opporsi alla sua politica di potenza». Non possiamo far altro che constatare che i fatti, ovvero l’attacco israeliano del 13 giugno 2025 contro l’Iran, l’operazione Rising Lion (leone che si erge), confermano purtroppo la nostra valutazione di due mesi fa. Significativo il fatto che giovedì 12 giugno il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato fotografato mentre infilava un biglietto scritto a mano in una fessura del Muro Occidentale di Gerusalemme, il luogo di preghiera più sacro dell’Ebraismo. Venerdì 13 il suo ufficio non casualmente diffondeva una foto di questa nota manoscritta, in cui si leggeva: «Il popolo si solleverà come un leone».
L’espressione deriva dal versetto 23,24 del Libro dei Numeri della Bibbia, che recita testualmente:
«Ecco un popolo che
si leva come leonessa
e si erge come
un leone;
non si
accovaccia,
finché non abbia divorato la preda
e bevuto il
sangue degli uccisi».
Questo versetto fa parte della prima profezia di Balaam, profeta e mago non israelita, in cui egli predice la forza e la potenza di Israele, paragonandolo a un leone che non avrà pace finché non avrà saziato la sua fame, fino all’annientamento di tutti i propri nemici.
Un filo comune unisce in modo sempre più stretto Benjamin Netanyahu a Volodymyr Zelensky: entrambi vogliono o devono continuare a combattere guerre che hanno ampiamente dimostrato di non essere in grado di vincere sul campo di battaglia.
A ben vedere, entrambi gli statisti fanno di tutto per allargare il conflitto coinvolgendo l’Europa e la NATO contro la Russia o gli Stati Uniti contro l’Iran perché nessuno dei due ha raggiunto gli obiettivi militari che si era prefissato, né sembra essere in grado di raggiungerli in un futuro ragionevolmente breve.
Netanyahu aveva dato il via alle operazioni a Gaza il 27 ottobre 2023 in risposta all’attacco di Hamas di 20 giorni prima con l’obiettivo dichiarato di distruggere militarmente la milizia islamista palestinese. Che è stata indubbiamente indebolita ma non è stata annientata. A essere completamente distrutta è stata invece la Striscia di Gaza, che l’esercito israeliano ha occupato per poi ritirarsi da molte aree e in queste ore ricominciare ad avanzare per riprenderne il possesso di una parte.
Anche sugli altri fronti non è andata meglio. Israele ha distrutto molti centri del Libano meridionale e alcuni quartieri di Beirut uccidendo molti miliziani di Hezbollah che però mantiene ampie capacità militari.
In Cisgiordania gli scontri continuano e la minaccia di riempire la regione di colonie ebraiche e cacciarvi i palestinesi non si è ancora concretizzata mentre in Siria gli israeliani hanno occupato la regione meridionale pur senza aver subito attacchi da quel confine dopo la caduta del regime di Bashar Assad.
“L’Unione europea non è in guerra, ma viviamo in tempo di guerra e dunque dobbiamo mettere da parte i nostri occhiali da tempo di pace e prepararci a essere in forma per combattere”.
Queste inquietanti dichiarazioni sono state rilasciate dal commissario europeo alla difesa e Spazio, il lituano Andrius Kubilius, nel suo intervento allo European Defence&Security Summit 2025 in corso a Bruxelles.
I guerrafondai europei continuano così a creare un clima bellico e a veicolare messaggi conseguenti nelle propria opinione pubblica.
“Putin non ha intenzione di fermarsi”, neanche in caso di pace in Ucraina, ha detto il commissario europeo, e “questa volta andrà contro l’Ue”, come “i nostri servizi di intelligence ci stanno avvertendo”. Dunque l’unico deterrente per dissuaderlo dal mettere in pratica i suoi “piani di aggressione contro di noi, l’Ue e gli Stati membri della Nato è la forza”.
Secondo il commissario europeo occorre costruire un’industria della difesa e un’Unione europea della difesa basata su un’Europa indipendente, anche se “la Nato rimarrà sicuramente una spina dorsale della nostra difesa collettiva”.
Kubilius ha ripreso il concetto di “Pax europea” formulato dalla Von der Leyen ad Aquisgrana due settimane fa e per ottenerla e mantenerla, occorre una Ue autonoma. E la prima indipendenza necessaria, ha affermato, è quella della difesa.
Questa è la fine. L’ultimo capitolo intriso di sangue del genocidio. Finirà presto. Settimane. Al massimo. Due milioni di persone sono accampate tra le macerie o all’aperto. Decine di persone vengono uccise e ferite ogni giorno da proiettili, missili, droni, bombe e proiettili israeliani. Mancano di acqua pulita, medicine e cibo. Sono giunti al collasso. Malati. Feriti. Terrorizzati. Umiliati. Abbandonati. Indigenti. Affamati. Senza speranza.
Nelle ultime pagine di questa storia dell’orrore, Israele sta sadicamente aizzando i palestinesi affamati con promesse di cibo, attirandoli verso la stretta e congestionata striscia di terra di quindici chilometri che confina con l’Egitto. Israele e la sua cinicamente chiamata Gaza Humanitarian Foundation (GHF), presumibilmente finanziata dal Ministero della Difesa israeliano e dal Mossad, sta trasformando la fame in un’arma. Sta attirando i palestinesi nella parte meridionale di Gaza come i nazisti convinsero gli ebrei affamati del ghetto di Varsavia a salire sui treni diretti ai campi di sterminio. L’obiettivo non è sfamare i palestinesi. Nessuno sostiene seriamente che ci siano sufficienti centri di cibo o aiuti umanitari. L’obiettivo è stipare i palestinesi in complessi pesantemente sorvegliati e deportarli.
Cosa succederà dopo? Ho smesso da tempo di cercare di predire il futuro. Il destino ha il suo modo di sorprenderci. Ma ci sarà un’esplosione umanitaria finale nel mattatoio umano di Gaza. Lo vediamo con la folla crescente di palestinesi che lotta per ottenere un pacco di cibo, che ha portato appaltatori privati israeliani e statunitensi a uccidere almeno 130 persone e a ferirne oltre settecento nei primi otto giorni di distribuzione degli aiuti.
Riceviamo e diffondiamo questo bell’invito a “vivere nella verità”
«Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello
che basta alle mie mani»
F. De André
L’abbaglio
Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione.
Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere.
Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento.
Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1
Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, a oggi, non possiamo più permetterci.
Secondo l'autorevole quotidiano economico americano la Cina starebbe vincendo la guerra tecnologica con gli USA. A fare la differenza la programmazione di lungo periodo del PCC
Non è certamente passato inosservato né nelle cancellerie di tutto il mondo, né tra gli osservatori più attenti l'articolo del Wall Street Jornal del 30 Maggio dal titolo “The U.S. Plan to Hobble China Tech Isn’t Working”, nel quale si sostiene apertamente che la Cina stia vincendo la disfida tecnologica con gli USA e che la strategia di contenimento implementata da Washington si stia dimostrando del tutto inadeguata per raggiungere l'obbiettivo prefissato.
L'estensore del pregevole articolo, Christopher Mims, elenca in maniera puntuale tutte le tappe principali di questa mortale partita a scacchi che Washington ha deciso di intraprendere contro Pechino. Una partita molto sottovalutata, anche perchè si è svolta – senza esclusione di colpi – mentre tutti o quasi erano distratti dal conflitto bellico in corso in Ucraina.
Secondo Mims la strategia di contenimento tecnologico è iniziata durante la prima presidenza Trump, quando nel 2018, l’allora segretario al commercio Wilbur Ross ha tagliato la società di telecomunicazioni cinese ZTE dalla tecnologia statunitense, ad esempio in relazione ai microchip, per le preoccupazioni per la sicurezza nazionale.
Che cosa insegna l’esito di questi referendum?
Conta chi, o contro chi, si promuove il voto. Il contenuto è secondario, e non si distingue un’elezione (in cui si dà una delega in bianco per il Parlamento o altri organi elettivi) da un referendum (in cui invece ci si esprime con un sì o con un no, nella più pura forma di democrazia diretta).
In ordine di importanza, la prima causa dell’astensione è stata la mancanza di credibilità dei suoi organizzatori. Ovvero la CGIL, considerata tutt’uno con il PD e la “sinistra” (mentre Radicali, +Europa, Rifondazione Comunista non sono stati neppure considerati, per la loro inconsistenza mediatica e politica). Il merito dei quesiti ha scontato questa pecca originale, che deriva da decenni di auto-affondamento delle proprie ragioni storiche da parte di un centrosinistra colpevole di aver dato l’avvio legislativo alla precarietà (pacchetti Treu, 1997, ampliati poi dal centrodestra con la legge Biagi-Maroni, 2003), con un sindacato “rosso” che, pur avendo mantenuto una linea più critica, ha abbracciato il metodo della concertazione.
L’astensionismo che ha fatto davvero male, in questa tornata referendaria, non è stato né quello fisiologico di destra, scatenato specialmente da una proposta di abbreviare i tempi della cittadinanza agli stranieri, completamente sfasata rispetto alle urgenze del dibattito, né quello, divenuto anch’esso normale, del rifiuto a priori della partecipazione al voto, che via via si è fatto sempre più stabile (alle ultime europee ha votato solo il 48% degli aventi diritto — vedremo alle prossime politiche — posto che l’astensione è perfettamente legittima e più che comprensibile).
Mi fa ovviamente molto piacere che tanta gente abbia partecipato alla manifestazione di ieri a Roma per chiedere la fine del genocidio in corso a Gaza. Mi fa piacere solo e soltanto per i palestinesi che hanno bisogno di qualsiasi iniziativa che sostenga la loro causa. Del resto, ubi maior, minor cessat. La questione palestinese è ben più importante di qualsiasi altra bega politica o “politicista”. E tante persone hanno scelto di partecipare ieri in solidarietà con il popolo di Gaza, anche se critiche o distanti, in molti casi, nei confronti delle forze politiche che hanno promosso l’evento.
Chiarito questo, è bene però ribadire alcune questioni fondamentali. Del resto, il nostro giornale, L’Interferenza, è nato per cercare di fare analisi politica lucida e razionale, non certo per portare acqua al mulino di nessuno. La porteremo solo se e quando si creeranno le condizioni necessarie e sufficienti per farlo, cioè se e quando nascerà una nuova forza autenticamente Socialista, popolare e di classe, in grado di costituire una reale alternativa politica ai due poli e all’ordine sociale esistente.
Quella di ieri è stata una manifestazione preelettorale, diciamo una sorta di “prova tecnica di trasmissione” del cosiddetto “campo largo” (in questo paese siamo specialisti nelle formulette…), cioè delle forze politiche che l’hanno promossa (PD e AVS con la successiva e quasi contestuale adesione del M5S) che si apprestano a competere con la coalizione di centrodestra per il governo del paese.
Quasi 80 milioni di euro l’anno per costruire un ecosistema mediatico filo-europeo: così l’Ue influenza il discorso pubblico
Thomas Fazi ha analizzato il complesso sistema di sovvenzioni con cui le istituzioni europee sostengono agenzie di stampa, emittenti pubbliche e progetti giornalistici in tutta Europa. In un rapporto realizzato per MCC Brussels, un think tank ungherese, il saggista italo-inglese solleva interrogativi sulla trasparenza dei meccanismi di finanziamento, sulla neutralità degli obiettivi dichiarati e sul ruolo dell’Unione europea nel definire quella che viene considerata informazione «affidabile». Fazi ricostruisce l’impatto di questa rete di finanziamenti sull’ecosistema mediatico europeo e sulla capacità dei media di svolgere il loro ruolo di contropotere democratico.
* * * *
In un nuovo rapporto esclusivo per MCC Brussels – «La macchina mediatica di Bruxelles: il finanziamento Ue ai media e la formazione del discorso pubblico» – rivelo l’esistenza di un vasto sistema, finora scarsamente esaminato, attraverso il quale l’Unione Europea eroga ogni anno quasi 80 milioni di euro a progetti mediatici in tutta Europa e oltre.
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Attacco all’Iran. Just in
time
Mentre scriviamo queste righe, ci troviamo in piena bagarre. Azioni, reazioni, risposte e controrisposte tra Israele e Iran, chiaramente sempre con Israele che, come da consuetudine, ha incominciato, hanno ormai assunto una loro cadenza quasi autonoma, sul cui andamento a fare previsioni si può essere certi solo di sbagliare.
Altra certezza è che per il futuro prevedibile ciò che ci capiterà sarà una caterva di bugie israeliane, con analoga improntitudine ripetute e rafforzate dallo schieramento dei gazzettieri ontologicamente embedded. I nostri. E una lunga consuetudine di manipolazioni, spesso solo molto più tardi rivelatesi tali, ci conforta sul fatto che tra versioni ucraino-occidentali e versioni russe, come tra le israelo-atlantiche e quelle dei nemici designati, hanno sistematicamente più rilevanti addentellati con la realtà i secondi.
Nel caso specifico a questo dato dà irreversibile consistenza il fatto che chi ha iniziato è colui che attribuisce alla controparte una colpa indimostrata per esso, ma assolutamente consolidata per se stesso: la disponibilità di armi atomiche e la facoltà di usarle. Facoltà agevolata dall’ulteriore dato che l’aggressore iniziale non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, la vittima iniziale, sì. E che l’aggressore iniziale non consente ispezioni dell’agenzia ONU a ciò deputata, mentre la vittima iniziale, sì. Da decenni. Con risultati che fin qui lo hanno confermato innocente di qualsiasi violazione di quanto sottoscritto. Violazione pur accanitamente sostenuta dall’aggressore bomba-dotato.
In particolare risulta smentita da documenti, immagini e da testimonianze spesso dal sen sfuggite, la pervicace minimizzazione che l’ufficialità israeliana compie rispetto a vittime e danni subiti, sia nel corso degli attuali bombardamenti iraniani, sia nei quasi venti mesi di confronto con i combattenti di Hamas. Il ministero della Difesa, cuore e mente dell’apparato militare israeliano a Tel Aviv, centrato in pieno, risulta solo “lievemente danneggiato da esplosioni nelle vicinanze”.
Nella
tragica vicenda in corso, tra il 13 e il 15 giugno di questo
2025. Il 13 Israele ha attaccato
unilateralmente, l’operazione “Rising Lion”,
attaccando brutalmente l'Iran mentre si stava negoziando sul
programma
nucleare, e questi ha risposto poco dopo con l’operazione “True
Promise III” che al momento si è materializzata in
attacchi ibridi da più direzioni con centinaia di missili
balistici di varia natura e modernità e droni. Questi hanno
perforato a decine
la difesa a quattro strati israeliana, probabilmente
supportata anche da aerei e mezzi navali Nato, colpendo
bersagli civili (fabbriche, aeroporti,
porti, raffinerie) e militari (centri di comando e controllo).
L’attacco israeliano, che si pone nella posizione oggettiva dell’aggressore, è stato condotto con aerei (circa 200, la metà di quelli teoricamente disponibili) F-35, F-16 e F-15, dei quali almeno 3 abbattuti (pare F-35), e droni con partenza da prossimità (occultati come da esempio ucraino di poche settimane prima) e sabotatori. I bersagli sono stati, da parte israeliana, i siti nucleari e di ricerca iraniani (a Natanz, Fordow, Esfahan e Arak), gli aeroporti militari, i radar e silo di missili, l’importantissimo South Park gas Field, alcuni edifici residenziali ad alta densità a Teheran (es. il Nobonyad Square), alcuni stabilimenti industriali, poi Israele ha ucciso con attacchi mirati nelle proprie case, alcuni comandanti del IRGC come Hossein Salami, Mohammad Bagheri, Gholam Ali Rashid, Amir Ali Hajizadeh, Ali Shamkhani, e scienziati nucleari come Fereydoon Abbasi e Mohammad Mehdi Tehranchi.
Il contrattacco iraniano, sempre alla data di oggi, ha colpito Tel Aviv, Bat Yam, Rehovot, Gerusalemme e Tamra nella prima ondata, e Haifa, Rishot LeZion, Kiryat Ekron e di nuovo Tel Aviv e altre nella seconda. Gli attacchi si sono concentrati su basi militari e aeroporti, ma anche sulle infrastrutture energetiche, colpendo la raffineria Bazan di Haifa nella quale le attività sono parzialmente sospese e ci sono danni agli oleodotti, e sulle strutture portuali.
Ritengo i fatti solo occasionalmente connessi con il 'casus belli' del programma nucleare (civile) iraniano, ma da inquadrare in primo luogo nella Grande Strategia Israeliana di liberarsi degli avversari sciiti e di coloro che potrebbero ostacolare il piano, vitale per le prospettive di lungo termine, del “Patto di Abramo” [1] un asse infrastrutturale ed energetico che parte dall'India per sboccare ai porti israeliani, passando per l'Arabia Saudita[2].
In una conferenza che ha tenuto all’Accademia
delle Scienze di Russia, a Mosca, l’antropologo francese ha
illustrato come la Russia stia consolidando la propria
posizione, in base a fattori demografici, sociali e
culturali. Una visione che si distanzia
nettamente dall’opinione dominante in Occidente, offrendo
spunti di riflessione scientifica e geopolitica. Gli Stati
Uniti stanno affrontando
una crisi profonda e strutturale. Declino industriale,
collasso educativo e nichilismo culturale ne sono i sintomi
più evidenti. Il degrado,
secondo Todd, si manifesta in molteplici ambiti:
dall’erosione della base manifatturiera alla crisi del
sistema scolastico, fino allo
svuotamento dei riferimenti religiosi. Nella sua visione, la
cosiddetta «rivoluzione Trump» rappresenta una reazione a
questa sconfitta.
Pur riconoscendo nel trumpismo alcune intuizioni valide –
come il protezionismo, l’apertura al dialogo con la Russia e
la critica al
globalismo – Todd evidenzia anche aspetti distruttivi. La
sua diagnosi finale è pessimista: senza coesione religiosa,
con una struttura
familiare iper-individualista e una classe dirigente
indebolita, l’America rischia di andare a pezzi.
* * * *
Tenere questa conferenza mi intimorisce. Tengo spesso conferenze in Francia, in Italia, in Germania, in Giappone, nel mondo anglo-americano – quindi in Occidente. In quei casi, parlo dall’interno del mio mondo, con una prospettiva certamente critica, ma comunque interna. Qui invece è diverso: sono a Mosca, nella capitale del Paese che ha sfidato l’Occidente e che senza dubbio riuscirà in questa sfida. Sul piano psicologico, è un esercizio completamente diverso.
Tre giorni di conflitto tra Israele e Iran e il mondo si è dimenticato del povero Zelensky. Ricordate Zelensky? Quello che aveva vinto "Ballando con le stelle"? Quello che aveva la stessa simpatica maglietta verde da tre anni a questa parte? Ecco, quello che sta succedendo è che, non appena le telecamere si sono spostate, anche il flusso di armi e finanziamenti (in particolare americani) si sono interrotti di botto. Proprio istantaneamente. E le stesse attività di intelligence e di informazione satellitare americane ora devono essere almeno in parte riorientate sul Medio Oriente.
E nonostante il piglio bellicoso della von der Leyen e la minaccia di scatenare sul fronte russo una Kallas idrofoba, in verità, se si allenta il contributo americano, l'Ucraina ha letteralmente le ore contate.
Ora, grazie all'incontinenza suprematista di Israele, il gioco sulla scacchiera internazionale si è fatto improvvisamente terribilmente complesso e in parte caotico.
Gli USA, essendo una proxy israeliana (e non viceversa), difenderanno a qualunque costo Israele. Questa è l'unica ragione per cui Nethanyahu si è azzardato a un passo potenzialmente devastante per il proprio paese. Senza supporto logistico, rifornimenti, informazioni satellitari, e intercettazioni americane Israele non avrebbe nessuna speranza in una guerra convenzionale prolungata con l'Iran. Ma Nethanyahu sa che, quando la situazione dovesse farsi davvero grave, lo zio Sam entrerà in scena direttamente.
Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2025, il cielo del Medio Oriente si è incendiato, di nuovo, era previsto, prevedibile. Netanyahu, come ogni coraggioso terrorista dedito all’instaurazione dell’eterno assedio, si era nel frattempo rifugiato in un bunker statunitense a Cipro, insieme al primo ministro Benny Gantz, gesto che sarebbe grottesco, se non fosse perfettamente coerente con la drammaturgia bunkerocentrica della politica israeliana contemporanea, Le sirene a Tel Aviv e Gerusalemme, i razzi su Haifa, i bagliori sulle acque scure del Golfo Persico.
I titoli si sono rincorsi: “Missili iraniani su Israele“. “Raid israeliani su Teheran“. E ancora: “Il giacimento di South Pars in fiamme“. “Decine di morti tra i bambini“.
Ma su Gaza, nessun titolo.
Perché Gaza è rimasta cieca. Nella notte precedente, l’ultimo ripetitore radio della Striscia è stato colpito. Le voci si sono spente. Gli occhi elettronici che ancora scrutavano tra le macerie si sono oscurati. Mentre il mondo scrutava i cieli sopra Israele e l’Iran, i droni e gli F-16 hanno continuato il loro volo basso sopra Khan Younis, sopra Rafah, sopra i centri di distribuzione del pane. E sopra i corpi.
Gaza, oggi, è la nota stonata in una sinfonia di deterrenza e rappresaglia. Un frammento di mondo che si consuma al buio, nella più totale assenza di sguardi.
Scacco matto. Il criminale di guerra Benjamin Netanyahu resta in piedi. Lo credevamo finito, abbandonato dalle stesse lobby della guerra, delle armi, di Israele. Le invettive della maggioranza politica e dello spazio mediatico, inesistenti in precedenza, ci avevano fatto ben sperare. Invece ha di nuovo mischiato le carte con un’azione annunciata da anni: l’attacco all’Iran.
Israele, uno Stato di 9 milioni di abitanti che non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) e possiede illegalmente l’atomica, attacca senza alcuna giustificazione un Paese di 92 milioni di abitanti, firmatario del Tnp, che si è sottoposto alle ispezioni dell’Aiea e, sebbene ne abbia le capacità, ha fino a oggi rinunciato a fabbricare l’atomica, utilizzando l’arricchimento di uranio per scopi civili, come consentito dal trattato.
Tulsi Gabbard, attualmente dirigente dell’intelligence statunitense, ha dichiarato in numerose occasioni che non vi era alcuna prova dell’arricchimento di uranio a fini militari. Del resto, non era interesse dell’Iran sfidare non solo l’Occidente, ma anche la Russia e la Cina che hanno sempre chiesto il rispetto del Tnp.
Si tratta quindi, come per la guerra all’Iraq, di una menzogna condivisa dalle democrazie europee, facilitata da Rafael Grossi, direttore dell’Aiea, di stoffa diversa rispetto ad alcuni suoi predecessori come lo svedese Hans Blix che si oppose, difendendo la verità, alle pressioni statunitensi alla vigilia dell’attacco a Baghdad.
Uno sguardo senza sconti su Gaza, la propaganda occidentale e la complicità dell’ipocrisia italiana
Ci sono parole che pesano come macigni, e nomi che funzionano come barriere semantiche: appena vengono pronunciati, si attiva un sistema immunitario che sterilizza ogni possibilità di dibattito. “Genocidio” è una di queste. “Israele” è l’altra. Quando le due si incontrano nello stesso discorso, il pensiero libero viene disinnescato, la logica si dissolve, e l’analisi viene ridotta a insinuazione. Chi osa criticare Israele è etichettato come antisemita, chi difende i palestinesi è sospettato di appoggiare il terrorismo, chi parla di crimini di guerra è accusato di odio razziale. In questa zona grigia del discorso pubblico, la voce di Piergiorgio Odifreddi irrompe con la forza di un’evidenza che non si può più eludere.
Nel corso di un’intervista lunga, complessa e senza sconti concessa alla piattaforma Ibex, Odifreddi smonta, con lucidità chirurgica e rigore logico, le fondamenta del consenso occidentale attorno a uno degli ultimi progetti coloniali del nostro tempo: lo Stato d’Israele nella sua configurazione attuale, governato da una destra ultra-nazionalista, sostenuto militarmente dalle potenze occidentali, e inchiodato a una strategia che da decenni fa della repressione e della disumanizzazione la sua grammatica politica.
La prima frattura intellettuale che Odifreddi affronta è quella tra il progetto sionista originario e ciò che lo Stato israeliano è diventato. Il sogno di una “terra per un popolo senza terra” si è rapidamente trasformato, già nel dopoguerra, in un processo sistematico di espropriazione, sostituzione etnica e annessione.
Quando il 3 giugno scorso il capo dell’intelligence turca Ibrahim Kalin è atterrato a Tripoli per una missione complicata ma necessaria (innanzi tutto per i Turchi), forse non si aspettava che il suo convoglio fosse preso di mira da colpi di Kalashnikov. Ma forse nemmeno è stato colto così di sorpresa.
A sparare sono stati gli uomini di Abdel Raouf Kareh, legato alle Forze di Deterrenza. Mentre il convoglio che scortava Ibrahim Kalin era composto dagli uomini di Abdullah Trabelsi, fratello di Imad Trabelsi, niente meno che ministro degli interni del governo illegale, criminale e ormai pericolante di Abdulhamid Dabaiba. I due fratelli, per altro, sono considerati criminali internazionali, ma fino a questo momento a Tripoli nessuna porta gli è stata preclusa.
La missione di Ibrahim Kalin era delicata. Il messaggio che doveva recapitare al governo di Tripoli era il seguente: “Il tempo sta per scadere, se dovete fare qualcosa, fatela adesso”. E forse avrà pure aggiunto: “Non siamo più disposti a proteggere le milizie e i loro capi”. Anche se non l’ha aggiunto, tutti hanno capito a Tripoli che il senso del suo viaggio fosse quello.
La Turchia ha ormai un altro piano, in Libia, risultato di un lungo e paziente lavoro diplomatico che dai giorni di fine 2019 (quando la Turchia decise di schierare i propri uomini a Tripoli a difesa della città dall’avanzata dell’Esercito Nazionale Libico di Haftar) a oggi ha praticamente rivoluzionato, non solo la politica turca in Libia, ma gli equilibri stessi nel Paese.
Il colonialismo sionista,
l’ipocrisia occidentale e la verità negata: perché la
Palestina oggi non ha futuro — e perché abbiamo il
dovere
morale di dirlo.
Non è (solo) Netanyahu. È Israele. È il suo sistema. È la sua ideologia fondativa. È l’impalcatura culturale, religiosa e militare che regge da decenni uno Stato costruito sulla rimozione sistematica del popolo palestinese e sulla trasformazione della propria identità da rifugio per un popolo perseguitato a potenza teocratica, fanatica e colonialista.
La narrazione dominante in Europa – e, in modo ancora più accentuato, negli Stati Uniti – racconta una favola rassicurante: che esisterebbe un “buon Israele” laico, democratico, pluralista, insidiato solo recentemente da un estremismo politico incarnato da Benjamin Netanyahu e dai suoi alleati ultranazionalisti e ortodossi. Ma questa narrazione è falsa. O meglio: è consolatoria, perché serve a scindere ciò che invece è organicamente unito.
La verità è che Netanyahu non è un incidente. Non è un’eccezione. Non è neppure una degenerazione. È l’espressione più efficace – e oggi più trasparente – del sionismo contemporaneo. E il sionismo, nel 2025, non è più una dottrina di autodifesa ebraica. È diventato, nella sua forma concreta e statuale, una dottrina suprematista, segregazionista, esclusivista. È l’unica ideologia politico-religiosa del mondo occidentale a essere ancora al potere in uno Stato armato fino ai denti, che gode dell’impunità diplomatica delle democrazie occidentali e del sostegno economico-militare di Washington.
Il problema non è la destra. Il problema è la maggioranza. Perché anche oggi, mentre i carri armati devastano Gaza e gli F-16 colpiscono il nord dell’Iran, meno del 20% degli israeliani dichiara di opporsi in modo netto alla politica estera e militare del proprio governo. Un dato in calo, secondo le rilevazioni del Israel Democracy Institute. La maggioranza della popolazione sostiene le operazioni militari, la retorica dell’annientamento del nemico, la giustificazione preventiva dell’uso della forza come unica grammatica geopolitica.
Bambini col
cranio forato, intere famiglie cinicamente massacrate,
ambulanze colpite da missili, un intero popolo ridotto
alla fame fino a crepare, ospedali
bombardati senza scrupolo, giornalisti deliberatamente
uccisi (oltre 200), navi umanitarie sequestrate in acque
internazionali...cos’altro
ancora dopo quasi 60.000 morti accertati e 170.000
dispersi, di cui 21.000 bambini? Nonostante ciò, la
mattanza continua con la volontaria
complicità del civile Occidente, che invia armi e
sostegno morale per concludere la mattanza (Stati Uniti,
Germania e Italia in primis).
Nel 1996 lo storico Daniel J. Goldaghen pubblicò un corposo pamphlet il cui titolo provocò un forte dibattito tra gli storici: I volenterosi carnefici di Hitler. La tesi del libro consisteva nel fatto che per capire il passaggio all’atto dell’eliminazione degli ebrei non erano sufficienti teorie che si basavano sulla coercizione all’eccidio (i militari erano costretti a uccidere), ne tanto meno che la responsabilità cadesse ai soli organizzatori dello sterminio, “meschini burocrati”. Ciò che restava ancora da indagare in modo approfondito, era la partecipazione individuale di intere masse popolari, di singoli intellettuali, di figure appartenenti agli apparati propagandistici di stampa, e indotti a promuovere la necessaria eliminazione degli ebrei. Il libro indagava il passaggio dall’astratto al concreto: dietro una struttura burocratica vi sono eserciti costituiti da singole persone, le quali interiorizzano gli ordini, vestono le idee, praticano i pregiudizi e li mettono in opera. Un intero sistema votato alla violenza fino allo sterminio, che non potrebbe esistere senza questi volenterosi carnefici.
Per fare un genocidio occorre una complessa macchina non solo burocratica (statale) e militare, ma si rende necessaria la partecipazione attiva di tutti i singoli individui, che chiamiamo astrattamente “pubblico” o “masse”, oppure “popolo”. A ciò, naturalmente, si aggiunge il lavoro della macchina astratta, incarnata dal politico, dal lobbista, dal propagandista, dal giornalista.
NIMA ALKHORSHID: Ciao a tutti. I nostri amici Richard Wolff e Michael Hudson sono di nuovo con noi. Benvenuti.
Cominciamo con Lindsey Graham e la sua ultima
visita in Ucraina. Non solo Lindsey Graham, Blumenthal
e Mike Pompeo sono
andati in Ucraina. Ecco cosa ha detto Lindsey Graham:
(Lindsey Olin Graham è un politico, militare e
avvocato statunitense, attuale senatore
per lo stato della Carolina del Sud, è il neocon
guerrafondaio che piace a Zelensky e alla Regina Von
der Leyen, NdR)
LINDSEY GRAHAM: La Russia ha detto che l’Ucraina non ha buone carte. Beh, la Russia è molto più grande e ha molta più popolazione. Lo capisco. Ma il mondo ha molte carte contro la Russia. E una di queste carte che abbiamo sta per essere giocata al Senato degli Stati Uniti. In America, ci sono più di una persona al tavolo delle trattative. Abbiamo tre rami del governo, e la Camera e il Senato sono pronti ad agire. Cosa ci farebbe cambiare idea? Se la Russia si sedesse al tavolo delle trattative, accettasse un cessate il fuoco, e con serietà.
* * * *
NIMA ALKHORSHID: Richard, una delle carte di cui parla sono i dazi secondari del 500% sull’energia russa, che sappiamo influenzerebbero Cina, India e, alla fine, l’Europa. La tua opinione?
RICHARD WOLFF: Beh, Lindsey Graham è stato un senatore sbruffone per tutta la sua carriera. Questo è tutto teatro. Lui è stato tutto teatro. Lui è tutto teatro.
Ha radunato i molti altri membri di entrambe le Camere che, come lui, sono attori nell’anima e politici solo in secondo luogo. Questa è spettacolarità. Tutto qui. È qualcosa che ha deciso migliorerà la sua reputazione laggiù nel Sud degli Stati Uniti, da dove proviene e dove viene eletto da persone che approvano quel tipo di teatralità, anche se la loro situazione reale sta peggiorando.
L’ordine occidentale contemporaneo si regge sulla capacità di neutralizzare il conflitto attraverso il discorso, di convertire la realtà storica in narrazione funzionale, di trasformare la guerra in umanitarismo. Giorgio Agamben ci ha mostrato come “lo stato d’eccezione tenda a imporsi come forma legale di ciò che, per definizione, non può avere forma legale”. Sicché è dentro questa logica che si inscrive la gestione occidentale della crisi mediorientale, in particolare dopo il 7 ottobre 2023: un evento che ha segnato il punto di emersione - ovviamente, non l’inizio - di un processo coloniale lungo un secolo. Ma ciò che conta per l’Occidente non è la storia reale, bensì la sua manipolazione selettiva, volta a legittimare ogni intervento, ogni silenzio, ogni alleanza.
La reazione immediata delle classi dirigenti euro-atlantiche all’attacco del 7 ottobre ha rivelato il riflesso condizionato di un dispositivo ideologico profondamente radicato. Si è parlato di pogrom, di ritorno dell’antisemitismo, di barbarie antioccidentale. Nessun riferimento alla resistenza, al contesto coloniale, alla storia consolidata di oppressione, occupazione, apartheid. La Palestina, come entità storica e politica, è stata rimossa dal discorso. L’Occidente ha identificato il nemico assoluto - il “terrorista” palestinese - delegittimandone qualsiasi azione in quanto eccezione umana e giuridica.
In linea con la genealogia foucaultiana del potere, che non reprime ma produce i discorsi legittimi, la cancellazione della Palestina come soggetto politico rientra pienamente nella strategia biopolitica dell’Occidente.
Le ripetute, ossessive e inaccettabili dichiarazioni dei governi occidentali sul fatto che l’Iran “non deve avere la bomba atomica” e che Israele ha quindi diritto “di bombardarlo per difendersi”, evitano accuratamente di soffermarsi su un convitato di pietra che è invece l’architrave della questione: l’arsenale nucleare israeliano, sul quale da Washington a Parigi e da Roma a Londra fanno tutti i finti tonti.
L‘Iran è infatti membro dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dal 1958. L’AIEA è un’organizzazione internazionale che promuove l’uso pacifico dell’energia nucleare e verifica il rispetto degli impegni di non proliferazione nucleare.
Tuttavia, il rapporto tra l’Iran e l’AIEA è stato spesso complesso, soprattutto a causa delle preoccupazioni riguardo al programma nucleare iraniano. L’Iran, diversamente da Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) ed è soggetto a controlli dell’AIEA, ma ci sono state tensioni per la mancata piena trasparenza su alcune attività.
Dopo l’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA), l’Iran ha accettato maggiori ispezioni, ma con il ritiro degli USA dall’accordo nel 2018 e le successive tensioni, la cooperazione si è ridotta. Negli ultimi anni, l’AIEA ha espresso preoccupazione per la mancata collaborazione su alcuni siti nucleari iraniani.
La motivazione del gravissimo attacco israeliano contro l’Iran risiede, secondo il governo israeliano, nel fatto che l’Iran fosse in procinto di dotarsi di armi nucleari e che queste armi sarebbero state usate per distruggere Israele.
Si tratta di una motivazione fortemente opinabile per tre ragioni. La prima è che l’attacco di Israele all’Iran è avvenuto, come molti commentatori hanno rilevato, appena prima dell’incontro previsto tra Usa e Iran proprio per trattare della questione dell’arricchimento dell’uranio da parte iraniana che avrebbe permesso di costruire armi nucleari. Questo dimostra che Israele rifiuta la via diplomatica anche a costo di destabilizzare tutto il Medio Oriente. La seconda è che, anche se l’Iran avesse queste armi e volesse impiegarle per primo, molto difficilmente potrebbe impiegarle contro Israele, visto che si esporrebbe alla massiccia rappresaglia degli Usa. Ma, soprattutto, c’è un’altra ragione, che, mi pare, non sia stata sottolineata dai commentatori: Israele dispone dell’arma nucleare. La pretesa che l’Iran non debba dotarsi di un’arma nucleare rappresenta, da parte dell’Occidente che appoggia Israele, un doppio standard, visto che nessuno applica lo stesso divieto a Israele.
Per la verità Israele, a differenza degli altri otto stati mondiali che dispongono dell’atomica (Usa, Russia, Cina, UK, Francia, India, Pakistan e Nord Corea), mantiene su questo tema un atteggiamento pericolosamente ambiguo, non riconoscendo né negando di avere tali armi.
I massimi rappresentanti della politica internazionale non si peritano di affermare a chiare lettere che la guerra in Ucraina, così come il conflitto israelo-palestinese e, più in generale, i venti di guerra che soffiano impetuosi nel periodo che stiamo vivendo, costituiscono un ‘turning point’ di portata storica non solo sul terreno dei confini territoriali, ma anche nel senso che gli esiti delle guerre in corso potrebbero contribuire a delineare il volto del futuro economico mondiale. Si tratta, per l’appunto, delle cause materiali dei conflitti militari, ossia degli interessi economici che muovono i conflitti militari contemporanei, in Ucraina e nel resto del mondo.
Orbene, per comprendere questo determinante ordine di cause occorre partire da una grande svolta, che da diversi anni caratterizza la politica economica degli Stati Uniti d’America: la crisi finanziaria del 2008. 1 In quella congiuntura critica gli americani si sono resi conto, infatti, che stavano importando molte più merci di quante ne riuscissero a esportare, e che così stavano accumulando un ingente debito verso l’estero, non solo pubblico ma anche privato: un debito potenzialmente insostenibile. Basti pensare che il passivo netto americano verso l’estero è arrivato a 18.000 miliardi di dollari, un primato negativo senza precedenti. Di contro, l’attivo netto cinese verso l’estero è arrivato a 4.000 miliardi, l’attivo netto russo a 500 miliardi, e così via.
Le ricadute tra Musk e
Trump
(almeno per ora) hanno un che di “televisivo”. Ma non
lasciatevi ingannare dai contenuti di intrattenimento.
Il battibecco illustra una
contraddizione fondamentale al cuore della coalizione
MAGA. È possibile che questa contraddizione esploda in
futuro e finisca per
innescare il lento declino del Progetto Trump.
Un momento cruciale delle ultime elezioni statunitensi è stato il passaggio dei ricchissimi oligarchi tecnologici della Silicon Valley dal loro sostegno ai Democratici a Trump. Questo ha portato sia denaro che un potenziale scintillante premio: l’America avrebbe potuto conquistare il monopolio sull’archiviazione globale dei dati, sull’intelligenza artificiale e su ciò che Yanis Varoufakis chiama “capital cloud”, ovvero la presunta capacità di ricavare una rendita (ovvero commissioni) per l’accesso all’immensa riserva di dati americana e alle piattaforme associate delle Big Tech. Si riteneva che un tale monopolio sui dati avrebbe poi dato agli Stati Uniti la possibilità di manipolare il modo di pensare del mondo e di definire i prodotti e le forme di progettazione considerati “cool”.
L’idea era anche che un monopolio sui data center avrebbe potuto rivelarsi potenzialmente redditizio quanto il monopolio statunitense del dollaro come principale valuta commerciale, che avrebbe potuto garantire ingenti afflussi di capitali per compensare il debito.
Tuttavia, la caratteristica esplosiva della coalizione tra oligarchi della tecnologia e populisti del MAGA è che entrambe le fazioni hanno visioni inconciliabili, sia per quanto riguarda la gestione della crisi del debito strutturale americano, sia per quanto riguarda il futuro culturale del Paese.
La visione dei “Tech Bros” [Fratelli Tecnologici] è selvaggiamente radicale; è un “libertarismo autoritario”. Peter Thiel, ad esempio, sostiene che un piccolo gruppo di oligarchi dovrebbe governare l’impero, libero da qualsiasi limitazione democratica; che il futuro dovrebbe basarsi sulla “tecnologia dirompente”; essere robotico e guidato dall’intelligenza artificiale; e che la popolazione dovrebbe essere strettamente “gestita” tramite il controllo dell’intelligenza artificiale.
Potrebbe essere utile
in questo
momento comprendere meglio le dinamiche interne al
mondo anglo-sassone, in relazione ai conflitti in
atto in Europa e in Medio Oriente, nonché
agli effetti che potrebbero avere sulle relazioni
transatlantiche durante la presidenza Trump.
A questo scopo è assai interessante la lettura di un documento ufficiale del ministero della Difesa della Gran Bretagna, intitolato Strategic Defence Review 2025, Making Britain Safer: secure at home, strong abroad (“revisione della difesa strategica 2025, rendere la Gran Bretagna più protetta: sicura in patria, forte all’estero”). In questo documento, il governo inglese esprime un giudizio inappellabile nei confronti della Russia:
«L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia rende inequivocabilmente chiara la sua volontà di ricorrere alla forza per raggiungere i propri obiettivi, nonché il suo intento di ristabilire sfere di influenza nei paesi vicini e di sconvolgere l’ordine internazionale a svantaggio del Regno Unito e dei suoi alleati».
Questa posizione, che vede quindi nella Russia la principale minaccia militare per la Gran Bretagna, viene ulteriormente argomentata in termini estremamente duri, nei quali è tuttavia anche presente un riferimento significativo alla nuova politica statunitense:
«Il Regno Unito è già oggetto di attacchi quotidiani, con atti aggressivi – dallo spionaggio agli attacchi informatici e alla manipolazione delle informazioni – che causano danni alla società e all’economia. Il conflitto tra Stati è tornato in Europa, con la Russia che dimostra la sua volontà di ricorrere alla forza militare, infliggere danni ai civili e minacciare l’uso di armi nucleari per raggiungere i propri obiettivi. Più in generale, il vantaggio militare di cui l’Occidente ha goduto a lungo si sta erodendo, poiché altri paesi modernizzano ed espandono rapidamente le loro forze armate, mentre le priorità di sicurezza degli Stati Uniti stanno cambiando, con l’attenzione che si sposta verso l’Indo-Pacifico e la protezione del proprio territorio».
Proponiamo
nella sezione spettri una discussione,
sicuramente non innovativa ma sicuramente
ancora oggi con una rilevanza politica non
indifferente, sul rapporto tra il pensiero di
Foucault e Marx.
La prima opportunità di dibattito si è data a dicembre del 2024, alla libreria Punto Input, in occasione della presentazione del libro Marxismi foucaultiani di Matteo Polleri. L'articolo che pubblichiamo oggi, di Claudio Cavallari, si sviluppa a partire dai ragionamenti condivisi in quel contesto, proponendo una lettura «moderatamente» lacaniana del legame Marx-Foucault.
Invitiamo i lettori a intervenire nel dibattito.
* * * *
La fortunata occasione di discutere con Matteo Polleri del suo recente libro – Marxismi foucaultiani. Una mappa critica, Mimesis, 2024 – si è data per me a dicembre 2024, alla libreria Punto Input di Bologna. Al termine dell’incontro ci siamo promessi un rapido ritorno, in forma scritta, sui contenuti di quella conversazione che fu peraltro arricchita da alcuni contributi di notevole intelligenza condivisi dalle persone che parteciparono a quella presentazione. Ricordo che rimasi stupito quando, alla fine, l’autore sottolineò l’ascrizione dei miei ragionamenti al pensiero di Lacan, che mi ero ben guardato – evidentemente in modo più che maldestro – dal menzionare. Toccherà dunque non farne qui mistero. Dovendo il mio intervento scritto precedere cronologicamente la sua risposta, la promessa tempestività ha dovuto sopportare mesi di attesa, i quali, tuttavia, in nulla leniscono il ricordo delle puntuali e brillanti osservazioni che Polleri mi ha rivolto in quella preziosa occasione di confronto.
I neoconservatori che hanno orchestrato le guerre disastrose in Afghanistan, Iraq, Siria e Libia, e che non sono mai stati ritenuti responsabili dello sperpero di 8 trilioni di dollari dei contribuenti, nonché dei 69 miliardi di dollari sperperati in Ucraina, sembrano destinati a trascinarci in un altro fiasco militare con l’Iran.
L’Iran non è l’Iraq. L’Iran non è l’Afghanistan. L’Iran non è il Libano. L’Iran non è la Libia. L’Iran non è la Siria. L’Iran non è lo Yemen. L’Iran è il diciassettesimo paese più grande del mondo, con una superficie equivalente a quella dell’Europa occidentale. Ha una popolazione di quasi 90 milioni di abitanti – 10 volte più di Israele – e le sue risorse militari, così come le alleanze con Cina e Russia, lo rendono un avversario formidabile.
L’Iran ha lanciato oggi attacchi di rappresaglia contro Israele a seguito di ondate di attacchi israeliani che hanno colpito impianti nucleari e ucciso diversi alti comandanti militari iraniani e sei scienziati nucleari. Ci sono state decine di esplosioni sull’orizzonte di Tel Aviv e Gerusalemme. Esistono riprese video di almeno una grande esplosione al suolo a Tel Aviv, causata da un apparente attacco missilistico, e segnalazioni di altre esplosioni in una mezza dozzina di siti a Tel Aviv e dintorni.
“La nostra vendetta è appena iniziata, pagheranno a caro prezzo l’uccisione dei nostri comandanti, scienziati e personale”, ha dichiarato a Reuters un alto funzionario iraniano. Il funzionario ha aggiunto che “nessun luogo in Israele sarà sicuro” e che “la nostra vendetta sarà dolorosa”.
Le operazioni militari condotte da Israele contro l’Iran e dall’Ucraina contro la Russia presentano sorprendenti somiglianze nel loro design strategico ed esecuzione, sollevando interrogativi sulle implicazioni geopolitiche più ampie e sul possibile coinvolgimento di attori esterni.
Entrambe le operazioni riflettono un approccio sofisticato alla guerra asimmetrica, sfruttando l’infiltrazione segreta, tecnologie avanzate e l’elemento sorpresa per massimizzare l’impatto contro avversari numericamente o tecnologicamente superiori. Di seguito, un’analisi strategico-militare dettagliata di queste operazioni, delle loro caratteristiche comuni e delle loro implicazioni.
Entrambe le operazioni hanno fatto largo uso dell’infiltrazione segreta per posizionare risorse vicino a obiettivi di alto valore. Nel caso degli attacchi ucraini alle basi aeree russe, i droni sono stati introdotti clandestinamente in Russia e trasportati su camion civili fino alle vicinanze delle installazioni militari. Questi droni sono stati poi attivati a distanza per colpire bombardieri strategici e altre risorse.
Allo stesso modo, l’operazione di Israele contro l’Iran ha coinvolto, secondo quanto riferito, operativi del Mossad che si sono infiltrati nel paese per piazzare sistemi di disturbo, dispositivi di neutralizzazione delle difese missilistiche e droni kamikaze vicino a basi militari e infrastrutture nucleari iraniane.
La miliardariolatria, ovvero il culto messianico nei confronti dei ricconi, ha come ovvio risvolto la miliardariomachia, cioè l’epica lotta tra miliardari. Giorni fa sono volati stracci tra gli ex sodali Trump e Musk, un tempo alleati contro l’altro miliardario Soros. Ma, tra uno straccio e l’altro, è balenato anche un piccolo lampo di verità, quando Trump ha rinfacciato a Musk la sua dipendenza dai contratti con le agenzie governative. Trump ha omesso di ricordare che Musk, e gli altri boss “privati”, vivono non solo di appalti pubblici ma anche di sussidi pubblici, ma vabbè. Qualche mese fa Michele Serra favoleggiava su un Musk così potente da potersi ormai permettere di “sostituire la democrazia con l’efficienza”; come a dire: sostituire la chimera con l’ircocervo. Ma per smontare le allucinazioni sulla presunta esistenza di una tecnocrazia, è sufficiente quel piccolo dettaglio della totale dipendenza delle corporation multinazionali dal denaro pubblico; o, per meglio dire, dal denaro dell’unico vero contribuente, quello povero che non può rivalersi su nessuno. La tecnocrazia è un mito auto-celebrativo delle oligarchie, mentre la cleptocrazia è la loro prosaica realtà.
Il genocidio a Gaza ha resuscitato uno dei mantra del politicamente corretto, cioè i “due popoli, due Stati”, provocando il disappunto dei sionisti nostrani, che hanno lanciato la rituale accusa di favorire Hamas. Insomma, le solite chiacchiere e i consueti sbrodolamenti su antisemitismo e antisionismo; eppure, proprio in questi giorni, grazie ad un giornale belga era circolata una notizia concreta, cioè che l’entità coloniale sionista è una bolla gonfiata non solo dal denaro pubblico degli USA, ma anche da quello dell’Unione Europea.
“Questa è la realtà di ciò che è in gioco, ciò che stiamo affrontando ora, perché mentre ci troviamo qui oggi, siamo più vicini che mai all’orlo dell’annientamento nucleare, i guerrafondai dell’élite politica stanno fomentando incautamente paura e tensioni tra le potenze nucleari”. Così Tulsi Gabbard in un insolito video pubblicato su Youtube dopo una visita a Hiroshima, nel quale chiede ai popoli di far sentire la loro voce per fermare tale deriva.
La Gabbard sa di cosa sta parlando, dal momento dirige l’Intelligence nazionale americana e ha accesso alle informazioni più riservate delle varie agenzie federali. Non uno scherzo di cattivo gusto, ma la drammatica realtà, che si è fatta ancora più stringente dopo l’attacco ai bombardieri strategici russi della scorsa settimana.
Attacco che nasconde retroscena inquietanti, al di là delle motivazioni di cui abbiamo scritto in una nota pregressa, cioè vanificare il processo di pace di Istanbul, che si teneva il giorno successivo, e innescare una reazione russa per dare inizio a conflitto diretto con l’Occidente.
Ne scrive Alastair Crooke in un articolo pubblicato sul sito del Ron Paul Institute, nel quale delinea tali retroscena. Il primo, che discende dal fatto che gli ucraini non potevano condurre un’operazione tanto sofisticata in solitaria, è che a coordinare l’operazione sia stata l’America, ovviamente in combinato disposto con la Gran Bretagna (con Londra che peraltro sta gestendo l’Unione europea, tirando le fila dei burattini innalzati al vertice della Ue e della Germania).
Alla vigilia si prospettava come un meraviglioso weekend di democrazia. Il sole era destinato a splendere sulle verdi montagne, sulle accoglienti spiagge e sulle ridenti colline dell’italico suolo. Le due massime espressioni della democrazia, la piazza e il referendum, avrebbero irradiato bagliori di speranza sul popolo italiano perennemente impaurito. Il sabato si era presentato sotto i migliori auspici, con ben trecentomila persone pronte a invadere pacificamente Piazza San Giovanni a Roma per dimostrare solidarietà al popolo palestinese, massacrato da Israele con la connivenza degli alleati europei.
Già Domenica a mezzogiorno l’entusiasmo, indotto dalla partecipazione all’unico strumento di democrazia diretta sopravvissuto allo scempio della delega post-democratica, veniva spento da un mesto 7,4% di affluenza alle urne. La sera, alle 23,00, la legnata ha assunto proporzioni ciclopiche con solo il 22,73% di votanti, il quorum non superato e il referendum definitivamente bocciato. Alzando il “velo di ignoranza” con cui la classe politica nasconde le proprie contraddizioni, questo fine settimana appare ormai come un “tranquillo weekend di paura”.
Già da sabato guardando meglio qualche dubbio poteva sorgere in merito alla solarità della giornata. La manifestazione era ufficialmente promossa dal PD con l’adesione di Alleanza Verdi e Sinistra e il Partito di Conte. Non pochi però sono stati i dirigenti del PD che, invece di scendere in piazza, hanno preferito aderire alla manifestazione sionista che si è svolta al Teatro Parenti di Milano il 6 giugno.
Barbara Spinelli: La follia bellica Ue e l’arma di Čechov
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Il Generale di Corpo d’Armata dell’Esercito Italiano
Fabio Mini ha comandato tutti i livelli di unità
Bersaglieri e
ricoperto incarichi dirigenziali presso gli Stati Maggiori
dell’Esercito e della Difesa. È stato Direttore
dell’Istituto Superiore
di Stato Maggiore Interforze (ISSMI)
presso il Centro Alti Studi e ha prestato
servizio negli Stati Uniti, in Cina e nei Balcani. È stato
Capo di Stato Maggiore del Comando NATO del Sud Europa e
comandante della missione
internazionale in Kosovo.
Negli ultimi anni è stato diverse volte ospite in varie televisioni in qualità di opinionista e ha già scritto, pubblicato e curato numerosi libri sui temi della difesa e della geopolitica. Inoltre, collabora con le riviste Limes e Geopolitica.
Grazie alla disponibilità del Generale e della casa editrice Dedalo abbiamo avuto la possibilità di intervistarlo in merito al suo ultimo libro La NATO in guerra – dal patto di difesa alla frenesia bellica, parte della collana Orwell diretta da Luciano Canfora.
* * * *
La Fionda: Nel Suo testo viene rimarcato spesso un divario tra la NATO in quanto organizzazione e il trattato costitutivo della NATO. Si può dire che la NATO ha tradito sé stessa? E quali sono, secondo Lei, i punti di maggiore divergenza tra ciò che la NATO è e ciò che dovrebbe essere negli intenti della sua carta fondamentale?
Generale Fabio Mini: La Nato ha effettivamente tradito sé stessa e tutti coloro che hanno servito nella Nato per decenni. O almeno tutti coloro che avevano conosciuto il Patto atlantico dalle sue origini e vissuto professionalmente la sua evoluzione.
Aggiornato alle ore 17,00 del 17 giugno
Le operazioni iraniane contro Israele
“continueranno tutta la notte, non permetteremo all’entità
sionista di godere di pace e stabilità”, ha affermato nella
tarda serata di ieri un comunicato del Corpo dei guardiani
della rivoluzione islamica dell’Ian (IRGC) annunciando di aver
lanciato la nona
ondata dell’Operazione Vera Promessa 3 contro Israele,
impiegando missili e droni. I pasdaran hanno precisato che
“nelle ultime 72 ore
sono state effettuate 545 operazioni con droni” contro
obiettivi israeliani.
L’attacco è stato confermato dalle forze di difesa israeliane IDF che ha reso noto di aver individuato una raffica di missili balistici lanciati dall’Iran verso Israele dove le autorità hanno dato istruzioni alla popolazione di entrare nei rifugi.
“Abbiamo preso di mira la base da cui è partito l’attacco all’edificio dell’IRIB, la televisione di Stato iraniana colpita da Israele mentre le IDF hanno riferito del lancio di 10/20 missili balistici, in “buona parte” intercettati o caduti in aree disabitate.
Ma i lanci di missili e droni iraniani sono continuati tutta la notte bersagliando soprattutto le aree di Tel Aviv (colpiti secondo Teheran i comandi di Mossad e intelligence militare) e Gerusalemme e il centro-nord. L’ultimo allarme per il lancio di missili dall’Iran è stato diramato da IDF questa mattina.
In mattinata le IDF hanno reso noto di aver abbattuto nella notte circa 30 droni lanciati verso Israele, molti intercettati oltre i confini israeliani mentre altri sono stati abbattuti sulle alture del Golan.
Ieri sera l’Iran aveva attivato i sistemi di difesa aerea attendendosi evidentemente nuove incursioni aeree israeliane che nella giornata del 16 giugno si sono accanite su diversi obiettivi in diverse città e nella notte hanno colpito soprattutto l’ovest del paese dove le IDF affermano di aver distrutto decine di siti militari e di aver colpito centri di comando appartenenti alla Forza Quds del corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica.
Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, pp. 320, € 20,00.
Sentimento di impotenza di fronte alla
tragedia, senso di “colpa metafisica” per non aver fatto tutto
il possibile per evitare
l’abisso, sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto. Il
libro Il mondo dopo Gaza ci descrive queste
angoscianti emozioni del suo
autore, lo scrittore e saggista indiano Pankaj Mishra, di
fronte al terrificante destino riservato ai palestinesi.
Reazioni più che
giustificate se è vero che la posta in gioco, politica ed
etica, non è mai stata così alta come quella che ci propongono
le
vicende della martoriata Striscia di terra tra Israele ed
Egitto: le atrocità commesse a Gaza, approvate senza vergogna
dall’élite
politica e mediatica del cosiddetto mondo libero e
sfacciatamente rivendicate dagli israeliani, non si limitano a
minare la nostra fiducia nel
progresso, ma mettono in discussione la nostra stessa
concezione della natura umana, soprattutto l’idea che essa sia
capace di empatia.
L’antisemitismo, oramai lo sappiamo, è stato cinicamente trasformato nella foglia di fico dietro cui si nasconde la ferocia di un genocidio trasmesso in diretta. Ma “La narrazione secondo cui la Shoah conferisce legittimità morale illimitata a Israele non è mai apparsa più debole”.1 Infatti “molta più gente, dentro l’Occidente e fuori, ha iniziato ad abbracciare una contronarrazione secondo cui la memoria della Shoah è stata pervertita per consentire degli omicidi di massa, mentre al tempo stesso si oscurava una storia più ampia di moderna violenza occidentale al di fuori dell’Occidente”.2
Come è possibile che tanta atrocità abbia un appoggio internazionale così ampio, nonostante il comportamento israeliano neghi alla radice qualsiasi forma di autorappresentazione della civiltà occidentale? Certamente ci sono fondamentali ragioni di natura geopolitica. Ma c’è anche qualcosa di più che ha a che fare con il fatto che il cosiddetto mondo sviluppato si rispecchia in qualche modo nello stato sionista.
Tra i movimenti maggioritari c’è un forte senso di identificazione con uno stato etnonazionale che scatena la sua forza letale senza alcun vincolo. Questo spiega, molto meglio di qualsiasi calcolo di interesse geopolitico ed economico, la sorprendente complicità di molti occidentali in quella che è una trasgressione morale assoluta, vale a dire un genocidio3.
Pressato da Israele e dal “partito interventista”, Trump potrebbe finire per scatenare in Medio Oriente una guerra regionale dai risvolti imprevedibili
La guerra mossa
da Israele contro l’Iran nelle prime ore del 13 giugno era per
molti versi annunciata. All’indomani dell’attacco di Hamas del
7
ottobre 2023, il premier israeliano Benajmin Netanyahu aveva dichiarato che Tel Aviv
avrebbe “cambiato il Medio Oriente”.
Il governo israeliano ha sfruttato quel sanguinoso evento per infliggere colpi durissimi ai propri avversari regionali riuniti nel cosiddetto “Asse della Resistenza” filo-iraniano.
Gaza, l’enclave palestinese controllata da Hamas, è stata rasa al suolo. Una violenta campagna di bombardamenti in Libano ha portato alla decapitazione della leadership di Hezbollah in Libano, e all’uccisione del suo segretario generale Hassan Nasrallah.
Dopo la caduta del presidente siriano Bashar al-Assad in Siria, Israele ha smantellato le infrastrutture militari del paese con una serie di attacchi aerei. Dominando ormai i cieli siriani, e con lo spazio aereo iracheno controllato dall’alleato americano, per Israele la strada verso l’Iran era aperta.
A seguito di quegli eventi, nel dicembre 2024 avevo scritto che:
per il governo Netanyahu il trofeo finale resta l’Iran, rimasto più isolato a seguito dell’indebolimento dell’asse della resistenza.
Alla vigilia del cessate il fuoco in Libano, il premier israeliano aveva dichiarato che accettava l’accordo per tre ragioni: rifornire gli arsenali israeliani ormai svuotati, aumentare la pressione su Hamas, e concentrarsi sull’Iran.
Sulla stampa israeliana si sono moltiplicati gli articoli che parlano di una “finestra di opportunità” per colpire le installazioni nucleari iraniane alla luce dello stato di debolezza in cui si troverebbe Teheran.
La tesi è che l’Iran, isolato a livello regionale, potrebbe puntare a costruire l’arma atomica se i suoi impianti nucleari non verranno distrutti. Perciò l’aeronautica israeliana si starebbe preparando per un possibile attacco.
L’Iran ha lanciato la
fase successiva dell’operazione True Promise 3.0, prendendo di
mira diverse
infrastrutture energetiche e militari israeliane. Questa volta
ha utilizzato i più recenti missili ipersonici Fattah-1, che
hanno avuto un
impatto abbagliante su Tel Aviv e sul nord di Israele, uno
spettacolo così spettacolare da rivaleggiare solo con gli
attacchi [con i missili ]
Oreshnik dell’anno scorso [in Ucraina]:
Fatttah-1 Hypersonic Missile hit the target and electricity gone. Look at the insane speed.pic.twitter.com/8B5Fq0Ezs8
— Sumon Kais (@sumonkais) June 14, 2025
Le scene erano quasi troppo irreali per essere credibili, come se si trattasse di un blockbuster eccessivamente spettacolare di Michael Bay. Tra gli obiettivi c’erano la raffineria di Haifa e il centro di ricerca israeliano del Weizmann Institute for Science di Rehovot, vicino a Tel Aviv:
Che ruolo ha la raffineria di Haifa, presa di mira dall’Iran? La raffineria di Haifa, nel nord della Palestina occupata, fornisce oltre il 60% del fabbisogno di carburante di Israele, dalla benzina al gasolio e fino al carburante avio. Con questi impianti danneggiati nell’attacco iraniano di questa notte, Israele dovrà affrontare un problema di approvvigionamento. Il successo dell’attacco alla raffineria di Haifa è un colpo strategico alla spina dorsale economica e militare di Israele. Il fatto che Israele taccia sull’attacco alla sua raffineria e non abbia ancora detto nulla ma si sia concentrato sui danni inflitti a Tamra – che credo siano stato causati dalla ricaduta di un missile intercettore di Israele (staremo a vedere) – dimostra che il colpo è stato doloroso. Ed è solo l’inizio…
Il New York Times, citando immagini condivise, riferisce che un centro di ricerca israeliano, il Weizmann Institute for Science, è stato danneggiato da un missile balistico iraniano nel corso degli ultimi attacchi al centro di Israele. L’edificio si trova a Rehovot, a sud di Tel Aviv e un incendio sarebbe scoppiato in uno degli edifici che contengono i laboratori.
Mentre la narrativa occidentale presenta la politica genocida di Israele come semplici “operazioni militari”, a Gaza si sta in realtà sperimentando una tecnologia di dominio letale. L’Europa, più che spettatrice, è complice attiva di questa necropolitica; il suo silenzio rivela la vicinanza del suo immaginario a quello di uno Stato di Israele che non condanna, poiché entrambi condividono la stessa ossessione per il terrorismo islamista e il controllo biopolitico delle popolazioni immigrate.
Nel teatro mediatico contemporaneo, Gaza si è
trasformata in un laboratorio di
storytelling geopolitico. Ogni immagine, ogni testimonianza,
ogni cifra diventa un elemento narrativo in una battaglia di
racconti che va ben oltre i
confini geografici del conflitto. Ci sono i morti di Gaza e
c’è la loro scomparsa programmata nei racconti dei media
occidentali. Tra i
due, una macchina narrativa di formidabile efficacia trasforma
un genocidio in un «conflitto complesso», i carnefici in
vittime e i
testimoni in «antisemiti». Come può una potenza
militare genocida e i suoi alleati massacrare un popolo e
vincere
contemporaneamente la battaglia delle narrazioni?
Nei think tank di Washington e nelle agenzie di Hasbara, un esercito di narratori lavora giorno e notte per capovolgere la realtà. Ogni scuola bombardata diventa un «covo di terroristi», ogni ospedale distrutto nascondeva «tunnel di Hamas», ogni giornalista ucciso era un «combattente travestito». Gaza non è più solo un territorio di 365 chilometri quadrati dove sono ammassati due milioni di esseri umani. Gaza è diventata una storia, o meglio un campo di battaglia di storie… Nei corridoi ovattati dei ministeri e delle agenzie di comunicazione non si parla più di «guerra» ma di «operazione», non più di «bombardamenti» ma di «attacchi chirurgici», non più di «civili morti» ma di «danni collaterali». Il vocabolario militare si è trasformato in un linguaggio marketing, modellato dagli “spin doctor” che trasformano la realtà in una storia formattata per l’opinione pubblica occidentale.
Se c’è una cosa che viene occultata dalla ricorrente esposizione mediatica delle “narrazioni” israeliana e palestinese (autodifesa e resistenza) e dalla falsa simmetria delle forze in campo, è proprio la natura di questa guerra che, nella sua estrema razionalità, sconvolge tutto ciò che pensavamo di sapere sulla guerra totale, la guerra civile o la guerra coloniale.
È una guerra multidimensionale, combattuta in aria, sulla terra e persino nei sotterranei della Striscia di Gaza.
Insegno al MIT un corso dal titolo: “Protect yourself at all times. Nuclear proliferation and control strategies through technology“.
Nonostante quello che mi hanno fatto, l’anno prossimo lo terrò anche al Politecnico di Torino, in un corso di dottorato.
La prima frase del titolo è quello che dicono gli arbitri ai due pugili prima dell’incontro.
Succede che il sottoscritto sia il maggior esperto italiano di disarmo nucleare. E’ un fatto, non una vanteria. C’è una classifichina internazionale piena di stranieri, perché in Italia – essendo un paese di servi asservito agli USA – pochi *tecnologi* se ne occupano. Sono, bontà loro, il primo italiano in codesto elenco, se si escludono colleghi che lavorano per la IAEA, ma quando sei lì rinunci naturalmente alla tua “nazionalità”.
Ho partecipato ai negoziati per l’accordo JPCOA con l’Iran nel 2015.
Leggo in questi giorni – da buoni e cattivi – castronerie a branchi. Sterminati branchi di castronerie.
Proviamo a smentirle, non si sa mai che uno su un milione capisca in quale oceano di bullshit lo stanno affogando.
1) L’Iran NON ha la bomba atomica. Non ci è neanche vicino, ad averla.
2) La IAEA ha ultimamente intensificato la frequenza delle sue ispezioni, dati i timori USA sulla non-adempienza dell’Iran ad alcune regolette, soprattutto sull’arricchimento dell’uranio.
«Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.» 1
Discorso di Calgàco, re dei Caledoni (Tacito, Agricola, XXX).
Torna di attualità la vignetta pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” diversi anni fa. In quella vignetta Francesco Tullio-Altan raggiungeva, come spesso gli accadeva, una precisione folgorante nel definire la connessione tra la crisi economico-finanziaria e l’imminente attacco che gli Stati Uniti d’America e altri paesi imperialisti dell’Unione Europea (Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia) si preparavano a sferrare contro l’Iran. Fra due ‘mutanti’ dal profilo di iguana, che sfoggiano giacche blu e cravatte a stelle e strisce, si svolge questo dialogo: replicando a quello che osserva preoccupato: “Borse in crisi”, l’altro avanza la seguente proposta: “Attacchiamo l’Iran?”. Sennonché, dopo le tre guerre del Golfo (1980-1988, 1991, 2003), dopo l’intervento nel Kossovo (1999) e dopo quelli in Afghanistan (2002), in Libia (2011) e in Ucraina (iniziato nel 2013 e tuttora in corso) dovrebbe essere chiaro che le cause per cui l’imperialismo scatena una guerra sono sempre più di una. Pesano, infatti, almeno tre fattori: l’economia, la geopolitica e la storia. Rispetto a due di questi fattori (storia ed economia), determinanti per la conquista e il mantenimento dell’egemonia, gli Stati Uniti stanno segnando il passo. E questa è la ragione per cui sono sempre più pericolosi. Consideriamo dunque il fattore geopolitico.
Le ripetute, ossessive e inaccettabili dichiarazioni dei governi occidentali sul fatto che l’Iran “non deve avere la bomba atomica” e che Israele ha quindi diritto “di bombardarlo per difendersi”, evitano accuratamente di soffermarsi su un convitato di pietra che è invece l’architrave della questione: l’arsenale nucleare israeliano, sul quale da Washington a Parigi e da Roma a Londra fanno tutti i finti tonti.
L‘Iran è infatti membro dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) dal 1958. L’AIEA è un’organizzazione internazionale che promuove l’uso pacifico dell’energia nucleare e verifica il rispetto degli impegni di non proliferazione nucleare.
Tuttavia, il rapporto tra l’Iran e l’AIEA è stato spesso complesso, soprattutto a causa delle preoccupazioni riguardo al programma nucleare iraniano. L’Iran, diversamente da Israele, ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) ed è soggetto a controlli dell’AIEA, ma ci sono state tensioni per la mancata piena trasparenza su alcune attività.
Dopo l’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA), l’Iran ha accettato maggiori ispezioni, ma con il ritiro degli USA dall’accordo nel 2018 e le successive tensioni, la cooperazione si è ridotta. Negli ultimi anni, l’AIEA ha espresso preoccupazione per la mancata collaborazione su alcuni siti nucleari iraniani.
YOUTUBE, CANALE “MONDOCANE VIDEO” DI FULVIO GRIMALDI
Netaniahu, Trump, Rutte, Merz, Von der Leyen.
Disturbo Delirante Condiviso si chiama la sindrome che hanno in comune i dirigenti massimi della cosiddetta “Comunità Internazionale”. Di solito è un disturbo che accomuna coppie di criminali che reciprocamente si stimolano a compiere delitti efferati. Esempi: Bonny and Clyde, Al Capone e moglie, Bonnie Parker e Clide Barrow e, particolarmente vicini alla nostra coppia di testa, Myra Hindley e Ian Brady che ricordo dai miei tempi alla BBC imperversare nella Swinging London” assassinando, stuprando e torturando ragazzi e ragazze.
Così uno Stato che per ottant’anni ha fatto del furto, dell’esproprio, delle sevizie generalizzate, dell’usurpazione e dell’assassinio di massa fino al genocidio, la sua “biblica” ragione d’essere, si è ora dedicato, dopo quelle a Palestina, Libano, Siria, alla guerra totale all’Iran.
Uno Stato a regime esclusivista, autocratico, guerrafondaio, razzista e teocratico attacca senza motivo uno Stato inclusivista, pacifico, democratico, di potere islamico, con tanto di comunità ebraica libera e prospera al suo interno, considerata membro della famiglia nazionale al pari di tutte le altre confessionali ed etniche (da me intervistata e scoperta a suo agio in Iran e nettamente ostile allo Stato sionista).
Dopo l’aggressione a freddo di Israele all’Iran e la robusta risposta iraniana, e prima che eventi ulteriori ci travolgano, alcuni bilanci possono essere già fatti. In particolare credo che due considerazioni possano essere tratte.
La prima considerazione da fare è che il fallimento conclamato della politica di Donald Trump è l’ultima definitiva conferma che niente può modificare la rotta di collisione dell’Occidente a guida americana col resto del mondo. Trump non è mai stato un cavaliere bianco mosso da ideali di pacificazione, ma si è ritrovato a incarnare il ruolo di rappresentante di quell’America profonda che non ha interesse a proiezioni di potenza internazionale e vorrebbe mettere a posto le cose a casa propria. La sequenza dei fiaschi dell’amministrazione Trump, dai colloqui russo-ucraini, agli scontri di Los Angeles, all’attacco israeliano all’Iran mostrano chiaramente come tutte le promesse trumpiane di pacificazione internazionale e ripresa del mercato interno sono impercorribili. Non credo che Trump abbia ingannato volontariamente il suo elettorato. Credo che, più semplicemente, né gli USA né l’Europa siano più governati dal ceto politico che nominalmente li governa. Qui non è neanche questione di “Deep State”, perché siamo proprio al di fuori del perimetro statale, che serve soltanto da albero di trasmissione di decisioni prese altrove.
Ora, io so benissimo che ogni qual volta si introduce questo tema dei “poteri occulti” un sacco di babbei che si credono astuti cominciano ad agitarsi sulla sedia e a gridare al complottismo.
Israele ha condotto una strage per rappresaglia a Gaza che dura da due anni, senza che un solo provvedimento serio fosse rivolto contro di loro per fermarli. Hanno fatto fuori circa centomila gazawi, al massimo hanno sentito qualche “vibrante protesta” da parte dell’Occidente.
L’Iran ha sottoscritto il JPCOA nel 2015 (in decimillesima parte ho partecipato e conosco l’Iran molto bene) e non sta facendo NESSUN PASSO verso la eventuale preparazione di materiale atto a costruire una bomba atomica.
Per verificare questo, comunque, esistono dei trattati internazionali ben precisi: l’Iran ha sottoscritto il NPT con il PA, e quindi la IAEA ha pieno controllo sulle azioni dell’Iran. Se sgarrano, la questione finisce subito in mano al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Trump negli ultimi mesi ha strepitato che l’Iran stava preparando l’Armageddon: prove ZERO.
È arrivato a intimare l’Iran a non arricchire più l’uranio. Questo non ha senso, perché impedirebbe anche la preparazione del combustibile per i reattori. Poi Trump al massimo può chiedere alla IAEA di impedire che l’Uranio sia arricchito a scopi bellici: questo si può fare.
Riceviamo e diffondiamo questo bell’invito a “vivere nella verità”
«Intellettuali d’oggi, idioti di domani, ridatemi il cervello
che basta alle mie mani»
F. De André
L’abbaglio
Le giornate di mobilitazione andate in scena lo scorso Maggio in diverse città d’Italia, aprono un momento di riflessione importante sull’utilizzo del conflitto simulato come pratica di lotta e sul significato della sua continua riproposizione.
Per lx più informatx non è niente di nuovo, il conflitto simulato è un logoro prodotto italiano che a più riprese, da quasi 30 anni, torna nelle piazze con grande carica estetica e abbaglia le telecamere.
Spesso nel dibattito militante questo tema viene ripreso ma mai rivendicato seriamente da chi lo agisce, nascosto tra confuse giustificazioni e vittimizzazioni, ammiccamenti complici del “famo gli scontri!” o fantasmagoriche narrazioni di esplosive giornate di lotta sulle piattaforme di movimento.
Questa primavera però non è servito un naso allenato per sentire la puzza, dato che la cagata è stata chiaramente proposta a favore di telecamera se non apertamente rivendicata e sbrodolata sui giornali da uno dei “capoccia”, con tanto di giustificazioni ai «poliziotti che fanno bene il loro lavoro» contrapposto a quelli che «si fanno prendere la mano» e andrebbero bacchettati (parole tanto infami non meritano di essere analizzate oltre la loro semplice citazione). 1
Questo asservimento alla politica del compromesso e dello spettacolo, che vuole piazze disciplinate e orchestrate, non è solo una fastidiosa stortura con cui fare i conti ma un’abitudine radicata che crea mostri, spezza le gambe e soffoca la Rivolta; trascinarsi questo cadavere al seguito è una fatica che, se in tempi storici più lontani si diluiva in un conflitto sociale più alto e un apparato repressivo più debole, a oggi, non possiamo più permetterci.
Quasi 80 milioni di euro l’anno per costruire un ecosistema mediatico filo-europeo: così l’Ue influenza il discorso pubblico
Thomas Fazi ha analizzato il complesso sistema di sovvenzioni con cui le istituzioni europee sostengono agenzie di stampa, emittenti pubbliche e progetti giornalistici in tutta Europa. In un rapporto realizzato per MCC Brussels, un think tank ungherese, il saggista italo-inglese solleva interrogativi sulla trasparenza dei meccanismi di finanziamento, sulla neutralità degli obiettivi dichiarati e sul ruolo dell’Unione europea nel definire quella che viene considerata informazione «affidabile». Fazi ricostruisce l’impatto di questa rete di finanziamenti sull’ecosistema mediatico europeo e sulla capacità dei media di svolgere il loro ruolo di contropotere democratico.
* * * *
In un nuovo rapporto esclusivo per MCC Brussels – «La macchina mediatica di Bruxelles: il finanziamento Ue ai media e la formazione del discorso pubblico» – rivelo l’esistenza di un vasto sistema, finora scarsamente esaminato, attraverso il quale l’Unione Europea eroga ogni anno quasi 80 milioni di euro a progetti mediatici in tutta Europa e oltre.
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Il dibattito sulla possibilità
che l’Iran possa dotarsi in breve tempo di armi nucleari
rischia di trascinare nella guerra gli Stati Uniti guidati da
Donald Trump, che appare
sempre più confuso. Dopo essersi prodigato e illuso di
risolvere in pochi giorni le più gravi crisi del pianeta per
passare alla Storia
come pacificatore, ora chiede all’Iran la “resa
incondizionata” prima ancora di aver deciso se entrare o meno
direttamente nel
conflitto al fianco di Israele.
La risposta alla domanda “bomba o non bomba?” va cercata, a fatica, nei diversi rapporti d’intelligence e dell’Agenzia dell’ONU per l’energia atomica (AIEA) oltre che nella volontà politica di Trump e Benjamin Netanyahu.
Da quanto emerge negli ultimi giorni l’Iran non era vicino a dotarsi di armi atomiche prima dell’attacco israeliano del 12 giugno, come riferiscono da settimane la community delle 17 agenzie d’intelligence statunitensi e come ha precisato ieri l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), che pure la scorsa settimana aveva evidenziato reticenze iraniane a far ispezionare lo stato di arricchimento del suo uranio.
L’agenzia delle Nazioni Unite “ritiene che le numerose inadempienze dell’Iran nel rispettare i suoi obblighi dal 2019, di fornire all’Agenzia una cooperazione completa e tempestiva in merito al materiale nucleare non dichiarato e alle attività in molteplici siti non dichiarati in Iran… costituiscano un’inadempienza ai suoi obblighi ai sensi dell’Accordo di Salvaguardia con l’Agenzia”.
Come riportava la Reuters il 12 giugno, il rapporto dell’AIEA del 31 maggio ha rilevato che tre delle quattro località “facevano parte di un programma nucleare strutturato non dichiarato, portato avanti dall’Iran fino all’inizio degli anni 2000, e che alcune attività utilizzavano materiale nucleare non dichiarato”.
C’è
la violenza spettacolare come la parata militare di Trump
e la violenza reale come l’assassinio di Melissa Hortman,
i rapimenti e le
deportazioni di migliaia di immigrati da parte delle
milizie paramilitari dell’ICE e la repressione di coloro
che protestano. La tendenza
è decisamente in crescita mentre il regime trumpiano sta
compiendo una torsione autoritaria. Gli Stati Uniti sono
una società
sfilacciata, lacerata dalla polarizzazione, da forti
disaccordi e da un estremismo crescente. La democrazia
liberale statunitense attraversa una grave
crisi e si aprono scenari di autoritarismo.
Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: «Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene». Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. Dal film L’Odio di Mathieu Kassovitz
Sabato 14 giugno, con il boato di una salva di 21 colpi di cannone è iniziata la parata militare tanto desiderata da Donald J. Trump1 per festeggiare il 250° anniversario delle forze armate e, al tempo stesso, il suo 79° compleanno. Durante la parata, la banda musicale è passata da suonare “Jump” dei Van Halen a “Fortunate Son” dei Creedence Clearwater Revival, subito dopo che il presentatore aveva spiegato che gli obici M777 sono fatti di titanio. Nessuno, a quanto pare, aveva considerato il testo: “Alcune persone nascono, sono fatte per sventolare la bandiera, sono rosse, bianche e blu, e quando la banda suona Hail to the Chief, ti puntano il cannone addosso”. Un messaggio diretto che rischia di rappresentare in modo molto accurato quanto sta succedendo nel paese.
Gli Stati Uniti chiaramente non sanno come organizzare una parata militare autoritaria. Le parate militari autoritarie dovrebbero proiettare una forza invincibile. Dovrebbero impressionare il proprio popolo con la disciplina disumana delle truppe e incutere timore nei nemici con la capacità della propria organizzazione e dei sistemi d’arma.
Un conflitto permanente, senza via d’uscita: da Gaza alla Cisgiordania, il progetto sionista affronta la sua crisi più profonda
Tribalismo etnico-religioso, degenerazione
coloniale, perdita della deterrenza, isolamento
internazionale: Giacomo Gabellini
analizza le dinamiche che stanno minando la tenuta di
Israele. Dall’illusione di supremazia alla catastrofe
annunciata, passando per l’uso
strumentale del «caos controllato» in Medio Oriente,
l’Operazione al-Aqsa Flood, lanciata da Hamas il 7 ottobre
2023, ha solo
accelerato un processo di implosione già in atto. Nella
conclusione del suo ultimo libro, «Scricchiolio – Le
fragili fondamenta di
Israele», l’analista sostiene che il destino dello Stato
ebraico è segnato non dalla forza dei nemici, ma dalla
cecità
strategica della sua leadership.
* * * *
Nel 2012, Henry Kissinger confidò a una giornalista che, a suo avviso, «tra 10 anni, Israele non esisterà più» 1. Un vaticinio sbalorditivo, che scaturiva con ogni probabilità da alcune delle valutazioni contenute all’interno di un rapporto coevo dell’ente supremo che coordina le attività delle 16 agenzie di intelligence statunitensi.
Nel documento si sosteneva che «la leadership israeliana, con il suo crescente sostegno ai 700.000 coloni insediati in Cisgiordania, sta perdendo ogni contatto con le realtà politiche, militari ed economiche del Medio Oriente»2 . Il rapporto proseguiva spiegando che «la coalizione del Likud è profondamente complice in quanto influenzata dal potere politico e finanziario dei coloni, e sarà chiamata ad affrontare conflitti interni di intensità crescente».
Di conseguenza, «in un contesto contrassegnato dal “risveglio islamico”, dall’ascesa dell’Iran e dal declino egemonico degli Stati Uniti, l’impegno degli Usa nei confronti di Israele sta diventando impossibile da sostenere e conciliare con politiche coerenti con la tutela dei fondamentali interessi nazionali, che includono la normalizzazione delle relazioni con i 57 Paesi islamici».
I due contendenti non si sono certo risparmiati in questi giorni.
Israele ha privilegiato le azioni di sabotaggio (in stile ucraino) con l’uso di droni e missili azionati dagli agenti infiltrati in territorio iraniano, mentre i caccia solo questa notte sono tornati a martellare con forza. Gli aerei israeliani, sfruttando i cieli aperti (per loro) di Giordania, Siria, Iraq e Azerbaijan, riescono a colpire quasi ovunque da Teheran a Isfahan e persino nella città santa sciita di Mashhad, al confine col Turkmenistan.
L’Iran, invece, predilige gli attacchi notturni (in stile russo) con ondate di droni e missili che esauriscono le difese nemiche. Haifa e Tel Aviv sono quasi sempre nel mirino, ma anche la base aerea di Nevatim e le strutture dei servizi segreti sono state colpite.
In attacco i due nemici più o meno si equivalgono; gli obiettivi preferiti da Israele sono gli aeroporti, le infrastrutture energetiche, i siti militari, di ricerca, nucleari e le figure dirigenziali sia militari che civili.
L’Iran, adottando un’altra tattica russa, centra lo stesso tipo di bersagli.
In difesa assistiamo a qualche progresso per gli iraniani, mentre per gli israeliani non si mette benissimo (lo vedremo tra poco).
Ci voleva Israele per ricompattare un Occidente spaccato tra liberal e trumpiani. E ci voleva la guerra, chiedo scusa, la proditoria aggressione contro uno stato sovrano, l’Iran, dipinto naturalmente da tutto l’apparato mediatico occidentale a reti unificate come l’incarnazione dell’oscurantismo e del Male Assoluto. I leader del G7, riuniti in Canada, hanno avuto addirittura l’impudenza di dichiarare che “l’Iran è la principale fonte di instabilità e terrore nella regione”.
Ci sarebbe da ridere, anzi da sghignazzare, se le cose non fossero purtroppo maledettamente serie. Israele sta perpetrando un genocidio a Gaza da quasi due anni, occupa le terre dei palestinesi fregandosene delle decine e decine se non centinaia di risoluzioni dell’Onu che le “intimano” di abbandonare i territori occupati, attacca e invade ripetutamente e impunemente altri stati sovrani in tutta l’area mediorientale, sostiene e manda al potere in Siria, insieme alla Turchia e agli USA, i terroristi dell’ex ISIS (contro i quali l’Iran ha sempre combattuto), manda i suoi sicari in giro per il mondo ad assassinare i suoi oppositori, e questa gente ha la faccia tosta di affermare che “l’Iran sarebbe la principale fonte di instabilità e di terrore nella regione”.
Chiariamo subito una cosa. Il fatto che l’aggressione in corso sia stata determinata dalla volontà di stoppare il programma nucleare iraniano è soltanto un alibi, né più e né meno delle famose armi di distruzione di massa che sarebbero state in possesso dell’Iraq di Saddam Hussein.
Quello che sta succedendo è sotto gli occhi di tutte e tutti: la “Terza guerra mondiale a pezzi” ha un’accelerazione senza precedenti con l’attacco diretto di Israele contro l’Iran, il genocidio a Gaza, l’investimento europeo nel conflitto ucraino, la guerra commerciale degli USA di Trump, la corsa folle al riarmo a cui assistiamo da mesi.
Tutto ciò non sta avvenendo per caso o per la “pazzia” di singoli leader politici, ma è il frutto del nostro sistema economico e politico. Ormai ce lo dicono senza alcuna ipocrisia: le classi dominanti degli Stati Uniti, e il blocco “occidentale” che hanno costruito intorno a loro, vogliono continuare a mantenere il predominio a livello mondiale, e per farlo devono impedire a nuovi attori, che siano la Cina o potenze regionali, di acquisire spazio e di crescere.
Questa rinnovata aggressività imperialista ovviamente va a danno di tutti i popoli e delle classi lavoratrici: innanzitutto di quelle del sud del mondo bombardate, affamate, sterminate, o costrette a intrupparsi dietro i loro leader quasi sempre tradizionalisti e autoritari, ma anche di quelle occidentali, che sempre più si vedono spinte verso l’economia di guerra e i sacrifici che questa comporta, mentre subiscono gli effetti della crescita dell’estrema destra, che negli USA e nella UE torna a essere lo strumento politico per gestire la crisi del capitalismo.
È in questo contesto che prende tutto il suo senso il vertice della NATO previsto a L’Aja dal 24 al 26 giugno. Si tratta di un momento estremamente importante perché in quest’occasione i leader della NATO dovranno decidere di quanto dovrà crescere la spesa militare dei membri dell’Alleanza.
Le condizioni in cui una sconfitta può evitare di trasformarsi in un irreversibile disastro sono almeno due. La prima è quella di riconoscerla come tale senza cavillose giustificazioni. La seconda è analizzarne bene le cause, aprire un dibattito su queste, senza avere la fretta di giungere a improvvisate conclusioni. Solo così si può sperare di risalire la china. E non è detto che basti.
Ora proprio il netto insuccesso della prova referendaria di giugno su tematiche della massima importanza come il lavoro e la cittadinanza ci costringe – ed è indispensabile che ciò avvenga – a considerazioni di fondo sullo stato dell’orientamento democratico della società civile, dove è evidente l’azione corrosiva portata dalle destre. Questa risulta particolarmente sottolineata constatando la distanza considerevole che ha separato i Sì al primo dei quattro quesiti sul lavoro (quello relativo alla reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo anche per chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015) da quello sulla cittadinanza. I numeri parlano chiaro: il primo quesito, il più votato tra quelli sul lavoro, ha raggiunto 13.310.443 voti (comprendendo anche quelli provenienti dall’estero), mentre quello sulla cittadinanza (sempre con i voti esteri) si è fermato a 9.748.806. Nella provincia di Bolzano, ove si è votato di meno che nel resto d’Italia, il No al dimezzamento degli anni d’attesa per conseguire la cittadinanza ha addirittura superato i Sì con il 52% dei voti.
Nei giorni (pasquali) in cui se ne andava all’altro mondo il papa più a sinistra che si ricordi (almeno stando alle sue dichiarazioni pubbliche, alla vulgata di quella figura pop che ha saputo essere il gesuita Bergoglio) se ne andava anche una delle figure meno conosciute, più schive e più ostinate e originali della cultura politica europea, il francese Jacques Camatte1. Filosofo, attento e acuto interprete di Marx, sodale di Amedeo Bordiga (fondatore del PCI) col quale da giovanissimo (negli anni Cinquanta) intraprende uno scambio epistolare che porterà a un’amicizia e a un intenso dialogo (non privo di contrasti) che durerà fino alla morte di quest’ultimo. Membro del Partito Comunista Internazionale fino al 1966. Dal 1968 è fondatore e animatore della rivista «Invariance», ancora attiva on-line. Autore di svariati testi teorico politici che portano, tutti, la stessa dedica (alla moglie) e lo stesso esergo:
Il tempo è l’invenzione di uomini incapaci di amare.
L’amore quindi al centro, o almeno è così che mi piace leggere il senso persistente del pensiero complesso e stratificato di Camatte, della «Gemeinwesen» come comunità di affetti, comunità di amatori, di persone capaci di agire per smuovere «il sole e l’altre stelle» (il sol dell’avvenir!). Mi è capitato spesso di citare questa frase di Camatte, quasi ogni volta che qualcuno sottolineava la minaccia di un ritardo, insegnatami da un amico che viveva costantemente fuori orario e conosceva e mi ha fatto conoscere Camatte.
1. Le oligarchie americane perennemente
belliciste, insieme al cagnolino da passeggio
israeliano, hanno deciso di
incendiare il Medio Oriente, in una strategia che non
riguarda solo tale regione, ma include l’Europa (Ucraina) e
l’Estremo Oriente
(Taiwan-Cina). Proviamo a indagare. Innanzitutto, Biden o
Trump, questo è il nostro avviso, non fa molta differenza. I
due fronti, Rep o Dem,
sono entrambi lucciole elettorali che si spengono quando gli
attori principali o le comparse diventano presidenti,
deputati o senatori.
A dispetto delle indecenti rappresentazioni che sfidano da tempo la legge di gravità, e che i potenti della terra fanno digerire a una popolazione alienata da consumismi televisivi e intontimenti cellularici, è ben evidente che senza la luce verde della corrotta plutocrazia statunitense – è una noia ripeterlo, ma repetita iuvant – i criminali sionisti potrebbero al più acquistare il carburante per rientrare in casa al termine delle loro sataniche riunioni ministeriali, non certo aggredire un paese grande cinque volte l’Italia e abitato da quasi cento milioni di persone.
Il G7, riunitosi in Canada il 16 e 17 giugno, pur nella confusione che ormai caratterizza i potenti dell’Occidente (non più della terra), ha rilasciato un testo in cui si afferma l’usuale invereconda litania che Israele ha diritto di difendersi e che l’Iran non potrà mai possedere un’arma nucleare. Le signorie loro, se la domanda è lecita, hanno la testa a posto o no? Avremmo infatti piacere di comprendere l’essenza di quell’imperativo categorico per il quale a Israele è concesso possedere l’arma atomica e all’Iran no. E in tal caso, da quale autorità superiore (Nazioni Unite, Congresso Mondiale dei Popoli, il Padreterno o altri) tali svalvolati hanno ricevuto il mandato di adottare cotanta equilibrata decisione. Prego.
Nel merito e a contrario, non pochi rinomati analisti ritengono che se l’Iran davvero acquisisse l’atomica, (sebbene abbia sempre dichiarato di non volerla e non vi siano prove che la stia acquisendo, come certificato dall’Aiea[1] e dal vertice dell’Intelligence americana Tulsi Gabbard[2]), il Medio Oriente potrebbe finalmente conoscere pace e stabilità, esattamente ciò che i terroristi sion-americani vedono come il fumo negli occhi.
Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00
Per quelli come noi che hanno avuto
modo di apprezzare le opere di Philip K. Dick nei vecchi Urania
e Millemondi, nelle collane delle Edizioni Nord,
nella
Collezione Immaginario Philip K. Dick di Fanucci e
adesso negli Oscar Mondadori, chi come noi ha avuto il
privilegio di seguire da vicino i
primi contributi critici italiani sull’opera di questo
scrittore straordinario e visionario, chi ha avuto il
privilegio ulteriore di tradurre
opere come Ubik (1965), In senso
inverso (1967) e alcuni dei romanzi e dei
racconti più importanti della sua
produzione, non può non salutare l’uscita del Meridiano
Mondadori – Opere Scelte di Philip K. Dick, in due volumi,
come una
consacrazione dovuta da tempo a uno degli scrittori più
geniali e profetici del nostro tempo, che hanno contribuito
a plasmare, a scrivere il
nostro presente e il nostro futuro.
Ma è possibile canonizzare Dick, normalizzare Dick, e – in definitiva – addomesticare Dick? Come si fa a ridurre nei canoni di un genere letterario – o della pura e semplice letteratura – un autore così originale? Ecco perché forse si sarebbe dovuto riflettere in modo più approfondito su alcuni spunti geniali presenti nelle cosiddette opere mainstream di Dick, quei tentativi di Dick di uscire dai canoni del romanzo di fantascienza, opere che purtroppo non sono state incluse in questo cofanetto.
Una famosa battuta di Emmanuel Carrère risuona nella mente del lettore invasato di Dick – o meglio, di PKD – per tutta la sua preziosa Cronologia ed è appropriata anche per comprendere l’approccio che avremmo avuto noi in un Universo alternativo, un Universo parallelo in cui, come scrive lo stesso Emanuele Trevi, “il Meridiano non l’ho scritto io, ma qualcun altro”. La battuta di Carrère è la seguente: “Nel caso del Cristianesimo delle origini, o del Cristianesimo in generale, dove finisce la patologia, la psicopatia, la malattia mentale, e comincia la religione?” Ne Il Regno (2014) Carrère ama descrivere i Cristiani della prima ora come un gruppo di pazzi scatenati, che facevano delle cose folli, che immaginavano un mondo che ancora non esisteva, di là da venire. Lo stesso fanno quel gruppetto di pazzi invasati, Phil, Kevin, David – ognuno rappresentante un diverso aspetto della personalità dello scrittore – che si interrogano sul Secondo Avvento di un nuovo Messia nel romanzo VALIS.
L’intervista
a uno dei maggiori
filosofi marxisti viventi sul suo recente lavoro Da Pio
IX a Leone XIV. Prospettive marxiste sulla dottrina
sociale della
Chiesa, per aprire una riflessione critica
sull’evoluzione del pensiero e del “magistero” cattolico.
L’elezione del nuovo papa ha innescato la gara fra i commentatori per qualificare questo nuovo pontificato. Riteniamo che saranno i fatti a poter dare un giudizio informato, anche se le premesse non ci paiono promettenti a partire proprio dalla decisione di assumere del nome di Leone come richiamo all’autore della Rerum Novarum. Se, infatti, questa scelta viene da molti, forse dai più, vista come un’attenzione alla questione sociale che con quell’enciclica la Chiesa affrontava per la prima volta, non deve sfuggirci, invece, il carattere antisocialista di quel documento che vedeva come un elemento di natura la proprietà privata dei mezzi di produzione e, di conseguenza, contro natura le aspirazioni socialistiche e si poneva l’obiettivo di arginare il montante movimento delle classi lavoratrici proponendo palliativi alla terribile condizione dei lavoratori.
Vorremmo parlarne con Roberto Fineschi, fra i maggiori filosofi marxisti viventi, il quale recentemente ha pubblicato un libro che definisce come “rimaneggiamento di articoli recenti e passati” ma che, in realtà, affronta abbastanza sistematicamente il tema dell’evoluzione della dottrina cattolica attraverso i vari papi, da Pio IX in poi, con una intera parte opportunamente dedicata al solo papa Ratzinger. In un’altra, la prima, affronta il tema della dottrina sociale della Chiesa.
Per dirla alla Marlon Brando/Kurtz, ci sono in giro dei fantasmi che hanno mandato il loro garzone a riscuotere i sospesi. Ci volevano una sfrenata fantasia ed una totale mancanza di lucidità per concedere credito a un cialtrone come Trump. Purtroppo anche un altro mito complementare che sembrava più verosimile, quello di Putin accreditato come grande “statista”, si sta sgretolando sotto i colpi dell’evidenza. In un recente articolo Giuseppe Gagliano si è soffermato sulle palesi analogie tra gli attacchi terroristici con droni da parte dell’Ucraina (o attribuiti all’Ucraina) in Russia, e di Israele (e forse non solo Israele) in Iran.
La definizione di terrorismo non ha una valenza morale ma tecnica; poiché, in entrambi i casi, dei mezzi di trasporto civile sono stati utilizzati come mascheramento per compiere attacchi nei confronti del nemico. Queste operazioni “sporche” sono sempre avvenute, ma chi le compiva, in caso di cattura, non poteva avvantaggiarsi dello status e dei diritti del prigioniero di guerra riconosciuti dalla Convenzione di Ginevra; questo però è l’aspetto meno interessante della questione. Nel suo recente articolo Gagliano non fa riferimento a un altro suo articolo dell’ottobre del 2023 sulla sempre più stretta e articolata collaborazione militare tra Israele e Azerbaigian. Tra l’altro, tale collaborazione non prevede solo la fornitura di armamenti da parte di Israele, ma anche la licenza di fabbricazione di droni. Se si considera che l’Azerbaigian ha centinaia di chilometri di confine con la Russia e con l’Iran, e che consistenti minoranze azere sono presenti in Russia e in Iran, non si può evitare di fare due più due.
Smontiamo i cliché sull’Iran, una realtà complessa: non solo repressione, ma partecipazione femminile, pluralismo religioso e dinamismo culturale. Modernità e tradizione convivono in un sistema unico. Superare le semplificazioni e capire davvero
Il recente attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani ha riportato l’Iran al centro del dibattito internazionale, insieme ai soliti cliché che lo dipingono come un regime oppressivo, una prigione per donne e minoranze, un paese impermeabile alla modernità. È una narrazione comoda, netta, utile a sostenere lo scontro politico e ideologico. Ma, come spesso accade, è anche profondamente sbilanciata. Se si guarda con attenzione e senza pregiudizi, l’Iran rivela un’altra verità: una realtà complessa, piena di contraddizioni, dove coesistono spinte modernizzatrici e rigidità tradizionali, autorità religiose e forme di partecipazione popolare.
Il sistema istituzionale della Repubblica islamica non è facilmente classificabile. Non è una democrazia liberale, ma nemmeno una dittatura. È un ordinamento ibrido, unico nel suo genere, in cui poteri religiosi e meccanismi di legittimazione popolare si intrecciano in modo sofisticato. Al vertice si trova la Guida Suprema, figura che esercita un’influenza estesa, ma che non è del tutto sciolta da vincoli: viene nominata da un Consiglio degli Esperti, eletto a suffragio universale, che ha il potere – teorico ma esistente – di revocarla.
A quanto pare Trump si è consegnato ai neoconservatori che da decenni spingono per radere al suolo l’Iran, in combinato disposto con Netanyahu e soci. Questo nelle dichiarazioni roboanti e decisamente bellicose contro Teheran, anche se ancora non ha dato luce verde ai bombardieri americani, cosa che infastidisce non poco i suoi attuali fan, secondo i quali avrebbero dovuto farlo subito.
D’altronde, se Trump fosse del tutto organico a tali ambiti Israele non avrebbe mai attaccato in solitaria, ma si sarebbe coordinato con l’alleato fin dall’inizio. Né il presidente Usa continuerebbe a parlare di un possibile accordo con l’Iran, per fare il quale vorrebbe organizzare un incontro tra il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi e i due suoi uomini più fidati, il vicepresidente J.D. Vance e Steve Witkoff.
Anche se più che di accordo si dovrebbe parlare di una richiesta di resa incondizionata, dal momento che chiede lo smantellamento totale dell’apparato nucleare, rifiutato finora da Teheran.
Altro punto di distacco da Netanyahu e soci il fatto che non appare disposto ad assecondare un regime-change in Iran, dichiarato apertis verbis dal premier israeliano. Tale divergenza è sottolineata da un articolo di Bar’el pubblicato da Haaretz, in cui spiega che tale disposizione di Trump è evidenziata dal veto che ha posto sull’assassinio dell’ayatollah Khamenei.
Mentre il conflitto tra Israele e Iran entra nel suo terzo giorno, le vittime da entrambe le parti aumentano. Almeno 80 persone sono state uccise in Iran e almeno 10 in Israele. Nonostante la risposta letale dell’Iran, i funzionari israeliani hanno continuato a insistere sulla necessità di attacchi contro diverse strutture nucleari e militari iraniane.
Sono state fornite numerose giustificazioni al pubblico israeliano, ma nessuna di esse spiega le vere ragioni per cui il governo israeliano ha deciso di portare a termine questo attacco unilaterale e immotivato.
Il governo israeliano sostiene che l’attacco fosse “preventivo”, volto a fronteggiare un’immediata e inevitabile minaccia da parte dell’Iran di costruire una bomba nucleare. Non sembrano esserci prove a sostegno di questa affermazione.
L’attacco israeliano è stato indubbiamente pianificato meticolosamente per un lungo periodo di tempo. Un attacco preventivo deve comportare un elemento di autodifesa, che a sua volta è generato da un’emergenza. Nessuna emergenza del genere sembra essersi verificata.
Inoltre, Israele ha suggerito che il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), pubblicato il 12 giugno, che condannava l’Iran per violazioni sostanziali degli impegni assunti nel Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari (TNP) fino all’inizio degli anni 2000, costituisca tale emergenza. Ma persino l’AIEA sembra respingere tale affermazione. Non c’era nulla nel rapporto che non fosse già noto alle parti interessate.
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«Dopo il 2017
il dibattito sul comunismo (o anche sulla “crisi del
marxismo”) è
andato scemando e pare oggi cancellato. Nessuno è più
disposto a portare questo Anchise sulle spalle». Questa la
conclusione cui
sono giunto in «Nei dintorni di Franco Fortini» (gennaio
2025), dove ho riassunto i principali interventi della
“Conferenza di Roma
sul comunismo” (18/22 gennaio 2017)1 e gli scambi avvenuti,
sempre nel 2017, nella redazione di Poliscritture dopo la
pubblicazione di un
mio commento ‘Comunismo’ (1989) di Fortini.2 Da allora il
silenzio. E ora, in questo buio presente di guerre, ha senso
ancora parlarne?
Come? Con chi? Eros Barone, che il tema non l’ha
abbandonato, propone queste sue «Tesi sul comunismo». Sono
lontane e in aperto
contrasto con la posizione di Fortini, per me ancora punto
di riferimento e da lui omaggiata ma subito accantonata. e
pure con la mia esigenza di un
ripensamento non scolastico o da epigoni. Le pubblico,
tuttavia, ringraziandolo, perché i rendiconti che da vecchi
facciamo delle nostre
esperienze vissute e rielaborate vanno rispettati e
meditati, anche se non dovessero essere ripresi da altri o
servire poco a cercare altre strade. [
E. A.]
* * * *
L’amico e compagno Ennio Abate mi ha chiesto di rilanciare il dibattito sul significato del comunismo e della lotta per il comunismo, prendendo le mosse da un dibattito promosso e sviluppato intorno a questi temi otto anni fa proprio su questa stessa rivista. Al centro di quel dibattito vi era la definizione del comunismo e della lotta per il comunismo, formulata da Franco Fortini: definizione dalla quale, pur con tutto il rispetto che si deve ai “maggiori”, mi sembra importante prendere le distanze per il forte sapore di idealismo, di sconfitta e di potenziale opportunismo che quella definizione non sempre chiara e persuasiva, elaborata a ridosso degli eventi epocali del 1991, contiene e diffonde.
La guerra in Ucraina e il conflitto tra Israele e Iran non sono crisi separate, ma fronti interconnessi in una guerra mondiale a pezzi, che vede gli Stati Uniti contrapporsi a un’alleanza di fatto tra Russia, Iran e Cina
Secondo la
portavoce del Ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova,
gli Stati Uniti hanno annullato il prossimo round di colloqui
con la Russia per il
ripristino delle relazioni diplomatiche. Resta da vedere se
questo segnerà la fine dei colloqui di pace o se si tratterà
solo di una
pausa temporanea mentre gli Stati Uniti concentrano le loro
energie altrove, ovvero sul conflitto israelo-iraniano in
rapida escalation. Ma una cosa
è chiara: finora i negoziati sono falliti.
Il tentativo di Donald Trump di mediare un accordo di pace in Ucraina è fallito non solo a causa di una diplomazia imperfetta, ma anche a causa di una convergenza di vincoli politici, resistenze istituzionali e interpretazioni errate della natura del conflitto. Quella che era stata presentata come un’iniziativa coraggiosa per porre fine alla guerra ha invece messo a nudo i limiti dell’istinto di politica estera di Trump, lasciando gli Stati Uniti più invischiati che mai.
Fin dall’inizio, Trump ha sottovalutato quanto un compromesso sarebbe stato politicamente insostenibile sia per l’Europa che per l’Ucraina. Per i leader europei, la guerra è diventata una forza legittimante, che giustifica sacrifici economici, una governance centralizzata e politiche sempre più autoritarie. Qualsiasi accordo che riconoscesse i guadagni territoriali russi equivarrebbe a un’ammissione politica di fallimento, rafforzando l’opposizione interna. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si trovava di fronte a una posta in gioco ancora più alta. Un accordo di pace, in particolare se visto come una capitolazione, potrebbe significare la fine della sua presidenza o persino minacce alla sua sicurezza personale. Queste realtà interne rendevano improbabile qualsiasi serio negoziato, a meno che gli Stati Uniti non esercitassero una pressione schiacciante, cosa che hanno scelto di non fare.
Eppure, anche se Trump avesse insistito di più, i suoi sforzi si sarebbero comunque arenati sugli scogli della politica americana. A Washington, l’apparato di sicurezza nazionale – compresi molti membri della stessa amministrazione Trump – rimane fermamente impegnato a prolungare il conflitto.
Il 15 giugno scorso La
Repubblica on line titolava: Iran, il fisico Cotta-Ramusino:
“Senza un accordo arriveranno alla bomba”. Com’è ormai
consuetudine nel mainstream, il titolo è totalmente
disconnesso dal contenuto dell’articolo che, in questo caso,
consiste in
un’intervista a Paolo Cotta-Ramusino che “è stato per
decenni professore alla Statale di Milano, dove ha tenuto
anche un corso
sulle armi atomiche. E fino al primo gennaio scorso ha
ricoperto il ruolo di Segretario generale delle Pugwash
Conferences on Science and World
Affairs, movimento di scienziati pacifisti fondato nel 1957
da Joseph Rotblat e Bertrand Russell e premiato con il Nobel
per la Pace nel 1995. Ora
è membro del Gruppo di lavoro per la Sicurezza
Internazionale e il Controllo degli Armamenti dell’Accademia
dei Lincei, presieduto dal
fisico Luciano Maiani. Ma continua a viaggiare per Pugwash.”
(repubblica-paolo-cotta-ramusino-attacco-israele).
Lo scienziato italiano ha evidenziato di non aver avuto problemi durante la recente visita e che “L’Iran è un grande Paese e ha molte anime: noi abbiamo parlato soprattutto con i rappresentanti dell’attuale governo. E l’establishment iraniano era preoccupato.” In maniera piuttosto esplicita poi Cotta-Ramusino sentenzia: “Il solo modo per impedire che l’Iran costruisca ordigni atomici è fare un accordo analogo a quello stipulato nel 2015 con l’Amministrazione Obama. Attaccando l’Iran lo si induce a costruirsi la bomba. È il contrario dell’obiettivo dichiarato. E poi: Israele è l’unico Paese che possiede armi nucleari senza dichiararle. E prende questa posizione nei confronti dell’Iran perché ha paura di essere aggredito?”
Ora risulta evidente anche ai bimbi delle elementari che, se vogliono ottenere un accordo amichevole con il proprio compagno di classe, come il farsi passare il compito in classe di aritmetica, l’ultima cosa da fare è picchiarlo e per giunta davanti ai maestri. Il bambino picchiato può fare solo due cose: o decide di difendersi o si rivolge all’autorità preposta per farsi proteggere. Se i maestri si comportano come il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con uno di loro che, essendo il padre padrone del bambino picchiatore, pone il veto alla risoluzione per la sospensione del bambino, reo palese di violazione del diritto scolastico, all’alunno bullizzato non resta altro che reagire.
https://www.youtube.com/watch?v=L33-X2aVYeI
Vi si narra, sullo sfondo del menzognificio col quale credono di convincerci che il terrorista è il terrorizzato, l’aggressore è l’aggredito, t’atomico è iraniano e non quello che ha 500 atomiche e vive di guerre, menzogne e aberrazioni morali esercitate con massacri di bimbi palestinesi e violenze su quelli propri (vedi scandalo Knesset, da tutti occultato), cosa sono i due capisaldi della fine del mondo.
Lo stato terrorista che da un quarto di secolo spazza via tutto ciò che ne ingombra la necrofollia e che manifesta le stesse aberrazioni morali esercitate nei sistematici infanticidi di palestinesi, nei confronti di piccole vittime della propria schiatta. Vedi alla voce “Messe nere al Knesset”
E l’accolita dei (im)moralmente, ideologicamente e apocalitticamente affini del club di Bilderberg. Vertice annuale, stavolta tra i Neo-NATO svedesi, per la prima volta non innocentemente ignorato da quelli cui spetta l’onere e l’onore di informare le plebi su cosa gli viene fatto dalla setta di super-ricchi oligarchi, che spolpato i popoli fino al parossismo della loro ricchezza e del loro potere, si apprestano alla soluzione finale.
Nelle sue considerazioni finali Fabio Panetta ha ricordato la lunga fase di stagnazione dell’economia italiana sottolineando, però, che negli ultimi cinque anni, nonostante le crisi pandemica ed energetica, il Paese ha mostrato segni di una ritrovata vitalità economica. La crescita ha superato quella dell’area dell’euro. Il PIL è aumentato di circa il 6 per cento, trainato da un incremento di quasi il 10 nel settore privato, in particolare nel settore delle costruzioni.
Il Governatore dunque ha riconosciuto che il settore delle costruzioni ha trainato la crescita dell’economia italiana in modo preminente nel triennio 2021/23, senza però spiegare come questo risultato positivo sia stato conseguito.
Ebbene ciò è stato possibile grazie all’introduzione dei crediti fiscali trasferibili nell’edilizia che hanno permesso di sfruttare lo sconto in fattura e di monetizzare immediatamente i crediti fiscali senza aspettare di usarli alla scadenza per scontare le tasse.
In questo modo le fasce meno abbienti hanno potuto ridurre l’esborso in euro per pagare i lavori di ristrutturazione e l’acquisto di impianti a elevata efficienza energetica poiché una parte dei pagamenti poteva essere effettuata con i crediti fiscali. Le imprese, avendo la possibilità di monetizzare i crediti a un tasso di sconto contenuto, potevano disporre immediatamente della liquidità per pagare operai e fornitori. Tutto ciò ha dato una spinta potente al Pil e alle entrate fiscali permettendo di ridurre il rapporto debito/Pil di circa 20 punti, dal 154,1 del 2020 al 134,6% del 2023. Si tratta della performance migliore tra i paesi dell’eurozona.
Fin da quando nell’ottobre 2023 ha scatenato l’offensiva a Gaza – non una guerra ma lo sterminio dei Palestinesi, cui s’aggiungono le espulsioni mortifere in Cisgiordania occupata – Netanyahu ha indicato l’obiettivo desiderato: la “vittoria totale”.
Dal 13 giugno sappiamo che la vittoria totale, come la concepisce il premier in combutta da trent’anni con i neoconservatori Usa, è la sconfitta militare di quella che chiama “la testa della Piovra”: la Repubblica Islamica dell’Iran. Teheran è il fronte decisivo dell’“Asse della Maledizione” (dopo Gaza, Cisgiordania, Hezbollah in Libano e Iraq, Houthi nello Yemen, Siria).
Trascinare Washington nella guerra è la volontà di Netanyahu, che opera grazie ai soldi e ai servizi Usa, ma non può penetrare il sito nucleare di Fordow senza un diretto impegno americano. “I cieli sono sotto il nostro controllo”, ha detto martedì Trump, confermando che l’attacco è sempre più congiunto ed esigendo la resa incondizionata. In Europa il suo più acceso sostenitore è il cancelliere Merz, candidato a rappresentare il paese più armato dell’Ue: “Netanyahu fa il lavoro sporco per tutti noi. Da solo non può farlo se vogliamo eliminare del tutto il nucleare dei mullah”.
Una volta liquidati o espulsi i Palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, e se otterrà la vittoria sull’Iran che li proteggeva, Netanyahu e i suoi ministri si sentiranno più vicini che mai alla meta agognata dagli avversari di uno Stato palestinese: il progetto coloniale di un Grande Israele, esteso ai territori occupati nel 1967 e svuotati di gran parte dei Palestinesi, oltre che a pezzi del Libano e della Siria.
Trump vuole la pace ma non si esprime sui missili a lunga gittata degli europei contro la Russia. Trump vuole la pace ma non condanna il secondo attacco, gravissimo, al sistema della triade nucleare russa. Trump vuole la pace ma lancia avvertimenti mafiosi alla Russia: Quello che Vladimir Putin non capisce è che, se non fosse stato per me, molte cose davvero brutte sarebbero già accadute alla Russia. E intendo davvero brutte. Sta scherzando con il fuoco!
Non possiamo allo stato delle cose provare il coinvolgimento diretto di CIA, MI6, NATO e USA ma non possiamo ragionevolmente escluderlo. L’attacco nel cuore del territorio russo a 4000 km dal fronte ucraino è stato condotto se non con l’assistenza, almeno con la conoscenza dell’intelligence Nato ed USA.
È un messaggio mafioso alla Federazione Russa che dice: abbiamo i mezzi, siamo dentro la Russia possiamo colpirvi dove e quando vogliamo ed è successo proprio quando la Russia ha parlato di zona cuscinetto, di zona di sicurezza e si è mossa anche militarmente in questa direzione.
Ma si tratta ormai di una guerra
senza esclusione di colpi, una guerra totale.
Il concetto di
zona di separazione è stato vanificato. Sarebbe un modo per
continuare indefinitamente…
Nel panorama complesso delle relazioni internazionali post-2022, la Federazione Russa ha intrapreso un processo di ricalibratura delle proprie alleanze, proiettando una rete densa, ma spesso fragile, di cooperazione strategica con attori regionali ostili all’ordine occidentale. Tra questi, l’Iran si distingue non solo per la sua prossimità ideologica a Mosca in termini di antagonismo sistemico verso gli Stati Uniti e i loro alleati, ma per il suo ruolo di pivot nel garantire profondità logistica, flessibilità diplomatica e continuità nelle operazioni di influenza russa in Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale. La possibile caduta del regime degli ayatollah, ipotesi tornata d’attualità nelle ultime ore, rappresenterebbe per il Cremlino non soltanto una perdita strategica, ma una cesura potenzialmente disgregativa nell’ architettura del potere russo.
L’Iran come Pivot Strategico nella Proiezione Russa
A differenza del caso siriano, dove il sostegno a Bashar al-Assad ha rappresentato per Mosca una dimostrazione muscolare più che una necessità strutturale, l’Iran costituisce per la Russia un elemento di equilibrio. Dalla logistica militare alla cooperazione energetica, fino al coordinamento tecnico-industriale nel settore della difesa, la Repubblica Islamica ha garantito al Cremlino un accesso stabile e scalabile a risorse e infrastrutture necessarie alla prosecuzione della sua narrativa internazionale post-imperiale.
Il 13 settembre 2014,
profeticamente, Papa Francesco dichiarò il segno del nostro
tempo tragico. Nel centenario della Prima Guerra Mondiale
ricordò che
“anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra
mondiale, forse si può parlare di una terza guerra
combattuta
‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”[1].
Sono passati solo undici anni, ma sembrano un’eternità. Si era nel tempo del Job Act di Renzi, di Schäuble che al G20 si oppose alle richieste di manovre anticicliche degli Usa, riaffermando il vangelo dell’austerità e il surplus di bilancio europeo e tedesco. Era il tempo in cui Obama spingeva perché fossero firmati due trattati di libero scambio, in chiave anti-cinese e a vantaggio delle aziende tecnologiche. Il TTIP (con l’Europa) e il TPP (con l’Asia) avevano infatti un solo scopo: come Jack Lew chiese al G20, quello di creare le condizioni per ribilanciare le partite commerciali statunitensi. Allora come ora il mondo esportava negli Stati Uniti molto più di quanto importasse da essi, e i cittadini americani consumavano più di quanto producessero. Allora come ora il debito pubblico, traduzione di quello privato, cresceva sempre di più. Allora come ora il sistema-America era complessivamente indebitato verso il mondo. E allora come ora la fiducia nella capacità sul lungo periodo (oggi anche sul breve) di sostenere questo ritmo era sfidata.
Sono passati undici anni e quei nodi sono giunti al pettine[2]. Sull’onda del progressivo svuotamento della posizione di forza americana[3], e dell’accelerazione della crisi europea passata per lo shock del Covid[4], la crescente competizione cinese e la guerra Ucraina che ha tagliato le sue forniture energetiche, l’Occidente appare disperato e pronto a tutto. La ragione è il vuoto che alberga nel suo cuore, in quelle classi medie e nelle contigue classi popolari attive, disinteressate e perse nella lotta per la vita, disperse in innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore coltivati scientemente dagli algoritmi[5] e ormai a quello che Todd chiama il punto zero (o stato zombi) del disperato individualismo.
«Io canto l’individuo, la singola persona, / al tempo
stesso canto la Democrazia, la massa»
Verso tratto
dalla poesia di Walt Whitman, “Io canto l’individuo”
Cosa succede in America?
Per chi conosce la sigla algamica (in calce a questo documento) sa che da alcuni anni, sul riflusso dell’insurrezione e del vastissimo movimento di George Floyd, sosteniamo che gli Stati Uniti d’America si stanno sbriciolando (“crumbling”) sotto l’incedere di una crisi generalizzata del modo di produzione capitalistico. Lo sbriciolamento approfondisce tutti i fattori di una nuova guerra civile. Non c’è questione sociale che immediatamente non porti ad assumere la forma della politica della violenza e così via.
Del resto, non siamo gli unici che avvertono il riverbero di onde telluriche profonde. Anche la stampa dell’establishment liberista occidentale avverte il tremolio e si domanda se l’America si stia avviando verso una nuova guerra civile americana. Se la seconda elezione di Trump ha segnato quel che scrivemmo nell’articolo “C’era una volta l’America”, i nuovi fatti che stanno accadendo in California, in Texas e in altre importanti città sono il riflesso agente di quella tendenza in marcia, che qui cerchiamo di esplicitare.
Perchè “Walt Withman, addio”? Perchè Walt Withman è, a ragione, ritenuto il padre della poesia statunitense, che in quei versi ha saputo condensare l’eccezionalità della storia americana che l’ha contraddistinta per oltre due secoli: ovvero la capacità di combinare la latente contraddizione tra lo sviluppo liberista delle libertà individuali con lo sviluppo della democrazia della maggioranza lungo un intero ciclo storico. Come più volte abbiamo scritto, già Alexis de Tecqueville indicava esservi una intrinseca, oggettiva contraddizione, ma la democrazia americana era dotata di quella incredibile capacità di compensarla.
La fiducia è tutto. E questo "capitale" si sta erodendo rapidamente
Il conflitto tra Musk e Trump (almeno
per ora) ha una qualità decisamente “televisiva”. Ma non
lasciatevi ingannare dall’intrattenimento. Il litigio illustra
una
contraddizione fondamentale nel cuore della coalizione MAGA. È
molto probabile che questa contraddizione possa esplodere più
avanti e
finisca per innescare la lenta decadenza del Progetto Trump.
Un momento cruciale delle ultime elezioni americane era stato quando gli oligarchi tecnologici ultra-ricchi della Silicon Valley erano passati dal sostegno ai Democratici a quello a Trump. Questo aveva portato sia denaro, sia la tanto agognata possibilità per l’America di conquistare il monopolio dell’archiviazione globale dei dati, dell’IA e di quello che Yanis Varoufakis chiama il “capitale cloud“, ovvero la presunta capacità di estrarre una rendita (cioè tariffe) per l’accesso alla presunta enorme riserva di dati dell’America e alle piattaforme associate delle Big Tech. Si riteneva che un tale monopolio dati avrebbe conferito agli Stati Uniti la capacità di manipolare il modo in cui il mondo pensa e decide i prodotti e le forme di pianificazione considerati “cool”, alla moda.
L’idea era anche che un monopolio sui centri dati potesse essere potenzialmente redditizio quanto quello statunitense del dollaro, utilizzato come principale valuta commerciale, [un monopolio sui centri dati] che avrebbe potuto generare importanti afflussi di capitale per compensare il debito.
La caratteristica esplosiva di una coalizione tra oligarchi tecnologici e populisti MAGA, tuttavia, è che entrambe le fazioni hanno visioni inconciliabili – sia per affrontare la crisi strutturale del debito americano, sia per il futuro culturale dell’America.
Giravolte americane Tutti a interrogarsi sul Trump che sbraita ma tentenna, urla ma arretra, minaccia ma si nasconde, quindi sorride, morde all’improvviso, chiede scusa e poi punta la pistola in faccia, come in un infinito circo dell’orrore. Si diffonde l’idea, lo sostiene ad esempio il Nobel per l’economia Heckman, che sia solo un altro «pazzo al potere»
Tutti a interrogarsi sul Trump che sbraita ma tentenna, urla ma arretra, minaccia ma si nasconde, quindi sorride, morde all’improvviso, chiede scusa e poi punta la pistola in faccia, come in un infinito circo dell’orrore. Si diffonde l’idea, lo sostiene ad esempio il Nobel per l’economia Heckman, che sia solo un altro «pazzo al potere».
L’ultimo sintomo di instabilità mentale sarebbe l’andirivieni del presidente sulla dimensione effettiva dell’appoggio militare americano a Israele, nella guerra contro l’Iran.
Questa moda di scovare i moventi rapsodici del leader tra le pieghe nascoste di una mente disturbata non è una novità. Già Erich Fromm, in pieno revisionismo freudiano, teorizzava sulle possibili ossessioni sadiche di Stalin per disvelare le cause della sua violenza politica. Di recente il concetto è stato ribadito per Putin, Kim, Khamenei. E adesso, tocca al capo del fronte occidentale.
Per la loro estrema semplicità, queste interpretazioni psicanalitiche godono di ampio successo tra gli opinionisti di grido, più che mai disallenati al pensiero complesso. In fondo, «il capo è pazzo» è un’espressione al contempo abbastanza stupida e solenne da funzionare alla perfezione nel ritmato nulla degli odierni talk televisivi.
C’è uno stretto legame tra la guerra, il dollaro e il debito Usa. L’aggressione di Israele ai danni dell’Iran è avvenuta in un’area, quella del Medio Oriente e del Golfo Persico, che ospita le maggiori riserve mondiali di petrolio e di gas. In particolare, l’Iran detiene le seconde riserve mondiali di gas e le terze riserve di petrolio. Inoltre, attraverso lo stretto di Hormuz, controllato dall’Iran, passa il 30% del petrolio mondiale, diretto verso l’Asia orientale e in particolare verso la Cina, che, a dispetto delle sanzioni statunitensi, acquista il 90% del petrolio esportato dall’Iran.
Pochi giorni dopo l’inizio dell’attacco israeliano, il Sole 24ore ha titolato in prima pagina “Commercio internazionale, meno dollari e più euro”[i]. Secondo l’autorevole quotidiano economico, la leadership valutaria del dollaro statunitense è messa sempre più in discussione nelle transazioni commerciali internazionali. Una crescente quota del commercio globale comincia a essere regolata in valute diverse dal dollaro, e cioè in euro, yuan renmimbi cinese, dollaro canadese e altre. Significativo, a questo proposito, è quanto affermato dal responsabile delle vendite di Us Bancorp: “Molti nostri clienti raccontano che i fornitori esteri non vogliono più essere pagati in dollari. Una volta era quasi un dogma. Ora dicono <<Dateci la nostra valuta, basta che paghiate>>”.
Questa tendenza a passare dal dollaro ad altre valute è determinata non solo dalla volatilità del dollaro, che è salito del 7% a fine 2024 ed è sceso dell’8% nei primi mesi del 2025, a causa delle politiche ondivaghe sui dazi di Trump. A pesare è anche l’effetto delle sanzioni che, per esempio, hanno condotto Cina, Russia e Iran a usare per le loro transazioni lo yuan renmimbi.
Il dado è stato tratto, la guerra mondiale è ormai innescata e nessuno sembra avere la forza o l’intelligenza necessaria a fermarla.
Stanotte gli Stati Uniti sono entrati direttamente nella guerra tra Israele e Iran, colpendo nella notte i tre siti nucleari strategici di Fordow, Natanz e Isfahan.
Donald “Tentenna” Trump ha subito definito l’operazione come “completamente riuscita“, ma anche aggiunto che “ora è il momento della pace”. Come al tavolo da gioco, “butto lì un carta e vediamo che succede“. Ma nel gioco della guerra ogni mossa diventa un precedente da cui non si torna indietro… Tanto più che il fatto stesso di dover intervenire direttamente come “massima potenza militare” certifica la debolezza di Israele, che non è in grado da sola di piegare l’Iran.
L’attacco è avvenuto con sei bombardieri B2 – due per sito, probabilmente – che hanno sganciato per la prima volta le bombe GBU-57, da 13.600 kg, definita “bunker buster”, progettata per penetrare nei siti sotterranei.
L’Iran ha confermato gli attacchi, ma ha assicurato che il proprio programma nucleare non si fermerà.
Capire l’entità dei danni è praticamente impossibile, dall’esterno, e il dubbio resterà nella testa anche degli irresponsabili che hanno voluto questa azione. Le bombe usate hanno infatti una capacità di penetrazione nel terreno di alcune decine di metri, ma molto dipende dalla struttura e composizione del terreno. In questo caso stiamo parlando di rocce di origine lavica, tra le più resistenti.
Vedremo se il bombardamento dei siti nucleari iraniani, come sembrerebbe, anziché l’inizio di una guerra d’invasione è stata più una mossa alla Trump: tirare il sasso e nascondere la mano. Aver messo fin da ora le mani avanti, con quel riferimento in maiuscolo alla “pace” nel messaggio su Truth, potrebbe essere in questo senso un indizio. Inoltre, lo stabilimento di Fardow pare non abbia subìto danni, sempre che gli insediamenti atomici degli ayatollah non fossero stati spostati per tempo. Quel che è certo, è che a sfregarsi le mani per l’attacco deciso dal pacifondaio della Casa Bianca non è solo il criminale Bibi Netanyahu, o il suo pseudo-oppositore interno Yair Lapid (“Bisogna impedire all’Iran di diventare una potenza nucleare”). Sono anche, ovviamente, le forze organizzate che negli Stati Uniti premono per dare soddisfazione alla politica guerrafondaia di Israele, e che possono essere riunite sotto un nome preciso: lobby israeliana.
Il tema è ancora quasi tabù, nel dibattito pubblico. La formula, infatti, evoca quella tristemente nota della lobby ebraica. Ma negli Stati Uniti il lobbismo non rappresenta il nome gentile di chissà quali agenti oscuri del Male che tramano nell’ombra: è una realtà alla luce del sole, legalmente codificata e registrata. Nel 2007, due accademici statunitensi rispettivamente dell’università di Chicago e di Harvard, John Mearsheimer e Stephen Walt, hanno delineato in un agile e aureo volume i contorni di quell’insieme di associazioni e fondazioni che oltreoceano formano dichiaratamente la “Israel lobby”, com’è stato intitolata anche qui in Italia l’ultima riedizione.
Gli americani bombardano i siti nucleari iraniani, ma non fanno alcun danno. Trump si libera così dell'impegno preso con Netanyahu (che ora dovrà fare la pace) e può riprendere a trattare con l'Iran
Questa notte gli americani hanno dato il loro contentino a Netanyahu, bombardando i siti nucleari iraniani. Trump dirama il proprio comunicato affermando sostanzialmente che il bombardamento ha avuto successo. Dopo di che fa filtrare che non ci saranno (per ora) altre azioni militari americane in Iran.
La montagna ha partorito il topolino
Esattamente è questo il risultato: modesto se non proprio inconsistente. Un risultato che però permette a Trump di divincolarsi dall’abbraccio mortale di Netanyauh, senza troppi costi politici e militari (a parte la brutta figura).
Un attacco, dunque, solo simbolico, la cui natura peraltro verrebbe confermata dal fatto che le autorità americane avrebbero preavvisato le autorità iraniane dell’imminente bombardamento; bombardamento che peraltro — per alcuni analisti — non sembra essere stato fatto con le bombe “Bunker Buster”, ma con semplici missili Tomhawk (ma sulle analisi prettamente militari non mi addentro).
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Introduzione
«La fabbrica della guerra» è un ciclo di incontri organizzato a Modena, ospitato dal Dopolavoro Kanalino78, con l’obiettivo di cercare chiavi per comprendere e afferrare la complessità della fase storica in cui siamo immersi, nella quale eventi sempre più accelerati fanno sfuggire la leggibilità del presente. Come coordinata interpretativa abbiamo voluto usare la guerra perché pensiamo sia il grande fatto sociale centrale, la determinante che sta riorganizzando tutto il nostro mondo e le altre dimensioni di questo momento storico, la realtà in cui siamo collocati.
La tendenza alla guerra delle società capitalistiche è diventato un fatto innegabile, lo vediamo sempre più concretamente; ed è una dinamica che arriva a toccarci sempre più direttamente; in altri termini, un fenomeno che sta trasformando non solo il sistema internazionale in cui abbiamo vissuto finora, ma anche la nostra vita quotidiana. Attraversati da questa dinamica, cambiano in profondità i nostri territori, le nostre città, i nostri quartieri, e insieme a loro stili di vita, bisogni, aspettative, punti di vista, comportamenti sociali.
Per i militanti è diventato dunque imprescindibile comprendere queste trasformazioni per agirle, e potenzialmente per ribaltarle. Come recita un vecchio slogan: «Chi pensa deve agire». Noi crediamo che per agire bene bisogna prima pensare bene, ed è questo l’obiettivo del ciclo di incontri.
Alla fine, è accaduto. Il
solstizio d’estate di quest’anno ha segnato non soltanto un
passaggio stagionale, ma l’inizio di una nuova e drammatica
stagione
bellica.
Alle 2:10 iraniane della notte tra il 21 e il 22 giugno, dopo nove giorni di continui bombardamenti israeliani, sono intervenuti i velivoli bombardieri B-2 americani che, trovandosi la strada del cielo completamente spianata, hanno agito in profondità nel territorio nemico e sganciato le loro bombe sui siti nucleari di Fordow e Natanz. Contemporaneamente i sottomarini nucleari della U.S. Navy posizionati nel Mar Arabico colpivano con una ventina di missili da crociera Tomahawk il sito di Isfahan, nel quale è presente l’impianto in cui l’uranio naturale viene processato per poi essere trasferito nelle centrifughe di Natanz e Fordow.
I B-2 hanno, invece, attaccato Fordow e Natanz con le ormai famigerate bunker buster bombs, sganciandone un totale di 14, in quello che è il più importante raid aereo mai svolto con questo tipo di armamento.
Questa particolare e potente bomba che può essere trasportata e sganciata solo dai B-2 statunitensi, ha capacità di distruzione nel sottosuolo ed è, infatti, stata impiegata sui siti di Fordow, costruito all’interno di una montagna una novantina di metri sottoterra, e di Natanz, costruito parte in superfice e parte sotto.
Se una valutazione più precisa dei danni effettivi può essere fatta soltanto con il passare delle ore, le dichiarazioni iraniane e americane tendono a contraddirsi. Secondo Donald Trump l’attacco avrebbe completamente distrutto le centrali nucleari iraniane; mentre secondo fonti iraniane non ci sarebbe stata nessuna fuoriuscita di radiazioni, come per il momento ha confermato anche l’AIEA, ma ci sarebbero alcuni feriti e nessuna vittima. Il numero dei feriti e delle loro condizioni non è stato invece divulgato.
Apparentemente ad avere subito i danni maggiori sembra essere stata la centrale di Natanz, mentre la posizione di Fordow è più complicata da valutare, anche se membri delle istituzioni iraniane hanno dichiarato che tutto il materiale pericoloso era stato preventivamente evacuato e che la contraerea che si è efficacemente attivata ha evitato danni importanti a tutto l’impianto.
Proprio quando
molti commentatori iniziavano a ipotizzare uno scenario di
lenta pacificazione in Europa è esploso, inaspettato per
potenza e
pericolosità, un conflitto tra Iran e Israele che si innesta
in quel grande gioco mediorientale partito con i gravi
attentati del 7 e 8 Ottobre
del 2023.
Per comodità e per rendere maggiormente intellegibile ciò che sta avvenendo - così da individuarne le cause - è necessario analizzare il contesto generale consentendo così di comprendere la reale posta in palio e non rimanendo ipnotizzati da quel Teatro delle Ombre fatto di falsi bersagli, ballon d'essai e provocazioni di ogni tipo che hanno il solo scopo di nascondere le reali cause del conflitto e gli attori coinvolti con i propri ruoli e interessi materiali.
A mio modo di vedere, solo dei sonnambuli ipnotizzati dalle ombre messe in scena dalle sapienti mani intente a manipolare le opinioni pubbliche, possono credere alla narrazione che ci viene proposta dal mainstream informativo occidentale, che illustra questo conflitto come causato dalla necessità di evitare che l'Iran si doti di armi nucleari. Gli osservatori più attenti e onesti hanno lucidamente fatto notare che sono trenta anni che Israele abbaia alla luna dicendo che l'Iran è a un passo dall'ottenere un'arma nucleare; affermazione questa che non merita di essere manco smentita essendo ridicolizzata direttamente dal trascorrere degli anni e dei decenni senza che Teheran si doti di armi nucleari. E che dire poi delle disamine di esperti del livello di Massimo Zucchetti che hanno definito le ipotesi che il programma nucleare iraniano sia finalizzato alla costruzione di bombe nucleari come “sterminati branchi di castronerie”!
Se questa è la situazione non ci rimane che provare a dipanare il Nodo di Gordio delle reali motivazioni che stanno spingendo in guerra il Medio Oriente utilizzando la tecnica dell'analisi del contesto generale, delle motivazioni e degli interessi che muovono i protagonisti diretti e soprattutto quelli più o meno occulti.
Siamo stati travolti dal neoliberismo: questo è il mantra che, finalmente, da un po’ di tempo (in particolare dopo la crisi economica del 2008, che ha svelato il fallimento della globalizzazione finanziaria), si sente ripetere a sinistra. Ad esempio D’Alema, che non difetta di lucidità quando non si limita a difendere il proprio operato, lo ha ribadito anche di recente. Ma la vera domanda è: perché? A questo interrogativo una vera risposta neppure la si tenta. Com’è stato possibile che quel travolgimento sia avvenuto repentinamente, e senza quasi trovare ostacoli? Tranne qualche voce robusta e critica, come fu ad esempio quella di Claudio Napoleoni, quando nella fase finale della sua riflessione denunciava lucidamente il cedimento culturale in atto verso le politiche neoconservatrici e l’incapacità di pensare alla radice le ragioni di una crisi d’identità che affondava le sue radici in cause non contingenti: ad esempio nella fascinazione per il capitale (mentre stava venendo meno la teologia politica inconsapevole legata alla Rivoluzione d’ottobre), dovuta anche a un certa tendenza al determinismo economicistico, mai del tutto superata, che si saldava a pulsioni scientiste e tecnocratiche. Quel certo riduzionismo materialistico non ha consentito di cogliere che, come disse la Thatcher, la posta in gioco del neoliberismo erano le anime. Tale sordità era dovuta a limiti interni alla cultura marxista media, al suo senso comune. Ad esempio, l’incapacità di cogliere la vera natura dell’alienazione, che oltre a essere economica e sociale è anche esistenziale e spirituale, e quindi il carattere strutturale della dimensione antropologica.
C’è un motivo per cui ho scelto Enrico Mentana come caso di studio. Non perché sia il peggiore, ma perché è il più rappresentativo. Perché nel suo giornalismo si condensa un’intera sintassi dell’egemonia, per dirla con la scuola di Francoforte. Mentana è lo specchio brillante, e dunque deformante, di un sistema mediatico che ha smesso di informare per iniziare a costruire consenso.
L’egemonia, oggi, non si annuncia né si proclama: si installa. Non è una vera e propria censura, ma una selezione. Funziona come una specie di grammatica segreta che ti fa parlare la sua lingua mentre credi di scegliere la tua, la concretizzazione di una pensiero magico in atto. Così il frame diventa destino. E Mentana, in questo sistema, non è il più servile, ma il più raffinato. Il più rappresentativo. È lì che risiede il suo potere: nella perfetta simulazione della libertà, nella competenza a selezionare ciò che può esistere nello spazio della parola pubblica.
La domanda è: “lui ne è consapevole?”. L’intellettuale che dirige opera una specie di sospensione dell’incredulità. Ci crede e non ci crede allo stesso tempo. Il concetto di sospensione dell’incredulità, che nasce in ambito estetico, viene qui trasposto alla politica e al giornalismo: come lo spettatore che decide di credere a una finzione cinematografica per goderne appieno, Mentana sembra stringere un patto ambiguo con la narrazione dominante.
(aggiornamento alle ore 17,00 del
24.6)
La tregua stabilita nelle scorse ore è stata annunciata da Donald Trump e poi dai governi di Teheran e Tel Aviv ha preso corpo troppo in fretta lasciando il dubbio che facesse parte di un piano già predefinito, probabilmente fin dall’avvio dei bombardamenti statunitensi sui centri nucleari iraniani.
Gli ultimi sviluppi del conflitto sembrano indicare che abbia trovato ampie conferme l’ipotesi formulata da Analisi Difesa di “un’ammuina” statunitense tesa a salvare la faccia a Benjamin Netanyahu offrendo una via d’uscita a Israele ormai a corto di armi antimissile.
USA e Israele hanno annunciato la “missione compiuta” dicendosi certi della totale distruzione del programma nucleare iraniano Trump nonostante non vi siano certezze circa i danni inflitti ai bunker sotterranei, alcuni dei quali peraltro non noti, e nonostante non vi sia traccia di oltre 400 chili di uranio arricchito.
Richard Nephew, ex funzionario statunitense esperto di Iran Usa, ha detto il Financial Times che nessuno sa dove siano finiti i 408 chili di uranio arricchito al 60 per cento. Gli Stati Uniti e Israele non hanno la capacità per riuscire a individuarlo a breve. L’intervento militare americano ha al più ritardato di qualche mese il programma atomico di Teheran.
Mohammad Eslami, capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, ha dichiarato che Teheran sta “valutando la possibilità di riparare e rilanciare le parti danneggiate dell’industria nucleare. Abbiamo pianificato in modo che non ci fossero interruzioni nel processo produttivo”, ha aggiunto.
L’impianto nucleare iraniano di Fordow ha subito solo danni parziali a seguito dell’attacco statunitense di domenica sera e la situazione nell’area è tornata alla normalità” ha riferito ieri l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Tasnim citando le autorità locali.
Superata la settimana di guerra tra Israele e Iran, analizziamo la situazione – e i suoi possibili sviluppi – focalizzando l’attenzione sui vari aspetti più significativi, al fine di inquadrare il conflitto nella sua dimensione più ampia, propriamente strategica e geopolitica
La questione della trattativa avviata dagli USA con l’Iran, che precede l’avvio del conflitto, è alquanto controversa, e secondo molti analisti – soprattutto dell’area dell’informazione alternativa – si sarebbe trattato di una mossa coordinata tra Washington e Tel Aviv, finalizzata a ingannare Teheran. Sappiamo che, in effetti, ha almeno in parte ottenuto questo risultato – anche se ciò non dimostra che fosse questa l’intenzione. In effetti, il Maggiore Generale dell’IRGC Mohsen Rezaei ha recentemente dichiarato che “fin da marzo, eravamo certi che ci sarebbe stata una guerra con Israele. Ci eravamo preparati in modo esaustivo a questo scenario. Tuttavia, non ce lo aspettavamo prima della fine dei negoziati; è stata una sorpresa”.
Contrariamente a quella che sembra essere la lettura di area, sono portato a ritenere che l’avvio del negoziato con l’Iran fosse – coerentemente con la linea politica pacificatrice di Trump – finalizzata a prevenire la situazione conflittuale (poi invece concretizzatasi), ma che sia stata vanificata, già prima che dall’attacco israeliano, dalla confusione con cui è stata affrontata.
Il punto di partenza, necessario, è che tutti – letteralmente – sapevano e sanno che l’Iran non ha armi nucleari, non è sul punto di realizzarle e, cosa non da poco, non ha intenzione di farlo (almeno sino a oggi). La decisione di non dotarsi di armamento nucleare può, ovviamente, essere criticabile – anche con validissimi argomenti – ma ciò nonostante è indubbio che è stata presa, e che l’Iran vi si sia attenuto strettamente. Il fatto stesso che sia stata emessa una fatwa in merito (cioè una sorta di ordinanza giuridico-religiosa) attesta che il dibattito interno relativo abbia a un certo punto richiesto di essere risolto definitivamente, al massimo livello.
La Germania lancia sassi alla Russia nascondendosi dietro l’articolo 5 della NATO. Perché il “pacifista” Trump permette pericolosissimi dislocamenti di truppe tedesche in Lituania?
Per la prima volta dalla seconda
guerra mondiale, la Germania manda truppe, in permanenza, nel
territorio di un altro paese. L’ultima volta, come si
ricorderà, fu nel
caso della tentata invasione della Russia, la cosiddetta
operazione Barbarossa che costò da 26 a 27 milioni di vittime
tra civili e militari
all’URSS.
Si tratta di cinquemila uomini di una divisione pesante (vedi scheda).
Come è noto, da sempre la Nato è sotto comando statunitense. Se Trump fosse realmente interessato alla distensione con la Russia, oltre che a smantellare le armi nucleari USA sul territorio europeo, piuttosto che aggiungerne di nuove (si pensi alle nuove bombe nucleari B61 13), bisognerebbe che si opponesse alla pericolosa dislocazione di truppe tedesche in Lituania.
Immaginiamo uno scontro tra lituani e russi, al confine tra Lituania e Russia. La Lituania confina con Kaliningrade, l’exclave russa, a due passi dal territorio continentale russo. Nel caso di una risposta militare ad una qualsiasi provocazione che coinvolgesse truppe lituane/tedesche scatterebbe la possibilità di far ricorso all’articolo 5 [1] del trattato Nord Atlantico che comporterebbe l’attivazione di 31 paesi membri in soccorso della Lituania contro la Russia. Si ricordi che sin dall’inizio i russi hanno avvertito che il giorno in cui il conflitto dovesse malauguratamente uscire dal territorio ucraino, e la Federazione Russa si trovasse a dove far fronte a tutta la NATO, diventerebbe inevitabile per la sua difesa il ricorso all’enorme arsenale nucleare di cui dispone, quale extrema ratio per difendersi a fronte di una minaccia ormai esistenziale.
Parlano, infatti, di “rafforzamento” dell’articolo 5 con riferimento al posizionamento militare reale, non solo simbolico. La NATO ha sempre avuto piani per la difesa dell’Europa orientale, ora però sta pensando e realizzando basi permanenti.
Una rapida escursione sulle pagine dei principali giornali, telegiornali e talk show mostra come sia partito l’ordine di scuderia alle giumente da lavoro del giornalismo italiano: “È il momento del dissidente iraniano!” E così da ieri si fa a gara a intervistare fuoriusciti e dissidenti iraniani, a dare voce con sguardo compunto e addolorato alle loro sofferenze spirituali e materiali, nel sacro nome della Libertà.
Il pattern è sempre lo stesso dall’era dei dissidenti russi, agli esuli cubani, ai rifugiati libici, iracheni, siriani, ecc. ecc. È come andare in bicicletta, una volta imparato lo fai anche a occhi chiusi. Si alimenta e facilita economicamente, con permessi di soggiorno speciali, ecc. il costituirsi di reti di fuoriusciti, che devono alimentare la narrazione per cui il paese X, che vorremmo smantellare, altro non è che l’ennesima incarnazione del Male da espungere. Simultaneamente si esercitano tutte le pressioni sanzionatorie esterne per rendere la vita nel paese d’origine il più miserabile possibile, in modo da far crescere il numero degli scontenti. Se tutto funziona a dovere, prima o poi l’opinione pubblica è cotta abbastanza da giustificare qualunque porcata purché sia a detrimento di quell’incarnazione del Male, dalla Baia dei Porci al bombardamento di Baghdad.
(Per inciso, ogni tanto mi domando cosa accadrebbe se qualcuno facesse lo stesso gioco con i 100.000 giovani che lasciano l’Italia ogni anno. Dubito sarebbe difficile trovarne qualche centinaio che applaudirebbe a reti unificate la prospettiva di un “regime change” in Italia).
Quello che sta succedendo è sotto gli occhi di tutte e tutti: la “Terza guerra mondiale a pezzi” ha un’accelerazione senza precedenti con l’attacco diretto di Israele contro l’Iran, il genocidio a Gaza, l’investimento europeo nel conflitto ucraino, la guerra commerciale degli USA di Trump, la corsa folle al riarmo a cui assistiamo da mesi.
Tutto ciò non sta avvenendo per caso o per la “pazzia” di singoli leader politici, ma è il frutto del nostro sistema economico e politico. Ormai ce lo dicono senza alcuna ipocrisia: le classi dominanti degli Stati Uniti, e il blocco “occidentale” che hanno costruito intorno a loro, vogliono continuare a mantenere il predominio a livello mondiale, e per farlo devono impedire a nuovi attori, che siano la Cina o potenze regionali, di acquisire spazio e di crescere.
Questa rinnovata aggressività imperialista ovviamente va a danno di tutti i popoli e delle classi lavoratrici: innanzitutto di quelle del sud del mondo bombardate, affamate, sterminate, o costrette a intrupparsi dietro i loro leader quasi sempre tradizionalisti e autoritari, ma anche di quelle occidentali, che sempre più si vedono spinte verso l’economia di guerra e i sacrifici che questa comporta, mentre subiscono gli effetti della crescita dell’estrema destra, che negli USA e nella UE torna a essere lo strumento politico per gestire la crisi del capitalismo.
È in questo contesto che prende tutto il suo senso il vertice della NATO previsto a L’Aja dal 24 al 26 giugno. Si tratta di un momento estremamente importante perché in quest’occasione i leader della NATO dovranno decidere di quanto dovrà crescere la spesa militare dei membri dell’Alleanza.
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Medioriente, ma
non finisce qui
A dispetto della conclamata volatilità del carattere e delle pronunce di Trump, di cui è diventato luogo comune rilevare lo stop and go, il tutto e il contrario di tutto, il no di oggi e il sì di domani, le due settimane di meditazione sull’attacco all’Iran che diventano 24 ore per una decisione evidentemente già presa, in tutto questo c’è coerenza e logica. È il muoversi necessariamente erratico di un soggetto che, come Arlecchino, deve rispondere a due padroni.
Trump, con le due settimane aperte a ogni ipotesi, aveva rassicurato il suo elettorato, nazionalista, isolazionista, manufatturiero, ceto medio declassato, mondo operaio e sottoproletario, il cui orizzonte sta in quanto è racchiuso tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico. Ora, con la decisione presa (apparentemente) nel giro di 24 ore, ha placato le ansie dell’altro suo referente, l’ebraismo sionista che gli ha garantito due elezioni e che costituisce la massima potenza economico-finanziaria mai apparsa sulla Terra.
La tragedia planetaria è che nell’equilibrio tra MAGA e Sion, il peso maggiore sta sul secondo piatto della bilancia, tanto da fare di Trump il vero, inesorabile, ostaggio di Netanyahu. MAGA non gli si rivolterà conto, la sua avversione a guerre esterne è temperata da quanto riveste i caratteri di una vera idolatria: è il capo e ci sta bene tutto, a prescindere.
Si aggiunga che dall’Europa, dalla quale ci si sarebbe potuti attendere una presa di posizione alternativa, razionale, finalmente riferita ai propri veri interessi economico-politico-sociali, si sentono le stesse voci che risuonano a favore di Israele e di Netanyahu. Quelle di Blackrock, Merz, di Rothschild, Macron, e della City, ormai dependance di Wall, Street, Starmer.
Ma non finisce qui. Gli imprevisti si moltiplicano. Si arriverà, forse, in un Consiglio di Sicurezza e in un’Assemblea Generale dell’ONU, dove certe cose non passano, a più miti consigli. Almeno qui, due grandi potenze, altrimenti alla finestra, possono pesare.
Di fronte alla
aggressione terrorista dello Stato di Israle contro l’Iran,
che fa il lavoro sporco per conto dell’Occidente, e agli Stati
Uniti, che dopo
tanto tentennare, sono intervenuti con i loro bombardieri B-2,
molti temono che si sia oltrepassata una linea rossa. Tutto
sta precipitando
improvvisamente verso gli scenari politici, sociali e militari
del secolo scorso?
Prima di addentrarci su questa domanda vogliamo chiarire un punto. Israele aggredisce perchè insieme all’Occidente, si è ficcato in un vicolo cieco nel genocidio del popolo palestinese, nella deportazione di tutti i palestinesi da Gaza. In sostanza agisce in preda a una crisi esistenziale infiammando l’intera area mediorientale. Gli Stati Uniti, che non vorrebbero impantanarsi in guerre che non possono vincere fino in fondo – basta vedere come è andata a finire per l’invicibile armada contro lo Yemen degli Houthi – di fronte a un pazzo che getta una bomba dentro una sala dove stai negoziando, è assalito dal dubbio amletico: « vorrei rilanciare l’american dream smettendo di promuovere guerre infinite, ma la guerra infinita è arrivata a me, mi lascio trascinare o non mi lascio trascinare? Temporeggio due settimane oppure agisco immediatamente sperando di risolvere il tutto con un paio delle mie super bombe? »
Dietro alla retorica anche per gli Stati Uniti e, di conseguenza, per l’insieme dell’Occidente, si pone lo stessa dilemma esistenziale. Sotto i colpi di una crisi generale dell’accumulazione e una crisi demografica, la cosiddetta civiltà occidentale si trova a dover segnare il passo in Africa, in Medio Oriente in Asia e in America Latina. La questione palestinese, anch’essa irrisolvibile nell’attuale quadro. Nonostante questi mesi abbiano segnato passaggi a favore di Israele, nel genocidio di Gaza e nella frantumazione della Siria cannibalizzata, lo Stato sionista non è in grado di reinvertire il corso della sua crisi. Circa l’aggressione militare israeliana all’Iran, Steve Bannon lucidamente sintetizzava il dilemma che continua a logorare gli Stati Uniti attraverso una domanda rivolta all’establishment israeliano:
Quasi dodici anni fa
(ottobre 2013) usciva, per i tipi di Jaka Book, Utopie
letali, un saggio in cui analizzavo gli svarioni
teorici, le derive ideologiche e i miti
che stavano sprofondando le sinistre radicali nella più totale
incapacità di analizzare, e ancor meno di contrastare, le
strategie di
ricostruzione egemonica del progetto neoliberale che, dopo la
crisi del 2008 che ne aveva evidenziato contraddizioni e
debolezze, era impegnato a
restaurare il consenso delle larghe masse occidentali, in
parte tentate dalle insorgenze populiste. In quelle pagine
accusavo, nell’ordine, le
teorie postoperaiste che rimpiazzano la lotta di classe con
fantasmatiche “moltitudini”; l’idiosincrasia dei movimenti
libertari nei
confronti di qualsiasi forma di organizzazione e potere
politico (stato e partito eletti a simboli del male assoluto);
la fascinazione delle
tecnologie digitali gabellate per strumenti di
democratizzazione economica, politica e sociale;
l’eurocentrismo incapace di prendere atto dello
spostamento dell’asse antimperialista verso l’Est e il Sud del
mondo; il dirottamento dell’impegno politico e sociale verso
obiettivi rivendicativi di carattere particolaristico (libertà
civili e individuali versus interessi e libertà collettive).
Da allora l’offensiva capitalista si è incattivita, assumendo i connotati di un liberal fascismo di nuovo conio (confuso, ahimè, con il liberalismo e il fascismo “classici”, e quindi affrontato con i vecchi arnesi del frontismo). Abbiamo assistito a una reazione rabbiosa di fronte all’impossibilità di restaurare il sogno di una pax atlantica e di un nuovo secolo americano, accarezzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica; una reazione che ha sfruttato la pandemia del Covid19 per imporre un ferreo disciplinamento ideologico, politico e sociale; che ha avuto ragione con relativa facilità dei populismi di sinistra (Syriza, Podemos, Sanders, Corbyn, M5S, di Mélenchon diremo più avanti), mentre ha integrato quelli di destra (Trump in testa) nel proprio progetto; che ha identificato nella Terza guerra mondiale (di cui abbiamo visto i prodromi in Ucraina, in Siria, nel genocidio di Gaza e nella guerra che Israele e Stati Uniti hanno scatenato contro l’Iran) la soluzione finale alla crisi secolare iniziata negli anni Settanta del Novecento.
Il vero pericolo. Penso che uno dei motivi principali dell'attacco di Trump all'Iran sia la volontà di dimostrare la forza militare degli Stati Uniti nel tentativo di riconquistare la "fiducia" del mondo, o di una parte di esso, nei confronti dei simboli dell'economia americana, costituiti dal dollaro e dai titoli del debito pubblico. In realtà non si tratta affatto solo di simboli perché il dollaro sta perdendo sempre più rapidamente la condizione di valuta di riserva e di scambio internazionale; una condizione che permetteva alla Federal Reserve di stampare dollari a suo piacimento per finanziare la spesa federale americana, dunque per coprire le spese militari, per fare giganteschi salvataggi come nel caso delle banche dopo il 2008, per stimolare i consumi interni con continui incentivi e per evitare di aumentare le imposte.
Oggi questa prerogativa, di fatto, non esiste più: solo nei confronti dell'euro il dollaro è ormai ben sotto la parità, con un cambio sceso da 0,95 a 0,86 in pochissimo tempo e non si tratta solo di una manovra di voluta svalutazione ma di vera perdita di credibilità, ancora più marcata verso altre monete mondiali. In queste condizioni se gli Stati Uniti emettessero carta moneta per affrontare la crisi - cosa che non fanno peraltro dal 2020 - è molto probabile che il dollaro vedrebbe ulteriormente ridotto il proprio valore.
Nel caso del debito, la situazione Usa è ancora più critica. Oggi per collocare un titolo a dieci anni il Tesoro degli Stati Uniti deve pagare il 4,38 contro il 2,53 della Germania, l'1,69 della Cina e l'1 del Giappone. Nel giro di un anno, per effetto di ciò, il costo degli interessi è passato da 753 miliardi a 1235 miliardi di dollari, superando ampiamente la spesa militare.
L’intervento di Fortini su cosa sia “comunismo” è una forma sublime di dialettica, purtroppo la dialettica mal sopporta il sublime; l’idea è raccontata come se fosse in movimento, ma dentro al motore è nascosto un abilissimo nano. La storia non è questa.
La lotta per il comunismo non è già il comunismo. Se un’anticipazione del futuro è entrata nell’esistenza dei compagni, lo ha fatto nonostante il furore, non grazie a esso. L’esperienza che “una volta per sempre” ci mosse, è stata tuttavia anche quella dei limiti, della finitezza, umana; non sono scorsi latte e miele e il deserto non è fiorito.
Lo scritto di Fortini – che ritrovo in Extrema Ratio (Garzanti, 1990) – uscì originariamente per un supplemento satirico dell’Unità, non senza ragione come ricorda in introduzione lo stesso autore, e se fu “una sfida, come una scommessa metrica” la stesura, non lo è meno la decifrazione dei nessi che reggono la certezza e il dubbio intorno a quel concetto.
Non si tratta di mettere ordine e neanche certo di “esattezza”; se nessun pensiero è immune dalla sua espressione, certo quello di Fortini si è vaccinato come pochi altri per studi, autocritica e, si ammetta, una virtù letteraria fuori del comune. L’idealismo, la mossa della volontà che ferma le cantilene sulla “liberazione”, sta tutto nell’invocazione di un passaggio da una contraddizione, oggi dominante (e cioè quella tra capitale e lavoro), a “una contraddizione diversa” che sarà reale una volta raggiunto un luogo più alto, “visibile e veggente”.
Le due manifestazioni contro il riarmo e la guerra che hanno sfilato nelle strade di Roma sabato scorso, inducono a qualche considerazione utile per il presente e per il futuro.
Nel paese c’è una forte sensibilità contro le minacce di guerra che incombono nelle relazioni internazionali e nella tenuta democratica del “fronte interno”. Come questa sensibilità troverà la strada per darsi rappresentanza politica nel paese è ancora una incognita e una sfida tutta aperta.
La partecipazione di massa, niente affatto scontata ma visibile a tutti, rende superflua ogni guerra di cifre tra le due manifestazioni, anche perché i due cortei hanno indicato una composizione sociale – oltre che piattaforme e prospettive politiche – diverse tra loro.
La composizione sociale del corteo partito da Porta San Paolo non è andata oltre i soggetti tradizionali dell’associazionismo, del terzo settore, dei sindacati concertativi e di qualche residuale partito e realtà della sinistra radicale. Una composizione vista e ripetuta nel tempo che ripropone un consueto perimetro sociale, politico e culturale che si riproduce ma non si espande.
A partire dagli scorsi mesi si è cominciato ad assistere anche in Italia a una campagna mediatica sommessa ma costante sull’uso dell’Intelligenza artificiale a scuola. Dall’appello a non trascurare l’occasione eccezionale e irrinunciabile fino al richiamo del rischio di perdere il treno del futuro passando per la denuncia della paura dell’innovazione, una serie di argomenti già usati nel passato per abituare l’opinione pubblica all’ineluttabilità di altre innovazioni tecnologiche è tornata a circolare. Sarebbe riduttivo spiegare questo fatto con il tentativo di creare una domanda per questo genere di prodotti magari intercettando fondi o creando un consenso per stanziamenti pubblici in tal senso, non perché interessi del genere non esistano ma perché queste reazioni esprimono uno dei punti chiavi dell’ideologia contemporanea in cui la fiducia razionale nella tecnologia produce atteggiamenti irrazionali nei confronti delle conseguenze sociali che le innovazioni generano.
I toni sono ragionevoli e moderati: si ricorda che in ogni caso l’IA non sostituisce l’insegnante, ma è un prezioso strumento in grado di rinnovare la didattica, addirittura in un supplemento dedicato all’argomento del Corriere della sera, Paolo Ferri con indubbia abilità persuasiva nei confronti del mondo docente arriva a suggerire che chatGpt potrebbe incaricarsi della stesura di verbali e di altre corvée burocratiche che infestano la vita dell’insegnante.
E’ quanto meno singolare che una forza sedicente antagonista e antimperialista che sostiene di appoggiare il processo verso un mondo multipolare, equipari il leader di uno dei due bastioni dei BRICS, la Russia, al macellaio nazista/sionista Netanyahu.
Eppure è proprio quello che è accaduto e che accade. Cito testualmente uno stralcio del comunicato di Potere al Popolo pubblicato poco dopo una delle due manifestazioni che si sono svolte ieri a Roma contro la guerra e il riarmo:”Non saranno generici “No alla guerra” a fermare i Netanyahu, Trump, Von der Leyen, Rutte, Putin e Meloni ma la capacità di individuare i nemici dei nostri popoli…” ecc.
Ora, se è ovviamente legittimo non nutrire particolare simpatia per Putin e per il sistema sociale e politico vigente in Russia, è decisamente e politicamente idiota (e grave) porre il leader russo sullo stesso piano del segretario generale della NATO e soprattutto del criminale genocida Netanyahu, per ragioni talmente ovvie che non dovrebbe neanche esserci il bisogno di spiegarle. Sorvolo sulla equiparazione fra Putin e Netanyahu che è a dir poco di pessimo gusto e resto all’analisi politica.
PaP chiede a gran voce l’uscita dell’Italia dalla NATO contro la quale la Russia sta combattendo, non a chiacchiere, e sappiamo che USA, Israele e NATO – che sono pressoché la stessa cosa – hanno appena sferrato un violento attacco all’Iran e quindi indirettamente (ma neanche tanto) alla Russia e a tutti i paesi BRICS.
L’America sembra irredimibile, soprattutto
quando c’è di mezzo Israele. Ma
il vero tema è: Netanyahu pensa di essere il Re del Mondo
sionista, e agisce di conseguenza. In realtà è l’Anticristo.
Qual
è il katechon oggi? L’unico che si intravede è forse
Putin, ma non è in grado di impegnarsi su più fronti.
Alla Cina è estranea questa logica, e poi – almeno per ora –
sembrano interessati a gonfiarsi sfruttando la globalizzazione
e a
presidiare Taiwan. Per questo, ferocemente, il capo mondiale
dei liberal-nichilisti neocon fa quello che vuole, e impone
l’agenda
all’Occidente.
Israele ha bisogno del nemico: essendosi costituito come Stato-guerra, non può farne a meno, verrebbe meno la sua ratio. Nel frattempo, questa norma fondamentale dell’inimicizia, che fonda la costituzione materiale dello Stato ebraico, si è fatta sempre più assoluta, generando una totalizzazione culturale e politica che spiega almeno in parte i mutamenti intervenuti all’interno della società israeliana (nel senso dell’estremismo, del fanatismo e dell’assuefazione alla disumanità), la politica di colonizzazione aggressiva dei territori palestinesi, gli slittamenti teocratici e anticostituzionali del suo ordinamento, che un pezzo di società israeliana contrastava, prima dell’escalation bellicista (molto funzionale a puntellare il potere di Netanyahu e a scongiurare il benché minimo cambiamento).
Robert Kaplan ha sostenuto di recente che “il diritto internazionale è un inganno” e che Israele vive sotto una minaccia esistenziale, ciò che non possono dire gli europei, grazie agli Usa (e non all’ONU). Kaplan è il politologo neocon il cui cavallo di battaglia è rappresentato dallo schema “Marte contro Venere”: gli americani, figli di Ares, sono diversi dagli europei ormai divenuti venusiani (dopo la seconda guerra mondiale), e perciò incapaci di combattere, adagiatisi come sono sulla sicurezza garantita dallo zio Sam. Uno schema un po’ semplicista e brutale, ma in parte vero, che viene riproposto oggi. Peccato che Kaplan lo abbia elaborato per giustificare la seconda guerra in Iraq, basata sulle bugie relative alle armi di distruzione di massa di Saddam (le uniche trovate furono quelle portate dagli americani invasori).
Il sogno è stato quello di raccogliere
l’eredità di Voltaire,
Zola
e Sartre,
incarnando l’ideale del grande intellettuale pubblico
francese. Per quasi quarant’anni Bernard-Henri
Lévy, filosofo più a suo agio come performer
che dietro a una cattedra, ci è riuscito.
Con una clausola, secondo i suoi nemici: diventando un abile
ideologo, capace di travestirsi da paladino dell’umanesimo per
difendere
l’esistente. Un globetrotter da 150 milioni di euro sul conto
in banca le cui parole hanno funzionato, con straordinaria
costanza, come
proiettili sparati sempre nella stessa direzione: quella dei
nemici dell’Occidente. Polemista, reporter, esteta, seduttore,
consigliere di
presidenti e soprattutto disturbatore diplomatico, BHL ‒
l’acronimo con cui lo chiamano in Francia ‒ continua a
dominare la scena
intellettuale europea come una figura mitologica.
Nato a Beni Saf, in Algeria, nel 1948, Lévy appartiene a una famiglia ebraica sefardita che si trasferì in Francia quando lui aveva sei anni. Figlio di un ricco industriale del legno, Lévy è cresciuto in un contesto agiato, intellettualmente esigente e profondamente consapevole del proprio privilegio. Ha frequentato l’École Normale Supérieure, sotto la guida di intellettuali come Louis Althusser e Jacques Derrida. Invece di restare nell’ambito del mondo accademico, però, Lévy ha deciso presto di fare della figura pubblica la sua vera opera. È diventato giornalista e corrispondente di guerra, coprendo la guerra di indipendenza del Bangladesh nel 1971. Nei primi anni Settanta è stato anche tra i fondatori del movimento dei Nouveaux philosophes, una corrente antitotalitaria che si scagliava contro il marxismo, l’URSS e i dogmi della sinistra radicale ereditati dal maggio del Sessantotto.
È stato in quegli anni che, secondo il suo stesso racconto, nasceva il filosofo engagé. Insieme ad André Glucksmann, Alain Finkielkraut e Pascal Bruckner ha rivendicato la sua partecipazione alla lotta studentesca per farne un ingrediente biografico decisivo, salvo poi attaccarla nei decenni successivi, per il suo lascito nella morale sessuale, i diritti umani, la religione e l’antisemitismo.
In quel mare magnum impazzito che
rappresenta l’epopea del complottismo sul caso Moro, in quella
selva di teorie strampalate e di scienza incompiuta, a cui è
dedicata
questa serie di articoli, ci occupiamo oggi di due teorie
complottiste (chiamarle così sembra quasi un complimento) di
ieri e di oggi. La loro
dislocazione temporale (1995 e 2025) contribuisce alla
comprensione della vastità del fenomeno e di quanto duratura
sarebbe stata
l’eredità storica di quel tragico evento. Mi viene in mente
Cassio davanti al corpo di Giulio Cesare, appena pugnalato a
morte dai
congiurati, che esclama “In quante epoche future questa nostra
scena solenne verrà recitata di nuovo, in nazioni ancora non
nate e in
lingue ancora sconosciute”. Vera fu questa premonizione per il
Giulio Cesare di Shakespeare e per il regicidio più famoso
della storia.
Altrettanto vera potremmo dire sarebbe questa affermazione per
il più famoso “regicidio” della nostra storia repubblicana, il
sequestro e l’assassinio dell’On. Aldo Moro, evento per il
quale in 47 anni si inonderanno fiumi di inchiostro, si
produrranno centinaia
di migliaia, secondo alcuni milioni di pagine di documenti
ufficiali (spesso ignorate) e si racconteranno una serie
innumerevoli di balle con vari
scopi funzionali (per le molteplici motivazioni del
complottismo si veda l’episodio 2 di questa serie). Le due
storie potrebbero annoverarsi fra
quelle che non ce l’hanno fatta, il cui eco è stato talmente
irrilevante da non potersi annoverare forse nemmeno realmente
fra le teorie
complottiste “ufficiali”, talmente insensate a volte da non
convincere nemmeno chi le aveva sdoganate, in uno dei due casi
per ammissione
stessa del suo creatore, quelle che Vladimiro Satta con un
tocco un po’ romantico chiamerebbe romanzi d’appendice del
caso Moro.
Complotti di ieri
Nel lontano 2000 l’ex agente dei servizi segreti Antonino Arconte, nome in codice G-71, viene attraversato da un’improvvisa epifania, ricordandosi a 22 anni di distanza di essere stato destinatario di un compito delicatissimo e urgentissimo attinente al caso Moro.
Mentre il mondo trema, Trump e Netanyahu festeggiano il bombardamento sull’iran. Israele ha incassato l’entrata in guerra degli Usa e Trump tuona minaccioso chiedendo la resa iraniana che di fatto è l'unica soluzione che può permettergli di cantare vittoria. Tuttavia l’Iran non ha più intenzione di assecondarlo nel giochetto dei negoziati e Israele non ha alcuna voglia di ottenere una vittoria a tavolino.
Non si cura tanto della distruzione dei siti nucleari quanto della eliminazione della leadership sciita (che trova concordi molti paesi arabi e tutti gli europei) e dell’Iran dalla geopolitica. Israele non nasconde il ruolo avuto nella preparazione e nella conduzione dell’attacco ma non lo fa pesare e lascia che Trump gongoli solo perché sa usare benissimo tutti gli strumenti di guerra compresa la circonvenzione degli alleati. Ci tiene però a ribadire che lo spettacolo è suo. Lo ha dimostrato aprendo il sipario del conflitto con l’attacco di sorpresa senza chiedere permessi a nessuno consapevole di poter fare e far fare ciò che vuole. Questa consapevolezza viene dalla capacità militare ma soprattutto da intelligence e disinformazione.
Molti commentatori hanno descritto l’operazione contro l’Iran esattamente come l’ha venduta Israele. Pochi hanno fatto caso alle implicazioni che la narrazione israeliana comporta. Secondo l’agenzia Nova (17.6) “L’attuale scontro militare tra Iran e Israele rappresenta l’apice di un’operazione d’intelligence preparata da anni, nella quale Tel Aviv avrebbe penetrato in profondità l’apparato di sicurezza iraniano”.
Così le più fosche previsioni si sono realizzate. Trump si è consegnato alla religione delle guerre infinite e ha attaccato (il 22 giugno, il doppio di 11… magie della cabala). Un crimine contro l’umanità che non vale se a compierlo sono Israele o Stati Uniti. E l’ipotesi che possa restare “one shot” a oggi è più che labile.
Ciò non solo perché Trump alterna bizzarre proposte di pace a minacce, ultima delle quali il via libera al regime-change, smentendo le dichiarazioni contrarie di altri funzionari Usa. Ma anche perché si chiede scioccamente all’Iran di non rispondere in alcun modo, né attaccando obiettivi americani né bloccando lo Stretto di Hormuz, chiusura deliberata oggi dal Parlamento iraniano che deve essere ratificata dalle massime autorità dello Stato. Addirittura il Segretario di Stato Marco Rubio, noto falco anti-cinese, ha implorato Pechino di far pressione sull’Iran perché non dia seguito al voto parlamentare. Siamo alla farsa.
Come farsesca risulta la Ue, che nella sua ossessione verso Mosca stava per varare il “price cap” contro il petrolio russo per ridurne drasticamente le entrate, proprio nel giorno in cui Israele ha aperto il vaso di Pandora iraniano, che rischia di far diventare l’oro nero più prezioso che mai. Tale la genialità della leadership europea.
Gli Stati Uniti hanno insegnato a tutto il mondo una lezione definitiva, scolpita nella roccia della storia, irrevocabile.
Nel nuovo mondo coraggioso che essi stessi hanno portato alla luce esisteranno solo due tipi di soggetti: i servi di bottega e i detentori di ordigni nucleari.
Se una nazione vorrà essere uno stato sovrano, indipendente, non dovrà solo avere un esercito, che di per sé può essere in gran parte decorativo: dovrà presentarsi come una credibile minaccia nucleare.
Da oggi, con tanti saluti ai trattati di non proliferazione nucleare, varrà il "liberi tutti" e i decenni a venire saranno decenni di rinnovata corsa agli armamenti di tipo terminale (per lo più clandestina, perché se ti sottoponi ai controlli internazionali, poi basta un Raphael Grossi a molla qualunque e ti ritrovi bombardato).
L'evidente colpa dell'Iran non è stata di essere una minaccia eccessiva, ma di non esserlo a sufficienza.
La sua colpa non è stata di essere immorale, ma di aver ecceduto - per gli standard internazionali correnti - in scrupoli morali.
Questo vale anche sul piano interno, per inciso. Se l'Iran fosse stato il terribile, occhiuto stato di polizia che viene dipinto essere, non avrebbe avuto decine di scienziati e vertici militari che dormivano a casa, in famiglia, con indirizzi pubblicamente reperibili. Nessuna infiltrazione dell'Intelligence di questo livello sarebbe potuta avvenire nei paesi del vecchio blocco comunista, precisamente perché erano stati di polizia.
Gli Stati europei hanno reagito scandalizzati, al vertice del G7 il 15-17 giugno, quando Trump ha accennato a possibili mediazioni russe nel conflitto Israele-Iran, considerata la vicinanza di Putin non solo a Teheran, con cui esiste un accordo di cooperazione (senza clausola di assistenza militare), ma anche a Israele, dove vive una forte minoranza russa: 1,3 milioni, il 15% della popolazione.
Il presidente Usa ha aggiunto, non senza ragione, che se Mosca non fosse stata espulsa dal G8 nel 2014 – quando scoppiò il conflitto civile in Ucraina, seguìto dall’annessione russa della Crimea – le guerre in Ucraina e in Iran potevano forse esser evitate.
Di tutt’altro parere l’Ue. Affinché nulla cambi e in vista di un vertice Nato che benedirà il riarmo europeo avversato solo da Madrid, occorre che le figure del dramma restino ferme come statue: Putin è il criminale, l’Iran è l’aggressore terrorista, Israele è l’eterna “vittima invincibile”. I governi europei sperano probabilmente che Trump non entri in guerra e che Israele “finisca il lavoro”. Ma non si può escludere che accettino, nelle prossime ore o giorni, un attacco mirato degli Stati Uniti sul sito nucleare iraniano di Fordow.
Intanto alcuni media anche italiani cominciano ad ammettere l’evidenza: l’aggressore è Israele, non l’Iran. Per mantenere ferma la linea anti-Putin, tuttavia, l’ammissione s’accompagna al paragone con l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022.
La propaganda è come l’illusione: è falsa ma necessaria. L’occidentalista vive di propaganda, l’antioccidentalista di illusione.
Se tu che leggi sei occidentale, che tu sia di destra o di sinistra, colonialista o terzomondista, lettore del Corriere o di Ottolina, che tu ne sia consapevole o meno, con le tue tasse hai dichiarato guerra al mondo e la stai vincendo.
Per ora, perché non è detto che alla fine vinceremo, anzi, nella nostra civiltà c’è un inquieto sentore di sconfitta futura (crisi interna Usa, avvento della Cina, debolezza dell’Europa, Brics, materie prime ecc).
Proprio per scongiurare questo scenario di sconfitta abbiamo dichiarato guerra al mondo.
Più precisamente, definiamo questo “noi”: noi “occidentali”, d’accordo, ma soprattutto le talassocrazie atlantiche che ne sono la guida militare.
Non sempre i loro interessi coincidono con gli europei del continente. La sfida occidentalista è che tali interessi convergeranno nel lungo periodo, quando verranno blindati e prolungati gli ultimi cinque secoli di supremazia mondiale dell’Occidente, contro i rivali asiatici.
Queste talassocrazie, vincitrici delle due guerre mondiali, si confermano maestre nell’arte della strategia imperiale. Seguendo i principi di Von Clausewitz, sono perennemente aggressive finché sono in vantaggio, mantenendo il monopolio dell’iniziativa.
Di guerra regionale in guerra regionale, corrono sull’orlo dell’escalation mondiale, fidando sul fatto che nessuno la vuole. Scelta rischiosa, ma finora vincente.
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Nel film
Finché c’è guerra c’è speranza (1974) Alberto Sordi
interpreta Pietro Chiocca, imprenditore corrotto che
vende armi a dittatori africani per garantire alla sua
famiglia un tenore di vita lussuoso. Tutto sembra cambiare
quando un giornalista del
Corriere della Sera lo diffama pubblicamente come
“mercante di morte”. A quel punto, davanti allo sdegno
(ipocrita) dei familiari
(la moglie Silvia, i tre figli Ricky, Giada e Giovannone, la
suocera e lo zio), Chiocca si dice disposto, se lo vorranno, a
tornare al suo vecchio e
onesto lavoro di commerciante di pompe idrauliche; e chiede
loro di comunicargli la decisione presa dopo un’ora di riposo.
Ma la moglie manda la
domestica a svegliarlo con un quarto d’ora d’anticipo, e lui
capisce che per la famiglia, evidentemente più affezionata al
lusso
che alla morale, lo scandalo non è più un problema. Nella
scena finale, Chiocca sale su un aereo per andare a piazzare
un’altra
commessa d’armi.
Dopo 50 anni quel film è ancora molto attuale. La sola differenza è che oggi le guerre, siano epidemiologiche (Covid), commerciali (dazi), o militari (Ucraina, Gaza, Siria, Iran), vengono innescate, a ritmi sempre più serrati, al fine di sostenere quella montagna di debito su cui l’occidente a traino USA ha costruito la propria illusione di benessere (che è lusso reale solo per lo 0.1%). Basti osservare la reazione dell’obbligazionario statunitense all’intervento militare ordinato da Trump contro l’Iran lo scorso fine settimana: con la riapertura di Wall Street (perché gli shock vengono sempre scatenati “a bocce ferme”) il rendimento del Treasury decennale, termometro della febbre di sistema, è crollato di 10 punti base nel giro di 5 ore. Tradotto: flusso d’investimenti verso il “porto sicuro” dei buoni del tesoro statunitensi; risparmio di miliardi di dollari in spese per gli interessi sul debito sovrano USA; conseguente sensibile rialzo a Wall Street (Dow, S&P 500 e Nasdaq).
Allora conviene davvero mettersi in testa che, esattamente come per la famiglia di Pietro Chiocca, il mercato ama le guerre (incluse le “pandemie”).
Torniamo ai nostri profsojuz
e alla loro duplice funzione in questa fase.
Oltre a far venire i sorci verdi al
nepman
NEL SETTORE PRIVATO, erano
presenti anche NEL SETTORE PUBBLICO per
con un
ruolo decisamente più attivo.
Aziende, quelle socializzate negli anni precedenti, che volenti o nolenti erano coinvolte in un altro tipico frutto della NEP: il cosiddetto “calcolo economico” (chozjajsvtennyj razčët da cui la contrazione chozrazčët хозразчёт), che non è solo “bilancio” e basta, ma tutto ciò che a esso concerneva, in un’ottica di crescente “autonomia finanziaria”: ciascuna unità produttiva, piccola o grande che fosse, doveva essere in grado di stare in piedi da sola, dovendo progressivamente fare a meno di sovvenzioni, aiuti economici esterni e, per farlo, doveva avere anzi tutto un bilancio non in perdita e, prima ancora... un bilancio fatto come si deve.
A tutto questo, però, si arrivò PER GRADI e NON SENZA CONFLITTO FRA LE PARTI. Il passaggio delle aziende allo chozrazčët, all’autonomia di bilancio, mise tutti di fronte a un guado, al classico “Hic Rhodus, hic salta!”, profsojuz compresi. Uno dei primi passaggi critici fu proprio LO STESSO ENTRARE in questa nuova visione, ovvero di-visione dei compiti.
SI PROVENIVA DA UN COMUNISMO DI GUERRA, QUINDI EMERGENZIALE dove l’importante era
- restare in piedi, non importa come
- regolare conti in qualsiasi maniera, in natura, in soldi, sulla parola, bastava raggiungere l’obbiettivo primario di cui sopra;
- che quei pochi rimasti in fabbrica (ovvero non deceduti, ovvero non impegnati al fronte, ovvero non tornati nelle campagne... dove un po’ di boršč lo si rimediava sempre e si faceva meno fame che nelle città), fossero in grado di “fare tutto” (e lo facessero poi per davvero! ARRANGIANDOSI, nel bene o nel male… ma lo facessero!).
I sorprendenti
sviluppi che hanno portato al cessate il fuoco tra Israele e
Iran mi spingono a fare il punto della situazione e fare un
bilancio di questa guerra dei
12 giorni e delle sue possibili
conseguenze.
Ovviamente premetto che si tratta di considerazioni fatte a caldo e ancora sotto l’effetto di un forte coinvolgimento emotivo. Inoltre, mi rendo conto che dalla posizione di spettatore lontano, sicuro e privilegiato non si possa comprendere appieno la situazione reale.
Sicuramente per capire veramente quel che è successo e le sue ripercussioni ci vuole del tempo, calma e una lucidità e una profondità che mi mancano.
Qualche giorno or sono ho scritto un articolo per ComeDonChisciotte dal titolo “GUERRA ALL’IRAN: I NODI VENGONO AL PETTINE”, nel quale ho sostenuto che lo scontro apertosi in Asia occidentale sia da interpretare come uno scontro esistenziale (per tutte le parti coinvolte).
Nonostante lo sviluppo del cessate il fuoco, riconfermo questa lettura, per quanto lo scontro venga ora “congelato” e rinviato nuovamente.
Ad ogni modo, la soluzione trovata da Trump con la mediazione del Qatar è stata sorprendente: è stata smentita la tesi, espressa nel mio precedente articolo, che sosteneva che “Lo scontro apertosi il 13 giugno con l’aggressione israeliana alla Repubblica Islamica è ormai molto difficile possa rientrare per lasciare spazio a nuovi compromessi e negoziati.”.
Alla fine, invece, almeno per ora, è stata trovata proprio quella “improbabile de-escalation” che non ritenevo di facile realizzazione.
Ho l’impressione che la mossa di Trump, aiutata dalla Russia e dalla Cina, sia stata abilissima per tutelare i suoi interessi e salvaguardare il sistema economico-commerciale globale.
Il presidente americano è riuscito a venirne fuori alla grande, anche se i risultati finali si potranno trarre nel medio-lungo periodo.
Il vertice NATO dell’Aia del 25 giugno 2025 passerà alla storia non per i suoi successi, ma per aver messo in luce tutte le contraddizioni e l’inadeguatezza di un’alleanza che sembra aver perso il contatto con la realtà geopolitica contemporanea. In meno di 24 ore – una durata record per la sua brevità – i leader occidentali hanno raggiunto accordi che appaiono più come illusioni collettive che come strategie concrete per la sicurezza europea.
Il fulcro del vertice è stato l’accordo sull’aumento della spesa militare al 5% del PIL entro il 2035, una decisione che già al momento della sua adozione appare destinata al fallimento. Nessun membro NATO ha finora raggiunto l’obiettivo di spesa del 5% (la Polonia è la più vicina, al 4,7%) e alcuni sono altamente propensi a trascinare i piedi quando si tratta di raggiungere quella pietra miliare. La Spagna, con il primo ministro Pedro Sanchez, ha già chiarito che Madrid non dovrà rispettare l’obiettivo del 5%.
I numeri parlano chiaro: se gli stati NATO avessero tutti speso il 3,5% del PIL per la difesa lo scorso anno, ciò avrebbe significato circa 1,75 trilioni di dollari. Quindi, raggiungere i nuovi obiettivi potrebbe eventualmente significare spendere centinaia di miliardi di dollari in più all’anno, rispetto alla spesa attuale. Una cifra astronomica che appare politicamente ed economicamente insostenibile per la maggior parte degli alleati europei.
La dichiarazione del cancelliere tedesco a proposito di Israele che farebbe il lavoro sporco per noi, ha suscitato alternativamente approvazione o indignazione; in entrambi i casi per lo stesso motivo, cioè il fatto che Merz abbia affermato la necessità della violenza più estrema. Una violenza che viene poi voyeuristicamente affidata a uno specialista del settore di cui ammirare le gesta. Insomma, Israele come porno-divo della violenza “hard”. Un esempio di questa pornografia della violenza è la famigerata poesia “Oh Israele”, scritta nel 2006 da Paolo Guzzanti per celebrare l’invasione israeliana del Libano.
Il mantra del “lavoro sporco” risulta narrativamente efficace, poiché unisce pretesti utilitaristici e suggestioni morbose; infatti lo slogan non è un’invenzione di Merz, e da molti anni ci si fa ricorso per magnificare la funzione terroristica di Israele nell’area medio-orientale. Nel 2019 ci si raccontava che le “pressioni” di Israele avrebbero ammorbidito l’Iran e lo avrebbero indotto a sedersi al tavolo negoziale con Trump. Sennonché oggi scopriamo che il tavolo negoziale viene fatto saltare da Israele e sarebbe poi Trump a dover fare il lavoro sporco per conto di Israele; che quindi spetterà sempre di più ai militari americani rischiare la pelle per parare il posteriore di Netanyahu. La ritorsione meramente simbolica attuata dall’Iran con il bombardamento della base USA in Qatar, ha offerto a Trump una via d’uscita e la possibilità di parlare di cessate il fuoco. Ma per Israele cessate il fuoco significa che il fuoco lo cessino gli altri, non Israele.
Grande allegria al vertice NATO all’Aia: hanno appena deciso un balzo storico della spesa per le guerre in corso e in programmazione. Programmano morte, distruzione, devastazione dell’ambiente su scala globale. Bisogna fermarli!
Aumentare in modo esponenziale gli stanziamenti in armi è un obbligo per tutti i paesi aderenti alla Nato. L’ha decretato l’internazionale dei signori della guerra riuniti all’Aja. La spinta, è noto, viene dagli Usa, ed è brutale. Addirittura è un’azione al continuo rialzo perché agli inizi della sua carriera di politicante per conto dei grandi produttori di armi Trump richiamava alla parità di “investimenti” militari con quelli della quota che gli Usa conferisce all’Alleanza atlantica, chiedendo ai paesi europei di portarsi al 2% del Pil per ognuno di loro.
Ripercorriamo brevemente la vicenda, le motivazioni addotte e infine cosa realmente c’è dietro questa pressione crescente. Nessun mistero, s’intende, ma la storia e la prospettiva di guerre e immani sofferenze per le popolazioni di tutti i paesi.
La vicenda inizia ai tempi del primo governo Conte nel biennio ’18-’19. Allora Trump 1, nel suo intervento a Bruxelles, minacciò di ritirarsi dalla Nato se i partner non si fossero impegnati a mettersi alla pari con gli Usa. Fu nel corso del summit Nato (11 luglio ’18) che furono pubblicati i dati sulla graduale diminuzione della spesa per armi nei paesi Ue.
Pubblichiamo l’intervento integrale di Barbara Spinelli di cui ieri è stata letta una sintesi durante la manifestazione organizzata dal M5S all’Aja
Si ripete che il riarmo UE è la conseguenza dell’intervento russo in Ucraina, nel febbraio 2022. Un intervento che ha radici molto precise, e che né i governi occidentali né la Commissione hanno mai in questi anni riconosciuto e neanche lontanamente pensato. Alla sua radice: la minaccia di un’estensione delle forze e dei missili Nato fino alle porte della Russia, intollerabile per Mosca come lo sarebbe l’installazione di basi militari russe o cinesi alle porte degli Stati Uniti.
La vera svolta, se siamo interessati alla genealogia del conflitto ucraino e del riarmo europeo, è avvenuta dopo la guerra fredda e in concomitanza con l’allargamento dell’Unione all’Est Europa. L’Occidente si comportò da vincitore, e gli Stati Uniti decisero che a quel punto se l’Urss era morta tutto era permesso, a partire dalle sue basi che sono 750 in almeno 80 Paesi nel mondo. Anche la creazione di un “nuovo Medio Oriente” egemonizzato dall’unica potenza atomica della regione, Israele, nacque in quel periodo, quando nel 1996 andò al governo Netanyahu: ben prima dell’11 settembre 2001. Il diritto internazionale è stato messo in questione non nel 2022 ma negli anni Novanta del secolo scorso.
Il risultato è stato che non solo la Nato è restata in piedi (retrospettivamente penso che sarebbe stato saggio scioglierla fin dal 1991, in contemporanea con la fine dell’Urss e del patto di Varsavia) ma è divenuta protagonista di una serie di guerre di regime change, tutte fallite ma sempre ricominciate.
Vennero. Bombardarono (con bombe bunker buster). Fuggirono. E poi hanno preparato il terreno per controllare la narrazione attraverso una massiccia operazione di pubbliche relazioni.
Il presidente degli Stati Uniti ha salutato la “spettacolare” vittoria dei B-2 che hanno volato dagli Stati Uniti all'Asia occidentale per sganciare dei MOP (Massive Ordnance Penetrators) su Fordow nel cuore della notte del 22 giugno (significativamente, la stessa data dell'inizio dell'Operazione Barbarossa nel 1941).
I funzionari di Trump 2.0 hanno esultato dicendo che il programma nucleare iraniano era ormai finito.
Quello è il reality show. Ora passiamo alla realtà. Mannan Raisi, membro del Majlis (Parlamento) iraniano della città santa di Qom, ha riassunto così la situazione: "Contrariamente alle dichiarazioni del presidente bugiardo degli Stati Uniti, gli impianti nucleari di Fordow non hanno subito danni gravi. Sono state distrutte solo le strutture in superficie, che possono essere ripristinate. Inoltre, tutto ciò che poteva rappresentare un pericolo per la popolazione è stato evacuato in anticipo. Non ci sono segnalazioni di emissioni nucleari. Le false affermazioni di Trump sulla 'distruzione di Fordow' sono smentite dal fatto che gli attacchi sono stati così superficiali che non ci sono state nemmeno vittime nella struttura."
Ciò che conta davvero è che l'Impero del Caos, con un unico raid –spettacolare e criminale – ha bombardato (ancora una volta) la Carta delle Nazioni Unite, il diritto internazionale (ancora una volta), il TNP (forse per sempre), la Costituzione degli Stati Uniti, la “comunità internazionale” e la stessa base MAGA di Trump.
La prima pagina della Handelsblatt di
pochi giorni fa titolava sulla esistenza di guerra mondiale
non dichiarata poche ore prima dell’attacco degli Usa
all’Iran. Per il
quotidiano tedesco si tratta della guerra tra democrazie e
autocrazie, esprimendo una visione del conflitto globale ferma
al conflitto tra stati e
piegata alla contingenza politica. Allo stesso tempo, proprio
se guardiamo alla contingenza, l’attacco Usa all’Iran lascia
diversi dubbi
su quanto siano reali gli effetti fine-di-mondo dichiarati da
Washington come conseguenza dei bombardamenti di questi
giorni. Ma capire cosa sta
accadendo bisogna uscire dalla contingenza, quella degli
schieramenti degli stati e quella degli effetti dei
bombardamenti visto che da metà
degli anni ’10, specie in Medio Oriente, di attacchi fatti più
di messaggio politico che di distruzione materiale, ce ne sono
stati e la
guerra del mondo non dichiarata si è comunque estesa su scala
planetaria come se il contenuto diplomatico di alcuni
bombardamenti (dalla Siria
del 2017 allo scambio di missili Israele-Iran di questa
primavera) praticamente non esistesse.
Quindi la guerra mondiale non dichiarata esiste, si tratta di capire cosa è, a che punto siamo in questo genere di guerra e quali sono le prospettive che ha davanti a sé. Dall’inizio degli anni ’90 la guerra, come da sua costante antropologica, ha alimentato le rivoluzioni tecnologiche (dalla microelettronica alla rete fino alla AI) si è estesa fino ai confini temporali (guerra permanente), ha raggiunto ogni attività umana (guerra senza limiti), ha moltiplicato i piani di realtà sui quali si esercita necessitando di una strategia che li sincronizzasse (guerra ibrida). La guerra mondiale non dichiarata emerge da questo contesto di moltiplicazione delle mutazioni dei conflitti basati su una violenza sia esplicita, tradizionale fino a sembrare ancestrale, che mimetica o innovativa tanto da sembrare magica a causa della performatività tecnologica che la pervade. È quindi analiticamente necessario parlare oggi di “guerra mondiale non dichiarata”.
L’economista Michael Hudson spiega come la guerra contro l’Iran miri a impedire ai paesi di liberarsi dal controllo unipolare degli Stati Uniti e dall’egemonia del dollaro, e a interrompere l’integrazione eurasiatica con Cina e Russia
Gli
oppositori della guerra con l’Iran affermano che la guerra non
è nell’interesse americano, dato che l’Iran non rappresenta
alcuna minaccia visibile per gli Stati Uniti.
Questo appello alla ragione trascura la logica neoconservatrice che ha guidato la politica estera degli Stati Uniti per oltre mezzo secolo e che ora minaccia di travolgere il Medio Oriente nella guerra più violenta dai tempi di Corea.
Questa logica è così aggressiva, così ripugnante per la maggior parte delle persone, così in violazione dei principi fondamentali del diritto internazionale, delle Nazioni Unite e della Costituzione degli Stati Uniti, che c’è una comprensibile timidezza negli autori di questa strategia nello spiegare chiaramente cosa è in gioco.
Ciò che è in gioco è il tentativo degli Stati Uniti di controllare il Medio Oriente e il suo petrolio come baluardo del potere economico statunitense e di impedire ad altri paesi di muoversi per creare una propria autonomia dall’ordine neoliberista incentrato sugli Stati Uniti e amministrato dal FMI, dalla Banca Mondiale e da altre istituzioni per rafforzare il potere unipolare degli Stati Uniti.
Gli anni ’70 videro un ampio dibattito sulla creazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale (NIEO). Gli strateghi statunitensi lo consideravano una minaccia e, poiché il mio libro “Super Imperialismo” fu usato ironicamente dal governo come una sorta di libro di testo, fui invitato a commentare come, a mio avviso, i paesi si sarebbero liberati dal controllo statunitense.
Lavoravo all’Hudson Institute con Herman Kahn e, nel 1974 o 1975, mi chiamò per partecipare a una discussione sulla strategia militare dei piani già elaborati all’epoca per un possibile rovesciamento dell’Iran e la sua frammentazione etnica. Herman scoprì che il punto più debole era il Belucistan, al confine tra l’Iran e il Pakistan.
Di fronte a
un'escalation bellica che sta superando tutti i livelli di
guardia, i richiami alle norme che regolano i conflitti a
livello internazionale per
evitare una guerra nucleare (tra i quali quello dello
scienziato italiano, Giorgio Ferrari, e il tardivo
ripensamento dei vertici dell'Agenzia
Internazionale per l'Energia Atomica -Aiea -), sembrano
destinati al vuoto, consegnati a un deserto, di sordità o di
impotenza.
Intanto perché i due principali attori che spingono il mondo verso la catastrofe - gli Stati uniti e il regime sionista, il padrone imperiale e il suo cane da guardia, sempre scalpitante e ora senza freni - si considerano al di sopra delle regole, avendo rifiutato di firmare qualunque trattato che ne limitasse l'azione.
Né gli Usa né la sua rabbiosa propaggine, messa a guardia degli interessi occidentali in Medioriente, hanno infatti ratificato i Protocolli aggiuntivi del 1977 della convenzione di Ginevra, che vietano il bombardamento dei siti nucleari. “Israele” (al pari di India e Pakistan) non ha d'altronde firmato neanche l'originario Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp), entrato in vigore nel 1970 e sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, e considerato il punto più alto del contenimento collettivo deciso nel secolo scorso. E ha continuato a sviluppare il suo arsenale nucleare e quello di menzogne, coperte dagli Usa, dalla Francia e poi dall'Unione europea.
L’Italia, per esempio, il cui governo erede del fascismo non ha votato per il riconoscimento dello Stato di Palestina, ritenendo che debba avvenire “nel quadro di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi e non unilateralmente”, si è spesso astenuta nelle votazioni all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite su risoluzioni che avrebbero potenziato i diritti della Palestina come Stato osservatore. In concreto, fa grossi affari con il regime sionista, e gli fornisce elicotteri, cannoni navali ed altri armamenti, ma anche componenti dei caccia F-35, vettori di armi nucleari.
Bisogna ricordare che il Tnp, in uno dei suoi tre punti principali riconosce il diritto di tutti gli stati che fanno parte del trattato di sviluppare la ricerca, la produzione e l'uso dell'energia nucleare per scopi pacifici, con la supervisione dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea) per garantire che tale tecnologia non venga deviata per scopi militari.
Mentre scriviamo sembrerebbe essersi conclusa la guerra dei 12 giorni tra Israele e l’Iran, anche se mai come in questo caso il condizionale è d’obbligo. Con i bombardamenti israeliani iniziati il 13 giugno e poi con quelli statunitensi della notte tra sabato e domenica, abbiamo assistito a quella che può essere definita tranquillamente un’aggressione imperialista in purezza, e proprio da questo dovremmo partire per comprendere quale posizione assumere nei confronti dell’Iran.
Per molto tempo infatti il concetto stesso di imperialismo era stato eliminato dalla cassetta degli attrezzi della sinistra occidentale perché ritenuto ormai obsoleto e inutile per analizzare le dinamiche di un mondo sempre più interconnesso e globalizzato.
Con la guerra tra la Nato e la Russia (per interposta Ucraina) il termine è stato però progressivamente rispolverato e utilizzato con disinvoltura anche dal sistema informativo mainstream, generando più di qualche fraintendimento persino tra i compagni. Per questo prima di proseguire crediamo sia utile, anche a costo di sembrare ridondanti, ribadire schematicamente almeno due cose.
La prima è che l’imperialismo non è una categoria morale, non è un sostantivo che può essere adoperato per descrivere quanto sia “cattivo” questo o quel dittatore o quanto siano esecrabili le mire espansionistiche di questo o quello stato. L’imperialismo descrive una fase dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e come tale dev’essere maneggiato.
Facciamo finta che ora ci sia “la pace”. E facciamo anche finta di prendere per buone le dichiarazioni di giubilo di tutti e tre i protagonisti della “guerra dei dodici giorni”: Usa, Israele e Iran.
Primo problema: si smentiscono una con l’altra. Del resto è inevitabile, visto che tutti e tre dicono di “aver vinto” e “raggiunto tutti propri obiettivi”.
L’analisi dei fatti è un po’ meno ecumenica, com’è giusto che sia per essere credibile.
Trump ha raggiunto certamente l’obiettivo di far capire a tutti, soprattutto dentro l’”Occidente collettivo”, che sono gli Stati Uniti il capotreno di questo convoglio, non certo Israele e in primo luogo Netanyahu.
La reprimenda allo scolaretto indisciplinato che voleva continuare a bombardare anche dopo “l’ordine di tregua” arrivato da Washington, ha chiarito che Tel Aviv è stata e resta un “proxy” della politica Usa in Medio Oriente. Un proxy che si era montato la testa illudendosi di poter costringere “il cervello della piovra” occidentale a seguire le proprie finalità.
Il rapporto era apparso decisamente invertito quando Trump, rovesciando la sua posizione, aveva dato infine l’ordine di bombardare con le bunker-buster i tre siti nucleari iraniani più noti. Poi si è visto – stante anche alle sue stesse dichiarazioni – che l’attacco Usa era stato “telefonato” in tempo, così come aveva poi fatto Tehran quando, “costretta” a dare una risposta, ha spedito un numero di missili nei pressi della base statunitense in Qatar.
Una cosa va detta subito, e senza esitazioni. Che il conflitto Israele-USA-Iran si sia concluso è un bene. Pur consapevoli che la sicumera trumpiana circa la durata sempiterna del cessate il fuoco è ridicola, e che siamo di fronte a una tregua, che reggerà quanto reggerà. E che le cause del conflitto sono ancora tutte lì, e quindi torneranno prima o poi a manifestarsi.
Ciò detto, proviamo a fare un primo bilancio di questo veloce scontro – durato solo dodici giorni – che può in effetti essere considerato come una estensione dei due precedenti scambi tra Iran e Israele; non a caso, Teheran ha denominato questa operazione True Promise III, ricollegandola direttamente alle due precedenti.
Sotto il profilo dei danni reciprocamente inferti, possiamo tranquillamente affermare che sono stati importanti ma non significativi; probabilmente, in termini assoluti, sono maggiori quelli subiti dall’Iran ma, considerando la diversa capacità di assorbimento dei due paesi (soprattutto sotto il profilo psicologico), si può considerare lo scambio di colpi come sostanzialmente equilibrato. Nessuno dei due ha subito perdite materiali che non siano ripristinabili in tempi relativamente brevi. Anche gli attacchi statunitensi ai siti nucleari iraniani hanno fatto danni abbastanza limitati, e comunque non tali da fermare il programma di arricchimento – che sia per scopi civili o, come potrebbe ora diventare, per scopi militari. Certo l’Iran ha subito la perdita di alcuni scienziati impegnati nel programma (non è purtroppo una novità, e non vale a fermare alcunché), così come di alcuni alti ufficiali (tutti peraltro abbastanza anziani, che sono già stati sostituiti).
Negli ultimi tempi si è molto parlato di similitudini nel modo di combattere di Ucraina e Israele, complice anche l’impiego spettacolare di droni imbarcati su veicoli civili occultati precedentemente in territorio russo e iraniano dai rispettivi servizi d’intelligence.
Complice forse pure l’ammissione dell’ambasciatore israeliano a Kiev che Israele ha fornito missili Patriot all’Ucraina, anche se Tel Aviv ha smentito tale fornitura lasciando intendere che le vecchie armi anti missili balistici fornite allo Stato ebraico durante la Guerra del Golfo del 1991 sarebbero state restituite agli USA (che a Israele dopo il 7 ottobre 2023 hanno dato il sistema THAAD) e da lì poi triangolate in Ucraina.
A ben guardare, Kiev e Tel Aviv si assomigliano sempre di più anche nella narrazione propagandistica delle rispettive guerre e dopo l’attacco all’Iran del 12 giugno anche Israele, come l’Ucraina, per sensibilizzare noi europei utilizza messaggi spesso grossolani se non imbarazzanti.
Certo la propaganda di Israele non ha raggiunto finora le vette inarrivabili di quella ucraina, diffusa a piene mani dai vertici politici e dai servizi di intelligence interna (SBU) e militare (GUR) ma ripresa e amplificata senza dubbi né valutazioni critiche da migliaia di tifosi e ultras schierati in forze nelle redazioni d’Italia e d’Europa.
Di fronte allo sgretolamento dei beni rifugio simbolo degli Stati Uniti, ovvero il dollaro e il debito, il presidente, mettendosi un cappellino rosso in testa e creando una war room da film di quart’ordine, ha pensato di persuadere il mondo del “Primato” statunitense, schierando la potenza militare, ormai l’unico vero elemento di forza degli Usa. Che però sanno, a queste condizioni, di potersi permettere ancora per poco. L’analisi di Alessandro Volpi
Uno dei motivi principali dell’attacco degli Stati Uniti all’Iran è stato probabilmente la volontà di Donald Trump di dimostrare la propria forza militare nel tentativo di riconquistare la “fiducia” del mondo, o di una parte di esso, nei confronti dei simboli dell’economia statunitense, costituiti dal dollaro e dai titoli del debito pubblico.
In realtà non si tratta solo di simboli perché il dollaro sta perdendo sempre più rapidamente la condizione di valuta di riserva e di scambio internazionale; una condizione che permetteva alla Federal reserve (Fed) di stampare dollari a suo piacimento per finanziare la spesa federale americana, dunque per coprire gli investimenti militari, per fare giganteschi salvataggi come nel caso delle banche dopo la crisi economica del 2007-2008, per stimolare i consumi interni con continui incentivi e per evitare di aumentare le imposte.
Oggi questa prerogativa, di fatto, non esiste più: solo nei confronti dell’euro il dollaro è ormai ben sotto la parità, con un cambio sceso da 0,95 a 0,86 in pochissimo tempo e non si tratta solo di una manovra di voluta svalutazione ma di vera perdita di credibilità, ancora più marcata verso altre monete mondiali.
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In questo articolo sul movimento MAGA, John Bellamy Foster esplora il drammatico cambiamento dell'imperialismo statunitense iniziato con la prima presidenza Trump e accelerato con la seconda. Il cambiamento, spiega Foster, non è guidato dall'antimperialismo e dall'antimilitarismo, ma rappresenta piuttosto un forte spostamento a destra, alimentato dall'ipernazionalismo e dall'obiettivo di riconquistare il potere degli Stati Uniti sulla scena mondiale
Il drammatico cambiamento
dell'imperialismo statunitense sotto la presidenza di Donald
Trump, sia nel suo mandato iniziale che ancor più in quello
attuale, ha creato una
grandissima confusione e costernazione nei centri di potere
istituzionali. Questa improvvisa modificazione della politica
estera statunitense si
manifesta nell'abbandono sia dell'ordine internazionale
liberale costruito sotto l'egemonia statunitense dopo la
Seconda Guerra Mondiale, sia della
strategia a lungo termine di allargamento della NATO e della
guerra per procura contro la Russia in Ucraina. L'imposizione
di elevati dazi doganali e
il mutamento delle priorità militari hanno persino messo gli
Stati Uniti in conflitto con i suoi alleati di lunga data,
mentre si sta
accelerando la Nuova Guerra Fredda contro la Cina e il Sud
globale.
Il cambiamento nella proiezione di potenza degli Stati Uniti è così estremo, e la confusione che ne è derivata è così grande, che persino alcune figure, da tempo associate alla sinistra, sono cadute nella trappola di vedere Trump come isolazionista, antimilitarista e antiimperialista. Per questo, il dissociato esponente della sinistra Christian Parenti ha sostenuto che Trump «non è un anti-imperialista nel senso che gli dà la sinistra. Piuttosto, è un istintivo isolazionista dell'America-First», il cui obiettivo, «più di qualsiasi altro recente presidente», è «smantellare l'impero globale informale americano» e promuovere una nuova politica estera «antimilitarista» «che si opponga all'impero».[1]
Tuttavia, lungi dall'essere anti-imperialista, il cambiamento globale nelle relazioni esterne degli Stati Uniti sotto Trump è dovuto a un approccio ipernazionalista al potere mondiale radicato in settori chiave della classe dirigente, in particolare nei monopolisti dell'alta tecnologia, così come nei sostenitori di Trump, in gran parte appartenenti alla classe medio-bassa. Secondo questa prospettiva neofascista e revanscista, gli Stati Uniti sono in declino come potenza egemonica e minacciati da nemici potenti: il marxismo culturale e gli immigrati "invasori" dall'interno, la Cina e il Sud globale dall'esterno, mentre sono ostacolati da alleati deboli e dipendenti.
DeepSeek, cultura open source e valori tradizionali: l’IA di Pechino affonda le radici nei principi del confucianesimo
Prima è arrivata DeepSeek. Poi,
una dopo l’altra, Mianbi AI, Manus e Qwen di Alibaba. Il
rilascio di AI a ripetizione, fomentato da una rinnovata
attenzione all’open
source, ha portato a tutta una serie di analisi e riflessioni
dell’ecosistema tech cinese a proposito delle differenze tra
Cina e Stati Uniti,
delle peculiarità del sistema cinese e delle sfide che
attendono Pechino al riguardo. Dato che si tratta di Cina, non
è mancato un forte
impulso governativo, con il Partito comunista che ha tentato
di cavalcare questa ondata, sfruttando lo shock creato da
DeepSeek nella comunità
americana dell’AI (che non a caso ha parlato di nuovo “Sputnik
moment”) e provando a inserire tutto questo all’interno dei
propri obiettivi.
E questo hype si registra anche nella società, nella vita quotidiana: quando mi trovo in metropolitana o in autobus mi capita di dare un’occhiata ai miei vicini, quasi sempre impegnati a scrollare con lo smartphone. E non di rado stanno consultando l’AI (di solito DeepSeek, ma non manca Manus). Ma l’AI in Cina è ormai utilizzata ovunque in qualunque contesto, come dimostrano anche video diventati virali sui social nazionali, dove viene mostrato l’uso di DeepSeek per scegliere il melone migliore dal fruttivendolo. E alla vita reale, in Cina, si cerca sempre di dare una sistemazione, una coerenza, in modo che il flusso tra analisi, quotidianità e politica sia costante e sembri del tutto naturale.
Visti i tempi che corrono (quelli di una leadership che non vuole fare sfuggire niente al proprio controllo) il tema più rilevante da un punto di vista culturale, in materia di AI, è un mix ipnotico di idealismo e sistematizzazione di tutto quanto è nuovo all’interno del contesto culturale cinese. L’esperienza di DeepSeek nel campo dei modelli linguistici di grandi dimensioni, ad esempio, così come l’ha analizzata Yanjun Wu sul “Bulletin of Chinese Academy of Sciences”, non viene presentata solo come un esempio di successo tecnico, ma in quanto fenomeno in grado di esprimere le sfumature di una visione dell’innovazione che affonda le radici nella cultura e nella strategia nazionale cinese.
C’erano una volta i frugali, espressione che il vocabolario Treccani riferisce alle persone “parche e sobrie… moderate e semplici nel mangiare e nel bere”. Il riferimento è ai Paesi nordici, quelli che nell’Unione europea criticano i Paesi spendaccioni, i Paesi dell’Europa meridionale, i Pigs: acronimo che identifica il Portogallo, l’Italia, la Grecia e la Spagna.
Qualcuno ha individuato un acronimo altrettanto irriverente per identificare i Paesi frugali, ovvero Sado: Svezia, Austria, Danimarca e Olanda. E in effetti ci è voluta una buona dose di sadismo per invocare la moderazione e con ciò l’affossamento dello Stato sociale all’indomani della crisi del debito sovrano: la crisi provocata dal salvataggio pubblico delle banche private, che le ricette con cui i frugali hanno voluto affrontarla sono state all’origine di a una vera e propria macelleria sociale.
Ovviamente i frugali non sono dotati di volontà autonoma. Operano tradizionalmente su mandato della Germania, che con l’austerità si è assicurata l’egemonia per ora solo economica. E operano oltretutto con un certo zelo che traspare anche dal ricorso a un linguaggio non proprio frugale. Si pensi solo all’insulto pronunciato dal Ministro delle finanze olandese e presidente dell’Eurogruppo (l’organismo che raccoglie i Ministri delle finanze dei Paesi della zona Euro), Jeroen Dijsselbloem, secondo cui i Paesi dell’Europa meridionale spendono “tutti i soldi per alcol e donne per poi chiedere aiuti”.
Da un certo punto di vista, l’Iran ha chiaramente “vinto”. Trump avrebbe voluto essere acclamato per una splendida “Vittoria” in stile reality TV. L’attacco di domenica ai tre siti nucleari è stato infatti proclamato a gran voce da Trump e Hegseth come tale – avendo “annientato” il programma di arricchimento nucleare iraniano, hanno affermato. “Distrutto completamente”, insistono.
Solo che… non c’è riuscito: l’attacco ha causato danni superficiali, forse. E a quanto pare è stato coordinato in anticipo con l’Iran tramite intermediari, per essere un’operazione “una tantum”. Questo è un modello abituale di Trump (coordinamento anticipato). È stato il metodo in Siria, Yemen e persino con l’assassinio di Qasem Soleimani da parte di Trump – tutto finalizzato a garantire a Trump una rapida “vittoria” mediatica.
Il cosiddetto “cessate il fuoco” che ha fatto rapidamente seguito agli attacchi statunitensi – sebbene non privo di intoppi – è stato una “cessazione delle ostilità” orchestrata in fretta e furia (e non un cessate il fuoco, poiché non erano stati concordati termini). È stato un “tappabuchi”. Ciò significa che l’impasse negoziale tra l’Iran e Witkoff rimane irrisolta.
La Guida Suprema ha esposto con fermezza la posizione dell’Iran: “Nessuna resa”; l’arricchimento continua; e gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare la regione e non intromettersi negli affari iraniani.
Un risultato elettorale che segna una svolta politica di eccezionale importanza per la città di New York. Nella notte, Andrew Cuomo, ex governatore dello Stato e figura centrale del Partito Democratico newyorkese, ha ammesso la sconfitta alle primarie per la candidatura a sindaco, cedendo il passo a Zohran Mamdani, giovane deputato e membro dei Democratic Socialists of America.
Una sorpresa clamorosa: Cuomo, fino a poche settimane fa favorito in quasi tutti i sondaggi, ha riconosciuto il vantaggio del suo avversario di oltre sette punti percentuali, con il 91% dei voti scrutinati.
“Stasera era la serata del deputato Mamdani”, ha dichiarato Cuomo ai suoi sostenitori. Tecnicamente, la corsa non è ancora chiusa. Il sistema elettorale di New York, basato sul voto a scelta multipla, prevede un conteggio progressivo in cui le preferenze degli elettori per i candidati eliminati vengono redistribuite. Ma con il terzo classificato, il revisore dei conti Brad Lander – ebreo progressista vicino a Mamdani – è molto probabile che la gran parte dei suoi voti residui vadano proprio a quest’ultimo, rendendo la rimonta di Cuomo praticamente impossibile.
Il risultato assume un significato politico più ampio per almeno due motivi. Il primo è l’identità politica di Mamdani: 33 anni, musulmano, figlio d’arte (sua madre è l’attrice indiana Mira Nair), attivista dichiaratamente antisionista, vicino ai movimenti per i diritti dei palestinesi, sostenitore del boicottaggio contro Israele e critico feroce del sionismo.
Guerra dei 10-12 giorni: uno spettacolo in tre atti: dramma, tragedia, commedia.
Chi ha vinto? HA VINTO IL MIGLIORE.
Chi ha perso? HA PERSO IL PEGGIORE.
Netaniahu mantiene la promessa che si fa da trent’anni e attacca l’Iran, con il pretesto di una bomba atomica che non c’è, non c’è mai stata, né ci sarebbe stata, per togliere di mezzo l’ultimo ostacolo al dominio sionista sul Medioriente e oltre. Fa poco danno, ma, al solito, ammazza molta gente.
Tehran risponde con salve di missili e droni e sforacchia l’Iron Dome peggio di una gruviera, causando poche vittime, ma molti danni, compreso a Haifa, Tel Aviv e Beersheva dove stanno la centrale nucleare Dimona e tutte quelle bombe atomiche di cui nessuno osa parlare.
A questo punto il dramma diventa tragedia alla vista dei nuovi morti che si aggiungono ai mitragliati a Gaza per reato di fame. E alla vista, all’orizzonte del Medioriente e del mondo del cataclismatico innesco della catastrofe universale.
Vi presentiamo la trascrizione del colloquio – intervista tra il giornalista Premio Pulitzer, Chris Hegdes e la relatrice ONU per la Palestina, Francesca Albanese, sul genocidio di Israele nella Striscia di Gaza
Quando verrà
scritta la storia del genocidio a Gaza, una delle figure più
coraggiose e
schiette nella difesa della giustizia e del rispetto del
diritto internazionale sarà Francesca Albanese, relatrice
speciale delle Nazioni Unite
sui diritti umani nei territori palestinesi. Albanese,
giurista italiana, ricopre la carica di relatrice speciale
delle Nazioni Unite sui diritti
umani nei territori palestinesi dal 2022. Il suo ufficio ha
il compito di monitorare e segnalare le “violazioni dei
diritti umani”
commesse da Israele contro i palestinesi in Cisgiordania e a
Gaza.
Albanese, che riceve minacce di morte e subisce campagne diffamatorie ben orchestrate da Israele e dai suoi alleati, cerca coraggiosamente di assicurare alla giustizia coloro che sostengono e alimentano il genocidio. Lei denuncia aspramente quella che definisce “la corruzione morale e politica del mondo” per il genocidio. Il suo ufficio ha pubblicato rapporti dettagliati che documentano i crimini di guerra commessi da Israele a Gaza e in Cisgiordania, uno dei quali, Genocide as Colonial Erasure, ho ristampato come appendice nel mio ultimo libro A Genocide Foretold.
Sta lavorando a un nuovo rapporto che smaschera le banche, i fondi pensione, le aziende tecnologiche e le università che aiutano e favoriscono le violazioni del diritto internazionale, dei diritti umani e i crimini di guerra da parte di Israele. Ha informato le organizzazioni private che sono “penalmente responsabili” per aver aiutato Israele a compiere il “genocidio” a Gaza.
Fabrizio Bozzetti firma un ritratto potente di una delle più importanti figure della tradizione eretica italiana, Margherita da Trento. Viene sottolineata l'originalità della sua figura, la visione radicale e raccontata la sua storia, la sfida che insieme a Fra Dolcino e al movimento degli Apostolici lanciò alla Chiesa.
Tutti elementi che sono alla base del romanzo scritto dall'autore, Margherita dei ribelli. Sorella, eretica, rivoluzionaria (DeriveApprodi, 2025), un'opera che riscrive la memoria di un'eredità rimossa.
Dipingere un ritratto al buio,
cercando di intuire a istinto profili e contorni resi incerti,
più che dal passaggio di
oltre sette secoli, dalla precisa volontà di tanti potenti che
hanno mirato a indebolirli, confonderli, sfigurarli. Si può
avvertire
questa sensazione, tentando di dare oggi volto e voce a
Margherita da Trento, secondo alcuni discendente della casata
dei Boninsegna, da molti detta
la Bella, dall’Inquisizione condannata a una morte atroce nel
1307.
Di lei assai poco sappiamo con certezza – e pure quel poco arriva come mero riflesso dei verbali processuali, delle maldicenze di chi la sospettò, delle accuse di chi la catturò e giudicò. Una biografia interamente di controparte, tutta scolpita nel fango, sagomata dalle ingiurie che le furono scagliate addosso come pietre. Tra i capi d’imputazione, l’aver creato una comunità improntata a uguaglianza, parità e libero amore, un’oasi dal respiro mai registrato prima, quasi un frammento di futuro piombato come un’astronave in pieno Medioevo, un paradiso che davvero prese forma concreta sebbene moltissimi, ancora oggi, non ne abbiamo mai sentito parlare – e non per caso. E poi, l’esser stata demoniaca tentatrice, lasciva concubina del più temuto predicatore dell’epoca, quel fra Dolcino che Dante collocò anzitempo all’inferno, accollandosi la fatica di una delle sue profezie post-eventum pur d’includerlo nella Commedia, unico eretico suo contemporaneo che si degnò di nominare. Colpe tanto orrende, specie per una donna di quell’epoca, da giustificare la cortina di censura, rimozione e silenzio che su Margherita calò. Badilate e badilate di calce, come si usava allora per fermare le pandemie, per soffocare le pestilenze.
Eppure, nonostante tutto questo, ciò che di vitale continua ad avvampare sotto la distesa opaca della cancellazione con cui hanno provato a disperdere di lei ogni ricordo è così intenso che è difficile resistervi, appena si ha la fortuna di scorgerne una traccia, un guizzo rosso che si ostina ad aprire inaspettati orizzonti. È quel richiamo a sussurrare raffiche di domande a chi si avvicina al mistero di Margherita: perché le alte gerarchie hanno avvertito tanto pericolosa la sua figura da doverne dannare persino la memoria, disperdendone ogni parola e traccia?
Quello che sta accadendo – l’attacco diretto degli Stati Uniti all’Iran, successivo alla rappresaglia israeliana – non è una notizia di politica estera. Non lo è perché un conflitto nucleare, se dovesse divampare, non riconoscerà confini territoriali, e finirà per annientare moltitudini di corpi e di ecosistemi nel nostro presente infame e nel tempo massimamente espanso delle mutazioni genetiche, che faranno espiare il futuro. Nessuna porzione del mondo è davvero al riparo. Anche noi italiani, nel nostro territorio che ci sembra incolume, ne verremmo colpiti, in gradi di intensità variabili: perché un disastro planetario non è un disastro universale, e uno degli aspetti più crudeli del fallout è che si distribuisce in modo collettivo ma asimmetrico, colpendo tutti fino a un certo punto, ma con un effetto più nocivo su alcune comunità, su specifici luoghi, su determinati organismi.
Ma non è solo l’universalità potenziale del danno a renderci partecipi. L’Italia è parte della macchina bellica. Il nostro suolo ospita armi atomiche americane nell’ambito della NATO. Questo ci colloca in una posizione ambigua: ufficialmente impegnati nella non proliferazione e nel disarmo, ma allo stesso tempo pienamente integrati in un sistema strategico che include l’arma atomica come deterrente e oggi, più esplicitamente, come strumento di pressione. In caso di escalation tra Washington e Teheran, ormai non più ipotetica ma in atto, l’Italia rischia di essere trascinata in un conflitto che coinvolge le potenze nucleari, pur senza essere un attore armato in senso proprio.
La narrativa corrente sull’intelligenza artificiale assomiglia a quella sulla globalizzazione. Mostra solo il lato illuminato della medaglia. I costi umani dell’applicazione dell’Ia al mondo dell’industria, del commercio e della finanza vengono ignorati o minimizzati. Essi sono in realtà molto alti, e sono temuti soprattutto nell’Occidente più avanzato. Non è un caso che siano gli Stati Uniti il paese dove vige il minore entusiasmo verso l’Ia. La gente teme che la cosiddetta “distruzione creativa” di Schumpeter – l’innovazione che distrugge le produzioni esistenti per crearne di nuove, come appunto l’Ia – sia la ripetizione di quanto accaduto negli anni 70 e 80 con la deindustrializzazione di un bel pezzo dell’America, trasformata dal capitale finanziario in un deserto di fabbriche arrugginite e di popolazione disperata e ammalata senza che ci sia stata alcuna rinascita.
L’impatto dell’Ia sul capitalismo occidentale lo obbligherà ad attraversare una valle di lacrime prima di emergere trasformato e, secondo le speranze dei suoi fedeli, potenzialmente più dinamico. Si stima che entro il 2030-35, 50 milioni di lavoratori americani dovranno cambiare occupazione, creando costi di riqualificazione stimati in 1 trilione di dollari. Un peso che il sistema non ha alcun modo di gestire, semplicemente perché la sua logica profonda non lo consente. Il capitalismo occidentale non è congegnato per ridurre la distruzione creativa ma per favorirla. In Europa e negli Usa il welfare pubblico è già sotto pressione e non è in grado di assorbire i costi dell’estesa sofferenza sociale generata dall’automazione della sua economia.
Doveva essere il presidente della pace, colui che, in nome di un isolazionismo vantaggioso per un’America capace di ritornare di nuovo grande, si sarebbe dovuto ritirare da ogni conflitto. Avrebbe dovuto chiudere nel giro di poco tempo le disastrose situazioni belliche in corso: erano queste le sue promesse tanto in campagna elettorale quanto ancora dopo essere stato eletto a novembre scorso. E invece Trump non solo non ha posto fine alle carneficine in corso – alimentandole al contrario con aiuti militari tanto all’Ucraina (https://www.aljazeera.com/news/2025/5/9/after-minerals-deal-trump-approves-arms-to-ukraine-plays-down-peace-plan) quanto a Israele (https://www.state.gov/military-assistance-to-israel/) – ma domenica ha addirittura portato direttamente gli Stati Uniti in guerra, a fianco di Israele, attaccando tre siti nucleari iraniani con i suoi bombardieri invisibili B2.
Che ne è stato, si domandano in molti, di tutte le sue dichiarazioni precedenti, compresi i moniti fino a ieri diretti a Netanyahu, volti a dissuaderlo dall’attaccare l’Iran? Come è possibile che egli si alieni con disinvoltura una notevolissima fetta del suo elettorato MAGA, fortemente anti-interventista e ben rappresentata dai vari Steve Bannon, Marjorie Taylor Green o Tacker Carlson, col quale ultimo il presidente ha avuto scambi durissimi? Per non parlare del rapporto assai teso che si è creato con Tulsi Gabbard, pur scelta come direttrice dell’intelligence proprio perché anti neocon, e poi messa all’angolo non appena ha evidenziato come Israele non corresse alcun pericolo di un’imminente bomba atomica da parte dell’Iran.
In un atto di grafomania, ho messo insieme alcuni pensieri, un pourparler tra me e me, tra una lettura e l’altra di analisti, politologi, geopolitologi, informatori di regime, corrotti, burloni opinionisti.
Insomma, certo che sì, eccoci di nuovo. La ruota gira, e a ogni giro s’inverte l’asse dell’innocenza. Nuova guerra, vecchio copione. Come in un allestimento d’opera che cambia solo la scenografia, ma non la partitura.
L’Iraq di Saddam, l’Afghanistan dei Talebani, la Somalia dei signori della guerra, la Siria di Assad: sono tutti stati prima disumanizzati attraverso una narrazione totalizzante, poi purificati con il fuoco, infine riabilitati, spesso dagli stessi che avevano premuto il grilletto morale.
L’Iraq, per esempio: invaso nel 2003 sulla base di una fiction sulle armi chimiche, confezionata con slides, provette e sintassi d’intelligence. Risultato: oltre 460.000 morti, e oggi eccolo lì, partner strategico.
L’Afghanistan: vent’anni di esportazione della libertà a suon di droni, bombe, missili, mine antiuomo, oltre 240.000 vittime, per poi riconsegnarlo, come pacco Amazon danneggiato, ai Talebani.
La Somalia: test bench per operazioni militari con brand ONU, resta ancora oggi “Stato fallito” solo perché, ironia della storia, continua a cadere sotto il peso delle stesse mani che dicono di volerla sollevare.
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L’esercito russo ha compiuto a giugno la sua più grande avanzata in territorio ucraino dal novembre 2024 e ha accelerato la sua avanzata per il terzo mese consecutivo.
Nonostante i commenti scettici sull’incremento dei progressi russi espressi nei giorni scorsi da diversi osservatori in Occidente, ispirati dall’articolo di Michael Carpenter su Foreign Affairs dal titolo perentorio “L’Ucraina può ancora vincere”), sono i dati provenienti da fonti russe, ucraine (come il sito Deep State) e dall’Institute for the Study of War (ISW), think-tank neocon smaccatamente filo-ucraino con sede negli Stati Uniti, a confermare l’accelerazione delle forze di Mosca su tutti i fronti, come Analisi Difesa ha evidenziato già nell’articolo sul conflitto ucraino del 30 giugno.
Secondo l’ISW le truppe russe hanno conquistato in giugno 588 km² di territorio ucraino (556 secondo Deep State), ne avevano conquistati 507 km² a maggio (449 secondo deep State), 379 km² ad aprile e 240 km² in marzo.
Le conquiste territoriali sono il frutto anche di una crescente superiorità qualitativa e numerica delle truppe e dei mezzi russi. Nella prima metà del 2025 oltre 210.000 russi si sono arruolati a contratto nelle forze armate nella prima metà del 2025, e altri 18.000 si sono uniti alle “unità di volontari”. Come ha detto ieri il vice segretario del Consiglio di Sicurezza nazionale, Dmitry Medvedev.
Lo stesso Medvedev lo scorso gennaio aveva detto che nel 2024 i contrattisti arruolati erano stati 450.000 e quelli entrati nelle formazioni di volontari 40.000. Mentre nel 2023, secondo quanto affermato lo scorso anno dal presidente Vladimir Putin, i contrattisti arruolati erano stati 486.000.
Alla fine del 2023 Putin aveva detto che due terzi dei militari impiegati a quel tempo in Ucraina erano contrattisti e un terzo riservisti richiamati alle armi. Lo scorso anno la testata Moscow Time aveva scritto che lo stipendio mensile minimo di un soldato a contratto in Russia era di 210.000 rubli (oltre 2.000 euro), vale a dire tre volte di più del reddito medio del Paese, a cui andavano aggiunti una serie di corposi benefit.
Die
Fahne Hoch / die Reihen fest
geschlossen…”, Alta la bandiera, le fila ben serrate…”
https://www.youtube.com/watch?v=D7pw9_EMGfI (In tedesco)
https://www.youtube.com/watch?v=j05dg8a4iWU ( Milva, italiano)
Era l’inno delle SA, le milizie naziste, versione tedesca delle squadracce nere nostrane, che imperversavano fino a quando non dettero ombra al partito e furono soffocate nel sangue e nel carcere. Poi divenne l’inno del partito. Ho titoli per parlarne, a proposito di allora e di adesso. Perché c’ero e, alla faccia di Merz, ci sono.
Friedrich Merz, neocancelliere tedesco, e Marc Rutte, neosegretario della NATO, si fanno vedere spesso insieme. Manifestano quella gioiosa comunanza che gli psichiatri definiscono “sindrome del delirio condiviso” e considerano una grave patologia. A Friedrich Merz deve essere intimamente gradito il motto “repetita juvant”. E non pare essere l’unico, se uno fa caso a quanto va succedendo nelle istituzioni in una parte significativa del nostro continente, a partire dalla nostra che molto si è portata avanti col lavoro: l’”Europa dei camerati”, qualcuno va azzardando.
Mi rendo conto che su questo tema e i suoi rapidi sviluppi ci sia poco da scherzare, ma per adesso e per stavolta prendiamola così. Anche perché i due figuri si prestano: uno che in casa, fin da piccolo l’hanno chiamato “Birnkopf”, testa di pera, e non si sa se abbiano fatto del bodyshaming, o dei riferimenti al modo di ragionare. L’altro che, pur di non far trasparire nulla di umano e non militarizzato, si rivolge al mondo con occhi e labbra talmente strizzati da parere feritoie di carro armato.
Quanto alla passione di Merz per il citato insegnamento dei padri latini sulla ripetizione degli eventi positivi e delle cose ben fatte, il pensiero corre a quanto il suo antecedente bavarese rispettasse la costituzione del suo Stato, la Repubblica di Weimar, inanellando un putsch dopo l’altro, fino a quello riuscito tramite regolari elezioni (1933).
Al popolo americano
non viene detto perché Israele ha accettato il cessate il
fuoco con l’Iran. Sì, Israele stava rapidamente
esaurendo gli
intercettori della difesa aerea (rendendosi più vulnerabile
agli attacchi iraniani), ma questa questione è solo di
secondaria
importanza. Il vero motivo per cui volevano un cessate
il fuoco era che stavano venendo sistematicamente
polverizzati e avevano bisogno di
fermare l’emorragia in fretta. Ecco perché Israele
ha “gettato la spugna” meno di due settimane dopo la salva
iniziale, perché l’Iran stava polverizzando un bersaglio dopo
l’altro senza che ci fosse alcuna fine in vista. Quindi,
Israele ha
capitolato.
Naturalmente, questa non è la storia che abbiamo letto sui media occidentali, dove non si parla della vasta distruzione di obiettivi strategici israeliani (da parte dei missili balistici iraniani); questa notizia è stata completamente omessa dalla copertura mainstream. Ma è per questo che Israele ha convinto Trump a trovare una via d’uscita diplomatica, perché le perdite stavano cominciando ad aumentare e l’Iran non stava “mollando”.
Sapevate che in Israele è illegale pubblicare video o foto di edifici colpiti da missili iraniani? In altre parole, se pubblicate foto di edifici, infrastrutture o basi militari in fiamme, finirete in prigione. È così che il governo controlla la narrazione e convince l’opinione pubblica che sta vincendo una guerra che, in realtà, sta perdendo. Ma non credetemi sulla parola: ecco il video di un giornalista israeliano che spiega come la censura governativa stia influenzando la capacità della popolazione di capire cosa sta succedendo:
⚡️🇮🇱🇮🇷JUST IN: CH13’s Raviv Drucker:
“There were a lot of missile hits in IDF bases, in strategic sites that we still don’t report about…It created a situation where people don’t realize how precise the Iranians were and how much damage they caused”pic.twitter.com/sYVBM8hdOp
— Suppressed News. (@SuppressedNws) June 26, 2025
Anche oggi Israele ci ha regalato la nostra strage quotidiana. Un attacco aereo ha preso di mira l'Al-Baqa Café sulla spiaggia di Gaza, facendo almeno 21 morti. Si tratta di uno dei pochi luoghi in cui è (era) possibile avere un accesso internet nei prolungati blackout delle comunicazioni in Gaza, e perciò è (era) spesso sede di giornalisti e fotoreporter (almeno tre morti in questo attacco).
Insieme alle lacrime, le parole sono finite da tempo.
È come vivere in un dipartimento dell’inferno emerso per accidente alla superficie terrena, come abitare l’incubo di un pazzo sadico.
È come se la rivolta e il massacro del Ghetto di Varsavia andasse in onda sempre di nuovo, ma moltiplicato per dieci nei numeri, nella durata, nell’efferatezza; ed è come se il tutto venisse trasmesso in mondovisione, e tutt’attorno la buona società del giardino occidentale applaudisse ad ogni nuovo schizzo di sangue, e si guardasse allo specchio soddisfatta.
Questo è il Male.
E in tutto questo orrore c’è un orrore indiretto, nascosto, a scoppio ritardato.
Quest’oscenità morale e umana, infatti, non è solo qualcosa che colpisce le vittime presenti, non è qualcosa che si esprime solo nei confronti di un popolo martoriato e lontano, e che perciò merita la nostra compassione.
La presente è un'analisi politica dei fatti connessi al Pride di Budapest che rifugge sia dalle semplificazioni dei delatori della manifestazione, sia dalle critiche strumentali portate avanti da noti esponenti politici europei a Orban per le sue posizioni sul conflitto russo-ucraino e la moderazione nell'approccio europeo con la Russia.
Lo scorso 28 giugno numerose sfilate e manifestazioni correlate ai vari “Pride” si sono tenute un po' in tutta Europa, ma quello che ha fatto più discutere, è stato il Pride di Budapest, sicuramente a questo giro il più politicizzato.
Gli organizzatori parlano della presenza di 200.000 persone, scese in piazza sfidando il divieto di Orban.
Il primo ministro ungherese ha così finito per fare un assist alle opposizioni interne e ai suoi delatori esteri, vietando una manifestazione che nei fatti poco fastidio avrebbe potuto dare al suo governo, se fosse stata invece, autorizzata in partenza.
Il clima di divieto e censura, ha invece finito per fornire un ulteriore motivazione a migliaia di persone provenienti da tutta l'Ungheria e da altre parti d' Europa a scendere in piazza contro misure avvertite come “liberticide”.
Occorre premettere che attualmente nel paese magiaro sono previste multe a partire da 500 euro e fino a un anno di carcere per chi promuove cortei “arcobaleno”.
Lungo il percorso del corteo non autorizzato, la polizia, su disposizione del premier, aveva pure installato decine di telecamere per il riconoscimento facciale dei trasgressori.
377.000 palestinesi “scomparsi” secondo Harvard.
Avrete senz’altro notato che la conta ufficiale dei morti palestinesi, dopo essere salita vertiginosamente nei primi mesi del massacro (20.000 vittime in circa due mesi, poi 30.000), si è arrestata bruscamente intorno ai 50.000. Da allora, da mesi, non si muove.
Eppure il genocidio è proseguito, Gaza è stata rasa al suolo in modo più radicale di quanto avvenne a Dresda nel ’45, e la popolazione non ha più ricevuto tregua. La domanda sorge spontanea: com’è possibile che il numero dei morti non cresca, mentre il rumore delle bombe non si ferma?
Già a luglio 2024, The Lancet aveva provato a rispondere. Una lettera firmata da scienziati internazionali avvertiva che il bilancio reale delle vittime, considerando anche i morti indiretti (per fame, malattia, ferite non curate), poteva superare i 186.000. Una cifra rimossa, archiviata, etichettata come eccessiva.
Eppure oggi è uno studio condotto da un ricercatore affiliato a Harvard a confermare che la realtà potrebbe essere ancora più drammatica. Incrociando i dati ufficiali israeliani con l’analisi demografica sul terreno, lo studio mostra che la popolazione della Striscia è passata da 2,227 milioni a circa 1,85 milioni. Mancano all’appello 377.000 persone. La metà, bambini.
Già nel primo trimestre di guerra, il bilancio delle vittime cresceva di decine di migliaia a settimana.
Il recente vertice annuale della Nato, tenutosi all’Aja, rappresenta un salto di qualità rispetto ai precedenti vertici, definendo una Europa e una Ue fortemente orientate alla guerra.
Nel documento finale di cinque punti, i più importanti sono il primo e il quinto. Nel quinto si definisce una questione che sta alla base di tutti gli altri punti, compreso il primo: l’individuazione della Russia non solo come “minaccia più significativa”, come era stata definita nel summit del 2023, ma “una minaccia a lungo termine”. Quindi, la Russia è la minaccia strategica cui si fa riferimento per giustificare l’aumento delle spese militari contenute nel primo punto. Si tratta di una definizione molto grave che implica la rottura definitiva con la Russia, prospettando un confronto militare con quel paese.
Nel primo punto, dunque, si definisce la quota di spese militari sul Pil a cui sono tenuti obbligatoriamente i partner della Nato e che passa dal 2% al 5%. Tale quota dovrà essere raggiunta in non più di dieci anni (entro il 2035) e si divide in un 3,5%, relativo alle spese per capacità militari “core” e un altro 1,5%, relativo alla resilienza e a investimenti per la difesa nazionale e per l’innovazione in campo militare. Alcuni commentatori hanno sottolineato che “solo” il 3,5% sarebbe la spesa effettivamente militare. In realtà, non è così, perché anche quell’1,5% è destinato a spese correlate con il militare e comunque si tratta di spese aggiuntive che prima non erano previste e che, soprattutto, vanno a pesare sul bilancio pubblico, a detrimento degli stanziamenti per la sanità, l’istruzione e il Welfare in generale.
Il vertice NATO ha svelato un Occidente totalmente subalterno agli Stati Uniti, che ha abdicato alla propria autonomia strategica e al protagonismo sui nuovi scenari internazionali. Qual è il prezzo che i nostri governanti hanno deciso di pagare a Trump e per quali ragioni?
“Vi assicuro: Trump ristabilirà rapidamente l’ordine. E vedrete che presto tutti loro saranno in ginocchio davanti al loro padrone, scodinzolando dolcemente la coda. Tutto tornerà al suo posto”.
Sono trascorsi poco più di cinque mesi da quando il presidente russo Vladimir Putin pronunciò questa profezia sui leader europei al giornalista Pavel Zaburin.
“Erano felici di obbedire agli ordini di Joe Biden, saranno felici di obbedire agli ordini del nuovo padrone”, prevedeva lucidamente il presidente russo, mentre le élite occidentali erano in scompiglio dopo l'elezione di Donald Trump.
La profezia si è avverata pienamente durante il vertice della NATO a l'Aja. Un vertice che si potrebbe intitolare “Welcome home Daddy”, per utilizzare il termine con cui Mark Rutte si è rivolto al capo della Casa Bianca, mentre quest'ultimo si vantava dell'autoproclamata vittoria in Medio Oriente, paragonando Israele e Iran a due bambini piccoli che litigano.
Addio diplomazia, benvenuto servilismo
Che il vertice dell’Aja si sarebbe trasformato in un festival di tripudio e devozione verso Trump era già chiaro dal messaggio adulatorio inviatogli in privato dal segretario della NATO — e prontamente spiattellato sui social dallo stesso presidente statunitense, poche ore prima del suo arrivo in Europa.
Le radici oscure dell’Occidente
“La
prima [ragione della giustezza di questa guerra e conquista]
è questa: essendo gli uomini
barbari [gli indios] per natura servili, incolti e inumani,
essi si rifiutano di accettare il comando di quelli che sono
più prudenti, potenti
e perfetti di loro; comando che darebbe loro grandi
vantaggi, è infatti, cosa giusta, di diritto naturale, che
la materia obbedisca alla forma,
il corpo all’anima, l’appetito alla ragione, i bruti
all’uomo, la moglie al marito, l’imperfetto al perfetto, il
peggiore al
migliore, per il bene di tutti”.
Juan Ginés de Sepúlveda, De la Justa causa del la guerra contro los indios, Roma 1550
Il razzialismo occidentale e le sue conseguenze
Cedric J. Robinson, nella sua imponente opera maggiore del 1983[1], ha cercato di individuare una tradizione radicale nera indipendente dalla radice occidentale della tradizione socialista per come si è formata intorno alle opere e all’azione di Marx, Engels e la socialdemocrazia europea. Una tradizione che si forma sulla base dell’esperienza di sradicamento violento e diasporica ed ha carattere egualitario e comunitario, all’inizio esemplificata nel marronaggio[2]. Nel compiere questa impresa, tuttavia, produce una notevole ricostruzione storico-culturale e decostruttiva della natura della civiltà occidentale che a suo parere è caratterizzata da una particolare forza materiale che ha dimensione sia sociale che culturale e viene condivisa in tutto lo sviluppo storico della civiltà occidentale, risultando antecedente al capitalismo: il razzialismo.
Una forma di distinzione e classificazione tra gruppi e individui, parte di una pratica di controllo e sfruttamento, che è interna alla civilizzazione europea e non si esprime solo verso l’Altro esterno, quanto creando costantemente ‘Altri’ interni, nicchie e enclavi, ghetti e periferie.
Vladimir Zelensky è oggi l’emblema più fedele di quest’Europa, un comico fallito e un criminale che ha consegnato il proprio Paese alla distruzione per inseguire ambizioni storicamente irrealizzabili, peraltro conto terzi. Non sorprende che l’UE abbia sacrificato il proprio futuro e l’ultimo barlume di realismo proprio dietro a un personaggio simile, macchietta tra le macchiette, con le mani sporche di sangue.
Non stupisce nemmeno che anche il vertice della NATO si collochi sullo stesso piano. Il Segretario generale della NATO, detto anche l’olandese dalla “lingua svolazzante” si è spinto a scrivere:
“Signor Presidente, caro Donald, Congratulazioni e grazie per la sua azione risoluta in Iran; è stata veramente straordinaria, qualcosa che nessun altro ha osato fare. Ci rende tutti più sicuri. Lei sta per arrivare a un altro grande successo questa sera all’Aia. Non è stato facile, ma siamo riusciti a far firmare a tutti il 5 %! Donald, ci ha portato in un momento davvero, davvero importante per l’America, l’Europa e il mondo. Riuscirà a ottenere qualcosa che NESSUN presidente americano in decenni è stato capace di fare. L’Europa pagherà in modo IMPORTANTE, come deve, e sarà la sua vittoria. Buon viaggio e ci vediamo alla cena di Sua Maestà!”
Una simile volgarità servile conferma soltanto che l’Europa, all’interno della NATO, è un’entità geograficamente sottomessa; e sono gli stessi europei a certificare la propria prostrazione al padrone d’oltreoceano.
Il vertice NATO ha svelato un Occidente totalmente subalterno agli Stati Uniti, che ha abdicato alla propria autonomia strategica e al protagonismo sui nuovi scenari internazionali. Qual è il prezzo che i nostri governanti hanno deciso di pagare a Trump e per quali ragioni?
“Vi assicuro: Trump ristabilirà rapidamente l’ordine. E vedrete che presto tutti loro saranno in ginocchio davanti al loro padrone, scodinzolando dolcemente la coda. Tutto tornerà al suo posto”.
Sono trascorsi poco più di cinque mesi da quando il presidente russo Vladimir Putin pronunciò questa profezia sui leader europei al giornalista Pavel Zaburin.
“Erano felici di obbedire agli ordini di Joe Biden, saranno felici di obbedire agli ordini del nuovo padrone”, prevedeva lucidamente il presidente russo, mentre le elite occidentali erano in scompiglio dopo l'elezione di Donald Trump.
La profezia si è avverata pienamente durante il vertice della NATO a l'Aja. Un vertice che si potrebbe intitolare “Welcome home Daddy”, per utilizzare il termine con cui Mark Rutte si è rivolto al capo della Casa Bianca, mentre quest'ultimo si vantava dell'autoproclamata vittoria in Medio Oriente, paragonando Israele e Iran a due bambini piccoli che litigano.
“Trump ha posto fine alla guerra tra Israele e Iran con un solo post. Può fare lo stesso per Gaza”. Titola così l’editoriale di Haaretz del 26 giugno. Purtroppo così non è. Israele può essere fermata solo con la forza (o bloccando le armi, ma evidentemente né Trump né la Ue possono o vogliono). Una forza che l’Iran ha dimostrato di avere, martellando Israele come mai era accaduto nella sua storia, mentre i palestinesi non ne hanno.
Vero che negli ultimi giorni Hamas ha portato a segno attacchi più incisivi dei mesi pregressi, paragonabili a quelli dei primi giorni dell’invasione, in particolare quello di ieri che ha causato la morte di sette soldati, ma ciò non basta a intaccare la determinazione del governo israeliano.
In secondo luogo, Israele non finirà la guerra se non potrà dichiarare di aver vinto, cioè di aver conseguito gli obiettivi prefissati. Nel caso iraniano l’obiettivo dichiarato era quello di eliminare la minaccia nucleare (in realtà, era tutt’altro: devastare il Paese e promuovere un regime-change), obiettivo che può dire di aver conseguito (anche se non è vero). A Gaza è tutt’altro.
Nel caso di Gaza, infatti, Netanyahu, al di là degli obiettivi reali, cioè restare al potere e realizzare la Grande Israele attraverso l’annessione di Gaza e della Cisgiordania, ha dichiarato pubblicamente che intende eliminare Hamas.
Carlo Di Mascio: Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch
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Ci eravamo lasciati con Vladimir
Il’ič, ripartiamo da lui. Guarda caso subito dopo aver rimesso
i paletti tolti in tempo di guerra civile e comunismo di
guerra, parla del
diritto di sciopero nelle aziende nazionalizzate. Il suo è un
capolavoro di EQUILIBRIO tra dovere
di rappresentanza
sindacale e senso di responsabilità nei
confronti della nuova collettività di cui si fa parte,
lo Stato degli
operai e dei contadini:
Finché ci saranno le CLASSI, la LOTTA DI CLASSE sarà inevitabile. L’esistenza stessa delle classi sarà inevitabile, nel periodo di TRANSIZIONE dal capitalismo al socialismo, e il programma del PCR afferma in modo inequivocabile che noi siamo solo AI PRIMI PASSI DI QUESTA TRANSIZIONE.
Per questo sia il partito comunista, sia i soviet, così come i sindacati, devono riconoscere apertamente l’esistenza della lotta di classe e la sua inevitabilità, almeno fino a quando, fosse anche solo nelle sue linee fondamentali, non sarà completata l’elettrificazione dell’industria e dell’agricoltura e, con essa, saranno completamente sradicati (подрезаны все корни) gli interi comparti della piccola imprenditoria e del commercio. Da ciò discende che, allo stato attuale, NON POSSIAMO IN ALCUN MODO ESIMERCI DAL LOTTARE SCIOPERANDO, e NEPPURE CONSENTIRE LA PROMULGAZIONE DI UNA LEGGE che LO SOSTITUISCA OBBLIGATORIAMENTE con un TAVOLO DI MEDIAZIONE STATALE.
D’altro canto, è evidente che l’obbiettivo finale della lotta tramite sciopero nel capitalismo è la distruzione dell’apparato statale e il rovesciamento di quel potere statale in mano alla borghesia. IN UNO STATO PROLETARIO DI TRANSIZIONE come il nostro, invece, L’OBBIETTIVO FINALE DELLA LOTTA TRAMITE SCIOPERO non può che essere il RAFFORZAMENTO DELLO STATO PROLETARIO ovvero DEL POTERE STATALE IN MANO AL PROLETARIATO, per mezzo di una LOTTA SERRATA CONTRO LE DISTORSIONI BUROCRATICHE DI TALE STATO, CONTRO I SUOI ERRORI, LE SUE DEBOLEZZE, GLI APPETITI DI CLASSE DEI CAPITALISTI CHE SFUGGONO AL SUO CONTROLLO, ECCETERA1.
Sono gli Stati Uniti a
guidare Israele, che ne è il docile strumento per il controllo
del Medio Oriente, o viceversa è Israele a controllare di
fatto gli USA,
anche grazie alla capillare azione dell’AIPAC [1], che tra
finanziamenti e ostracismi ad hoc tiene in pugno
l’intero
Congresso?
C’è da lunghissimo tempo un acceso dibattito sulla relazione tra Stati Uniti e Israele, sulla natura di questo rapporto – che certamente non può essere semplicemente riassunto in termini geopolitici. L’opinione prevalente, quantomeno negli ambienti del cosiddetto dissenso, sembra essere che siano gli USA a tenere le redini del comando, e come sempre in questi casi, una volta assunta una tesi si finisce per leggere ogni fatto come coerente con la tesi stessa.
La mia personale opinione, in merito, è che la natura di questa relazione sia in effetti assai più complessa di quanto possa essere riassunto nella scelta binaria, A o B. E che, in ultima analisi, entrambe abbiano potenti leve per condizionare le scelte dell’altro, così come – conseguentemente – entrambe abbiano bisogno l’uno dell’altro. Il recente conflitto con l’Iran, la cosiddetta guerra dei 12 giorni, è un’ottima occasione per verificare queste diverse tesi.
Quello che possiamo dare per certo, è che Washington sapeva che Tel Aviv stava preparando l’attacco. E, ovviamente, questo può essere letto in modi diversi. Può significare che il negoziato avviato da Witkoff con la mediazione del Qatar era, sin dall’inizio, null’altro che una cortina fumogena per coprire l’attacco stesso. O, viceversa, poiché la fermezza iraniana stava bloccando le trattative, Trump ha pensato che l’azione israeliana potesse indurre Teheran a più miti consigli. In entrambe i casi, però, la vera domanda è: tenuto conto del fatto che sia a Washington che a Tel Aviv non potevano non essere consapevoli dei limiti strutturali dell’operazione Rising Lion, qual’era il vero obiettivo?
Ovviamente quella del nucleare militare iraniano è una favoletta per il pubblico occidentale, che oltretutto se la beve pari pari da trent’anni [2], quindi ciò che si voleva conseguire non era la distruzione del programma nucleare di Teheran.
Nei primi mesi del
2023, una risoluzione proposta dall’allora ministro della
Difesa Oleksii Reznikov ha portato all’introduzione del software Delta
nelle forze di difesa ucraine. Delta è un software di situational awareness,
progettato per offrire una panoramica della situazione
tattica e operativa di una porzione del fronte in
un dato momento. Lo fa attraverso un’interfaccia che assomiglia
molto a quella di un videogame RTS (real time strategy),
offrendo in tempo reale una panoramica della situazione a
tutti i livelli della catena di comando, con particolare
utilità per gli ufficiali
intermedi e superiori.
Nel 2022, Delta era stato presentato alla NATO Consultation, Command and Control Organisation (NC3O), organismo fondato nel 1996 con l’obiettivo di garantire capacità di comunicazione, comando e controllo coerenti, sicure e interoperabili tra i membri dell’alleanza. Durante la presentazione, Delta ha suscitato notevole interesse per la sua capacità di trasferire informazioni in tempo reale, facilitando decisioni più rapide e consapevoli da parte dei comandanti.
Nel 2024, l’interoperabilità di Delta con i sistemi NATO è stata testata durante la CWIX (NATO Allied Command Transformation’s Coalition Warrior Interoperability eXploration, eXperimentation, eXamination eXercise) e, a oggi, è noto che almeno un paese dell’alleanza sta trattando con l’Ucraina l’acquisto del software.
Al momento, oltre alle capacità di situational awareness, Delta permette servizi di streaming per gli UAV (Unmanned Aerial Vehicle, veicolo aereo a pilotaggio remoto) e videocamera fisse; chat sicure per la comunicazione; strumenti di pianificazione e matrici di sincronizzazione per il riconoscimento e l’acquisizione di bersagli; integrazione con sistemi robotici e altre funzionalità in corso di sviluppo.
Alla base delle prestazioni offerte da Delta nel presentare in tempo reale la situazione di una specifica porzione del fronte c’è la crescente digitalizzazione del campo di battaglia.
Il cessate il fuoco tra Israele e Iran è più l’inizio di una nuova fase del conflitto che la sua conclusione. Gli Stati Uniti sono intervenuti per impedire che il fallimento dell’attacco israeliano diventasse troppo evidente e producesse danni più profondi.
I due obiettivi dell’aggressione israeliana – la distruzione delle installazioni nucleari iraniane e il crollo del regime – erano stati platealmente mancati, ed era meglio ripiegare usando il classico espediente del face saving: salvare la faccia e ritirarsi urlando di avere vinto, e invitando l’Iran a fare altrettanto. Teheran ha accettato perché aveva anch’essa, comunque, subito molti danni, e aveva anch’essa bisogno di ricaricare il fucile.
Al di là degli sviluppi a breve (nuovi bombardamenti da entrambi i lati, qualche ulteriore barbaro assassinio di scienziati e civili) è probabile che questo conflitto assuma gradualmente il profilo di una vera e propria guerra di posizione, la cui posta può essere la sconfitta storica del nemico, l’azzeramento definitivo della sua capacità di minaccia e di distruzione. Questo tipo di guerra è radicalmente diversa da quelle che Israele è abituata a fare. E a vincere grazie alla sua tecnologia militare avanzata, alla sua possibilità di scaricare in poco tempo il massimo della sua potenza offensiva, e grazie all’appoggio senza riserve degli Stati Uniti.
I media si sono soffermati un po’ troppo sulla frase di Guido Crosetto secondo cui la NATO, così com’è, non avrebbe più ragione di esistere. La dichiarazione più significativa del ministro della Difesa era invece un’altra, e cioè che, comunque, la NATO se la voleva tenere stretta. Il motivo dell’affettuoso abbraccio di Crosetto (consulente di Leonardo SpA) nei confronti della NATO è facilmente spiegabile, se si considera che nello stabilimento Leonardo di Cameri in Piemonte vengono assemblati i caccia F-35 della Lockheed Martin. Il business del caccia più costoso di tutti i tempi si è rivelato talmente lucroso per Leonardo che il governo tedesco ha deciso di non acquistare i caccia prodotti nello stabilimento di Cameri e di costruirne uno proprio per assemblare gli F-35.
Il business della “difesa” è una partita di giro nella quale la lobby delle armi occupa i governi, i quali a loro volta drenano il denaro pubblico verso la lobby delle armi. Ovviamente tutto ciò va benissimo per le cosche di affari, ma non ha niente a che vedere con la “sicurezza”; anzi, è molto più probabile che un’alleanza tra trentadue paesi diversi finisca per comportarsi come una baby gang dominata non solo dal bullo più violento del gruppo, ma anche dalla cerchia di adulatori che manipola il bullo. Il fallimento dei blocchi militari come la NATO in termini di sicurezza è il punto di partenza della nota dottrina, enunciata da Xi Jinping, della cosiddetta “sicurezza indivisibile”. Tutto il discorso è molto bello, molto confuciano: se cerco la mia sicurezza a scapito di quella degli altri, è inevitabile che ciò mi ritorni indietro come aumentata insicurezza.
La gigantesca legge di spesa voluta da Donald Trump è vicina all’approvazione definitiva del Congresso di Washington dopo che il Senato l’ha licenziata con il più ristretto dei margini nella notte di martedì. Nota come “Grande e Bellissima Legge”, quest’ultima farà aumentare ancora di più un debito pubblico già fuori controllo negli Stati Uniti, con implicazioni enormi sia sul fronte interno sia su quello internazionale. Nel concreto, si tratta di uno dei più imponenti trasferimenti di ricchezza dal basso verso l’alto della piramide sociale e segna un punto di rottura probabilmente definitivo nel processo già ben avviato di smantellamento del sistema di welfare americano uscito dalle battaglie e rivendicazioni del “New Deal” e degli anni Sessanta del secolo scorso.
Il pacchetto di spese e tagli aveva già ottenuto il via libera della Camera dei Rappresentanti nel mese di maggio e al Senato è stato al centro di accesissime discussioni, in particolare per le possibili conseguenze politiche degli attacchi a popolari programmi di assistenza sociale. La versione approvata tra martedì e mercoledì è stata alla fine anche più estrema rispetto a quella della Camera, riflettendosi su una votazione in aula tiratissima che ha costretto il vice-presidente J. D. Vance, il cui incarico include costituzionalmente anche quello di presidente del Senato, a esprimere il voto decisivo per il passaggio della legge (51-50).
Settant’anni di terrorismo di Stato e mafia con manovalanza fascista ha prodotto la palude da cui è sorto l’attuale governance (dire “governo” è troppo), che ha sancito (Decreto Sicurezza) che chi protesta, rivendica giustizia, difende la nuda vita, commette reati da carcere. Che chi si oppone a speculazioni ladronesche e militaristiche che devastano territorio, ambiente, cultura, società, commette reati da carcere. Che chi dice la verità, istiga il terrorismo, diffonde fake news e commette reati da carcere. Che chi occupa una casa, perché vive sotto i ponti, od occupa un’aula piuttosto che cederla alle smargiassate di un generale invitato a illustrare opportunità e splendori della guerra, commette reati da carcere.
Ma soprattutto…
…coloro che in questi ottant’anni di un dopoguerra di guerre NATO hanno condotto la guerra interna contro il proprio popolo a forza di attentati stragisti utilizzando servizi segreti, mafie, fascisti, provando malamente a mascherarsi da custodi dell’ordine democratico, col Decreto Sicurezza sono autorizzati a uscire allo scoperto e operare in piena legalità: “I servizi potranno creare e dirigere organizzazioni criminali e terroristiche”.
Dopo l’ultima aggressione armata all’Iran, conclusasi con una rapida tregua dopo aver decapitato i più alti e validi esponenti militari e scientifici del paese, molti analisti militari arabi e internazionali, focalizzano nell’Iraq, la prossima mossa di Israele, in quanto, quello iracheno “è l’ultimo fronte rimasto”, al momento non coinvolto degli obbiettivi sionisti.
Infatti, mentre stanno compiendo il genocidio e la pulizia etnica in Gaza, mentre stanno destrutturando militarmente e territorialmente la Cisgiordania e i Territori occupati palestinesi, dopo aver sfibrato militarmente e politicamente Hezbollah e le forze della Resistenza in Libano, dopo aver partecipato alla distruzione della Siria araba e sovrana, occupandone poi grandi aree e mentre continua la conflittualità militare a distanza, per ora, con lo Yemen di Sana’a, molti analisti stanno riflettendo e valutando se il prossimo tassello, per finire il lavoro di destabilizzazione regionale, sia quello di mettere in ginocchio l’Iraq, destrutturandolo a proprio interesse strategico.
Questo perché lì è presente il PMF, le “Forze di Mobilitazione Popolari”, l’ultima forza consistente dell’”Asse della resistenza”, quest’ultima alleanza al momento gravemente sfibrata.
Le PMF, sono una coalizione di milizie, in gran parte sciite irachene di circa 136.000 uomini, che diventano circa 170.000, sommata ad altre forze resistenti locali, tra cui Kata’ib Hezbollah, Nujabaa, Kataib Sayyed al-Shuhada, Ansarullah al-Awfiyaa. l'Organizzazione Badr ed a una minoranza di brigate sunnite, cristiane, yazide e shabak, tutte unificatesi per combattere contro le forze statunitensi durante l'invasione USA dell'Iraq.
Non
sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli
attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11
settembre”. Naturalmente, si
riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre,
indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia
(che però tende a
escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio
Oriente nei due decenni successivi, una prolungata
operazione genocida nota come
“guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo
11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà,
è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e
cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze
globali si
susseguono senza soluzione di continuità affinché il
proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico
globale) possa essere
calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo. E il costo e le minacce per l’America e il mondo continuano ad aumentare’. Da qui la richiesta di nuovi miliardi di dollari in pacchetti di emergenza destinati sia all’Ucraina che a Israele (ma anche alla sicurezza delle frontiere con il Messico e altre “crisi internazionali”). È un po’ come se ci stessero vendendo due guerre al prezzo di una – Joe Biden in versione Vanna Marchi.
Storditi
da un trentennio di monocultura unipolare, ci siamo
largamente disabituati a ragionare di potere, il cui
perimetro definitorio è andato sempre
più sfumando negli ampi e rilevanti territori circostanti,
per confondersi, di volta in volta, con la potenza
industriale, la ricchezza
finanziaria, la forza commerciale, l’esuberanza
demografica, l’innovazione high tech, il fascino
ideologico, ecc. Disabitudine
insostenibile se rapportata a un tempo storico la cui
cifra dominante è rappresentata da una crisi conclamata
dell’ordine internazionale,
la cui severità è testimoniata non solo dai sorprendenti
sviluppi che pure la punteggiano, ma anche dai sempre più
vistosi
disaccordi che emergono quando si discute della forma che
il mondo stesso oggi presenta o va tendenzialmente
assumendo in conseguenza di questa crisi.
In breve, l’incertezza investe non solo i tradizionali
parametri di analisi, ma la realtà stessa, poiché fornisce
spesso
indicazioni contraddittorie e ci costringe a fare i conti
con l’elusività che sembra avvolgere il potere nella sua
forma più alta
e distillata. È su questo livello che ha senso
avventurarci, rinunciando per ciò stesso alle più diffuse
e confortevoli
semplificazioni.
Negli Stati Uniti – l’unico paese dove l’analisi del potere e la riflessione strategica non si sono mai interrotte – le divergenze sono tali da coprire pressoché l’intero spettro delle rappresentazioni possibili, ciascuna delle quali porta con sé, inevitabilmente, orientamenti e prescrizioni differenti per l’agire politico delle classi dirigenti.
Potere e influenza
Mi riferisco, innanzitutto, al fatto che la riflessione sul potere oscilla (ormai da più di mezzo secolo) tra due diversi campi semantici: il potere come “capacità” e il potere come “influenza”.
La soluzione è chiara: è ora che gli Stati Uniti riconoscano che i propri interessi strategici richiedono una rottura decisiva con la strategia distruttiva di Israele
L’attacco di Israele e degli Stati Uniti all’Iran ha avuto due effetti significativi. In primo luogo, ha messo ancora una volta in luce la causa principale dei disordini nella regione: il progetto di Israele di “rimodellare il Medio Oriente” attraverso un cambio di regime, con l’obiettivo di mantenere il proprio dominio e impedire la creazione di uno Stato palestinese. In secondo luogo, ha evidenziato l’inutilità e l’incoscienza di questa strategia. L’unica via per la pace è un accordo globale che affronti la questione della statualità della Palestina, la sicurezza di Israele, il programma nucleare pacifico dell’Iran e la ripresa economica della regione.
Israele vuole rovesciare il governo iraniano perché l’Iran ha sostenuto i suoi alleati e attori non statali schierati con i palestinesi. Israele ha anche costantemente minato la diplomazia tra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare iraniano.
Invece di guerre infinite, la sicurezza di Israele può essere garantita da due misure diplomatiche fondamentali: porre fine alla militanza istituendo uno Stato palestinese con le garanzie del Consiglio di sicurezza dell’ONU e revocare le sanzioni contro l’Iran in cambio di un programma nucleare pacifico e verificabile.
Il rifiuto del governo israeliano di estrema destra di accettare uno Stato palestinese è alla radice del problema.
Con la decisione assunta nel vertice NATO del 25 giugno a L’Aia, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord si impegnano ad aumentare le spese militari e connesse alla difesa al 5% del PIL annuo entro il 2035.
Tale decisione risponde all’esigenza di aumentare del 30% la capacità militare dell’Alleanza e renderla “più letale”, nelle parole del Segretario Generale Mark Rutte. In applicazione dell’articolo 3 del Trattato fondativo della NATO, tutti gli Stati membri sono impegnati a mantenere e accrescere la loro capacità bellica.
In attuazione di questo orientamento strategico, la NATO definisce periodicamente gli “Obiettivi di capacità”, che stabiliscono operativamente cosa un Paese debba essere in grado di fare in caso di guerra – andando ben oltre la definizione quantitativa delle risorse materiali necessarie. Proprio perché questa metrica è qualitativa e non si traduce in un impegno finanziario puntuale, è maturata in seno alla NATO la decisione di passare dalla mera indicazione di un aumento degli “Obiettivi di capacità” all’impegno finanziario sancito a L’Aia in termini di spesa.
Nella Dichiarazione de L’Aia, vengono chiariti i motivi di questa vera e propria corsa al riarmo: l’impegno al drastico incremento della spesa militare è giustificato dalle “profonde minacce alla sicurezza e sfide, in particolare la minaccia di lungo termine posta dalla Russia alla sicurezza Euro-Atlantica e la persistente minaccia del terrorismo.
“Israele sta perpetrando un genocidio a Gaza? Ora c’è una prova indiscutibile”. Inizia così un articolo di Gideon Levy su Haaretz a commento del dossier, pubblicato sullo stesso giornale, che ha svelato le perverse dinamiche degli omicidi intenzionali dei gazawi che si affollano nei pressi dei centri di aiuto per cercare qualcosa di cui sfamarsi.
“Non si può definire in altro modo ciò che sta accadendo in quei posti da diverse settimane se non come genocidio”, prosegue Levy. “Genocidio come intento, genocidio come obiettivo, genocidio nella portata, genocidio per il gusto del genocidio”.
“Se Israele non pone fine a tutto ciò immediatamente – non domani, oggi – non potrà più godere del beneficio del dubbio. Dal punto di vista legale, ovviamente, dobbiamo attendere la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, che sta ritardando a tal punto che c’è da temere che non ci saranno molti palestinesi ancora vivi a Gaza quando si deciderà a pronunciarsi”.
“[…] I soldati delle Forze di Difesa Israeliane ricevono l’ordine di sparare per uccidere in massa delle persone affamate. Folle che si ammassano a motivo di un mix di follia e perversione, che ha portato Israele a rimuovere le agenzie ONU dedite a tale scopo ed esperte per sostituirle con una misteriosa quanto mostruosa organizzazione americano-israeliana con inclinazioni evangeliche” [a guidarla è il pastore evangelico Johnnie Moore, entusiasta sostenitore della Grande Israele messianica ndr.].
Ci siamo sbagliati la cultura woke è di destra. La sinistra torni universale cosi esordisce Susan Neiman nell’intervista sul suo recente saggio dal titolo La sinistra non è woke. Un antimanifesto pubblicato in Italia a maggio per la UTET. Le interviste rilasciate da Susan Neiman, a la Repubblica e al supplemento “Donna” allegato al quotidiano, hanno anticipato la pubblicazione del suo in italiano. Su “Donna”, intervistata a febbraio, la Neiman affermava: Siamo nell’era Post – Woke, e non dobbiamo dare nulla per scontato. Nell’intervista si spinge molto oltre nella sua critica all’ideologia woke fino ad affermare che ha spianato la strada a Trump e più in generale alla destra. La Neiman , filosofa americana che si dichiara in modo esplicito Socialista non fa sconti alla sinistra woke e post moderna. Prima di entrare nel merito di quanto scrive due sono le cose che mi hanno particolarmente colpito. La prima è che il saggio non ha l’introduzione di nessun filosofo, politologo, sociologo italiano; la seconda è che a parte il quotidiano sopra citato ad avere trattato il saggio sul proprio canale YouTube è stato Diego Fusaro. Eppure potenzialmente potrebbe aprire un confronto non indifferente. Pur essendo un saggio di filosofia, come dichiara la stessa autrice, ha uno scopo divulgativo per cui il linguaggio utilizzato lo rende comprensibile ad un pubblico che va molto oltre gli specialisti del settore. A riprova di quanto il variegato mondo di sinistra, deliberatamente, censuri il saggio della Neiman, è l’enfasi di questi giorni per il gay pride di Budapest.
Incredibile. In alcuni media europei, Sánchez viene presentato come un eroe antimilitarista.
In questi giorni ho letto articoli e opinioni di amici, soprattutto stranieri, che a mio parere sono fondamentalmente sbagliati. Sono amici intelligenti, che generalmente concordano con le mie diagnosi, ma su questo tema sbagliano e cadono a terra. È vero che l'Europa sta affondando, e con il famoso "riarmo" sta affondando rapidamente e miseramente. È giusto che si levino voci che dicono "basta!". Ma la voce di Pedro Sánchez è come il gracchiare di un corvo, e annuncia solo altra morte.
Non molto tempo fa, un anno fa, la NATO chiese ai paesi europei un fermo impegno a spendere il 2% per le "esigenze di difesa". Era già molto. Il contesto di "crescente insicurezza", ci dissero, era causato dalla guerra in Ucraina e dalla presunta "minaccia russa alle porte dell'Europa occidentale".
Nessuna minaccia russa è mai stata giustificata. La Russia ha già abbastanza da fare solo per assicurarsi il suo (enorme) spazio. La Russia non invaderà la Germania, la Francia, la Spagna... Si può maledire il vento quando ci soffia addosso, ma poi l'aria viene diretta in faccia, ed è allora, quando si riceve ciò che ci si è attirato addosso, il momento preciso per maledirsi, esclamando: "Stupido!".
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Kit Klarenberg è un giornalista britannico che ha
prodotto varie inchieste di spessore sull’Ucraina e sul
complesso
quadro mediorientale. Per questo, è finito nel mirino della
repressione della corona di Londra, secondo la quale non è
possibile
criticare gli indirizzi di politica estera del Regno Unito,
degli Stati Uniti e dei loro alleati in guerra.
Per questo, nel giugno 2023, fu addirittura detenuto e interrogato per ore dall’antiterrorismo britannica all’aeroporto di Luton, a Londra. In quell’occasione, i poliziotti gli sequestrano i dispositivi elettronici, le carte bancarie e le schede digitali di memoria. Questo è il modo in cui la libera informazione viene trattata in Occidente… lo abbiamo visto bene anche con Julian Assange.
Oggi pubblichiamo un suo articolo, apparso il 2 luglio sul giornale online The Cradle. Pochi mesi fa, ne avevamo pubblicato un altro sulle interferenze statunitensi in Iran, che avevano tra l’altro l’effetto finale di scoraggiare qualsiasi genuina crescita di un’opposizione reale al governo degli Ayatollah.
Ora Klarenberg è tornato sull’Iran, e sul suo rapporto con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. A suo avviso, gli strumenti usati da quest’ultima istituzione, forniti da Palantir (l’azienda stelle-e-strisce che si occupa di analisi di Big Data e di piattaforme di gestione per l’IA, ma sempre più interessata al settore bellico) e ‘nutriti’ di dati creati ad arte da Israele, hanno aiutato le attività di spionaggio sioniste e hanno poi costruito delle propagandistiche motivazioni pubbliche alla guerra illegale aperta da Tel Aviv contro Teheran.
L’epoca della datificazione della realtà e della crisi della narrazione
Nel 1956 il
sociologo russo-americano Pitirim
Sorokin coniava il termine quantofrenia
per denunciare un fenomeno che, a suo dire,
rischiava di svuotare le scienze sociali di ogni
profondità: l’ossessione per la misurazione numerica della
realtà. In un momento storico segnato dalla volontà di rendere
scientificamente affidabili le scienze umane, la quantità
sembrava l’unica strada per la legittimazione. Eppure, Sorokin
vedeva in questa
tendenza un pericolo: ridurre la complessità dell’esperienza
umana a semplici dati significava sacrificare la qualità alla
contabilità, la comprensione profonda alla superficie della
cifra.
Quella che Sorokin descriveva come una deriva potenziale è oggi diventata sistema. Viviamo immersi in un ambiente culturale che ha fatto della datificazione la sua ideologia dominante. Ogni gesto, emozione, desiderio e pensiero può (e deve) essere tracciato, misurato, confrontato. L’essere umano contemporaneo si muove in un ecosistema fatto di tracker, dashboard, KPI (Key Performance Indicator), insight, analytics, convinto che ogni aspetto della sua esistenza sia più vero quanto più numericamente rappresentabile.
Questo non vale solo per le aziende o le istituzioni, ma per la vita quotidiana. Il nostro sonno, il battito cardiaco, la produttività, le emozioni: tutto viene tradotto in dati. Il filosofo sudcoreano-tedesco Byung-Chul Han in La società della trasparenza (2014) ha scritto che “oggi tutto dev’essere trasparente, tutto deve essere visibile, misurabile”.
Ma la trasparenza, apparentemente virtù democratica, si rivela così una forma subdola di controllo: l’efficienza che diventa valore morale. Sempre secondo Byung-Chul Han, “la società della trasparenza è una società della sorveglianza che si maschera da libertà”. Se in teoria sapere tutto di sé dovrebbe renderci più liberi e consapevoli, in pratica ci consegna a un’autosorveglianza continua. La quantità crescente di dati a nostra disposizione non ci rende affatto più lucidi: ci sovraccarica. L’accesso all’informazione è individuale, ma l’elaborazione è lasciata al singolo, senza strumenti, senza tempo, senza tregua. Non è tanto una questione di opacità, ma di asfissia cognitiva.
Il vero punto di rottura dell'intelligenza artificiale non risiede nella sua capacità di simulare l'intelligenza, quanto piuttosto nel permettere agli utenti di simulare competenze che non possiedono realmente. Questo fenomeno può ridefinire profondamente concetti come autorevolezza, originalità e merito che, in teoria, dovrebbero essere fondanti per una società. Sottolineo "in teoria" perché una società governata in larga parte da simulacri come Baudrillard li ha definiti è già pronta per sostituire intelligenza e competenza con i rispettivi segni.
Il dibattito sull'IA si dovrebbe schiodare dalla dimensione filosofica del passato, incentrata sulla domanda se una macchina possa pensare, per includere l'impatto sociale di queste tecnologie.
C'è una questione già presente: cosa accade quando chiunque può produrre risultati che sembrano provenire da un esperto senza esserlo davvero? L'apparente "democratizzazione" della conoscenza o delle competenze in realtà alimenta un equivoco colossale.
Andiamo indietro nel tempo per dare un'occhiata a una rivoluzione che rimosse barriere all'accesso di una tecnologia. Il boom dei personal computer aveva portato con sé prima quello dei sistemi operativi e poi quello delle interfacce grafiche (MacOS prima, Windows poi). E la maggior parte del software più importante, dal sistema operativo agli applicativi più rilevanti, inclusi quelli per la programmazione, era a pagamento. Poi arrivò Linux, gratuito: qualcuno commentò in chiave marxista, dicendo che i mezzi di produzione erano stati distribuiti alla popolazione.
Proponiamo questa breve riflessione di Anselm Jappe,
ancora una volta sulla questione del lavoro, tema centrale
per la Critica del
Valore (Wertkritik) – corrente di pensiero a cui anche lo
stesso Jappe appartiene.
Può sembrare una perdita di tempo, oggi, a fronte di catastrofi ecologiche e umanitarie, massacri e guerre, disoccupazione endemica e diffusa miseria crescente, occuparsi una volta di più della tematica del lavoro, soprattutto nell’ottica in cui lo fa la critica del valore, cioè quella – detto con una battuta e in modo insufficiente – del «rifiuto» del lavoro. Un rifiuto certo motivato, non un semplice vezzo da abitanti benestanti del primo mondo, se è vero che, come sostiene questa corrente di pensiero riprendendo soprattutto quello che loro definiscono il «Marx esoterico»,1 una tale questione è decisiva per le sorti del capitalismo, nella misura in cui si tratta di un sistema sociale fondato sul lavoro e sull’estrazione di valore che esso permette. Proprio la crisi di questo meccanismo, dovuta alla esplosiva capacità produttiva propria della terza rivoluzione industriale, quella a traino informatico e microelettronico, è la causa prima, secondo questa lettura, degli immani disastri ecologici e sociali a cui stiamo assistendo ormai da decenni. La conseguente carenza di una valorizzazione adeguata per gli ingenti capitali in circolazione toglie al regime del capitale qualsiasi freno inibitorio (al di là delle messinscene green o quant’altro), e lo conduce a cercare la redditività senza più rendere conto a niente e a nessuno, tantomeno a se stesso, entro un vortice distruttivo e autodistruttivo.
I paesi potenti si comportano come se il diritto internazionale non contasse, o addirittura non esistesse. Un numero crescente di studiosi e giuristi sta perdendo fiducia nel sistema attuale del diritto internazionale. Altri sostengono che la colpa non sia della legge, ma degli Stati che dovrebbero rispettarla. Proprio quando il mondo ha disperatamente bisogno di anziani saggi, il suo destino è nelle mani di vecchi e spietati patriarchi. Il diritto internazionale che presiede all’ordine globale sta venendo smantellato da una generazione di governanti che non vivrà abbastanza per vedere i detriti che si lascia alle spalle
Mentre il
mondo è alle prese con un’ondata di conflitti armati, crisi
umanitarie e palesi violazioni dei principi fondamentali del
diritto
internazionale (tra cui attacchi all’indipendenza delle corti
internazionali, preoccupazioni sul genocidio e sulle guerre in
Medio Oriente), i
commentatori si interrogano sempre più sulla rilevanza del
diritto internazionale. Ha mai avuto importanza? È mai stato
espressione di
solidarietà globale e di un’umanità comune? E se sì, perché
oggi sta fallendo in modo così catastrofico? Allo
stesso tempo – e ironicamente in mezzo a questa turbolenza
globale – il diritto internazionale, incluso il diritto dei
diritti umani,
rimane il quadro normativo più dominante per legittimare e
delegittimare i comportamenti sulla scena globale, a
dimostrazione della sua
persistente influenza anche quando la sua applicazione appare
precaria. Con l’espressione “agonia del diritto
internazionale”
cerchiamo di mettere in luce un dibattito cruciale
sull’efficacia e la legittimità del diritto internazionale
nell’affrontare le
sfide globali. Essa evidenzia il divario tra gli ideali del
diritto internazionale e la sua applicazione pratica, in
particolare in ambiti come la
prevenzione dei conflitti militari, i diritti umani, la tutela
ambientale e la giustizia economica.
A fine aprile, alcuni terroristi hanno ucciso 26 civili nella città indiana di Pahalgam, situata nella regione montuosa di confine del Kashmir. L’India ha rapidamente incolpato il Pakistan dell’attacco, ha lanciato attacchi missilistici verso di esso e ha annunciato la sospensione del trattato sulle acque dell’Indo, minacciando di fatto di interrompere i tre quarti dell’approvvigionamento idrico del Pakistan. L’India sta ipotizzando di chiudere il rubinetto a 250 milioni di persone. Ciò violerebbe non solo il trattato, ma anche le leggi internazionali sull’uso equo delle risorse idriche.
I governanti pakistani hanno la spaventosa consapevolezza che non ci sia molto da fare perché assistiamo a un’improvvisa erosione delle istituzioni multilaterali, delle norme istituzionali internazionali.
Tra il novembre
2024 e il marzo 2025, sul blog di Carlo Formenti, Per un
Socialismo del Secolo XXI sono stati pubblicati una
serie notevole di letture di
testi relativi ad autori africani. Questi consentono di aprire
una finestra su un enorme e storico dibattito legato alle
trasformazioni del ciclo di
lotte anticoloniali e al loro esito nell’età unipolare. Lotte
che oggi potrebbero trovare l’occasione di una nuova stagione
nell’era multipolare che si sta aprendo. Ciò a patto di
comprendere gli errori, le compromissioni e le dimenticanze
che si sono date.
Apre la serie, composta da sette post, l’analisi di tre autori caratterizzati dal loro impegno marxista: Said Boumama[1], Kevin Ochieng Okoth[2], Amilcare Cabral[3]. Segue la lettura della posizione di Walter Rodney[4], quindi la lettura di alcuni “classici”, ovvero intellettuali militanti della generazione precedente, come Du Bois, Padmore, Williams, James, Césaire[5], quindi la posizione di Cedric Robinson[6]. Infine, il marxismo nero e femminista di Angela Davis[7].
Due correnti: la prassi e la critica del discorso
L’insieme di queste letture illumina una tensione tra due modi di affrontare, dal punto di vista degli attori ‘periferici’, l’apertura critica determinatosi prima nella mobilitazione contro il colonialismo e razzismo occidentale (du Bois, Williams, Césaire, Fanon) e nel contesto delle lotte di liberazione nazionali, influenzate dal ‘socialismo arabo’ e dal marxismo (Okoth, Cabral, Rodney), da una parte, e l’ampia e maggioritaria corrente formatasi in seguito, soprattutto negli anni Novanta, intorno alla reazione alle delusioni e fallimenti della decolonizzazione (Said, Spivak, Bhabha, Hall, Mignolo, Quijano, Mbembe ed altri). Si tratta di una divaricazione su più piani: tra studi (decoloniali) che trovano la loro collocazione essenzialmente entro una svolta epistemologica (circa il modo di definire la verità) e politico-culturale che prende forza in quegli anni nel contesto dell’accademia americana e diventa particolarmente forte nei dipartimenti di letteratura, il post-modernismo; e, dall’altra, in contesti più impegnati nelle lotte contro il neocolonialismo e la sua base ‘razzialistica’ (in base alla distinzione di Cedric Robinson che vedremo tra breve).
1. Società ed omosessualità
La tesi che sta al centro di questo articolo è che il comportamento omosessuale è tanto più diffuso quanto più la società è contrassegnata dall’antagonismo tra i suoi membri, cioè quanto più essa è competitiva. La riprova è costituita, a mio avviso, dalla civiltà della Grecia antica, in cui, come è noto, il comportamento omosessuale si manifestava nella forma della pederastia e rispecchiava fedelmente la struttura di una società ove i maschi liberi vivevano immersi in una dimensione di agonismo permanente (lo studioso Giorgio Colli, ad esempio, fa risalire a questo dato socio-antropologico la stessa nascita della dialettica), 1 così come fortemente agonistici erano i rapporti tra le stesse città dell’Ellade. Non a caso l’istituzione delle Olimpiadi fu anche e soprattutto la valvola di sfogo per tenere sotto controllo questa energia potenzialmente distruttiva, i cui correlati mitologici sono rappresentati da figure come quelle di Eracle e di Achille. Non sorprendono pertanto né la diffusione del comportamento omosessuale in Grecia né la sua progressiva diffusione e legittimazione nella civiltà romana grazie alla progressiva ellenizzazione di quest’ultima, tappa finale del passaggio da una società di tipo patriarcale-solidaristico a una società imperiale-cosmopolita con forti connotazioni individualistiche e competitive.
Per quanto concerne l’esistenza di un nesso inscindibile fra comportamento omosessuale e competitività nelle diverse epoche e nelle diverse società, mi limito solo ad alcuni esempi relativi al settore militare, in cui il modello competitivo trova la sua principale e radicale applicazione, anche se il discorso potrebbe essere più ampio. La falange macedone e il battaglione sacro tebano, formati da oltre un centinaio di coppie omosessuali, possono bastare per l’epoca classica, a meno che non si voglia ricordare l’esclusione dei legionari omosessuali passivi dall’esercito romano, motivata da chiare esigenze di efficienza militare sia nella difesa che nell’attacco.
Per l’antropologo francese Emmanuel Todd, la matrice religiosa delle società occidentali attraversa tre fasi: religione attiva, religione zombie e, infine, religione zero – la scomparsa completa della fede e dei suoi valori morali. Negli Stati Uniti e in Israele, che hanno raggiunto lo stadio zero, Todd osserva la comparsa di nuove forme di religiosità: un evangelismo delirante e un ebraismo ultraortodosso. Ma la vera novità, in entrambi i Paesi, è il culto della guerra: una religione di massa post-monoteista, nutrita di nichilismo e di divinità guerriere. La sua incarnazione simbolica? Thor, il dio scandinavo della guerra.
Una sequenza in tre fasi può descrivere la dissoluzione della matrice religiosa delle nostre società: religione attiva (credenza e pratica regolare), religione zombie (incredulità accompagnata dalla sopravvivenza di valori morali e sociali) e infine religione zero (scomparsa completa).
Ho inizialmente applicato questo schema al cristianesimo, in tutte le sue varianti – cattolica, protestante, ortodossa – per poi estenderlo agli altri due grandi monoteismi, l’ebraismo e l’islam, concentrandomi in quest’ultimo caso sulla componente sciita. Così, possiamo descrivere per la Scandinavia per esempio una sequenza tipo: «protestantesimo attivo, protestantesimo zombie, protestantesimo zero». Per l’Iran: «sciismo attivo, sciismo zombie», con la possibilità futura di uno «sciismo zero». In Israele, invece, la sequenza appare già compiuta: «ebraismo attivo, ebraismo zombie, ebraismo zero».
Non
sorprende che i media occidentali abbiano etichettato gli
attacchi di Hamas del 7 ottobre come un “nuovo 11
settembre”. Naturalmente, si
riferiscono al racconto ufficiale dell’11 settembre,
indelebilmente impresso nella sua terrificante iconografia
(che però tende a
escludere la risposta scatenata dagli Stati Uniti in Medio
Oriente nei due decenni successivi, una prolungata
operazione genocida nota come
“guerra globale al terrore”). Ciò che l’etichetta “nuovo
11 settembre” dovrebbe evocare, in realtà,
è l’opposto di quanto i mass media lasciano intendere: e
cioè che dall’11 settembre 2001 a oggi, le emergenze
globali si
susseguono senza soluzione di continuità affinché il
proverbiale barattolo (il fallimento del sistema economico
globale) possa essere
calciato un po’ più in là.
Se cerchiamo un indizio rispetto a cosa potrebbe aver scatenato la più recente iterazione della crisi israelo-palestinese, potremmo iniziare dalle parole di Joe Biden dell’11 ottobre: ‘Quando il Congresso ritornerà, chiederemo loro di intraprendere azioni urgenti per finanziare le esigenze di sicurezza dei nostri partner strategici.’ Com’era prevedibile, aumentano le commesse per il warfare (inteso come deficit spending per la guerra), che aveva già spiccato il volo con i primi finanziamenti ucraini, funzionando così anche da moltiplicatore del PIL americano. Perché il mercato del debito è il primum movens, l’asse attorno a cui girano le cose di questo mondo, e dev’essere tenuto costantemente lubrificato. Il 19 ottobre, in un discorso dallo Studio Ovale trasmesso in prima serata, Biden ha messo i panni dell’imbonitore televisivo per dichiarare: ‘Hamas e Putin rappresentano minacce diverse, ma hanno questo in comune: entrambi vogliono completamente annientare una democrazia vicina… E continuano a farlo. E il costo e le minacce per l’America e il mondo continuano ad aumentare’. Da qui la richiesta di nuovi miliardi di dollari in pacchetti di emergenza destinati sia all’Ucraina che a Israele (ma anche alla sicurezza delle frontiere con il Messico e altre “crisi internazionali”). È un po’ come se ci stessero vendendo due guerre al prezzo di una – Joe Biden in versione Vanna Marchi.
Storditi da un trentennio di
monocultura unipolare, ci siamo largamente disabituati a
ragionare di potere, il cui perimetro definitorio è andato
sempre più sfumando
negli ampi e rilevanti territori circostanti, per
confondersi, di volta in volta, con la potenza
industriale, la ricchezza finanziaria, la forza
commerciale, l’esuberanza demografica, l’innovazione high
tech, il fascino ideologico, ecc. Disabitudine
insostenibile se rapportata a un
tempo storico la cui cifra dominante è rappresentata da
una crisi conclamata dell’ordine internazionale, la cui
severità è
testimoniata non solo dai sorprendenti sviluppi che pure
la punteggiano, ma anche dai sempre più vistosi disaccordi
che emergono quando si
discute della forma che il mondo stesso oggi presenta o va
tendenzialmente assumendo in conseguenza di questa crisi.
In breve, l’incertezza
investe non solo i tradizionali parametri di analisi, ma
la realtà stessa, poiché fornisce spesso indicazioni
contraddittorie e ci
costringe a fare i conti con l’elusività che sembra
avvolgere il potere nella sua forma più alta e distillata.
È su questo
livello che ha senso avventurarci, rinunciando per ciò
stesso alle più diffuse e confortevoli semplificazioni.
Negli Stati Uniti – l’unico paese dove l’analisi del potere e la riflessione strategica non si sono mai interrotte – le divergenze sono tali da coprire pressoché l’intero spettro delle rappresentazioni possibili, ciascuna delle quali porta con sé, inevitabilmente, orientamenti e prescrizioni differenti per l’agire politico delle classi dirigenti.
Potere e influenza
Mi riferisco, innanzitutto, al fatto che la riflessione sul potere oscilla (ormai da più di mezzo secolo) tra due diversi campi semantici: il potere come “capacità” e il potere come “influenza”.
Ci siamo sbagliati la cultura woke è di destra. La sinistra torni universale cosi esordisce Susan Neiman nell’intervista sul suo recente saggio dal titolo La sinistra non è woke. Un antimanifesto pubblicato in Italia a maggio per la UTET. Le interviste rilasciate da Susan Neiman, a la Repubblica e al supplemento “Donna” allegato al quotidiano, hanno anticipato la pubblicazione del suo in italiano. Su “Donna”, intervistata a febbraio, la Neiman affermava: Siamo nell’era Post – Woke, e non dobbiamo dare nulla per scontato. Nell’intervista si spinge molto oltre nella sua critica all’ideologia woke fino ad affermare che ha spianato la strada a Trump e più in generale alla destra. La Neiman , filosofa americana che si dichiara in modo esplicito Socialista non fa sconti alla sinistra woke e post moderna. Prima di entrare nel merito di quanto scrive due sono le cose che mi hanno particolarmente colpito. La prima è che il saggio non ha l’introduzione di nessun filosofo, politologo, sociologo italiano; la seconda è che a parte il quotidiano sopra citato ad avere trattato il saggio sul proprio canale YouTube è stato Diego Fusaro. Eppure potenzialmente potrebbe aprire un confronto non indifferente. Pur essendo un saggio di filosofia, come dichiara la stessa autrice, ha uno scopo divulgativo per cui il linguaggio utilizzato lo rende comprensibile ad un pubblico che va molto oltre gli specialisti del settore. A riprova di quanto il variegato mondo di sinistra, deliberatamente, censuri il saggio della Neiman, è l’enfasi di questi giorni per il gay pride di Budapest.
Incredibile. In alcuni media europei, Sánchez viene presentato come un eroe antimilitarista.
In questi giorni ho letto articoli e opinioni di amici, soprattutto stranieri, che a mio parere sono fondamentalmente sbagliati. Sono amici intelligenti, che generalmente concordano con le mie diagnosi, ma su questo tema sbagliano e cadono a terra. È vero che l'Europa sta affondando, e con il famoso "riarmo" sta affondando rapidamente e miseramente. È giusto che si levino voci che dicono "basta!". Ma la voce di Pedro Sánchez è come il gracchiare di un corvo, e annuncia solo altra morte.
Non molto tempo fa, un anno fa, la NATO chiese ai paesi europei un fermo impegno a spendere il 2% per le "esigenze di difesa". Era già molto. Il contesto di "crescente insicurezza", ci dissero, era causato dalla guerra in Ucraina e dalla presunta "minaccia russa alle porte dell'Europa occidentale".
Nessuna minaccia russa è mai stata giustificata. La Russia ha già abbastanza da fare solo per assicurarsi il suo (enorme) spazio. La Russia non invaderà la Germania, la Francia, la Spagna... Si può maledire il vento quando ci soffia addosso, ma poi l'aria viene diretta in faccia, ed è allora, quando si riceve ciò che ci si è attirato addosso, il momento preciso per maledirsi, esclamando: "Stupido!".
La presente è un'analisi politica dei fatti connessi al Pride di Budapest che rifugge sia dalle semplificazioni dei delatori della manifestazione, sia dalle critiche strumentali portate avanti da noti esponenti politici europei a Orban per le sue posizioni sul conflitto russo-ucraino e la moderazione nell'approccio europeo con la Russia.
Lo scorso 28 giugno numerose sfilate e manifestazioni correlate ai vari “Pride” si sono tenute un po' in tutta Europa, ma quello che ha fatto più discutere, è stato il Pride di Budapest, sicuramente a questo giro il più politicizzato.
Gli organizzatori parlano della presenza di 200.000 persone, scese in piazza sfidando il divieto di Orban.
Il primo ministro ungherese ha così finito per fare un assist alle opposizioni interne e ai suoi delatori esteri, vietando una manifestazione che nei fatti poco fastidio avrebbe potuto dare al suo governo, se fosse stata invece, autorizzata in partenza.
Il clima di divieto e censura, ha invece finito per fornire un ulteriore motivazione a migliaia di persone provenienti da tutta l'Ungheria e da altre parti d' Europa a scendere in piazza contro misure avvertite come “liberticide”.
Occorre premettere che attualmente nel paese magiaro sono previste multe a partire da 500 euro e fino a un anno di carcere per chi promuove cortei “arcobaleno”.
Lungo il percorso del corteo non autorizzato, la polizia, su disposizione del premier, aveva pure installato decine di telecamere per il riconoscimento facciale dei trasgressori.
377.000 palestinesi “scomparsi” secondo Harvard.
Avrete senz’altro notato che la conta ufficiale dei morti palestinesi, dopo essere salita vertiginosamente nei primi mesi del massacro (20.000 vittime in circa due mesi, poi 30.000), si è arrestata bruscamente intorno ai 50.000. Da allora, da mesi, non si muove.
Eppure il genocidio è proseguito, Gaza è stata rasa al suolo in modo più radicale di quanto avvenne a Dresda nel ’45, e la popolazione non ha più ricevuto tregua. La domanda sorge spontanea: com’è possibile che il numero dei morti non cresca, mentre il rumore delle bombe non si ferma?
Già a luglio 2024, The Lancet aveva provato a rispondere. Una lettera firmata da scienziati internazionali avvertiva che il bilancio reale delle vittime, considerando anche i morti indiretti (per fame, malattia, ferite non curate), poteva superare i 186.000. Una cifra rimossa, archiviata, etichettata come eccessiva.
Eppure oggi è uno studio condotto da un ricercatore affiliato a Harvard a confermare che la realtà potrebbe essere ancora più drammatica. Incrociando i dati ufficiali israeliani con l’analisi demografica sul terreno, lo studio mostra che la popolazione della Striscia è passata da 2,227 milioni a circa 1,85 milioni. Mancano all’appello 377.000 persone. La metà, bambini.
Già nel primo trimestre di guerra, il bilancio delle vittime cresceva di decine di migliaia a settimana.
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Siamo nei pressi di
quegli ispidi passi di montagna nei quali i sentieri si
biforcano. Da una parte il largo sentiero battuto
dell’Occidente prosegue il suo lungo
restringersi. Dall’altra un rivolo si amplia, al contempo
facendosi via via più liscio e comodo. Il vecchio sentiero, da
qualche tempo si
fa per molti più ripido, pietroso, denso di rischi, il nuovo è
cresciuto sotto molti profili all’ombra, ma nel tempo si è
fatto via via più largo e forte. I due sentieri sembrano
divaricarsi.
Ad aprile, in “Considerazioni intermedie su tempi complessi”[1], proponevo di saggiare prudentemente i bordi di quel consolidato e rassicurante schema mentale per il quale siamo solo in una perturbazione, se mai ciclica, del cammino indefettibile e (perché tale) provvidenziale dell’umano universale. Un umano che, alla fine liberato dai vincoli ascrittivi delle tradizioni, e ovunque secolarizzato[2], vedrà in ogni luogo e tempo l’affermazione dei diritti “universali” (con essi della democrazia, forma perfetta della loro espressione). Il cammino indefettibile risulterebbe in questa visione più forte di ogni eccezione temporanea alla finale “occidentalizzazione” del mondo. Chi vede questi tempi confusi sotto questa lente tradizionale non può che vederli come un incomprensibile incidente, un’aberrazione (ed è quel che il buon cittadino cerca di fare, dichiarando sistematicamente come “pazzi” coloro che deviano). Ciò che scuote il buon cittadino è la nascita e il rafforzamento dei Brics[3], la crescita lungo la catena del valore della Cina[4], e, facendo leva sulle modifiche delle basi produttive per effetto dell’introduzione di nuovi ecosistemi tecnologici, dietro di lei di altri[5], i movimenti politici non liberali nei santuari occidentali[6], l’indisponente rifiuto della Russia a riconoscersi sconfitta nella guerra in Ucraina, o dell’Iran a conformarsi all’invito di scegliere meglio i suoi governanti durante lo scontro con Usa e Israele nella “guerra dei 12 giorni”[7].
Stazionando nei bordi di questo rassicurante schema mentale, di questa cosmologia e fede trascendente, sorge il sospetto che le anomalie abbiano un segreto. E che sia semplice: l’egemonia tecnica, economica e politica dell’Occidente non era il segno della designazione divina, come vorrebbero le due principali teocrazie mondiali (i due governi più trascendenti del mondo[8]), quella americana e quella israeliana, ma un fatto meramente e pienamente storico. Come tale provvisorio.
Possiamo certamente
affermare che la lunga fase di transizione che stiamo vivendo,
che cerca di traghettare il mondo dall’epoca dell’illusione
unipolare statunitense a una nuova epoca, basata sul
multilateralismo, è caratterizzata più che mai dalla presenza
pregnante della
guerra.
Non che questa sia mai stata assente dall’orizzonte globale, e segnatamente da quello occidentale, ma – com’è storicamente sempre stato – l’approssimarsi di grandi cambiamenti geopolitici è sempre preceduto dall’accentuarsi delle tensioni conflittuali. E quello che stiamo attraversando è, con tutta evidenza, particolarmente significativo, epocale: stiamo infatti parlando del tramonto dell’occidente (per usare l’espressione di Emmanuel Todd), cioè della fine di una egemonia militare, economica e quindi politica, protrattasi per secoli. La guerra, sia essa cinetica o ibrida, è dunque il terreno su cui si consuma la transizione, in cui si definiscono i nuovi rapporti di forza. È l’inevitabile passaggio per arrivare alla definizione di un nuovo ordine mondiale. La Pace di Westfalia, il Congresso di Vienna, il Vertice di Yalta, sono stati il punto d’arrivo di un processo, che in quelle sedi ha ridefinito il quadro geopolitico, ma che è stato delineato sui campi di battaglia. Pensare che si possa eludere oggi questo passaggio è una grande ingenuità. Il massimo per cui si può operare è la riduzione del danno.
La prima cosa di cui dobbiamo avere consapevolezza, è la necessità di spersonalizzare il conflitto. Rimuovere l’idea che questo dipenda – per un verso o per un altro – da questo o quel leader politico, e che quindi l’affermarsi di tizio o la rimozione di caio abbiano una qualche significativa incidenza sul processo in atto. A essere in azione sono forze profonde, radicate nella storia e nella geografia, e dobbiamo pensarle come uno scontro tra faglie tettoniche, piuttosto che come un duello tra leader politico-militari. La cui leadership può modificare lo sviluppo tattico dello scontro, ma non può arrestarlo né modificarne la natura strategica.
Il riarmo non si discute! Questo è il succo di quanto dichiarato da Paolo Gentiloni a Bruno Vespa. Più precisamente: il riarmo non si deve discutere. Né si possono contrappore armi e sanità, come se – proprio lui, che ha pure fatto per cinque anni il commissario europeo – non conoscesse forma e sostanza dei vincoli euristi. E affinché la discussione venga subito stoppata ecco il suo appello bipartisan:
«Dovremmo fare uno sforzo, tutte le forze politiche, per spiegare che bisogna fare questo (il riarmo, ndr), invece di trasformarlo in una battaglia politica».
Dunque, nella concezione di questo ex nobile, in gioventù extraparlamentare di ferrea fede stalinista, la politica dovrebbe parlar d’altro. Bene finché si occupa di gay pride, di terzo mandato per i presidenti di Regione, delle solite beghe sulla giustizia; male, malissimo se vuole occuparsi di politica internazionale, guerra e riarmo. Non sia mai! Quelle son cose serie che si decidono a Washington e Bruxelles.
Del resto, sempre in un’intervista col solito Vespa, nel gennaio scorso Gentiloni definiva la politica estera di Giorgia Meloni come (testuale) “una meraviglia”, dato che da settant’anni l’Italia è atlantista ed europeista, e questo governo non fa certo eccezione.
Con l'accordo che pare essere stato raggiunto tra Armenia, Turchia e Azerbajdžan, sul cosiddetto corridoio di Zangezur, è possibile già parlare di un quasi accerchiamento, o quantomeno “isolamento” meridionale della Russia da parte di attori regionali sempre più legati alla NATO.
Il minimo che Mosca può attendersi, ipotizza Aleksej Bobrovskij, è la comparsa sul mar Caspio di una base NATO, che può intensificare il proprio lavorio anche verso il Kazakhstan. Non solo: si infittisce anche l'attività euroatlantica per il corridoio “TRACECA” (TRAnsport Corridor Europe-Caucasus-Asia), che significa lo sbocco europeo in Asia centrale. Il quadro generale che ne potrebbe uscire sarebbe uno scossone antirusso nel Caucaso, un indebolimento dell'Iran e una probabile instabilità in Asia centrale. A perdere da tale situazione sarebbero Russia, UE, Iran, i vari paesi dell'area e la Cina, mentre ne beneficerebbero USA e Gran Bretagna.
Del resto, si è già detto del crescente attrito nei rapporti Mosca-Baku, in parallelo con le macchinazioni UE in Armenia, quale disegno turco-britannico volto all'apertura di un secondo fronte, questa volta meridionale, dopo quello sudoccidentale ucraino, contro la Russia, per scalzarla dalla regione, nonostante i rapporti storicamente amichevoli tra Russia e Azerbajdžan.
Ottusità. La guerra commerciale degli Stati Uniti verso l'Europa è in corso, con dazi al 10%, come tariffa generale, al 25% sull'automotive e al 50% su acciaio e alluminio. Per dare un solo dato, esemplificativo, di questo quadro, è sufficiente ricordare che le esportazioni di acciaio italiane negli Stati Uniti sono passate da 900 mila tonnellate a meno di 250 mila.
Ora, Trump, in attesa della scadenza della moratoria il cui termine finale è fissato al 9 luglio, minaccia di aggravare la situazione e fa sapere che stanno per partire lettere in cui sono contenuti aumenti unilaterali dei dazi fino al 70%. In particolare, per i prodotti agricoli europei, i dazi minacciati sono previsti a oltre il 17%: è evidente che si tratta di una misura molto pesante per l'Italia che esporta in Usa prodotti agricoli per quasi 8 miliardi di euro l'anno. In estrema sintesi le guerre commerciali, e in particolare, quelle contro l'Europa sono destinate a infuocarsi, con danni rilevanti sulle nostre filiere produttive. C'è una ragione di questo inasprimento: gli Stati Uniti hanno bisogno di soldi.
Il costo del collocamento del debito federale è diventato insostenibile e l'appena approvato Big Beautiful Bill prevede una ulteriore riduzione delle tasse agli americani, soprattutto, di quelli che hanno patrimoni finanziari, che deve essere coperta - secondo il dettato della stessa legge - con maggiori entrate dai dazi. Dunque, per gli Stati Uniti porre dazi pesanti e costringere i paesi che esportano in terra americana a pagarli è diventata una condizione di sopravvivenza.
Che cos’è l’imperialismo oggi, nell’era di Trump?
Non è una domanda scontata, né una mera speculazione teorica; al contrario, siamo convinti che sia un nodo fondamentale, tanto per chi vuole comprendere il mondo, quanto per chi mira a trasformarlo – partendo, ancora una volta, da dove si è, da dove si è collocati. Un nodo che occorre sciogliere, se vogliamo porci all’altezza delle nuove questioni pratiche e politiche poste dal movimento reale e da questa fase storicamente determinata di guerra sempre più generalizzata. È la porta stretta da cui si è costretti a passare. Ma se vogliamo scioglierlo, crediamo che non possano bastare semplificazioni dottrinarie, facendoci bastare i “sacri testi” nella loro eterna immutabilità. Non ci possono bastare, ma non dobbiamo neanche cadere nell’errore opposto del “nuovismo”, convincendosi che è tutto cambiato, è tutto diverso rispetto a quando l’imperialismo è stato concettualizzato. Per noi, l’ortodossia e il nuovismo sono le due facce della stessa medaglia, le due facce dell’ideologia.
Riportiamo così, dopo l’intervento di Mimmo Porcaro su «L’Italia al fronte», la trascrizione del secondo incontro del ciclo «La fabbrica della guerra», con Raffaele Sciortino, compagno e ricercatore indipendente che non ha bisogno di presentazioni, già stato ospite a Modena. Da tempo lavora sui temi che stiamo discutendo: I dieci anni che sconvolsero il mondo (2019) e Stati Uniti e Cina allo scontro globale (2022) sono libri estremamente importanti perché hanno la peculiarità di riuscire a coniugare ambiti di analisi che di solito si trovano separati, ossia un ambito “alto” come la geopolitica, le politiche internazionali e la configurazione della globalizzazione, e la dinamica di classe, un livello “basso” solo in senso figurato.
Se l’Iran riprenderà
l’arricchimento rifiutando le ispezioni dell’AIEA, Trump
colpirà gli impianti sotterranei iraniani con un’arma nucleare
B61-11 a basso potenziale.
Di solito si può dire quale parte ha vinto una guerra semplicemente osservando “cosa succede” dopo la fine delle ostilità. Dopo l’annuncio del cessate il fuoco tra Iran e Israele, milioni di iraniani si sono riversati per le strade di Teheran, intonando canzoni patriottiche e sventolando bandiere in una manifestazione spontanea di giubilo. Al contrario, non ci sono stati festeggiamenti o celebrazioni a Tel Aviv o a Gerusalemme, dove l’atmosfera era notevolmente più cupa e tetra. Ciò indica che la maggior parte delle persone crede che l’Iran abbia vinto la guerra.
Non stiamo ignorando il fatto che per Iran e Israele la soglia di successo nel conflitto era molto diversa. In qualità di aggressore, Israele doveva raggiungere i propri obiettivi strategici per poter dichiarare la vittoria, mentre l’Iran doveva solo resistere all’attacco, cosa che ha fatto con grande facilità. A prescindere dall’equità di questo parametro, il risultato è evidente: per 12 giorni, l’Iran ha tenuto testa a Israele, rispondendo colpo su colpo alla sua aggressione, fino a costringerlo a cercare un cessate il fuoco. In breve, l’Iran ha vinto.
Nel suo approccio all’Iran, Israele ha commesso diversi errori di valutazione, compromettendo le sue possibilità di successo. I suoi due errori più grandi sono stati l’eccessiva fiducia riposta nei propri sistemi di difesa aerea multilivello (Arrow 2, Arrow 3, David’s Sling, Iron Dome e THAAD), che si sono rivelati inadeguati a proteggere gli asset strategici del Paese. I pianificatori militari israeliani hanno inoltre sottovalutato in modo grossolano l’impressionante capacità missilistica di precisione di Teheran, che supera l’obsoleto arsenale israeliano e si colloca tra i migliori al mondo. La scorsa settimana, abbiamo fornito un elenco dettagliato delle principali strutture militari, di intelligence, industriali ed energetiche che sono state distrutte dai missili balistici a guida di precisione iraniani e che il sistema di difesa aerea israeliano non è riuscito a intercettare.
“L’Analytical Engine non ha alcuna pretesa
di originare qualcosa. Esso può fare qualsiasi
cosa che
noi sappiamo ordinargli di compiere. Esso può seguire
l’analisi; ma non ha alcune potere di anticipare
una
qualsivoglia relazione o verità analitica. La funzione della
macchina è di assisterci nel rendere disponibile
ciò con
cui abbiamo già familiarità”
(in Pasquinelli, 2025).
Non stiamo leggendo un commento sulle capacità di ChatGPT e dei suoi emuli, ma la “nota G” delle Notes di Ada Lovelace risalenti al 1843. Lovelace, pioniera di quella che più avanti sarebbe diventata l’informatica, fu assistente di Charles Babbage nella progettazione di una macchina che non fu mai realizzata, l’Analytical Engine appunto, un “motore analitico”, ma fin da allora volle chiarire i limiti del sogno prometeico (e forse, verrebbe da dire, maschile) di una macchina universale che, nelle intenzioni di Babbage, doveva possedere illimitate capacità di calcolo. Secondo Matteo Pasquinelli, tra i più acuti critici in circolazione delle mitologie dell’intelligenza artificiale, docente di Filosofia della scienza all’Università Ca’ Foscari e autore di Nell’occhio dell’algoritmo (vincitore, nell’edizione originale in inglese, del Deutscher Memorial Prize 2024 come miglior libro di teoria critica), la “nota G” di Lovelace rappresenta “la prima liquidazione dell’IA”. Si racconta che Babbage ebbe l’idea di quello che poi avremmo imparato a chiamare computer rimuginando sui numerosi errori delle tavole logaritmiche di inizio Ottocento, necessarie per i calcoli delle rotte marittime su cui si basava l’espansionismo imperiale britannico. “Vorrei che questi calcoli fossero stati eseguiti con il vapore”, avrebbe esclamato. Ma Babbage non cercava una semplice calcolatrice. Il suo motore analitico, garantì, sarebbe stato in grado di “fare tutto, tranne comporre danze popolari” (cit. in Davis, 2003). Ma ora che le IA generative sono in grado di comporre anche danze popolari originali – impresa, peraltro, che riesce loro anche meglio di un calcolo logaritmico – dovremmo allora ammettere che il motore analitico di Babbage sia diventato realtà?
Leggo che Andrea Bajani, ieri, a caldo, appena ricevuto il premio Strega, ha dichiarato che "anche i maschi devono contestare il patriarcato". Benissimo! Il suo romanzo parla di quello. Sino a poco tempo fa, chi si fosse soffermato sula banalità dell'affermazione sarebbe stato tacciato di complicità con il patriarcato, un po' come qualche scellerato ancora accusa di antisemitismo chi critica Israele.
Temo che però qualcosa sia andato storto. Purtroppo per Bajani il giochino si è rotto.
Dichiarare guerra al patriarcato, senza peraltro darne una definizione (cosa tutt'altro che scontata e semplice se preso sul serio come questione reale e non in modo opportunistico) non significa niente, nulla. La lotta al patriarcato e molte altre questioni prossime a questo tema sposate da quel ceto medio riflessivo "benestante e soddisfatto", da tempo asserragliato nei centri storici delle grandi città, hanno solo un significato esteriore. Indicano solo secondariamente un problema sociale concreto, su cui occorrerebbe soffermarsi senza opportunismi. E non definiscono una prassi politica. Per dirla con Barthes, non esprimono un significato denotativo, ma solo connotativo: non servono infatti a definire il problema, ma solo il loro contorno. Sono infatti le parole d'ordine che questo gruppo sociale impiega per costituirsi come clan; per rendersi riconoscibile sul piano sociale, culturale; per stabilire i criteri della propria appartenenza.
All’inizio del secolo, l’innovazione globale seguiva un copione occidentale. La Silicon Valley dominava il mondo nell’innovazione. L’Europa esportava standard e governance. L’Asia, invece, era relegata a ruolo di produttore, assemblatore e consumatore.
Ma l’ordine globale dell’innovazione sta cambiando. Secondo l’ultimo Edelman Trust Barometer, la trasformazione riguarda non solo le capacità tecniche, ma anche il sentimento pubblico. In Cina, il 72% delle persone si fida dell’intelligenza artificiale (IA), rispetto al 32% negli Stati Uniti e al 28% nel Regno Unito. Modelli simili si riscontrano in India, Indonesia, Malaysia e Thailandia, dove i mercati asiatici in via di sviluppo superano costantemente le controparti occidentali e sviluppate nella fiducia pubblica verso l’innovazione.
Questo è cruciale perché, senza fiducia, anche le tecnologie più avanzate si bloccano. Dove la fiducia è alta, l’adozione accelera, l’allineamento istituzionale si rafforza e la collaborazione pubblico-privato si approfondisce. Ciò funge da potente catalizzatore, soprattutto per un Paese come la Cina, la cui strategia di innovazione è strettamente intrecciata con gli obiettivi di sviluppo nazionale e la missione di autosufficienza. Queste dinamiche si svolgono sullo sfondo di una più ampia divergenza filosofica su come governare l’innovazione.
Perché è sbagliato pensare al maccartismo come a un fenomeno durato qualche decennio. Si tratta di una corrente politico-culturale insita nel paese
La solita vulgata storica ci fa credere che il Maccartismo, la grande campagna sviluppatasi negli Usa dalla fine degli anni 40 agli anni 50 del Novecento sia stato solo un episodio isolato e anche giustificato, mentre è un tratto costitutivo sempre presente nel clima culturale e intellettuale di quel paese e che oggi, secondo la grande storica Ellen Schrecker, di origine ebrea e membro dell’Associazione dei docenti universitari statunitensi, si sta manifestando in maniera ancora più virulenta.
Intervistata da «Democracy now», la Schrecker descrive l’attacco sferrato da Trump alla vita accademica e scientifica, sottolineando un’importante differenza: durante l’era associata al senatore Joseph McCarthy, nel 1954 censurato dallo stesso senato e probabilmente morto alcolizzato, venivano presi di mira e colpiti in vari modi docenti individuali soprattutto per le loro attività extra-curriculari, in particolare quelli che avevano avuto rapporti con il Partito comunista; oggi si interviene, si condanna e si reprime tutto ciò che avviene nelle università, generando un clima di paura e imponendo una forte censura assai peggiore di quello che si sperimentò durante il maccartismo. Addirittura, la storica statunitense, che ha studiato anche la storia delle università del suo paese, sostiene che mai si era assistito a un attacco così violento all’alta educazione minimizzato dalla stampa allineata al potere.
Come Auschwitz, come Hiroshima, anche Gaza entra nella storia come simbolo dell’ennesimo collasso morale della nostra civiltà. Uno spartiacque. Come tale lo hanno riconosciuto, tra gli altri, filosofi come Roberta De Monticelli e Franco Berardi ‘Bifo’, in libri usciti in questi mesi. A spingere anche Pankaj Mishra a scrivere Il mondo dopo Gaza è in primo luogo un impulso etico, e il bisogno di elaborare un lutto, anzi, una molteplicità di lutti. Quello, innanzitutto, per la distruzione di centinaia di migliaia di vite in Palestina e per la cancellazione di un’intera cultura, dalle moschee alle università, dai cimiteri al paesaggio naturale. Ma anche il lutto per il ‘suicidio di Israele’ – la formula è della storica Anna Foa – precipitato dall’utopia coloniale di Theodor Herzl nella barbarie genocida di Netanyahu e complici. Il lutto, inoltre, per la demolizione del diritto internazionale, perseguita non solo da Israele, che pure gli deve la sua esistenza, ma da quelle stesse potenze che lo hanno usato per imporre al mondo il loro ordine. Il lutto, ancora, per le libertà d’informazione e d’opinione, logorate da quella sorta di neomaccartismo ‘anti-antisemita’ che da Berlino a New York colpisce con intimidazioni, censure, manganellate, arresti e persecuzioni studenti, manifestanti, intellettuali, università, ong, artisti, istituzioni internazionali. «A farmi scrivere», confessa Mishra, è quella che Karl Jaspers ha definito «colpa metafisica», la sofferenza di coloro che assistono impotenti alla barbarie, «una condizione umana diffusa dopo la distruzione in diretta di Gaza», e con essa «il dovere che i vivi hanno nei confronti dei morti innocenti».
Nonostante i propositi e gli annunci del governo Meloni circa la volontà di aumentare la quota del debito pubblico nelle mani degli investitori italiani, in particolare famiglie e imprese, dagli ultimi dati della Banca d’Italia emerge un quadro contrario alle aspettative e agli annunci fatti dall’esecutivo di centro-destra. Dall’ultimo rapporto di Palazzo Koch dal titolo “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, infatti, risulta che la percentuale di debito nelle mani dei fondi stranieri è salita a marzo dal 31,9 al 32,4% del totale, mentre quella detenuta dagli altri residenti (principalmente famiglie e imprese non finanziarie) è lievemente diminuita al 14,3 per cento (dal 14,4 per cento). Anche la quota di debito in mano alla stessa Banca d’Italia ha continuato a diminuire, scendendo ad aprile al 20,2%, dal 20,5% del mese precedente. I dati smentiscono la dichiarazione di Giorgia Meloni risalente al 28 aprile 2024, secondo cui «Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore». Allo stesso tempo si registra anche un aumento del debito delle pubbliche amministrazioni, in aumento di 30,1 miliardi rispetto al mese precedente, raggiungendo la cifra di 3.063,5 miliardi.
Tuttavia, al contrario di quanto propugnato a reti unificate dalla narrazione dominante neoliberista, il problema del debito non è un problema in termini assoluti, ma è da mettere in relazione a due elementi fondamentali: il suo valore in rapporto al PIL (prodotto interno lordo) e la composizione del debito per detentori.
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Il lavoro diventa
libero. Ma cosa significa “libero”? Significa che il
lavoratore non è più inserito in un sistema di signoria e
servitù che gli assegna un posto e gli dice chi è. È un
individuo singolare, un lavoratore che ha in sé l’inizio e
il termine di ciò che è. Proprio in quanto è insieme origine
e fine, egli è libero. Ogni limite è abbattuto, ogni
legame è sciolto. Offrirsi come lavoratore non dipende più
da alcun vincolo esterno: non dipende dalla famiglia, dal
ceto, dal sesso,
né da un ordine di casta o di classe.
È, come afferma Hegel (Lineamenti § 5), l’infinità priva di termini dell’assoluta astrazione, della pura universalità. Siamo al Primo Momento, al livello dell’io astratto, certo solo di se stesso: assoluta possibilità di astrarre da ogni determinazione – negatività astratta.
Sono libero: posso fare il lavoro che voglio. Nessuno può dirmi cosa fare — né mio padre, né il mio padrone, né il comandante del terreno o della casa che abito, né il reggente della corporazione a cui appartengo, né le condizioni della mia nascita, né la mia casta o il mio ceto. Non sono legato a nulla, dunque posso tutto.
Io valgo, dice il lavoratore. Ma quanto valgo? Ecco che si passa dall’indeterminatezza indifferenziata della libertà e della sovranità che si auto-determina, alla differenziazione e alla dipendenza dall’altro e all’etero-determinazione.
Quando il lavoratore si offre sul mercato incontra l’altro, allora si media con l’altro. Nella mediazione con l’altro, o con gli altri, il lavoratore vale tanto quanto un carpentiere, un idraulico, un imbianchino, un boscaiolo, un falegname, eccetera. Non è più un lavoratore che trova in se stesso la fonte del proprio valore, ma è un lavoratore in rapporto ad altri lavoratori.
Grazie a questo porre se stesso come un determinato (Lineamenti § 6) il lavoratore entra nella storia, si connette al mondo che produce e si offre come questo lavoratore determinato, con queste e queste altre capacità, si pone come un oggetto d’uso determinato che sta di fronte ad altri oggetti d’uso, si pone nella generalità.
Mentre, tramite le news h.24, si
percepisce minacciosa la nube nera dell’escalation verso la
guerra nucleare che ci riporterebbe in un nano secondo al
pianeta delle scimmie,
contestualmente Musk, attraverso SpaceX, organizza viaggi
vacanza interstellari con atterraggio su Marte, come
residenza alternativa a questo ormai
ingombrante e bellicoso pianeta Terra. Viaggi che si
potranno permettere, in soldoni, Bezos, Zuckeberg e qualche
altro Paperon de Paperoni in giro per
il Pianeta. Riguardo il pericolo della escalation nucleare,
2000 e passa anni di storia umana, in cui l’homo sapiens è
passato dalla
clava alla ruota, alla tecnologia più avanzata, potrebbero
sparire in un nano secondo cancellati da un folle che pigerà
un bottone,
attivando una reazione a catena che distruggerà anche lui.
E ciò confermerà ai survivors, se ci saranno, che l’uomo non è un animale intelligente, rispetto al sistematico perpetuarsi delle guerre che egli stesso produce. Non lo è stato, tranne nel periodo delle grandi rivoluzioni, come quella del 1917. Oggi continua a non esserlo…intelligente, perché, privo, per natura, della capacità intellettiva di comprendere i contesti e di volgerli al meglio per tutte le collettività. Il potere di pochi uomini, eletti dai loro popoli, lo conferma pienamente. Un potere omicida e suicida contemporaneamente. Un potere che partorisce succubi e potenti, schiavi e padroni contemporaneamente. E ciò avviene sistematicamente dagli albori dell’umanità, senza che mai la stupidità umana abbia lasciato il posto al buonsenso.
E oggi, in bilico sul precipizio, con la visione permanente di un mondo distopico e con l’angoscia di tornare alla clava, insieme alla nube nera dell’escalation bellica, si affaccia all’orizzonte una nuova nube, dalle sfaccettature multitasking, intrigante e misteriosa, che ci fa pensare impropriamente di essere proiettati in un futuro ove l’uomo sarà onnipotente. All’idea si aprono scenari oggi impensabili e la realtà viene sommersa da una visione fantascientifica della nostra vita. Sta facendo inarrestabili passi da gigante, nella nostra quotidianità pubblica e privata, una nuova tecnologia che potrebbe comportare una trasformazione epocale sulle nostre vite.
Parlare dei dazi Usa espone certamente al rischio di scrivere una cosa che dopo due ora non esiste più. Però qualche linea “strategica” si riesce a intuire.
La notizia del giorno è il rinvio al 1 agosto per quasi tutti i paesi con cui ancora non è stato raggiunto un accordo, Unione Europea compresa. Ma intanto va registrato che due alleati storici degli Stati Uniti, come Giappone e Corea del sud, si sono visti appioppare un 25% che sicuramente peserà sugli scambi commerciali tra le due sponde del Pacifico.
E qui possiamo registrare la prima “chiave strategica” della politica commerciale trumpiana: non ci sono amici, in economia, ma solo competitori (tutti accusati di essere “scorretti”, naturalmente). È un rovesciamento radicale della storia posizione statunitense, che distingueva in modo radicale tra alleati e “nemici”, riservando qualche privilegio o esenzione ai primi e tutto il peggio ai secondi.
La ragione è spiegata in modo quasi surreale dal segretario al Tesoro Scott Bessent: “Stiamo raccogliendo entrate significative dai dazi. Il Cbo stima 2.800 miliardi di dollari in dieci anni. E i nuovi accordi potrebbero aumentare ulteriormente questa cifra”. In soldoni, ci servono soldi veri per abbattere il nostro debito pubblico e li prendiamo dai nostri partner commerciali.
L’idea di base è che gli interessi degli Stati Uniti vengono prima di tutto, agli altri viene lasciata solo la scelta tra subire passivamente o reagire con la prospettiva di dazi doppi o tripli (un po’ quello che Trump aveva provato a fare con la Cina, ritrovandosi poi costretto a una rapidissima marcia indietro, ma non tutti “pesano” commercialmente come Pechino).
Nonostante l’indebolimento del dollaro e l’enorme debito pubblico, i mass media celebrano la presunta ottima salute dell’economia statunitense
È sempre più evidente che esiste una vera e propria costruzione narrativa finalizzata ad alimentare la sudditanza europea nei confronti degli Stati Uniti. Alcuni dei principali giornali italiani stanno celebrando la forza dell’economia statunitense, che prescinderebbe persino dalla politica. E si stanno affannando a ribadire la ripresa dell’occupazione e i “record” di Borsa interpretati come i segni inequivocabili della buona salute dell’impero americano. Il messaggio è chiaro: cari italiani e care italiane, non potete fare a meno degli Stati Uniti perché mantengono il primato nonostante Donald Trump.
Ora, in questa narrazione ci sono molte cose che non tornano. A parte il fatto di trascurare l’elefante nella stanza costituito da un debito federale che lo stesso presidente della Federal Reserve ha dichiarato insostenibile e che costa 1.200 miliardi di dollari di interessi, faticando a trovare compratori, e senza considerare l’indebolimento strutturale del dollaro pur in presenza di tassi al 4,25-50, sono gli stessi dati citati dagli aedi nostrani a lasciare perplessi.
Vincoli economico-finanziari NATO ed europei
L’aumento della spesa militare delineato dalla NATO, sebbene non abbia natura giuridicamente vincolante (Gallo D., 3 luglio 2025)[1], si articola in due direttrici principali. La prima prevede che “entro il 2035, almeno il 3,5% del PIL annuo sarà destinato, secondo la definizione concordata di spesa per la difesa della NATO, a finanziare i requisiti fondamentali della difesa e a raggiungere gli Obiettivi di Capacità della NATO”. La seconda stabilisce che “l’1,5% del PIL annuo sarà contabilizzato, tra l’altro, per proteggere le infrastrutture critiche, difendere le nostre reti, garantire la preparazione civile e la resilienza, promuovere l’innovazione e rafforzare la nostra base industriale della difesa”.[2]
Il Commissario europeo per l’Economia, Valdis Dombrovskis (30 aprile 2025), ha ricordato che gli Stati membri possono richiedere “l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale, che garantirà un sostanziale margine di bilancio aggiuntivo per investire nelle proprie capacità e industrie della difesa”. Tuttavia, ha precisato che “la Commissione continuerà a garantire che tale flessibilità sia coordinata e supporti i Paesi dell’Unione nel percorso verso bilanci per la difesa più consistenti, pur mantenendo politiche fiscali solide”. Secondo Dombrovskis, tale strumento potrebbe mobilitare fino a 650 miliardi di euro in quattro anni[3].
I lettori che seguono da molti anni la narrativa di Philip K. Dick ricorderanno che nella cittadina americana ricostruita su misura per il protagonista Ragle Gumm, che è al centro di Time out of Joint (Tempo fuor di luogo, 1959), esiste una sorta di crepa stradale, umidiccia e minacciata da nuovi crolli (“The Ruins”), da cui emergono curiosi materiali, tra cui una rivista illustrata nelle cui pagine si esibisce lo splendido corpo di una figura femminile sconosciuta: Marilyn Monroe. Dal momento che il titolo del romanzo di Dick è l’esplicita citazione di una delle battute più famose dell’Amleto shakespeariano (e infatti “Tempo fuor di sesto” sarebbe forse una resa più allusiva), partecipiamo anche noi al gioco di PKD e immaginiamoci che Ragle Gumm non sia quel poveraccio che è, ospitato in casa della sorella sposata, un buono a nulla che passa la sua vita a risolvere giochi a premi, ma – diciamo per dire – un raffinato intellettuale che scopre tra i libri polverosi accatastati su una bancarella un romanzo intitolato Time Out of Joint di Philip K. Dick. Ipotizziamo, insomma, che questo intellettuale sia molto più vicino all’Amleto di Shakespeare (il quale peraltro era in grado di ricoprire vari ruoli, tra cui quello del fool) dell’inconsapevole provinciale americano manovrato da un potere occulto che si serve spietatamente di lui. L’intellettuale in questione sfoglia le pagine stropicciate del paperback e si accorge di avere tra me le mani un capolavoro. “Caspita!” Esclama. “Ma questo sconosciuto signore va valorizzato, collocato in una collana di prestigio, tanto più per il prezzo proibitivo dei suoi volumi.
Negli ultimi
12 mesi, lo scenario mediorientale ha acquisito una
centralità sempre più evidente nel quadro delle tensioni
nelle relazioni
internazionali. Alla sempre più feroce persecuzione della
popolazione palestinese nella striscia di Gaza, in atto da
Ottobre 2023 e che non
accenna ad arrestarsi, si sono andati via via
sovrapponendo, nell’ordine: il conflitto tra Israele ed
Hezbollah nel sud del Libano
nell’autunno del 2024; il conflitto in Siria, che nello
stesso periodo ha portato alla destituzione di
Bashar-el-Assad e all’instaurazione
di un governo di transizione di matrice jihadista; infine,
il violento attacco che Israele e Stati Uniti hanno
condotto nei confronti dell’Iran
nelle settimane appena trascorse, ufficialmente
finalizzato a metter fine a un ipotetico programma
nucleare bellico iraniano.
Il concentrarsi di tante esplosioni di violenza nella stessa regione solleva evidentemente questioni interpretative di non facile soluzione. Siamo di fronte a una dinamica caotica, in cui semplicemente vengono a maturazione conflitti lungamente latenti e solo per caso scatenatisi in un arco temporale estremamente ristretto? Oppure c’è un filo sotterraneo che lega i singoli fenomeni bellici attualmente in progress? E nel caso, in cosa consiste questo “filo”? Cosa c’è precisamente in gioco in quell’esercizio quotidiano di violenza che da un anno a questa parte infiamma quasi quotidianamente la regione mediorientale? La tesi che vorrei provare ad argomentare in questo breve commento è che il filo esiste eccome, e ha a che fare fondamentalmente con il destino della globalizzazione. Più precisamente, quello che sembra in gioco oggi sul tavolo del Medio Oriente sono, a mio avviso, le regole che presiedono alla distribuzione dei guadagni della globalizzazione.
Come è noto, la globalizzazione è l’espressione di una tendenza che caratterizza ormai da alcuni secoli, seppure tra “ondate” e successive “risacche”, la dinamica dell’organizzazione economica mondiale.[1] In genere nella storiografia si usa distinguere una prima globalizzazione, che viene abitualmente collocata nel periodo tra il 1850 e il 1914 e che sarebbe stata interrotta dalla “grande guerra”, e una seconda globalizzazione, il cui inizio viene situato a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 del secolo scorso, più o meno in corrispondenza del dissolvimento del blocco sovietico e della conquista della completa egemonia politica e militare globale da parte degli Stati Uniti.
…Di nuovo a Reggio Emilia
Di nuovo là
in Sicilia
Sono morti
dei compagni per mano dei fascisti
Di
nuovo come un tempo
Sopra
l’Italia intera
Fischia il vento e infuria la bufera…
Sono morti
sui
vent’anni
Per il
nostro domani
Son morti come vecchi partigiani
Lunedì sera, 7 luglio, a Reggio Emilia, riuniti dalla Costituente contro la Guerra e il Riarmo, da tutte le realtà antifasciste e resistenziali, abbiamo ricordato quanto lo Stato, già allora di Polizia, aveva commesso in termini di violenza sulla vita e sulla coscienza civile democratica.
1960, 7 luglio, Reggio Emilia, 5 lavoratori, che manifestavano pacificamente, sono trucidati da forze dell’ordine, nei secoli fedeli al potere e, in questo caso al governo Tambroni, il primo dalla liberazione e dalla Costituzione antifascista che si regge grazie ai fascisti in maggioranza. Nessun potere atlantico lo disturba. Solo operai e contadini. Il Potere Atlantico interverrà solo per rimuovere Aldo Moro, uomo dell’unità nazionale. Per il resto, tutto a posto. Grazie a Gladio, Anello, P2, Servizi, mafie, governanti obbedienti e, ora, di nuovo fascisti.
1960, 5 luglio, Licata, le forze dell'ordine reprimono nel sangue una manifestazione unitaria di braccianti e operai, sparando contro il corteo guidato dal sindaco Dc Castelli. Ci sarà un morto, Vincenzo Napoli, la prima vittima del "luglio della memoria".
1968, 2 dicembre, Avola, Sicilia, due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, vengono uccisi durante uno sciopero di braccianti, e altri 48 rimangono feriti, in seguito all’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine
28 dicembre, Reggio Emilia, i fratelli Cervi, 7, partigiani, fucilati dai repubblichini.
Il nuovo cancelliere tedesco Friedrich Merz, già rappresentante del colosso finanziario BlackRock, avvia un massiccio riarmo militare, rompendo con la tradizione pacifista postbellica. Con investimenti senza precedenti e un deciso allineamento all’atlantismo, Berlino abbandona l’Ostpolitik e adotta una postura aggressiva nei confronti di Mosca. Eppure, dietro la retorica della sovranità, si cela una crescente subordinazione strategica. Ma Merz deve fare i conti con un profondo dissenso interno, soprattutto tra i giovani
«Vogliamo
rendere la Bundeswehr la forza armata convenzionale più
forte dell’Ue». Al
vertice Nato all’Aja, lo scorso 25 giugno, il nuovo
cancelliere tedesco Friedrich Merz ha presentato il suo
piano per il riarmo tedesco. Con un
investimento da 400 miliardi di euro e l’obiettivo di
portare la spesa militare al 5% del Pil, non si tratta di
una semplice modifica di budget,
ma della cancellazione dell’identità strategica tedesca
post-1945. Una rivoluzione che affonda le radici nella
completa interiorizzazione
dell’ideologia atlantista da parte della classe dirigente.
Il piano di riarmo della Germania e l’aggressiva postura anti-Russia non è un ritorno del nazionalismo tedesco, ma il suo opposto. Le politiche messe oggi in atto non derivano da una fredda ricerca degli interessi nazionali tedeschi, ma nella loro negazione. Sono l’espressione di una classe politica che ha interiorizzato così profondamente l’ideologia atlantista da non riuscire più a distinguere tra strategia nazionale e lealtà transatlantica.
Questa è la conseguenza a lungo termine di come la questione tedesca è stata «risolta» dopo la Seconda guerra mondiale: attraverso l’assorbimento della Germania nell’«Occidente collettivo» sotto la tutela strategica americana. Per gran parte del periodo postbellico la leadership tedesca ha cercato di bilanciare questo assetto con la difesa dell’interesse nazionale, ma negli anni successivi al colpo di Stato in Ucraina, l’ala «americana» dell’establishment tedesco ha cominciato a prendere il sopravvento. Con Merz, che in passato è stato un rappresentante BlackRock, è saldamente al comando.
Oggi la leadership pensa solo in termini di allineamento a un progetto occidentale le cui priorità sono spesso definite altrove. In un editoriale pubblicato il 23 giugno sul Financial Times, per esempio, Merz ed Emmanuel Macron hanno nuovamente ribadito il loro impegno nella relazione transatlantica e nella Nato (che ha sempre comportato la subordinazione strategica dell’Europa a Washington), nonostante i recenti gesti retorici verso una politica europea più autonoma.
Si è chiuso il 6 luglio, a Rio de Janeiro, il 17esimo summit dei paesi BRICS. I suoi membri hanno firmato una dichiarazione congiunta che si intitola “Rafforzare la cooperazione del Global South per una governance più inclusiva e sostenibile“. Come si legge sul sito dei BRICS, il documento riflette “l’impegno a rafforzare il multilateralismo, a difendere il diritto internazionale e a impegnarsi per un ordine globale più equo“.
Molte testate giornalistiche hanno sottolineato l’atteggiamento cauto dei toni usati nel forum di cooperazione che ormai riunisce circa il 50% della popolazione mondiale e intorno al 40% del suo PIL. Ma a ben vedere, un movimento cauto verso il superamento dell’ordine mondiale unipolare occidentale non significa che sia meno deciso di altri più affrettati.
Innanzitutto, va sottolineato che l’incontro dei ministri degli Esteri dei BRICS, svoltosi sempre nella metropoli brasiliana lo scorso aprile, non aveva raggiunto una dichiarazione congiunta. Se questa volta una tale dichiarazione c’è stata, di ben 31 pagine, questo significa che il messaggio che si vuole mandare è quello di unità, anche se si è preferito non imbarcarsi in dibattiti delicati.
A tenere banco, dall’inizio dell’anno a questa parte, è ancora il nodo dei dazi decisi dall’amministrazione Trump, che sta trattando con tanti paesi in maniera separata per nuovi accordi commerciali. Il tycoon ha recentemente affermato che è pronto a tariffe aggiuntive per quei governi che decidono di allineare le proprie posizioni a quelle dei BRICS.
CS: "La scienza-segno essendo un simulacro non è falsificabile"
La conclusione a cui è arrivato Il Chimico Scettico rappresenta uno dei passaggi intellettuali più radicali e al contempo più necessari del dibattito epistemologico contemporaneo. Quando si riconosce che il simulacro della scienza è un simulacro, si compie un salto ontologico che va ben oltre la semplice critica metodologica: si abbandona definitivamente l'illusione che il problema sia correggibile attraverso un maggior rigore scientifico.
Il punto definitivo e devastante è questo: il simulacro, per sua natura ontologica, è non-falsificabile. Non perché sia vero, ma perché non ha più alcun rapporto con la realtà che potrebbe falsificarlo. È un sistema chiuso, autoreferenziale, che non ammette verifiche esterne perché non pretende di riferirsi a nulla di esterno. Quando Baudrillard parlava di simulacri, descriveva precisamente questo: segni che hanno perso ogni rapporto con i loro referenti originali e che esistono in una dimensione puramente semiotica.
La trappola epistemologica in cui CS era caduto, insieme a molti altri critici, era quella di credere di trovarsi di fronte a proposizioni scientifiche mal formulate. Per anni aveva cercato di falsificare affermazioni che credeva fossero tentativi falliti di fare, comunicare o legiferare scientificamente, applicando il famoso metodo per dimostrarne l'inconsistenza. Ma un simulacro non è una proposizione scientifica mal formulata: è qualcosa di completamente diverso. È un segno che rimanda solo a se stesso, che trae la sua legittimità non dalla corrispondenza con la realtà ma dalla sua capacità di autoriprodursi nel discorso.
Martedì 1° luglio 2025, African Stream ha pubblicato il suo ultimo video, un messaggio d’addio provocatorio. Con questo, il media panafricano, un tempo fiorente, ha confermato la sua chiusura definitiva. Non perché avesse infranto la legge. Non perché avesse diffuso disinformazione o incitato alla violenza. Ma perché raccontava la storia sbagliata, una storia che sfidava il potere degli Stati Uniti in Africa e che aveva avuto un’eco troppo profonda presso il pubblico nero di tutto il mondo. Quando il Segretario di Stato Antony Blinken l’ha accusata di essere una facciata del Cremlino, le Big Tech non hanno esitato e, nel giro di poche ore, la piattaforma è stata cancellata da quasi tutti i principali social media.
A settembre, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha lanciato l’allarme e ha annunciato una guerra totale contro l’organizzazione, sostenendo, senza prove, che si trattasse di un gruppo di facciata russo. “RT, l’emittente mediatica russa finanziata dallo Stato, gestisce segretamente la piattaforma online African Stream su una vasta gamma di social media”, ha dichiarato, aggiungendo:
Secondo il sito web dell’emittente, “African Stream è” – e cito – “un’organizzazione panafricana di media digitali basata esclusivamente sui social media, focalizzata nel dare voce a tutti gli africani, sia in patria che all’estero”. In realtà, l’unica voce che dà è quella dei propagandisti del Cremlino.
Quanti commenti ipocriti sul suicidio del ministro dei Trasporti russo! Nessuna riflessione sulle circostanze e sul grave e ignominioso atto d'accusa che pendeva sulla sua testa e sul suo onore: corruzione e omissione della difesa dei cittadini della regione di Kursk quando lui ne era Governatore. Può avere sulla sua coscienza la morte di migliaia di cittadini innocenti che hanno perso la vita con l'invasione Nato-ucraina di un anno fa per la mancata predisposizione delle linee di difesa dei confini a cui doveva sovraintendere. In tempi di guerra si tratta di alto tradimento e di una accusa terribile e infamante. Può non aver retto all'onta del disonore pubblico e dal ² disprezzo di cui sarebbe stato giustamente inondato durante un processo. Macché! Apriti cielo! È stato Putin che elimina così i suoi nemici e oppositori! È un criminale e un despota! La Russia è un paese di schiavi! Mai vivrei in Russia!
Si vede che siamo un paese senza memoria ! Un paese cinico e senza pudori. Senza alcuna consapevolezza della sua storia. Sia a destra che a sinistra si considera Putin un omicida seriale, in un paese, la Russia, dove se ti opponi al potere ti garantisci una brutta fine, al di là di una valutazione specifica e circostanziata dei fatti. Spesso contro ogni evidenza logica e razionale, e senza prove materiali e documentabili. La propaganda occidentale è molto abile nella costruzione del "mostro" come parte della guerra psicologica per delegittimare moralmente i suoi nemici, per togliere loro ogni manto di umanità e giustificare le proprie guerre di sterminio in nome dell'Umanità agli occhi della opinione pubblica occidentale.
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Con una postilla di Wu Ming
Per comprendere i tempi non ordinari,
le categorie dei tempi ordinari non bastano. Bisogna cercare
altrove ed è così che certi autori diventano pienamente
comprensibili. Che
bastasse l’induzione di paura per dominare intere popolazioni
l’avevamo letto nei libri di Hannah Arendt,
George
Orwell, Christopher Browning e Zygmunt
Bauman, ma abbiamo cominciato a crederci davvero
solo
nell’inverno del 2020. Ancor più difficile trovare una
spiegazione per la strage delle coscienze che immediatamente
ha diviso la
popolazione italiana in fazioni avverse mai più ricomposte e
per lo strano oblio che oggi avvolge il biennio pandemico.
A cinque anni e qualche mese dal suo incipit, l’evento più significativo (speriamo) della nostra vita collettiva sembra ai più un episodio lontano, politicamente irrilevante e per nulla attivo nel presente.
Il fatto è, però, che quella stagione non è mai finita.
A partire dal settembre 2021, quando scrivevamo della necessità di ritrovarsi, abbiamo viaggiato molto come ambulanti dell’antropologia medica. Dappertutto abbiamo trovato lo stesso quadro: un piccolo gruppo di rimasti pandemici che non si dà pace per l’accaduto e una maggioranza di disvedenti che quasi non se ne ricorda. Esso ricalca, a grandi linee, la divisione in fazioni cristallizzata nel marzo 2020 e poi continuamente ribadita dagli eventi successivi.
Le due famiglie, che ancora non si sono ritrovate, schivano il confronto. La distanza tra loro non discende da un disaccordo argomentativo, da scelte consapevoli o dalla normale dialettica della lotta politica, ma da qualcosa di più profondo: la risposta di ciascuno agli eventi è stata dettata non tanto dalla ragione, ma proprio dalla sensibilità, dalla percezione, ovvero dallo strato primo della presenza al mondo e della possibilità di fiducia.
Il tema
della catastrofe ritorna, nei resoconti quotidiani, nelle
previsioni degli andamenti stagionali e nelle proiezioni di
più lungo periodo. Le
notizie da Gaza, con i primi notiziari del mattino colmano
la misura dell’orrore quotidiano con cui sia possibile
confrontarci. Il sistema degli
aiuti, israelo-americano, la Gaza Humanitarian Foudation1
trasforma il bisogno di nutrirsi di una popolazione affamata
in una lotteria contro la morte, puoi ottenere cibo, puoi
morire, puoi rimanere affamato.
La stessa struttura organizzativa sta programmando la
concentrazione della popolazione di Gaza in una cittadella
umanitaria, completando lo
sradicamento, rendendo totalmente dipendente la
sopravvivenza dell’intera popolazione dalle disposizioni del
governo di quella agenzia, che ha
espulso l’intervento di qualsiasi organizzazione di soccorso
umanitario. Sradicamento, concentrazione, controllo totale
sui meccanismi di
sopravvivenza regolati al livello minimo, precondizione per
liberare la striscia dalla loro presenza; è facile prevedere
che aprendo i
chiudendo i rubinetti dei mezzi di sopravvivenza, in una
condizione di dipendenza totale, l’alternativa che si
imporrà sarà quella
del migrare altrove, per quei pochi che resteranno la
possibilità di servire i nuovi padroni. Ferocemente gli
abitanti della striscia saranno
guidati dal rombo dei bombardamenti, dallo sfacelo delle
loro carni, dalla fame, dalla sofferenza e dalle malattie,
le piaghe d’Egitto sono
servite.
Gaza quindi è la catastrofe quotidiana che ci viene servita, in tutte le ore di veglia delle nostre giornate, è anche metafora e dispiegamento concreto della potenza della tecnica applicata al governo di una contraddizione, contraddizione nei confronti di una volontà di dominio; supremazia della tecnologia applicata ai sistemi d’arma, ai singoli dispositivi, al coordinamento, al dispiegamento delle linee strategiche. Da ultimo l’utilizzo delle tecnologie di Intelligenza Artificiale per individuare e selezionare gli obiettivi attraverso l’analisi delle dinamiche sociali, è guerra sociale fondata sulla collaborazione tra l’uomo e la macchina. Impressionante è la coniugazione della analisi raffinata, l’individuazione degli obiettivi nel magma della materia sociale assieme alla violenza indiscriminata, non solo nell’area attorno agli obiettivi strategici, ma nel massacro generalizzato, nella ‘gratuità’ della distruzione di obiettivi come l’internet cafè o forse per interdire ogni forma di comunicazione.
Se i vaticini di Andrius-Marilno-Kubilius dicono che la Russia «tra cinque anni, o forse anche prima, attaccherà un paese europeo, o forse più di uno», anche in Russia abbondano le previsioni: solo, ovviamente, a soggetti inversi
Il giornalista militare Vasilij Fatigarov, ad esempio, parla di possibilità di guerra coi paesi NATO già tra 2-3 anni, una volta che il teatro bellico ucraino sia esaurito e dunque, dice, «bisogna prepararsi»: in particolare, per esser pronti a fronteggiare un'alleanza tedesco-polacca diretta contro Mosca, cui si uniranno anche i Paesi baltici. Basti considerare che già oggi il Baltico è, di fatto, un mare controllato dalla NATO, che pone l'enclave di Kaliningrad in una posizione a dir poco complicata. In pratica, dice Fatigarov, insceneranno una provocazione, incolpandone la Russia, sul “corridoio Suwalki” o da qualche altra parte, che sia l'Azerbajdžan o anche il Kazakhstan e così muoveranno guerra.
Di provocazione volta a scatenare un conflitto, accusandone la Russia, parla anche il politologo militare Andrej Klintsevic, che cita, appunto il “corridoio Suwalki” e prevede che nel giro di un quinquennio la NATO avrà accumulato sufficienti forze per lanciare un attacco sulla direttrice di Kaliningrad. Secondo tale proiezione, la NATO procede ad armare l'isola di Gotland con sistemi di difesa aerea e missili antinave, mentre Estonia e Finlandia praticamene bloccano la navigazione civile verso Piter e Kaliningrad. A quel punto, Mosca lancia un ultimatum, loro reagiscono, la Russia si ritaglia un corridoio attraverso il “Suwalki gap”, che loro minano e riempiono di bunker.
Nel testo che segue riportiamo alcune notizie recenti relative al mondo della finanza mondiale, come reperibili in alcuni rapporti di ricerca e nella stampa quotidiana e settimanale. Il quadro che ne risulta non appare particolarmente entusiasmante: si tratta di un’attività che non sembra voler cambiare per niente nelle sue logiche perverse di lunga data.
Le banche continuano a
finanziare le
energie fossili. Secondo quanto ci informa sulla
questione il Rapporto annuale “Banking on climate caos”
pubblicato di recente da una
coalizione di organizzazioni non governative, nel 2024
le principali banche del mondo hanno aumentato del 23%
rispetto all’anno precedente i
finanziamenti ai produttori di energie fossili,
portandoli a 869 miliardi di dollari; e questo dopo che nei
due anni precedenti si era assistito
invece a una certa riduzione degli stessi e mentre la
domanda di petrolio e gas tende a diminuire nel mondo
(Angrand, 2025). Sul podio di questa
pessima classifica si collocano ovviamente tre grandi banche
americane. L’inversione di tendenza recente sembra debba
essere attribuita
principalmente all’evoluzione in peggio del contesto
politico e regolamentare occidentale e contrasta con le
ripetute dichiarazioni di molte
banche in proposito. Mentre l’UE annacqua il suo cosiddetto
green deal, l’arrivo di Trump alla presidenza degli
Stati Uniti non
contribusce certo a migliorare la situazione. Comunque la
notizia non sorprende.
I paesi poveri e la finanza. Dati recenti della Unctad indicano che ormai 54 paesi spendono più del 10% delle loro entrate fiscali ogni anno soltanto per il pagamento degli interessi sul debito, mentre il peso del carico degli stessi interessi è sostanzialmente raddoppiato dal 2011 a oggi. Più di 3,3 miliardi di persone vivono in paesi che spendono più per il servizio del debito che per la sanità, mentre 2,1 miliardi in paesi che vi spendono più che nell’istruzione. Intanto i costi dello stesso debito stanno aumentando fortemente e stanno diventando proibitivi per i paesi più poveri. Le politiche del debito attuali in molti paesi sottosviluppati sono utili ai mercati finanziari, non alla gente. Questo minaccia di condannare intere nazioni a un decennio perduto o ancora peggio (Stiglitz, 2025). Per altro verso i dazi di Trump rallenteranno lo sviluppo dell’economia e così essi porteranno meno entrate ai governi. I paesi citati hanno bisogno una nuova fase di alleggerimento del carico dei debiti per evitare che i soldi che servirebbero per la salute e l’istruzione siano invece versati ai creditori.
Artificial Intelligence is neither artificial nor
intelligent.”
Kate Crawford, Atlas of AI
Oggi l’Intelligenza Artificiale (IA) viene spesso presentata come una forza astratta, inevitabile, quasi naturale. È descritta con toni mitici: un’entità autonoma e neutrale capace di apprendere, decidere, persino “pensare”. Tuttavia, questa rappresentazione maschera la sua vera natura: l’IA non è una magia, né una creatura indipendente. È un artefatto tecnico, economico e sociale, costruito da esseri umani in contesti specifici, con obiettivi precisi.
I sistemi di intelligenza artificiale non “capiscono” il mondo nel senso umano del termine. Non hanno coscienza, intenzioni o consapevolezza. Funzionano attraverso la raccolta e l’elaborazione di enormi quantità di dati, applicando modelli statistici per individuare schemi, correlazioni e probabilità, categorizzando, classificando, prevedendo e automatizzando. In questo processo, le dimensioni complesse, relazionali e contestuali della vita vengono spesso appiattite in punti dati standardizzati e obiettivi di efficienza. Ciò che non può essere quantificato viene tipicamente escluso; ciò che non può essere previsto viene spesso svalutato. L’IA quindi non è un’entità neutra. È un sistema progettato, addestrato e valutato attraverso scelte umane. Ed è proprio da queste scelte che dobbiamo partire per capirne i costi—non solo computazionali, ma ecologici, sociali, politici.
Dietro l’apparente immaterialità dell’Intelligenza Artificiale – assistenti virtuali, generatori di immagini, auto autonome, sistemi di riconoscimento facciale e targeting in scenari di guerra – si nasconde una infrastruttura materiale colossale.
Franco Berardi “Bifo”, Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano, Timeo, Palermo 2025, pp. 250, € 18,00
Pensare dopo Gaza
significa guardare in faccia la catastrofe dell’umano
riconoscendo il definitivo fallimento dell’universalismo
della ragione, della
democrazia e della civiltà. Capire è l’unica cosa che ci
rimane, anche se “Il pensiero non può pensare altro che la
propria impotenza”. La disperazione è rimasta l’unico
sentimento umano. L’unica opzione a nostra disposizione è
quella
di disertare la storia, pur non avendo alcuna idea di come
farlo. Franco Berardi, al secolo Bifo, non conosce mezze
misure nel suo ultimo libro
intitolato, appunto, Pensare dopo Gaza.
L’argomentazione è sempre portata all’estremo e talvolta
sconfina
nell’invettiva senza curarsi dei suoi possibili effetti
disturbanti per i benpensanti, compresi quelli di sinistra.
Per lui Israele è il
paese che, dal punto di vista della ferocia sterminatrice, è
quello più sviluppato e per questo mostra a quelli meno
progrediti
l’immagine del loro avvenire. Per esempio attraverso
l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale le cui
ricerche sono
essenzialmente finalizzate, in tutto il mondo, a ottimizzare
lo sterminio, dal momento che il sistema militare è il loro
principale
committente. Applicazioni come il programma Lavender,
utilizzato dagli israeliani a Gaza secondo le rivelazioni
della rivista israelo-palestinese
+972, consentono di perpetrare massacri in modo
asettico, superando definitivamente gli ostacoli
rappresentati dalle emozioni umane e dalla
fatica di uccidere.
L’idea che gli israeliani si stiano comportando come i nazisti dà le vertigini. Eppure, sostiene Bifo, non si può arretrare di fronte a questo tabù perché la storia dello stato sionista ci insegna che ci sono traumi che non possono essere elaborati, ma solo riprodotti. Israele si costituisce per prevenire una nuova aggressione antisemita, ma lo fa rispondendo allo shock storico della Shoah in modo vendicativo e asimmetrico, punendo chi non ha alcuna colpa e non può difendersi. Per i sionisti la ragione universale, che ha preso forma con il contributo essenziale dell’intellettualità ebraica, non è stata una protezione sufficiente dallo sterminio antisemita. Un pensiero legittimo, sottolinea Bifo, che rende tragicamente comprensibile il passaggio successivo: per non essere più prede bisogna diventare predatori.
A proposito di: Francesca Albanese, FROM ECONOMY OF OCCUPATION TO ECONOMY OF GENOCIDE. Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967 [scaricabile qui]
Where’s your Daddy? è un videogioco nel quale un bambino cerca di uccidersi in casa recuperando uno fra le decine di oggetti potenzialmente letali – il flaccone di candeggina, una posata da infilare nella presa elettrica –, e un padre cerca di impedirglielo. Citando un bravo comico, una specie intelligente capace di concepire un prodotto del genere merita l’estinzione. Ma c’è di peggio: un programmatore ha scelto questo nome per un sistema di intelligenza artificiale che insegna ai droni israeliani a individuare ed eliminare esseri umani che, dopo il bombardamento di un luogo abitato, escono dal rifugio per cercare i superstiti. Where’s your Daddy? interviene in seconda battuta dopo Gospel, un sistema di intelligenza artificiale che stima il numero di vittime collaterali nel colpire un target in cui è ritenuto essere un potenziale obiettivo: un militare riceve l’informazione, e dà l’ok al drone, sapendo quante vittime civili saranno colpite. Con le parole di uno di questi [qui]:
Niente succede per caso. Quando una bimba di tre anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che la sua morte non è un dramma – che è un prezzo accettabile da pagare per poter colpire un obiettivo. Non siamo Hamas. Non lanciamo razzi a caso. Tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa.
Il lavoro diventa
libero. Ma cosa significa “libero”? Significa che il
lavoratore non è più inserito in un sistema di signoria e
servitù che gli assegna un posto e gli dice chi è. È un
individuo singolare, un lavoratore che ha in sé l’inizio e
il termine di ciò che è. Proprio in quanto è insieme
origine e fine, egli è libero. Ogni limite è abbattuto,
ogni
legame è sciolto. Offrirsi come lavoratore non dipende più
da alcun vincolo esterno: non dipende dalla famiglia, dal
ceto, dal sesso,
né da un ordine di casta o di classe.
È, come afferma Hegel (Lineamenti § 5), l’infinità priva di termini dell’assoluta astrazione, della pura universalità. Siamo al Primo Momento, al livello dell’io astratto, certo solo di se stesso: assoluta possibilità di astrarre da ogni determinazione – negatività astratta.
Sono libero: posso fare il lavoro che voglio. Nessuno può dirmi cosa fare — né mio padre, né il mio padrone, né il comandante del terreno o della casa che abito, né il reggente della corporazione a cui appartengo, né le condizioni della mia nascita, né la mia casta o il mio ceto. Non sono legato a nulla, dunque posso tutto.
Io valgo, dice il lavoratore. Ma quanto valgo? Ecco che si passa dall’indeterminatezza indifferenziata della libertà e della sovranità che si auto-determina, alla differenziazione e alla dipendenza dall’altro e all’etero-determinazione.
Quando il lavoratore si offre sul mercato incontra l’altro, allora si media con l’altro. Nella mediazione con l’altro, o con gli altri, il lavoratore vale tanto quanto un carpentiere, un idraulico, un imbianchino, un boscaiolo, un falegname, eccetera. Non è più un lavoratore che trova in se stesso la fonte del proprio valore, ma è un lavoratore in rapporto ad altri lavoratori.
Grazie a questo porre se stesso come un determinato (Lineamenti § 6) il lavoratore entra nella storia, si connette al mondo che produce e si offre come questo lavoratore determinato, con queste e queste altre capacità, si pone come un oggetto d’uso determinato che sta di fronte ad altri oggetti d’uso, si pone nella generalità.
Mentre, tramite le news h.24,
si
percepisce minacciosa la nube nera dell’escalation verso
la guerra nucleare che ci riporterebbe in un nano secondo
al pianeta delle scimmie,
contestualmente Musk, attraverso SpaceX, organizza viaggi
vacanza interstellari con atterraggio su Marte, come
residenza alternativa a questo ormai
ingombrante e bellicoso pianeta Terra. Viaggi che si
potranno permettere, in soldoni, Bezos, Zuckeberg e
qualche altro Paperon de Paperoni in giro per
il Pianeta. Riguardo il pericolo della escalation
nucleare, 2000 e passa anni di storia umana, in cui l’homo
sapiens è passato dalla
clava alla ruota, alla tecnologia più avanzata, potrebbero
sparire in un nano secondo cancellati da un folle che
pigerà un bottone,
attivando una reazione a catena che distruggerà anche lui.
E ciò confermerà ai survivors, se ci saranno, che l’uomo non è un animale intelligente, rispetto al sistematico perpetuarsi delle guerre che egli stesso produce. Non lo è stato, tranne nel periodo delle grandi rivoluzioni, come quella del 1917. Oggi continua a non esserlo…intelligente, perché, privo, per natura, della capacità intellettiva di comprendere i contesti e di volgerli al meglio per tutte le collettività. Il potere di pochi uomini, eletti dai loro popoli, lo conferma pienamente. Un potere omicida e suicida contemporaneamente. Un potere che partorisce succubi e potenti, schiavi e padroni contemporaneamente. E ciò avviene sistematicamente dagli albori dell’umanità, senza che mai la stupidità umana abbia lasciato il posto al buonsenso.
E oggi, in bilico sul precipizio, con la visione permanente di un mondo distopico e con l’angoscia di tornare alla clava, insieme alla nube nera dell’escalation bellica, si affaccia all’orizzonte una nuova nube, dalle sfaccettature multitasking, intrigante e misteriosa, che ci fa pensare impropriamente di essere proiettati in un futuro ove l’uomo sarà onnipotente. All’idea si aprono scenari oggi impensabili e la realtà viene sommersa da una visione fantascientifica della nostra vita. Sta facendo inarrestabili passi da gigante, nella nostra quotidianità pubblica e privata, una nuova tecnologia che potrebbe comportare una trasformazione epocale sulle nostre vite.
Nonostante l’indebolimento del dollaro e l’enorme debito pubblico, i mass media celebrano la presunta ottima salute dell’economia statunitense
È sempre più evidente che esiste una vera e propria costruzione narrativa finalizzata ad alimentare la sudditanza europea nei confronti degli Stati Uniti. Alcuni dei principali giornali italiani stanno celebrando la forza dell’economia statunitense, che prescinderebbe persino dalla politica. E si stanno affannando a ribadire la ripresa dell’occupazione e i “record” di Borsa interpretati come i segni inequivocabili della buona salute dell’impero americano. Il messaggio è chiaro: cari italiani e care italiane, non potete fare a meno degli Stati Uniti perché mantengono il primato nonostante Donald Trump.
Ora, in questa narrazione ci sono molte cose che non tornano. A parte il fatto di trascurare l’elefante nella stanza costituito da un debito federale che lo stesso presidente della Federal Reserve ha dichiarato insostenibile e che costa 1.200 miliardi di dollari di interessi, faticando a trovare compratori, e senza considerare l’indebolimento strutturale del dollaro pur in presenza di tassi al 4,25-50, sono gli stessi dati citati dagli aedi nostrani a lasciare perplessi.
CS: "La scienza-segno essendo un simulacro non è falsificabile"
La conclusione a cui è arrivato Il Chimico Scettico rappresenta uno dei passaggi intellettuali più radicali e al contempo più necessari del dibattito epistemologico contemporaneo. Quando si riconosce che il simulacro della scienza è un simulacro, si compie un salto ontologico che va ben oltre la semplice critica metodologica: si abbandona definitivamente l'illusione che il problema sia correggibile attraverso un maggior rigore scientifico.
Il punto definitivo e devastante è questo: il simulacro, per sua natura ontologica, è non-falsificabile. Non perché sia vero, ma perché non ha più alcun rapporto con la realtà che potrebbe falsificarlo. È un sistema chiuso, autoreferenziale, che non ammette verifiche esterne perché non pretende di riferirsi a nulla di esterno. Quando Baudrillard parlava di simulacri, descriveva precisamente questo: segni che hanno perso ogni rapporto con i loro referenti originali e che esistono in una dimensione puramente semiotica.
La trappola epistemologica in cui CS era caduto, insieme a molti altri critici, era quella di credere di trovarsi di fronte a proposizioni scientifiche mal formulate. Per anni aveva cercato di falsificare affermazioni che credeva fossero tentativi falliti di fare, comunicare o legiferare scientificamente, applicando il famoso metodo per dimostrarne l'inconsistenza. Ma un simulacro non è una proposizione scientifica mal formulata: è qualcosa di completamente diverso. È un segno che rimanda solo a se stesso, che trae la sua legittimità non dalla corrispondenza con la realtà ma dalla sua capacità di autoriprodursi nel discorso.
Quanti commenti ipocriti sul suicidio del ministro dei Trasporti russo! Nessuna riflessione sulle circostanze e sul grave e ignominioso atto d'accusa che pendeva sulla sua testa e sul suo onore: corruzione e omissione della difesa dei cittadini della regione di Kursk quando lui ne era Governatore. Può avere sulla sua coscienza la morte di migliaia di cittadini innocenti che hanno perso la vita con l'invasione Nato-ucraina di un anno fa per la mancata predisposizione delle linee di difesa dei confini a cui doveva sovraintendere. In tempi di guerra si tratta di alto tradimento e di una accusa terribile e infamante. Può non aver retto all'onta del disonore pubblico e dal ² disprezzo di cui sarebbe stato giustamente inondato durante un processo. Macché! Apriti cielo! È stato Putin che elimina così i suoi nemici e oppositori! È un criminale e un despota! La Russia è un paese di schiavi! Mai vivrei in Russia!
Si vede che siamo un paese senza memoria ! Un paese cinico e senza pudori. Senza alcuna consapevolezza della sua storia. Sia a destra che a sinistra si considera Putin un omicida seriale, in un paese, la Russia, dove se ti opponi al potere ti garantisci una brutta fine, al di là di una valutazione specifica e circostanziata dei fatti. Spesso contro ogni evidenza logica e razionale, e senza prove materiali e documentabili. La propaganda occidentale è molto abile nella costruzione del "mostro" come parte della guerra psicologica per delegittimare moralmente i suoi nemici, per togliere loro ogni manto di umanità e giustificare le proprie guerre di sterminio in nome dell'Umanità agli occhi della opinione pubblica occidentale.
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Come è stato possibile che le
scuole e le università dell’occidente anglosassone (USA e UE)
siano pervenute allo stato di morte cerebrale nel quale
versano? Quali
fattori storici, prospettive pedagogiche, dinamiche sociali e
mediatiche hanno condotto a un esito che si può certamente
definire tragico per
le nostre società?
Un libro di quasi trent’anni fa, tradotto soltanto ora in Italia, risponde a tali domande con una chiarezza persino lancinante. Eric Donald Hirsch mostra, sulla base di una documentazione amplissima e rigorosa, che quanto i pedagogisti che si autoproclamano ‘progressisti’ spacciano come ‘novità’ sono idee in realtà assai vecchie. Esse si riassumono in due prospettive: il formalismo dell’‘imparare a imparare’ e il naturalismo che ritiene bene tutto ciò che nel bambino non subisce l’intervento dell’educatore.
Per quanto riguarda il formalismo, «sapere come imparare» è «un’abilità astratta che neanche esiste» e che tuttavia viene ritenuta da molti pedagogisti (e anche insegnanti) «più importante che avere un ampio fondamento di conoscenze fattuali che davvero consentono l’apprendimento ulteriore» (E.D. Hirsch Jr., Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, trad. e cura di P. Di Remigio e F. Di Biase Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2024, p. 228).
Il naturalismo consiste nella convinzione «che la natura umana fosse innatamente buona, e dovesse dunque essere incoraggiata a seguire il suo corso naturale, non contaminata dalle imposizioni artificiali del pregiudizio e della convenzione sociale» (87).
Il formalismo è frutto di una didattica di forte impronta scientista ma con nessun fondamento scientifico, neppure nella psicologia. Il naturalismo educativo è la conseguenza del Romanticismo europeo che con Pestalozzi, Herbart, Froebel ha permeato di sé la pedagogia e la pratica educativa negli Stati Uniti d’America almeno a partire dal 1918.
Goffredo Fofi ci ha lasciati
venerdì. È stata la prima notizia che ho appreso aprendo il
cellulare. Intellettuale eclettico e sfaccettatato, radicale e
marxista
eterodosso, Fofi è stato saggista, attivista, giornalista e
critico cinematografico, letterario e teatrale italiano.
In tanti lo stanno ricordando in queste ore. Molti utilizzando parole di circostanza e format biografici. Pochi tracciandone ritratti sinceri e affettuosi.
Chi scrive vuole ricordare Goffredo per come lo ha conosciuto. Brevemente, di persona, una sera. Molto attraverso la sua scrittura, le sue riviste, le sue recensioni, i suoi testi.
Correva l’anno 1998, se la memoria non m’inganna. Lavoravo come critico ormaida qualche anno e avevo anche tenuto un corso all’Accademia di Belle Arti insieme all’amico regista Francesco Saponaro, presso la cattedra di Storia e Tecnica della Regia del professor Giulio Baffi, critico teatrale di Repubblica e mio mentore e amico.
All’epoca conoscevo Goffredo Fofi solo di nome per averne frequentato la scrittura felice e articolata, l’acutissima analisi critica e inesorabile come un giudizio divino, durante la lettura delle sue numerosissime recensioni cinematografiche, teatrali, letterarie.
O delle riviste da lui create: Ombre rosse e Quaderni Piacentini (nate negli anni ’60 e le cui pubblicazioni sono proseguite fino ai primi anni ’80, e di cui ero riuscito a procurarmi alcuni numeri grazie ad amici teatranti che avevano attraversato gli anni ’70); ma principalmente Linea d’ombra, a me più vicina come epoca essendo nata proprio negli anni ’80.
Lo avevo incrociato in più di un’occasione, durante convegni e iniziative politico-cullturali. In luoghi istituzionali e convenzionalmente borghesi o in spazi in cui l’antagonismo giovanile e il pensiero divergente sperimentavano nuove pratiche associative e comunitarie, in quegli anni ’90 che provavano a reagire alla straripante affermazione della dottrina neoliberista seguita alla caduta dell’Urss.
Cosa significa
sovversivo e cosa e chi è davvero sovversivo?
Certo è un concetto scivoloso, contraddittorio, soprattutto
pericoloso.
Ma anche chiarissimo.
Libertà, diritti dell’uomo (in tutte le declinazioni possibili), autonomia, autogoverno, anticapitalismo, uguaglianza, emancipazione e liberazione, pensiero critico, responsabilità verso la Terra e gli altri, solidarietà, immaginazione, utopia, resistenza anche passiva (e quindi non solo quella che celebriamo ogni 25 aprile), empatia, solidarietà, sciopero, lotta di classe, persino democrazia sono concetti e principi considerati spesso e sempre più sovversivi – per tacere di rivoluzione. Sovversivi ovviamente per chi associa a sovversione la distruzione dell’ordine dato, o una minaccia ai propri interessi e privilegi, al proprio potere – come Trump che manda i marines a combattere quelli che considera i sovversivi criminali di Los Angeles che protestano contro le disumane deportazioni in massa dei migranti e quindi contro le sue politiche autocratiche e fasciste. Ma sovversive anche per quei molti che preferiscono fuggire dalla libertà (e rimandiamo a Erich Fromm) e dalla fatica di pensare con la propria testa (e rimandiamo a Kant) e cercano/invocano qualcuno (oggi un populista/sovranista, un neo-fascista/tecno-fascista o un tecnocrate o una app o l’intelligenza artificiale o un coach o un influencer) che pensi e decida e agisca per loro, tanto basta pagare, perché la minorità (come la rassegnazione) è comoda e non crea problemi.
Ma sovversivo ha – etimologicamente – anche un senso positivo di alterare/rimuovere qualcosa di sbagliato, ovvero: sovvertire illibertà, ingiustizia, eteronomia, sfruttamento, ecocidio dovrebbe essere un principio e un imperativo umano e politico di indubitabile e universale potenza etica e morale. E quindi – in questo senso appunto positivo e trasformativo – sovversivo è stato certamente Socrate; sovversivi sono stati Gandhi e Martin Luther King e prima di loro Marx, e poi la Scuola di Francoforte – arrivando (elenco molto parziale) a Greta Thunberg e agli scienziati del clima che ci allarmano sulla devastazione ambientale che il sistema tecno-capitalista e tutti noi con esso stiamo producendo e che ci chiedono quindi di cambiare radicalmente il modello economico.
A ennesima conferma di come si tratti di una delle situazioni più complesse da dirimere, perché porta in nuce tutti i danni provocati dal colonialismo europeo ottocentesco, a cui si aggiunge l’esistenza di Israele, stiamo assistendo ancora una volta a una serie di sommovimenti che, sommandosi, tessono una trama intricatissima.
Messa in pausa la guerra con l’Iran, adesso l’obiettivo USA è porre fine a quella di Gaza. Il disegno strategico statunitense è sempre lo stesso, gli Accordi di Abramo, ma con alcune significative variazioni nel quadro generale. Come riferisce Axios – pubblicazione USA assai vicina ai servizi segreti – nel corso del lungo viaggio di Netanyahu a Washington (stavolta, come si è visto, senza grandi onori pubblici), si starebbero stabilendo le condizioni per arrivare al cessate il fuoco. In particolare, si riferisce di incontri serrati tra Ron Dermer, stretto consigliere di Netanyahu, Steve Witkoff e un funzionario del Qatar, paese che sta mediando tra le parti e che ha riferito le richieste della Resistenza palestinese. Il punto cruciale rimasto da risolvere sembra essere l’entità del ritiro israeliano; Tel Aviv insiste per mantenere il controllo del corridoio Morag, che serve a enucleare una vasta zona nel sud della Striscia, destinata – nel disegno israeliano, delineato nel piano Smotrich – a diventare un gigantesco campo di concentramento. Mentre sia la Resistenza che l’amministrazione USA sono, per ragioni ovviamente diverse, contrarie. Naturalmente, trattandosi di Israele (e in questo gli USA non sono granché differente), l’affidabilità di eventuali accordi sottoscritti è estremamente labile, e potrebbero essere stracciati non appena lo ritenessero utile o possibile.
È difficile dire in poche battute cosa rappresenti la scomparsa di Goffredo Fofi per chi ha condiviso, grazie al suo esempio, un’idea di cultura e di pratica politica fondate sull’irrequietezza e sulla non-accettazione. “Non accetto”: questa formula capitiniana era, del resto, alla base della lezione che Goffredo, maestro involontario di disobbedienza civile, ha impartito nel tempo e ha ripetuto in modo sempre più vigoroso negli ultimi anni, rendendosi sempre disponibile e garantendo il suo generoso supporto alle nuove avventure editoriali, alle nuove riviste, ai nuovi gruppi di intervento sociale, alle iniziative di minoranza che, lungo tutto il Paese, gli sembrava giusto sostenere perché capaci di “dire no” alla calma normalizzata.
Abbiamo imparato tutti da Goffredo a pensare il “culturale” e il “sociale” in termini meno astratti, anche perché la sua biografia metteva, a partire dall’esperienza siciliana con Danilo Dolci, l’uno e l’altro insieme. Qualsivoglia tentativo di separare le manifestazioni culturali dalle determinazioni sociali appariva ai suoi occhi come un sintomo di regresso e di stordimento collettivi. Ma quel che gli provocava più rabbia – perché aveva visto, nell’Italia degli anni Cinquanta e della sua formazione, un modo diverso di intendere le pratiche culturali, poi disatteso – era, nella cultura contemporanea, l’assuefazione al “particulare” e il venir meno di un’attitudine autocritica. Per evocare uno dei suoi libri più sentiti, la viltà, insieme al servilismo e all’egoismo, costituiva una zona grigia da esplorare per comprendere i percorsi della società attuale: la cultura ridotta a spettacolo e a sedativo generalizzato ne era un riflesso.
Gli "amici" di instagram mi propongono massicciamente interviste del giornalista inglese Pierce Morgan, in genere celebre per le sue posizioni assai moderate, accompagnate da un atteggiamento aggressivo che mira a mettere in difficoltà - in genere riuscendoci - l'interlocutore.
Ciecamente pro-Israel per anni, negli ultimi mesi prende letteralmente a pesci in faccia i rappresentanti del governo genocidario. Lo fa in una maniera così spietata e senza possibilità di appello che è un piacere ascoltarlo, perché ammutolisce gli interlocutori mettendoli di fronte alla loro ipocrisia (loro che si illudevano di trovare il solito lecchino).
In realtà anche questo rischia (se non lo è intenzionalmente) di risolversi in propaganda. Il godimento nel vedere questi loschi figuri messi alla berlina non sortisce alcun effetto pratico, se non quello di dare uno sfogo innocuo alla rabbia degli indignati.
Infatti, i personaggi da intervistare e prendere a pesci in faccia dovrebbero essere i vari governanti occidentali che non solo fanno finta di niente, ma avallano, se non addirittura lucrano, sul massacro. Loro potrebbero essere spinti a fare qualcosa (embargo, cessazione delle forniture e milla altre cose). E il pubblico potrebbe essere spinto (ma non lo è) a fare pressione in questo senso.
Alla fine è un anestetico per chi è arrabbiato e anche una autogiustificazione a cose fatte ("noi ci siamo opposti, dicendolo direttamente al governo israeliano", mentre il governo nostro è pappa e ciccia con il loro).
Dagli ultimi dati dell’Employment Outlook 2025 OCSE (vedi qui: https://www.oecd.org/en/publications/oecd-employment-outlook-2025_194a947b-en/full-report.html) emerge come l’Italia abbia registrato il maggior calo dei salari reali, che restano ancora inferiori del 7,5% rispetto al 2021.
Sembrerebbe una notizia come le altre, alle quali siamo ormai abituati, se non fosse che confrontando la dinamica salariale dell’OCSE stessa nella fase precedente, cioè dal 1990 al 2020, troviamo sempre l’Italia come fanalino di coda nelle dinamiche salariali all’interno dei Paesi UE (vedi grafico). In sostanza, in termini di salari reali siamo stabilmente piantati nella posizione di ultimo Paese dell’UE dal 1990, cioè dal primo anno post caduta del Muro di Berlino ad oggi. Indubbiamente ha pesato la deflazione salariale, la perdita di sovranità, la delocalizzazione e tutte le dinamiche analizzate negli scorsi anni, ma di fronte a dati di un tale impatto storico occorrerebbe rilanciare l’analisi e la discussione, quantomeno per tentare di far ripartire delle politiche pubbliche che prendano in considerazione il problema. Infatti, senza investimenti statali, dalla deflazione salariale non è naturalmente scaturita alcuna forma di attrazione delle imprese multinazionali sul territorio. Così come senza un adeguato intervento di politiche pubbliche volte alla creazione di contesti attrattivi non vi è stato altro che desertificazione industriale.
È un
centenario drammatico, quello che celebra la nascita di
Frantz Fanon, avvenuta in Martinica il 20 luglio del 1925. È
drammatico per
l’ovvio, evidente e traumatico rimando a quanto sta
avvenendo a Gaza dal 7 ottobre 2023 in poi. Ed è drammatico
perché ci obbliga
a un contatto diretto con la parte più urticante del
pensiero e della vita dello psichiatra antillano: quella dei
muscoli che si flettono in
attesa di assestare la zampata, quella dell’«uomo con la
roncola», preoccupato di averla a portata di mano, quando
«sente un
discorso sulla cultura occidentale» (Frantz Fanon, I dannati
della terra, Torino, p. 10)
È inutile far finta di niente. I cinquantenari e i centenari che si susseguono senza posa nel primo secolo del nuovo millennio, ci abituano a srotolare la pellicola del Novecento come turisti della Storia. La cosa è ambiguamente piacevole. Attiva la nostalgia. Giustifica la malinconia. Produce uno spaesamento pensoso che in fondo è rassicurante, nella misura in cui legittima la contemplazione scettica dei sacrifici e dei fallimenti accumulati dalle generazioni precedenti.
Con Fanon, adesso, questa recita è impossibile. È come se, per un malvagio tiro giocato dal caso ai dipartimenti dei cultural studies, dovessimo nuovamente sbattere la testa sulle parole dure: sullo scandalo della violenza che disintossica1, sull’eresia che mette in quarantena le etiche immacolate, perché «il bene è semplicemente quel che a loro fa male»2.
Certamente, sono posizioni che vanno inserite nel loro contesto. E il contesto è quello della guerra d’Algeria. Centinaia di migliaia di morti fra la popolazione e i combattenti in lotta per l’indipendenza nazionale. I francesi che reagiscono con i massacri, con i linciaggi degli arabi organizzati dai coloni, con la tortura praticata regolarmente sui militanti del Fronte di Liberazione Nazionale, ma anche, in larghissima scala, sulla popolazione civile. L’FLN algerino risponde usando tutti i mezzi, e giungendo anche all’uccisione di civili francesi, con bombe piazzate nei bar dei pieds-noirs e accoltellamenti casuali dei coloni, sorpresi mentre passeggiano nei loro quartieri tranquilli e blindati. Molto crudo, n’est-ce pas? E non va dimenticato che i comunisti francesi erano schierati dalla parte del loro governo, e avevano votato a favore delle misure di repressione dell’insurrezione algerina.
La NEP è
anche un
periodo in cui emergono, in modo
particolarmente rilevante,
questioni e problemi a ogni livello, dal più
superficiale e risolvibile con cambi di mansione o
correzione di singoli comportamenti, a
quello più profondo e strutturale, irrisolvibile senza
modifiche sostanziali, ovvero altrettanto strutturali, al
modo di produzione
stesso.
Un modo di produzione ibrido non è destinato a durare a lungo: su questo concorda l’attuale storiografia incentrata sull’esperienza sovietica, prevalentemente autoctona (anche perché fuori dal perimetro russo han preso l’argomento, preparato la colata di cemento e chiuso tutto nella prima cassaforma a disposizione), ivi compresa la sua maggior parte revisionistica:
Parliamo, nella fattispecie, di quella storiografia russa démodé, figlia della restaurazione capitalistica di fine secolo, che declina alla sua maniera l’accademismo liberale-liberista-libertario di inizio anni Novanta e che tutt’ora campa nelle sue università e “fondazioni” eterofinanziate (e con marcato accento anglofono).
Parliamo però anche di una storiografia più recente, più à la page che, pur non disdegnando quanto fatto dalla “gestione precedente”, a partire dal Nobel con la voglia sulla pelata fino all’ubriacone che finì il lavoro sporco, è tuttavia nostalgica dei bei tempi andati, più che altro in termini di prestigio e potenza internazionali.
Entrambe queste storiografie, sulla falsariga della “libertà” o dell’esperienza cinese, periodicamente convergono su come sarebbe potuta essere la propria NEP se avesse vinto Bucharin, magari passando direttamente da Bucharin a Soros, nel primo caso, o da Bucharin a Putin, nel secondo, senza passare dal via del socialismo realizzato1. Di fatto, auspicando una transizione al capitalismo, e poco conta se oligarchico e transnazionale o capitalistico di Stato, che sarebbe dovuto essere la morte naturale della NEP, anziché e al posto dell’instaurazione della proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione e della conduzione pianificata degli stessi. Come diceva un sensei nippo-statunitense in un film d’altri tempi, non si può camminare a lungo in mezzo alla strada. O di qua, o di là.
L’articolo di Marco Veruggio che abbiamo ripreso da Micropolis ha, tra l’altro, il grande pregio di stimolare riflessioni su temi di carattere fondamentale come “scuola”, “riarmo”, “impresa pubblica” ecc… A questi l’estroverso europarlamentare leghista Roberto Vannacci, già generale dell’esercito, ne aggiunge un altro, sintetizzato nel termine “Patria”. Sappiamo che Patria non è un vocabolo qualsiasi, è un sistema di valori, quei valori che qualcuno pensa si debbano rilanciare, perché rischiano di essere dimenticati e quindi anche lui, l‘onorevole, come i portavoce di Leonardo, vorrebbe andare nelle scuole – dicono i media – per parlarne coi giovani.
Non vorrei trovarmi nei panni di una/un preside messi di fronte alle richieste di una grande azienda come Leonardo e di un personaggio come Vannacci di poter parlare agli iscritti durante le ore di lezione. Scelta imbarazzante se far parlare l’uno o l’altro o ambedue. Confesso che se mi trovassi al posto di quei presidi risponderei “No, grazie” ma, se fossi costretto da circolare ministeriale a scegliere, preferirei Leonardo perché l’idea che qualcuno ricominci a voler instillare nei giovani l’amor di patria mi provoca una reazione istintiva. Il termine “Patria” mi evoca immediatamente l’immagine di cimiteri di guerra, quelle distese di croci che abbiamo visto tante volte, tombe d’infelici che sono andati ad ammazzare e sono stati ammazzati in nome della Patria. Mi evoca l’immagine dell’Ossario dei Caduti d’Oltremare di Bari, dove giacciono i poveri resti del fratello di mia madre, caduto negli ultimi giorni della campagna d’Africa, a El Ghennadi, 9 maggio 1943. Aveva 21 anni. In quei cimiteri di guerra raramente trovi sepolti dei generali. Quelli, chissà perché, dalle guerre tornano quasi sempre vivi.
Dal rispetto delle regole fondamentali del diritto internazionale alla tenuta delle istituzioni finanziarie globali, fino alla progressiva sostituzione del dollaro e a un sistema di pagamenti autonomo, in grado di resistere a sanzioni unilaterali. Il summit del 6 e 7 luglio ha prefigurato nuovi scenari che l’Occidente fa finta di non vedere.
Rappresentano il 50% della popolazione mondiale e poco meno del 45% della ricchezza prodotta a livello planetario. Si sono riuniti a Rio de Janeiro il 6 e il 7 luglio ma sui media italiani, salvo eccezioni (il manifesto ad esempio vi ha dedicato la prima pagina), quasi non ne compare traccia. Si tratta del vertice dei Brics che ha riunito tutto ciò che, semplificando, si può definire “non occidentale”. Il sostanziale silenzio dei media è quindi davvero incredibile anche perché da quel vertice sono uscite almeno tre cose di grande rilievo.
La prima, davvero sorprendente, è costituita dal fatto che proprio i Brics stanno invocando il rispetto del diritto internazionale e del multilateralismo, arrivando persino a “difendere” le istituzioni di Bretton Woods, le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In altre parole, le principali realtà produttive del Pianeta, che non hanno, nella stragrande maggioranza dei casi, contribuito né alla definizione degli assetti successivi alla Seconda guerra mondiale, né alla stesura delle regole fondamentali del diritto internazionale e tantomeno alle istituzioni finanziarie globali, chiedono, ora, di fronte al disastro dell’Occidente, di rispettare quelle norme di convivenza collettiva e quelle istituzioni per evitare il collasso dell’umanità.
Il loro raffinato modello di guerra ibrida comporterà sforzi per vincere la “corsa tecnologica”, una nuova divisione del lavoro occidentale per contenere la Russia in Europa e guerre informative anti-russe generate dall'intelligenza artificiale
La ricchezza di risorse naturali della Russia e il suo nuovo ruolo nell'accelerare i processi multipolari incentivano l'Occidente a continuare la sua guerra ibrida contro la Russia anche in caso di pace in Ucraina. La fazione neoconservatrice degli Stati Uniti e i globalisti liberali dell'Unione Europea (che al momento sono sostanzialmente la stessa cosa) continuano a percepire la Russia come un rivale da contenere e, idealmente, da smembrare. Per questo motivo, si prevede che nel prossimo futuro affineranno la loro guerra ibrida contro la Russia attraverso i seguenti tre mezzi.
Il primo riguarda i loro sforzi per vincere la “corsa tecnologica”, in particolare in termini di intelligenza artificiale e Internet delle cose, che secondo loro gli consentirà di guidare la “Quarta rivoluzione industriale” (4IR). Il conseguente vantaggio economico e militare che prevedono dovrebbe, secondo loro, “lasciare la Russia in ginocchio”. Credono che alla Russia seguirà inevitabilmente l'instabilità economica e poi politica. Ciò potrebbe assumere la forma di rivoluzioni colorate, rinnovate insurrezioni terroristiche e/o lotte intestine incontrollabili tra le élite.
Il secondo aspetto riguarda la divisione dei compiti dell'Occidente nel contenere la Russia. Gli Stati Uniti “guideranno da dietro” fornendo supporto back-end ai loro partner europei junior, poiché danno la priorità al contenimento della Cina.
L’ex ispettore capo dell’Onu in Irak nel 2003 mette in guardia: l’Occidente rischia di ripetere gli stessi errori del passato
Dopo l’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, Hans Blix lancia un allarme all’Occidente attraverso Krisis. L’ispettore capo dell’Onu in Irak fra il 2000 e il 2003 spiega che l’Iran non ha violato il Trattato di non proliferazione e che non ci sono prove di un programma militare iraniano in corso. E colpire Teheran rischia di produrre effetti opposti a quelli desiderati. L’ambasciatore svedese propone una soluzione diplomatica: istituire una zona denuclearizzata in Medio Oriente, alla quale dovrebbe aderire anche Israele.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non pare avere dubbi: l’Iran sta per «trasformare l’uranio arricchito in arma nucleare» e «se non fermato, potrebbe produrre un’arma nucleare nel giro di poco tempo». Parole che riecheggiano quelle pronunciate prima dell’invasione dell’Irak nel 2003, che peraltro Netanyahu sostenne con forza. Una delle voci più autorevoli che si oppose all’invasione, basata su accuse infondate per cui l’Irak sarebbe stato in possesso di armi distruzione di massa, era quella di Hans Blix.
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Non solo RAI, La7,
Mediaset
La BBC, magistra informationis, che mi avviò, con notevole rigore e ricchezza di istruzioni, al mestiere che da quegli anni ’60 cerco di praticare, quanto meno con integrità, è sotto schiaffo. Uno schiaffone non da poco, somministrato nientemeno che da oltre un centinaio di suoi giornalisti, alcuni tra i più prestigiosi e da più di 300 professionisti del reparto audiovisivo. Il documento, pubblicato su tutti i media, denuncia dell’augusta “Auntie” (zia, come la si chiama da sempre) le indecenti manipolazioni, falsità, distorsioni, gli occultamenti. Il tutto sotto il titolo “Disinformazione sistematica dell’informazione BBC sul conflitto israelo-palestinese e, specificamente, su Gaza”.
I rimproveri, a volte dure proteste, mirati personalmente al direttore generale Tim Davie e che chiedono le dimissioni di Sir Robbie Gibb, Consiglier d’Amministrazione e già capo delle Comunicazioni del governo tory di Theresa May, parlano di strutturale faziosità filo-israeliana e filoccidentale, di censure editoriali, pressioni interne e silenziamento delle voci fuori dal coro, con minacce di rappresaglie a chi non sta agli “ordini di servizio”.
“Ci hanno negato il nostro lavoro di giornalisti. Ci hanno censurato articoli critici di Israele. Si pretende da noi una neutralità che in realtà si traduce nell’invisibilizzazione della sofferenza dei palestinesi e della loro resistenza”, dichiara il testo. Con particolare indignazione viene poi menzionata la cancellazione del documentario “Medici sotto attacco”, che documenta le distruzioni e stragi israeliane di tutti gli ospedali di Gaza.
Il documento, che solo un’allucinazione potrebbe immaginare ripetuto dai giornalisti e dipendenti del nostro servizio pubblico e magari indirizzato anche a Enrico Mentana, così conclude: “Siamo collassati in termini dei nostri tradizionali standard deontologici. Non stiamo informando con correttezza e contesto, né rappresentando le vittime palestinesi con umanità. Si priorizza la protezione di Israele da qualsiasi critica piuttosto che riferire la verità”
Il rifiuto da parte
dell'amministrazione Trump di rendere pubblici i documenti e i
video raccolti durante le indagini sulle attività del pedofilo
Jeffrey Epstein
dovrebbe mettere fine all'idea assurda, abbracciata dai
sostenitori di Trump e dai liberali creduloni, che Trump
smantellerà il Deep State.
Trump fa parte, e da tempo, della ripugnante cricca di
politici – democratici e repubblicani –, miliardari e
celebrità che guardano
a noi, e spesso a ragazze e ragazzi minorenni, come merce da
sfruttare per profitto o piacere.
L'elenco di coloro che gravitavano nell'orbita di Epstein è un vero e proprio Who's Who dei ricchi e famosi. Tra questi figurano non solo Trump, ma anche Bill Clinton, che avrebbe fatto un viaggio in Thailandia con Epstein, il principe Andrea, Bill Gates, il miliardario degli hedge fund Glenn Dubin, l'ex governatore del New Mexico Bill Richardson, l'ex segretario al Tesoro ed ex presidente dell'Università di Harvard Larry Summers, lo psicologo cognitivo e autore Stephen Pinker, Alan Dershowitz, il miliardario e amministratore delegato di Victoria's Secret Leslie Wexner, l'ex banchiere di Barclays Jes Staley, l'ex primo ministro israeliano Ehud Barak, il mago David Copperfield, l'attore Kevin Spacey, l'ex direttore della CIA Bill Burns, il magnate immobiliare Mort Zuckerman, l'ex senatore del Maine George Mitchell e il produttore hollywoodiano caduto in disgrazia Harvey Weinstein, che si divertiva nei perpetui baccanali di Epstein.
Tra questi figurano anche studi legali e avvocati di alto livello, procuratori federali e statali, investigatori privati, assistenti personali, addetti stampa, domestici e autisti. Tra questi figurano anche numerosi procacciatori e protettori, tra cui la fidanzata di Epstein e figlia di Robert Maxwell, Ghislaine Maxwell. Tra questi figurano anche i media e i politici che hanno spietatamente screditato e messo a tacere le vittime, e hanno usato la forza contro chiunque, compresi alcuni giornalisti coraggiosi, cercasse di smascherare i crimini di Epstein e la sua cerchia di complici.
Molte cose rimangono nascoste. Ma alcune cose le sappiamo.
Il
saggio Covid-19 Modello Italia (di Marina
Manera, edizioni V-piccola biblioteca della Torre, pag
224, euro 15) ripercorre i tristi primati
italiani che nel biennio 2020-2021 hanno fatto dello
Stivale un modello negativo nel mondo, da tutti i punti di
vista: gestione pandemica, risultati
sanitari, ripercussioni economiche, impatto psico-sociale.
Con strascichi numerosi e dolorosi.
Anche chi all’epoca si era mantenuto lucido può aver dimenticato nel tempo tanti dettagli di quello sfoggio di «autoritarismo alla cinese ma con efficienza "all’italiana"», un misto di «tragedia e farsa» nel quale le disposizioni più repressive d'Europa che si pretendevano prevenzione e cura sono «andate a schiantarsi trascinandoci all'ultimo posto della classifica europea per decessi». Il saggio è certo destinato a risultare troppo indigesto a chi ha accettato convinto la manipolazione e dunque non ammetterà mai di essere stato vinto dall'inganno, ma la storia va ricordata: troppe volte, per dirla con Gramsci, «è maestra ma non ha allievi». Le domande che l'autrice rivolge alla fine di diversi capitoli servono un po' da Bignami pro-memoria; così come le centinaia di note.
La descrizione del metodo scriteriato messo in atto da governi, media, addetti ai lavori viene preceduta dal monito di Hannah Arendt: «Mentire ha lo scopo di far sì che nessuno creda più a nulla; ma un popolo così non può più distinguere il bene e il male ed è completamente sottomesso all’impero della menzogna». Un altro punto di riferimento dell'autrice sono i numerosi scienziati e medici che proposero tutt'altra maniera di affrontare l'emergenza. Ma anche il filosofo Giorgio Agamben che coraggiosamente ha parlato di «enorme esercitazione, laboratorio di ingegneria sociale, insieme alla militarizzazione territorio e alla segregazione delle persone».
Con i lineamenti di un giallo distopico, la ricostruzione inizia dalla comunicazione della Cina all’Oms il 31 dicembre 2019, circa un innominato virus. Si scatena allora l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ed entra subito in gioco l'Italia.
Il contributo offerto
dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il
Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio
del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro
sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra
mondiale: l’assalto al
cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni,
le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in
via di sviluppo; la
regressione del movimento comunista e la controffensiva
capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate
dalla supremazia del capitalismo),
rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per
l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito
specifico del
movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con
le soggettività del movimento che intendono sviluppare una
riflessione,
non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non
dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e
ricomporre terreni
unitari.
Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.
Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti e istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.
Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento? La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.
Ci sono luoghi comuni che resistono a qualsiasi smentita da parte dell’esperienza. In particolare sopravvive la falsa convinzione che gli Stati regolino la loro politica per mezzo di processi decisionali, che potranno essere trasparenti oppure oscuri a seconda dei casi. Fortunatamente però ogni tanto qualcuno ci viene a raccontare come funzionano veramente le cose. Sul quotidiano “Times of Israel” del 18 maggio scorso un tale Lazar Berman intratteneva i lettori sulla questione della apparente impasse determinatasi per Israele a causa di alcuni comportamenti di Trump, che sembrava intenzionato a privilegiare gli affari multimiliardari con le monarchie del Golfo invece che i desiderata di Netanyahu, che per gli USA rappresenta un costo pesante. L’articolo perveniva però a una conclusione rassicurante per il lettore sionista; in quanto, al di là dei personali desideri di Trump, alla fine Israele potrebbe far valere ugualmente il suo punto di vista semplicemente tenendo in mano l’iniziativa, ovvero mettendo tutti davanti al fatto compiuto. Come a dire che gli Stati non sono veri soggetti politici, e tutto funziona come in un gruppazzo di adolescenti, nel quale comanda il più bullo e tutti gli altri cercano di salire nella gerarchia facendo a gara a compiacerlo.
L’articolo di Berman infatti si è rivelato fondato e persino preveggente, nel senso che meno di un mese dopo Israele ha potuto far saltare il tavolo negoziale tra USA e Iran procedendo ad un attacco ed ad un tentativo di decapitazione del regime di Teheran.
Trump punta a usare i dazi per dividere l’Unione europea e rafforzare la dipendenza economica e politica degli Stati europei dagli Stati Uniti
Esiste nel mondo una chiara volontà di distruggere l’Europa e di farne una colonia. E questa volontà parte dall’altra sponda dell’Atlantico. È sempre più evidente, infatti, che gli Stati Uniti intendono smembrare l’Unione europea e sostituirla con la Nato. O con qualcosa di simile. I dazi al 30% (conservando peraltro quelli già esistenti al 50%) sono lo strumento che Trump intende utilizzare per convincere i singoli Paesi europei a trattare, uno a uno, con il governo americano nella speranza di strappare condizioni di favore.
Ecco la strategia trumpiana. Le imposizioni dei dazi si basano sull’idea, tutt’altro che peregrina, che le economie dei vari Paesi europei non possano fare a meno della loro quota di esportazioni verso il mercato statunitense. A cui va aggiunta la pervicace chiusura verso la Cina da parte dei gruppi dirigenti dei diversi Stati del vecchio continente. Per questo diventa molto probabile che ogni singolo Paese arriverà a mettere in discussione la tenuta complessiva dell’Unione, e dell’Eurozona, provando a ottenere deroghe solo per le proprie produzioni. In estrema sintesi, Trump ha capito la profonda dipendenza degli europei dagli Stati Uniti, e il loro servilismo. E vuole utilizzare i dazi per porre fine a qualsiasi esperienza di Europa condivisa.
Aut si inaniter
timemus certe vel timor ipse malum est
quo incassum
stimulatur et excruciatur cor
et tanto
gravius malum quanto non est
quod timeamus et
timemus
(anche se abbiamo paura senza motivo il male è la
paura stessa
che punge e disturba invano il cuore: un male tanto
più grave in
quanto
ciò che temiamo non esiste davvero
eppure ci
spaventa lo stesso).
Agostino
(Confessioni,
VII, 5.7)
Il generale Fabio Mini è nato nel 1942; quando, nel 1963, dopo l’Accademia Militare a Modena, è entrato stabilmente nelle file dell’esercito italiano, erano gli anni del c.d. boom economico e della guerra fredda fra i due blocchi. Il primo esperimento di un governo di destra (quello di Tambroni) era fallito dopo soli tre mesi di vita, travolto dalle manifestazioni popolari che avevano riempito le piazze di tutto il paese, da nord a sud; a Genova quasi ci fu un’insurrezione per impedire il congresso del MSI, a Reggio Emilia in cinque caddero il 7 luglio sotto i colpi della polizia di stato, entrando stabilmente nella leggenda.
Alessandro Colombo illustra la tesi che quella attuale non è già più, ormai, l’epoca della crisi dell’ordine internazionale liberale, bensì l’epoca della sua fine. Che significa, tanto per cominciare, fine dell’ordine come tale, con tutto ciò che comporta sempre la fine di un ordine internazionale: la crisi del controllo, la tendenza alla militarizzazione, il collasso delle regole. E, in più, significa ripiegamento del contenuto liberale di quell’ordine, che si manifesta tra le altre cose nella crisi del multilateralismo e nello smontaggio della globalizzazione
Nonostante i richiami sempre più irrealistici alla sua resilienza, l’ordine internazionale liberale concepito alla fine della Seconda guerra mondiale e apparentemente “liberato” dalla scomparsa dell’Unione sovietica è ormai definitivamente crollato. E lo ha fatto, sarà bene ricordarlo, dopo una parabola sorprendentemente breve di ascesa e declino. La condizione di superiorità senza precedenti della quale avevano goduto gli Stati Uniti e i loro alleati all’indomani della scomparsa dell’Unione sovietica non aveva impedito infatti al Nuovo Ordine Mondiale di entrare in crisi già pochi anni più tardi, grossomodo alla metà del primo decennio del XXI secolo, sotto i colpi di due fallimenti maturati pienamente al proprio interno: la guerra in Iraq a partire dal 2003 e, ancora di più, la crisi economico-finanziaria del 2007-08. Nel decennio successivo, lo smottamento dell’edificio aveva aperto lo spazio al riemergere di competitori sia su scala regionale (come la Russia) sia, almeno potenzialmente, su scala globale (come la Cina), mentre ciò non aveva tardato a reinnescare proprio ciò che dieci anni prima era stato precipitosamente escluso, una nuova competizione tra grandi potenze.
Secondo quanto scrive il giornale svizzero Neue Zürcher Zeitung, Kiev ha solo due opzioni per impedire lo sfondamento delle truppe russe. La prima è una significativa ritirata operativa, che richiede però innanzitutto una decisione politica – difficile da attendersi da Zelensky – e soprattutto una grande capacità organizzativa e logistica. E, ovviamente, una linea fortificata su cui attestarsi, significativamente arretrata rispetto all’attuale linea di combattimento. La seconda, ancora più radicale, è un completo ridispiegamento oltre il Dnepr, sulla riva destra del fiume, facendone quindi una sorta di confine de facto tra quel che resta dell’Ucraina e i territori sotto controllo russo. Questo, naturalmente, è un punto di vista occidentale, per quanto razionalizzante.
Va innanzi tutto detto che questa seconda ipotesi deve chiaramente intendersi non in senso letterale, ma limitatamente all’area del Donbass; in pratica, le forze ucraine dovrebbero arretrare verso ovest, attestandosi al di là del fiume nel tratto che va sostanzialmente da Dnipro a Zaporizhia. Si tratta del braccio di fiume che scende quasi verticalmente da nord a sud, mentre più su di Dnipro piega decisamente a nord-ovest, arrivando sino a Kiev, mentre oltre Zaporizhia piega a sud-ovest arrivando a Kherson. Per dare un idea, tra il tratto Dnipro-Zaporizhia e la linea difensiva Sloviansk-Kramatorsk, che si trova ormai a ridosso della linea di contatto, ci sono circa 180 km. Una ritirata di questa portata, anche in condizioni migliori di quelle in cui si trovano attualmente le forze armate ucraine, significherebbe rischiare un massacro.
1. Esternalizzazione
dell’intrattenimento
Nella raccolta di frammenti pubblicata postuma col titolo Pensieri, Pascal scrive che gli uomini non avendo potuto rimediare alla morte, alla miseria, all’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci[1]. Aggiunge che questa funzione del non-pensare è delegata al divertissement:
La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertissement, che pure è la nostra più grande miseria. Infatti proprio questo, principalmente, c’impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla distruzione. Senza di questo saremmo nel tedio, e il tedio ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Invece la distrazione ci diverte e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte[2].
L’intrattenimento, dunque, ‹‹ci porta a perderci››, a fuggire, ad alienarci da noi stessi, dagli altri, dal tempo. L’essere umano, per paura delle ‹‹proprie miserie››, rimuove la coscienza dalla propria condizione e della propria mortalità.
Nella nostra contemporaneità la funzione dell’intrattenimento è stata completamente esternalizzata. Il compito di produrre divertissement viene gestito integralmente da quella che Adorno e Horkheimer chiamano ‹‹industria culturale››, i cui prodotti appunto, ci consolano dalle nostre miserie e costituiscono la più grande delle nostre miserie; detto altrimenti: ‹‹il piacere del divertimento promuove la rassegnazione che vorrebbe dimenticarsi in esso››[3].
Come sapeva Platone, non può esserci pensiero senza eros. In una società del desiderio esausto, in cui le passioni sono sostituite da impulsi da assecondare in una coazione ossessiva e soffocante – ciò che Mark Fisher chiama ‹‹edonia depressa››, ossia ‹‹l’incapacità di non seguire altro che il desiderio››[4] – il pensiero non può costituirsi. Ne consegue l’impossibilità di immaginare un mondo altro e, dunque, il bisogno della sua messa in forma, appunto il racconto di un’alternativa. Un secolo fa Walter Benjamin osservava che ‹‹la capacità di scambiare esperienze››[5] volgeva al tramonto; oggi quel tramonto è compiuto trascinando con sé l’attesa di una nuova alba.
L’obbiettivo del presente
intervento è quello di portare a tema la questione della
programmazione ecologica in Marx (accennando in apertura
anche alla concezione di
Engels). All’interno del primo (1867) e del terzo libro
del Capitale (1894) Marx va elaborando una
risposta al tema della distruzione
capitalistica della natura umana ed extra umana, a partire
dal governo razionale e pianificato dello Stoffwechsel
(metabolismo) tra uomo e
natura. In Engels il tema della programmazione economica è
affrontato nell’opera Antidüring (1878), dove
sulla scia di
Marx, egli allude al piano come una forma di produzione
sociale in cui i lavori privati divengono immediatamente
sociali e in cui viene superato il
sistema di produzione basato sulla merce, sulla logica del
valore e del lavoro astratto [1] . Il
tema in Marx si lega direttamente all’idea di superamento
del mercato come nesso sociale che regola la società
capitalistica che, come
tale, è un rapporto che avviene alle spalle degli attori
sociali, in cui domina il feticismo dove i rapporti
sociali tra persone vengono
mediati da oggetti particolari: le merci [2] .
La critica dell’economia politica marxiana ha come bersaglio la concezione gli economisti classici, ancorati all’analisi del prezzo di mercato. Alcuni di loro, come ad esempio Ricardo, riconoscono il valore-lavoro e lo ancorano a un prezzo naturale. Per Marx essi compiono «una tarda scoperta scientifica: che i prodotti del lavoro, in quanto lavori, non sono che espressioni materiali del lavoro umano speso nella loro produzione»; tale scoperta è per Marx epocale [3] . Tuttavia, gli economisti classici sono le prime vittime del feticismo del capitale, non comprendendo la differenza sostanziale tra l’immaterialità dei valori come tempo di lavoro socialmente necessario e la loro espressione sotto la forma della merce-denaro. Qui Marx bersaglia l’a storicità di tali posizioni, che non comprendono l’immanenza della legge del valore al solo modo di produzione capitalistico ma la estendono a ogni epoca della produzione umana. L’incomprensione si origina a partire dalla mancata cognizione di come il feticismo impatti sugli attori sociali, a cui sfugge il nesso complessivo della società in cui vivono.
Un’indagine condotta dal gruppo di ricerca finanziaria olandese Profundo e pubblicata dalle ONG olandesi BankTrack e PAX ha rilevato che un piccolo numero di banche d’investimento ha svolto un ruolo cruciale nell’aiutare Israele a soddisfare le “significative esigenze di finanziamento” derivanti dalla sua guerra a Gaza, fornendo significativi servizi di sottoscrizione allo Stato israeliano. (1)
La ricerca rileva che Israele ha emesso obbligazioni sovrane tra il 7 ottobre 2023 e il gennaio 2025 per un valore totale di 19,4 miliardi di dollari e rivela le sette banche che hanno sottoscritto queste obbligazioni per lo Stato israeliano. (2)
Goldman Sachs è di gran lunga la più grande istituzione quotata, avendo sottoscritto più di 7 miliardi di dollari in “obbligazioni di guerra” israeliane dall’inizio della guerra tra Israele e Gaza. Le altre istituzioni finanziarie individuate dall’indagine sono Bank of America, Deutsche Bank, BNP Paribas, Citi, Barclays e JPMorgan Chase.
Dal 7 ottobre 2023, quando i militanti guidati da Hamas hanno lanciato una serie di attacchi e massacri nel sud di Israele, uccidendo quasi 1.200 persone e prendendo in ostaggio 252 cittadini israeliani. Da allora, il bilancio militare di Israele è aumentato a dismisura mentre perseguiva un assalto su vasta scala alla Striscia di Gaza, che ha ucciso almeno 46.600 palestinesi e sfollato quasi l’intera popolazione palestinese nella regione prima dell’accordo di un fragile cessate il fuoco nel gennaio 2025. (3)
La Conferenza per la Ricostruzione dell’Ucraina (Ukraine Recovery Conference – URC 2025) ha visto riunirsi a Roma 100 delegazioni ufficiali, 15 Capi di Stato e di Governo, 40 organizzazioni internazionali, una quarantina di ministri inclusi tutti gli italiani e 8.351 persone accreditate inclusi 2.000 esponenti di aziende (per un quarto 500 italiani), con 120 stand espositivi.
I lavori, seguiti da 647 giornalisti, hanno visto la firma di 200 accordi di cooperazione, di cui 40 firmati da imprese italiane (tra cui Webuild, Ansaldo Energia, Leonardo, Eni, Ferrovie dello Stato, Enel, Prysmian e numerose PMI) per oltre 10 miliardi di euro (per il 25% stanziati dalla Ue) che verranno messi a disposizione per sostenere l’Ucraina e la sua ricostruzione.
Fondi peraltro del tutto insufficienti considerando che, secondo le stime della Banca Mondiale, i danni materiali inflitti all’Ucraina dall’inizio della guerra ammonterebbero a circa 500 miliardi di dollari: valutazione probabilmente stimata per difetto se si tiene conto che un simile ammontare era già stato stimato nel 2024.
Inoltre questa cifra non include le spese per la ricostruzione complessiva del Paese mentre l’agenzia di stampa Euractiv ha valutato le necessità infrastrutturali più urgenti in Ucraina nei settori dell’edilizia abitativa (danni stimati per 57 miliardi di dollari), dei trasporti (36 miliardi) ed energia e settore minerario (20 miliardi).
Ci sarebbero molte buone ragioni per guardare con prudenza a massicci investimenti in Ucraina (anche alla luce del fatto che Kiev vuole continuare la guerra) da parte di un’Europa già in ginocchio sul piano finanziario, economico ed energetico.
L’11 luglio 1968 nasceva Mark Fisher, scrittore, filosofo e teorico politico. Uno dei pochi autori che ha lucidamente inquadrato i principali fenomeni economico-politici della nostra epoca. Il più famoso dei suoi lavori è “Realismo capitalista”, dove porta alla luce l’onnipresenza dell’ideologia capitalista. Con “realismo capitalista” Fisher intende “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”1.
La “cultura” dominante cavalca proprio questa onda, la quasi totalità dei contenuti che ci vengono proposti descrivono e immaginano un mondo consumistico e consumato. Dai notiziari, ai talk-show passando per serie tv, film e libri. Persino, quasi tutti i movimenti contro il capitalismo, si inseriscono in una dialettica sul capitale-lavoro e non vanno oltre, e, come dice Fisher, questa contrapposizione (apparente) è funzionale al sistema stesso.
Siamo immersi nella frenesia (e disperazione) più totale, siamo alienati da un mondo in costante accelerazione. Hartmut Rosa in “Accelerazione e alienazione”2 ce lo spiega: siamo in competizione sotto ogni aspetto, non solo sotto quello economico-professionale, ma anche personale e affettivo. Alla gara ora si è aggiunta anche “l’intelligenza artificiale”, è molto difficile, se non impossibile, stare al suo livello di “produttività”. Più cerchiamo di rimanere al passo, più ci trasformiamo in macchine. Più siamo affannati e di corsa, più perdiamo la capacità di immaginare che è proprio una di quelle caratteristiche che ci rende umani.
In Canada sono già bruciati quattro milioni e trecentomila di ettari di foreste, intanto Israele bombardava l’Iran, dopo quasi due anni di bombardamenti sulla striscia di Gaza e qualche colpetto anche al Libano, e l’Ucraina prova a far fallire qualsiasi accordo di pace provocando anche deragliamenti di treni passeggeri. Il Canada brucia grazie al cambiamento climatico, che aumenta la siccità e il calore, grazie a umani idioti e criminali che accendono fuochi per rosolare salsicce, magari mentre tagliano alberi, e grazie al capitalismo. Non solo perché è il sistema maggiormente colpevole del cambiamento climatico ma anche perché il capitalismo del terzo millennio, affetto ormai da insania furiosa e perniciosa, e i suoi spregevoli e criminali servi politici dell’Occidente dominatore stanno svuotando le casse degli Stati a favore delle multinazionali, e non tollerano più che detti soldi vengano utilizzati per le loro funzioni naturali, cioè a favore delle nazioni e dei loro popoli. E’ questo il motivo per cui in Canada mancano i pompieri. Sono pochi e mal pagati, i vigili del fuoco canadesi, dotati di scarsi mezzi e anche in gran parte stagionali, vengono cioè assunti per la sola stagione estiva. E, com’è ovvio, quando trovano un lavoro a tempo pieno, smettono di fare i vigili del fuoco.
Gli Stati ridotti ormai a cassaforti svaligiate da chi dovrebbe custodirle. A cittadelle saccheggiate senza pietà dalle multinazionali con la complicità attiva e interessata dei loro governanti. Che un tempo, almeno, se poi il popolo ce la faceva a riprendersi ciò che era suo, venivano decapitati sulla pubblica piazza come traditori.
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1.
Solo gli esseri umani sanno essere disumani. Quelli
che nel creato qualifichiamo come animali
si comportano in modo
decisamente più umano. La mesta realtà che ci
circonda riflette le prodezze di figure politiche dozzinali
ed
evanescenti, giornalisti reclutati tanto al
chilo, accademici/esperti che misurano le parole per il
loro rimbalzo su carriera e
immagine, pubblici funzionari eviscerati al
servizio funzionale di chi sta in alto. Tutti
costoro hanno divelto dalle loro
arterie ogni traccia di empatia nei riguardi dei
loro simili. Ogni istante, uomini, donne e bambini palestinesi
vengono massacrati dallo
stato sion-nazista di Israele, senza alcuna ragione
che non sia riconducibile a malvagità, odio, delirio di
potenza, saccheggio e
furto di terre. Eppure, coloro che dispongono di poteri o
pubbliche tribune tremano all’idea di gridare l’evidenza.
Devono obbedire al
dominus atlantico, guardiano della finanza privata,
dei produttori di armi o dei potenti ricattati per crimini
dicibili o indicibili
(pedofilia/Epstein, evasione fiscale, corruzione, depravazione
senile …).
La realtà è invero plateale: Israele è uno stato terrorista, impunito e impunibile perché come le iene nella giungla dispone dell’astuzia e della forza, guidato da un governo che bombarda tutto ciò che si muove entro un raggio di 500 km dalla sua capitale (Tel Aviv, per il diritto internazionale, non Gerusalemme!), sicuro di farla franca perché protetto dai loro complici (gli amerikani sfrontati davanti alla storia e alla coscienza del mondo), violando la Carta delle Nazioni Unite, uccidendo civili come mosche, demolendo edifici pubblici dove capita (Teheran, Beirut, Gaza e ierlaltro 16 luglio 2025 a Damasco!) in una lista di nefandezze lunga fino al pianeta Marte, tutto e sempre per legittima difesa, che vergogna!
Codardi quali sono, i titolari delle nostre istituzioni – sulla carta guardiani della Costituzione più bella del mondo, quella umiliata ogni istante dalla incomprensibile cobelligeranza sul fronte ucro-nazista, della guerra predatoria Usa contro la Russia e del sostegno al sionismo espansionista, ladro di territori altrui – sostenuti dai maggiordomi mediatici-accademici-esperti, temono di essere puniti dal cerchio magico sionista che ha penetrato persino le sfere di un sistema-paese inconsistente come l’Italia
L'odierno "capitalismo crepuscolare" non è in grado di offrire lavoro dignitoso e benessere diffuso. Pubblichiamo un estratto del libro di Salvatore Bianco “Fate Presto. Emergenzialismo come fase estrema del neoliberismo” (Roma, Rogas, 2025)
Qui conviene
ritornare sia pur celermente alla crisi del 2007 e alla sua
frettolosa e interessata interpretazione, da parte dell’establishment
e dei
vari ammennicoli mediatici, nei termini riduttivi di una
semplice crisi finanziaria. Di contro, una più convincente
letteratura critica recente
l’ha poi correttamente inquadrata come Terza grande
depressione del capitalismo moderno, dopo quelle di fine
Ottocento e l’altra arcinota
crisi del ’29 nello scorso secolo. Secondo questa analisi,
essa si sarebbe aperta nel biennio 2007-2008 per mai più
richiudersi e
pertanto dopo oltre quindici anni ne saremmo completamente
pervasi. In realtà, lo stesso pensiero mainstream ha
finito con il
reinterpretarla piuttosto cinicamente, utilizzando a sua volta
le categorie del «pensiero negativo»: il negativo, cioè la
crisi,
è parte dell’ordine, non ci può essere ordine privo di
negazione interna, con buona pace del «razionalismo moderno» e
della sua pretesa di trattare la crisi con strumenti
risolutivi. In effetti, si è constatato sul piano fattuale che
la crisi si era dilatata e
intensificata oltre misura. Si è cominciato allora a gestirla,
governando non più sulla crisi ma attraverso di essa. E per
questo
è divenuta nel discorso pubblico, alimentato ad arte dall’élite
dominante, «permacrisi»: la cui gestione non
può che essere all’insegna dell’emergenza permanente, per
l’appunto emergenzialismo. Tutto ciò con l’obiettivo
di preservare quello che rimane del proprio ordine e delle
gerarchie politiche e sociali in esso incorporate. Ironia
della sorte, quella vita
biologica che la politica moderna in Occidente aveva elevato a
bene supremo da proteggere, come illustrato precedentemente,
appare ora sempre
più ostaggio, tramite i continui avvertimenti recapitati ad
esempio dalla natura, del «modo di produzione capitalistico»,
che nella
sua forma assoluta annichilisce l’ambiente e disumanizza la
società, come le guerre più recenti con il loro carico di
distruzione
e di morti attestano. La crisi deve ritornare a essere nel
discorso politico di chi sta in basso quella che è sempre
stata in epoca moderna
dopo la cesura dalla Rivoluzione francese: un’occasione per
agire il conflitto nel vuoto di legittimità che si determina
all’indomani della perdita di consenso, con una robusta
battaglia di idee a fare da apripista.
Tra anni’60 e ’70, la storia ha spinto alcune
generazioni, che pareva potessero intendersi e cooperare, su
posizioni politicamente diverse e spesso in forte
opposizione. È andata così e ne subiamo tuttora le
conseguenze. Le separazioni spesso
non si ricompongono più e al massimo si sopportano come
brutte cicatrici. Al dunque, i dissensi, irrisolti e
probabilmente irrisolvibili nel
tempo che ancora ci resta da vivere, restano. Dialogare da
dove siamo finiti (o forse eravamo già in quegli anni più
luminosi) è
arduo.Per il peso della sconfitta e senza più la speranza di
un comune progetto. Possiamo, però, circoscrivere i nostri
dissensi; e
continuare a ragionarci sopra. Questo tento di fare
replicando con questi appunti a Eros Barone, Beppe Corlito e
Ezio Partesana . Comincio
dall’intervento di Eros (qui).
1. C’è un primo ostacolo al nostro dialogo: tu omaggi Fortini («con tutto il rispetto che si deve ai “maggiori”») ma subito dopo lo accantoni e salti a piè pari il suo scritto del 1989 (qui), dal quale io pensavo potesse partire questa riflessione sul comunismo. E con quale argomento?
Cito: «mi sembra importante prendere le distanze per il forte sapore di idealismo, di sconfitta e di potenziale opportunismo che quella definizione non sempre chiara e persuasiva, elaborata a ridosso degli eventi epocali del 1991, contiene e diffonde».
Non spieghi in cosa consista, nella definizione fortiniana di comunismo, il forte sapore d’idealismo, dove essa non sia chiara, perché non convinca e se la sconfitta sia stata reale o solo “sapore”.
Storicamente, Israele ha sempre avuto
una leadership pienamente consapevole dell’importanza delle
sue forze armate, intese non come ipotetico baluardo difensivo
del paese, ma come
strumento attivo e costante della politica statuale. A loro
volta, le forze armate israeliane hanno spesso fornito
importanti leader alla politica, e
tutto questo ha fatto sì che la guida politica e militare
dello stato ebraico è sempre stata caratterizzata da una piena
integrazione
dei due aspetti. Questo equilibrio è però cominciato a venire
meno quando, all’interno della società israeliana, si
è andato affermando un radicalismo di destra, con
forti accenti messianici, che ha trovato in Netanyahu la
figura di riferimento. Per
il leader del Likud, infatti, l’esercito è a tutti gli effetti
uno strumento del potere politico, che ne dispone a suo
piacimento; e
benché il personaggio sia indiscutibilmente un pragmatico –
diciamo pure uno spregiudicato – è anche assai poco
disponibile
ad ascoltare chi non è d’accordo con lui.
Nel corso della sua ormai ventennale carriera politica, Netanyahu ha via via esercitato un controllo sempre più stretto sull’apparato statale (proprio al fine di consolidare e difendere il suo potere personale), in primis sulle forze armate e sui servizi di sicurezza. Trovandosi spesso in disaccordo con entrambe, ma imponendo sempre il proprio volere. Questa divaricazione, che in qualche misura si è riflessa sulla società, ha sicuramente aperto una crepa nella stessa capacità operativa di Israele.
Ciò risulta macroscopicamente evidente a partire dallo spartiacque del 7 ottobre 2023.
Senza entrare qui nel merito dell’operazione Al Aqsa Flood, e delle varie interpretazioni che ne sono state fatte (e sulle quali ho più volte scritto), appare evidente che a partire da quel momento Israele si è impegnato in una serie di conflitti – praticamente ininterrotti – che hanno visto il culmine con l’attacco all’Iran del 13 giugno scorso.
Questi conflitti – Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria, Iran – hanno opposto l’IDF essenzialmente a formazioni di guerriglia (Resistenza palestinese, Hezbollah), con le quali ha ingaggiato un confronto a contatto, mentre con le realtà statuali (Siria, Yemen, Iran) il confronto è sempre rimasto a distanza.
Il 14 luglio Donald Trump ha
precisato
i contorni della nuova iniziativa statunitense nei confronti
della Russia e della guerra in Ucraina. Con al fianco il
segretario generale della NATO,
Mark Rutte, Trump ha ribadito di essere “deluso dal
presidente Putin, perché pensavo che avremmo raggiunto un
accordo due mesi fa, ma
non sembra esserci riuscito. Quindi sulla base di
ciò imporremo dazi molto severi se non raggiungeremo un
accordo entro 50 giorni. Dazi
pari a circa il 100%” fa applicare alle
nazioni che commerciano con Mosca. “Spero di non doverlo
fare” ha
detto Trump alla Casa Bianca, annunciando nuovi invii di
armamenti a Kiev ma ribadendo, come aveva già anticipato, che
saranno gli alleati
europei a pagare il conto molto salato.
Trump e Rutte hanno presentato un accordo, peraltro ancora vago, in base al quale la NATO (cioè i partner europei dell’alleanza) acquisterà armi dagli Stati Uniti, comprese le batterie antimissile Patriot, per poi darle all’Ucraina. “Gli Stati Uniti venderanno miliardi di dollari di equipaggiamento militare alla NATO che li porterà’ rapidamente sul campo di battaglia”, ha dichiarato Trump.
Rutte ha aggiunto che grazie a questo accordo l’Ucraina riceverà “un numero enorme di armi”. “Quello che faremo è lavorare attraverso i sistemi Nato per assicurarci di sapere di cosa hanno bisogno gli ucraini, in modo da poter preparare i pacchetti” ha detto il segretario generale dichiarando che “è del tutto logico che gli europei paghino per le armi inviate all’Ucraina” e di essere in contatto con “numerosi Paesi” che vogliono aderire all’accordo, fra cui Finlandia, Danimarca, Svezia, Norvegia, Gran Bretagna, Olanda e Canada. “Ed è solo la prima ondata, ce ne saranno altri”, ha aggiunto.
Rutte, nei confronti di Trump più nei panni di un maggiordomo che di un segretario generale, sembra aver ormai sdoganato il fatto che la guerra in Ucraina contro la Russia riguarda solo l’Europa mentre gli Stati Uniti, bontà loro, ci vendono le armi necessarie a tentare di sostenere Kiev.
In questi
giorni è venuto a mancare Goffredo Fofi. Sulle TV di Stato la
notizia non è stata riportata. I libertari non trovano spazio
nei media
ufficiali privati e pubblici. Nei media statali l’informazione
è stata sostituita dalle canzonette e dalla pubblicità dei
concerti
e delle produzioni musicali di cantanti, il cui vuoto siderale
è abissale. In questo contesto in stile “panem et
circenses” uomini come Goffredo Fofi non trovano
spazio. La cultura della cancellazione avanza in una miriadi
di modi. Si cancellano i vivi
e i morti per trasformarli in “non nati”. Questo è il tempo
del capitalismo senza limiti. Il deserto avanza annichilendo
la
memoria. Goffredo Fofi lottò per la democrazia radicale/reale
e la sua vita è un testo da cui emergono domande profonde a
cui diede
risposte sperimentando l’alternativa al capitalismo. Uomini di
tale valore politico sono presenze dialettiche, che il sistema
capitale deve
seppellire nel deserto delle canzonette e delle vuote parole
senza concetto. Fu un cittadino militante in una realtà che
produce in serie
“consumatori” che possono assistere ad immagini di Gaza
fumante, tra le cui macerie si alzano le urla di donne e
bambini, a cui succedono
con somma indifferenza gli spot agli spettacoli di cantanti di
ultima generazione che inneggiano “all’amore e al successo
nelle calde
estati estive”. Goffredo Fofi ha donato la sua esistenza
contro tutto questo. Democrazia è dignità di ogni essere
umano, nel
nostro tempo, invece, sono il denaro e il potere a dare
rilevanza, così muore la democrazia e il pensiero politico.
Goffredo Fofi ci rammenta
che non è un destino, ma ciascuno di noi può testimoniare
l’alternativa nel presente senza delegare ad altri
l’alternativa.
Ciascuno di noi può diventare con la sua storia un modello
piccolo o grande che testimonia che un altro modo di vivere è
possibile. Solo
così si difende la dignità di tutti gli esseri umani dal
consumismo pianificato che ha consumato anche “l’essere” e lo
ha sostituito con la società dello spettacolo, nella quale
attori e spettatori recitano un ruolo stabilito da potenze
sempre più
distanti e anonime
Nel corso della mia vita, ho visto la parola “libertà” subire una spettacolare traiettoria discendente. È passata da luminoso ideale universale, a ipocrita copertura della difesa di privilegi.
“Libertà” è stata la parola d’ordine della Rivoluzione Francese per liberarsi dal dominio dell’aristocrazia. Della Rivoluzione Americana per liberarsi dal dominio della corona inglese. Delle comunità religiose che volevano liberarsi dal potere corrotto delle gerarchie cattoliche. Delle polis greche che non volevano cadere nelle mani dell’impero persiano. Dei popoli che cercavano di liberarsi da secoli di feroce sfruttamento coloniale. È stata l’ideale della lotta contro fascismo e nazismo che avevano scatenato un’immensa aggressività distruttiva. Libertà è stata la parola magica che aleggiava sulla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, sulla dichiarazione d’indipendenza, sulla Rivoluzione Russa e su quella Cinese. Era Galileo libero di difendere l’idea che la Terra gira. Era libertà dai dogmi, era l’idea che il pensiero non debba essere costretti in limiti. Gli esseri umani non debbano essere schiavi, non debbano essere in catene.
Libertà è stata la parola d’ordine della mia generazione, che rifiutava ipocrisie e imposizioni di un mondo dominato da minoranze, e voleva cercare la sua strada. Da ragazzo, percepivo attorno a me un mondo pieno di regole che volevano impormi modi di essere che mi sembravano ingiusti.
Riflettendo
sullo stato dell’arte della letteratura di fantascienza,
Giulia Abbate, scrittrice ed esperta
del genere, fa il punto sul rapporto tra realtà e
inquietudine speculativa, tra futuro inverato e critica
sociale. E ripercorre la pista
battuta da Mario Tronti, quella che coniuga politica e
profezia, per illuminare il futuro critico della SF, ora
che è divenuta «la star
delle feste perbene». Un testo acuto e critico, come
Abbate sa fare.
* * * *
Un genere della modernità
«Devo forse essere soltanto un’arancia a orologeria?». Anthony Burgess, Un’arancia a orologeria [1].
La fantascienza nasce con la civiltà industriale, dall’inquietudine suscitata dall’avanzamento tecnologico oltre limiti ritenuti insuperabili – è questo, ad esempio, il tema centrale di Frankenstein di Mary Shelley, opera fondativa del genere. Oltre a misurarsi con la tecnologia e la hybris della scienza, la fantascienza si confronta con la società di massa, con i lati oscuri delle utopie, con la propaganda del potere, elaborando visioni distopiche memorabili.
«La fantascienza è mitografia della scienza», afferma Franco Ricciardiello. Secondo Valerio Evangelisti, «la fantascienza è il genere narrativo che ha per oggetto i sogni e gli incubi generati dallo sviluppo tecnologico, scientifico e sociale». Una definizione di merito, che può essere arricchita da una nota di metodo: la fantascienza procede nella sua narrazione in modo razionale, sviluppando metodicamente le premesse poste dall’idea peculiare, che Darko Suvin chiama novum.
Il novum è l’idea di base su cui si fonda la traslazione fantascientifica: un cruciale «e se?», il cui sviluppo avviene in modo sistematico, non attraverso simbolismi o fantasie in senso lato, ma mediante il racconto delle implicazioni di quell’idea e la cura per la verosimiglianza dei suoi sviluppi. Inoltre, la fantascienza non si esprime in forme filosofiche o saggistiche, ma si realizza nella scrittura narrativa, e per di più «profana» – secondo la definizione di Northrop Frye – ovvero romanzesca e popolare.
«La libertà di pensiero ce l’abbiamo. Adesso ci
vorrebbe il pensiero». Karl Kraus
La buona notizia
Bullo, giocatore d’azzardo, erratico, collerico, narcisista impulsivo, nazionalista, matto…
Questi sono solo alcuni degli epiteti che i nostalgici della globalizzazione neoliberista, calpestando le sottigliezze formali del politicamente corretto, appioppano a Donald Trump. Insulti che tradiscono lo stato confusionale in cui sono caduti. Erano caduti nel criosonno della fine della storia e si trovano alle prese con le leniniane contraddizioni inter-imperialistiche.
La vetusta bagascia del capitalismo europeo, sedotta e abbandonata dal suo giovane amante americano, vive una crisi esistenziale perché non riesce a darsi ragione di questo tradimento, che non sembra affatto un voltafaccia estemporaneo ma lungamente meditato e programmato. Fanno i finti tonti: com’è possibile che Trump dimentichi i dogmi liberoscambisti e rinneghi l’Abc della ricardiana Teoria dei costi comparati che regolerebbero il commercio internazionale?
La verità è che, sgomenti, i nostalgici condannano Trump per quello che considerano il più grave dei crimini:
«Una politica che non è motivata da un’ideologia politica, non già da un pensiero economico. Con Trump, il determinismo economico che ha orientato la fase neoliberale (è l’economia che determina la politica) è stato sostituito dall’autoritarismo politico (è la politica che determina l’economia». [1]
[Notare la chicca e il tranello semantico: la chicca per cui ogni determinazione politica dell’economia è squalificata come “autoritaria” e l’imbroglio per cui la finanza predatoria è chiamata “mercato”].
Incapaci di fuoriuscire dalla loro gabbia concettuale liberal globalista — il cui motto è: “mai mettersi contro il mercato che ha sempre ragione anche quando ha torto”—, i censori di Trump, dopo aver affermato che “una bilancia commerciale in passivo ha i suoi grandi vantaggi”, si consolano prevedendo sfracelli per l’economia americana.
Ritratto impietoso dell’Alto rappresentante Ue per gli Esteri, ex prima ministra estone accesamente anti-russa.
Durissimo atto d’accusa del
saggista italo-inglese nei confronti di Kaja Kallas. L’Alto
rappresentante dell’Unione europea è descritta come una
figura
bellicosa e tutt’altro che diplomatica, alle prese con gaffe
e tensioni internazionali. Nel suo intervento ospitato da
Krisis, Fazi porta anche
alla luce le discrepanze fra la linea anti-russa di Kallas e
le profonde connessioni della sua famiglia con il regime
sovietico, oltre ai controversi
affari commerciali con la Russia del marito. Il giudizio
finale di Fazi è tagliente: Kallas compromette l’immagine e
la
credibilità dell’Europa nel mondo.Sebbene Ursula
von der Leyen sia sopravvissuta alla mozione di sfiducia del
10 luglio al
Parlamento europeo, il risultato (175 voti favorevoli) ha
messo a nudo un crescente malcontento nei suoi confronti. La
mozione prendeva però di
mira l’intera Commissione europea. E, in particolare, la
numero due della presidente: Kaja Kallas, vicepresidente della
Commissione e Alto
rappresentante per gli Affari esteri.
La figura che, nell’architettura europea, più si avvicina a quella di un ministro degli Esteri è la vera minaccia all’Europa. Kaja Kallas ha costruito la sua carriera su una sfrenata russofobia, che attribuisce agli orrori vissuti crescendo nell’Estonia sotto il controllo sovietico. Il 23 agosto 2023, quand’era ancora primo ministro dell’Estonia, in visita al memoriale alle vittime del comunismo a Maarjamäe, ha per esempio denunciato con veemenza i «crimini mostruosi commessi dal comunismo».
Eppure, la realtà è ben diversa. La sua famiglia, ben lontana dall’essere vittima dell’oppressione sovietica, ha vissuto in realtà un’esistenza relativamente agiata all’interno dell’apparato del potere dell’Urss. Una famiglia la cui ascesa è stata facilitata, in misura non trascurabile, proprio dal sistema sovietico che lei oggi demonizza.
Questa ironia getta un’ombra pesante sulla sua postura morale anti-russa: è difficile conciliare le sue invocazioni a una linea dura e inflessibile contro la Russia con il fatto che gran parte del prestigio della sua famiglia – e quindi il suo – sia stato reso possibile dalle opportunità offerte dall’Unione Sovietica.
Recentemente sulla prima pagina del Sole24ore è stata messa in dubbio la sostenibilità del debito pubblico statunitense, ossia la capacità del governo di onorare i pagamenti dei titoli di debito emessi dal Tesoro[i]. La notizia viene da una indagine rivolta a 40 Banche centrali di tutto il mondo, la UBS Asset Management’s Reserve Manager Survey. Più precisamente, il 47% dei rispondenti ritiene possibile, in futuro, uno scenario di ristrutturazione del debito pubblico americano. Per ristrutturazione si intende la più o meno ampia insolvenza sul debito pubblico.
Non si tratta di una notizia da poco. Secondo le parole del Sole24ore sarebbe “un evento catastrofico, senza precedenti, che avrebbe ripercussioni devastanti per il mondo intero”[ii]. Perché sarebbe così grave? Per rispondere dobbiamo ricordare che il dollaro è la valuta di scambio commerciale e soprattutto di riserva mondiale. Il debito pubblico statunitense, essendo in dollari, assume un ruolo centrale nell’economia mondiale, dal momento che è usato come riserva da organismi ufficiali, come le banche centrali di tutto il mondo, ma anche da organismi quasi e non ufficiali. Se il debito non venisse onorato, anche solo in parte, verrebbe meno la fiducia negli Usa e quindi verrebbe minato lo status di riserva del dollaro. Questo creerebbe una grave instabilità a livello finanziario mondiale e finanche una grave crisi generale.
Il debito americano, cioè i suoi titoli di stato, è da lungo tempo considerato un investimento sicuro, anzi l’investimento sicuro per eccellenza, specie nei periodi di crisi. Sulla capacità degli Usa di onorare il loro debito si fonda non solo la stabilità finanziaria mondiale, ma anche il dominio economico e soprattutto valutario degli Usa. Grazie al fatto che il dollaro è valuta di riserva mondiale gli Usa fino a oggi hanno potuto finanziare un sempre più grande debito pubblico.
Ci sono luoghi comuni che resistono a qualsiasi smentita da parte dell’esperienza. In particolare sopravvive la falsa convinzione che gli Stati regolino la loro politica per mezzo di processi decisionali, che potranno essere trasparenti oppure oscuri a seconda dei casi. Fortunatamente però ogni tanto qualcuno ci viene a raccontare come funzionano veramente le cose. Sul quotidiano “Times of Israel” del 18 maggio scorso un tale Lazar Berman intratteneva i lettori sulla questione della apparente impasse determinatasi per Israele a causa di alcuni comportamenti di Trump, che sembrava intenzionato a privilegiare gli affari multimiliardari con le monarchie del Golfo invece che i desiderata di Netanyahu, che per gli USA rappresenta un costo pesante. L’articolo perveniva però a una conclusione rassicurante per il lettore sionista; in quanto, al di là dei personali desideri di Trump, alla fine Israele potrebbe far valere ugualmente il suo punto di vista semplicemente tenendo in mano l’iniziativa, ovvero mettendo tutti davanti al fatto compiuto. Come a dire che gli Stati non sono veri soggetti politici, e tutto funziona come in un gruppazzo di adolescenti, nel quale comanda il più bullo e tutti gli altri cercano di salire nella gerarchia facendo a gara a compiacerlo.
L’articolo di Berman infatti si è rivelato fondato e persino preveggente, nel senso che meno di un mese dopo Israele ha potuto far saltare il tavolo negoziale tra USA e Iran procedendo ad un attacco ed ad un tentativo di decapitazione del regime di Teheran.
A ennesima conferma di come si tratti di una delle situazioni più complesse da dirimere, perché porta in nuce tutti i danni provocati dal colonialismo europeo ottocentesco, a cui si aggiunge l’esistenza di Israele, stiamo assistendo ancora una volta a una serie di sommovimenti che, sommandosi, tessono una trama intricatissima.
Messa in pausa la guerra con l’Iran, adesso l’obiettivo USA è porre fine a quella di Gaza. Il disegno strategico statunitense è sempre lo stesso, gli Accordi di Abramo, ma con alcune significative variazioni nel quadro generale. Come riferisce Axios – pubblicazione USA assai vicina ai servizi segreti – nel corso del lungo viaggio di Netanyahu a Washington (stavolta, come si è visto, senza grandi onori pubblici), si starebbero stabilendo le condizioni per arrivare al cessate il fuoco. In particolare, si riferisce di incontri serrati tra Ron Dermer, stretto consigliere di Netanyahu, Steve Witkoff e un funzionario del Qatar, paese che sta mediando tra le parti e che ha riferito le richieste della Resistenza palestinese. Il punto cruciale rimasto da risolvere sembra essere l’entità del ritiro israeliano; Tel Aviv insiste per mantenere il controllo del corridoio Morag, che serve a enucleare una vasta zona nel sud della Striscia, destinata – nel disegno israeliano, delineato nel piano Smotrich – a diventare un gigantesco campo di concentramento. Mentre sia la Resistenza che l’amministrazione USA sono, per ragioni ovviamente diverse, contrarie. Naturalmente, trattandosi di Israele (e in questo gli USA non sono granché differente), l’affidabilità di eventuali accordi sottoscritti è estremamente labile, e potrebbero essere stracciati non appena lo ritenessero utile o possibile.
È un
centenario drammatico, quello che celebra la nascita di
Frantz Fanon, avvenuta in Martinica il 20 luglio del 1925. È
drammatico per
l’ovvio, evidente e traumatico rimando a quanto sta
avvenendo a Gaza dal 7 ottobre 2023 in poi. Ed è drammatico
perché ci obbliga
a un contatto diretto con la parte più urticante del
pensiero e della vita dello psichiatra antillano: quella dei
muscoli che si flettono in
attesa di assestare la zampata, quella dell’«uomo con la
roncola», preoccupato di averla a portata di mano, quando
«sente un
discorso sulla cultura occidentale» (Frantz Fanon, I dannati
della terra, Torino, p. 10)
È inutile far finta di niente. I cinquantenari e i centenari che si susseguono senza posa nel primo secolo del nuovo millennio, ci abituano a srotolare la pellicola del Novecento come turisti della Storia. La cosa è ambiguamente piacevole. Attiva la nostalgia. Giustifica la malinconia. Produce uno spaesamento pensoso che in fondo è rassicurante, nella misura in cui legittima la contemplazione scettica dei sacrifici e dei fallimenti accumulati dalle generazioni precedenti.
Con Fanon, adesso, questa recita è impossibile. È come se, per un malvagio tiro giocato dal caso ai dipartimenti dei cultural studies, dovessimo nuovamente sbattere la testa sulle parole dure: sullo scandalo della violenza che disintossica1, sull’eresia che mette in quarantena le etiche immacolate, perché «il bene è semplicemente quel che a loro fa male»2.
Certamente, sono posizioni che vanno inserite nel loro contesto. E il contesto è quello della guerra d’Algeria. Centinaia di migliaia di morti fra la popolazione e i combattenti in lotta per l’indipendenza nazionale. I francesi che reagiscono con i massacri, con i linciaggi degli arabi organizzati dai coloni, con la tortura praticata regolarmente sui militanti del Fronte di Liberazione Nazionale, ma anche, in larghissima scala, sulla popolazione civile. L’FLN algerino risponde usando tutti i mezzi, e giungendo anche all’uccisione di civili francesi, con bombe piazzate nei bar dei pieds-noirs e accoltellamenti casuali dei coloni, sorpresi mentre passeggiano nei loro quartieri tranquilli e blindati. Molto crudo, n’est-ce pas? E non va dimenticato che i comunisti francesi erano schierati dalla parte del loro governo, e avevano votato a favore delle misure di repressione dell’insurrezione algerina.
La NEP è
anche un
periodo in cui emergono, in modo
particolarmente rilevante,
questioni e problemi a ogni livello, dal più
superficiale e risolvibile con cambi di mansione o
correzione di singoli comportamenti, a
quello più profondo e strutturale, irrisolvibile senza
modifiche sostanziali, ovvero altrettanto strutturali, al
modo di produzione
stesso.
Un modo di produzione ibrido non è destinato a durare a lungo: su questo concorda l’attuale storiografia incentrata sull’esperienza sovietica, prevalentemente autoctona (anche perché fuori dal perimetro russo han preso l’argomento, preparato la colata di cemento e chiuso tutto nella prima cassaforma a disposizione), ivi compresa la sua maggior parte revisionistica:
Parliamo, nella fattispecie, di quella storiografia russa démodé, figlia della restaurazione capitalistica di fine secolo, che declina alla sua maniera l’accademismo liberale-liberista-libertario di inizio anni Novanta e che tutt’ora campa nelle sue università e “fondazioni” eterofinanziate (e con marcato accento anglofono).
Parliamo però anche di una storiografia più recente, più à la page che, pur non disdegnando quanto fatto dalla “gestione precedente”, a partire dal Nobel con la voglia sulla pelata fino all’ubriacone che finì il lavoro sporco, è tuttavia nostalgica dei bei tempi andati, più che altro in termini di prestigio e potenza internazionali.
Entrambe queste storiografie, sulla falsariga della “libertà” o dell’esperienza cinese, periodicamente convergono su come sarebbe potuta essere la propria NEP se avesse vinto Bucharin, magari passando direttamente da Bucharin a Soros, nel primo caso, o da Bucharin a Putin, nel secondo, senza passare dal via del socialismo realizzato1. Di fatto, auspicando una transizione al capitalismo, e poco conta se oligarchico e transnazionale o capitalistico di Stato, che sarebbe dovuto essere la morte naturale della NEP, anziché e al posto dell’instaurazione della proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione e della conduzione pianificata degli stessi. Come diceva un sensei nippo-statunitense in un film d’altri tempi, non si può camminare a lungo in mezzo alla strada. O di qua, o di là.
L’articolo di Marco Veruggio che abbiamo ripreso da Micropolis ha, tra l’altro, il grande pregio di stimolare riflessioni su temi di carattere fondamentale come “scuola”, “riarmo”, “impresa pubblica” ecc… A questi l’estroverso europarlamentare leghista Roberto Vannacci, già generale dell’esercito, ne aggiunge un altro, sintetizzato nel termine “Patria”. Sappiamo che Patria non è un vocabolo qualsiasi, è un sistema di valori, quei valori che qualcuno pensa si debbano rilanciare, perché rischiano di essere dimenticati e quindi anche lui, l‘onorevole, come i portavoce di Leonardo, vorrebbe andare nelle scuole – dicono i media – per parlarne coi giovani.
Non vorrei trovarmi nei panni di una/un preside messi di fronte alle richieste di una grande azienda come Leonardo e di un personaggio come Vannacci di poter parlare agli iscritti durante le ore di lezione. Scelta imbarazzante se far parlare l’uno o l’altro o ambedue. Confesso che se mi trovassi al posto di quei presidi risponderei “No, grazie” ma, se fossi costretto da circolare ministeriale a scegliere, preferirei Leonardo perché l’idea che qualcuno ricominci a voler instillare nei giovani l’amor di patria mi provoca una reazione istintiva. Il termine “Patria” mi evoca immediatamente l’immagine di cimiteri di guerra, quelle distese di croci che abbiamo visto tante volte, tombe d’infelici che sono andati ad ammazzare e sono stati ammazzati in nome della Patria. Mi evoca l’immagine dell’Ossario dei Caduti d’Oltremare di Bari, dove giacciono i poveri resti del fratello di mia madre, caduto negli ultimi giorni della campagna d’Africa, a El Ghennadi, 9 maggio 1943. Aveva 21 anni. In quei cimiteri di guerra raramente trovi sepolti dei generali. Quelli, chissà perché, dalle guerre tornano quasi sempre vivi.
Dal rispetto delle regole fondamentali del diritto internazionale alla tenuta delle istituzioni finanziarie globali, fino alla progressiva sostituzione del dollaro e a un sistema di pagamenti autonomo, in grado di resistere a sanzioni unilaterali. Il summit del 6 e 7 luglio ha prefigurato nuovi scenari che l’Occidente fa finta di non vedere.
Rappresentano il 50% della popolazione mondiale e poco meno del 45% della ricchezza prodotta a livello planetario. Si sono riuniti a Rio de Janeiro il 6 e il 7 luglio ma sui media italiani, salvo eccezioni (il manifesto ad esempio vi ha dedicato la prima pagina), quasi non ne compare traccia. Si tratta del vertice dei Brics che ha riunito tutto ciò che, semplificando, si può definire “non occidentale”. Il sostanziale silenzio dei media è quindi davvero incredibile anche perché da quel vertice sono uscite almeno tre cose di grande rilievo.
La prima, davvero sorprendente, è costituita dal fatto che proprio i Brics stanno invocando il rispetto del diritto internazionale e del multilateralismo, arrivando persino a “difendere” le istituzioni di Bretton Woods, le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In altre parole, le principali realtà produttive del Pianeta, che non hanno, nella stragrande maggioranza dei casi, contribuito né alla definizione degli assetti successivi alla Seconda guerra mondiale, né alla stesura delle regole fondamentali del diritto internazionale e tantomeno alle istituzioni finanziarie globali, chiedono, ora, di fronte al disastro dell’Occidente, di rispettare quelle norme di convivenza collettiva e quelle istituzioni per evitare il collasso dell’umanità.
Salvatore Bravo: "Sul compagno Stalin"
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AM: Frantz, nel tuo
libro più celebre, I dannati della terra, tu alterni
spesso due “fami”, una di
dignità e di libertà, l’altra reale, effetto della schiavitù,
delle privazioni e della sottomissione violenta. Ho deciso
venirti a trovare perché troppe cose, negli ultimi anni, ci
stanno restituendo la consapevolezza che noi europei, noi
italiani stessi, siamo
ancora dei colonizzati. I nostri governi sono espressione di
élites (pseudo-progressiste o liberal-conservatrici) in mano
ai poteri forti
franco-tedeschi e americani. La nostra cultura è omologata, i
nostri valori interamente riformati da uno
pseudo-universalismo violento e
repressivo che, non a caso, parla col timbro di voce dei
nostri padroni. Le persone che appartengono alle classi
sociali più svantaggiate e
marginali – quelle che non hanno nulla da offrire ai
colonizzatori se non il proprio sfruttamento, ne percepiscono
oggi, anche in Europa, la
violenza con un’intensità inedita. Come sono visti i marginali
e gli sfruttati dai nuovi coloni del nostro mondo? Come pensi
andrà
a finire questa brutta storia?
FF: Denutriti, malati, se [i colonizzati] ancora resistono, la paura conclude l’opera: si puntano su [di loro] fucili; vengono civili a stabilirsi sulle loro terre e li costringono con lo scudiscio a coltivarle per loro. Se [il colonizzato] resiste, i soldati sparano, lui è un uomo morto; se cede, si degrada, non è più un uomo; la vergogna e la paura incrineranno il suo carattere, disintegreranno la sua persona. […] Picchiato, sottoalimentato, ammalato, impaurito, ma fino a un certo punto soltanto, egli ha, giallo, nero o bianco, sempre gli stessi tratti di carattere: è un pigro, dissimulatore e ladro, che vive di nulla e non conosce altro che la forza. Povero colonizzatore: [il colonizzato] è la sua contraddizione messa a nudo. […] Mancando di spingere il massacro fino al genocidio, e la servitù fino all’abbrutimento, [lentamente il colono] perde il controllo [del colonizzato], l’operazione si capovolge, un’implacabile logica la porterà fino alla decolonizzazione.
AM: Per chi non ti conoscesse, tu sei una delle “star” del movimento e della cultura decoloniale, sei nato in Martinica (colonia caraibica francese), sei nero, sei un comunista, e uno psichiatra che ha studiato in Francia, per divenire infine eroe della resistenza e dell’indipendenza algerine, dove ti eri trasferito per fare il tuo mestiere (e da cui sei stato cacciato nel 1957 dalle forze di occupazione francesi).
Premetto che sono convinto che non ci
sarà nessun conflitto mondiale nucleare a parte la “guerra
mondiale a pezzi”, per citare il defunto Papa Francesco I, già
in
corso. Nonostante la propaganda guerrafondaia dei media, di
opinionisti e di politicanti da ascrivere alla categoria degli
psicopatici, penso che
nessuna potenza nucleare provocherà un tale conflitto.
Detto questo, di recente mi ha colpito in modo particolare una serie televisiva trasmessa dal canale NETFLIX. Continuo a pensare che questo canale sia uno dei tanti strumenti di soft power finalizzati a educare il mondo al modello culturale americano ed è per questa mia opinione che la serie TV dal titolo “Secret City” mi ha particolarmente colpito. Non è mia intenzione anticipare la conclusione della serie, ma dal punto di vista narrativo l’ho trovata avvincente e stimolante sul piano della riflessione politologica.
La storia è un thriller politico, ambientato in Australia, si ispira a fatti veri tratti dai libri scritti da Chris Uhlmann e Steve Lewis, intitolati “The Marmalade files” e “The Mandarin Code”. La serie è stata trasmessa per la prima volta nel 2016, mentre in Italia la trasmissione della prima stagione risale al 2018. Ciò che mi intriga della serie è come il sistema politico, la comunicazione pubblica, gli interessi nazionali e internazionali si intreccino tra di loro e con le ambizioni personali dei protagonisti.
Ciò che emerge è il ruolo della stampa quando è indipendente, ben rappresentata dalla protagonista della serie TV, e la figura del premier. A differenza della comune vulgata un premier, pur se legittimato dal voto popolare, in realtà, può essere tenuto all’oscuro di ciò che membri del governo, vertici militari, consiglieri ecc. tramano nell’ombra alle sue spalle ed è per questa ragione che il personaggio del Primo Ministro australiano può essere stereotipo dei tempi in cui viviamo. In una delle puntate, nel pieno della tempesta politica che coinvolge tanto il suo governo quanto i maggiori vertici burocratici e militari del paese, mettendo in crisi le stesse relazioni internazionali con le due potenze che gravitano sull’Oceano Pacifico ossia USA e Cina, il primo ministro si sofferma ad ascoltare e riflettere sul discorso di addio del Presidente degli USA Dwight Eisenhower del 1961.
Per il metodo dialettico, è soprattutto importante, non già
ciò che, a un dato momento, sembra stabile, ma comincia
già a deperire; bensì ciò che nasce e si sviluppa, anche
se, nel momento dato, sembra instabile, poiché, per il
metodo
dialettico solo ciò che nasce e si sviluppa è invincibile.
Giuseppe Stalin
1. Il capovolgimento di Hegel: paradigma per ogni pratica materialistica della filosofia e della politica
Nel nostro confronto/scontro (un po’ come accade nella suggestiva evocazione dell’Operetta leopardiana intitolata Dialogo della natura e di un islandese, allorché quest’ultimo, “andando per l’interiore dell’Affrica, e passando sotto la linea equinoziale”, “ebbe un caso simile a quello che intervenne a Vasco di Gama”, e cioè che “il Capo di Buona Speranza, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque”) si è affacciata, finalmente, una questione che “fa tremare le vene e i polsi”, e dalla quale anche noi, quale che sia il nostro grado di competenza, non ci faremo “distorcere”: il rapporto tra la filosofia hegeliana e il materialismo storico-dialettico di Marx e di Engels. Consapevole del carattere inevitabilmente stenografico, e perciò riduttivo, delle considerazioni che seguiranno, ritengo tuttavia necessario, nel confrontarmi con una replica, quale è quella di Ennio Abate, sostanzialmente evasiva e, nondimeno, protesa a contestare frontalmente le mie Tesi sul comunismo senza alcun supplemento di analisi, ma soprattutto senza la minima ammissione autocritica e senza alcuna concessione alle istanze marxiste-leniniste che le caratterizzano, prendere le mosse dalla classica formulazione di Lenin, secondo cui l’idealismo tedesco è una delle “tre componenti e fonti integranti del marxismo” (le altre, come è noto, sono l’economia politica classica e la rivoluzione francese).
In particolare, l’idealismo tedesco, la cui più alta espressione è rappresentata dalla filosofia di Hegel, è il motore del materialismo dialettico, che della teoria marx-engelsiana costituisce il nerbo. Soltanto Hegel, infatti, ha elaborato un sistema filosofico che è capace di rispecchiare l’intero processo storico, fino alla costruzione dello spirito assoluto, il quale include in sé tutte le filosofie del passato.
Il capo del Mossad David Barnea si è recato negli Stati Uniti per chiedere aiuto per lo sfollamento dei palestinesi da Gaza, in particolare perché diano incentivi ai Paesi che potrebbero ospitarli: Etiopia, Indonesia e Libia. Un trasferimento “volontario”, ovviamente, dichiarano gli israeliani, che avverrebbe in seguito alla costruzione della famigerata “città umanitaria” di Rafah, dove dovrebbero essere ammassati tutti i gazawi.
Il viaggio di Barnea è coinciso con l’avvio di nuova operazione militare nel centro della Striscia, finora relativamente risparmiato perché vi sono detenuti gli ostaggi israeliani. Per cominciare, Israele ha ordinato ai residenti della città di Deir al-Balah di evacuare verso un’area già sovraffollata di derelitti, mentre lo Stato Maggiore sta studiando un piano per isolare tutta l’area centrale, con tutti gli orrori che ciò comporta.
I due avvenimenti sembrano segnalare un’inversione di tendenza. La scorsa settimana era trapelata la notizia che nei negoziati si era superato l’ostacolo del corridoio di Morag, che Israele voleva conservare per delimitare, attraverso questo e il corridoio Filadelfia che corre parallelo più a Sud, l’area di Rafah, sulla quale edificare il campo di concentramento umanitario.
Il cedimento di Netanyahu sul Morag veniva interpretata come la fine di tale prospettiva, che l’amministrazione Trump, per bocca di Steve Witkoff, aveva bocciato. Il viaggio di Barnea e la nuova strategia israeliana segnalano che le cose sono cambiate.
Antonio Santangelo, Alberto Sissa, Maurizio Borghi, Critica di ChatGPT, Prefazione di Juan Carlos De Martin, Postfazione di Marco Ricolfi, elèuthera, Milano 2025, pp. 160, € 15,00
Il nostro tentativo è di decostruire pezzo per pezzo le narrazioni troppo entusiastiche sul futuro che ci attende grazie a ChatGPT e all’intelligenza artificiale generativa nel suo complesso, mostrando quali sono le questioni più spinose che questi sistemi ci costringono ad affrontare oggi (p. 17).
Questa, in estrema sintesi, l’intenzione che ha mosso Antonio Santangelo, Alberto Sissa e Maurizio Borghi nella stesura del volume Critica di ChatGPT (elèuthera, 2025) «prendendo spunto dalle conversazioni tra una serie di studiosi ed esperti di IA generativa, all’interno della mailing list del Centro Nexa su Internet e Società del Politecnico di Torino, all’incirca dal febbraio del 2023 a oggi. Si tratta, dunque, di un lavoro che si basa sull’intelligenza collettiva di un gruppo di persone molto eterogeneo e interdisciplinare, che si occupa di intelligenza artificiale e desidera allo stesso tempo comprenderla e contribuire a realizzarla» (p. 12).
Come sintetizza Marco Ricolfi nella Postfazione del volume, questo «si compone di tre blocchi: uno fenomenologico (che cos’è Chatgpt), l’altro antropologico-politico (che impatto ha sulle nostre società), l’ultimo legal-istituzionale (quali sono i punti di crisi giuridici). Questi sono presentati con la tecnica della meta-narrazione e quindi attraverso un’esposizione polifonica delle diverse facce del dibattito in corso» (p. 141).
E le stelle (d’Europa) stanno a guardare, mentre la fine si avvicina. Quella dei palestinesi? No, quella dello Stato sionista. Non ci vuole Dante per vedere come, nella Storia, ogni criminale corre verso il contrappasso.
Con l’intervento in Siria, che del resto, bombarda impunito da 14 anni, lo Stato nato e formato e vissuto nell’illegalità e nel sopruso, ha aperto un altro fronte dei sette su cui imperversa, 7 di 16 paesi arabi più Iran (di cui tre dei maggiori già neutralizzati). Uno Stato illegittimo di 9 milioni di immigrati e una popolazione espropriata e ostile di quasi pari entità (senza calcolare 5 milioni di profughi che contano di tornare a casa), utilizza la massima parte delle sue risorse (di cui nessuna naturale e tutte assegnate) per sterminare autoctoni e popoli vicini ed espandere la lebbra delle occupazioni coloniche.
In Siria, Israele ha azzannato un boccone che rischia di andargli di traverso. Improvvisamente lo Stato degli Ebrei di cui le minoranze arabe musulmane e cristiane non sono ovviamente cittadine a pieno titolo, appare isolato. Lo squartamento del paese vicino, un tempo democraticamente unito nelle sue confessioni ed etnie, socialmente equo, di una resilienza tale da aver resistito a 14 anni di assalti della triade turco-israelo-atlantici (oggi al potere) e del suo mercenariato terrorista, presenta una prospettiva di scontro plurimo e di difficile esaurimento.
Ho letto e ascoltato interventi di autorevoli esperti sempre più convinti che stiamo andando incontro a una guerra fra Europa, con o senza Nato, e Russia. E’ vero che una guerra di USA, Nato ed Europa contro la Russia è in corso da tre anni in Ucraina, ma adesso si parla della guerra diretta, quella con tutti gli eserciti schierati a combatterla. Questa previsione non mi convince e a mio parere rischia di farci perdere di vista i pericoli veri, uno che incombe sempre più minaccioso, l’altro che ha già preso la forma della realtà.
Quel tipo di guerra fra Russia ed Europa non può esserci. Nessuno può pensare che sia la Russia a promuoverla. Ci sono mille buone ragioni che escludono questa eventualità, la prima delle quali è che la Russia non ha il minimo interesse a farlo, anzi, ha l’interesse opposto, ovvero avere con l’Europa buoni rapporti e scambi commerciali reciprocamente utili. Possono dirlo, facendo finta di crederci e provando a convincere i rispettivi popoli, soltanto politici e giornalisti prezzolati o semplicemente proni a volontà e interessi che hanno deciso di servire, mestiere che non richiede intelligenza e neppure l’uso della ragione.
Ma è impossibile anche pensare che sia l’Europa ad avviare la guerra con la Russia. Non perché manchi una qualsiasi motivazione. L’Occidente ha fatto per secoli guerre, massacri e genocidi senza alcuna giustificazione.
Ho letto e ascoltato interventi di autorevoli esperti sempre più convinti che stiamo andando incontro a una guerra fra Europa, con o senza Nato, e Russia. E’ vero che una guerra di USA, Nato ed Europa contro la Russia è in corso da tre anni in Ucraina, ma adesso si parla della guerra diretta, quella con tutti gli eserciti schierati a combatterla. Questa previsione non mi convince e a mio parere rischia di farci perdere di vista i pericoli veri, uno che incombe sempre più minaccioso, l’altro che ha già preso la forma della realtà.
Quel tipo di guerra fra Russia ed Europa non può esserci. Nessuno può pensare che sia la Russia a promuoverla. Ci sono mille buone ragioni che escludono questa eventualità, la prima delle quali è che la Russia non ha il minimo interesse a farlo, anzi, ha l’interesse opposto, ovvero avere con l’Europa buoni rapporti e scambi commerciali reciprocamente utili. Possono dirlo, facendo finta di crederci e provando a convincere i rispettivi popoli, soltanto politici e giornalisti prezzolati o semplicemente proni a volontà e interessi che hanno deciso di servire, mestiere che non richiede intelligenza e neppure l’uso della ragione.
Ma è impossibile anche pensare che sia l’Europa ad avviare la guerra con la Russia. Non perché manchi una qualsiasi motivazione. L’Occidente ha fatto per secoli guerre, massacri e genocidi senza alcuna giustificazione.
Nei giorni scorsi
abbiamo dovuto subire il tornado, ricorrente intorno a ogni
dannato 11 luglio, del trentennale del cosiddetto massacro,
per molti genocidio, di
Srebrenica in Bosnia che, secondo i celebranti, sarebbe
avvenuto quel giorno dell’anno 1995, a conclusione della
guerra di disfacimento della
Federazione jugoslava. Per inciso, nella furia di commemorare
quell’evento, arricchito costantemente di nuove macabre
scoperte di salme
dissotterrate e da dissotterrare negli anni a venire, anche
ben trent’anni dopo, neanche il più rispettabile cronista o
commentatore
riesce a osservare almeno un frammento della buona regola del
dubbio, visto il cui prodest, o almeno dell’attenzione a
versioni altre del
fatto.
Che pure ci sono. E abbondanti e autorevoli, condotte con strumenti di verifica storica e scientifica. Tale è la disponibilità, tra indolenza, complicità e assoggettamento a quanto prevale nella narrazione pubblica, irrobustita da un’alluvione di immagini e testimonianze dirette, date per inoppugnabili. Ogni voce alternativa, ogni seme di dubbio, magari della dimensione di un granello di sabbia nel potentissimo ingranaggio, ha ormai assunto il carattere della blasfemia. 8000 vittime s’è detto e 8000 restano.
E’ una cifra che fa colpo. Non per nulla sarebbero 8000 anche i curdi sterminati da Saddam ad Halabja. Altro evento contestato, perfino dagli americani. Eppure, se 8000 fanno genocidio, cosa fanno i 150.000 calcolati da Harvard e Lancet a Gaza? Per Radio Radicale, 8000 sarebbero i trucidati dal regime siriano di Assad. Qualcuno ha contato 8000 vittime del Covid a Wuhan e 8000 precise sarebbero le vittime annuali dell’influenza in Italia e figuriamoci se non erano 8000 gli ebrei italiani deportati in Germania, mentre quanti pensati che siano, per Repubblica, i minori morti per incidenti stradali in Europa se non 8000? Come erano certamente 8000, prima ancora che qualcuno arrivasse munito di pallottoliere, i morti del terremoto 2016 tra le impenetrabili montagne del Nepal.
Questo è un
articolo importante di Hudson, che offre un’altra importante
prospettiva storica
a lungo termine, qui sull’uso del commercio come strumento
di sfruttamento coloniale. Tuttavia, mi sento in dovere di
mettermi il cappello da
pignolo e di offrire qualche cavillo.
Il primo è l’uso del termine “libero scambio”. Viviamo in un sistema di scambi regolamentati. I beni importati devono ancora rispettare standard di sicurezza e spesso specifici per quanto riguarda i contenuti. Esistono anche barriere commerciali non tariffarie. I giapponesi non amano la carne di manzo o il riso americani, considerandoli (giustamente) di qualità inferiore. Sono particolarmente diffidente nei confronti del termine “libero” usato in relazione agli accordi economici perché è stato propagandato con grande successo dai libertari (si veda ad esempio il libro di Milton Friedman “Liberi di scegliere” e la sua serie correlata della PBS, a dimostrazione della durata di questa campagna). Sarei stato più soddisfatto di una definizione del termine “libero scambio” e di un minore affidamento sulla parola “libero”, che ormai porta con sé un peso eccessivo.
In secondo luogo, la Cina, correttamente presentata come un ripudio dell’economia neoliberista, non è stata trattata dagli interessi occidentali, in questo caso dalle moderne multinazionali che hanno influenza politica, come un tipico progetto di estrazione coloniale ricca di risorse. Gli Stati Uniti hanno fatto sì che l’OMC ignorasse le proprie richieste per l’ammissione della Cina all’inizio degli anni 2000.
Migliaia di persone sono in piazza in diverse città dell’Ucraina, come Kiev, Leopoli, Odessa e Dnipro, per protestare contro il governo Zelensky.
A innescare la protesta delle piazze è stata l’approvazione in Parlamento di una legge che ha per oggetto l’indipendenza dei due maggiori organi dell’anticorruzione nel Paese.
La nuova legge sulle agenzie anticorruzione
La nuova norma prevede infatti che il Nabu (Ufficio nazionale anticorruzione) e la Sapo (Procura specializzata anticorruzione) debbano rispondere al Procuratore generale, ossia una figura politica nominata direttamente dal presidente, perdendo di fatto la necessaria autonomia rispetto all’esecutivo per lo svolgimento delle proprie funzioni.
La misura è stata voluta e sostenuta in maggioranza dal partito fondato dal presidente Zelensky nel 2017, Servitore del Popolo, ma è stata votata anche dal partito di Petro Porošhenko, Solidarietà europea.
Gli “oligarchi” votano con Zelensky
Porošhenko è un imprenditore, o un “oligarca” come amano dire i quotidiani italiani, di successo arricchitosi con lo smantellamento della Repubblica socialista sovietica ucraina negli anni Novanta e “sceso in campo” a cavallo del nuovo Millennio.
Dietro il conflitto latente tra Europa e Russia si nasconde il vecchio concetto della "spinta verso Est" teorizzato dai tedeschi. Che nient'altro è che l'eterno desiderio europeo di sottomettere e depredare la Russia
In questo turbolento snodo della Storia è davvero straordinario accorgersi come si ripetano costantemente gli stessi movimenti di fondo; si tratta di trame e di intrecci ricorrenti che si verificano costantemente soprattutto nella storia europea.
Certamente uno dei più straordinari esempi è quello del cosiddetto "Drang nach Osten", la spinta verso Est delle popolazioni germaniche alla ricerca di migliori condizioni di vita. Un fenomeno noto sin dal Medioevo e che nei secoli portò alla conquista e alla germanizzazione di territori slavi e baltici.
Nel corso dell'Ottocento questo fenomeno fu denominato da pensatori tedeschi – appunto – cone "Drang nach Osten": la spinta verso Est. A questo concetto in qualche modo “geografico” peraltro si intreccia anche l'ideologia – sempre ottocentesca – del pangermanesimo che teorizzava l'esigenza di riunire tutte le popolazioni germaniche in un unico impero, oltre al fatto che giustificava l'espansionismo sulla scorta di una presunta superiorità culturale tedesco. Da qui alla teorizzazione del “Lebensraum" dello "spazio vitale" di matrice nazista – come si può intuire – lo spazio è stato breve. Una ricerca dello spazio vitale che sotto il nazismo maturò, in una spinta verso est sulla punta di lancia delle colonne corazzate della Wehrmacht giustificata dalla presunta superiorità razziale tedesca sulle popolazioni slave.
La dichiarazione del portavoce delle Brigate Al-Qassam Abu Obaida, che qui riportiamo (*) è notevole almeno per due aspetti.
Anzitutto perché mostra che nonostante i terribili colpi ricevuti, la resistenza palestinese a Gaza si sta riorganizzando per una lunga guerra di logoramento contro l’esercito occupante. Un logoramento che ormai viene ammesso pubblicamente perfino in Israele, mentre non compare mai sui “nostri” giornali e nelle “nostre” tv.
1 soldato israeliano su 8 tra quelli che hanno agito a Gaza, è “mentalmente inidoneo” a tornare in servizio, ha accertato l’università di Tel Aviv, poiché soffre di sintomi gravi di disturbo post-traumatico (PTSD), ed è in crescita il numero dei suicidi – ufficialmente sono soltanto 42, ma nei primi giorni di luglio ne sono avvenuti almeno 5. Sui morti e i feriti la banda Netanyahu tace o mente; è certo – però – che sono in numero rilevante, tant’è che il suo governo è da tempo alla ricerca di mercenari. E, a rischio addirittura di cadere, vorrebbe – dato lo stato di necessità – reclutare anche gli ultra-ortodossi.
Nonostante decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti; nonostante la decimazione del quadro dirigente della resistenza; nonostante l’attività delle milizie traditrici di Shabab, Khanidek e Khalas al soldo di Fatah e di Israele; nonostante il sadismo dell’operazione Gaza Humanitarian Foundation con i massacri a ripetizione delle persone che cercano un po’ di cibo o di acqua; nonostante l’illimitata quantità di bombe, mezzi, munizioni, risorse energetiche e di spionaggio messi a disposizione dello stato sionista dai suoi grandi protettori (Stati Uniti e Unione europea) e dai suoi grandi e piccoli complici sparsi in tutto il mondo; la resistenza palestinese non alza bandiera bianca.
Il momento di fermare il piano distopico di Israele non è domani. È adesso. Alzatevi. Fate sentire la vostra voce. Inondate le strade. Bombardate il Congresso. Chiedete che venga fatta giustizia. Fermate il piano. Salvate Gaza. Prima che sia troppo tardi
È triste constatare che la stanchezza nei confronti del genocidio ha preso il sopravvento, poiché l’indignazione mondiale non ha smosso l’unico attore che potrebbe fermare il massacro di Israele, gli Stati Uniti. Le foto di bambini affamati hanno provocato un recente picco di condanne, ma non hanno fatto alcuna differenza. Gli Stati Uniti e Israele continuano ad accumulare il loro senso di estrema legittimità mentre aggiungono nuovi episodi al loro elenco di orrori, dalle sanzioni contro la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese al piano di formalizzare lo status di Gaza come campo di concentramento, che Israele chiama, in un insulto all’intelligenza, “città umanitaria”. Cavolo, come un campo estivo ma senza cibo, medicine o acqua pulita?
Se aveste prestato attenzione, Gaza prima del 7 ottobre veniva regolarmente descritta come un campo di concentramento a cielo aperto. Il post di Medea Benjamin qui sotto spiega che questo nuovo campo di concentramento è presentato come una tappa intermedia verso l’espulsione dei palestinesi, che è pulizia etnica e vietata dal diritto internazionale, non che Israele e gli Stati Uniti siano vincolati da tali sottigliezze. Tuttavia, come i lettori ben sanno, Israele e gli Stati Uniti stanno cercando di convincere altre nazioni ad accogliere i palestinesi che vengono allontanati con la forza.
Maoismo climatico, decrescita, nuova sinistra: appunti su “Il capitale nell’Antropocene” di Saitō Kōhei
Gira molto un video in cui
Žižek riassume la crisi della sinistra mondiale mentre,
calcandosi in testa una toque blanche, prepara le fettuccine.
Intanto che impasta
uova e farina, e dopo essersi annunciato in camera come Chef
Slavoj, dice che il capitalismo sta entrando nella sua crisi
finale, e che questo stato
avanzato di disgregazione non è più un sogno o una paura ma un
dato di fatto, chiaro anche ai capitani di industria più
moderni e
scafati come Musk, Zuckerberg e Bezos. A raccogliere le
opportunità di questa crisi non c’è però una sinistra
organizzata,
e tutto quello che abbiamo davanti – intanto Žižek gira la
manovella della macchina della pasta – è una decadenza
prolungata.
L’ascesa di ogni fascismo è, dopotutto, la traccia di qualche rivoluzione fallita, e la sinistra in questi anni ha fallito, ha appiattito la sua proposta, si è mostrata la più leale alleata dell’austerità, dice Žižek, alludendo ovviamente a quel centrosinistra – liberale, socialdemocratico – che negli ultimi trent’anni si era convinto di potersi avvicinare in maniera propizia al mercato, di poter e dover battere le destre attuando prima di loro, più rigorosamente, o più propriamente, le politiche conservatrici, trasformandosi insomma in un centrodestra più moderno, a modo, popolato magari di gente seria e preparata.
Ora che la situazione sembra destinata al definitivo collasso, potremmo però scoprirci più liberi: i buoni motivi per rinviare la costruzione di un futuro radicalmente diverso sono sempre più esili, se ancora ci sono.
Così, riprende Žižek, oggi non ha più ragion d’essere lo scontro tra destra moderata e sinistra moderata, il nuovo fronte elettorale è piuttosto quello dell’establishment contro i populismi. Populismi che hanno riempito il vuoto creato dal fallimento della sinistra. Siamo chiusi in un circolo vizioso che può essere disfatto soltanto dalla nascita di una nuova sinistra. Che però fatica a emergere. L’unica possibilità di futuro, in queste condizioni, rimane quella di un capitalismo ancora più autoritario.
Lo scorso 6 e 7
luglio a Rio de Janeiro si è svolto il 17° Vertice dei BRICS+.
Tema centrale: “Rafforzare la cooperazione del Sud
globale per una
governance più inclusiva e sostenibile”. In un contesto
internazionale di riassetto geopolitico, attraversato da
guerre e tensioni
armate, crisi sistemiche e una crescente fragilità dell’ordine
multilaterale, il vertice BRICS 2025 ha segnato un punto di
svolta nella
postura geopolitica del Sud globale.
Per la terza volta, il Brasile ha accolto la riunione dell’alleanza, dopo gli incontri del 2014 (a Fortaleza) e del 2019 (a Brasilia). Nonostante i tentativi diplomatici di ridurre l’attrito con l’Occidente, le divergenze strutturali con Washington si sono acuite, in particolare con il presidente Donald Trump, che ha minacciato ritorsioni commerciali contro i Paesi allineati al blocco.
“Il mondo è cambiato. Non vogliamo un imperatore, siamo Paesi sovrani” ha dichiarato Luiz Inácio Lula da Silva, presidente brasiliano e anfitrione del summit, rispondendo alle provocazioni statunitensi. Lula ha anche sottolineato che i Paesi colpiti potrebbero rispondere con proprie tariffe, cosa che lo stesso Brasile ha attivato nei giorni seguenti, come risposta all’imposizione di quelle di Washington.
Con la legittimità occidentale sepolta sotto le macerie di Gaza, lo scontro era inevitabile. Le differenze riguardano due diverse visioni del mondo. Fin dall’adozione del motto del suo 17° vertice, i BRICS hanno chiarito di essere favorevoli alla “…cooperazione con il Sud globale, verso una governance multilaterale più inclusiva e sostenibile”, in opposizione alle politiche escludenti, unilaterali ed egemoniche del G-7 e degli Stati Uniti.
L’artiglieria mediatica occidentale ha speculato sull’assenza fisica di Vladimir Putin e Xi Jinping al vertice, proiettando l’immagine di un blocco indebolito, pieno di contraddizioni insanabili e non in grado di andare avanti.
Niamey, marzo 2025. Dimentichiamo troppo spesso che tutti, in questa terra, siamo stranieri. Arriviamo da clandestini, transitiamo come migranti, viviamo spesso da rifugiati e partiamo senza documenti di viaggio. Le frontiere che delimitano i Paesi, le Nazioni o le Patrie sono delle costruzioni politiche validate dalle consuetudini o come realtà riconosciuta dal diritto. Tutto è precario nell’assunzione dell’inevitabile fragilità che attraversa tutte le umane istituzioni. Eppure ci si ostina a rendere eterno, immortale, divino e dunque atto a richiedere sacrifici umani un’entità in balia di contingenze storiche.
Non casualmente, a l’occasione della festa che ricorda la nascita della nazione, si organizzano spesso sfilate militari che vorrebbero rassicurare i cittadini della protezione contro i nemici, interni e soprattutto esterni della patria. D’altronde il dizionario ricorda bene che... Il termine patria deriva dal latino pater «padre» e indica in generale la terra natale, la terra dei padri, vale a dire il Paese, il luogo e la collettività cui gli individui si sentono affettivamente legati per origine, storia, cultura e memorie. Si tratta di una paternità esclusiva dove l’identità del cittadino si lega a quella della patria.
Da questo termine derivano gli altri che conosciamo, patriota, patriottismo, combattente per la patria o traditore della patria. Naturalmente il significato dipende dal momento, dai rapporti di forza, dai condizionamenti culturali, ideologici o religiosi. Gli organizzatori delle guerre e cioè i fabbricanti di armi, di confini e di interessi legati al mutevole capitalismo globale, usano con dovizia gli accenti romantico- identitari che la patria offre ai migliori acquirenti.
Quando, nel Novecento, diventa chiaro che l’uomo, oltre a essere stato assemblato a casaccio nella natura, pensa anch’egli a casaccio – dunque non secondo un piano, ma davvero sparando a caso – e che, di tutti i brillanti teoremi che vengono alla luce, non c’è un principio che li giustifichi, così come non c’è un piano divino dietro alla meraviglia del corpo umano, allora si iniziano a cercare teorie che spieghino il funzionamento dello spirito umano senza ricorrere all’intervento di un demiurgo, di un autore, di un soggetto: è qui che ha inizio la decostruzione del soggetto.
Sono prodotte montagne di studi che puntano a mostrare il funzionamento di sistemi complessi a-teleologici. La biologia è in prima linea, seguita dalla linguistica, dall’antropologia, dalla cibernetica, eccetera. Libri come La logica del vivente, Il caso e la necessità, La cibernetica: controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina, Autopoiesi e cognizione, la realizzazione del vivente, Sistemi che osservano, Un’ecologia della mente, Saggi di linguistica generale, eccetera, diventano best sellers. Non mancano tentativi di estendere queste teorie ad altre discipline, persino al marxismo sovietico.
Se tutto si muove e tutto è collegato, come spiegare la stabilità relativa che sta alla base del riposo, e come strutturare l’interdipendenza universale se non è gerarchizzata? Se tutto, in primo luogo il pensiero, si organizza procedendo a casaccio, sparandole senza intenzione, come si arriva a una stazione di riposo e a un fermo immagine? Se il nuovo è emergente, il passato può veramente essere conservato nell’avvenire, o tutto è un deragliare continuo, un’erranza che non è nemmeno un errare o un errore?
Cosa accomuna due autori come il filosofo della politica Mario Tronti e l’intellettuale keniota Ngugi wa Thiong’o? La convinzione che in questo allucinogeno ventunesimo secolo all’imposizione violenta della volontà dei più forti è subentrata la convinta sottomissione dei più deboli
«La servitù volontaria prende il posto della proibizione imposta» (Mario Tronti). E’ la tragica consapevolezza a cui arriva uno dei maggiori filosofi italiani ricordato come promotore negli anni ‘60 del secolo scorso del tanto discusso operaismo (Operai e capitale, 1966) e come spericolato incursore teorico armato di una volontà di ricerca mai quieta, mai pacificata, che lo porterà attraverso la cosiddetta autonomia del politico e il corpo a corpo con il grande pensiero conservatore novecentesco – Carl Schmitt in particolare – a un’ultima fase della sua vita in cui dopo aver ricoperto anche ruoli istituzionali – è stato Senatore della Repubblica – si sarebbe come fermato a riflettere sulla storia del secolo “grande e terribile” (il ‘900), fortemente intrecciata con la sua, in una condizione da lui stesso definita di monachesimo combattente lasciando il chiacchiericcio filosofico «ai tanti che fanno filosofia in piazza» [quasi tutti gli ospiti abituali degli insopportabili festival estivi…].
Il risultato di questa riflessione, inteso anche come lascito teorico della sua opera che attraversa sessant’anni di storia di questo Paese, è stato il testo postumo Il proprio tempo appreso col pensiero (Tronti è scomparso il 7 agosto 2023) che ho appena finito di leggere insieme a un altro volume all’apparenza appartenente a un altro mondo, un mondo completamente diverso, quello del Kenya, ex colonia britannica indipendente dal 1963: Decolonizzare la mente del grande intellettuale, scrittore e letterato africano Ngugi wa Thiong’o, scomparso anche lui poco tempo fa.
Chiuso lo spiraglio negoziale, torna la logica delle armi e il rischio di escalation
E’
probabile che chi ancora nutriva speranze nella possibilità
che il presidente americano Donald Trump risolvesse il
conflitto ucraino per via
negoziale le abbia perse in questi giorni.
Una reale trattativa fra Russia e Ucraina non è mai decollata, e la bizzarra mediazione dell’amministrazione Trump (gli Stati Uniti sono parte cobelligerante piuttosto che arbitro) è stata inefficace fin dall’inizio . Ma gli eventi di questi giorni segnano uno spartiacque probabilmente definitivo.
Dopo una breve pausa nell’invio di armi a Kiev apparentemente motivata dall’assottigliarsi delle riserve americane, lo scorso 7 luglio Trump ha annunciato la ripresa delle forniture giustificandola con gli intensificati attacchi russi e l’urgente bisogno di sistemi di difesa aerea da parte dell’Ucraina.
L’amministrazione ha pertanto deciso di prelevare dalle riserve del Pentagono armi per un valore di 300 milioni di dollari in base alla Presidential Drawdown Authority (PDA), per mandarle a Kiev.
E’ la prima volta nel suo secondo mandato che Trump fa ricorso alla PDA, uno strumento abitualmente utilizzato dal suo predecessore Joe Biden.
La decisione è coincisa con un cambio di toni da parte del presidente USA, che per la prima volta ha impiegato un linguaggio molto aspro nei confronti del presidente russo Vladimir Putin, accusato di “uccidere un sacco di gente” e di non far seguire alle parole azioni concrete.
Sebbene il presidente americano ci abbia abituato da tempo a repentini cambi di rotta e improvvisi sbalzi d’umore, il differente approccio nei confronti di Mosca è parso nei giorni successivi come qualcosa di meno estemporaneo.
La
responsabilità dei governi occidentali nel genocidio in
corso a Gaza è enorme.
Ciò che sta emergendo con chiarezza è il fallimento
conclamato del cosiddetto «ordine internazionale liberale».
Un ordine
che non solo non ferma i genocidi, ma legittima e protegge
la violenza sistematica di Israele, che viene per
definizione considerata un atto di
autodifesa. Mentre si concede carta bianca a Netanyahu, i
governi dell'Occidente continuano a intrecciare proficui
rapporti con il suo complesso
militare-industriale.
Come ci ricorda Alberto Toscano, nel suo rapporto From Economy of Occupation to Economy of Genocide la relatrice speciale dell'Onu Francesca Albanese è esplicita: «se il genocidio non si è fermato, è anche perché è un’impresa redditizia. Rende, e rende molto».
Le lezioni della guerra in Iraq sono ancora davanti ai nostri occhi: la complicità delle élite «democratiche» occidentali producono effetti duraturi, e continueranno a farsi sentire per anni.
* * * *
Il 2 luglio, il Parlamento britannico ha votato per inserire il gruppo Palestine Action nella lista delle organizzazioni terroristiche. La decisione è arrivata dopo l’ultima azione diretta del gruppo, avvenuta il 20 giugno, quando alcuni attivisti hanno danneggiato due aerei da rifornimento in volo Voyager presso la base di Brize Norton, da cui partono regolarmente voli verso la RAF Akrotiri, la base situata a Cipro da cui sono decollati centinaia di voli di sorveglianza su Gaza. Mentre il governo britannico insiste sul fatto che le operazioni di ricognizione sono finalizzate esclusivamente alla localizzazione e al salvataggio degli ostaggi, gli attivisti sostengono che la condivisione di informazioni d’intelligence con Israele implichi la complicità del Regno Unito in crimini di guerra.
Khoei Saito in Il
capitale nell’Antropocene critica duramente gli
Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite
paragonandoli all’oppio dei
popoli di marxiana memoria poiché distolgono l’attenzione
dalla reale crisi climatica con soluzioni superficiali come
l’uso di
borse riutilizzabili o borracce che fungono da greenwashing
senza affrontare il problema alla radice. Saito sostiene che
queste azioni individuali,
sebbene ben intenzionate, rischiano di assolvere la
coscienza delle persone, impedendo un cambiamento radicale
necessario per contrastare il
riscaldamento globale. La situazione ambientale è descritta
come irreparabile, con l’uomo che ha alterato profondamente
il pianeta, tanto
da far coniare il termine Antropocene per indicare l’era
geologica dominata dall’impatto umano. Viene citato Paul
Crutzen, premio Nobel
per la Chimica, per sottolineare come le attività economiche
abbiano modificato l’ambiente, con un’enorme diffusione di
microplastiche negli oceani e un aumento senza precedenti
della CO₂ atmosferica, passata da 280 ppm prima della
Rivoluzione Industriale a oltre
400 ppm nel 2016. Questo incremento, paragonabile a livelli
risalenti a quattro milioni di anni fa, potrebbe portare a
un innalzamento catastrofico
del livello dei mari e a un clima simile a quello del
Pliocene. La crisi climatica minaccia la sopravvivenza
stessa della civiltà umana, con le
disuguaglianze sociali che si acuiscono. I ricchi potrebbero
mantenere il loro stile di vita ma la maggior parte della
popolazione sarà
costretta a lottare per la sopravvivenza. Per Saito la vera
causa della crisi climatica è nel capitalismo stesso, il cui
sviluppo dalla
Rivoluzione Industriale ha coinciso con l’aumento delle
emissioni di CO₂. Per trovare una via d’uscita propone di
rileggere Marx in
modo innovativo, analizzando le connessioni tra capitale,
società e natura nell’Antropocene non per riproporre un
marxismo dogmatico ma
per riscoprire aspetti del suo pensiero finora trascurati,
nella speranza di immaginare una società più giusta e
sostenibile.
Diplomafia: così viene chiamata dal giornale israeliano «Haaretz» l’offensiva globale che Donald Trump ha scatenato sui dazi.
A sorreggere la politica statunitense non ci sono ragionamenti commerciali, né economico-finanziari, e neanche geopolitici, contrariamente a quanto affermano alcuni esperti. La geo-politica presuppone una mente fredda, analitica, mentre quel che quotidianamente va in scena ai vertici degli Stati Uniti è uno spirito di vendetta ben conosciuto e praticato nel mondo dei gangster e dei mafiosi.
Contemporaneamente Trump è sempre più impelagato nelle losche vicende di Jeffrey Epstein, suscitando rancore in un elettorato cui aveva promesso la fine del connubio fra politica, affari, malavita e uso sessuale delle minorenni che lo Stato Profondo custodiva e copriva. Chi conosce la serie The Penguin avrà l’impressione di vedere Gotham City. Non è infranto solo il diritto internazionale e non sono esautorati solo gli organismi delle Nazioni Unite. Trump ostenta ammirazione per i Presidenti protezionisti ed espansionisti dell’Ottocento (William McKinley, James Polk, Andrew Jackson, famosi per la liquidazione dei nativi americani e per le annessioni delle Hawaii, della California, di parte del Messico). Ma essendo figlio del Novecento e delle sue guerre calde e fredde immagina che in quanto padrone della terra tutto gli sia permesso, e interferisce nei procedimenti giudiziari di Stati sovrani – amici e nemici– ergendosi a giudice supremo di un inesistente governo universale.
Nelle ultime settimane, in concomitanza con l’accelerazione imposta da Israele al genocidio palestinese, si assiste a un analogo cambio di passo anche da parte dell’informazione embedded che, ormai, sembra lavorare al passo e al ritmo dei massacratori israeliani e dei loro complici (USA, UE, paesi arabi, con pochissime e lodevoli eccezioni).
La nuova strategia informativa dei Tg non è più quella della negazione, resa del tutto impossibile da una pletora di dati, video, studi e dichiarazioni pubbliche dello stesso governo israeliano, bensì quella dell’assopimento, della normalizzazione, della distrazione e dell’assuefazione dell’opinione pubblica all’orrore quotidiano.
Le vie seguite nella costruzione della nuova narrativa mainstream sono molteplici. Si va dalla manipolazione linguistica, alla concessione parziale, allo spostamento del focus, per giungere infine alla somministrazione dell’orrore a dosi omeopatiche e tollerabili. D’altronde ci troviamo in una fase storica complessa, nella quale il senso morale dell’opinione pubblica è distratto e debilitato da problemi quotidiani impellenti e, spesso, vitali. Le persone hanno sovente poco tempo, scarse risorse e strumenti limitati per informarsi a fondo mediante reali alternative alla narrazione dominante.
Lo strumento della manipolazione linguistica, in realtà, è stato utilizzato dal potere fin da i tempi più remoti, ma nei brevi Tg nostrani assume forme addirittura grottesche.
C’è un momento, nella liturgia dell’ipocrisia occidentale, che si ripete sempre uguale, con la puntualità di un’orazione scritta a tavolino: il momento in cui ci si indigna. Non per tutto. Non per tutti. Ma solo per qualcuno, e solo quando conviene. In Italia, questo rito ha trovato in Giorgia Meloni la sua sacerdotessa perfetta. Bastava attendere.
Quando le bombe israeliane hanno colpito la chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza, ferendo il parroco italiano padre Gabriel Romanelli, le parole della Presidente del Consiglio sono arrivate leste, impomatate di indignazione: “Inaccettabile. Bisogna fermarsi. Bisogna trovare la pace.”
Parole che fino al giorno prima non avevano trovato spazio. Non per gli oltre 60.000 morti palestinesi. Non per i bambini spappolati sotto le macerie. Non per le scuole distrutte, gli ospedali ridotti in polvere, gli anziani lasciati morire di fame. Non per i bombardamenti quotidiani, le esecuzioni a sangue freddo, la fame come arma di guerra. No, per quelli nulla. Nessuna parola. Nessun monito. Nessuna richiesta di pace.
La voce di Meloni si è alzata solo ora, solo perché tra quei muri sventrati c’è un italiano. Un prete. Un cattolico. Una vita che vale, secondo il catechismo geopolitico di questo governo. Gli altri, quelli con il nome arabo, quelli senza cittadinanza europea, quelli che non votano, non contano.
Lo scioccante bombardamento del palazzo presidenziale e di altri edifici governativi siriani da parte di Israele nella giornata di mercoledì ha dimostrato ancora una volta come non sia possibile intrattenere rapporti paritari con lo stato ebraico, il quale, per sua natura, comprende e accetta soltanto la dipendenza, quando a essa è collegata la sua stessa esistenza, ed è il caso delle relazioni con gli Stati Uniti, o la sottomissione, a cui cerca invece di sottoporre virtualmente tutti gli altri paesi. Il nuovo regime (ex) qaedista al potere a Damasco aveva infatti obbedito agli ordini di Washington per aprire un processo di normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv, ma questa disponibilità non lo ha risparmiato dalla violenza sionista.
Le drammatiche vicende siriane, in un quadro più ampio, sono la conseguenza di uno dei crimini più macroscopici degli ultimi decenni, vale a dire la distruzione di questo paese e del governo di Assad, orchestrata da Washington, dai suoi alleati in Europa e in Medio Oriente – Israele incluso – e messa materialmente in atto da una galassia di formazioni armate fondamentaliste. La “liberazione” della Siria è sfociata ora prevedibilmente nel caos più totale, con le minoranze etniche e religiose esposte a massacri indiscriminati e, sullo sfondo, una rivalità in prospettiva dai contorni esplosivi tra Turchia e Israele, di cui i fatti di questi giorni rappresentano probabilmente soltanto le prime avvisaglie.
Il bombardamento di Damasco è arrivato dopo una settimana di pesanti scontri armati nella provincia meridionale di Suwayda tra la minoranza drusa, che qui costituisce la maggioranza degli abitanti, da una parte e tribù beduine sunnite e forze del regime dall’altra.
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Si sta formando un nuovo blocco militar-industriale-informatico, con nuove aziende come Palantir o Anduril che si sono alleate al trumpismo, e approfittano dell’economia di guerra
Negli
inebrianti anni Novanta neoliberisti, il tecno-ottimismo
raggiunse i suoi estremi più imbarazzanti. Intrisi del fatuo
immaginario di quella che
Richard Barbrook ha definito «ideologia californiana»,
lavoratori del settore tecnologico, imprenditori e ideologi
tecno-visionari hanno
identificato la tecnologia digitale con un’arma per la
liberazione e l’autonomia personale. Questo strumento,
proclamavano, avrebbe
permesso agli individui di sconfiggere l’odiato Golia
rappresentato dallo Stato, allora ampiamente individuato nei
fallimentari colossi del
blocco sovietico in implosione.
Per chiunque abbia una conoscenza superficiale delle origini della tecnologia digitale e della Silicon Valley, questa avrebbe dovuto essere, fin dall’inizio, una convinzione ridicola. I computer furono un prodotto degli sforzi bellici dei primi anni Quaranta, sviluppati come mezzo per decodificare messaggi militari criptati, con Alan Turing notoriamente coinvolto a Bletchley Park.
L’Eniac, o Electronic Numerical Integrator and Computer, considerato il primo computer multiuso utilizzato negli Stati uniti, fu sviluppato per compiere calcoli applicati all’artiglieria e per supportare lo sviluppo della bomba all’idrogeno. Come sosteneva notoriamente G.W. F. Hegel, la guerra è lo Stato nella sua forma più brutale: l’attività in cui la forza dello Stato viene messa alla prova contro quella di altri Stati. Le tecnologie dell’informazione sono diventate sempre più centrali in questa tipica attività statale.
Qualcuno potrebbe ancora credere al mito della Silicon Valley nata spontaneamente dagli hacker che saldavano circuiti nei loro garage. Ma la realtà è che non avrebbe mai preso vita senza il supporto infrastrutturale dell’apparato di difesa statunitense e dei suoi appalti pubblici, che garantiscono la redditività commerciale di molti prodotti e servizi che oggi diamo per scontati.
Kairos di Jenny Erpenbeck (Sellerio, 2024) è un romanzo complesso, in cui la storia di amore e ossessione tra Katharina e Hans si intreccia in modo inestricabile con il clima e lo zeitgeist di Berlino Est nella seconda metà degli anni Ottanta e subito dopo il crollo del Muro. Gigi Roggero non si limita a una recensione, ma propone un’analisi su nodi storici e politici che interrogano il nostro presente.
Kairos, il dio dell’attimo
fortunato, ha – dicono – un ricciolo che gli ricade sulla
fronte, e da quello soltanto lo si può
trattenere. Ma non appena il dio passa oltre con i suoi
piedi alati, ci offre solo la parte posteriore del capo, che
è calva e liscia, senza
alcun appiglio da cui poterla afferrare.
Kairos di Jenny Erpenbeck è una straordinaria fotografia in movimento di Berlino Est nello snodo cruciale tra gli anni Ottanta e Novanta. È straordinaria da tanti punti di vista, come sanno spesso fare i libri, e soprattutto i romanzi. E noi, tra questi punti di vista, scegliamo il nostro. Della fotografia lasciamo ciò che è in primo piano all’analisi di chi è più competente. Sintetizzando brutalmente, è la storia di una giovane studentessa, Katharina, e di uno scrittore sposato di mezza età, Hans: una storia d’amore e di ossessione, una storia sulla sofferenza del restare e sul trauma dell’abbandono, una storia sul desiderio di lasciarsi trasportare dalla corrente e sulla sicurezza del raggiungere la riva. Ecco allora che, dalle microstorie individuali, emerge con forza la metafora della macrostoria collettiva. E questa macrostoria collettiva si chiama Berlino Est, ovvero un pezzo di quel grande esperimento, il più grande della storia moderna, di rompere con il capitalismo e costruire una nuova società. È questo lo sfondo del romanzo su cui ci vogliamo concentrare. Uno sfondo che, nelle pagine di Erpenbeck, parrebbe lontano, soffuso, quasi impercettibile. Eppure, a ben guardare, è immancabilmente presente, pesante, talora soffocante. Uno sfondo senza cui le piccole storie come questa perderebbero la loro tragica intensità.
I consumatori della merce culturale sono oggi terrorizzati dagli spoiler. Come se contasse solo come va a finire. Ebbene, se come è andata a finire la grande storia sullo sfondo è risaputo, come va a finire la piccola storia in primo piano lo si può forse intuire. Ma non è questo il punto. L’autrice ci costringe ad andare oltre le facili conclusioni, a scavare nelle contraddizioni, ad addentrarci nei labirintici laboratori di produzione della storia, grande e piccola. E qui ciò che era sullo sfondo balza improvvisamente in primo piano. E ci rendiamo conto che, anche se non lo vedevamo, era in realtà sempre stato lì.
Abbiamo lasciato Tomskij carico come una molla, contro non tanto GLI ERRORI, ma L’ATTEGGIAMENTO, L’APPROCCIO AI PROBLEMI dei propri compagni: in particolar modo, di alcuni che per nascondere le proprie magagne cercavano il “nemico interno”.
Con chi ce l’aveva ora?Occorre entrare un attimo nel vivo delle polemiche sorte durante e attorno quel Congresso, con il ruolo della NEP nelle campagne a fare da piatto forte. Il kulak, il contadino arricchito, era divenuto nelle campagne l’equivalente del nepman cittadino. Sembra strano parlare oggi di questo, anzi, come dicono in gergo, “FA strano”, tirare in ballo ancora una volta la lotta di classe: specialmente, quando a livello mondiale il gruppo di Paesi se-dicenti socialisti è guidato dal turbocapitalismo con caratteristiche cinesi; e lì l’armonia confuciana he 和DEVE regnare, al pari e come nel vicino se-dicente capitalistico Giappone. Va bene tutto, finché non si pestano i piedi a chi non si devono pestare… QUI NO. Immaginiamoci noi fra il Sessantotto e il Settantotto, così forse ci capiamo. Del resto, abbiam già constatato come qui bastasse molto, ma molto meno per sollevare vespai NON INDIFFERENTI, e NON SOLO IDEOLOGICI.
A differenza, INFATTI, del nostro decennio Sessantotto – Settantotto, la situazione socioeconomica era completamente DIVERSA. Non si era in BOOM economico, ma SI LAVORAVA ANCORA FRA LE MACERIE FUMANTI.
E IN QUEL CLIMA SI PARLAVA DI “NEP”! IL KULAK TORNAVA IN GICO, IL PADRONE, IL NEPMAN, SCENDEVA IN CAMPO! CE N’ERA DI BEN DONDE, PER INCAZZARSI.
Tornando alle campagne, un bracciante non aveva combattuto fino a pochi anni prima, patito fame e freddo, visto i propri compagni morti ammazzati, per poi lasciare che un altro contadino particolarmente dritto, “scarpe grosse e cervello fino” prendesse il posto del pomeščik a sfruttare lui e i suoi ex-compagni, prendendo il posto di quel proprietario terriero, a cui – e al carissimo prezzo di cui sopra! – si era riusciti a confiscare le terre e a redistribuirle!
Le costituzioni democratiche del dopoguerra si fondavano su un postulato oggi messo in discussione dall’evoluzione sociopolitica dell’Europa: il potere del demos, del popolo, esercitato secondo la rule of law, il suffragio universale, le elezioni e la tutela delle minoranze. In tale cornice, il popolo eleggeva i propri rappresentanti, i quali, sintetizzando istanze, poteri e interessi plurali, avrebbero dovuto realizzare politiche economiche, sociali ed estere coerenti con i principi costituzionali e con gli interessi del Paese, della società civile e dei corpi intermedi.
Tuttavia, questo meccanismo si è inceppato. Oggi, la politica economica e quella estera non sono più appannaggio delle élite elette, ma sono subordinate a poteri extraparlamentari capaci di condizionare integralmente l’orientamento politico europeo. Occorre guardare questa realtà senza reticenze, se si vuole anche solo tentare di modificarla.
I riti della democrazia, anche grazie alla manipolazione propagandistica delle opinioni pubbliche, restano formalmente intatti: le elezioni si svolgono a scadenze regolari, e schieramenti apparentemente opposti si presentano al giudizio degli elettori. Viene così preservata l’illusione che i cittadini eleggano liberamente le élite cui affidare la gestione della cosa pubblica – in primis, la politica economica, sociale ed estera.
Eppure, tutto è cambiato. La propaganda – fenomeno antico – è divenuta, dopo la fine dell’Unione Sovietica, monopolio di un apparato mediatico occidentale strettamente intrecciato, per proprietà e incarichi, alla cosiddetta società dell’1% e alla sua classe di servizio: burocrazia, accademia, management.
L’amministrazione Trump sembra avere rotto gli indugi nei giorni scorsi inserendosi apertamente negli intrighi strategici in corso nel Caucaso meridionale con una proposta in apparenza neutrale, ma che rivela finalmente le mire di Washington in quest’area del globo. L’ambasciatore americano in Turchia e plenipotenziario di Trump in Asia occidentale, Tom Barrack, ha infatti ipotizzato una concessione di 100 anni a una società o a un consorzio statunitense per la gestione della rotta, nota col nome di “Corridoio Zangezur”, che dovrebbe attraversare l’Armenia per collegare l’Azerbaigian con la sua exclave occidentale di Nakhchivan. Questo progetto è sul tavolo fin dalla stipula dell’accordo di pace del novembre 2020 che mise fine alla guerra tra Baku e Yerevan, ma da allora entrambi i governi – dietro pressioni esterne – ne hanno cambiato le condizioni di implementazione, al preciso scopo di ridurre drasticamente l’influenza nel Caucaso meridionale di Russia e Iran.
L’ultima guerra per il Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian si era conclusa con un sostanziale disastro per il primo paese, con la successiva perdita definitiva della regione a maggioranza armena ma internazionalmente riconosciuta come territorio azero. La Russia aveva giocato un ruolo determinante nella risoluzione del conflitto ed aveva visto confermare la propria posizione predominante nell’area. In uno dei punti più importanti, il trattato di pace prevedeva appunto lo “sblocco” di tutti i canali di collegamento della regione, incluso appunto quello tra l’Azerbaigian e la sua repubblica autonoma di Nakhchivan.
Le posizioni dell’Italia sulle questioni internazionali palesano la chiara scelta di campo del Governo di adesione acritica agli indirizzi portati avanti dagli Stati Uniti. Non parliamo di aderenza alle decisioni dell’attuale amministrazione americana ma proprio degli Usa. La Meloni è passata con invidiabile scioltezza da Biden a Trump. Probabilmente perché tutte le loro scelte, con diverse declinazioni, trovano nella volontà di ribadire il dominio del dollaro e della potenza americana il vero elemento di convergenza. La disdetta dell’accordo sulla “Via della Seta” del governo italiano del dicembre 2023 è un suggello simbolico di tale posizionamento. Dal dominio del dollaro dipende l’argine all’inarrestabile ascesa della Cina e delle potenze che con essa dialetticamente tendono a connettersi da un punto di vista strategico. Il filo atlantismo, inoltre, per il Governo Meloni ha anche la funzione di utilizzare l’alleato americano per provare a “contare” nella dialettica sempre più divergente tra i paesi europei.
I sovranisti in salsa amatriciana sono ispirati, quindi, nella difesa degli interessi nazionali dalla convinta collocazione dell’Italia in quel campo senza sé e senza ma. Quel campo, però, continua a scricchiolare sotto i colpi di una crisi generale su cui ogni potenza cerca di scaricare anche sugli “amici” i costi. I dazi al 30% e il dollaro
Se guardiamo al conflitto in Ucraina – per molti versi una anticipazione di come saranno combattute le guerre nei prossimi due lustri almeno – il fattore tecnologico sembra essere predominante. Missili balistici e ipersonici, UAV da ricognizione e d’attacco, munizioni vaganti, droni FPV, sistemi di guerra elettronica e anti-missile… Nell’ambito di una guerra simmetrica, le capacità nelle tecnologie offensive e difensive – ricerca e sviluppo, velocità di adattamento, capacità industriale, rapporto costo-efficacia… – diventa sicuramente un elemento di grandissima rilevanza. Ciò nonostante, questo rischia di oscurare un fattore ancora decisivo, ovvero il manpower. Tutta la tecnologia del mondo può essere più o meno utile, che si tratti di infliggere danni al nemico o di ridurne l’efficacia offensiva, ma alla fine il territorio va preso – o difeso – dalla fanteria. E inoltre, in un esercito moderno, il numero di combattenti in prima linea è solo una parte, e nemmeno la più numerosa, del personale necessario. Tutta la filiera logistica, e gli operatori dei sistemi d’arma dislocati nelle retrovie, e il personale necessario per le rotazioni sulla linea di combattimento… Per ogni combattente al fronte, servono almeno altri tre uomini.
Per quanto poco sottolineato, questo è un problema per un esercito moderno che non può essere sottovalutato. Se guardiamo ad esempio al conflitto in Ucraina, ci possiamo rendere conto in maniera più chiara di quanto sia rilevante. La Russia, ad esempio, a parte una parziale mobilitazione successiva all’avvio della Operazione Speciale Militare, conta essenzialmente su un afflusso sinora abbastanza costante di volontari (circa 30.000 al mese), mentre il personale di leva viene utilizzato per il presidio del territorio e/o per la logistica, riservando le operazioni di combattimento ai militari a contratto.
Il disavanzo economico reale tra Usa e Ue è di 5 miliardi. Avete letto bene: cinque! Per riequilibrare questo disavanzo l’Unione Europea accetta di beccarsi una mazzata colossale
Quello siglato tra Trump e Ursula von der Leyen non è un accordo ma una svendita che sancisce il ruolo per l’Unione Europea di colonia – o se volete di protettorato – degli Stati Uniti.
Innanzitutto vediamo le cifre. Nella retorica trumpiana, riprodotta e supportata dai media e dai governanti europei, i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea vengono descritti come completamente squilibrati e i dazi sono quindi legittimati per riequilibrare questa situazione ingiusta. Si tratta di una bugia colossale, priva di ogni fondamento. Nei rapporti tra Usa e Ue infatti gli Usa hanno un disavanzo di 213 miliardi per quanto riguarda le merci ma hanno un avanzo di 156 miliardi per quanto riguarda i servizi e di 52 miliardi per quanto riguarda i capitali.
In sostanza il disavanzo economico reale tra Usa e Ue è di 5 (cinque) miliardi. Avete letto bene: cinque! Per riequilibrare questi 5 miliardi di disavanzo l’Unione Europea accetta di beccarsi una mazzata colossale a partire dai dazi dal 15 al 50% per tutte le merci che esporta in Usa.
Che cosa succede invece per i servizi (Google, Microsoft, Amazon,etc etc.)? Succede che un mesetto fa, i paesi del G7, su pressione degli Usa, hanno deciso di non applicare la tassa minima globale sulle multinazionali.
I dazi stanno caratterizzando la
seconda presidenza di Donald Trump. Tuttavia, il
presidente sui dazi ha un comportamento ondivago,
minacciando e sospendendo le tariffe per poi
aumentarle o diminuirle.
Se vogliamo capire le cause profonde dei dazi e del comportamento ondivago di Trump dobbiamo staccarci dal contingente e cercare di capire qual è la strategia complessiva. A questo proposito, dobbiamo fare riferimento a Stephen Miran, che della politica dei dazi è lo stratega e che è attualmente il presidente del Council of Economic Advisor, un organismo interno all’Ufficio Esecutivo del Presidente degli Stati Uniti, il cui compito è dare consigli al presidente su temi economici. Durante la prima amministrazione Trump, Miran è stato consigliere senior del Ministero del Tesoro e successivamente stratega senior per Hudson Bay Capital Management, un grande investitore istituzionale all’interno del Trump Media & Technology Group, che gestisce anche la piattaforma Truth Social.
In particolare, dobbiamo fare riferimento a un testo di Miran che rappresenta il manifesto della politica dei dazi, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System (Guida dell’utente alla ristrutturazione del sistema commerciale globale), che è stato pubblicato da Hudson Bay nel novembre del 2024 in contemporanea con la vittoria di Trump.
Introduzione
Cominciamo, quindi, a vedere cosa dice questo testo. Miran inizia imputando alla sopravvalutazione del dollaro la ragione del deficit commerciale con l’estero e del declino della manifattura statunitense. Miran si propone di individuare gli strumenti per ovviare a questi problemi. Lo strumento unilaterale più importante sono i dazi, che, contrariamente a quanto sostiene l’opinione comune, non necessariamente aumentano l’inflazione. Infatti, quando nel 2018-2019, durante il primo mandato Trump, furono alzati i dazi non ci furono apprezzabili aumenti dell’inflazione, anche perché i dazi furono controbilanciati dal rafforzamento del dollaro.
All’interno della Volksgemeinschaft- la<comunità del popolo>- l’ordine sarà immanente e spontaneo […] J.Chapoutot, Nazismo e management/Liberi di obbedire, Einaudi 2021, p.28 (Gallimard, Paris 2020)
C’è
un concetto che irrompe prepotentemente sullo scenario
della Smart City e della Città dei 15 minuti, quello di
<Bene Comune>:
pericolosissimo, ambiguo, equivoco, spoliticizzato questo
concetto informa il sentire dei cittadini/e ma anche di
moltissimi compagni/e.
C’è stata una trasformazione evidente nella capacità di riconoscimento e di definizione delle classi sociali e dei rapporti di classe, trasformazione in questi anni sviscerata in vari modi e in maniera approfondita da intellettuali, analisti, studiosi, politici e via discorrendo. Tutti riconoscono ormai più o meno che il neoliberismo ha trasformato il significato delle parole, che ha demonizzato la così detta violenza politica con il suo portato rivoluzionario declassandola in delinquenza comune, che ha annichilito gli ambiti di reciproco riconoscimento degli esseri umani demonizzando il concetto di ideologia e consacrando quindi come unica ideologia quella imperante, che ha creato un individuo privo di riferimenti sociali che non siano quelli del consumo, del profitto, della promozione individuale, in lotta continua e prevaricante con gli altri e quindi assolutamente solo.
Di questo sono consapevoli quasi tutti/e.
Però succede che quando ci si trova sul terreno della quotidianità, delle scelte rispetto a quello che ci capita intorno, questa consapevolezza viene molto spesso meno e ci si muove come il potere vorrebbe.
E’ cominciato tutto con una sinistra più a destra della destra che si è assunta il compito di naturalizzare i principi neoliberisti nel nostro Paese e ha costruito in questa prospettiva un comune sentire perbenista e reazionario basato sui concetti di decoro urbano e “sicurezza”, “non violenza”, responsabilità individuale, colpevolizzazione, meritocrazia, coinvolgimento dei cittadini/e nelle sorti del potere, convivenza civile, “rispetto” delle opinioni altrui. E tutto questo è entrato nelle menti non solo delle persone comuni ma anche della sinistra di classe.
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
Il senso di questa pubblicazione, per la rubrica Altroquando, non è altro che quello che ha animato Carmilla sin dai suoi esordi: ravvivare la memoria storica attraverso la letteratura di genere, ma anche con l’analisi e il ripercorrere i passaggi storici e politici di un’epoca che sembra ormai sepolta: quella dell’antagonismo sociale e della lotta politica rivoluzionaria di fine secolo. Ovviamente potete trovare questo contributo che ora mi accingo a introdurvi, insieme a tutti i numeri della rivista Progetto Memoria, di cui La Sinistra Negata rappresenta un po’ il canto del cigno. E per scaricare l’intera raccolta in pdf dovete andare qui1. Il fatto però di pubblicare La Sinistra Negata, significa riportare al pubblico, alla sua attenzione, un contributo d’analisi ancora molto attuale, ma anche molto utile per la comprensione delle fasi politiche a cui fa riferimento: un lasso di tempo che va da Piazza Statuto, anni ’60 fino almomento in cui usciva l’ultimo numero di Progetto Memoria. Infatti dal 1960 al 1980 è un refuso poiché non comprende anche tutta la fase successiva, che invece nel saggio viene analizzata. Ma andiamo con ordine.
Un po’ di storiografia
Nel dicembre del 1998 usciva l’ultimo numero di una rivista bolognese, Progetto Memoria, che è stata di fatto la madre politica e culturale di Carmilla e che ha accompagnato la nostra rivista di letteratura antagonista e cultura d’opposizione per alcuni anni.
La visita di sei giorni del primo ministro australiano Anthony Albanese in Cina si è conclusa qualche giorno fa con tutti i crismi del successo diplomatico, almeno secondo i suoi sostenitori che non hanno esitato a definirla un “capolavoro”. Ma dietro la facciata delle strette di mano cordiali e dei banchetti a porte chiuse con Xi Jinping si nasconde una realtà ben diversa: l'Australia si trova oggi schiacciata in una morsa geopolitica che rischia di stritolare le sue ambizioni di equilibrio tra Est e Ovest, ovvero tra il suo principale partner commerciale (Cina) e lo storico alleato militare-strategico (Stati Uniti) in un frangente storico segnato dalla competizione crescente tra le due potenze.
Il viaggio di Albanese a Pechino, Shanghai e Chengdu ha avuto infatti un sottotesto di quasi disperazione, volto a puntellare quei rapporti commerciali da cui Canberra dipende in maniera vitale, proprio mentre gli Stati Uniti di Trump alzano il tiro delle pressioni militari e strategiche in chiave anti-cinese. “Non esiste alcuna relazione tra la nostra forte dipendenza commerciale dalla Cina e la nostra alleanza militare-strategica con gli USA”, ha dichiarato Albanese ai giornalisti, continuando a invocare l'importanza del principio di “equilibrio”. Una posizione, quest’ultima, che suona tuttavia sempre più come una vera e propria illusione di fronte alle pressioni in aumento provenienti da Washington.
La prova più lampante di questo vicolo cieco è arrivata alla vigilia della partenza del primo ministro laburista, quando l'amministrazione Trump ha fatto trapelare alla stampa le sue richieste perentorie: Australia e Giappone devono impegnarsi in anticipo a mettere a disposizione i propri “asset” militari in caso di guerra USA-Cina per Taiwan.
In Spagna il governo Sanchez traballa. Monereo osserva che “Siamo di fronte a un processo destituente e, nel frattempo, quel che resta della sinistra alza gli occhi al cielo e prega gli dei che Pedro Sánchez sopravviva. Non sembra un granché”.
Pensare al ritmo dei media, lasciarsi condizionare da una quotidianità sempre più volatile, mancare di criteri chiari davanti alla fase politica che stiamo vivendo, ciò porta dritti alla sconfitta. Non c’è alcuna strategia, si rimane indietro rispetto agli eventi, che, a loro volta, sono governati dai tribunali. Lo abbiamo già visto con il PSOE e il PP. Tempo, per cosa? Lo scenario europeo e internazionale non induce all’ottimismo. La parola chiave è la militarizzazione della politica e della società, il riarmo generale, l’aumento del debito pubblico e una profonda messa in discussione di ciò che resta dello Stato sociale. Putin come nemico funziona bene, anzi benissimo; le élite al potere continuano a credere che sia una buona copertura per legittimare una maggiore centralizzazione del potere in un’Unione Europea politicamente orientata dalla NATO, per riconvertire il vecchio apparato produttivo del nucleo centrale dominato dalla Germania e, soprattutto, per allinearsi più che mai con gli Stati Uniti che esigono urgentemente il pagamento immediato del costo della loro protezione passata, presente e futura. Niente è gratis.
Non molto tempo fa, Wolfgang Münchau ha parlato, in un altro contesto, dell’importanza di avere una strategia chiara e di mettere in atto tattiche appropriate per realizzarla, di non lasciarsi governare da un’agenda imposta dai vari partiti di opposizione.
Nel Sacro Occidente le reazioni al recente bombardamento israeliano su siti governativi di Damasco hanno ricalcato lo schema consueto in questi casi: mentre i media hanno sposato acriticamente la fiabesca narrazione israeliana sulla presunta necessità di difendere la minoranza drusa in Siria, i governi hanno preso timidamente le distanze dall’attacco. L’amministrazione Trump ha dovuto quantomeno ostentare del disappunto, dato che aveva ufficialmente investito sul nuovo governo filo-occidentale e filo-sionista della Siria, rimuovendo le pluridecennali sanzioni economiche, spingendo i ministri degli Esteri europei a correre a stringere la mano al tagliagole insediatosi al posto del vituperato Assad, e inducendo anche le petro-monarchie del Golfo a creare una rete di affari col nuovo regime. In realtà l’attacco su Damasco della settimana scorsa non può essere considerato una sorpresa, visto che arriva dopo centinaia di bombardamenti israeliani sulla Siria, effettuati con i più vari pretesti e intensificati dopo la caduta di Assad. La “mediazione” americana nella vicenda è poi consistita nel costringere il governo di Damasco a ritirare le sue truppe dal sud della Siria, esattamente come pretendeva Israele. Il “disappunto” di Trump non impedirà a Netanyahu di continuare ad auto-invitarsi alla Casa Bianca ogni volta che gli parrà. Come al solito, il comportamento di Israele viene condannato in via meramente retorica, e ciò consente ai sionisti di fare il proprio comodo atteggiandosi a vittime e incompresi.
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Michelangelo Severgnini: La Libia e le narrazioni fiabesche della stampa italiana
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Ci sono
scritture che si calano nelle vite altrui con l’entusiasmo
creativo dell’invenzione e della
narrazione, con la certezza, talora con la presunzione, che
per capire le azioni umane non bastino le ricostruzioni
fattuali della storia ma sia
necessario esplorare le ragioni soggettive delle azioni e i
sentimenti che le hanno accompagnate. Manzoni, nella celebre Lettera
a Monsieur
Chauvet, si chiedeva: “alla fin fine cosa ci dà la
storia? Ci dà avvenimenti che, per così dire, sono conosciuti
soltanto nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno
fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno
accompagnato le
loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro
scacchi; i discorsi coi quali hanno fatto prevalere, o hanno
tentato di far prevalere, le
loro passioni e le loro volontà su altre passioni, o su altre
volontà, coi quali hanno espresso la loro collera, han dato
sfogo alla
loro tristezza, coi quali, in una parola hanno rivelato la
loro personalità: tutto questo, o quasi, la storia lo passa
sotto silenzio; e tutto
questo è invece dominio della poesia.”
C’è tuttavia un altro approccio alle vite altrui, mosso anch’esso dal bisogno di guardare al di là delle geometrie complessive dell’accadere, che non si accontenta di osservare dalla distanza le cause e gli effetti delle azioni umane pur avendo in comune con il lavoro dello storico la ricerca documentaria. Anche questo tipo di indagine vuole sondare le ragioni profonde, soggettive, ma le ricerca nei dettagli meno appariscenti, nelle scritture secondarie, spesso accidentali, improvvisate.
È il metodo di lavoro dell’archivista. Di colui che raccoglie e ordina testimonianze della più svariata provenienza: ad esempio le lettere che si scambiano i protagonisti oggetto dell’indagine, oppure ciò che altri hanno scritto su di essi documentandone la vita. Si tratta molto spesso di lacerti, di appunti di lavoro scritti di fretta su un pezzo di carta, annotazioni su questioni che poi saranno sviluppate in seguito, resoconti di dialoghi e incontri, articoli d’occasione, brevi appunti di viaggio, o trascrizioni cifrate di letture indiziarie di città e mondi sociali, di edifici pubblici e privati, di opere d’arte.
Per conformarsi a un ordine esecutivo del
presidente americano Donald Trump, nei mesi scorsi Microsoft
ha sospeso l’account email di Karim Khan,
procuratore della Corte penale internazionale che stava
investigando su Israele per crimini di guerra. Per anni, scrive il New York Times, Microsoft
ha fornito servizi email al tribunale con sede a L’Aja,
riconosciuto da 125 paesi tra cui
l’Italia (ma non da Stati Uniti, Israele, Cina, Russia e
altri).
All’improvviso, il colosso di Redmond ha staccato la spina al magistrato per via dell’ordine esecutivo firmato da Trump che impedisce alle aziende americane di fornirgli servizi: secondo il successore di Biden, le azioni della Corte contro Netanyahu “costituiscono una inusuale e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”. Così, di punto in bianco, il procuratore non ha più potuto comunicare con i colleghi.
C’è stata una mediazione, ricostruisce il New York Times: dopo una riunione tra Redmond e i vertici della Corte si è deciso che la Cpi avrebbe potuto continuare a utilizzare i servizi di Microsoft. Anche perché l’azienda, secondo la ricostruzione del quotidiano, sarebbe stata fondamentale per la cybersecurity dell’organizzazione, finita nel mirino degli hacker russi dopo l’inchiesta per i crimini di guerra in Ucraina.
Il discorso, però, non vale per Khan, il cui account resta bloccato: cittadini e aziende statunitensi rischiano conseguenze serie – multe e persino l’arresto – se forniscono “supporto finanziario, materiale e tecnologico” a chi viene identificato come pericoloso per la sicurezza nazionale (spesso sulla base di ragionamenti dal sapore politico). Insomma, in una paradossale inversione di ruoli, il procuratore è diventato un criminale, trattato alla stregua di un nemico pubblico.
Le conseguenze non si sono fatte attendere. Tre dipendenti con contezza della situazione hanno rivelato al quotidiano newyorchese che alcuni membri dello staff della Corte si sarebbero rivolti all’azienda svizzera Protonmail per poter continuare a lavorare in sicurezza.
Maurizio Ferraris: La pelle. Che cosa significa pensare nell'epoca dell'intelligenza artificiale, Il Mulino, 2025
Il libro di Maurizio Ferraris
“La pelle” sta avendo molto successo anche perché, forse un
po' "furbescamente" per un professore di filosofia, tratta la
questione
dei rapporti mente-materia (cerebrale) partendo dalla realtà
della cosiddetta intelligenza artificiale (ovviamente ben
venga la furbizia, se
serve a interessare alla filosofia della mente un pubblico più
vasto dei soliti frequentatori abituali di nicchie
culturali!).
Circa l’ intelligenza artificiale personalmente ritengo interessante soprattutto la questione teorica pura o di principio della mera possibilità “astratta” che macchine elaboratrici di dati e magari semoventi ed "attive" (robot) siano dotate di intelligenza e di pensiero cosciente; questo anche perché ritengo impossibile di fatto la realizzazione di artefatti che possano effettivamente porre il problema in pratica, data l' enorme complessità dei meccanismi che sarebbero a ciò necessari, che ritengo abissalmente, e anzi sideralmente, lontana da quella propria della "intelligenza artificiale" attualmente presente e pure di quella realisticamente futuribile, anche in tempi remotissimi.
Invece Ferraris la affronta in questo volume da un punto di vista innanzitutto pratico, come un problema "di fatto" piuttosto che “di diritto”, probabilmente anche perché è fortemente interessato a confutare gli sproloqui di numerosi informatici, tecnologi, scienziati cognitivi, filosofi della mente (più o meno neo- oppure vetero- positivisti-scientisti), ciarlatani, giornalisti, politicanti, ideologi vari, circa il preteso superamento dell' umanità-animalità naturale da parte delle “macchine intelligenti” reali odierne o almeno prossimamente future, nonché il preteso "transumanesimo", concetto per me vago e irrealistico, campato in aria, non affatto serio ma casomai tragicomico.
La sua liquidazione di queste iperboliche pretese circa l’ attuale IA mi sembra comunque pienamente condivisibile, anche se dissento da gran parte delle argomentazioni di filosofia della mente, biologia, neurologia e scienze cognitive con cui la argomenta.
Un agente dell'intelligence britannica ha mediato l'accesso al palazzo presidenziale siriano per il governo guidato da Julani, mentre agenti dell'era Blair guidano la politica estera del Regno Unito dall'ombra
Il 19 luglio, il Mail on Sunday ha rivelato che Inter-Mediate, una società poco nota fondata da Jonathan Powell(FOTO ndt), ora consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro britannico Keir Starmer, ha mediato il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Damasco e Londra.
Tra questi, un incontro ampiamente pubblicizzato tra il Ministro degli Esteri britannico David Lammy e l'autoproclamato Presidente siriano Ahmad al-Sharaa, avvenuto due settimane prima. Il giornale ha anche rivelato come l'agenzia di stampa britannica Inter-Mediate, finanziata dallo Stato, gestisca un ufficio dedicato nel Palazzo Presidenziale siriano.
Il partito conservatore dell'opposizione britannica ha chiesto un'indagine formale sull'uso di Inter-Mediate da parte di Powell "per fornire canali secondari a gruppi terroristici" e sul conflitto di interessi creato dal suo ruolo non eletto.
In qualità di consigliere per la sicurezza nazionale di Starmer – descritto come colui che esercita "più influenza sulla politica estera di chiunque altro al governo, dopo il primo ministro stesso" – Powell opera completamente al di fuori della responsabilità parlamentare. Una fonte di Whitehall ha dichiarato al Mail on Sunday:
Viviamo in
tempi interessanti ma difficili. È evidente che i miti stiano
cadendo e che le narrazioni consolidate da tempo si dissolvano
quando vengono
esposte alla dura e sanguinosa realtà.
In nessun altro ambito ciò è più evidente che nei miti che hanno sostenuto Israele per molti decenni.
Israele è stato dipinto come un piccolo paese fragile ma resiliente che vive in un “quartiere difficile”. Tuttavia, ora, date le incessanti guerre di Israele, gran parte di questa mitologia viene abbandonata; non è più necessaria quando l’arroganza, l’orgoglio e il sadismo guidano l’ethos israeliano. L’immagine del piccolo Davide sta cedendo il posto a quella di una creatura vendicativa e genocida, con un pizzico di Antico Testamento…
Di seguito è riportata una discussione su alcuni dei miti che stanno crollando. I miti sono costruiti su narrazioni che a loro volta sono costruite su parole descrittive. Gran parte della discussione verte sul chiarire la natura ingannevole delle parole, che a sua volta smaschererà le false narrazioni.
Una vera canaglia
L’esercito è venerato in Israele e si fa molto per glorificare i militari; ci sono festival con cantanti, palloncini e pompon blu e bianchi in abbondanza[1]. Le ragazze ebree americane vanno in visibilio quando incontrano i soldati abbronzati e sorridenti. Naturalmente, se si glorifica l’esercito, allora tutte le unità non possono che essere “d’élite”; anche al soldato più umile viene dato il grado di sergente; e naturalmente devono essere “i più morali” del mondo. È anche noto con il suo acronimo incongruo: IDF.
Contrastate l’immagine affascinante dell’esercito israeliano con le sue azioni a Gaza, in Cisgiordania e oltre. I cecchini israeliani prendono di mira i bambini, con punti extra per le donne incinte (è persino possibile acquistare una maglietta con il logo “un colpo, due morti”).
La cronaca riferisce che Carrefour sta ridefinendo la sua strategia e la sua presenza in Europa e valuta l’ipotesi dell’uscita dall’Italia. Il gruppo francese si è pertanto affidato a Rothschild per sondare il mercato alla ricerca di potenziali compratori. Secondo quanto ha ricostruito il «Corriere della Sera», al momento ci sarebbero già alcune aziende della grande distribuzione interessate a rilevare i negozi del gruppo francese. Stando ai risultati finanziari dell’anno scorso, l’Italia rappresenta per Carrefour il quinto mercato dopo la Francia, il Brasile, la Spagna e il Belgio. La penetrazione del gruppo francese in Italia risale al 1993, quando Carrefour aprì il primo negozio e dette avvio a un’espansione che lo ha portato a gestire attualmente 1.185 negozi, dai minimarket e supermercati agli ipermercati, generando 3,7 miliardi di euro di vendite nette. L’eventuale cessione dei negozi italiani rientrerebbe nell’ambito di una strategia più ampia relativa alla revisione di tutte le risorse produttive. Al momento la direzione dell’azienda ha formulato più ipotesi. La prima, e probabilmente quella favorita dai francesi, sarebbe quella di una cessione a un unico compratore. Ma non viene esclusa anche la possibilità di vendite frazionate oppure l’adozione di un modello in ‘franchising’. Del resto, l’azienda francese negli ultimi anni, a livello globale, ha già condotto operazioni per ridurre i costi, dirigendosi progressivamente sul ‘franchising’, che oggi rappresenta il 75% dell’intera rete. Qualsiasi eventuale operazione di cessione avrebbe comunque bisogno del sostegno degli azionisti di riferimento di Carrefour, tra cui la famiglia Moulin, proprietaria del gruppo francese di grandi magazzini Galeries Lafayette.
Nelle settimane scorse Carrefour Italia ha annunciato un piano di riorganizzazione della sede centrale di Milano con 175 esuberi. L’obiettivo dell’operazione, secondo quanto riportato in una nota del gruppo diffusa in occasione dell’annuncio degli esuberi, sarebbe di “accelerare ulteriormente il percorso di trasformazione del business, incentrato sul modello del franchising, e rilanciare la sostenibilità finanziaria e commerciale dell’azienda”.
L'Occidente è un concetto strano, recente e spurio.
Con "Occidente" si intende in effetti una configurazione culturale che emerge con l'unificazione mondiale dell'Europa politica e di quello che dal 1931 prenderà il nome di "Commonwealth" (parte dell'impero britannico).
Questa configurazione raggiunge la sua unità all'insegna del capitalismo finanziario, a partire dal suo emergere egemonico negli ultimi decenni del '900.
L'Occidente non c'entra nulla con l'Europa culturale, le cui radici sono greco-latine e cristiane.
L'Occidente è la realizzazione di una politica di potenza economico-militare, che nasce nell'Età degli Imperi, che sfocia nelle due guerre mondiali e che riprende il governo del mondo verso la metà degli anni '70 del '900.
Purtroppo anche in Europa l'idea che "siamo Occidente" è passata, divenendo parte del senso comune.
L'Europa storica, ad esempio, ha sempre avuto legami strutturali fondamentali con l'Oriente, vicino e remoto (Eurasia), mentre l'Occidente si percepisce come intrinsecamente avverso all'Oriente. Così l'Europa culturale è in ovvia continuità con la Russia, mentre per l'Occidente la Russia è totalmente altro da sé.
Questa premessa serve a illustrare una grave preoccupazione di lungo periodo, che non riesco a trattenere.
Nel Sacro Occidente le reazioni al recente bombardamento israeliano su siti governativi di Damasco hanno ricalcato lo schema consueto in questi casi: mentre i media hanno sposato acriticamente la fiabesca narrazione israeliana sulla presunta necessità di difendere la minoranza drusa in Siria, i governi hanno preso timidamente le distanze dall’attacco. L’amministrazione Trump ha dovuto quantomeno ostentare del disappunto, dato che aveva ufficialmente investito sul nuovo governo filo-occidentale e filo-sionista della Siria, rimuovendo le pluridecennali sanzioni economiche, spingendo i ministri degli Esteri europei a correre a stringere la mano al tagliagole insediatosi al posto del vituperato Assad, e inducendo anche le petro-monarchie del Golfo a creare una rete di affari col nuovo regime. In realtà l’attacco su Damasco della settimana scorsa non può essere considerato una sorpresa, visto che arriva dopo centinaia di bombardamenti israeliani sulla Siria, effettuati con i più vari pretesti e intensificati dopo la caduta di Assad. La “mediazione” americana nella vicenda è poi consistita nel costringere il governo di Damasco a ritirare le sue truppe dal sud della Siria, esattamente come pretendeva Israele. Il “disappunto” di Trump non impedirà a Netanyahu di continuare ad auto-invitarsi alla Casa Bianca ogni volta che gli parrà. Come al solito, il comportamento di Israele viene condannato in via meramente retorica, e ciò consente ai sionisti di fare il proprio comodo atteggiandosi a vittime e incompresi.
Ho letto e ascoltato interventi di autorevoli esperti sempre più convinti che stiamo andando incontro a una guerra fra Europa, con o senza Nato, e Russia. E’ vero che una guerra di USA, Nato ed Europa contro la Russia è in corso da tre anni in Ucraina, ma adesso si parla della guerra diretta, quella con tutti gli eserciti schierati a combatterla. Questa previsione non mi convince e a mio parere rischia di farci perdere di vista i pericoli veri, uno che incombe sempre più minaccioso, l’altro che ha già preso la forma della realtà.
Quel tipo di guerra fra Russia ed Europa non può esserci. Nessuno può pensare che sia la Russia a promuoverla. Ci sono mille buone ragioni che escludono questa eventualità, la prima delle quali è che la Russia non ha il minimo interesse a farlo, anzi, ha l’interesse opposto, ovvero avere con l’Europa buoni rapporti e scambi commerciali reciprocamente utili. Possono dirlo, facendo finta di crederci e provando a convincere i rispettivi popoli, soltanto politici e giornalisti prezzolati o semplicemente proni a volontà e interessi che hanno deciso di servire, mestiere che non richiede intelligenza e neppure l’uso della ragione.
Ma è impossibile anche pensare che sia l’Europa ad avviare la guerra con la Russia. Non perché manchi una qualsiasi motivazione. L’Occidente ha fatto per secoli guerre, massacri e genocidi senza alcuna giustificazione.
Nei giorni scorsi
abbiamo dovuto subire il tornado, ricorrente intorno a
ogni dannato 11 luglio, del trentennale del cosiddetto
massacro, per molti genocidio, di
Srebrenica in Bosnia che, secondo i celebranti, sarebbe
avvenuto quel giorno dell’anno 1995, a conclusione della
guerra di disfacimento della
Federazione jugoslava. Per inciso, nella furia di
commemorare quell’evento, arricchito costantemente di
nuove macabre scoperte di salme
dissotterrate e da dissotterrare negli anni a venire,
anche ben trent’anni dopo, neanche il più rispettabile
cronista o commentatore
riesce a osservare almeno un frammento della buona regola
del dubbio, visto il cui prodest, o almeno dell’attenzione
a versioni altre del
fatto.
Che pure ci sono. E abbondanti e autorevoli, condotte con strumenti di verifica storica e scientifica. Tale è la disponibilità, tra indolenza, complicità e assoggettamento a quanto prevale nella narrazione pubblica, irrobustita da un’alluvione di immagini e testimonianze dirette, date per inoppugnabili. Ogni voce alternativa, ogni seme di dubbio, magari della dimensione di un granello di sabbia nel potentissimo ingranaggio, ha ormai assunto il carattere della blasfemia. 8000 vittime s’è detto e 8000 restano.
E’ una cifra che fa colpo. Non per nulla sarebbero 8000 anche i curdi sterminati da Saddam ad Halabja. Altro evento contestato, perfino dagli americani. Eppure, se 8000 fanno genocidio, cosa fanno i 150.000 calcolati da Harvard e Lancet a Gaza? Per Radio Radicale, 8000 sarebbero i trucidati dal regime siriano di Assad. Qualcuno ha contato 8000 vittime del Covid a Wuhan e 8000 precise sarebbero le vittime annuali dell’influenza in Italia e figuriamoci se non erano 8000 gli ebrei italiani deportati in Germania, mentre quanti pensati che siano, per Repubblica, i minori morti per incidenti stradali in Europa se non 8000? Come erano certamente 8000, prima ancora che qualcuno arrivasse munito di pallottoliere, i morti del terremoto 2016 tra le impenetrabili montagne del Nepal.
Questo è un
articolo importante di Hudson, che offre un’altra
importante prospettiva storica
a lungo termine, qui sull’uso del commercio come
strumento di sfruttamento coloniale. Tuttavia, mi sento
in dovere di mettermi il cappello da
pignolo e di offrire qualche cavillo.
Il primo è l’uso del termine “libero scambio”. Viviamo in un sistema di scambi regolamentati. I beni importati devono ancora rispettare standard di sicurezza e spesso specifici per quanto riguarda i contenuti. Esistono anche barriere commerciali non tariffarie. I giapponesi non amano la carne di manzo o il riso americani, considerandoli (giustamente) di qualità inferiore. Sono particolarmente diffidente nei confronti del termine “libero” usato in relazione agli accordi economici perché è stato propagandato con grande successo dai libertari (si veda ad esempio il libro di Milton Friedman “Liberi di scegliere” e la sua serie correlata della PBS, a dimostrazione della durata di questa campagna). Sarei stato più soddisfatto di una definizione del termine “libero scambio” e di un minore affidamento sulla parola “libero”, che ormai porta con sé un peso eccessivo.
In secondo luogo, la Cina, correttamente presentata come un ripudio dell’economia neoliberista, non è stata trattata dagli interessi occidentali, in questo caso dalle moderne multinazionali che hanno influenza politica, come un tipico progetto di estrazione coloniale ricca di risorse. Gli Stati Uniti hanno fatto sì che l’OMC ignorasse le proprie richieste per l’ammissione della Cina all’inizio degli anni 2000.
La dichiarazione del portavoce delle Brigate Al-Qassam Abu Obaida, che qui riportiamo (*) è notevole almeno per due aspetti.
Anzitutto perché mostra che nonostante i terribili colpi ricevuti, la resistenza palestinese a Gaza si sta riorganizzando per una lunga guerra di logoramento contro l’esercito occupante. Un logoramento che ormai viene ammesso pubblicamente perfino in Israele, mentre non compare mai sui “nostri” giornali e nelle “nostre” tv.
1 soldato israeliano su 8 tra quelli che hanno agito a Gaza, è “mentalmente inidoneo” a tornare in servizio, ha accertato l’università di Tel Aviv, poiché soffre di sintomi gravi di disturbo post-traumatico (PTSD), ed è in crescita il numero dei suicidi – ufficialmente sono soltanto 42, ma nei primi giorni di luglio ne sono avvenuti almeno 5. Sui morti e i feriti la banda Netanyahu tace o mente; è certo – però – che sono in numero rilevante, tant’è che il suo governo è da tempo alla ricerca di mercenari. E, a rischio addirittura di cadere, vorrebbe – dato lo stato di necessità – reclutare anche gli ultra-ortodossi.
Nonostante decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti; nonostante la decimazione del quadro dirigente della resistenza; nonostante l’attività delle milizie traditrici di Shabab, Khanidek e Khalas al soldo di Fatah e di Israele; nonostante il sadismo dell’operazione Gaza Humanitarian Foundation con i massacri a ripetizione delle persone che cercano un po’ di cibo o di acqua; nonostante l’illimitata quantità di bombe, mezzi, munizioni, risorse energetiche e di spionaggio messi a disposizione dello stato sionista dai suoi grandi protettori (Stati Uniti e Unione europea) e dai suoi grandi e piccoli complici sparsi in tutto il mondo; la resistenza palestinese non alza bandiera bianca.
Maoismo climatico, decrescita, nuova sinistra: appunti su “Il capitale nell’Antropocene” di Saitō Kōhei
Gira molto un video in cui
Žižek riassume la crisi della sinistra mondiale mentre,
calcandosi in testa una toque blanche, prepara le
fettuccine. Intanto che impasta
uova e farina, e dopo essersi annunciato in camera come
Chef Slavoj, dice che il capitalismo sta entrando nella
sua crisi finale, e che questo stato
avanzato di disgregazione non è più un sogno o una paura
ma un dato di fatto, chiaro anche ai capitani di industria
più moderni e
scafati come Musk, Zuckerberg e Bezos. A raccogliere le
opportunità di questa crisi non c’è però una sinistra
organizzata,
e tutto quello che abbiamo davanti – intanto Žižek gira la
manovella della macchina della pasta – è una decadenza
prolungata.
L’ascesa di ogni fascismo è, dopotutto, la traccia di qualche rivoluzione fallita, e la sinistra in questi anni ha fallito, ha appiattito la sua proposta, si è mostrata la più leale alleata dell’austerità, dice Žižek, alludendo ovviamente a quel centrosinistra – liberale, socialdemocratico – che negli ultimi trent’anni si era convinto di potersi avvicinare in maniera propizia al mercato, di poter e dover battere le destre attuando prima di loro, più rigorosamente, o più propriamente, le politiche conservatrici, trasformandosi insomma in un centrodestra più moderno, a modo, popolato magari di gente seria e preparata.
Ora che la situazione sembra destinata al definitivo collasso, potremmo però scoprirci più liberi: i buoni motivi per rinviare la costruzione di un futuro radicalmente diverso sono sempre più esili, se ancora ci sono.
Così, riprende Žižek, oggi non ha più ragion d’essere lo scontro tra destra moderata e sinistra moderata, il nuovo fronte elettorale è piuttosto quello dell’establishment contro i populismi. Populismi che hanno riempito il vuoto creato dal fallimento della sinistra. Siamo chiusi in un circolo vizioso che può essere disfatto soltanto dalla nascita di una nuova sinistra. Che però fatica a emergere. L’unica possibilità di futuro, in queste condizioni, rimane quella di un capitalismo ancora più autoritario.
Lo scorso 6 e 7
luglio a Rio de Janeiro si è svolto il 17° Vertice dei
BRICS+. Tema centrale: “Rafforzare la cooperazione
del Sud globale per una
governance più inclusiva e sostenibile”. In un
contesto internazionale di riassetto geopolitico,
attraversato da guerre e tensioni
armate, crisi sistemiche e una crescente fragilità
dell’ordine multilaterale, il vertice BRICS 2025 ha
segnato un punto di svolta nella
postura geopolitica del Sud globale.
Per la terza volta, il Brasile ha accolto la riunione dell’alleanza, dopo gli incontri del 2014 (a Fortaleza) e del 2019 (a Brasilia). Nonostante i tentativi diplomatici di ridurre l’attrito con l’Occidente, le divergenze strutturali con Washington si sono acuite, in particolare con il presidente Donald Trump, che ha minacciato ritorsioni commerciali contro i Paesi allineati al blocco.
“Il mondo è cambiato. Non vogliamo un imperatore, siamo Paesi sovrani” ha dichiarato Luiz Inácio Lula da Silva, presidente brasiliano e anfitrione del summit, rispondendo alle provocazioni statunitensi. Lula ha anche sottolineato che i Paesi colpiti potrebbero rispondere con proprie tariffe, cosa che lo stesso Brasile ha attivato nei giorni seguenti, come risposta all’imposizione di quelle di Washington.
Con la legittimità occidentale sepolta sotto le macerie di Gaza, lo scontro era inevitabile. Le differenze riguardano due diverse visioni del mondo. Fin dall’adozione del motto del suo 17° vertice, i BRICS hanno chiarito di essere favorevoli alla “…cooperazione con il Sud globale, verso una governance multilaterale più inclusiva e sostenibile”, in opposizione alle politiche escludenti, unilaterali ed egemoniche del G-7 e degli Stati Uniti.
L’artiglieria mediatica occidentale ha speculato sull’assenza fisica di Vladimir Putin e Xi Jinping al vertice, proiettando l’immagine di un blocco indebolito, pieno di contraddizioni insanabili e non in grado di andare avanti.
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La prigione è
«naturale», come è «naturale» nella nostra società l’uso del
tempo per misurare gli scambi.
M. Foucault, Sorvegliare
e punire
Tesi 1. Il diritto, diceva Evgeni Pasukanis, è il risultato specifico dello sviluppo capitalistico, vale a dire di un determinato modo di produzione sociale che non avrebbe mai raggiunto una precisa costituzione universale in mancanza di idonei assetti coercitivi-organizzativi che solo la società borghese è stata in grado di promuovere e stabilizzare, sicché, di riflesso, la teoria marxista del diritto non dovrebbe cercare di costruire un nuovo tipo di diritto (proletario), peraltro in contrasto con il postulato classico marxiano di estinzione del diritto e dello Stato, bensì mostrarne la sua natura deperibile, attesa la contraddizione insanabile fra diritto come forma del valore di scambio e il comando esercitato dalla classe al potere ogni volta dominante (sia esso Stato borghese che Stato proletario).
Tesi 2. Se l’aspetto essenziale della società borghese è dato dalla separazione degli interessi generali da quelli privati, a tal punto che i primi tendono a contrapporsi ai secondi, ma assumendo «però involontariamente in questa contrapposizione la forma di interessi privati, cioè la forma del diritto»1, se ne ricava che l’organizzazione giuridica del capitale non si pone mai come diretta espressione di rapporti tra soggetti portatori di un interesse privato autonomo, bensì come il permanente tentativo di istituzionalizzare i medesimi attraverso adeguati dispositivi disciplinari e di controllo in grado di far passare l'interesse di una classe al potere come difesa e garanzia, considerate d’interesse generale, degli interessi privati di tutti.
John Bellamy Foster in Marx’s
Ecology: Materialism and Nature si propone di
esplorare le radici del pensiero ecologico moderno
attraverso un’analisi del materialismo
scientifico sviluppatosi tra il XVII e il XIX secolo, con
particolare attenzione alle figure di Charles Darwin e Karl
Marx. Contrariamente alle
interpretazioni ambientaliste contemporanee che spesso
vedono il materialismo e la scienza come forze antagoniste
rispetto a una presunta armonia
premoderna con la natura, Foster sostiene che furono proprio
il materialismo e il progresso scientifico a rendere
possibile una visione ecologica
della realtà. Il nucleo dell’argomentazione ruota attorno
alla concezione marxiana della relazione tra uomo e natura
che non è un
dato immutabile ma il prodotto di un processo storico,
caratterizzato da contraddizioni e alienazione. Marx,
influenzato dalla filosofia materialista
di Epicuro, sviluppò una critica radicale alla separazione
tra l’uomo e le condizioni naturali della sua esistenza, una
separazione che
raggiunge la sua massima espressione nel capitalismo, dove
il lavoro salariato e il dominio del capitale trasformano la
natura in una mera risorsa da
sfruttare. A differenza dell’idealismo hegeliano, che
subordinava la materia allo sviluppo dello Spirito, Marx
elaborò un materialismo
dialettico che riconosceva la priorità ontologica della
natura ma ne sottolineava anche la trasformazione attraverso
la prassi umana. Questo
approccio gli permise di superare sia il determinismo
meccanicistico sia le astrazioni spiritualiste, proponendo
invece una visione dinamica in cui
l’uomo, pur essendo parte della natura, la modifica
attraverso il lavoro e l’organizzazione sociale. Un aspetto
cruciale del pensiero di
Marx è la sua insistenza sul metabolismo sociale, ovvero lo
scambio organico tra l’uomo e l’ambiente, che nel
capitalismo viene
interrotto da un rapporto di sfruttamento e degradazione.
Questa intuizione, sviluppata attraverso lo studio di
scienziati come Justus von Liebig
(pioniere della chimica agraria) e Charles Darwin (la cui
teoria evoluzionista fornì a Marx una base naturalistica per
la sua critica storica),
anticipa temi centrali dell’ecologia moderna, come la
sostenibilità e l’interdipendenza degli ecosistemi.
Nonostante ciò
Marx è stato spesso accusato di prometeismo tecnologico,
ovvero di aver celebrato il dominio umano sulla natura senza
considerarne i
limiti.
Sembrerebbe che finalmente l'umanità sia tornata umana.
Su CNN e BBC si parla di genocidio. Obama e Macron rilasciano dichiarazioni pubbliche sul riconoscimento della Palestina. Calenda, Radio Radicale, Renzi tutti in fila per tre...
E la diplomazia non poteva mancare a seguito della politica.
Bene sono felice. Eppure un piccolo dubbio.
Una voce fastidiosa che vorrei zittire mormora nel mio animo. Shhh sei sempre la solita disfattista!
Ma come è possibile che fino a 50.000 morti ai bambini col cranio spaccato alle operazioni senza anestesia all uccisione di medici e giornalisti, alle torture dei Palestinesi rimanevano tutti zitti
E ora luce verde...
Persino la diplomazia ?
Ma non è che ci stiano nuovamente manipolando? Forse vogliono trasformare i cadaveri dei bambini nel loro politichese.
Attacco a Netanyahu Trump la Meloni? Sarebbero loro il problema poi tutto torna a posto?
Il genocidio non era cominciato con Biden? Ma no eravamo appena a 10.000 morti
Allora Israele aveva il diritto di difendersi!
La scena in cui tale Ursula von der Leyen – aristocratica discendente di una famiglia nazista, dedita ai concorsi di equitazione nonché alla nobile missione della madre (7 figli) fin dopo i 40 anni, poi incomprensibilmente scelta per guidare il ministero della difesa di Berlino (con risultati talmente tragici da obbligare Angela Merkel a licenziarla) e quindi proiettata con un poderoso “boost” teutonico fino alla presidenza dell’Unione Europea – si prostrava davanti all’imperatore Trump e alla sua “proposta che non si può rifiutare” (citazione da Il padrino, ovviamente) resterà forse negli annali della politica che ha portato la UE e tutti i suoi membri alla scomparsa dai radar mondiali.
Gli analisti più schierati con l’euro-atlantismo non hanno potuto fare a meno di storcere il naso e anche altro davanti a un “accordo” che non contiene nulla che sia vantaggioso per l’economia continentale. Persino Francia e Germania, per bocca di Bayrou e Merz, hanno dovuto esprimere qualcosa più delle “perplessità” di prammatica.
Le associazioni imprenditoriali e i loro analisti hanno invece sparato ad alzo zero, facendo i conti sui miliardi persi e l’inesistenza di contropartite, tanto meno esigibili.
Lasciamo per un attimo perdere il dibattito sui contenuti, perché c’è fin troppa chiarezza sul disastro che attende i lavoratori europei (non c’è infatti alcun dubbio sul fatto che le imprese scaricheranno su di loro ogni problema, mentre i governi – a cominciare da quello “sovranista italiano” – promettono loro “aiuti” sacrificando altra spesa sociale sull’altare di una “competitività” che non è mai stata più impossibile).
Non bastava il “suicidio bellico” con cui l’Unione Europea ci ha privato dell’energia russa a buon mercato e in quantità infinita condannando il continente a de-industrializzazione e recessione.
Non bastava la recente, disastrosa e umiliante missione di Ursula von der Leyen in Cina mentre la “la guerra dei dazi” ha visto poche ore fa il trionfo di Donald Trump che ha umiliato la signora von der Leyen imponendoci l’acquisto in tre anni di 750 miliardi di dollari in GNL e petrolio americani oltre a 600 miliardi di investimenti UE negli USA, con in aggiunta i massicci acquisti di armi “made in USA” già annunciati.
A queste disfatte la Commissione von der Leyen aggiunge gli effetti sul mercato energetico delle sue folli politiche ambientali, un “suicidio green” della Ue che ha trovato il 26 luglio l’ennesima conferma nella minaccia espressa dal Qatar di interrompere le forniture di gas liquefatto (GNL) se Bruxelles non allenterà i vincoli ambientali contenuti nella nuova direttiva sulla due diligence aziendale (CSDDD).
Secondo quanto rivelato dal giornale tedesco Welt am Sonntag, il ministro dell’Energia qatariota, Saad Sherida al Kaabi, ha scritto a diversi governi europei e all’esecutivo di Ursula von der Leyen avvertendo che, in assenza di modifiche sostanziali alla norma, Doha e QatarEnergy potrebbero “valutare seriamente mercati alternativi al di fuori dell’Ue, più stabili e favorevoli alle imprese”.
L’intreccio tra guerra ed energia è molto stretto. Per diversi motivi.
I militari hanno bisogno di molta energia, non solo per costruire armi sempre più sofisticate ad alta potenzialità distruttiva e per trasportare velocemente mezzi e truppe, ma anche per le reti di controllo, sorveglianza e di puntamento a distanza (“armi autonome”, le chiamano) che abbisognano di colossali apparati satellitari, informatici e l’uso di enormi data base. Tutte attività fameliche di energia.
Davvero interessante un passaggio della appassionante ricostruzione che fa Pietro Greco della corsa alla costruzione della bomba atomica tra Stati Uniti e Germania (Pietro Greco in L’Atomica e le responsabilità della scienza, edizioni L’Asino d’oro, 2025). Secondo il grande giornalista scientifico l’attenzione dei fisici nucleari nazisti era più orientata a capire come controllare la reazione atomica per produrre energia finale utile, piuttosto che a farne una bomba.
Sappiamo da alcune stime (peraltro tutt’altro che realistiche) che le attività militari assieme alla filiera dell’industria bellica, “in tempo di pace”, consumano il 10% dell’energia mondiale e, secondo altre stime, emettono tra il 5 e il 6% delle emissioni globali di gas climalteranti. Se fossero uno stato si situerebbero al quarto posto, dopo US, Cina e India. (Federica Frazzetta e Paola Imperatore, Clima di guerra, in Sbilanciamoci! 2025). Da notare che i dati sono segretati. Non vi è obbligo di comunicazione da parte delle forze armate, ma solo con l’Accordo di Parigi del 2015 gli stati sono invitati a fornire una rendicontazione volontaria.
In soli 12 mesi il primo ministro britannico è passato dal trionfo alla débâcle. Intanto, Corbyn torna alla ribalta
A un
anno dalla sua elezione, il premier Starmer è travolto da
una crisi senza precedenti. Mentre l’ex leader laburista
Jeremy Corbyn lancia
una nuova iniziativa politica che in 48 ore raccoglie
oltre 400.000 adesioni, Starmer rischia di perdere il
controllo del Paese e del suo stesso
partito. Tra errori politici, spaccature interne e
difficoltà nella gestione delle emergenze, appare sempre
più isolato e distante dalle
promesse di cambiamento. A complicare il quadro, la sua
controversa gestione della crisi israelo-palestinese.
Ritratto senza veli del primo ministro
britannico, scritto dalla giornalista Erica Orsini, che ha
vissuto metà della vita a Londra e ha da poco pubblicato
il libro «Noi e
loro».
* * * *
Il 23%: è questa, al luglio 2025, a un anno dalla sua salita al potere, la percentuale di consensi tra i britannici per il premier laburista Keir Starmer. Secondo YouGo, si tratta del peggior risultato rilevato nello stesso mese tra il luglio 2021 e il maggio 2025.
Un collasso verticale, che non si è verificato per nessuno degli altri leader politici inglesi attuali, neppure per la conservatrice Kemi Badenoch, la leader dell’opposizione che pure non è particolarmente gradita agli elettori. A metà del 2024, in piena campagna elettorale, il 51% aveva un’opinione positiva del candidato Starmer, contro il 44%, ora a pensarla così sono rimasti meno della metà.
Al giro di boa del suo primo anno al potere, nel Regno Unito non c’era un quotidiano o un’emittente televisiva che non fotografasse un primo ministro in caduta libera, travolto da un’ondata d’impopolarità clamorosa, impegnato a tenere a bada sia un’opinione pubblica fortemente delusa nelle aspettative sia un forte dissenso interno.
La domanda, che dovrebbe sorgere spontanea, assistendo a quello che avviene nella Striscia di Gaza da molti mesi, è per quale ragione le autorità politiche dei Paesi europei non intervengano in maniera ferma nei confronti della politica di eliminazione fisica dei Palestinesi adottata con ogni evidenza dallo Stato di Israele: nonostante il fatto che quegli stessi Paesi, nelle loro ben costruite costituzioni, abbiamo scolpito nero su bianco i più alti principi umanitari
La risposta a questa domanda, che il cosiddetto uomo della strada si pone ogni giorno ascoltando i telegiornali, ma che assai pochi politici e giornalisti osano formulare pubblicamente, è in realtà molto semplice. Basta approfondire quanto lo Stato di Israele è riuscito a costruire in decenni di abile strategia politica anche in Europa, sviluppando le fruttuose strategie già da tempo messe in atto in Gran Bretagna prima e poi negli Stati Uniti d’America.
Ci riferiamo alla creazione di quei gruppi di pressione, che nel mondo anglosassone sono chiamati lobby, il cui scopo, apertamente dichiarato e consentito dalla legge, è di esercitare un’influenza sulle istituzioni delle democrazie parlamentari occidentali, attraverso l’indottrinamento dei cosiddetti rappresentanti del popolo.
L’efficacia dell’influenza di queste lobby, da tempo riconosciuta dalla storiografia anglosassone per quanto riguarda il mondo britannico e statunitense, è ora altrettanto ben funzionante in Europa.
Una delle principali lobby che sostengono la politica dello Stato di Israele, particolarmente attiva nell’ambito delle istituzioni dell’Unione Europea, è lo AJC Transatlantic Institute, dipendente, anche finanziariamente, dalla più autorevole fra le lobby ebraiche statunitensi, lo storico American Jewish Committee (AJC).
Il lettore non deve pensare a nulla di complottistico, in quanto il TAI è ufficialmente iscritto nel registro delle lobby di Bruxelles, e dispone di discrete disponibilità economiche che si aggirano intorno ai 700mila euro annui. Come accennato, queste risorse dovrebbero provenire dallo AJC, che ha messo a disposizione in un anno 3,5 mln di dollari per attività di questo tipo in Europa, raggiungendo complessivamente, a partire dal 2005, anno di apertura dell’ufficio di Bruxelles, i 47 mln di dollari: cifra realistica questa, tenendo presente che lo AJC dispone, oltre ad un patrimonio di 250 mln di dollari, di entrate annue per 80 mln di dollari annui, provenienti da fondi donati da esponenti del mondo ebraico americano e internazionale.
Introduzione al tema
Moni Ovadia, che ritengo prezioso per aiutare i propagandati a distinguere tra ebreo e israeliano, ebreo e genocida, ebreo e Netaniahu, l’ho visto ieri sera nella Tv dei correligionari Cairo e Mentana. E lì lo stimato intellettuale ha dato il suo importante, decisivo, contributo a un’operazione che è tutto fuorché limpida e che si presta a valutazioni fortemente negative.
Avrei dovuto incontrarmi con lui un paio di anni fa a Milano per un comizio di Francesco Toscano e Marco Rizzo sulla Palestina… Avevo sollecitato più volte la diarchia al comando di DSP di partecipare alle mille e mille manifestazioni grandi e piccole che andavano incendiando il paese. Mi si rispondeva che “DSP, non fa iniziativa con altri”. Eppoi che si trattava di non far innervosire la Comunità ebraica. Ci sono i testimoni.
A Milano avrei dovuto parlare anch’io. L’iniziativa era per la Palestina, ma la Palestina non c’era. C’era l’ebreo Moni Ovadia, non allineato con il regime di Netaniahu, in giusta evidenza. Non c’era un equivalente rappresentante della Palestina, tanto meno della Resistenza, figurarsi. Poi, resisi conto, all’ultimo momento rimediarono un ragazzo palestiinese di passaggio e lo misero sul palco. In assenza programmata del relatore palestinese rinunciai anch’io.
“La deprivazione è morale. L’atrocità è eroismo. Il genocidio è redenzione.” Questa stringata silloge di Chris Hedges, che echeggia gli slogan della distopia di Orwell posti a fondamento di tale società, è posta dall’autore come conclusione di un paragrafo che descrive l’abisso morale della società israeliana.
Compare nel mezzo dell’ottavo capitolo, dal titolo inequivocabile Il sionismo è razzismo, del suo testo Un genocidio annunciato. Storie di sopravvivenza nella Palestina occupata (Fazi 2025). Si tratta di un passo che rappresenta il centro contenutistico del testo. Nei vari capitoli si alternano in maniera magistrale racconti e testimonianze con passi più analitici in merito all’oppressione dei palestinesi; ma, al di là di vari spunti, dalle atrocità più disgustose alla ricostruzione concettuale delle loro modalità e motivazioni, il punto focale è la consequenzialità. Tutti questi elementi sono visti come correlati e connessi in una logica unitaria, in un quadro organicamente coerente nei suoi passaggi essenziali: Israele nasce come progetto coloniale e suprematista volto a imporre un insediamento occidentale nel cuore del Medio Oriente, che implica la sottomissione degli arabi con ogni mezzo, dalla tecnosorveglianza alla tortura, dall’incarcerazione di massa fino all’eliminazione fisica. Il genocidio.
Hedges è un giornalista e reporter di guerra per il New York Times (come il suo omologo, scomparso da qualche anno, il grande John Pilger), che ha seguito sul campo diversi conflitti, dalla Bosnia degli anni Novanta all’Iraq dell’occupazione statunitense nel 2003.
Ieri una delegazione UE guidata da Ursula von der Leyen, António Costa e Kaja Kallas era a Pechino a trattare con il Presidente cinese Xi Jinping.
Cosa poteva mai andare storto?
Infatti la delegazione è rientrata anzitempo in Europa, con un nulla di fatto, dopo aver irritato per l'ennesima volta i negoziatori cinesi con la pretesa di impartirgli lezioni sui diritti umani e di strappare condizioni commerciali di favore, pur partendo da una posizione di umiliante debolezza contrattuale.
Ma niente paura, nel frattempo l'UE ha anche accettato l'idea di subire dazi asimmetrici da parte degli USA (sembra con un differenziale del 15%).
Questo mentre non passa giorno che Trump trolli gli europei in diretta mondiale, spiegando come loro (USA) forniscano in Ucraina e altrove armi e servizi bellici, che però pagano gli europei (risatina dei giornalisti presenti).
Questo dopo che l'UE si è evirata dal punto di vista energetico (Libia, Russia, Iran) e acquista gas naturale liquefatto dagli USA, per un prezzo esorbitante, che mette l'industria europea fuori mercato.
Ecco, io ricordo le infinite discussioni sul senso del "progetto europeo".
Alla fine, a sostegno di tale progetto l'unico argomento che aveva qualche tenuta era che avrebbe permesso all'Europa di ottenere, attaverso l'unione economica, un maggiore potere contrattuale nei confronti dei suoi principali competitori (USA e Cina).
Le batoste prese della Francia (ultima in ordine di tempo, il ritiro delle truppe dal Senegal) e dell’Unione europea devono aver fatto pensare a Washington che un ritorno statunitense nelle grazie dei Paesi del Sahel sia effettivamente possibile.
Sono diversi mesi che si registra infatti un incremento delle visite yankee ad alto livello verso quegli Stati dell’Africa subsahariana che stanno provando a scrivere una storia di riscatto ed emancipazione non solo della regione, ma del continente intero.
La Confederazione degli Stati del Sahel
Parliamo della Confederazione degli Stati del Sahel, organizzazione regionale istituita nel settembre 2023 da Mali, Burkina Faso e Niger per garantire la sicurezza e la stabilità dei suoi membri, contrastando il terrorismo – soprattutto di matrice islamica – e il neocolonialismo.
Tale cooperazione è stata poi estesa a settori come finanza, economia, infrastrutture, sanità e educazione, ponendosi così come un’alleanza strategica a tutto tondo e fornendo un esempio di reazione al colonialismo e all’imperialismo per il mondo intero.
Dal primo all’11 luglio 2025, le piazze di Parma si sono trasformate in aule aperte dove studenti, docenti e cittadini hanno dato vita a una particolare forma di resistenza culturale: la maratona di letture “Stop al genocidio. Voci dalla Palestina”, promossa dall’Osservatorio Paritetico Studenti Docenti Contro la Normalizzazione della Guerra dell’Università di Parma.
L’iniziativa non aveva l’ambizione di essere una lezione accademica su dinamiche geopolitiche o storiche, né un attraversamento superficiale della questione palestinese. L’obiettivo era più radicale e insieme più intimo: creare un cerchio narrativo capace di evocare la vita quotidiana di chi vive il genocidio in corso, costruendo un ponte tra chi ascolta e chi resiste dall’altra parte del mondo. "Sediamoci e ascoltiamo a lungo la storia di qualcun altro”, questa la filosofia che ha guidato dieci giorni di letture continuative. La scelta metodologica richiama le pratiche della public sociology, problematizzando il punto di vista dominante per privilegiare quello della vita quotidiana, di coloro che sono lasciati fuori e invisibilizzati dalle grandi narrazioni mediatiche, dei soggetti che vivono sulla propria pelle l’orrore del genocidio. È la micro-sociologia applicata al contemporaneo, la scelta deliberata di dare voce alla “storia minima” contro le narrazioni egemoniche.
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Guido Salerno Aletta: Italia a marcia indietro
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Thomas Fazi: L’UE prospera sulla paura. Prima il Covid, ora la Russia
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Per semplificare e
non perdersi tra aggettivi più o meno rispondenti, socialisti,
progressisti, rivoluzionari, li chiameremo tutti “paesi
anti-yankee”. Sarebbe il minimo, ma preziosissimo, sindacale.
Usiamo questa qualifica per chi difende la sovranità e
respinge la
manomorta nordamericana, nel tempo dell’andirivieni tra
liberazione dal colonialismo ed ennesima Operazione Condor
(ricordate? Pinochet-Cile,
Videla-Argentina, Medici-Brasile, Banzer-Bolivia, Fujimori
Perù…).
La rassegna è rapida e all’osso, chè poi dovremmo approfondire la questione più rilevante e più grave della fase. Il cambio d’era in Bolivia, una delle avanguardie, ai primi del millennio, del riscatto latinoamericano con il primo indigeno presidente, Evo Morales. Da presidente rivoluzionario a caudillo. Il 17 agosto in Bolivia ci sono le elezioni presidenziali ed Evo ne è stato escluso per incontestabile violazione della legge costituzionale sul tema.
Buoni, cattivi e così così
Le due opposte forze interessate all’America Latina si possono dire in quasi equilibrio. Ogni tanto, emblematicamente, segna un punto a suo favore la vecchia OSA (Organizzazione degli Stati Americani), fondata nel 1948 con sede a Washington, logora, ma cucita in tempi di avanzata colonialista e tenuta insieme dalla sudditanza delle rispettive classi dirigenti agli USA. Poi batte un colpo la CELAC (Comunità degli Stati Americani e del Caribe), nata in Messico nel 2010, una creatura originata da istanze sovraniste e progressiste, di cui però la disomogeneità dei 33 Stati del Continente, esclusi solo USA e Canada, ha rallentato lo slancio iniziale. Il recente vertice del CELAC a Tegucigalpa, nell’Honduras riscattato, ha dato segni di vitalità.
Questo
articolo tratta di un documento semplicemente allucinante,
ancorché prevedibile, pubblicato dall’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane (UCEI). Ma per una volta non è
diretto solo al lettore generico, bensì
innanzitutto agli appartenenti alla suddetta associazione
che non si lascino accecare da una obbligata difesa d’ufficio
di
Israele. La domanda è: cari concittadini che fate parte
dell’UCEI, siete tutti, indistintamente, concordi con quanto
potete leggere nel
“compendio”, come viene definito nella presentazione,
denominato “Parole in conflitto” e consultabile online a questo
link, di cui qui di seguito trovate un sunto certo
polemico, e tuttavia legittimamente polemico, come
legittimamente polemiche sono le
prese di posizione dell’associazione presieduta da Noemi Di
Segni? Legittime, beninteso, ma riduttive, omissive,
fuorvianti e, in
definitiva, offensive per l’intelligenza. E per la dignità di
un popolo, quello palestinese, martoriato in misura
mostruosamente
sproporzionata rispetto ai 1500 israeliani morti o rapiti
nell’attacco-boomerang di Hamas del 7 ottobre 2023, atto la
cui
doverosa condanna morale e politica non può in alcun modo
giustificare una logica di pura vendetta, che rappresenta
lo stadio anteriore
alla civiltà del diritto non solo moderna, ma perfino antica,
se pensiamo al limite posto alla ritorsione reciproca fin dai
tempi della primigenia Europa, fondata su quello spirito greco
che fa porre a Sofocle, a sigillo dell’Orestea,
l’istituzione della giustizia da parte di Atena nel tribunale
dell’Aeropago. Era il V secolo a.C. Siamo tornati indietro
di 2500
anni.
Il testo dell’UCEI è uscito ai primi di luglio, e la Di Segni lo introduce come un contributo per contrastare le fake news su Israele, definite come disinformazione che mischia “realtà deformata e omissioni”, alimentando “odio anti-ebraico, anti-israeliano, la demonizzazione di Israele, la negazione della convivenza, l’elusione di quanto avviene nel quadro complesso del Medio Oriente e la legittimazione delle organizzazioni terroristiche”, cioè di Hamas.
0. Un’ipotesi a
premessa
Rita Cucchiara è la nuova rettrice dell’Unimore. Prima donna ad assumere questo ruolo nella storia dell’Università di Modena e Reggio, è stata eletta a giugno 2025 al ballottaggio contro Tommaso Fabbri, con un corpo accademico votante spaccato in due.
Come gruppo di inchiesta universitario, è indicativo per il nostro discorso lo spostamento dei rapporti di forza, di bilanciamento e di potere interni all’istituzione Università dal dipartimento di Economia a quello di Ingegneria. Come vedremo, questo elemento può essere già inteso come indizio della direzione e del ruolo che l’istituzione università sta assumendo, in questa fase accelerata e acuta di crisi, sul nostro territorio inteso nelle sue connotazioni produttive e sociali, nel suo rapporto con lo sviluppo capitalistico a vocazione industriale e dei soggetti da esso messi al lavoro, e in relazione alle trasformazioni del contesto politico e capitalistico non solo locale, ma regionale, nazionale ed europeo, dentro la crisi globale che si fa stato di guerra.
La figura della nuova rettrice sta lì a esprimere questa fase di cruciale trasformazione. Partiamo da qui, cominciando a tracciare qualche punto d’inchiesta sull’università come «laboratorio della guerra», da ampliare, mettere a verifica e agire in senso militante, con punto di vista di parte.
1. La nuova rettrice: Rita Cucchiara
Ordinaria di ingegneria informatica e direttrice di numerosi laboratori di ricerca sull’intelligenza artificiale, Rita Cucchiara viene descritta dai giornali come il volto delle donne nelle STEM italiane, con un curriculum accademico invidiabile.
Anche il più vessatorio dei contratti deve fondarsi su risorse esistenti o almeno potenzialmente esistenti; quindi ciò che i media hanno spacciato come un accordo tra la von der Leyen e Trump, si rivela assolutamente irrealistico; in effetti è soltanto uno spot pubblicitario che consente allo stesso Trump di tornare a casa da trionfatore e da vindice dei presunti torti subiti dagli USA. Per decenni gli USA hanno vissuto in un mondo ideale, scambiando beni reali con carta che stampavano all’occorrenza; questo paradiso se lo sono distrutto da soli indebitandosi a dismisura per fare guerre. Ora Trump pretenderebbe di vendere agli europei GNL, GPL e armi che non è in grado di produrre, in cambio di soldi che non ci sono e non ci potranno essere nel momento in cui si deindustrializza l’Europa imponendole dazi e disinvestimenti. La narrativa vittimistica consente a Trump di fare spot molto suggestivi ma i dati di fatto non sono suggestionabili; e in questo caso il dato di fatto è un nulla di fatto, perché Trump potrebbe in qualsiasi momento cambiare idea e far saltare tutto, ma soprattutto perché ciò che ha firmato la von der Leyen in Scozia non è vincolante per nessuna delle parti. In altre parole, in Scozia si è messo in scena un evento enfatico ma vuoto, che i vari governanti e oligarchi europei possono eventualmente usare come spot per promuovere altri prodotti tossici.
Anche per il sionismo la grande risorsa autopromozionale è sempre stata il vittimismo, perciò è necessario che la discussione venga continuamente spostata su dicotomie vuote, del tutto mitologiche e sorrette da mera impudenza; insomma, una “capezzonizzazione” del dibattito.
L’ennesima giravolta di Trump sulla guerra in Ucraina ha lasciato commentatori e governi di tutto il mondo nuovamente a chiedersi quale possa essere la “strategia” della Casa Bianca per arrivare a una soluzione negoziata di una crisi che dura ormai da più di 40 mesi. Riproponendo la sua abituale vocazione agli ultimatum, il presidente americano ha ridotto lunedì da 50 a “10 o 12 giorni” quello da poco imposto alla Russia per accettare una tregua, pena una raffica di sanzioni “secondarie” che, però, nessuno o quasi, incluso il governo di Mosca, ritiene realmente applicabili.
Non è da escludere che l’uscita più recente di Trump sia stata stimolata dal successo – o presunto tale – incassato il giorno prima sull’Europa in materia di dazi. Trump ha infatti consegnato alla stampa la sua decisione sull’ultimatum alla Russia sempre dalla stessa location dell’incontro avvenuto con Ursula von der Leyen, ovvero il “resort” golfistico scozzese di sua proprietà, e al termine di un faccia a faccia con un altro vassallo di Washington, il primo ministro britannico, Keir Starmer.
Se è improbabile che quest’ultimo, tra i più feroci sostenitori del regime di Zelensky, abbia avuto una qualche influenza sul cambio di atteggiamento verso la Russia di Trump, è più verosimile che l’ostentazione di impazienza nei confronti di Putin sia il risultato delle crescenti pressioni che i “falchi” negli Stati Uniti, inclusi quelli che affollano l’amministrazione repubblicana, stanno facendo sul presidente affinché si allinei totalmente alle politiche ultra-aggressive del suo predecessore.
Spiace dirlo, ma davanti a un genocidio in atto, a un intero continente che va verso la guerra e a una crisi economica e sociale dilagante, nel nostro paese non si è capaci di unirsi in una lotta che è di fatto esistenziale. Soprattutto a sinistra abbiamo una pseudo opposizione che in modo surreale pone questioni completamente avulse dal vero terreno di scontro, ma per il semplice fatto che una gran parte di essa, quella istituzionale ma non solo, è politicamente aggregata all’europeismo bellicista, alla deriva autoritaria del neoliberismo sfrenato.
Abbiamo una sinistra “antagonista”, spesso centrosocialiara che si muove per la Palestina ma si fa equidistante sul fronte ucraino, paragonando la Russia a USA e NATO, senza alcuna analisi che fuori esca dal massimalismo parolaio e dottrinario nelle versioni libertaria o vetero-stalino-trotzkista (dal PMLI ai nipotini del quartointenazionalismo, tanto per fare un esempio). Abbiamo micro-forze politiche che si autorereferenziano a tal punto da battersi per misere egemonie in manifestazioni incapaci di aggegare il malcontento sociale e l’indignazione sempre più massiva (ma non rappresentata) verso la macelleria che va dalla Palestina al centro Europa, che producono due manifestazioni sugli stessi contenuti, dove ognuno gioca nel suo cortile e pretende che gli altri vengano nel suo. Un’imbecillità che ormai non è più rettificabile con una sana autocritica. Per non parlare della pletora di prime donne che avevamo già visto dentro il movimento contro il greenpass e che oggi sono all’opera sulla Palestina e su altri temi come la censura, che organizzano iniziative alla cazzo, senza alcuna cognizione politica.
Chi semina guerra raccoglie vassallaggio. Tre giorni, tre schiaffi. Un’Unione Europea inginocchiata davanti al mondo, incapace di alzare la testa, buona solo a servire gli interessi americani e a vessare i propri cittadini
Tre giorni, tre schiaffi. Un’Unione Europea inginocchiata davanti al mondo, incapace di alzare la testa, buona solo a servire gli interessi americani e a vessare i propri cittadini.
Cosa resta del “Sogno Europeo”? Nulla. Se non una gigantesca macchina tecnocratica che disfa l’economia, umilia le nazioni e impone una cappa di censura, tasse e ora guerra permanente.
1. Cina: vertice-lampo, umiliazione piena
Von der Leyen, Costa e Kallas volano a Pechino come tre scolarette convinte di dettare legge. Si scomoda Xi Jinping con una maschera sfingea e impenetrabile. Tornano a casa con un pugno di mosche. La Cina li liquida in poche ore: zero accordi, massima irritazione. Pretendevano di impartire lezioni sui diritti umani, con l’economia europea in recessione e le industrie in fuga. Negli ultimi 25 anni, la Cina ha visto crescere la sua quota di PIL mondiale dal 3% a circa il 18%, affermandosi come colosso economico globale. Nello stesso periodo, l’Unione Europea è scesa da oltre il 20% a poco più del 13%, segnando un declino costante, che ora sembra avvitarsi.
Di recente ho ripreso alcune letture giovanili. Mi riferisco agli studi ormai classici che preannunciarono la piena americanizzazione della sinistra, e che negli anni 90/2000 furono già in grado di descrivere perfettamente i grotteschi esiti di oggi. Un breve elenco di questi testi si trova alla fine dell’articolo.
Se gli attuali militanti dei vari carnevali transfemministi, immigrazionisti eccetera, scoprissero che la loro egemonia culturale era stata perfettamente prevista venti anni prima, chissà se si farebbero qualche domanda.
Se io venissi a sapere che esistono analisi in grado di prevedere ciò che penserò tra 20 anni, e poi tra 20 anni pensassi esattamente quelle cose, mi sentirei una marionetta senza cervello. Chissà, forse è proprio di marionette senza cervello che stiamo parlando.
Ovviamente quegli analisti non erano stregoni, ma studiavano la congiuntura strutturale della lotta di classe nella sua evoluzione storica, e dunque erano in grado di prevedere con discreta precisione la sovrastruttura ideologica che l’avrebbe in futuro sorretta.
Cioè, appunto: l’attuale corpus di dogmi etico-politici condiviso dalla sinistra liberal e radical, la psicopolizia progressista delle apericene borghesi e delle serate fricchettone.
Il pensiero del conformista è scientificamente prevedibile come un’eclisse, come un qualsiasi accadimento inanimato della natura, perché manchevole di quel grado di misteriosa libertà che definisce l’umano.
Riprendiamo la relazione fiume di Tomskj da dove ci siamo lasciati. Già nei primi punti toccati, appare in modo estremamente chiaro come egli attacchi coerentemente, rispetto al proprio punto di vista, ogni approccio di tipo superficiale, approssimativo, stereotipato, alla questione del lavoro sindacale.
Prosegue quindi sulla stessa falsariga, criticando la troppa condiscendenza rispetto agli sprechi e agli scarti, ancora troppo alti e del cui problema il sindacato deve farsi carico, per rendere gli operai sempre più coscienti della loro importanza nel processo produttivo e non solo: infatti, BEN PIÙ A MONTE, occorre renderli anzitutto consapevoli che, in un’azienda socializzata, i mezzi di produzione sono loro e quelli che stanno buttando via son soldi loro. Prosegue quindi specificando quale dovesse essere, compiutamente, il lavoro economico dei sindacati, che ricorda essere “la questione più importante”:
Mi permetto di soffermarmi sulla questione più importante dell’attività sindacale, ovvero il suo lavoro economico, questione su cui qualche sindacalista nutre ancora dei dubbi. Qualcuno ha provato, infatti, di fronte al nostro mettere davanti a tutti gli altri compiti dei sindacati proprio quello di essere l’organismo di difesa degli interessi economici dei lavoratori, anche nelle imprese statali, ed esigere dai sindacati che non si dimenticassero neppure un minuto di questo loro, più importante, compito, a rappresentarci quasi come promotori di una terza linea, tredunionistica… gli stessi che peraltro, allo stesso tempo, dicono ai sindacati: “della vostra partecipazione alla produzione noi ce ne freghiamo”. Il perché rappresentino il lavoro dei profsojuz in questa maniera ci è ignoto, eppure molti parlano così.
Penso che qualsiasi persona che si sia trovata a parlare davanti a operai, in fabbrica o stabilimento, e che conosca la vita di fabbrica e di stabilimento, non potrà negare che, da qualche parte (кое-где), esista la cosiddetta “triplice”, ovvero il blocco direzione-partito-sindacati, laddove i sindacati si muovono all’unisono con la direzione e declamano: “Qui va tutto alla grande, qui c’è il fronte unito”.
Sarebbe dunque mestieri a voler riacquistare durevole libertà
nelle nostre tirannidi, non solamente il tiranno
distruggere, ma anche
i ricchissimi, quali che siano; perché costoro, col lusso
non estirpabile, sempre anderan corrompendo se stessi ed
altrui.
Vittorio Alfieri, Della tirannide, libro primo, capitolo decimoterzo.
Il 1777 fu un anno particolarmente fecondo nella vita intellettuale dell’Alfieri. Fu l’anno in cui, partito dalla lettura dello storico Tito Livio, giunse a ideare la tragedia Virginia e, partendo dalla lettura di Niccolò Machiavelli, ideò La congiura de’ pazzi. Da quella stagione così fervida nacque anche il trattato Della tirannide, un’opera singolare, un documento umano e politico che, proprio perché non è stato sempre posto nella sua giusta luce, attende ancora, specialmente nella nostra epoca, tanto lontana in apparenza da quella in cui fu scritto quanto in realtà così affine a essa, nuove, attente e perfino appassionate, generazioni di lettori. D’altra parte, non si può dire che l’Alfieri vi abbia esposto, se non frammentariamente e intuitivamente, idee che si possano giudicare nuove nella storia del pensiero politico. Ma nuovo è il pathos profetico che lo pervade e che ha ispirato il poeta in quell’anno, per lui memorabile, allorché sbocciò nel suo cuore una fede quasi religiosa nel valore della libertà.
1. La fenomenologia della tirannide: paura, viltà e libertà
L’Alfieriimposta il problema accomunando nella definizione di “tirannide” qualsiasi regime politico in cui sia possibile, per la persona o per il gruppo che detiene il potere, esercitare «una facoltà illimitata di nuocere». Egli considera perciò “tirannidi” tutte le monarchie del suo tempo, comprese quelle dei sovrani illuminati e riformatori (Maria Teresa e Giuseppe II d’Austria, Federico II di Prussia, Caterina di Russia ecc.). Così – scrive l’Alfieri nel primo capitolo del libro primo - «il nome di tiranno, poiché odiosissimo egli è oramai sovra ogni altro, non si dée dare se non a coloro (o sian essi principi, o sian pur anche cittadini) che hanno, comunque se l’abbiano, una facoltà illimitata di nuocere; e ancorché costoro non ne abusassero, sì fattamente assurdo e contro a natura è per se stesso lo incarico loro, che con nessuno odioso ed infame nome si possono mai rendere abborrevoli abbastanza.
Il rapporto Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio di Francesca Albanese, relatrice speciale per i territori palestinesi delle Nazioni Unite, presentato il 30 giugno al Consiglio dei diritti umani dell’ONU, è un documento di straordinaria intensità e importanza che, non a caso, ha provocato reazioni durissime e sanzioni nei confronti dell’autrice da parte di Israele e Stati Uniti (a cui ha corrisposto la proposta, proveniente da ampi settori della società, di attribuire a Francesca Albanese il premio Nobel per la pace).
La novità del rapporto sta nella documentata accusa alle principali aziende tecnologiche statunitensi (e non solo) di fornire un supporto decisivo alle operazioni militari di Israele a Gaza e nei territori occupati da epoca risalente e anche dopo le operazioni genocidiarie in atto a Gaza. Il rapporto si fonda, oltre che su documenti aperti e fonti pubbliche, su oltre 200 testimonianze raccolte dalla relatrice che hanno dato vita a un database di circa mille aziende coinvolte. «Ciò – precisa il rapporto – ha aiutato a tracciare una mappa di come imprese di tutto il mondo siano state coinvolte in violazioni dei diritti umani e crimini internazionali nei Territori palestinesi occupati. Oltre 45 entità citate nel rapporto sono state debitamente informate dei fatti che hanno portato la Relatrice speciale a formulare una serie di accuse: 15 hanno risposto. La complessa rete di imprese – e i legami spesso oscuri tra società madri e controllate, franchising, joint venture, licenziatarie ecc. – ne coinvolge molte altre. L’indagine alla base di questo rapporto dimostra fino a che punto le imprese sono disposte a nascondere la loro complicità».
Ho imparato molto lavorando con l’Iran durante il mio mandato all’ONU. E la mia testimonianza può forse aiutare a capire cosa succede oggi. Il mio osservatorio era privilegiato non solo per la mia posizione istituzionale, ma anche perché provenivo dal paese occidentale più simile all’ Iran.
Italia e Iran sono accomunate dal fatto di possedere una società civile matura, vibrante, creativa, che riesce ogni tanto ad esprimere un governo che la rispecchia. Ma è anche una società sfortunata, dentro cui alberga un male incurabile che la corrode. Mi riferisco alla classe dirigente di pessima fattura che governa – pur con qualche significativa interruzione – i due Paesi negli ultimi decenni. Una leadership scadente, prodotta da un residuo melmoso sottostante, una “società incivile” minoritaria e retrograda, che viene infiammata da capi spregiudicati e corrotti che stroncano i tentativi di cambiamento.
Ma andiamo con ordine, e iniziamo dal privilegio che ho avuto nell’incrociare il mio mandato con quello di Mohammad Khatami, il Presidente più aperto e progressista della storia dell’Iran. Ha lasciato un segno nella mia memoria quella limpida mattina del gennaio 1998 nella quale l’ambasciatore iraniano a Vienna, Mohammad Amirkhizi, mi invitava nel suo Paese, a nome del Presidente, per un soggiorno di una settimana. Avrei potuto vedere con i miei occhi lo sforzo che la Repubblica islamica stava compiendo al confine con l’Afghanistan per ostacolare l’ingresso degli oppiacei nel suo territorio, e quindi in Europa. “Abbiamo dislocato migliaia di guardie sul confine afghano per sorvegliare un muro lungo duemila chilometri costruito contro trafficanti armati fino ai denti.
L’inerzia occidentale stride con la mobilitazione che si ebbe per imporre sanzioni a Mosca anche al prezzo di pesanti perdite economiche per i paesi europei
La “pausa umanitaria” indetta da Israele in alcune zone di Gaza non deve illudere nessuno. Difficilmente le condizioni della popolazione nella Striscia miglioreranno.
La stessa designazione delle aree interessate dalla “pausa” la dice lunga sulla natura del provvedimento.
Le tre aree indicate, al-Mawasi, Deir el-Balah e Gaza City, erano già state definite da Israele come aree umanitarie. All’interno di esse, dunque, le forze armate israeliane non dovrebbero operare. Ma queste zone sono state bombardate come le altre.
Le “pause locali tattiche”, come sono state definite, avranno luogo inoltre solo dalle 10:00 alle 20:00, ora locale. Entro queste fasce orarie, dovrebbe essere permesso l’ingresso di aiuti internazionali che, attraverso “corridoi designati”, dovrebbero raggiungere coloro che sono sfollati in queste zone.
La durata complessiva della pausa umanitaria è incerta, ma fonti ONU parlano di appena una settimana, un lasso di tempo del tutto insufficiente a modificare la disperata situazione sul terreno.
La ristrutturazione del sistema statale deve continuare in direzione di una maggiore concentrazione del potere nelle mani di una élite globalizzata, o la soluzione migliore è l’inserimento degli stati in un’architettura internazionale che rispetti la loro sovranità? È la questione posta dall’ultimo libro di Wolfgang Streeck.
Il capitalismo, come è noto, consiste nella moltiplicazione infinita di un capitale pronto e disponibile a moltiplicarsi. Una società a gestione economica di tipo capitalistico deve avvalersi di membri disposti a farsi trascinare in tale sistema, seppure il risultato dei loro sforzi e della tensione al miglioramento loro richiesta finisca secondo la natura del capitalismo, nelle mani di una piccola minoranza in forma di proprietà privata.
Le tecniche motivazionali del lavoratore
Affinché accetti di stare al gioco anche chi programmaticamente è escluso dai risultati prodotti dalla collettività – e incluso solo come fattore di costo nel calcolo del profitto altrui – si rendono necessarie efficaci tecniche motivazionali, riadattate di volta in volta a modi e a rapporti di produzione in continuo mutamento: sotto forma di “incentivi al lavoro”, ispirati alle promesse di salvezza della religione (Weber 2002 [1904-1905]), di minacce di sanzioni penali e prospettive di ristrettezza economica (Marx 1966 [1867), di finanziamenti per l’acquisto di una casa o il consumo, di salari superiori ai valori di mercato (efficiency wages, “salari di efficienza”), di politiche sociali di espansione dell’offerta lavorativa attraverso strategie push e pull (di anticipo e soddisfazione della domanda), di ascensori sociali dei mercati del lavoro interno”, di “bonus di rendimento” e, cosa ancor più importante al giorno d’oggi, di un’offerta infinita di beni di consumo, sempre nuovi e “migliori”.
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Vincenzo Maddaloni: Un puzzo di Reich aleggia su Berlino
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Terminata
(momentaneamente)
la pars destruens, Tomskij passa alla construens e si occupa
di un rapporto causa-effetto ormai dimenticato. La
negligenza, la
superficialità, l’opportunismo, di chi dovrebbe tutelarci,
peggio ancora, rappresentarci, si combattono con la nostra
partecipazione,
operaia e di massa ai processi gestionali e decisionali!
Per farlo, occorre coinvolgere grandi masse operaie, buona
parte delle quali appena
giunta in fabbrica e con in testa ancora più il paesello che
la propria, nuova vita:
Per coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche, dobbiamo muoverci su due direttrici. La prima è portare la discussione dei contratti collettivi proprio dove sta chi di tali contratti è parte, ovvero nel cui nome tali contratti sono stipulati. A siglare il contratto collettivo siamo in due:
il dirigente, che si assume la responsabilità di dire, “prometto di pagare questo e questo, di non modificare le condizioni di lavoro, né tantomeno peggiorarle nel corso del tempo”
il sindacato che, nel firmare il contratto collettivo, si assume la responsabilità e promette che i suoi iscritti lavorino per tutta la validità del contratto in un certo modo, a certe condizioni, senza provare a cambiarle in tale lasso di tempo.1
Ripartiamo dall’ABC, invita i suoi Tomskij, dal chi siamo e cosa dobbiamo saper fare, e bene, senza strafare, senza snaturarci; ripartiamo anche da per cosa lottiamo, qual è il nostro scopo. Altro che “cinghia di trasmissione”, verrebbe da dire.
Dobbiamo “coinvolgere ampie masse operaie nel lavoro di gestione economica, oltre che nella discussione di questioni economiche”. “Lavoro di gestione economica” (хозяйственно-экономическая работа) è già un termine che, di per sé, illustra bene le due sfere dell’economia (l’aggettivo composto, infatti, comprende sia il termine slavo che quello greco, per cui un traduttore automatico va in tilt e traduce “economico-economico”...): la chozjajstvo, che non è solo “economia” o “azienda”, o “casa” (da cui il calco linguistico dal greco che segue) ma, nella forma verbale chozjastvovat’ padroneggiare, gestire. Che cosa? L’economia.
Ci sono testi che
svelano e rilevano in modo indiretto il problema
onto-metafisico in cui siamo implicati. Uomini senza passione
governano il pianeta, il potere e il
senso di onnipotenza con operazioni di guerra valutate in modo
autoreferenziale ”spettacolari” (Trump) sono il segno del
vuoto di senso
dell’Occidente. Lo spettacolo minaccia di condurci verso uno
scontro atomico senza ritorno, nel frattempo circa un migliaio
di esseri umani
hanno perso la vita nello scontro tra Israele-USA e Iran,
mente a Gaza il genocidio continua a consumarsi nel silenzio
mediatico abbagliato, è
il caso di dire, dalle operazioni militari in Iran. La
politica, passione sociale ed etica, è stata sostituita con il
suo surrogato più
squallido: la logica del dominio che diventa aggressività
nichilistica incapace di “pensare le conseguenze” sociali,
politiche e
ambientali della guerra divenuta “spettacolo”. Non c’è
progettualità e dinanzi alla fine della potenza economica
capitalistica si reagisce con la violenza, in quanto la
dimensione della politica si è inabissata nell’irrazionalità
del
pan-economicismo oligarchico. Uomini senza passione per
l’umano e senza amore per il proprio popolo governano il
pianeta. A questi uomini che
Nietzsche definì “ultimi uomini”, si contrappone la resistenza
silenziosa degli uomini dalla “passione durevole”.
Costanzo Preve ne fu un esempio intramontabile. Egli dedicò un
testo alla Passione durevole, che non è un semplice testo, ma
è
l’oggettivazione della vita nel senso alto e nobile della
parola.
La Passione durevole di Costanzo Preve è molto più che un semplice saggio di filosofia. Ne “La passione durevole” c’è l’anima carnale del “filosofo e di ogni essere umano che non si piega fatalmente alla società dello spettacolo” e che non reagisce alle congiunture della storia, ma che agisce su di esse mediante il bilancio critico dell’esperienza comunista sporgendosi, così, verso il “nuovo”. La passione durevole è vocazione filosofica che attraversa le intemperie della storia e delle vicissitudini personali senza disperdersi in inutili “giri e raggiri di vuote parole”.
La manifestazione dei
“papa-boys” a Roma, in occasione del Giubileo dei giovani, se
da un lato mostra la capacità di mobilitazione di massa della
Chiesa,
dall’altro conferma, oltre al carattere illusorio degli
obiettivi di tale manifestazione, il ruolo, che esprime
l’essenza storica della
Chiesa e ne spiega la ‘lunga durata’, di apologia indiretta
del potere esistente (da quello costantiniano a quello
feudale, da
quest’ultimo al potere borghese-capitalistico). Sappiamo,
dunque, fin d’ora a che cosa serviranno le ‘divisioni’
giovanili del
Vaticano passate in rassegna da Leone XIV a Roma: a impedire,
in nome della pratica della ‘carità’ interpersonale,
l’attuazione della giustizia sociale; a mettere sullo stesso
piano il genocidio israeliano di Gaza e l’“operazione militare
speciale” condotta dalla Russia in Ucraina.
Sennonché questo raduno ci ricorda anche un altro fatto, e cioè che la questione giovanile è diventata, come altre questioni sociali del nostro tempo e del nostro Paese, un oggetto misterioso. Eppure, un’indagine e un approfondimento della condizione giovanile sono tanto più necessari quanto più bassa, e non da ieri, appare oggi la soggettività giovanile e quanto più una siffatta ricerca procede in controtendenza rispetto a una situazione che vede i giovani prevalentemente come oggetto, e non come soggetto, del discorso, dell’analisi e delle proposte che li riguardano.
Articolerò questa riflessione, che concerne un tema cruciale per il futuro del movimento di classe in tre parti: un’interrogazione, una provocazione e una conclusione. Comincio dall’interrogazione, formulando appunto una domanda: che posto trova nell’immaginario dei giovani e nella loro memoria storica una qualche idea, sia pur vaga, di quei loro coetanei di poco più di cento anni fa, a cui sono intitolate piazze, larghi e vie delle nostre città?
Sono nato a Trieste ma vivo a Milano da una vita (da 65 anni, per la precisione). Mi riesce difficile far finta di nulla davanti alle inchieste della magistratura, che stanno scuotendo la città. E soprattutto tacere di fronte all’urlìo assordante di coloro che esaltano “il modello Milano” e tacciano i magistrati come sabotatori di un futuro radioso e denigratori di un passato strabiliante. Con “Il Foglio” di Giuliano Ferrara a guidare il baccanale dell’osceno.
Non mi sono mai occupato di urbanistica ma mi chiedo se non sia sufficiente la condizione di “abitante” per avere il diritto a parlarne.
Negli anni Settanta era il gruppo di Alberto Magnaghi alla Facoltà di Architettura del Politecnico a darmi i parametri interpretativi della questione dell’abitare e della trasformazione urbana. Come autore/ricercatore, e con mia figlia Sabina alla macchina da presa, nel 2006/2007 abbiamo realizzato un documentario intitolato “Oltre il ponte” sulla trasformazione del quartiere dove abito, Porta Genova, passato da zona di altissima concentrazione operaia (circa 14 fabbriche medio-grandi) a zona della moda e del design. E tutto sommato avevamo dato un giudizio positivo. Oggi quegli stessi luoghi che abbiamo filmato sono completamente cambiati. In peggio. Al posto di fondazioni d’arte o laboratori artigiani i soliti squallidi show room del prêt-à-porter, con interminabili file di attaccapanni pieni di stracci. Ci sono rimasti gli Armani, però, coi loro “silos”, le aiuole ben curate, quelli che fanno cucire le borse a sub-sub-appalti di poveri cinesi pagati 3-4 euro l’ora.
Le guerre odierne non sono conflitti isolati, ma manifestazioni di uno scontro globale per la futura spartizione del potere mondiale. Mentre Trump prepara un nuovo fronte in Estremo Oriente, gli analisti mettono in guardia l’Occidente e suoi alleati
Le guerre, cui assistiamo, non sono più il
frutto di una guerra a pezzi, ma le manifestazioni di un
conflitto globale, il cui
risultato sarà una diversa spartizione del mondo. Il
pacificatore Trump ha cambiato idea e sembra voler
continuare ad appoggiare
l’Ucraina, per poi aprire un fronte nell’Estremo Oriente.
Due noti analisti statunitensi si chiedono se gli Usa e gli
europei sono in
grado di continuare su questa strada e se non hanno
sottovalutato le capacità militari e politiche dei loro
avversari. Se l’Occidente
collettivo non riconoscerà la sua sconfitta, se non
negozierà veramente con la Russia, se la Germania metterà in
pratica i suoi
piani deliranti, è probabile che prima o poi riceveremo una
visita non gradita dell’unico missile di medio raggio
supersonico non
intercettabile: Oreshnik.
Purtroppo, sembra sia chiaro ormai che non siamo di fronte a una guerra a pezzi, come sosteneva il papa recentemente scomparso, ma a una guerra globale, giacché i diversi conflitti oggi attivi nel mondo (e ogni giorno ce n’è uno nuovo) sono tra loro in stretta connessione e riguardano la lotta del blocco dominante per mantenere il suo dominio, mentre altri blocchi si stanno costituendo e indipendizzando, portando avanti i loro progetti.
Dinanzi a questo scenario di minacce, di ricatti, di ultimatum lanciati soprattutto dagli Usa e da alcuni Paesi dell’Europa (come, per esempio, il trasferimento di alcune B61-12 nel Regno Unito da parte degli Usa), mi sembra opportuno ragionare per cercare di capire quanto ci sia di realistico dietro tutto ciò. E lo farò riportando i testi sintetici di due interviste assai interessanti, la prima a Scott Ritter, ex ufficiale dell’intelligence dei marines statunitensi ed ex ispettore delle Nazioni Unite per le armi, la seconda a Larry Johnson, ex analista di intelligence della Cia. Insomma, due veri amerikani.
In questo studio, John Bellamy Foster entra nel vivo degli scritti di Marx sulle società comunitarie, un aspetto spesso trascurato dell'opera marxiana, nonostante la sua importanza per il progetto socialista. Collegando gli studi di Marx all'antropologia, alla storia e all'etnologia, J.B. Foster fa luce sulla centralità del comunitarismo nella critica generale di Marx alle società di classe
«In
definitiva, il comunismo è l'unica cosa importante del
pensiero di [Karl] Marx», osservava nel 1983 il teorico
politico ungherese R. N.
Berki.[1] Anche se si trattava di
un'esagerazione, è innegabile che l'ampia concezione di Marx
della società
comunitaria/comunismo costituisse la base della sua intera
critica della società divisa in classi e della sua visione di
un futuro sostenibile
per l'umanità. Tuttavia, ci sono stati pochi tentativi di
affrontare sistematicamente lo sviluppo di questo aspetto del
pensiero di Marx,
così come è emerso nel corso della sua vita, a causa della
complessità del suo approccio alla questione della produzione
comunitaria nella storia, e delle sfide filosofiche,
antropologiche e politico-economiche che questo ha presentato
fino ai nostri giorni. Tuttavia,
l'approccio di Marx alla società comunitaria è di reale
importanza non solo per comprendere complessivamente il suo
pensiero, ma anche
per aiutare l'umanità a superare la gabbia d'acciaio della
società capitalista. Oltre a presentare un'antropologia
filosofica del
comunismo, Marx ha approfondito la storia e l'etnologia delle
attuali formazioni sociali comunitarie. Ciò ha portato a
indagini concrete sulla
produzione e sullo scambio comunitari. Tutto ciò ha
contribuito alla sua concezione del comunismo del futuro come
società di produttori
associati.[2]
Nel nostro tempo, la produzione e lo scambio comunitari e gli elementi di uno Stato comunitario sono stati sviluppati, con diversi gradi di successo, in un certo numero di società socialiste successive alle rivoluzioni, in particolare in Unione Sovietica, Cina, Cuba, Venezuela e altrove nel mondo. La comprensione di Marx della storia, della filosofia, dell'antropologia e dell'economia politica della società comunitaria/collettiva è quindi un'importante fonte di intuizione e di visione, non solo per quanto riguarda il passato, ma anche per il presente e il futuro.
L'ontologia sociale della produzione comunitaria
Marx fu, fin dalla prima età, un prodotto dell'Illuminismo radicale, influenzato in questo senso sia dal padre, Heinrich Marx, sia dal suo mentore e futuro suocero, Ludwig von Westphalen.
Per mesi non sono intervenuto su “Sinistra in Rete”, pur continuandola a leggere, per le troppe cose in sospeso: la morte di papa Francesco e l’elezione del nuovo, Trump in Usa e Ursula II in Europa. Il loro avvento costituisce un salto d’epoca: Carlos Xavier Blanco non smentisce l’estremo trans-umanesimo di Franco Berardi Bifo, il quale pensa i comandi dell’intera società delegati alla AI bellica, la quale mira all’annientamento umano - logica soluzione al caos politico.
Scrive Xavier Blanco: “Il popolo viene privato di tutto ciò che aveva guadagnato in due secoli di barricate, rivoluzioni, sofferenze e abnegazione. Privato di un’assistenza sanitaria e di un’educazione di qualità. Privato della capacità di sposarsi e procreare. Privato della capacità di possedere una casa. Delocalizzazione e terziarizzazione dell’economia europea cancellano il proletariato. Emerge un sottoproletariato di migranti, indifesi e disuniti (...) in via d’annientamento la classe media: con il capitalismo della sorveglianza, non essendo più necessaria all’elite, scende alla base della piramide. Nel 99% della popolazione, cioè fra i poveri, le differenze saranno marcate a livello animale: poter mangiare o no, essere una cosa o meno, esser sacrificabile. Il modello Auschwitz-Hiroshima si sta rinnovando a Gaza”1.
Il punto zero però non arriva, si trascina: perché ciò che è iniziato non si compie ora, subito? La sociologia, e la fisica classica direbbero per la resilienza di controspinte, resistenze, forze e interessi di segno opposto. Diciamo anche per la non calcolabile resistenza umana.
So bene che non si avvertiva la necessità di un mio punto di vista sull'intervista a Liliana Segre, ne avrete letto ovunque e tutto e il contrario di tutto. Non volevo scriverne perché ho già letto interventi perfetti, fondati storicamente, però dopo averla letta stamattina ho avvertito un fastidio, un'irritazione che mi è rimasta addosso tutto il giorno. Le sue parole mi hanno fatto sentire inadeguata. Come se il solo fatto di nominarle mi sporcasse, mi collocasse in un angolo sbagliato della Storia. Quel negazionismo sottile, garbato, mi spingeva in una posizione di vergogna. Mi sono chiesta: perché?
Uno dei meccanismi psicologici più radicati nelle relazioni di potere è quello della proiezione, che agisce in tandem con un senso di colpa instillato, mai dichiarato ma onnipresente. Lo riconosco perché funziona così: qualcuno parla da un luogo di dolore indiscutibile e trasforma quel dolore in fondamento per delegittimare il tuo sguardo. In questo caso, chi siamo noi per dire che ha torto? Lei è stata ad Auschwitz, ha attraversato l'inferno. Il genocidio lo ha conosciuto sulla pelle.
Ma proprio qui sta la torsione manipolativa: quando una vittima storica parla, ogni sua parola viene accolta come sacra. E se quella parola nega il genocidio altrui, ti fa sentire un bestemmiatore. L'autorità morale dell'esperienza viene usata per zittire, non per illuminare. Questo è il primo punto dove il meccanismo agisce: quando dice che la parola genocidio è usata per vendetta, che c'è sotto un risentimento verso la memoria della Shoah. Qui, implicitamente, chi nomina il genocidio a Gaza viene accusato di rivalsa.
Dal primo all’11 luglio 2025, le piazze di Parma si sono trasformate in aule aperte dove studenti, docenti e cittadini hanno dato vita a una particolare forma di resistenza culturale: la maratona di letture “Stop al genocidio. Voci dalla Palestina”, promossa dall’Osservatorio Paritetico Studenti Docenti Contro la Normalizzazione della Guerra dell’Università di Parma.
L’iniziativa non aveva l’ambizione di essere una lezione accademica su dinamiche geopolitiche o storiche, né un attraversamento superficiale della questione palestinese. L’obiettivo era più radicale e insieme più intimo: creare un cerchio narrativo capace di evocare la vita quotidiana di chi vive il genocidio in corso, costruendo un ponte tra chi ascolta e chi resiste dall’altra parte del mondo. "Sediamoci e ascoltiamo a lungo la storia di qualcun altro”, questa la filosofia che ha guidato dieci giorni di letture continuative. La scelta metodologica richiama le pratiche della public sociology, problematizzando il punto di vista dominante per privilegiare quello della vita quotidiana, di coloro che sono lasciati fuori e invisibilizzati dalle grandi narrazioni mediatiche, dei soggetti che vivono sulla propria pelle l’orrore del genocidio. È la micro-sociologia applicata al contemporaneo, la scelta deliberata di dare voce alla “storia minima” contro le narrazioni egemoniche.
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Massimiliano Ay: Smascherare i sionisti che iniziano a sventolare le bandiere palestinesi!
2025-05-28 - Hits 11708
Mancanza assoluta di una prospettiva futura, totale assenza di una visione collettiva, accettazione acritica di un contesto di perenne disomogeneità sociale e di eterno precariato.
Questa è la condizione psicologica zombie dei popoli europei, dopo cinquant’anni di applicazione del programma didattico neocoloniale e neoliberista angloamericano, dove ogni ascensore sociale è fuori uso e i cittadini sono ormai incapaci di immaginare un piano sociale migliore di quello che gli è stato assegnato nel condominio; incapaci dell’ottimismo volitivo necessario alla propria emancipazione.¹
Correva l’anno 1987, quando Margaret Thatcher pronunciò le seguenti parole: “La società non esiste, esistono solo gli individui”, riassumendo con rara capacità di sintesi e con altrettanto rara potenza profetica la direzione che l’Occidente aveva preso e il cammino che i ceti dominanti volevano imporre anche al resto del mondo. Un punto di vista che prevedeva di pensare a se stessi prima che alla comunità, che dissolveva e negava la percezione della società come unione, oltre che di individui, di cultura, sentimenti, rispetto e solidarietà; un punto di vista, infine, che mortificava inevitabilmente e definitivamente l’immagine positiva, costruttiva e progressiva che per necessità informa il pensiero socialista: l’immagine dell’uomo, in altre parole, come animale sociale, come essere che si realizza nelle relazioni interpersonali e nella costruzione della propria società.²
Herzog: Mattarella, un vero amico.
“ Spunti di riflessione” Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
Antisemita a chi? Con Fulvio Grimaldi @MondocaneVideo
https://www.youtube.com/watch?v=Q_N881lWI-k
Intanto di semiti tra gli ebrei ce ne sono pochini, come ci spiega lo storico ebreo Shlomo Sand nel suo fondamentale “L’invenzione del popolo ebraico”, dove ci si racconta come quanto di ebraico è giunto in Palestina, goccia a goccia, dagli inizi del secolo scorso e poi, con più impeto, dopo la seconda guerra mondiale, di semita ne ha poco. Vengono dal Caucaso, dove all’ebraismo si sono convertiti in massa per fare un dispetto allo zar, ortodosso e oppressore, e si sono diffusi per tutto l’Occidente. Dal quale, vista l’occasione, dopo che all’Occidente era scappato un mondo di colonie, hanno avuto la delega di ricominciare la conquista a partire dalla Palestina. Poi, hai visto mai, Eretz Israel, Grande Israele e il Medioriente, quanto meno, torna nostro. E a chi cià da dì quarcosa, “antisemita!”
Che è poi tutto un equivoco. Per chi ci crede, Noè aveva tre figli: Sem, Cam e Jafet. Ne ha fatto i capistipiti di tutti i popoli della Terra: Sem, di quelli di Nord Africa e Medioriente, dove allora c’erano i mesopotami, gli Abbasidi, gli Omayyadi, i mammalucchi, tutti arabi e poi musulmani; Cam, di quelli a Sud, in Africa e Jafed di tutti gli altri, interpretati come indoeuropei (perché i cinesi a Noè non si erano ancora palesati).
Sono nato a Trieste ma vivo a Milano da una vita (da 65 anni, per la precisione). Mi riesce difficile far finta di nulla davanti alle inchieste della magistratura, che stanno scuotendo la città. E soprattutto tacere di fronte all’urlìo assordante di coloro che esaltano “il modello Milano” e tacciano i magistrati come sabotatori di un futuro radioso e denigratori di un passato strabiliante. Con “Il Foglio” di Giuliano Ferrara a guidare il baccanale dell’osceno.
Non mi sono mai occupato di urbanistica ma mi chiedo se non sia sufficiente la condizione di “abitante” per avere il diritto a parlarne.
Negli anni Settanta era il gruppo di Alberto Magnaghi alla Facoltà di Architettura del Politecnico a darmi i parametri interpretativi della questione dell’abitare e della trasformazione urbana. Come autore/ricercatore, e con mia figlia Sabina alla macchina da presa, nel 2006/2007 abbiamo realizzato un documentario intitolato “Oltre il ponte” sulla trasformazione del quartiere dove abito, Porta Genova, passato da zona di altissima concentrazione operaia (circa 14 fabbriche medio-grandi) a zona della moda e del design. E tutto sommato avevamo dato un giudizio positivo. Oggi quegli stessi luoghi che abbiamo filmato sono completamente cambiati. In peggio. Al posto di fondazioni d’arte o laboratori artigiani i soliti squallidi show room del prêt-à-porter, con interminabili file di attaccapanni pieni di stracci. Ci sono rimasti gli Armani, però, coi loro “silos”, le aiuole ben curate, quelli che fanno cucire le borse a sub-sub-appalti di poveri cinesi pagati 3-4 euro l’ora.
Come abbiamo visto in questi anni, il sistema della Difesa francese, inteso sia come apparato militar-industriale che come Forze Armate in senso stretto sta attraversando un momento di gravissima crisi, a nostro avviso paragonabile all'aggiramento tedesco della Linea Maginot, iniziato il 10 Maggio del 1940, che costò alla Francia la sconfitta e l'occupazione nazista.
In questi anni abbiamo infatti visto come la Francia abbia sostanzialmente perso la presa sulla cosiddetta Françafrique che si è sostanziata sia con il ritiro militare da paesi quali il Niger, il Burkina Faso, il Mali e il Senegal, sia con la sostanziale fine del Franco CFA. Da notare peraltro che questo ritiro non si è verificato per autonoma scelta politica di Parigi ma per l'effetto di eventi avversi sullo scacchiere geopolitico, basta notare che la Francia in questi paesi è stata sostanzialmente sostituita, sia dal punto di vista commerciale che militare, da aziende e reparti militari provenienti dalla Federazione Russa.
Ma a questo enorme smacco diplomatico, militare, commerciale e monetario subito in Africa vanno anche aggiunte cocenti sconfitte in senso industrial-militare che hanno posto in dubbio la qualità dei prodoti dell'industria militare francese. Ci riferiamo innanzitutto al fiasco subito dal sistema antiaereo franco-italiano SAMP-T che nelle intenzioni doveva essere la risposta europea al sistema Patriot americano ma che, nella battaglia aerea in Ucraina contro le forze russe, non è stato all'altezza delle attese subendo molte avarie (anche di natura informatica) e non riuscendo a far fronte neanche parzialmente ai furibondi attacchi delle forze missilistiche russe.
La mia analisi sulle prime crepe nella NATO è stata pubblicata con un leggero ritardo, sufficiente per diventare obsoleta. Avevo segnalato i due referendum proposti in Slovenia – uno sulla spesa militare e l’altro sull’adesione all’Alleanza – quando la situazione è improvvisamente cambiata.
Con sorpresa di chi non conosce bene la politica di questo piccolo paese, il parlamento sloveno ha annullato la decisione sul primo referendum, proposto dal partner di coalizione Levica, per motivi procedurali: la domanda referendaria non era stata formulata correttamente!
Questo ha dato al Primo Ministro Robert Golob il pretesto perfetto per ritirare la sua stessa proposta frettolosa ed emotiva di un secondo referendum (che chiedeva ai cittadini se fossero favorevoli a rimanere o uscire dalla NATO).
Sembra che le speranze di un vero dibattito in qualsiasi paese sulla richiesta insensata, o meglio suicida, della NATO di destinare il 5% del PIL a scopi militari si siano dissolte. Come dice il vecchio adagio latino: Parturient montes, nascetur ridiculus mus (Le montagne partoriscono e nasce un ridicolo topolino).
I colleghi sloveni che ho consultato sostengono che la saga del referendum non è finita, poiché i proponenti potrebbero ancora “correggere” la domanda e chiederne uno nuovo. Tuttavia, alcuni osservatori realistici fanno notare che si tratterebbe di un referendum consultivo, cioè non vincolante, il che significa che, anche se generasse un dibattito pubblico, rimarrebbe solo una tempesta in un bicchiere d’acqua – senza alcun effetto legale o politico concreto.
Due considerazioni di passaggio sul tema dei rapporti tra Italia e UE.
1) Spesso si tende a opporre due immagini astratte, da un lato l'Europa vista come coincidente con l'UE, dall'altra l'immagine dell'Italia, fragile fuscello affidato ai marosi della politica internazionale e dell'economia dei Big Players.
Una volta che il discorso prende questa piega è facile chiedersi retoricamente: dove potrà mai andare l'Italia da sola, come se giocassimo la partita Italia-Resto del Mondo.
Questo visualizzazione è completamente fuorviante.
Non ha mai senso parlare di un'Italia "con o senza l'Europa".
Forme di trattati di cooperazione europea ci sono sempre stati, da quando l'Italia esiste come stato unitario.
Il problema non è rappresentato dai trattati europei o internazionali in generale, ma dalle specifiche caratteristiche del trattato di Maastricht (e poi di Lisbona), con l'istituzione di un modello di relazioni assai specifico, votato a politiche neoliberali, mercantiliste, rivolte a massimizzare l'export a scapito del mercato interno, inteso a indebolire le capacità autoorganizzative delle istituzioni nazionali nel fornire servizi di interesse pubblico, punitivo nei confronti delle industrie di stato e premiale verso le operazioni di privatizzazione.
Ritengo doveroso spiegare come mai non abbia aggiunto la mia firma all’appello sulle iniziative da intraprendere verso Israele, promosso dall’ex Ambasciatore in Algeria e Direttore Generale degli Affari Politici, diplomatico stimabile e attento, al quale si deve peraltro l’unico tentativo di mediazione tra Ucraina e Russia da parte di un Paese occidentale, sponsorizzato dall’allora Ministro degli Esteri Di Maio e precocemente abortito all’ONU.
Avrei unito la mia firma, turandomi il naso – come diceva qualcuno – se l’appello avesse avuto qualche probabilità di essere efficace, e di spingere il Governo Meloni a rivedere la propria linea di politica estera nei confronti del Governo Netanyahu. L’appello, per quanto condivisibile nei contenuti, non avrà conseguenze concrete. Rimane dunque un’operazione di pura propaganda, nella misura in cui offre l’illusione che il genocidio a Gaza sia responsabilità esclusiva di Netanyahu e del suo Governo, nonché di Trump e delle destre europee che sostengono brutalmente e senza infingimenti la politica imperialistica statunitense in Medio Oriente, fino alle sue estreme conseguenze.
Le cause profonde di quanto sta accadendo in Medio Oriente sono invece rimosse dalla maggioranza dei firmatari dell’appello. Non credo che le classi dirigenti europee che si raccolgono intorno alla Presidente della Commissione Europea abbiano visioni realmente differenti in politica estera, se non per dettagli secondari.
Esattamente dieci anni fa, usciva il romanzo “Soumission” (Sottomissione) di Michel Houllebecq, nel quale lo scrittore immaginava un futuro di sottomissione della Francia all’Islam. Un assoggettamento “soft”, favorito anche dalla complicità e dall’opportunismo di una parte dell’establishment. Il successo internazionale dell’opera fu immediato, andando così ad alimentare il vento islamofobo che appesta l’occidente da decenni.
Dieci anni dopo, il primo ministro francese François Bayrou ha così commentato la capitolazione europea davanti ai dazi e alle arroganti pretese di Trump: «E’ un giorno buio quello in cui un’alleanza di uomini liberi, riuniti per affermare i propri valori e difendere i propri interessi, si rassegna alla sottomissione».
Sottomissione, basta la parola! Al netto della retorica europeista, alla quale pure lui evidentemente non crede più, l’ammissione di Bayrou è davvero interessante. Sottomessi sì, ma stavolta sul serio. E non all’islam come nelle fantasie di un romanziere allucinato, bensì alla concreta prepotenza degli Stati Uniti d’America, come ben si è visto nell’inginocchiamento davanti all’imperatore della signora Ursula Pfizer von der Leyen.
La cosa curiosa – il diavoletto della storia è sempre all’opera! – è che nel racconto di Houllebecq (che mescola personaggi reali ad altri immaginari) sarebbe stato proprio un governo presieduto da François Bayrou, propiziato dalla vittoria alle elezioni presidenziali del 2022 di un fantasioso Mohammed Ben Abbes, a introdurre una sorta di “Sharia moderata”.
Le condizioni punitive (per l’Europa) dell’accordo commerciale UE-USA sono l’esempio lampante del fatto che l’Unione Europea ha imposto una subordinazione strutturale agli Stati Uniti mai vista nel dopoguerra
Domenica, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno finalizzato un accordo commerciale che impone una tariffa del 15% sulla maggior parte delle esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti, un accordo che il presidente americano Donald Trump ha trionfalmente definito “il più grande di tutti”. Sebbene l’accordo abbia scongiurato una tariffa ancora più severa del 30% minacciata da Washington, molti in Europa lo considerano una sonora sconfitta, o addirittura una resa incondizionata, per l’UE.
È facile capirne il motivo. Il dazio del 15% sulle merci UE che entrano negli Stati Uniti è significativamente più alto del 10% che Bruxelles sperava di negoziare. Nel frattempo, come si è vantato lo stesso Trump, l’UE ha “aperto i propri paesi a dazi zero” alle esportazioni americane. Fondamentalmente, l’acciaio e l’alluminio UE continueranno a essere soggetti a un dazio schiacciante del 50% quando venduti sul mercato statunitense.
Questa asimmetria pone i produttori europei in una posizione di grave svantaggio, aumentando i costi per settori strategici come l’automotive, il farmaceutico e il manifatturiero avanzato, settori che sostengono le relazioni commerciali transatlantiche dell’UE, pari a 1.970 miliardi di dollari.
So bene che non si avvertiva la necessità di un mio punto di vista sull'intervista a Liliana Segre, ne avrete letto ovunque e tutto e il contrario di tutto. Non volevo scriverne perché ho già letto interventi perfetti, fondati storicamente, però dopo averla letta stamattina ho avvertito un fastidio, un'irritazione che mi è rimasta addosso tutto il giorno. Le sue parole mi hanno fatto sentire inadeguata. Come se il solo fatto di nominarle mi sporcasse, mi collocasse in un angolo sbagliato della Storia. Quel negazionismo sottile, garbato, mi spingeva in una posizione di vergogna. Mi sono chiesta: perché?
Uno dei meccanismi psicologici più radicati nelle relazioni di potere è quello della proiezione, che agisce in tandem con un senso di colpa instillato, mai dichiarato ma onnipresente. Lo riconosco perché funziona così: qualcuno parla da un luogo di dolore indiscutibile e trasforma quel dolore in fondamento per delegittimare il tuo sguardo. In questo caso, chi siamo noi per dire che ha torto? Lei è stata ad Auschwitz, ha attraversato l'inferno. Il genocidio lo ha conosciuto sulla pelle.
Ma proprio qui sta la torsione manipolativa: quando una vittima storica parla, ogni sua parola viene accolta come sacra. E se quella parola nega il genocidio altrui, ti fa sentire un bestemmiatore. L'autorità morale dell'esperienza viene usata per zittire, non per illuminare. Questo è il primo punto dove il meccanismo agisce: quando dice che la parola genocidio è usata per vendetta, che c'è sotto un risentimento verso la memoria della Shoah. Qui, implicitamente, chi nomina il genocidio a Gaza viene accusato di rivalsa.
Il pensiero di Liliana Segre,
esternato ripetutamente sulla stampa più letta, appare
attualmente in minoranza. Non era
così quando, dopo 10.000 morti, mi vidi accusata dall’intero
arco costituzionale, nonché dallo spazio mediatico, per aver
avuto
l’ardire di rivolgermi alla Senatrice per condividere una
riflessione sull’esistenza di una medesima mentalità —
riassumibile
nella disumanizzazione del nemico — che accomuna i nazisti di
un tempo agli israeliani di oggi.
Mi rivolsi alla Senatrice in quanto la consideravo l’esponente più influente della comunità ebraica. L’avevo ammirata per il coraggio e l’indignazione morale espressi nella denuncia dei crimini nazisti che ella stessa aveva patito.
Sono stata così ingenua da pensare che la Senatrice avrebbe potuto, insieme al movimento di protesta contro il genocidio, levare la sua voce e condannare Israele.
L’intervista che avevo letto su la Repubblica, credo, nella quale la Senatrice — pilotata forse male dal suo intervistatore — esordiva affermando di non riuscire a dormire pensando ai bambini israeliani sterminati dall’attacco terroristico del 7 ottobre, per poi aggiungere, alla fine, che era spiacente per la morte di tutti i bambini di ogni religione e nazionalità, mi colpì sgradevolmente. Mi spinse a pubblicare un video sui social media in cui mi appellavo a Liliana Segre per fare chiarezza.
Non avendo ritrovato l’intervista, aggredita persino da coloro che reputavo amici, decisi di scusarmi. Lo feci in buona fede, pensando di essere stata vittima di un’allucinazione.
Naturalmente, le mie scuse furono interpretate malignamente e subii un linciaggio mediatico: si sostenne che mi ero scusata per paura delle querele della Segre. Così, del resto, si può leggere su Wikipedia in inglese (non quello italiano), che mi fa l’onore di uno spazio, elencando i miei incarichi diplomatici e la mia attività di scrittrice ed editorialista.
Quando quello che
sta succedendo sarà abbastanza lontano nel tempo, tutti si
chiederanno
sbigottiti come mai si è permesso che accadesse.
Omar El Akkad
Gaza è
crollata sulle norme di un diritto internazionale
costruito pazientemente per
scongiurare la ripetizione delle barbarie della Seconda
Guerra mondiale.
Jean-Pierre
Filiu
Le corporazioni di artisti, scrittori, docenti universitari: un caso di studio
Il comportamento intellettuale che le corporazioni di artisti, letterati e professori universitari, in occidente, hanno avuto in seguito al 7 ottobre di fronte allo sterminio della popolazione palestinese di Gaza costituisce e costituirà un caso di studio sociologico per le generazioni future. Nella gerarchia dell’infamante accusa di complicità al genocidio[1] dei palestinesi queste corporazioni si situano al terzo posto per grado di responsabilità. Il primo posto lo occupano solidamente la maggior parte dei governi occidentali e le istituzioni internazionali come l’Unione Europea. Qui c’è poco da studiare: la loro consapevole e volontaria inerzia è sotto gli occhi di tutti, così come le loro responsabilità morali e politiche. Al secondo posto vi è la categoria dei giornalisti e degli opinionisti (occidentali)[2]. Molti di loro collaborano attivamente o hanno collaborato almeno fino a date recenti, a rendere plausibile la propaganda del governo israeliano. Altri, una minoranza, hanno deciso abbastanza presto di farsi canale di diffusione dei giornalisti palestinesi, gli unici a cui era consentito essere testimoni, a rischio della loro vita, dei massacri e delle distruzioni di Gaza. Infine, al terzo posto, i portavoce di una sedicente “coscienza critica” o dei sedicenti valori dell’”umanità”: artisti, scrittori, studiosi. Più questi portavoce si trovavano prossimi o interni a una zona di “ufficialità”, meno, nella maggior parte dei casi, si sono espressi chiaramente e tempestivamente in pubblico.
“Regalo un rifugio a te e ai piccoli,
i piccoli
addormentati come
pulcini nel nido.
Non
camminano nel sonno verso i sogni.
Sanno che la
morte è in agguato.
Le
lacrime delle madri sono ora colombe
che li
seguono, trascinandosi
dietro
ogni bara.”
Hiba Abu Nada, 20/10/2023, uccisa da
bombe israeliane
lo stesso giorno in
cui
aveva postato
questi versi.1
“La morte
dell’empatia umana è uno dei
primi
e più
rivelatori segni di una cultura sull’orlo
della
barbarie”
Hannah
Arendt
Chissà che cosa avrebbe scritto oggi Nuto Revelli, ufficiale degli Alpini nella tragica missione in Russia prima, comandante partigiano poi, e autore del testo di quello splendido canto partigiano che è Pietà l’è morta, la cui musica risale a una canzone – Il ponte di Perati – cantata dagli Alpini ai tempi della Prima guerra mondiale. Chissà se l’orrore del genocidio del popolo palestinese in corso in questi mesi, senza che nessuno riesca a fermarlo, avrebbe trovato modo e spazio per esprimersi nei versi di una canzone di rabbia e di lotta. Allo stesso tempo un inno alla pietà per quelle vittime della ferocia e della stupidità umana. Come è appunto Pietà l’è morta. Come si ricorderà, nel 1949 Adorno aveva dichiarato che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» Con questo aforisma, diventato subito famoso – oggi si direbbe virale - non voleva certo stilare un atto di morte per un intero genere letterario quanto segnalare una estrema difficoltà, anche per un pensiero critico, di misurarsi in modo congruo con le problematiche di un sistematico sterminio, cioè un genocidio. Inoltre segnalava che quel genocidio fissava una cesura epocale nella storia umana e del pensiero.
Ogni tanto i giornali occidentali annunciano nuovi fremiti e ripensamenti nei governi europei, nuove iniziative per fermare Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.
L’ultimo fremito viene chiamato addirittura tsunami: un’ondata di riconoscimenti dello Stato palestinese, apparentemente iniziata da Macron in Francia e Keir Starmer in Gran Bretagna (il 75% dei Paesi Onu ha già da tempo riconosciuto). Singolarmente perfida la mossa britannica: il laburista Starmer riconoscerà lo Stato palestinese “a meno che Israele non consenta a una tregua”. Se Netanyahu consente, niente riconoscimento. Gideon Levy, commentatore di «Haaretz», chiede: “Se riconoscere la Palestina può favorire una soluzione, perché presentarla come una penalità?”.
Il fatto è che il riconoscimento non mette fine a quello che vediamo: i bambini e gli adulti ridotti a scheletri come gli scampati di Auschwitz, la Fondazione Umanitaria di Gaza gestita da contractors americani e militari israeliani, incaricata di uccidere ogni giorno decine di affamati.
Poi c’è l’idea inane di paracadutare cibo e qualche medicina. Ma i medici che lavorano a Gaza testimoniano quel che accade quando stai morendo di fame. Se dai pane alle persone che vediamo smagrite e agonizzanti le ammazzi, nemmeno servono più le flebo di acqua e sale.
Un incontro di oltre 1.000 antisionisti ebrei e non ebrei a Vienna, in Austria, ha rivolto un fermo appello a tutti gli Stati e le comunità ad adempiere ai loro obblighi ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le misure necessarie per fermare il genocidio in corso a Gaza, comprese le sanzioni.
Questo primo evento del suo genere in Europa, ha già gettato le basi per la pianificazione di una seconda conferenza nel 2026. La dichiarazione finale adottata dalla conferenza (13-15 giugno) ha dichiarato: “Noi, relatori e organizzatori della conferenza, rilasciamo questo appello generale, che riflette le posizioni collettive raggiunte durante i tre giorni di deliberazioni”.
La conferenza era stata organizzata da un piccolo comitato direttivo con sede a Vienna, è stato un incontro appassionato di attivisti per la solidarietà alla Palestina da tutto il mondo. C’era anche una delegazione dall’Indonesia. Il suo successo ha sorpreso gli stessi organizzatori, con centinaia di persone che hanno dovuto essere respinte. Persone ebraiche e non ebree di tutte le fedi o di nessuna, si sono unite nella determinazione di vedere la fine della velenosa ideologia del sionismo che ha motivato la creazione dello stato israeliano.
Tra i tantissimi oratori, hanno parlato Ilan Pappe, Ghada Karmi Francesca Albanese, Rahma Zein, Rima Hassan.
Abbiamo bisogno di politiche industriali per contrastare l'impoverimento della stragrande maggioranza della popolazione del nostro paese. Per realizzarle servirebbe una visione complessiva che sappia mettere a frutto le condizioni che, in parte, già esistono e sono totalmente snaturate. Il Ministero dell'Economia ha partecipazioni in 13 società quotate alla Borsa di Milano che hanno un valore di 263,5 miliardi, di cui poco meno di 90 sono di proprietà pubblica.
Si tratta di società fondamentali per la vita economica italiana, tra cui spiccano Enel, di cui lo Stato possiede il 23,6%, Eni il 28, Leonardo il 30, Poste il 66, Fincantieri il 72, Terna il 30, Saipem il 32, Italgas il 30. In pratica stiamo parlando di un pezzo fondamentale dell'energia e dell'industria che è stato oggetto nel corso del tempo di privatizzazioni, ma soprattutto che è stato affidato a gestioni finalizzate al rendimento finanziario in maniera del tutto autoreferente.
Per essere più chiari queste società hanno operato singolarmente preoccupandosi di remunerare gli azionisti, in larga parte grandi fondi privati, senza alcuna visione d'insieme. Lo Stato, in tale ottica, ha mirato solo a fare cassa, senza alcuna idea generale del futuro del paese. Così gli utili, sempre consistenti anche per la condizione di monopolio di cui alcune di tali realtà godono, sono stati tradotti in dividendi e gli azionisti sono stati remunerati anche con ricchi buy back. Solo per dare le dimensioni del fenomeno è possibile citare alcuni dati: nel 2024, Eni ha realizzato utili per 6,4 miliardi di euro, Enel 5,8, Poste 3, Italgas 500 milioni, Terna 1 miliardo, Snam 691 milioni.
Il nuovo mantra della diplomazia occidentale per alleggerire le pressioni internazionali sul regime sionista è “la resistenza deve disarmare”. Questo è, infatti, il filo rosso che unisce le ultime mosse su tre terreni, quello palestinese, quello libanese e quello iracheno.
In tutti e tre i casi si cerca di ottenere con la pressione diplomatica quello che con le guerre imperialiste non si è riuscito a ottenere, ovvero che rispettivamente le organizzazioni della Resistenza Palestinese, Hezbollah e le Forze di Mobilitazione Popolare depongano spontaneamente le armi; la motivazione “seducente” è il “ristabilimento della democrazia e della sovranità nazionale”, a beneficio delle rispettive autorità considerate legittime, ovvero l’Autorità Nazionale Palestinese, lo stato libanese e quello iracheno, che vengono attualmente dipinte come ostaggio, appunto, delle organizzazioni della resistenza e del loro agire come proxy dell’Iran.
Si tratta di una mistificazione totale perché la storia e la realtà sul terreno dicono che, nel caso in cui le varie organizzazioni della Resistenza dovessero lasciare indifese le loro comunità, queste verrebbero immediatamente fatte oggetto dell’espansionismo sionista o di massacri settari ancora di più di quanto non lo siano ora.
Senza che nessuno dei presunti difensori della “sovranità nazionale” dei loro paesi faccia nulla per aiutarle. Si veda cosa sta succedendo agli alawiti e alle altre minoranze in Siria o, per guardare indietro nel tempo, cosa successe a Sabra e Shatila.
Dall’occupazione all’annessione
Ce n’est que un debut. Permettetemi la blasfemia di adattare una parola d’ordine che aprì un tempo di liberazione e giustizia a qualcosa che ne è l’opposto: schiavitù e crimine. Cioè Gaza. E non solo.
Ci vuole tutta l’insolenza accompagnata ad abissale ignoranza - i due binari sui quali viaggia l’intera nostra compagine governativa - del trovatello berlusconiano che un prodigio neofascista ha fatto diventare ministro egli Esteri, per esigere (!) che, prima di venire a esistenza, lo Stato palestinese (che non c’è) debba riconoscere lo Stato israeliano che c’è da ottant’anni. Con la consapevolezza di chi è convinto che non ce n’è per nessuno, Tajani sorvola sul dato granitico del riconoscimento solennemente dichiarato, nel 1993, dalla massima autorità palestinese, l’OLP di Arafat. Un leader, già ridimensionato dalla cacciata da Beirut, rannicchiato in esilio a Tunisi, che si rassegna a coronare l’ennesima turlupinatura sionista, della quale non verranno mai rispettate neanche le forme.
Questa manifestazione di competenza e arguzia diplomatica Tavjani l’ha espressa, con il tempismo che rivela la sua oculatezza diplomatica- Erano le ore in cui si materializzava la presunta elucubrazione onirica di Trump dell’oscena “Riviera di Gaza”, apparecchiata, a forza di cocktail e aragoste, per Bibi, Donald, loro consorti e altri della Fratellanza Epsteiniana, Quelli da Bibì tenuti ferreamente per i santissimi in virtù dei ricattini sexy allestiti dal pedofilo ebreo (ovviamente suicidato) su mandato del Mossad.
“Gaza riviera, dalla visione alla realtà” è la solenne dichiarazione, a fine luglio, di una determinante quota di parlamentari e ministri Knesset, riferendosi, appunto, al futuro distopico di una Gaza dove fame, bombe, veleni, cecchini anti-bambini, avranno fatto togliere il disturbo a un residuato di pezzenti umanoidi sgraditi a Jahvé. Ben Gvir: “Nessun negoziato (altro che Hamas indisponibile), occupazione e incoraggiare l’emigrazione”.
A mio avviso, in Occidente si sono riorganizzate 4 Caste dominanti, ovvero:
I Politici/Scienziati che gestiscono il bipolo Vero/Falso; i Mercanti/Finanzieri che gestiscono il bipolo Compro/Vendo e commissionano merci e prodotti ai Costruttori; i Guerrieri /Servizi Segreti che gestiscono il bipolo Attacco/Difesa e (al servizio delle 3 precedenti) la casta degli Scribi/Media che gestisce per loro conto il bipolo Consenso/Dissenso.
L’AI è attualmente posseduta e costantemente implementata da poche grandi Companies che fanno capo alle Caste menzionate. Queste Companies, grazie al parco buoi dei loro sostenitori in Borsa, hanno accumulato fortune e hanno investito in ricerca molte decine di BN dollars. Si chiamano Microsoft; Alphabet – Google, Amazon, Apple, Meta. Li riconoscete? Sono i Tecnofeudatari della Silicon Valley i cari vecchi “Over the Top”, poi detti FAGAM che già da decenni controllano la rete web e orientano ogni aspetto della rivoluzione digitale. Negli anni recenti a loro si sono aggiunti alcuni soggetti rilevanti: a) il gruppo che fa capo a Elon Musk, b) Palantir e le altre società gestite da Peter Thiel e 3) Anthropic che appartiene a un imprenditore italo-americano
Come scriveva Foreign Affairs: “Le meta-nazioni digitali sono «attori geopolitici, e la loro sovranità sull’intelligenza artificiale rafforza ulteriormente l’ordine “tecnopolare” emergente in cui le aziende tecnologiche esercitano nei loro domini quel tipo di potere un tempo riservato agli stati-nazione».
Intervista esclusiva a
Ibrahim Moussa, che precisa: «Non cerchiamo vendetta.
Cerchiamo giustizia e dignità». Per capire cosa sta
davvero accadendo in
Libia, Krisis dà voce a Ibrahim Moussa, ex portavoce di
Muammar Gheddafi e oggi attivo nella diaspora libica. Le
sue parole rappresentano una
lettura radicalmente diversa degli eventi del 2011 e delle
loro conseguenze: dure verso l’intervento Nato, critiche
nei confronti
dell’Occidente e fortemente legate all’eredità politica
della Jamahiriya. Per affrontare le questioni aperte su
giustizia,
sovranità e riconciliazione in Libia, Krisis ritine
importante ascoltare anche questo punto di vista, spesso
ignorato nei circuiti informativi
tradizionali.
Ibrahim Moussa è stato il portavoce di Muammar Gheddafi durante la guerra condotta dalla Nato in Libia nel 2011. Attualmente è Segretario Esecutivo dell’African Legacy Foundation, un’organizzazione non governativa con sede a Johannesburg, in Sudafrica.
* * * *
Quali sono, secondo lei, le ragioni che hanno portato all’attacco francese e statunitense alla Libia nel 2011 e all’uccisione di Muammar Gheddafi?
«Mi permetta di dirlo senza filtri diplomatici. L’attacco alla Libia del 2011 non aveva come scopo la protezione dei civili. È stato un attacco imperialista calcolato, guidato da Francia, Stati Uniti e Nato, per eliminare Muammar Gheddafi e annientare la sua visione per la liberazione africana. Nel 2011, Gheddafi si era posto alla guida di un progetto di trasformazione panafricana. Un progetto che stava gettando le basi per:
"L’egoismo individualista promosso dal liberalismo ha prodotto rappresentanti autoreferenziali, privatizzazione dei profitti e impotenza dei popoli, dal crac subprime al genocidio palestinese ignorato. La volontà popolare è svuotata, mentre media e istituzioni reprimono ogni dissenso. Un consolidando un sistema oligarchico travestito"
A partire dalla “crisi subprime” fino all’attuale genocidio palestinese in mondovisione, ciò che colpisce è la manifestazione conclamata del fallimento storico delle liberaldemocrazie.
Prima di addentrarci nel tema è necessario riflettere per un istante intorno a cosa renderebbe, di principio, qualitativamente migliore un regime democratico rispetto ad alternative autocratiche od oligarchiche.
Il vantaggio teorico dei sistemi democratici consiste nella potenziale maggiore elasticità e prontezza nel corrispondere ai bisogni della maggioranza. O, detto altrimenti, un sistema democratico può dirsi comparativamente migliore nella misura in cui consente una comunicazione facilitata tra l’alto e il basso, tra gli individui meno influenti e quelli più influenti, tra chi non detiene il potere e chi lo detiene.
I sistemi autocratici od oligarchici presentano il difetto di rendere l’ascolto dei senza potere una scelta opzionale di chi è al vertice. Non essendoci sistemi di comunicazione efficace dal basso verso l’alto (esistevano cose come le “udienze regali”, ma avevano un ovvio carattere di estemporaneità) bisogna confidare nell’interesse e nella benevolenza dei vertici affinché gli interessi del popolo vengano fatti.
Un lettore mi sfida mandandomi questo link e aggiungendo "Dimmi se non lo trovi condivisibile". Dico che mi sfida perché le mie opinioni su debunker e fact-checkers le ho manifestate chiaramente in piu di un'occasione (tipo qui e qui)
"Il tratto psicologico più comune tra chi crede nei complotti è il bisogno di sentirsi speciali", racconta Michelangelo Coltelli, fondatore di Butac, uno dei più longevi e autorevoli siti di debunking italiani. "Tanti sostenitori delle teorie del complotto che abbiamo analizzato negli anni hanno questa illusione: l’idea di essere tra i pochi a vedere i fatti per come stanno".
In questo caso, ebbene sì, lo trovo largamente condivisibile. Condivisibile ma parziale e di parte. Per esempio, proviamo a rigirare così le stesse parole dell´intervista:
"Il tratto psicologico più comune del pro-scienza è il bisogno di affermarsi manifestando superiorità nei confronti del complottista. Tanti pro-scienza che ho analizzato negli anni sui social erano soggetti la cui unica ragione di vita sembrava essere dare addosso ai complottisti, credendo così di essere dalla parte della la scienza". Piccolo problema: il più delle volte dimostrano lo stesso analfabetismo scientifico dei loro bersagli. Il prodotto standard della divulgazione/spettacolo sui media crede di aver capito e di sapere, ma non ha capito e non sa.
L’inviato di Trump Steve Witkoff e l’ambasciatore Usa in Israele Mike Huckabee, dopo la visita in Israele, con annessa conversazione con Netanyahu, hanno visitato uno dei quattro centri per la distribuzione di aiuti gestito dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF) presso il corridoio di Morag. Scopo della visita, mettere a punto un piano made in Usa per far fronte alla carestia indotta dalle restrizioni israeliane.
Due criticità in questo. Anzitutto il fatto che, essendo corresponsabili di questa ecatombe tramite la loro GHF, gli Usa dovrebbero lasciare fare ad altri, meno conniventi con Tel Aviv e più capaci. Il secondo è che appare difficile che un immobiliarista come Witkoff possa porre rimedio a una carestia, che non si risolve solo inviando più cibo (per inciso, neanche gli aiuti paracadutati via aerea, benché benvenuti, possono farvi fronte).
Per capire quanto ciò sia errato e quanto sia complessa la situazione basta leggere un articolo di Haaretz che lo spiega fin dal titolo: “La pasta non servirà a niente. Gaza è sull’orlo di un aumento esponenziale delle morti per fame”. A lanciare questo allarme non è un semplice cronista, ma Alex de Wall, il più autorevole esperto di carestia del pianeta.
Anzitutto la situazione attuale: “L’ONU è molto prudente nel dare i dati e i numeri [sulla malnutrizione e sui decessi] sono sospettosamente bassi. Uno dei motivi è che lo screening è stato effettuato solo in aree limitate, dove è possibile operare. Non sappiamo quali siano le condizioni dei bambini a cui non è stato possibile accedere. Quindi quei dati non sono in realtà così gravi come ci si aspetterebbe che fossero in queste circostanze“.
Il commercio mondiale non deve obbedire più, neanche formalmente, alle incerte leggi dell’”economia di mercato”, ma rispondere approssimativamente al tasso di subordinazione verso l’”impero centrale” accettato dai singoli paesi del resto del mondo.
Questa è l’impressione che resta dopo sei mesi di discussioni e trattative frenetiche sull’entità dei dazi che gli Usa – sotto il comando apparente di Trump – hanno deciso di far scattare operativamente dal prossimo sabato, 8 agosto.
Una scelta totalmente politica, come si evince dall’”ordine esecutivo” firmato dal tycoon nella notte del 31 luglio.
«Alcuni partner commerciali hanno accettato, o sono vicini ad accettare, impegni significativi in materia di commercio e sicurezza con gli Stati Uniti, segnalando così la loro reale intenzione di eliminare in modo permanente le barriere commerciali. Altri partner, pur avendo partecipato ai negoziati, hanno offerto condizioni che, a mio giudizio, non affrontano adeguatamente gli squilibri nelle nostre relazioni commerciali o non si sono allineati sufficientemente con gli Stati Uniti su questioni economiche e di sicurezza nazionale.»
“Questioni economiche” e “questioni di sicurezza” vengono così esplicitamente intrecciate, senza lasciare alcuno spazio ad interpretazioni alternative. Il tentativo Usa è quello di imporre un “nuovo sistema commerciale” in cui la fedeltà politica alle scelte statunitensi consente condizioni tariffarie migliori, per quanto comunque punitive.
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Il Summit di
Ferragosto tra Vladimir Putin e Donald Trump sta gettando nel
panico le cancellerie europee, incluso il governo di Kiev, che
puntavano tutto su una
crisi prolungata nei rapporti tra le due superpotenze per
mantenere in sella governi e capi di governo.
Lo si evince chiaramente dalle ultime dichiarazioni. L’agenzia di stampa Bloomberg ha riferito ieri sera che i leader di alcuni Paesi europei stanno cercando di parlare con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in vista dell’incontro di venerdì in Alaska con il leader russo, Vladimir Putin.
il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato nel suo consueto discorso serale alla nazione che “sappiamo che la Russia ha intenzione di ingannare l’America, ma noi non lo permetteremo”. La NATO ha così tanta fiducia nell’esito positivo (per l’Ucraina) del summit in Alaska che il Segretario generale Mark Rutte ha ribadito ieri sera che le forniture di armi all’Ucraina continueranno a prescindere dal vertice Russia-USA.
“Assolutamente sì, continueranno”, ha affermato Rutte, sottolineando che “i primi due pacchetti sono stati stanziati dagli olandesi e poi dagli scandinavi” e che ulteriori annunci sono attesi “nei prossimi giorni e settimane”.
Chi ha paura dell’incontro Putin-Trump?
A preoccupare ucraini ed europei sono almeno due elementi: a quanto sembra il summit Putin-Trump non li coinvolgerà direttamente e secondo il consigliere del Cremlino Yury Ushakov il vertice sarà focalizzato sulle opzioni per raggiungere una soluzione duratura alla crisi Ucraina e potrebbe essere seguito da un altro incontro faccia a faccia in territorio russo.
Il rischio quindi è un’intesa tra Mosca e Washington che porrà gli altri davanti al fatto compiuto.
Uno dei veri motivi che alimenta l’ostilità
degli Stati Uniti e dell’Occidente collettivo nei
confronti
della Cina è che lo spettacolare sviluppo economico della
Cina ha fatto aumentare il costo del lavoro cinese e
ridotto i profitti delle aziende
occidentali. Un secondo elemento è la tecnologia. Pechino
ha utilizzato la politica industriale per dare priorità
allo sviluppo
tecnologico in settori strategici nell’ultimo decennio e
ha ottenuto progressi notevoli. Lo sviluppo tecnologico
della Cina sta ora infrangendo
i monopoli occidentali e potrebbe offrire ad altri Paesi
del Sud globale fornitori alternativi di beni industriali
necessari a prezzi più
accessibili. La possibile saldatura economica tra Cina e
Sud globale rappresenta la sfida fondamentale all’assetto
imperiale occidentale e allo
scambio ineguale.
* * * *
Negli ultimi quindici anni, l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Cina si è evoluto dalla cooperazione economica all’antagonismo più assoluto (si veda il rapporto Revising US grand strategy toward China del 2015). I media e i politici statunitensi hanno continuato a impegnarsi in una retorica anti-cinese persistente, mentre il governo statunitense ha imposto restrizioni commerciali e sanzioni alla Cina e ha perseguito il rafforzamento militare in prossimità del territorio cinese. Washington vuole che la gente creda che la Cina rappresenti una minaccia.
L’ascesa della Cina minaccia effettivamente gli interessi degli Stati Uniti, ma non nel modo in cui l’élite politica statunitense cerca di presentarla. Le relazioni tra Stati Uniti e Cina devono essere comprese nel contesto del sistema capitalista mondiale.
Attualmente, ancora più che in passato, è essenziale, per condurre un’analisi corretta delle dinamiche internazionali, comprendere la differenza tra variabili indipendenti e non, che operano in un contesto complesso e fortemente strutturato.
Nel corso delle primavere arabe, il malcontento popolare albergava nei Paesi del Nord Africa da tempo, ma ha costituito un fattore in grado di destabilizzare le società soltanto quando la politica neoconservatrice statunitense ha deciso, con finanziamenti e organizzazione, di puntare sui Fratelli Musulmani per una forma di dominio più solida rispetto ai dittatori tradizionali.
La defenestrazione di Moubarak, l’elezione di Morsi — in seguito abbandonato da Washington a vantaggio dell’odierno Presidente dell’Egitto, Al Sisi — è la rappresentazione evidente della strategia ondivaga che ha sede a Washington.
Ugualmente, la guerra civile in Siria non sarebbe scoppiata, seminando lutti e dolore nel popolo siriano per circa un decennio, se Obama, nel 2015, non avesse deciso, con l’operazione Sycamore e d’accordo con i servizi segreti sauditi, di utilizzare le fisiologiche proteste anti-Assad quale fattore di destabilizzazione della società siriana.
Ricordo che all’epoca ero in Svezia e restavo allibita nell’osservare la bella intellighenzia del Paese che aveva d’obbligo un libro in tasca contro il pericolosissimo dittatore Assad. Sicuramente gli Assad, soprattutto il padre, avevano commesso crimini e favorito il loro potere alaudita con la repressione. Non diversamente da come molti dittatori, nostri alleati, hanno sempre fatto.
Nell’incontro tra Vladimir Putin e l’inviato Usa Steve Witkoff è stato concordato un incontro tra il presidente russo e Trump, che dovrebbe tenersi la prossima settimana. Di seguito, lo scriviamo come parentesi di relativo interesse, Trump dovrebbe incontrare Zelensky, incontro al quale potrebbe prendere parte anche Putin, aggiunta che lo renderebbe di grande interesse, ma che ad oggi è solo un’ipotesi e che l’assistente di Putin, Yuri Ushakov, ha attribuito a “speculazioni”, dal momento di tale ipotesi si è solo “accennato” nell’incontro con Witkoff, anche perché, ha aggiunto, garantire che l’incontro tra i due presidenti “sia un successo e produca risultati tangibili è ciò che più conta”.
Trump ha detto al suo team di procedere rapidamente per organizzare l’incontro col suo omologo russo, dimostrando quanto sia galvanizzato alla prospettiva. Sarebbe storico.
Arduo pensare che tale summit ponga fine alla guerra ucraina subito, ma dovrebbe avviare una nuova fase di negoziati, più incisiva (Ushakov ha affermato che gli Usa hanno presentato “un’offerta accettabile”) oltre che produrre, forse, un cessate il fuoco temporaneo o altre limitazioni delle ostilità dal significato simbolico.
A facilitare il summit la rivelazione del complotto per istruire il Russiagate, la Fake news sull’aiuto che avrebbe ottenuto Trump per vincere le elezioni del 2016, che rischiò di costargli la Casa Bianca e produsse un procedimento di impeachement contro di lui una volta conquistata.
Altro che “grande opera”. Il Ponte di Salvini è una gigantesca messinscena da 15 miliardi. Con fondamenta nell’inganno, piloni nella propaganda, e un’impalcatura che non regge nemmeno sulla carta. Ingegneria? Semmai fantascienza prepotente con i soldi pubblici
🤡 Un progetto del 2011 venduto come “rivoluzionario”
Il governo lo chiama “progetto aggiornato”. Ma in realtà è lo stesso identico del 2011, truccato qua e là con una relazione in cui si promettono modifiche “nella fase esecutiva”. Tradotto: prima vi vendono il sogno, poi (forse) capiscono come realizzarlo. È come mettere all’asta un’auto dicendo che il motore lo monteremo dopo. Magari mentre il trabiccolo è in movimento lungo una discesa.
🔩 “Cambiamo l’acciaio”: parole che fanno ridere gli ingegneri (e piangere i contribuenti)
Nel nuovo progetto si propone di usare un acciaio con il 20% in più di resistenza. Peccato che questo cambia tutto: sezioni, cavi, masse, ancoraggi. Quindi buttano nel cestino tutti i calcoli statici e sismici fatti finora. Ma va bene così, dicono: “lo correggeremo più avanti”. Come no.
💥 Sismica e aerodinamica? Alla cieca, grazie
Come sosteneva Gramsci nei “Quaderni“, il linguaggio è potere e ideologia. Non è mai asettico o impersonale.
Ogni parola che pronunciamo è già attraversata da rapporti di forza, carica di significati storicamente determinati e ideologicamente costruiti.
La lingua non è semplicemente un mezzo per comunicare. È il terreno stesso su cui si gioca la lotta per l’egemonia.
In questo senso l’analisi del rapporto tra linguaggio e potere non può che essere condotta a partire da una prospettiva marxista, che riconosca nella produzione simbolica una dimensione altrettanto determinante quanto quella economica.
Ai tempi del capitalismo crepuscolare e tardo-imperialista infatti, il linguaggio è evoluto come sofisticato strumento sofisticato di governo, gestione del dissenso, cancellazione del conflitto.
Il controllo significante di concetti fondamentali – come “terrorismo”, “pace”, “difesa”, “resistenza”, ma soprattutto “genocidio”– rivela l’intreccio profondo tra dominio politico-militare e dominio ideologico.
Ed è su questo crinale che si colloca la censura sistematica del termine genocidio, appunto in relazione alle politiche israeliane nei confronti del popolo palestinese.
Nel contesto dell’occupazione sionista della Palestina, il termine genocidio è diventato dunque un campo di battaglia semantico.
L’economista in questa lunga e interessante intervista incentrata sugli Stati Uniti di Trump tocca vari temi, dalla guerra tariffaria alla politica estera americana gestita in realtà dallo Stato Profondo con una sostanziale continuità tra i vari presidenti, alla difficile relazione con la Cina che considera elemento chiave per la transizione energetica globale verso un’energia a zero emissioni di carbonio, soprattutto nei mercati al di fuori di Stati Uniti ed Europa
La tregua tariffaria tra Cina e
Stati
Uniti dovrebbe concludersi ad agosto. Cosa prevede che
accadrà dopo? E cosa accadrà alle relazioni commerciali tra Cina e
Stati Uniti per il resto del secondo mandato del presidente americano Donald Trump?
Gli Stati Uniti hanno imparato che non possono imporre la propria volontà alla Cina. La minaccia delle terre rare è stata di per sé sufficiente a far riconsiderare la situazione agli Stati Uniti. Quindi, quasi subito dopo aver imposto i dazi elevati, gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro. Ed entrambe le parti sanno di avere una certa influenza sull’altra. Per questo motivo, potremmo aspettarci che le due parti mantengano determinati limiti alle tensioni commerciali negli anni a venire. Ci sarà, quindi, una sorta di accordo, ma non sarà definito nei dettagli, e le tensioni continueranno ad aumentare e diminuire, senza che nessuna delle due parti imponga definitivamente la propria volontà all’altra. La ragione fondamentale è che entrambe le parti traggono un reciproco vantaggio dalla prosecuzione degli scambi commerciali. Spero che prevalga un po’ di razionalità.
La sfida più grande, ovviamente, è il comportamento degli Stati Uniti. Sono stati gli Stati Uniti a dare inizio a questa guerra commerciale. Non si tratta di due parti che si combattono tra loro, ma piuttosto degli Stati Uniti che combattono contro la Cina. Dovremmo ricordarcelo. Gli Stati Uniti devono mostrare una certa prudenza a questo punto. Sospetto che ci sia un atteggiamento di umiltà tra molti alti funzionari statunitensi. Lo stesso Trump è imprevedibile. Ha una soglia di attenzione molto breve. Gli accordi con Trump non durano. Quindi, non prevedo un periodo di calma, ma prevedo alcuni limiti alla competizione, perché ciascuna parte può danneggiare l’altra ed entrambe hanno una forte ragione per raggiungere una certa cooperazione.
Nella civilissima Europa, culla
della
democrazia e dei diritti, qualunque analisi politica che
ambisca a valere qualcosa deve necessariamente partire da
questo presupposto: oggi il potere
politico è completamente subordinato al potere economico. Da
oltre quarant’anni i governi, di destra o sinistra che
siano, favoriscono in
tutti i modi i grandi soggetti imprenditoriali: privatizzano
e liberalizzano i servizi pubblici, indeboliscono la
posizione dei lavoratori
(introducendo contratti precari, limitando i diritti
sindacali, creando disoccupazione tramite la contrazione del
settore pubblico e
l’accoglienza di manodopera straniera), tagliano la spesa
sociale per abbassare le tasse sui redditi alti e sui
profitti d’impresa (e
anche per costringere i cittadini a usufruire di servizi
scolastici, sanitari e pensionistici privati), consentono
agli industriali di chiudere
stabilimenti per rilocalizzarli in paesi dov’è più
conveniente operare e di reimportare i manufatti lì
realizzati,
tollerano gestioni finanziarie che sono forme legalizzate di
evasione fiscale... e probabilmente ho dimenticato qualcosa.
“Che c’è di strano?” commenterà il lettore blasé. “La democrazia è un sistema di governo fondato sul danaro. Chi ha il danaro controlla i politici, poiché fare politica costa, e direttamente o tramite le inserzioni pubblicitarie controlla i media, che formano l’opinione degli elettori. Quindi chi ha il danaro ha il potere sia di scegliere i candidati che di farli eleggere.”
Eppure non è stato sempre così. Come ho accennato, la situazione odierna è andata determinandosi sostanzialmente a partire dagli anni Ottanta. Prima abbiamo avuto alcuni decenni in cui il controllo dei ceti popolari sull’attività dei governi è andato crescendo: è stata la fase in cui abbiamo conosciuto la programmazione pubblica dell’economia e la statizzazione dei servizi essenziali, la tutela dei diritti dei lavoratori, l’espansione dei sistemi di sicurezza sociale, la tassazione progressiva. E allora dobbiamo chiederci: cosa è cambiato a un certo punto? Perché dopo esserci spinti così avanti siamo tornati indietro?
Molto banalmente, la risposta è che nel periodo storico che stiamo vivendo il potere politico è divenuto maggiormente dipendente dalle risorse che il potere economico era in grado di fornirgli, e che di conseguenza il secondo ha accresciuto la propria capacità di condizionamento del primo. Molto meno banale è capire per quali ragioni ciò sia avvenuto.
Si può comprendere la fretta degli Elkann di liberarsi di Iveco, dato che la loro priorità in questo momento è la costituzione di Stellantis Bank USA. Ufficialmente questa nuova creatura rientrerebbe nella categoria degli istituti di credito specializzati nel finanziamento a chi compra auto del gruppo; in realtà si tratta di banche a tutti gli effetti, che possono accettare depositi ed emettere carte di credito. Il finanziamento all’acquisto di auto è quindi un alibi che serve a legittimare la riconversione di imprese industriali in imprese finanziarie.
Molte critiche sono piovute sul governo Meloni e sul ministro Urso per aver avallato questa ennesima deindustrializzazione ed esportazione di capitali da parte degli Elkann. In realtà nella vicenda il governo era incapace di intendere e di volere, infatti la copertura a John Elkann è arrivata direttamente dal Quirinale. Gli organi di informazione ci hanno fatto sapere che Elkann avrebbe dato alla Meloni e a Mattarella ampie “garanzie”. Nessuno si è chiesto cosa c’entrasse Mattarella in una questione che sarebbe di stretta competenza del governo; forse non ci si è posta la domanda perché la risposta è ovvia, dato che Stellantis è una multinazionale e perciò tutto ciò che fa riguarda direttamente la gerarchia dei rapporti imperialistici. In Italia il garante di questi rapporti imperialistici è il presidente della repubblica, che è colui che, in base alla Costituzione, presiede il Consiglio Supremo di Difesa; quindi il vero referente istituzionale della NATO e degli USA è Mattarella. Del resto è noto che non si viene eletti presidenti della repubblica senza il pieno gradimento da parte degli USA.
https://www.youtube.com/watch?v=cfi1OGKY3pg
Cosa hanno in comune, fatte le debite proporzioni, Gaza e la Val di Susa? Una lotta, per gli uni, quasi secolare, per gli altri, trentennale. In entrambi i casi mai abbandonata, per quanto costasse. Pagata con la vita e la devastazione, o con la devastazione e il carcere. In entrambi i casi una guerra, imposta, accettata, combattuta. In entrambi i casi una guerra di lunga durata, combattuta da avanguardie legittimate dal consenso e dal sostegno del loro popolo.
E se vogliamo insistere con i paralleli, che, a dispetto della gigantesca disparità tra le dimensioni, hanno una loro evidenza, ci ritroviamo davanti a un dato ontologico: la guerra dei pochi contro i tanti, padroni e lavoratori, feudatari e servi della gleba, colonizzatori e colonizzati, inoculatori e inoculati, èlite e il resto. Un aggregato di ricchi e potenti, cresciuti sull’esproprio di altri. I valsusini e chi si affianca a loro, come i palestinesi e chi ne condivide condizione, diritto, sofferenza, intento e obiettivi, sono epitome, compendio e simbolo della lotta per liberazione dell’essere umano. Costi quel che costi, in chiave speculare e contraria al whatever it takes del noto portavoce di chi, per rubare, arriva ad ammazzare.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che analisti, esponenti politici, giornalisti del mondo occidentale fondano la propria scelta di campo (o coprono la loro malafede), sovrapponendo il proprio giudizio sul regime interno dei paesi alle loro posizioni di politica estera. Se gli stati non sono democratici – secondo gli standard decisi in occidente – qualunque sia il loro comportamento, in qualunque controversia, hanno torto in partenza, sono dalla parte sbagliata della storia. Il caso più recente di applicazione di tale criterio l’abbiamo osservato in occasione della cosiddetta “guerra dei 12 giorni” tra Israele e Iran. Il fatto che il governo iraniano abbia sottoscritto il trattato di non proliferazione, si sia sottoposto per anni ai controlli degli ispettori dell’AIEA, abbia trattato da ultimo con l’amministrazione Trump non è stato sufficiente a evitare il bombardamento da parte di Israele e degli USA. Poiché l’Iran è uno stato teocratico (anche se la sua realtà effettiva non corrisponde alla caricatura che ne fanno i media occidentali) gran parte dei governanti e dei commentatori europei si è sentita autorizzata ad affermare, senza alcuna vergogna, che Israele – il quale possiede un arsenale nucleare e non si sottopone ad alcun controllo – “ha il diritto di difendersi” e dunque di bombardare chi crede.
Ma il doppio standard degli esponenti democratici non è solo fallace nel giudicare la politica estera degli stati sulla base dei loro ordinamenti interni. Alla luce dell’analisi storica esso appare ingiusto e infondato anche nel giudizio di merito sulla democrazia che si sceglie come criterio di valore.
Il mio amico Carlo Ludovico Cordasco ha recentemente pubblicato due articoli ricchi e stimolanti sull’IA e il problema della conoscenza. Il suo argomento ha il merito di andare oltre dicotomie semplicistiche, esplorando in modo intellettualmente onesto se e come l’IA possa replicare, o addirittura sostituire, le funzioni economiche tradizionalmente svolte dai mercati.
In particolare, si concentra sul ruolo dei mercati nella scoperta della conoscenza e nella correzione degli errori, sollevando dubbi sulla capacità dell’IA di eguagliarli in queste aree cruciali.
Ciò che colpisce della sua analisi è quanto si avvicini a una prospettiva socialista di mercato, che vede i mercati non come sacri, ma come strumenti istituzionali contingenti, che possono essere integrati, simulati o parzialmente sostituiti se e quando emergono meccanismi migliori.
Molte delle sfide che Carlo solleva, così come le soluzioni ibride che immagina, si inseriscono bene nel quadro proposto da Oskar Lange e altri che cercavano una sintesi tra pianificazione e feedback decentralizzato.
Uno dei punti chiave di Carlo è che qualsiasi criterio normativo di allocazione ottimale deve essere indipendente dai mercati stessi.
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Barbara Spinelli: Ucraina, l’ignavia dei 4 volenterosi
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L’introduzione di Alfieri a "Il Male estremo". E un post scriptum sulla genealogia del genocidio dei palestinesi. Il genocidio è “democratico”. Non solo la maggioranza decide chi deve essere ucciso senza limiti, ma decide cos’è questo “chi”
Gli ebrei sono dei
pervertiti, subdoli, avidi, usurai. Chi odia i “negri” ha già
deciso che puzzano e violentano le donne. Così come chi odia
gli “zingari” sa con certezza assoluta che gli “zingari” sono
sporchi, rubano e rapiscono i bambini. Non si prende una
differenza e la si perseguita, si crea una differenza per
poterla perseguitare. Perché? Per proiettare fuori la paura.
Per sentirsi sicuri
dentro solidi e indiscutibili confini. Per sentirsi forti ed
eroici trionfatori sul male. Per compiacersi di essere buoni e
giusti. Per stringersi
meglio insieme in una presunta “identità”. Per godersi una
facile vittoria che fa sentire tanto, tanto potenti. Se di
fronte a
questo cerchiamo di opporci virtuosamente difendendo la
libertà di religione degli ebrei, la dignità umana dei “negri”
o le
tradizioni culturali degli “zingari” abbiamo già sbagliato
tutto. Abbiamo già dato ragione ai persecutori nel punto
essenziale: ci sono ebrei, e negri, e zingari, e sono altri,
diversi da noi, diversamente umani. E come si fa, a questo
punto, a impedire che il
“diversamente umani” significhi “non abbastanza umani”?
Naturalmente questa è una semplificazione. Ci sono tante cose,
troppe cose dentro la realtà del genocidio per poter pensare
di costruirci sopra una teoria che spieghi tutto. Non si può
costruire
nessun discorso che possa pretendere di decifrare sino in
fondo anche una minima parte dell’infinita complessità di ciò
che
è umano. Anche il male, nell’uomo, è infinitamente complicato
(…). A partire, dice Alfieri, dal diritto di vita e di
morte.
Ius vitae ac necis.
Da tempi remoti, questa è la definizione più netta e sintetica del potere supremo, di quel potere che dagli inizi dell’età moderna chiamiamo sovrano. Sovrano è la persona, o meglio l’istituzione (è un’istituzione anche quando è una persona) che può legittimamente decidere sulla vita e sulla morte di ciascuno. Dare la morte, dunque, è la più alta prerogativa sovrana. La decisione di morte va accettata con reverente e persino grato timore, come massima espressione della più alta concepibile grandezza umana. Nessuno, tranne Dio, è al di sopra di colui che ha il diritto di uccidere.
Krisis propone l’atto d’accusa di Thomas Fazi contro il disfacimento del sistema democratico in Occidente. Con una denuncia tagliente, l’analista evidenzia come censura, criminalizzazione del dissenso e manipolazione delle istituzioni siano diventati strumenti per mantenere il potere delle élite. Dalla Francia alla Romania, passando per l’Unione europea e gli Stati Uniti, secondo Fazi la democrazia sostanziale si è erosa, sostituita da un sistema che favorisce l’oligarchia. Le crisi economiche, sociali e geopolitiche hanno amplificato questa tendenza, mentre forme di repressione e manipolazione si giustificano come difesa della democrazia. Il breve periodo di democrazia sostanziale postbellica è ormai un ricordo. E il futuro si presenta cupo.
In Germania, la
polizia ha recentemente perquisito le abitazioni di centinaia
di cittadini accusati di aver
insultato politici o di aver pubblicato online “messaggi
d’odio”. In Francia, la procura ha aperto un’indagine penale
contro
X, la piattaforma di Elon Musk, accusandola di interferenze
straniere attraverso la manipolazione degli algoritmi e la
diffusione di contenuti
“d’odio”. Ciò è avvenuto dopo una perquisizione della polizia
nella sede del Rassemblement National, il principale
partito d’opposizione francese, in seguito all’apertura di una
nuova indagine sul finanziamento della campagna elettorale,
solo pochi mesi
dopo che Marine Le Pen, ex leader del partito, è stata
condannata a cinque anni di ineleggibilità per uso improprio
dei fondi UE.
Nel Regno Unito, oltre 100 persone sono state arrestate semplicemente per aver portato cartelli con la scritta «Mi oppongo al genocidio, sostengo Palestine Action», organizzazione recentemente messa al bando per terrorismo. Nel frattempo, negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump sta attuando una vasta stretta sulla libertà di espressione, soprattutto relativamente alle critiche nei confronti di Israele.
Questi casi non sono eccezioni, ma sintomi di una deriva autoritaria più profonda e sistemica. In tutto l’Occidente, la censura è diventata prassi, il dissenso viene sempre più criminalizzato, la propaganda è sempre sfacciata e i sistemi giudiziari sono usati come armi per mettere a tacere l’opposizione. Negli ultimi mesi, questa tendenza è degenerata in attacchi diretti alle istituzioni democratiche di base: in Romania, per esempio, un’intera elezione è stata annullata perché aveva prodotto «l’esito sbagliato» e altri Paesi stanno valutando mosse analoghe.
Ufficialmente, tutto ciò viene fatto «per difendere la democrazia». In realtà, lo scopo è evidente: consentire alle classi dirigenti di mantenere il potere di fronte a un crollo storico della loro legittimità.
Caro Direttore,
A scopo di chiarezza e di onestà d’intenti premetto: meno male che esistono il Fatto Quotidiano, il suo direttore, e sue punte di diamante della categoria, quali Luttazzi, Ranieri, Robecchi, Basile, Palombi, Barbacetto e quasi tutti gli altri.
Ti rinnovo la stima e la riconoscenza per quello che tu e il tuo giornale fate per contrastare e battere il pianificato degrado dell’informazione nella nostra parte di mondo. Questo mio apprezzamento è condiviso dalla maggioranza dei miei interlocutori. Per evitare il rischio, umanamente comprensibile, dell’accettazione acritica di una tua clamorosa, ma non inedita, deviazione da quella che è una riconosciuta correttezza storico-professionale, tanto sorprendente quanto gravida di deformazioni cognitive, mi premetto di diffondere questa lettera. Serve per rimediare, con una divergenza dettata dalla realtà storica e attuale, alla sua eventuale mancata pubblicazione.
Nel tuo editoriale e in una tua risposta al lettore Giovanni Marini del 9 agosto, vanno rilevati errori e falsità di una portata inconciliabile con la precisione e onestà con la quale sei solito affrontare questioni politiche e storiche. E’ sorprendente come, in un giornalista di eccezionale correttezza e competenza, possa aver prevalso sulla realtà lapidaria dei fatti un approccio preconcetto, antiscientifico, determinato forse da trasporto sentimentale.
Non occorre
possedere speciali virtù profetiche per predire ai paesi
dell’occidente (vale a dire Europa e USA per come si sono
configurati negli
ultimi due secoli), un avvenire di disgregazione e di
inarrestabile declino. Sarebbe sufficiente fermarsi ai
dati macroeconomici e sociali
più noti per farsi un’idea alquanto realistica del futuro che
li attende. Gli USA sono chiusi nella trappola di un debito
crescente e
insostenibile, incapaci di limitare la loro dispendiosa
postura di impero guerresco, privati da decenni della loro
base manifatturiera, spinti a fare
soldi con i soldi, costretti a governare un paese lacerato
dalle disuguaglianze, in cui la classe media, base della
stabilità politica
americana, arretra ormai da decenni, mentre in tanti stati la
condizione di povertà supera il 10% della popolazione.
Un’economia di
servizi che vuole vivere sul debito pubblico e
sull’indebitamento privato dei cittadini, sul dominio del
dollaro. Sotto questo profilo
l’Europa non sta molto meglio anche a prescindere dallo
scenario inquietante che si schiude per il Vecchio Continente
dopo gli accordi con Trump
del 27 luglio. Vent’anni di perdita di produttività delle
industrie dell’Unione, ci ricorda il Rapporto sul futuro
della
competitività europea di Mario Draghi del 2024. Nel
quale rapporto cogliamo la previsione più clamorosa del
declino europeo,
l’indicatore più indiscutibile del regresso delle nazioni: la
perdita di popolazione. «Entro il 2040, si prevede che la
forza
lavoro dell’UE si ridurrà di circa 2 milioni di persone ogni
anno, mentre il rapporto tra lavoratori e pensionati dovrebbe
scendere da
circa 3:1 a 2:1». Ricordiamo di passaggio quel che è successo
nel cuore del Vecchio Continente. Con la guerra in Ucraina la
rampante
locomotiva d’Europa, la Germania, è andata a schiantarsi nelle
secche di una classe dirigente nana, che ha ubbidito
prontamente agli USA,
ha accettato di buon grado il sabotaggio del gasdotto Nord
Stream, rinunciando ai rapporti di scambio con la Russia su
cui aveva fondato un modello di
crescita di successo. Ora ha imboccato la strada, davvero
ricca di potenzialità, per diventare la “più grande potenza
militare
dell’Europa”. Immaginiamo con entusiasmo quanta ricchezza e
benessere apporterà al suo popolo e al resto d’Europa col
patrimonio di carri armati, bombe e missili di cui si doterà…
In un mio articolo precedente
avevo esaminato i risultati del vertice BRICS 2025 (Rio de
Janeiro 6-7 luglio) [i]. Questa nota
è invece dedicata al rapporto tra l’America Latina e i Brics.
Il commercio interno dell’America Latina beneficia di una lingua comune, di una cultura in gran parte condivisa e di legami storici. In particolare, nel continente sono intensi gli scambi commerciali tra Messico, Brasile, Cile e Argentina.
La regione è però caratterizzata da una debolezza politica intrinseca. Infatti, nonostante abbia legami culturali e storici molto più stretti di quelli condivisi dai BRICS tra loro, nella politica internazionale l’America Latina non forma un blocco unito.
Nel passato decennio “progressista”, la cosiddetta “decada ganada”, la regione aveva cercato di avere una sola voce e si era data un’architettura istituzionale in cui, per la prima volta, non c’era la presenza ingombrante degli Stati Uniti e del Canada. Attraverso le organizzazioni UNASUR, CELAC, ALBA i Paesi del continente hanno cercato una propria strada, autonoma dal gigante del nord. Da subito è iniziata una “offensiva conservatrice”, guidata dalla Casabianca, per soffocare i vagiti di una integrazione regionale autonoma e riconquistare i governi del “cortile di casa”. Un obiettivo parzialmente raggiunto, con le vittorie delle destre in Argentina, Ecuador, El Salvador, Panama, Paraguay, Perù.
Più in generale, la regione deve affrontare tre insidie dello sviluppo: una bassa capacità di crescita; un’elevata disuguaglianza con una scarsa mobilità sociale e una debole coesione sociale; una capacità istituzionale e di governo poco efficaci.
I Paesi della regione possono migliorare le proprie politiche di attrazione degli investimenti e coordinarle con le politiche di sviluppo produttivo, in modo da aumentare anche il loro impatto sulle economie destinatarie.
Adesso che ho cominciato a dire la mia come faccio a tirarmi indietro?
L’altro giorno il “Corriere” ha intervistato mons. Delpini. Tra le tante cose sacrosante che ha detto, una mi è piaciuta particolarmente. Tanti dicono che Milano avrà la forza di risollevarsi dopo questa batosta. “Se queste persone ci sono, si facciano avanti!” dice Delpini.
Ma all’orizzonte non si vede anima viva, non si fa avanti nessuno. Qui l’aria che tira è: “ha da passà ‘a nuttata!”
I giornali poi sull’intervista di Delpini hanno chiesto il parere di Elena Buscemi, Presidente del Consiglio Comunale. Quando si occupava di città metropolitana ha dato una mano a noi di ACTA, perché potessimo avere più spazio nella tutela delle Partite Iva. La ricordo quindi con gratitudine. Oggi si trova in un’altra posizione e immagino che la poltrona che occupa non sia il massimo della comodità. Ovviamente non fa una difesa d’ufficio della Giunta, però dice una cosa che mi lascia perplesso: la bella Milano che tanti rimpiangono contrapponendola a quella di oggi, che tanti non sopportano, in realtà non è mai esistita, è il prodotto della fantasia di chi oggi critica la politica urbanistica.
Boh, sarà. Posso anche essere d’accordo: nella sequenza Mediobanca-Ligresti-Berlusconi- Catella-Sala-Tancredi c’è effettivamente una certa continuità, anzi mettiamoci dentro anche la “Milano da bere”, e abbiamo una storia che dura da quarant’anni (1985-2025). Elena ne ha 43 e capisco che non ha visto altro nella vita, quindi ha ragione a dire che “l’altra Milano” sta solo nella testa di anime belle.
L’esperienza più significativa che noi elaboriamo del mondo è mediata dal linguaggio: parole che definiscono le cose, legami sintattici che le mettono in relazione. Sono di conseguenza ben radicate nel linguaggio anche le nostre azioni, persino quelle più istintive: una “guerra” – come quella che per i media occidentali Israele combatte a Gaza – non può che protrarsi fino a che non siamo venute meno le ragioni che l’hanno innescata, e pazienza per le vittime civili e le distruzioni che - si sa - sono effetti collaterali e necessari di qualunque conflitto.
Credo che vada ricercato anche in quest’ambito il motivo per cui il mondo non riesce a fermare il genocidio dei palestinesi di Gaza. Se è vero infatti che dall’ottobre 2023 si sono via via moltiplicati gli appelli, le raccolte firma, le manifestazioni di piazza, fino all’attuale ondata di indignazione che vediamo montare sui social, pure si avverte in queste prese di posizione finalmente larghe una sorta di vischiosità che non consente loro di affrancarsi dalla consueta inerzia: come se la nuova consapevolezza e la protesta restassero tuttavia chiuse entro un recinto che le rende inoffensive, inefficaci.
È fatto delle parole con cui siamo abituati a sentire raccontare e a raccontarci il mondo questo recinto, è fatto della trama di un linguaggio che reca ben impresse le impronte di chi detiene il potere, di un linguaggio che disegna nella mente di chi lo usa reti concettuali che possono essere vere e proprie gabbie, di un linguaggio al cui successo contribuiscono fortemente la pigrizia mentale e il vile opportunismo dell’uomo qualunque.
Naturalmente, le speculazioni odierne
continuano, come nel fine settimana, su cosa aspettarsi
dall’incontro in Alaska tra Putin e Trump. Alastair Crooke,
oggi, approfondisce le
pressioni che Trump deve affrontare da diverse parti. La
descrivo come se Trump si trovasse in una scatola, una
scatola, in gran parte, creata da lui
stesso. Oltre agli accordi che ha dovuto concludere per
tornare alla Casa Bianca, c’è anche il suo passato con Epstein
che lo perseguita,
così come le pessime decisioni sul personale che continua a
prendere, una sorta di marchio di fabbrica di Trump. Negli
ultimi giorni ho
sottolineato l’influenza di una delle decisioni più
sconsiderate di Trump in materia di personale, il suo continuo
affidamento al
generale in pensione Keith Kellogg, e Crooke ne parla. Tra
l’altro, oggi ho ascoltato una breve intervista (15 minuti)
con Jeffrey Sachs. Sachs
è solitamente caritatevole, ma si è riferito all’ottantenne
Kellogg come a “quel vecchio”. Significativo.
L’ipotesi è che Trump si affidi ai consigli di un uomo che
vive nel passato ed è ormai troppo vecchio per affrontare la
mutata
realtà post-Guerra Fredda di una Russia che, pur mantenendo la
continuità con il suo passato culturale, è diversa sia dalla
Russia zarista che da quella sovietica.
Se vi fornissi una trascrizione parziale della discussione tra Crooke e il giudice Nap, e devo dire subito che ho editato questo scambio orale con una certa libertà, credo che capirete il motivo per cui Crooke parla di “pressioni” su Trump. Trump sta affrontando pressioni derivanti dai fallimenti della sua politica estera ed economica – entrambe basate sui dazi e sulle sanzioni – e dall’ombra di scandalo rappresentata dalla controversia sul dossier Epstein. Ha bisogno di dirottare l’attenzione pubblica e ha bisogno di un successo clamoroso – o apparente – per riuscirci. Gaza, Epstein, il fallimento dello shock tariffario e il timore reverenziale stanno tutti trascinando Trump verso il basso.
Così l’Alaska. Eppure, come detto, ha scarso controllo effettivo sulla politica estera.
Introduzione a Tricontinental. Institute for Social Research, Hyper-Imperialism: A Dangerous Decadent New Stage, 23 gennaio 2024
Sono passati appena 30 anni da
quando gli ideologi della borghesia, in un impeto di wishful
thinking, hanno dichiarato la “fine della storia” dando
per scontata
l’intangibilità dell’imperialismo statunitense. Ma per le
lotte e i movimenti popolari che sentivano sul collo lo
stivale
dell’imperialismo, non si intravedeva all’orizzonte una fine
del genere.
Nonostante la violenta repressione, come nel massacro di Carajás in Brasile nel 1996, il Movimento dei Lavoratori “Sem terra” guidò la riappropriazione delle terre per realizzare una riforma agraria popolare attraverso occupazioni e coltivazioni, sfidando i colossi dell’agrobusiness, come la multinazionale statunitense Monsanto. [2]
Un “soldato che ha scosso il continente”, Hugo Chávez, vinse le elezioni popolari [in Venezuela] nel 1999, una brusca svolta a sinistra che fu seguita da altri paesi in America Latina. Questa svolta incluse un’ondata di mobilitazioni di massa di milioni di lavoratori, contadini, indigeni, donne e studenti che nel 2005 sconfisse le proposte di Area di Libero Scambio delle Americhe [ALCA] degli Stati Uniti, sfidando direttamente quasi 200 anni di Dottrina Monroe. [3]
Nel 2002, le donne nigeriane si radunarono ai cancelli della Shell e della Chevron per protestare contro la distruzione e lo sfruttamento ambientale nel Delta del Niger. Gli haitiani rifiutarono secoli di umiliazioni con manifestazioni di massa in seguito alla destituzione di Jean-Bertrand Aristide da parte degli Stati Uniti e all’occupazione statunitense nel 2004. Milioni di nepalesi celebrarono il rovesciamento della monarchia attraverso la resistenza armata sotto la guida dei comunisti nel 2006. Quando il fruttivendolo Mohamed Bouazizi si diede fuoco nel 2010, il popolo tunisino si ribellò al sistema neoliberista che lo aveva spinto ad un gesto così estremo.
Negli anni successivi, si verificarono cambiamenti, a volte piccoli e impercettibili, altre volte turbolenti ed esplosivi. Questi cambiamenti coinvolsero sia movimenti popolari che attori statali, in alcuni casi estremamente potenti.
Tutti - spero - ricordano il film "La battaglia di Algeri", di Gillo Pontecorvo. Per chi non sa di cosa si parla, o volesse semplicemente rivederlo, in questi giorni è disponibile su Rai Play.
Il film racconta sostanzialmente un pezzo della guerra di liberazione algerina, e precisamente una fase acuta della battaglia svoltasi ad Algeri tra gli uomini (e le donne) del FLN e i paracadutisti francesi. Quello che pochi sanno, è che questo film viene spesso proiettato nelle scuole di guerra, in tutto il mondo. La ragione è che il film, oltre a essere un capolavoro della cinematografia, illustra perfettamente un fatto storico, ovvero come l'esercito di Parigi riuscì ad avere ragione dei combattenti algerini nella più importante città dell'allora colonia francese. Le tecniche contro-insurrezionali descritte nel film, non soltanto sono quelle effettivamente usate contro l'FLN, ma saranno poi prese a modello, soprattutto dagli eserciti occidentali, su come affrontare una guerriglia.
La cosa più interessante, in tutto ciò, è che ovviamente l'esercito francese vinse la battaglia di Algeri, ma perse la guerra, e l'Algeria ottenne la sua liberazione. Anche se la narrazione al riguardo tende a raccontare le cose come una sorta di tradimento da parte di De Gaulle - e infatti i militari francesi che operavano nella colonia diedero vita all'OAS, una organizzazione terroristica di estrema destra, che cercò più volte di assassinarlo - la realtà è che l'FLN rese semplicemente troppo oneroso il mantenimento del dominio coloniale. E solo qualche anno prima la Francia aveva perduto l'Indocina, dopo la sanguinosa sconfitta di Dien Bien Phu (anche su questa battaglia trovate un buon film, su Netflix).
Il Summit di
Ferragosto tra Vladimir Putin e Donald Trump sta gettando nel
panico le cancellerie europee, incluso il governo di Kiev, che
puntavano tutto su una
crisi prolungata nei rapporti tra le due superpotenze per
mantenere in sella governi e capi di governo.
Lo si evince chiaramente dalle ultime dichiarazioni. L’agenzia di stampa Bloomberg ha riferito ieri sera che i leader di alcuni Paesi europei stanno cercando di parlare con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in vista dell’incontro di venerdì in Alaska con il leader russo, Vladimir Putin.
il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato nel suo consueto discorso serale alla nazione che “sappiamo che la Russia ha intenzione di ingannare l’America, ma noi non lo permetteremo”. La NATO ha così tanta fiducia nell’esito positivo (per l’Ucraina) del summit in Alaska che il Segretario generale Mark Rutte ha ribadito ieri sera che le forniture di armi all’Ucraina continueranno a prescindere dal vertice Russia-USA.
“Assolutamente sì, continueranno”, ha affermato Rutte, sottolineando che “i primi due pacchetti sono stati stanziati dagli olandesi e poi dagli scandinavi” e che ulteriori annunci sono attesi “nei prossimi giorni e settimane”.
Chi ha paura dell’incontro Putin-Trump?
A preoccupare ucraini ed europei sono almeno due elementi: a quanto sembra il summit Putin-Trump non li coinvolgerà direttamente e secondo il consigliere del Cremlino Yury Ushakov il vertice sarà focalizzato sulle opzioni per raggiungere una soluzione duratura alla crisi Ucraina e potrebbe essere seguito da un altro incontro faccia a faccia in territorio russo.
Il rischio quindi è un’intesa tra Mosca e Washington che porrà gli altri davanti al fatto compiuto.
Uno dei veri motivi che alimenta l’ostilità
degli Stati Uniti e dell’Occidente collettivo nei
confronti
della Cina è che lo spettacolare sviluppo economico della
Cina ha fatto aumentare il costo del lavoro cinese e
ridotto i profitti delle aziende
occidentali. Un secondo elemento è la tecnologia. Pechino
ha utilizzato la politica industriale per dare priorità
allo sviluppo
tecnologico in settori strategici nell’ultimo decennio e
ha ottenuto progressi notevoli. Lo sviluppo tecnologico
della Cina sta ora infrangendo
i monopoli occidentali e potrebbe offrire ad altri Paesi
del Sud globale fornitori alternativi di beni industriali
necessari a prezzi più
accessibili. La possibile saldatura economica tra Cina e
Sud globale rappresenta la sfida fondamentale all’assetto
imperiale occidentale e allo
scambio ineguale.
* * * *
Negli ultimi quindici anni, l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti della Cina si è evoluto dalla cooperazione economica all’antagonismo più assoluto (si veda il rapporto Revising US grand strategy toward China del 2015). I media e i politici statunitensi hanno continuato a impegnarsi in una retorica anti-cinese persistente, mentre il governo statunitense ha imposto restrizioni commerciali e sanzioni alla Cina e ha perseguito il rafforzamento militare in prossimità del territorio cinese. Washington vuole che la gente creda che la Cina rappresenti una minaccia.
L’ascesa della Cina minaccia effettivamente gli interessi degli Stati Uniti, ma non nel modo in cui l’élite politica statunitense cerca di presentarla. Le relazioni tra Stati Uniti e Cina devono essere comprese nel contesto del sistema capitalista mondiale.
Altro che “grande opera”. Il Ponte di Salvini è una gigantesca messinscena da 15 miliardi. Con fondamenta nell’inganno, piloni nella propaganda, e un’impalcatura che non regge nemmeno sulla carta. Ingegneria? Semmai fantascienza prepotente con i soldi pubblici
🤡 Un progetto del 2011 venduto come “rivoluzionario”
Il governo lo chiama “progetto aggiornato”. Ma in realtà è lo stesso identico del 2011, truccato qua e là con una relazione in cui si promettono modifiche “nella fase esecutiva”. Tradotto: prima vi vendono il sogno, poi (forse) capiscono come realizzarlo. È come mettere all’asta un’auto dicendo che il motore lo monteremo dopo. Magari mentre il trabiccolo è in movimento lungo una discesa.
🔩 “Cambiamo l’acciaio”: parole che fanno ridere gli ingegneri (e piangere i contribuenti)
Nel nuovo progetto si propone di usare un acciaio con il 20% in più di resistenza. Peccato che questo cambia tutto: sezioni, cavi, masse, ancoraggi. Quindi buttano nel cestino tutti i calcoli statici e sismici fatti finora. Ma va bene così, dicono: “lo correggeremo più avanti”. Come no.
💥 Sismica e aerodinamica? Alla cieca, grazie
Un incontro di oltre 1.000 antisionisti ebrei e non ebrei a Vienna, in Austria, ha rivolto un fermo appello a tutti gli Stati e le comunità ad adempiere ai loro obblighi ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le misure necessarie per fermare il genocidio in corso a Gaza, comprese le sanzioni.
Questo primo evento del suo genere in Europa, ha già gettato le basi per la pianificazione di una seconda conferenza nel 2026. La dichiarazione finale adottata dalla conferenza (13-15 giugno) ha dichiarato: “Noi, relatori e organizzatori della conferenza, rilasciamo questo appello generale, che riflette le posizioni collettive raggiunte durante i tre giorni di deliberazioni”.
La conferenza era stata organizzata da un piccolo comitato direttivo con sede a Vienna, è stato un incontro appassionato di attivisti per la solidarietà alla Palestina da tutto il mondo. C’era anche una delegazione dall’Indonesia. Il suo successo ha sorpreso gli stessi organizzatori, con centinaia di persone che hanno dovuto essere respinte. Persone ebraiche e non ebree di tutte le fedi o di nessuna, si sono unite nella determinazione di vedere la fine della velenosa ideologia del sionismo che ha motivato la creazione dello stato israeliano.
Tra i tantissimi oratori, hanno parlato Ilan Pappe, Ghada Karmi Francesca Albanese, Rahma Zein, Rima Hassan.
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Luca Serafini: Il Grande Gioco di Trump
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Si sa che a furia di ripetere il
falso, la menzogna si invera. Media mainstream e governanti
europei accettano passivamente l’idea trumpiana che i rapporti
economici tra gli Usa
e l’Unione Europea siano del tutto squilibrati a vantaggio
dell’Europa, capace di esportare negli Usa molto più di ciò
che
importa. In tale contesto, i dazi vengono così legittimati e
giustificati e, tutto sommato, il raggiungimento di un accordo
che li posiziona al
15% non è poi tanto male. Si dimentica, tuttavia, che tale
accordo rimane valido solo se accompagnato da 600 miliardi di
dollari di
investimenti oltreoceano e 750 miliardi in forniture
energetiche americane, gnl in testa, nei prossimi tre anni.
Considerando che ad oggi
l’importazione in Europa di prodotti energetici dagli Usa è
pari a 75 miliardi, difficilmente questa condizione potrà
essere
rispettata.
Ma i rapporti economici tra Usa ed Europa stanno realmente come millantato da Trump?
I dati ufficiali pubblicati dall’ufficio statistico del Consiglio d’Europa raccontano un’altra storia.
Nel 2024, per quanto riguarda la bilancia commerciale (ovvero l’export e import di merci e servizi), considerando le sole merci, si registra un surplus commerciale a favore dell’Europa di ben 198 miliardi di euro (532,3 miliardi di euro è il valore delle esportazioni dell’UE verso gli USA contro 334,8 miliardi di euro delle importazioni dagli USA). Ma se prendiamo in esame anche i servizi (soprattutto quelli intangibili), la situazione cambia radicalmente. Gli Usa infatti presentano un surplus commerciale di 148 miliardi, a fronte di un export Usa verso l’Europa pari a 334,5 miliardi e import dagli Usa in Ue di 482,5 miliardi. Ne consegue che l’Europa presenta un surplus commerciale complessivo di 50 miliardi, cioè solo il 3% dell’intero interscambio di merci e servizi tra le due aree economiche (pari a 1.684,1 miliardi).
Ma non basta. Per dare un quadro esaustivo del frapporti economici tra Usa e UE occorre considerare anche i movimenti di capitali, che comprendono l’insieme delle transazioni finanziarie e creditizie.
Redazionale del nr. 18, Dicembre 1998 Anno X di Progetto Memoria, Rivista di storia dell’antagonismo sociale
(Avvertenza: le note non corrispondono nella numerazione a quelle del testo originale, ma partono in ordine progressivo relativamente a questa parte)
3. PRIMI PASSI.
L’esplorazione dell’universo di fabbrica e della nuova composizione di classe inizia con l’apparizione, nel 1961, del primo numero dei “Quaderni Rossi”. L’uscita della rivista è preceduta da un’inchiesta condotta alla FIAT da alcuni membri del futuro gruppo redazionale, al fine di scoprire le cause dell’apparente passività rivendicativa regnante negli stabilimenti torinesi. «Si trattava di capire – chiariranno poi i redattori dei “Quaderni Rossi” – se questa mancanza di lotta corrispondeva a una situazione di effettiva “integrazione” degli operai nel sistema aziendale, o se esisteva una spinta di lotta che non era in grado di realizzarsi concretamente, e per quali ragioni»1.
È da notare che questa inchiesta «non si sviluppava direttamente su problemi direttamente politici, ma consisteva principalmente in un’analisi (che veniva fatta dagli intervistati attraverso le risposte al questionario) dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti sociali (conflittuali o meno) che si sviluppavano in riferimento a essa»2. Già in queste premesse sono contenute molte delle linee di fondo della successiva esperienza del “Quaderni Rossi”. I filtri ideologici, specie di natura ottocentesca, che la sinistra adotta per organizzare in schemi politici il conflitto di classe, sono seccamente respinti. Lo strumento dell’inchiesta, condotta assieme agli stessi operai (la cosiddetta “con-ricerca”), diviene fondamentale al fine di solidificare un preciso “punto di vista operaio” dal quale l’azione politica deve necessariamente discendere.
Nel caso della FIAT questa impostazione conduce a risultati inattesi. Se “integrazione” c’è, essa riguarda gli operai di una certa età, già protagonisti delle roventi lotte degli anni ‘50 e fortemente sindacalizzati; mentre quel che connota gli operai più giovani è una crescente estraneità, potenzialmente conflittuale, all’azienda e al mito FIAT, in gran parte dovuta a procedure di lavoro spersonalizzanti.
L’occidente, termine con cui si
indica un’area geografica che si estende dagli Stati Uniti a
Israele, sta mostrando in modo inequivocabile la “verità” del
suo sistema. Si tratta di un’area geografica, in cui le
differenze sociali e culturali sono quasi scomparse, al loro
posto vige
l’americanismo. Quest’ultimo si caratterizza per
l’economicismo fanatico che tutto pone in vendita pur di
incassare plusvalore.
L’individualismo è il modello che impera e divora la storia e
l’essere con la sua gerarchia valoriale. Il multi-nullismo è
l’essenza dell’americanismo.
Il genocidio dei palestinesi si consuma in mondovisione e, e mentre tutto questo accade la chiacchiera domina e impera. Israele non è oggetto di sanzioni reali, anzi alla potenza che difende gli interessi occidentali in Medio Oriente si chiede “moderazione” con le tregue e la si invita a far passare gli aiuti umanitari. Estetica funebre che vorrebbe mascherare la sostanziale complicità dell’occidente. In questo clima di marcescente mostruosità divenuta banale e ordinaria porsi il problema dell’alternativa a un sistema che sembra invincibile ed eterno, ma in realtà è assediato da un mondo che muta velocemente, è fondamentale per riportare la speranza nel deserto della disperazione. Ci si avvia verso una rivoluzione anche in occidente, poiché le tecnologie e le risorse minerarie sono ormai in pieno possesso dei popoli non occidentali. I secoli del parassitismo e del saccheggio sono terminati o stanno terminando. La popolazione in occidente è in forte contrazione e invecchiamento; la cultura dei soli diritti individuali sta mostrando il suo vero volto, ovvero la famiglia si dilegua e con essa il futuro, restano solo individualità consumanti che dietro di sé non lasciano nessuna traccia. Non vi è cura dell’altro (famiglia in senso proprio ed esteso), per cui l’occidentale medio termina i suoi giorni depauperando ciò che lo umanizza. In questo contesto cercare e fondare l’alternativa è inevitabile.
I colonizzati sono coloro che difendono il modello americano. Sono gli atei devoti che per rafforzare il sistema si impegnano a sostenere riforme puramente estetiche che possano legittimarlo fortemente.
Come comunista, se devo analizzare gli esiti dell’incontro in Alaska tra Trump e Putin, ovviamente parto da due dati di fatto.
Un dato è sovrastrutturale: entrambi sono rappresentanti di oligarchie capitalistiche dentro un quadro di democrazia parlamentare borghese.
Un altro è politico, poiché tra potenze capitalistiche c’è differenza. Mentre Trump esprime gli interessi di un imperialismo unipolare in declino e per questo più aggressivo nelle sua frazioni di potere (oggi concentrate come deep state nella roccaforte europea, e ciò pone contraddizioni interne col MAGA non da poco…), Putin, ossia la Federazione Russa è di fatto il braccio militare delle potenze emergenti che si sono coagulate attorno ai BRICS e che hanno attratto altre potenze regionali che sono ancora oggi alleate dell’atlantismo a dominanza USA.
In questo incontro aleggia la presenza della Cina, mentre è out la cordata di volonterosi UE e GB in testa, il che dimostra una frattura non da poco nel fronte atlantista stesso e dall’altra una coesione attorno all’asse Russia-Cina.
Non sappiamo cosa si siano dette le due delegazioni in Alaska e certamente la questione ucraina è ancora lontana dal risolversi. Tuttavia si può pensare a due aspetti: uno tattico e uno strategico.
Zelenskij si prepara al viaggio per Washington dove dovrà scegliere tra due sconfitte: aderire al canovaccio individuato in Alaska tra Trump e Putin (fare un accordo accettando molte, se non tutte, delle condizioni poste da Mosca), oppure rifiutare la proposta e restare in guerra con il solo appoggio dell’Unione Europea, manifestamente non in grado di “compensare” l’apporto statunitense (copertura satellitare, comunicazioni, droni, missili a medio raggio, ecc).
Scavando un po’ tra le indiscrezioni lasciate trapelare a valle del vertice, si può dire con una certa sicurezza che il principale risultato sia stata la convergenza tra due superpotenze nucleari – ma ce ne sono oggi anche altre… – nel definire un quadro di relazioni non apertamente conflittuale.
Detto in parole semplici, gli Usa di Trump vogliono svincolarsi dal conflitto in Ucraina per una lunga serie di ragioni.
Si sono impegnati in una guerra dei dazi con tutto il mondo, senza distinguere troppo tra avversari storici e “alleati-vassalli”, allo scopo esplicito di scaricare il costo del proprio debito (sia pubblico che commerciale) sugli altri.
Devono provare a favorire la re-industrializzazione del proprio paese, desertificato da 30 e più anni di delocalizzazioni produttive che hanno creato nuovi e potenti concorrenti. Ma è un obiettivo che appare praticamente impossibile, nonostante gli investimenti imposti ai vassalli nippo-europei, e proprio mentre le preoccupazioni per l’occupazione sono al livello della crisi del 1929, accompagnate da quelle per l’inflazione che dovrebbe scaturire dal peso dei dazi sulle importazioni.
I caccia F-35 Lightning II
dell’USAF che scortano l’Ilyushin Il-96-300PU presidenziale
sul quale viaggia il presidente russo Vladimir Putin di
rientro in patria dopo
il vertice con Donald Trump in Alaska, rappresentano
pienamente, con la sua simbologia, il successo del summit tra
i due presidenti.
La degna conclusione di un evento caratterizzato, come sottolineano i media russi, da una “accoglienza storica” riservata al presidente russo dal tappeto rosso al sorvolo d’onore di un “flight” militare composto da un bombardiere B-2 Spirit e alcuni F-35 fino al trasferimento dei due presidenti a bordo della limousine presidenziale americana, “The Beast”.
Particolari che suggellano e ostentano il rilancio dell’amicizia, non solo delle relazioni, russo-americane. Un successo solo per Russia e Stati Uniti però, come avevamo previsto ieri nell’editoriale in cui a quanto pare abbiamo ipotizzato correttamente i possibili sviluppi dell’incontro.
Cooperazione a tutto campo
Pochi i dettagli emersi finora ma nelle dichiarazioni rese alla stampa (otto minuti e mezzo ha parlato Putin, meno di 4 minuti Trump) l’aspetto più rilevante è sembrato quello del rilancio delle relazioni bilaterali sul piano strategico (Artico e nucleare), economico (sanzioni e dazi) e politico.
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha detto ieri di aspettarsi che gli USA revochino alcune sanzioni alla Russia. “Ne toglieranno qualcuna, questo è certo“, ha detto Lavrov. Ne sapremo presto di più circa questo rilancio che aveva preso il via già negli incontri in Arabia Saudita tra Marco Rubio e Sergei Lavrov e che si era concretizzato in luglio nel rilancio della cooperazione spaziale.
Negli ultimi anni ci hanno riempito la testa (o provato a farlo), con la parola, scritto e ogni altro mezzo di diffusione, con una serie di slogan all’insegna di una “Russia isolata”, di un “Putin malato”, di una “sconfitta strategica di Mosca”, e vi risparmiamo, per carità di patria, quelli riferiti alle sanzioni. Ora come allora, per lo meno nel cosiddetto Occidente libero, chiunque si azzardasseanche solo a esprimere dubbi o riserve riguardo a questa narrazione si trovavaimmediatamente esposto al pubblico ludibrio, vedendosi attribuite etichette, inventate di sana pianta, di “filo russo” o “filo putiniano”.
Il vertice di Ferragosto fra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, fortemente voluto e promosso dal primo, potrebbe spazzare via, in tempi assai rapidi, questo clima da caccia alle streghe, che ha spadroneggiato nel mondo dei conformisti i quali per convinzione o per interesse, hanno sposato una versione quantomeno parziale delle origini e fattori scatenanti del conflitto in Ucraina, cancellando proditoriamente tutto quel che aveva preceduto la data del 24 febbraio 2022.
L’incontro ha avuto come cornice la base militare di Elmendorf-Richardson, organizzato in tempi molto rapidi, ma preceduto da diversi contatti preliminari, a cominciare dalla prima telefonata tra i due presidenti del novembre scorso: il suo significato, per ora, risiede forse più negli aspetti formali, che sostanziali.
Da Anchorage ripartono le relazioni bilaterali tra Russia e Stati Uniti dopo 4 lunghi anni di interruzione forzata. La presidenza Biden si era sempre rifiutata di incontrare ufficialmente Vladimir Putin dopo l'inizio dell’Operazione militare speciale, in quanto nell’attribuzione unilaterale dell'etichetta di legittimo presidente di qualsiasi altro paese estero, veniva considerato come un dittatore non riconosciuto dal popolo russo e invasore di uno Stato straniero, l’Ucraina, con un Presidente in quel caso considerato perfettamente legittimo dagli Stati Uniti.
Le relazioni ripartono dunque con un Trump che tenterà, come in passato, di sganciarsi dal caos globale creato dalla strategia del Partito Democratico statunitense portata avanti prima da Obama e poi dal suo ex vice.
Non bisogna però nutrire particolari illusioni, l’impresa è molto ardua per le resistenze che l’Occidente continua a esercitare verso la Russia da ben prima del 2022. È dai referendum per l'indipendenza della Crimea del 2014 che la Russia è stata cacciata dal G7 e in Occidente è stato solo Trump nel 2018 a cercare di farla reintegrare nel gruppo, senza alcun successo. Parlare di Russia nei principali summit internazionali dell'Occidente equivale a evocare Belzebù in persona ed è evidente dalle varie ondate di russofobia come la razionalità sia stata messa al bando in merito.
Il dato di fatto che per ora sembra emergere dal vertice in Alaska è la volontà reciproca di Stati Uniti e Russia di considerarsi buoni vicini di casa, proprio prendendo in considerazione la loro prossimità territoriale sullo stretto di Bering che li separa per soli 83km di oceano.
Ad Anchorage non si è tenuto solo un incontro tra Trump e Putin, che certo è stato il momento più simbolico, ma tra la Russia e l’America. Infatti, insieme a Putin sono sbarcati in Alaska il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, il Ceo del fondo sovrano russo Kirill Dmitriev, il Consigliere di Putin Jurij Ušakov, il ministro della Difesa Andrei Belousov e il ministro delle finanze Anton Siluanov.
Ad accoglierli, oltre a Trump, il Segretario di Stato Marco Rubio, l’inviato di Trump Steve Witkoff, il Segretario del Commercio Howard Lutnick, il Segretario del Tesoro Scott Bessent, il Segretario della Difesa Pete Hegseth, il direttore della CIA John Ratcliffe.
Se si tiene presente questo, si comprende bene che il summit aveva un respiro ben più ampio del conflitto ucraino, tema comunque necessitato, ed era diretto più che a chiudere nell’immediato quello, cosa impossibile a meno di un miracolo, a ripristinare le relazioni tra le due potenze, collassate definitivamente dal 2022.
Abbiamo usato l’avverbio definitivamente perché i rapporti tra Mosca e Washington non si sono rotti all’inizio della guerra ucraina, ma da prima dell’invasione russa. Incrinati dal golpe di Maidan, che ha innescato la prima e seconda guerra ucraina, sono affondati a seguito di due campagne mediatico-politiche travolgenti: il russiagate e l’ucrainagate.
Come si poteva immaginare l’incontro in Alaska fra Trump e Putin non ha sortito effetti miracolosi, è stato solo il primo dei vertici in cui verrà discusso l’insieme delle relazioni fra Russia e America e di conseguenza tra i Brics e l’Occidente. Questo risultato era ampiamente prevedibile ma è stato comunque un disastro per il partito della guerra che si attendeva o un consenso della Russia a un cessate il fuoco incondizionato, tale da dare un po’ di respiro e rifornimento all’esercito ucraino ormai esausto, oppure un inasprimento delle relazioni che portasse di nuovo fiumi di armi verso il regime di Kiev e l’ometto che recita la parte di gestore della strage in conto terzi. Per i signori e per gli straccioni della guerra, il vertice nelle remote vicinanze dell’Artico, ha sortito l’effetto peggiore possibile, ovvero quello di mettere tra parentesi il conflitto ucraino per ristabilire relazioni con la Russia che Obama, il nobel per la pace, aveva a suo tempo chiuso. Per giunta il dipartimento di Stato ha annunciato la prossima uscita di un rapporto sulle violazioni dei diritti umani da parte di Zelensky. Magari qualcuno a Londra, Berlino o Parigi comincia a tremare riguardo alle varie stragi organizzate ad arte per dare la colpa ai russi.
È ovviamente impossibile in questo momento sapere cosa nel complesso si siano detti Trump e Putin, quali siano stati gli argomenti affrontati, ma quando il leader russo è comparso serio e rilassato a fare le sue dichiarazioni senza citare il cessate il fuoco e quando nemmeno The Donald ne ha parlato, il mondo di cartapesta dei media mainstream accorso come un fiume di salmoni alle acque natie, si è accartocciato su se stesso come una foglia morta.
Probabilmente il vertice russo-americano al quale abbiamo assistito ieri ad Anchorage in Alaska è uno dei più spettacolari e significativi dell'ultimo mezzo secolo.
Certamente il più importante dal 2000 in avanti.
Un summit quello tra Putin e Trump che segnerà la storia dei prossimi anni e questo lo si intuisce anche dall'enorme portato simbolico che è stato racchiuso nel cerimoniale. I simboli sono sostanza, soprattutto quando si parla di vertici internazionali di questa portata.
Oltre ai simboli, naturalmente, ad Anchorage si sono verificate una serie di eventi e situazioni che chiariscono benissimo l'attuale stato dei rapporti internazionali, non solo tra i leader di Russia e USA, ma anche tra gli “stati profondi” dei due paesi e, più in generale, sulla base di quanto accaduto, possono essere visti in controluce anche i reali rapporti tra i due grandi blocchi esistenti in questa fase storica: quello “occidentale” e quello del cosiddetto “sud globale”. Al lettore una importante avvertenza: non tutto ciò che è appare e non tutto ciò che appare è.
*Cerimoniale e aspetto simbolico del Summit*
Raramente nella storia, come è avvenuto in questo vertice l'aspetto cerimoniale e simbolico ha assunto una valenza fondamentale per chiarire lo stato dell'arte delle relazioni internazionali, non solo tra le due superpotenze, ma più in generale tra i due blocchi fondamentali che stanno emergendo in questa fase storica, quello dei BRICS e quello occidentale.
Sotto l’aurora boreale dell’Alaska, Russia e Stati Uniti hanno delineato i contorni di un mondo riorganizzato, senza l’Europa al tavolo delle trattative, posizionando la Russia come un attore importante nella sicurezza europea
Il 15 agosto 2025, Donald Trump e Vladimir Putin si sono incontrati presso la base aerea di Elmendorf-Richardson in Alaska per uno storico vertice sulla guerra in Ucraina. Questo incontro, il primo di persona tra i due leader dal 2019, si è svolto in un contesto diplomatico meticolosamente preparato, dimostrando la volontà della Russia di partecipare pienamente a un dialogo strategico di alto livello, con compostezza e responsabilità, in un contesto geopolitico complesso e polarizzato. Le richieste russe hanno strutturato l’agenda: il riconoscimento delle realtà territoriali in Ucraina, la neutralità di Kiev nei confronti della NATO, la riduzione degli schieramenti militari occidentali ai confini russi e garanzie per le popolazioni russofone. A ciò si sono aggiunte chiare richieste economiche, come la reintegrazione nel sistema SWIFT e la revoca delle sanzioni. Putin, definendo i colloqui “costruttivi”, ha sottolineato l’urgenza di risolvere una crisi che ha descritto come un “profondo dolore” per la Russia, avvertendo al contempo che la pace dipenderà dalla flessibilità di Kiev e dei suoi sostenitori.
I punti chiave della conferenza stampa al vertice russo-americano in Alaska
Il presidente russo ha elogiato il clima “costruttivo e rispettoso” dei negoziati, sottolineando la qualità degli scambi diretti con Donald Trump.
“Dormono nello stesso letto ma hanno sogni diversi”: l’antico proverbio cinese sembra adattarsi perfettamente al vertice fra Putin e Trump, oggi in Alaska.
Si adatta anche alle consultazioni preparatorie che il Presidente ha avuto mercoledì in video-conferenza con Zelensky e i Volonterosi europei (Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Polonia, Finlandia, Commissione Ue). Trump sogna di essere beatificato come costruttore di pace. Gli europei e Zelensky sognano una tregua seguita da ritirata russa, e soldati occidentali in Ucraina che mantengano la pace. Putin sogna la fine dell’aggressività Nato ai propri confini. Dietro questo guazzabuglio di sogni la dura realtà dei fatti, indigesta per gli Occidentali: la Nato ha perduto questa guerra europea, e ora tocca gestire la disfatta fingendo che non sia tale.
Fino all’ultimo i governi europei hanno provato a sabotare l’incontro, anche se ieri si sono detti molto soddisfatti e rassicurati da Trump. Ma le idee che si fanno della fine della guerra sono incoerenti e non coincidono con le realtà militari. Nel comunicato del 9 agosto, la Coalizione dei Volonterosi afferma che il negoziato dovrà svolgersi “a partire dalla linea di contatto” fra i due eserciti. Dunque dovrà tener conto dell’avanzata russa nel Sud-Est ucraino, e del controllo di Mosca sulle quattro province annesse dalla Federazione russa.
Difficile dare un quadro realistico del vertice in Alaska quando i protagonisti restano blindati sul merito della discussione e chi dovrebbe resocontare – i media occidentali in genere, quelli europei in particolare – è impegnato in modo visibilissimo nell’avvolgere “l’evento” in impasto di allusioni, pettegolezzi, mistificazioni.
Se dovessimo stare alle cronache in stile “pensiero unico” – non ci sono differenze tra tv e media di estrema destra e tutti quelli che si dicono liberal o “democratici” – dovremmo parlare di un fallimento o quasi. Ma questa prognosi ha senso solo se si accettava, prima dell’incontro, uno schema bipolare secondo cui o si arrivava a un accordo completo e dettagliato subito, oppure se ne usciva con una corsa alla guerra più generale.
La linea guerrafondaia seguita dall’”Europa unita” ha conquistato facilmente le menti servili degli operatori della disinformazione mainstream, al punto da non lasciare più alcuno spazio neanche all’esperienza storica più disincantata.
E la storia dovrebbe insegnare che ogni decisione di pace – o di guerra – è arrivata al termine di un percorso né breve né semplice, in cui si cerca di stabilire un nuovo equilibrio accettabile insistendo su molti dettagli ma a partire da un quadro condiviso. Ci si possono mettere anni, se va bene diversi mesi, ma mai giorni o addirittura poche ore.
Come dovrebbe essere noto, se non altro perché i vertici russi lo ripetono da anni senza cambiare una virgola, “il quadro” per una pace duratura con l’area euro-atlantica deve fondarsi sulla cessazione dell’espansione a est della Nato (l’unica espansione reale che c’è stata negli ultimi 35 anni), sulla smilitarizzazione e “denazificazione” dell’Ucraina, la riscrittura di una serie di trattati che sono scaduti, stanno per scadere o sono stati disdettati dagli Stati Uniti.
Sul Fatto Quotidiano, di cui mi sono occupato poco fa, ci sono due corrispondenti sulla questione Israele-Palestina, una da Tel Aviv, Manuela Dviri, e una, Aya Ashour, che era a Gaza e oggi è in Italia, ospite dell’Università di Siena.
Tutte e due brave e tuttavia, per me, discutibili in quanto emblema della società israelo-ebraica e di come questa vive tempi di vera e propria apocalisse sotto casa. Poi c’è Anas Al-Sharif, il giornalista di Al Jazeera trucidato insieme a cinque colleghi da un missile israeliano mirato alla tenda dove si sapeva lavorare la redazione dell’emittente qatariota. Nessuno più illustrerà cosa Israele fa a Gaza. Allo Stato sionista è costato già troppo. Forse tutto.
Manuela Dviri è la classica interprete dello spirito travagliano sulla questione Israele-Palestina. Nelle sue corrispondenze, animate da forte polemica anti-Netaniahu, si illustra con grande evidenza la protesta dei famigliari dei prigionieri israeliani in mano ad Hamas e si deplora l’atteggiamento rinunciatario del regime nei loro confronti. Ultimamente, alla denuncia della sorte degli “ostaggi”, si sono aggiunte quelle delle difficili, a volte disperate, condizioni dei soldati di un IDF, caduti, mutilati piscologicamente, suicidi, negli incessanti tentativi di conquista di Gaza. Su questo tema, trattato di fretta, gli approfondimenti migliori, però, sono quelli di Haaretz e di altri quotidiani israeliani.
Che la fede nella scienza sia oggi diventata tanto o addirittura più popolare di quella nella religione, è un fatto abbastanza evidente. Purtroppo però la scienza sta oggi assumendo due delle peggiori tendenze che le religioni hanno spesso manifestato, quelle che in epoca moderna hanno causato la loro perdita di credibilità: imporre dogmi e diventare centri di potere.
L’ultimo episodio che conferma lo sviluppo di queste due tendenze verso una vera e propria dittatura scientifica, con tutto ciò che questo comporta in tema di libertà di opinione e di scelta, è dimostrato dalla levata di scudi contro la nomina da parte governativa di due scienziati reputati no-vax nell’ambito del Nitag (National immunization technical advisory group), il “Gruppo consultivo nazionale sulle vaccinazioni”, istituito nel 2021 allo scopo di «supportare, dietro specifica richiesta e su problematiche specifiche, il Ministero della Salute nella formulazione di raccomandazioni evidence-based1 sulle questioni relative alle vaccinazioni e alle politiche vaccinali, raccogliendo, analizzando e valutando prove scientifiche».
A chiedere la revoca dell’incarico al prof. Paolo Bellavite ed al pediatra dott. Eugenio Serravalle, sono stati alcuni organismi associativi, espressione politica della categoria medica e sanitaria: per “espressione politica” intendiamo, a scanso di equivoci, il fatto che questi organismi dichiarano di tutelare gli interessi di tali categorie, al tempo stesso definendo le regole cui i professionisti stessi devono a loro avviso attenersi.
Il ponte sullo Stretto torna alla ribalta a seguito dell’approvazione del Progetto Definitivo da parte di un CIPESS telecomandato. E spopola sui media un ministro che è una caricatura, fiero di sé e della sua mediocre cultura politica. Sotto i riflettori di una stampa di servizio, egli si propone a suon di slogan da bar, di assicurare che ormai è fatta, che lui ha raggiunto il suo scopo, che ora tocca ai tecnici passare alla fase esecutiva.
In realtà l’omino è solo uno strumento nelle mani di potenti lobby finanziarie e del cemento che impongono ancora oggi strategie e politiche finalizzate a grandi opere di ingegneria, senza guardare troppo alle reali esigenze della collettività. Attraverso mirate campagne promozionali su gran parte dei giornali, delle Tv e dei social addomesticati, le lobby vogliono far passare l’idea che solo con tali opere sia possibile garantire progresso e sviluppo. Tali opere purtroppo fagocitano ingenti risorse finanziarie a scapito di infrastrutture e servizi diffusi che dovrebbero avere la priorità, provocano impatti negativi notevoli sui territori, offrono benefici solo per frange di privilegiati. Spesso si tratta di opere impegnative che comportano grandi rischi, senza imprimere reali forme di sviluppo nelle aree in cui sono collocate.
Ciò che impressiona è la visione miope delle classi dirigenti in questa fase storica; una visione liberista e affarista, scevra di attenzione all’equità sociale e territoriale, direi anche spendacciona e sprecona. Da tempo ormai si vanno affermando in molte regioni del mondo delle politiche di mobilità alternative improntate alla sostenibilità e al bene comune.
Fabrizio Marchi: Gaza. L’oscena ipocrisia del PD
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e. Le
Commissioni su tariffe e conflitti (RKK): non solo arbitrato
Le Commissioni su tariffe e conflitti… già, perché esistevano anche quelle: le RKK non erano, nonostante la funzione arbitrale di entrambe si presti ad analogie, l’equivalente dei nostri Collegi di conciliazione e arbitrato.
Anche qui, potremmo fregarcene altamente e andare avanti, che di strada da qui alla fine del periodo considerato da questa ricerca, ovvero la fine stessa dell’URSS, ce n’è ancora da fare, ma sorge sempre la stessa domanda… che senso ha, in un lavoro sui sindacati di anni, aggiornato al 2025, fatto fuori dall’orario di lavoro e da tutti gli altri impegni quotidiani, prendersi in giro ancora una volta, far finta di niente per l’ennesima volta, sempre per l’ennesima volta farsi bastare formulette e stereotipi vecchi, nella migliore delle ipotesi, di oltre mezzo secolo? Tanto valeva non affrontarlo nemmeno, se è già “tutto scritto”. Davàj, quindi, come dicono da Kaliningrad a Vladivostok: esaminiamo anche le RKK.
L’unica analogia delle RKK con i nostri Collegi è la comune vocazione all’arbitrato, ovvero alla risoluzione di contenziosi senza il ricorso al giudizio di un tribunale: per il resto, tutto cambia.
Partiamo dal nome: Rascenočno-konfliktnaja komissija. Rascenit’ (laddove la “c” è una z aspirata) viene da cena (medesima accortezza, traslitterabile come “tsena”) e vuol dire “stabilire il prezzo”, che nel caso del giovane Paese dei Soviet era ancora legato alle tariffe salariali del cottimo, più che a un salario fisso; konflikt, invece si presenta da solo. Una komissija chiamata, pertanto, a svolgere compiti ben più ampi dei licenziamenti “non per giusta causa”. Komissija figlia della NEP, figlia di quel momento storico in cui i bolscevichi capirono che, per riprendersi dalle macerie della guerra d’invasione, della guerra civile e del comunismo di guerra, la loro breve esperienza di autogestione operaia e le loro ancora scarse conoscenze in materia non sarebbero bastate, così come il semplice mettere qualche “tecnico” a guinzaglio stretto a eseguire i loro ordini: non sarebbero bastate a garantire il ripristino di quella maledetta ruota che, fino a prima della Rivoluzione, aveva macinato terra, sangue e produzione e riproduzione merce dispensando, ogni tanto, qualche briciola alla “plebe sempre all’opra china” che la faceva girare.
Sganciarono la bomba nel 45 per far terminare la guerra
mondiale
Nessuno aveva
mai visto niente di così terribile, prima
il mondo
guardava con gli occhi spalancati
per vedere come sarebbe andata a finire
Gli uomini del
potere eludevano
l’argomento
era un momento
da ricordare, non dimenticheremo mai
Stavano giocando
alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki
(Jim Page – Hiroshima Nagasaki Russian Roulette, 1974-77)
Sono ancora una volta delle parole, in parte esplicite e in parte giustificatorie, quelle da cui partire per una riflessione sul presente e sul passato di un modo di produzione e della sua espressione politico-militare. Ciò di cui qui si parla prende infatti avvio dalla affermazione fatta da Donald Trump, dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani, secondo il quale: «I raid sull’Iran, come Hiroshima e Nagasaki, hanno chiuso la guerra». Secondo tale narrazione, infatti, i bombardamenti delle due città giapponesi avvenuti rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945 avrebbero costituito l’ultima ratio per risparmiare la vita di un numero di soldati americani che andato crescendo nel tempo da 500 000 a un milione. Ma nel corso di questo articolo si vedrà se è stato davvero così. Per adesso, quel che si può dire è che il riferimento ha suscitato l’indignazione degli “hibakusha”, i sopravvissuti giapponesi alle bombe, poiché:
Guardati con le lenti del diritto contemporaneo, gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki si configurano come crimini di guerra plateali, e verosimilmente come due immensi attacchi terroristici. Usarli come esempio di una soluzione rapida e pulita, come Trump ha fatto, non è solo una falsificazione storica ma un ritorno inquietante alla lettura di quegli eventi che una parte di occidente si era fabbricata subito per giustificarli, e che nel tempo abbiamo superato. [Ma] il paragone ignominioso di Trump ha tuttavia almeno un merito: ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che a ottant’anni da Hiroshima siamo ancora immersi nell’era atomica, che non ne intravediamo la fine, perché forse fine non ci sarà. Di tutte le aberrazioni che l’umanità ha prodotto, la bomba atomica resta ancora la peggiore. E non è affatto, come ci siamo a lungo convinti e come si auguravano i fisici pentiti di Los Alamos, la miglior garanzia di pace possibile»1.
I commenti provenienti da ambienti europei che fanno capo alla cosiddetta “coalizione dei volenterosi” – quelli che vogliono continuare la guerra alla Russia a ogni costo – e dal codazzo di giornalisti e commentatori che sono da loro stipendiati, per farsi coraggio parlano di “fallimento” del vertice tenuto in Alaska perché non sarebbe stato raggiunto il presunto obiettivo del vertice, quello di imporre alla Russia una tregua senza condizioni.
In realtà il vertice Putin-Trump ha riguardato obiettivi ben più importanti e globali di quelli auspicati dai “volenterosi” e dal loro pupillo Zelensky.
Il vertice si è interessato delle condizioni fondamentali per una pace duratura in Ucraina, e non di una semplice tregua che sarebbe solo servita a cercare di riarmare e rilanciare le azioni dell’esercito ucraino, in chiara difficoltà e a corto di uomini per l’esplodere della renitenza alla leva e le fughe continue all’estero di giovani, e meno giovani, per non essere arruolati.
Il vertice, più in generale, ha riguardato le condizioni necessarie per ottenere una situazione di reciproca sicurezza a livello mondiale. Il presidente Trump, rinunciando agli atteggiamenti da bullo che lo avevano portato a minacciare gravissime sanzioni contro la Russia se non avesse accettato una tregua immediata e incondizionata (un “bluff” in cui gli esperti dirigenti russi non sono minimamente caduti), ha alla fine saggiamente accettato l’agenda proposta dai Russi che consisteva nell’affrontare problemi ben più vasti e significativi di una semplice tregua, che riguardano l’avvenire del dialogo tra USA e Federazione russa.
La difesa compatta del genocidio israeliano a Gaza e delle operazioni militari dell’entità sionista e terrorista da parte delle “cancellerie” di tutti i paesi dell’impero americano viene spesso letta come la manifestazione evidente di una sudditanza nei confronti di Israele. Questa idea degli ebrei che dominano il mondo sembra però la semplice riproposizione della vecchia teoria della “cospirazione giudaica” e non spiega efficacemente il reciproco e dialettico interesse che nutrono Israele (assieme a larga parte della comunità ebraica internazionale) e i gruppi dominanti del blocco imperialista a guida USA.
Certo, all’interno di questo blocco, Israele non è un semplice stato-vassallo come lo sono l’Italia o la Lituania o (ancora per poco) l’Ucraina. Israele è un paese che ha un grande peso politico che si mostra platealmente nelle standing ovation che il Congresso americano, senza alcuna forma di pudore, tributa a un criminale genocida le cui azioni non hanno nulla da invidiare a quelle di Adolf Hitler.
Dopo la Seconda guerra mondiale (e per diversi aspetti anche in precedenza, visto che la dichiarazione di Balfour avviene durante la Prima guerra mondiale) gli ebrei stipulano un patto con le potenze imperialiste e colonialiste vincenti (gli USA e soprattutto la Gran Bretagna, a cui era stato assegnato il protettorato della Palestina dopo il crollo dell’Impero Ottomano alla fine della Grande guerra):
L’ex generale David Petraeus, ex comandante in Iraq e Afghanistan ed ex Direttore della CIA, in questo articolo per The National Interest, rende abbastanza chiaro perché l’amministrazione americana stia cercando di far finire la guerra in Ucraina. La dimensione strategica generale dello scontro è il ruolo di “laboratorio” per la Cina. Come mostra l’autorevole osservatore la Cina è il principale “facilitatore economico e industriale” della Russia, ma anche il fornitore di sistemi militari dei quali valuta in questo modo l’efficacia in una guerra ad alta intensità contro tattiche e materiali Nato. In tal modo può acquisire, senza perdere un uomo o un mezzo (anzi, vendendoli), cruciali informazioni e, in tal modo, con le sue parole “perfezionare i concetti che utilizzerà per guidare lo sviluppo delle proprie armi, l’addestramento militare e le strutture organizzative”. A parere dello scrittore ormai Pechino “funge da spina dorsale logistica del complesso militare-industriale russo”. Microelettronica, macchine utensili ed esplosivi per i proiettili, Con il supporto cinese i russi si apprestano a produrre entro l’anno in corso l’incredibile cifra di due milioni di droni di attacco avanzati a FPV (controllo immersivo in prima persona). Il punto è che queste forniture messe alla prova delle capacità avanzate di difesa, fisica ed elettronica, fornite dall’occidente all’Ucraina, consentiranno di produrre nuove generazioni di armi.Petraeus aggiunge che tutte le informazioni convergono in un sistema centralizzato di gestione che è in grado di “rispondere molto più rapidamente della burocrazia degli appalti dell’era industriale degli Stati Uniti”.
Conversando con Giovanni Piva, mi sono reso conto della necessità di chiarire alcune cose in merito all’effetto espansivo del deficit pubblico e a come questo effetto (non) vari in funzione di come viene “finanziato”.
Deficit pubblico significa che lo Stato spende più di quanto preleva con le tasse. Quindi immette moneta nell’economia. Questo è (dovrebbe essere ?) chiaro a chiunque.
Tuttavia, se contestualmente lo Stato emette titoli per “finanziare il deficit”, la moneta immessa viene ritirata e quindi l’effetto espansivo sparisce. Giusto ?
NO.
Lo Stato quando spende, spende MONETA. Quella entra nell’economia.
E se lo Stato spende per stipendi pubblici o per investimenti, IMMEDIATAMENTE genera PIL. La moneta passa di mano (arrivando al dipendente pubblico o al fornitore delle opere pubbliche) che si ritrovano con un incremento del loro risparmio finanziario.
Se viene loro offerta una forma di impiego sotto forma di titoli di Stato, sono di solito interessati ad utilizzarla. Ma l’effetto espansivo sul PIL SI E’ COMUNQUE GIA’ VERIFICATO.
NON è affatto vero che “l’effetto espansivo svanisce perché la moneta precedentemente emessa viene ritirata”.
USA 2018, mentre la cosiddetta “dottrina Trump” s’imponeva, dentro e fuori casa, all’attenzione dei tanti, nelle stesse terre del melting pot vedeva la luce un ennesimo romanzo che, qualora ve ne fosse stato bisogno, andava ad aggiungersi al Sancta Sanctorum del già nutrito filone distopico di ordine femminista di successo. L’opera letteraria in questione, porta per titolo Vox, prodotto d’esordio di Cristina Dalcher edito da Nord.
Con una scrittura priva di orpelli semantici, l’uso di un linguaggio diretto, asciutto, a tratti forse troppo e a discapito di una maggiore profondità e articolazione di pensiero, l’autrice centra comunque il bersaglio toccando la sensibilità di superficie del lettore medio che, da subito, diviene empatico complice dei bisogni, degli intimi desideri, dei sussulti d’odio, di libidine e soprattutto, delle ragioni di ribellione e tradimento della protagonista, Jeane. Non potrebbe essere altrimenti. Di fatto, il gran numero di elementi (ammiccamenti?) tipici di un prodotto letterario che soddisfi precisi comparti socioculturali, precise sensibilità (che siano quelli di una sinistra radical chic o alla comunità LGBTQIA+ e altri), ci sono tutti. Troviamo, infatti, l’amica politicizzata, attivista rampante, e la ricercatrice geniale, rigorosamente entrambe lesbiche; il conciliatore, dialogante col potere che, a sorpresa, rivela un salvifico sprazzo d’eroismo e via così.
Lo scenario di futuro immaginato dall’autrice, che in vero non osa discostarsi da soluzioni già battute ben più sapientemente da altri è quello di un regime totalitario bianco giunto a sovvertire l’ordine costituito e cambiare, ovviamente in peggio, le sorti delle donne.
Penso che la formazione degli strati
politici europei sia tale ormai che non riescono proprio a
trovare, a individuare, spazi per i propri paesi. Di
conseguenza sono piuttosto orientato a
pensare che si allineano e basta, sapendo che ci saranno dei
costi da pagare, ma di scaricarli poi sulla popolazione
normale, diciamo così.
Non riesco proprio a pensare, a vedere, dei politici autonomi, capaci di dare un pensiero… L’ultimo che mi viene in mente è Kohl, per esempio, dopo non ne vedo. Forse un po’ Schroeder, però ha avuto la grossa responsabilità di accelerare la finanziarizzazione della Germania, tra l’altro, e quindi di rompere questa coerenza che c’era tra sistema bancario e sistema industriale tedesco che dava una notevole forza alla Germania.
L’Italia poi, con la fine della prima Repubblica, non ha più niente, non ha più nulla, quindi io non riesco a individuare spazi di autonomia, perché se si devono individuare degli spazi di autonomia bisogna pensare che la prima cosa che avrebbero dovuto proteggere è le risorse energetiche, è ovvio, le fonti energetiche. Non le hanno protette.
Voglio dire, è stato fatto saltare il North Stream 2 e questi non hanno nemmeno protestato. Di conseguenza, io proprio non vedo nessuno spazio in quel senso.
Però qui vorrei dire alcune cose: bisogna vedere quale è l’obiettivo statunitense. Noi siamo in una nuova fase del: “i problemi sono vostri e i dollari sono nostri”. John Connally, che fu il segretario al Tesoro del presidente Nixon nella crisi del ’71, proprio in un incontro di 10 paesi a Roma, alla fine del ’71, dopo l’abbandono della parità aurea decretata da Nixon il 15 agosto del 1971 tra dollaro e oro.
A Roma in questa riunione lui disse: “il dollaro è nostro, però i problemi – sottinteso del dollaro – sono i vostri”. Così disse all’Europa, al Giappone … agli europei e ai giapponesi, sostanzialmente. E noi ci ritroviamo di nuovo di fronte a questa situazione.
Vi siete mai
chiesti perché tutte le istituzioni più importanti sembrano
emettere gli
stessi messaggi? Perché la vostra banca, la scuola di vostro
figlio, il vostro governo e persino la vostra chiesa si
preoccupano
improvvisamente delle stesse “sfide globali” e promuovono
soluzioni identiche? Non è una coincidenza. È un
sistema.
Termini chiave:
Pensate agli ultimi anni. Quando è scoppiato il COVID, le principali istituzioni hanno risposto con un coordinamento straordinario:
Dicono i media statunitensi, compresi quelli vicini a Trump, che il vertice con Putin in Alaska non ha prodotto il successo immaginato dalla Casa Bianca, anche se l’evento è stato spettacolare: era la prima volta che le due potenze nucleari si parlavano, dall’inizio della guerra per procura in Ucraina che Joe Biden e Boris Johnson vollero proseguisse anche quando Kiev accettò una bozza d’intesa con Mosca, poche settimane dopo l’invasione del febbraio 2022. In realtà l’accordo fra i due presidenti c’è, anche se entrambi non intendono per ora formalizzarlo. “Nessun accordo fino a quando l’accordo c’è”, riepiloga Trump. Adesso tocca a Zelensky prendere la decisione che metta fine alla guerra, o almeno produca una tregua duratura. Zelensky recalcitra, ma dovrà valutare prestissimo: Trump l’ha convocato a Washington fin da domani. E tocca decidere agli Stati europei, che per tutto questo tempo hanno boicottato i tentativi di Washington, senza mai provare vie diplomatiche alternative e limitandosi a insistere sugli aiuti militari a Kiev, sulle sanzioni a Mosca e sul proseguimento della guerra. I cosiddetti “europei volenterosi” si dicono convinti che entro un decennio Mosca aggredirà il resto del continente. Quanto agli ucraini, la maggioranza chiede “pace subito”: ma che importa, sono loro a morire, mica noi. Infine la decisione spetta alla Nato, che dovrà ammettere una disfatta monumentale. Se Kiev e i volenterosi capiranno che la palla è nel loro campo, e che la sconfitta è ingiusta ma ineludibile, l’accordo potrebbe culminare in un incontro fra Putin, Trump e Zelensky.
Il famoso apocrifo keynesiano afferma che sul lungo periodo saremo tutti morti; però ancora più certo è che sul “lungo periodo” si può speculare e ipotizzare all’infinito, con un ovvio effetto di distrazione dai dati di fatto immediati. Ad esempio, vari illustri commentatori predicono che la politica dei dazi di Trump determinerà un effetto protezionistico e a lungo termine una conseguente reindustrializzazione degli Stati Uniti. Come no? Tutto può essere. Intanto però i dazi sono una tassa sui beni importati che viene pagata dal consumatore finale, e ciò in un paese dove la gran parte dei beni di consumo viene importata. Si può discutere se i dazi provocheranno o meno inflazione, visto che i dati ufficiali sull’occupazione sembrano indicare una recessione, tanto che Trump ha licenziato la responsabile delle statistiche. Quel che risulta certo è chi paga i dazi, cioè il contribuente più povero, quello che non può rivalersi su nessuno. All’opinione pubblica i dazi possono essere “venduti” in molti modi: ai più come rivalsa nazionale e, per coloro che hanno orecchiato qualcosa di economia, li si può persino spacciare come presunto contrappeso all’IVA degli europei.
I dazi li avevano imposti anche i predecessori di Trump, con meno clamore ma con motivazioni analoghe. Oggi Trump li ripropone in grande stile e con tariffe abbastanza irrealistiche e, nel contempo, ha prorogato e ampliato i tagli fiscali a favore delle imprese. Il carico fiscale è stato quindi trasferito sul contribuente povero, al quale tutto ciò è stato venduto come un progetto di grandeur nazionale dilazionato nel futuro.
In tutta Italia, nonostante le complicità sudice e corrotte di alcuni mezzi di comunicazione grandi e piccoli che senza vergogna coprono Israele, ormai la solidarietà verso il popolo di Gaza si muove in mille diverse forme, anche soltanto umanitarie.
Questo perché è ormai evidente che il popolo gazawi è martoriato con tecniche sempre più simili a quelle usate dal nazi-fascismo contro gli oppositori politici e le minoranze religiose ed etniche. A tal punto simili che chi ha studiato le peculiarità del Terzo Reich e le tecniche praticate contro i 17 milioni di internati nei campi di sterminio, ritrova nelle azioni dell’ IDF la stessa crudeltà "gratuita" dei militari nazisti addetti ai lager e lo stesso sadismo e l’identica vigliaccheria delle famigerate einsatzgruppen che si accanivano contro i civili inermi, in particolare donne e bambini.
Non ci sono croci uncinate sulle divise dei carnefici ma stelle di David, e lo Stato cui appartengono gode ancora, impropriamente, dell’appellativo di Stato democratico come ci ricordano servitori e valletti delegati a formare la pubblica opinione tra cui, tanto per fare un esempio, la graziosa Adriana Bellini che in un TG de La7, dando asetticamente notizia dell’uccisione quotidiana da parte di Israele di qualche decina di civili palestinesi (inermi e affamati) precisa però, che “come sappiamo tutti, Israele naturalmente è un paese democratico mentre Hamas è un’organizzazione terrorista”, come a dire che se hai l’etichetta giusta sulla divisa puoi trucidare impunemente decine di migliaia di esseri umani, tanto resti democratico!
La storia dell’umanità è stata anche caratterizzata da una ricorrente espropriazione, da parte di una minoranza della popolazione, dei beni comuni che appartengono a tutti. Negli ultimi secoli ciò è stato funzionale all’accumulazione capitalistica, a cominciare dalla privatizzazione delle terre. Gli Stati Uniti, nati dalla violenta appropriazione delle terre accudite collettivamente dai nativi, ne sono un esempio estremo. Ma anche in quella nazione ci sono ancora luoghi comuni, non interamente aggrediti dalla logica del profitto e preservati per il loro valore naturalistico. E anche, alcuni di essi e in tempi più recenti, per il significato che i nativi annettevano loro. Dal 1872, con la creazione del parco di Yellowstone, i territori protetti, diffusi in in 50 Stati degli USA, sono oggi più di 400, per un totale di 340.000 chilometri quadrati (più del territorio dell’Italia, che è di 302.000 chilometri quadrati). Ma non solo da oggi, e non solo col Partito Repubblicano al governo nazionale o dei singoli Stati dell’Unione, queste terre pubbliche hanno solleticato l’appetito del profitto privato. Innumerevoli sono state le lotte dei nativi, degli ecologisti, del popolo consapevole per difenderle da ripetuti tentativi di utilizzarle per il passaggio di oleodotti o per lo scavo alla ricerca di gas e petrolio.
Tali attacchi si sono drasticamente rafforzati col ritorno di Trump al governo e l’immediata nuova fuoriuscita degli USA dai già insufficienti accordi di Parigi contro l’emergenza climatica.
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La stragrande
maggioranza delle nazioni europee, stati membri di UE e NATO,
in prima fila nell’esortare il continente al riarmo per essere
pronti a combattere
i russi che entro pochi anni di certo invaderanno l’Europa
(fino a Lisbona come diceva qualche illustre opinionista
italiano), non dispongono di
forze da combattimento numericamente credibili e non sarebbero
in grado, in caso di guerra aperta, neppure di presidiare i
propri confini, figuriamoci
di difenderli.
Basta prendere le dichiarazioni roboanti dei diversi premier, ministri e in qualche caso di capi di stato maggiore o alti ufficiali (soprattutto in Nord Europa) e confrontarli con i dispositivi militari che queste nazioni “bellicose” sono in grado di mettere in campo oggi, cioè tre anni mezzo dopo l’inizio della guerra in Ucraina che, a dire di molti, vede i soldati di Kiev combattere anche per noi.
In molti casi, la consistenza degli strumenti militari di diverse nazioni europee si rivela un bluff, ancor più clamoroso se lo si affianca alla veemenza con cui esaltano il rischio di guerra con la Russia e la necessità di un massiccio riarmo, sollecitando e pressando politicamente le grandi nazioni europee che dispongono di forze armate quanto meno credibili nei numeri e nelle capacità.
Avvertenze
I dati citati in questo articolo provengono dal Military Balance 2025 dell’International Institute fior Strategic Studies. Nelle valutazioni non è stato tenuto conto delle riserve mobilitabili nei diversi paesi in caso di guerra.
Non si tratta di una dimenticanza ma della considerazione che i tempi di mobilitazione, addestramento e inserimento in prima linea dei riservisti richiedono nella miglior delle ipotesi molte settimane.
È presto per dire cosa porteranno i
prossimi sviluppi; ma vi è ragione di
considerare questo vertice storico, sullo sfondo del “cambio
di paradigma” internazionale che l’ascesa del Sud globale
sta portando
con sé.
Non c’è dubbio che il vertice di ferragosto tra i due presidenti, quello russo, Vladimir Putin, e quello statunitense, Donald Trump, passerà alla storia, ma forse non per le ragioni che diversi analisti e opinionisti hanno segnalato in recenti, articolati e interessanti, commenti. Per farsene un’idea, al di là delle forme del cerimoniale e del protocollo, pur interessanti (il piccolo applauso di Trump all’arrivo di Putin allo scalo, gli onori militari, il clima positivo dell’incontro, il passaggio del presidente russo sull’auto presidenziale statunitense, il primo intervento in conferenza stampa affidato all’ospite, Putin, anziché, come generalmente usa, al padrone di casa, Trump), è la sostanza di quanto detto in conferenza stampa a segnare carattere e misura degli sviluppi portati dal vertice. Con una premessa, a tal proposito: il carattere e la misura degli sviluppi delineano un quadro generale dei temi su cui si è registrato un consenso bilaterale di massima, un clima generale di ripresa delle relazioni bilaterali tra le due maggiori potenze nucleari del pianeta, non certo una piattaforma definita, dal momento che dettagli, circa i singoli temi e le singole questioni affrontate nell’incontro a due, non sono stati forniti.
Il vertice è iniziato, com’è noto, alle 11,30 ora di Anchorage (21,30 in Italia) il 15 agosto, ed è durato quasi tre ore nel formato a porte chiuse cosiddetto “tre e tre”: per la parte russa, il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov e il consigliere presidenziale Yuri Ushakov (oltre al presidente Putin); per la parte statunitense, Steven Witkoff e il Segretario di Stato Marco Rubio (oltre al presidente Trump).
L’esito più probabile sarà un temporaneo disgelo nelle
relazioni tra Stati Uniti e Russia, sebbene la più
ampia lotta geopolitica continuerà. E i veri perdenti
saranno l’Ucraina e l’Europa. Gli ucraini continueranno a
morire in una
guerra che non possono vincere, mentre gli europei
continueranno a pagarne il conto. Alla fine, anche loro
saranno costretti ad accettare un accordo
alle condizioni russe, ma solo dopo ulteriori sofferenze.
Anche in quel caso, l’Europa rimarrà intrappolata in una
relazione ostile e
militarizzata con la Russia, con il potenziale per un
rinnovato conflitto in qualsiasi momento. Nella migliore
delle ipotesi, il vertice in Alaska e
le sue conseguenze segnalano un temporaneo allentamento del
confronto in corso tra l’Occidente e l’emergente ordine
multipolare. Nella
peggiore, garantiranno che Europa e Ucraina continueranno a
pagare il prezzo di una guerra che gli Stati Uniti hanno già
scelto di lasciarsi
alle spalle.
* * * *
Sebbene l’incontro di questa settimana alla Casa Bianca tra Donald Trump, Volodymyr Zelensky e un gruppo di leader europei non abbia prodotto risultati tangibili, ha comunque segnato un passo importante verso la pace in Ucraina. Per la prima volta, il leader ucraino e i suoi omologhi in Europa hanno concordato di discutere della guerra sulla base della realtà sul campo, piuttosto che su illusioni. Fino a pochi mesi fa, l’adesione di Kiev alla NATO era considerata non negoziabile dalla diplomazia europea e dalla NATO stessa. Ora, non solo questa prospettiva sembra essere stata definitivamente accantonata, ma per la prima volta la discussione si è spostata dall'”integrità territoriale” dell’Ucraina a potenziali “concessioni territoriali”.
Nell’articolo per l’Antidiplomatico “Una Latinoamerica a fisarmonica”, passando rapidamente in rassegna il subcontinente tra resistenze e arretramenti, ho provato a spiegare la tragica involuzione di uno dei protagonisti del riscatto latinoamericano, la Bolivia di Evo Morales. L’esito, in questi giorni, del primo turno delle elezioni presidenziali e parlamentari decreta la fine di una delle esperienze più riuscite e trainanti per il resto della regione e del Sud Globale. Di questo pesantissimo arretramento di una nazione che si era proclamata binazionale, aveva assicurato l’alfabetizzazione, il ricupero delle risorse predate, l’istruzione, l’equità sociale, è complicato specificare le varie responsabilità. Resta quella più in vista, e ahinoi innegabile, dell’indio cocalero Evo Morales.
Lo incontrai, venuto in Bolivia per raccontare la vittoriosa “Guerra del agua”, con cui una battaglia di popolo sottrasse l’elemento ai monopolisti USA di Bechtel, alla vigilia del suo primo trionfo elettorale- Un risultato favorito dal nuovo vento che la rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez aveva fatto spirare per l’America Latina e che avrebbe rafforzato o favorito l’avvento di leadership progressiste come quelle dei Kirchner in Argentina, di Rafael Correa in Ecuador, Manuel Zelaya in Honduras, Daniel Ortega in Nicaragua, Lopez Obrador in Messico.
Per tre lustri la Bolivia percorse la via dell’emancipazione, della sovranità, dell’antimperialismo internazionalista, anche se, nella seconda decade del secolo, il vigore e la determinazione del passo s’erano andati affievolendo, frenati da divergenze interne alle organizzazioni sociali e da un crescente peso della burocrazia.
Tante
chiacchiere (molte in libertà), grandi proclami ma poco
pragmatismo e soprattutto pochi sviluppi
concreti sembrano essere emersi dagli incontri di Washington
tra i leader europei, Volodymyr Zelensky e Donald Trump.
Nei colloqui il presidente USA non ha lesinato elogi ai suoi interlocutori, da Zelensky a Rutte, von der Leyen, Starmer, Macron, Meloni, Merz e al presidente finlandese Stubb, ma se le parole spese sono state pure troppe, di contenuti se ne sono visti e sentiti davvero pochi.
Trump ha detto che ama gli ucraini (ma anche i russi) ed è stato molto ospitale con tutti i leader intervenuti, ha fatto persino un siparietto comico con Zelensky che per la prima volta è stato visto con addosso una giacca ma, per capire se si sono fatti passi avanti bisogna porsi domande molto concrete. E soprattutto cercare (a fatica) eventuali risposte.
In realtà una serie di incontri faccia a faccia con alcune sessioni di gruppo in cui a quanto pare Trump ha spiegato almeno due concetti chiave messi a punto in Alaska con Vladimir Putin, due passaggi fondamentali per arrivare alla pace ma che il leader ucraino e quelli europei si sono mostrati riluttanti ad accettare.
Nessuna tregua
Il primo è l’accettazione delle condizioni poste da Putin e sottoscritte da Trump che non ci sarà nessuna tregua o cessate il fuoco su cui imbastire lunghe trattative di pace mentre le truppe ucraine si riorganizzano dopo due anni di sconfitte consecutive.
Dopo gli accordi di Minsk per la pace in Donbass (“portati avanti per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di armarsi” come ammisero nel 2022 l’ex cancelliere Angela Merkel e l’ex presidente francese Francois Hollande), i russi non si fidano più degli europei e vogliono un accordo di pace che chiuda il conflitto “rimuovendone le cause profonde”.
“Dobbiamo avere una prospettiva
europea perché da soli non andiamo da nessuna parte”. “Non si
può tornare indietro
ai vecchi Stati-nazione”. Tali argomenti – o meglio slogan –
hanno insopportabilmente infarcito il dibattito, trovando il
pigro
consenso dei più stanchi luoghi comuni semicolti.
La questione, legata al dibattito sulla Ue e sull’euro, è diventata uno slogan da mulinare sulla testa degli avversari più che un assunto da valutare razionalmente e criticamente.
Oggi si può forse ragionare più serenamente, dato che nessun partito che abbia un minimo di potere nemmeno ventila la possibilità di scrollarsi di dosso il carrozzone eurounitario di fronte a cui ogni declinazione possibile di establishment (progressisti, liberali, conservatori, identitari…) si è genuflesso come di fronte ad un idolo. Anzi: si può provare a ragionare tout court, dato che la polemica e l’astio hanno tolto il terreno per una riflessione meditata, che pur sarebbe necessaria in una fase di riassestamento degli equilibri geopolitici; situazione opportuna per eventuale ridefinizione della politica estera del paese, purché si abbia qualche idea.
Se non li convinci spaventali
Il punto di partenza non può che consistere nella modestia dell’argomento per cui “l’Italia è troppo piccola per fare da sola”; si tratta semplicemente di una pedata nei denti contro chiunque mettesse in questione l’aderenza dell’Italia alla Ue.
Naturalmente vi erano argomenti diversi pro-Ue. Una linea di argomentazioni “alte” era piuttosto elitista: l’integrazione europea sarebbe il vertice di un processo secolare di crescente avvicinamento dei popoli europei, un destino storico volto alla fratellanza e basato su una base di cultura condivisa. Argomentazione da progressismo colto e professorale, poco adatto alle orecchie di ceti in sofferenza sociale che piuttosto che l’europeismo ideale tastano con mano l’austerità reale.
I peggiori di tutti…
Il vento d’Alaska fa male all’Europa guerrafondaia. Fa male alla sua stampa, ai suoi governi, ai suoi partiti. Ma fa ancora più male agli eurosinistrati.
Tutti i giornaloni del Vecchio continente hanno raccontato la favola di “un vertice fallito”, di un “Trump sottoposto a Putin”, di una “intesa tra autocrati”, che però non avrebbe “prodotto nulla” visto che “non c’è la tregua”. Ma come! Non avevano forse detto, proprio loro, che le scelte spettavano al suonatore di piano di base a Kiev? Bene, di cosa si lamentano adesso?
Proprio insieme a lui, alcuni caporioni europei oggi andranno a Washington a implorare il loro principale: che la guerra continui a tutti i costi! Ecco l’Europa reale chiamata Ue, quella che dicevano esser venuta al mondo per porre fine alle guerre…
* * * *
Da vent’anni non leggiamo più il Manifesto, superfluo spiegare il perché. Ma oggi abbiamo deciso di fare un’eccezione, certi di trovare in quelle pagine l’allineamento con i giornaloni di cui sopra. La conferma, cioè, di una deriva senza fine. Da questo punto di vista la spesa una tantum di 2 euri è stata ampiamente compensata dalla lettura delle prime quattro pagine.
L’ex generale David Petraeus, ex comandante in Iraq e Afghanistan ed ex Direttore della CIA, in questo articolo per The National Interest, rende abbastanza chiaro perché l’amministrazione americana stia cercando di far finire la guerra in Ucraina. La dimensione strategica generale dello scontro è il ruolo di “laboratorio” per la Cina. Come mostra l’autorevole osservatore la Cina è il principale “facilitatore economico e industriale” della Russia, ma anche il fornitore di sistemi militari dei quali valuta in questo modo l’efficacia in una guerra ad alta intensità contro tattiche e materiali Nato. In tal modo può acquisire, senza perdere un uomo o un mezzo (anzi, vendendoli), cruciali informazioni e, in tal modo, con le sue parole “perfezionare i concetti che utilizzerà per guidare lo sviluppo delle proprie armi, l’addestramento militare e le strutture organizzative”. A parere dello scrittore ormai Pechino “funge da spina dorsale logistica del complesso militare-industriale russo”. Microelettronica, macchine utensili ed esplosivi per i proiettili, Con il supporto cinese i russi si apprestano a produrre entro l’anno in corso l’incredibile cifra di due milioni di droni di attacco avanzati a FPV (controllo immersivo in prima persona). Il punto è che queste forniture messe alla prova delle capacità avanzate di difesa, fisica ed elettronica, fornite dall’occidente all’Ucraina, consentiranno di produrre nuove generazioni di armi.Petraeus aggiunge che tutte le informazioni convergono in un sistema centralizzato di gestione che è in grado di “rispondere molto più rapidamente della burocrazia degli appalti dell’era industriale degli Stati Uniti”.
I caccia F-35 Lightning II
dell’USAF che scortano l’Ilyushin Il-96-300PU presidenziale
sul quale viaggia il presidente russo Vladimir Putin di
rientro in patria dopo
il vertice con Donald Trump in Alaska, rappresentano
pienamente, con la sua simbologia, il successo del summit tra
i due presidenti.
La degna conclusione di un evento caratterizzato, come sottolineano i media russi, da una “accoglienza storica” riservata al presidente russo dal tappeto rosso al sorvolo d’onore di un “flight” militare composto da un bombardiere B-2 Spirit e alcuni F-35 fino al trasferimento dei due presidenti a bordo della limousine presidenziale americana, “The Beast”.
Particolari che suggellano e ostentano il rilancio dell’amicizia, non solo delle relazioni, russo-americane. Un successo solo per Russia e Stati Uniti però, come avevamo previsto ieri nell’editoriale in cui a quanto pare abbiamo ipotizzato correttamente i possibili sviluppi dell’incontro.
Cooperazione a tutto campo
Pochi i dettagli emersi finora ma nelle dichiarazioni rese alla stampa (otto minuti e mezzo ha parlato Putin, meno di 4 minuti Trump) l’aspetto più rilevante è sembrato quello del rilancio delle relazioni bilaterali sul piano strategico (Artico e nucleare), economico (sanzioni e dazi) e politico.
Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha detto ieri di aspettarsi che gli USA revochino alcune sanzioni alla Russia. “Ne toglieranno qualcuna, questo è certo“, ha detto Lavrov. Ne sapremo presto di più circa questo rilancio che aveva preso il via già negli incontri in Arabia Saudita tra Marco Rubio e Sergei Lavrov e che si era concretizzato in luglio nel rilancio della cooperazione spaziale.
Negli ultimi anni ci hanno riempito la testa (o provato a farlo), con la parola, scritto e ogni altro mezzo di diffusione, con una serie di slogan all’insegna di una “Russia isolata”, di un “Putin malato”, di una “sconfitta strategica di Mosca”, e vi risparmiamo, per carità di patria, quelli riferiti alle sanzioni. Ora come allora, per lo meno nel cosiddetto Occidente libero, chiunque si azzardasseanche solo a esprimere dubbi o riserve riguardo a questa narrazione si trovavaimmediatamente esposto al pubblico ludibrio, vedendosi attribuite etichette, inventate di sana pianta, di “filo russo” o “filo putiniano”.
Il vertice di Ferragosto fra il presidente statunitense Donald Trump e quello russo Vladimir Putin, fortemente voluto e promosso dal primo, potrebbe spazzare via, in tempi assai rapidi, questo clima da caccia alle streghe, che ha spadroneggiato nel mondo dei conformisti i quali per convinzione o per interesse, hanno sposato una versione quantomeno parziale delle origini e fattori scatenanti del conflitto in Ucraina, cancellando proditoriamente tutto quel che aveva preceduto la data del 24 febbraio 2022.
L’incontro ha avuto come cornice la base militare di Elmendorf-Richardson, organizzato in tempi molto rapidi, ma preceduto da diversi contatti preliminari, a cominciare dalla prima telefonata tra i due presidenti del novembre scorso: il suo significato, per ora, risiede forse più negli aspetti formali, che sostanziali.
Come si poteva immaginare l’incontro in Alaska fra Trump e Putin non ha sortito effetti miracolosi, è stato solo il primo dei vertici in cui verrà discusso l’insieme delle relazioni fra Russia e America e di conseguenza tra i Brics e l’Occidente. Questo risultato era ampiamente prevedibile ma è stato comunque un disastro per il partito della guerra che si attendeva o un consenso della Russia a un cessate il fuoco incondizionato, tale da dare un po’ di respiro e rifornimento all’esercito ucraino ormai esausto, oppure un inasprimento delle relazioni che portasse di nuovo fiumi di armi verso il regime di Kiev e l’ometto che recita la parte di gestore della strage in conto terzi. Per i signori e per gli straccioni della guerra, il vertice nelle remote vicinanze dell’Artico, ha sortito l’effetto peggiore possibile, ovvero quello di mettere tra parentesi il conflitto ucraino per ristabilire relazioni con la Russia che Obama, il nobel per la pace, aveva a suo tempo chiuso. Per giunta il dipartimento di Stato ha annunciato la prossima uscita di un rapporto sulle violazioni dei diritti umani da parte di Zelensky. Magari qualcuno a Londra, Berlino o Parigi comincia a tremare riguardo alle varie stragi organizzate ad arte per dare la colpa ai russi.
È ovviamente impossibile in questo momento sapere cosa nel complesso si siano detti Trump e Putin, quali siano stati gli argomenti affrontati, ma quando il leader russo è comparso serio e rilassato a fare le sue dichiarazioni senza citare il cessate il fuoco e quando nemmeno The Donald ne ha parlato, il mondo di cartapesta dei media mainstream accorso come un fiume di salmoni alle acque natie, si è accartocciato su se stesso come una foglia morta.
Sotto l’aurora boreale dell’Alaska, Russia e Stati Uniti hanno delineato i contorni di un mondo riorganizzato, senza l’Europa al tavolo delle trattative, posizionando la Russia come un attore importante nella sicurezza europea
Il 15 agosto 2025, Donald Trump e Vladimir Putin si sono incontrati presso la base aerea di Elmendorf-Richardson in Alaska per uno storico vertice sulla guerra in Ucraina. Questo incontro, il primo di persona tra i due leader dal 2019, si è svolto in un contesto diplomatico meticolosamente preparato, dimostrando la volontà della Russia di partecipare pienamente a un dialogo strategico di alto livello, con compostezza e responsabilità, in un contesto geopolitico complesso e polarizzato. Le richieste russe hanno strutturato l’agenda: il riconoscimento delle realtà territoriali in Ucraina, la neutralità di Kiev nei confronti della NATO, la riduzione degli schieramenti militari occidentali ai confini russi e garanzie per le popolazioni russofone. A ciò si sono aggiunte chiare richieste economiche, come la reintegrazione nel sistema SWIFT e la revoca delle sanzioni. Putin, definendo i colloqui “costruttivi”, ha sottolineato l’urgenza di risolvere una crisi che ha descritto come un “profondo dolore” per la Russia, avvertendo al contempo che la pace dipenderà dalla flessibilità di Kiev e dei suoi sostenitori.
I punti chiave della conferenza stampa al vertice russo-americano in Alaska
Il presidente russo ha elogiato il clima “costruttivo e rispettoso” dei negoziati, sottolineando la qualità degli scambi diretti con Donald Trump.
“Dormono nello stesso letto ma hanno sogni diversi”: l’antico proverbio cinese sembra adattarsi perfettamente al vertice fra Putin e Trump, oggi in Alaska.
Si adatta anche alle consultazioni preparatorie che il Presidente ha avuto mercoledì in video-conferenza con Zelensky e i Volonterosi europei (Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Polonia, Finlandia, Commissione Ue). Trump sogna di essere beatificato come costruttore di pace. Gli europei e Zelensky sognano una tregua seguita da ritirata russa, e soldati occidentali in Ucraina che mantengano la pace. Putin sogna la fine dell’aggressività Nato ai propri confini. Dietro questo guazzabuglio di sogni la dura realtà dei fatti, indigesta per gli Occidentali: la Nato ha perduto questa guerra europea, e ora tocca gestire la disfatta fingendo che non sia tale.
Fino all’ultimo i governi europei hanno provato a sabotare l’incontro, anche se ieri si sono detti molto soddisfatti e rassicurati da Trump. Ma le idee che si fanno della fine della guerra sono incoerenti e non coincidono con le realtà militari. Nel comunicato del 9 agosto, la Coalizione dei Volonterosi afferma che il negoziato dovrà svolgersi “a partire dalla linea di contatto” fra i due eserciti. Dunque dovrà tener conto dell’avanzata russa nel Sud-Est ucraino, e del controllo di Mosca sulle quattro province annesse dalla Federazione russa.
Che la fede nella scienza sia oggi diventata tanto o addirittura più popolare di quella nella religione, è un fatto abbastanza evidente. Purtroppo però la scienza sta oggi assumendo due delle peggiori tendenze che le religioni hanno spesso manifestato, quelle che in epoca moderna hanno causato la loro perdita di credibilità: imporre dogmi e diventare centri di potere.
L’ultimo episodio che conferma lo sviluppo di queste due tendenze verso una vera e propria dittatura scientifica, con tutto ciò che questo comporta in tema di libertà di opinione e di scelta, è dimostrato dalla levata di scudi contro la nomina da parte governativa di due scienziati reputati no-vax nell’ambito del Nitag (National immunization technical advisory group), il “Gruppo consultivo nazionale sulle vaccinazioni”, istituito nel 2021 allo scopo di «supportare, dietro specifica richiesta e su problematiche specifiche, il Ministero della Salute nella formulazione di raccomandazioni evidence-based1 sulle questioni relative alle vaccinazioni e alle politiche vaccinali, raccogliendo, analizzando e valutando prove scientifiche».
A chiedere la revoca dell’incarico al prof. Paolo Bellavite ed al pediatra dott. Eugenio Serravalle, sono stati alcuni organismi associativi, espressione politica della categoria medica e sanitaria: per “espressione politica” intendiamo, a scanso di equivoci, il fatto che questi organismi dichiarano di tutelare gli interessi di tali categorie, al tempo stesso definendo le regole cui i professionisti stessi devono a loro avviso attenersi.
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La partita dei dazi fra Usa e Ue si è
giocata non a caso a Turneberry, in uno dei campi
di golf di proprietà di Trump e si può tranquillamente dire
che è stata una debacle per gli interessi europei.
Ci vuole
una buona dose di faccia tosta per affermare, come ha fatto
Ursula Von der Leyen, che si è trattato di un risultato
“enorme”
corrispondente al “massimo” che si sarebbe potuto ottenere.
Tanto più che si era partiti da dichiarazioni da un lato
ottimistiche,
dall’altro bellicose. Le prime facevano credere che si potesse
puntare a un risultato finale sul tipo di uno “zero per zero”.
Le
seconde che si poteva percorrere la strada di una guerra
commerciale di non breve durata. La prima ipotesi è stata
subito bersagliata
dall’aggressività spavalda di Trump che ha continuamente
alzato l’asticella delle tariffe doganali. Una tattica del
continuo rialzo
che però già prevedeva un punto di caduta. Esattamente quel
15% che aveva trovato già una sua applicazione nel confronto
con il
Giappone e che in quello con la Ue rappresenta una indubbia
vittoria tutt’altro che solo simbolica da parte di Trump.
Va sempre considerato che la guerra dei dazi è stata cominciata dal tycoon all’interno di una più ampia strategia di politica economica e finanziaria giocata a livello internazionale. E’ quanto sta scritto nel corposo documento del novembre del 2024, stilato dal suo principale consigliere economico, Stephen Miran, che suggerisce all’Amministrazione americana di alternare il “bastone e la carota” (testuale nel paper citato) nei rapporti con i vari paesi sullo scenario internazionale. In questa visione l’applicazione dei dazi e la loro ipertrofica minaccia preventiva, costituisce il bastone, mentre la carota sarebbe rappresentata dalla continuazione di una protezione militare, o meglio la rinuncia a un totale o parziale abbandono della stessa. Qui emerge già un primo elemento che pone fin dall’inizio in vantaggio la posizione negoziale (si fa per dire) di Trump.
Come spesso è
accaduto da quando è iniziata la guerra russo-ucraina, la
situazione è grave ma
non seria, come sta dimostrando il dibattito sulle garanzie di
sicurezza da offrire Kiev.
Garanzie necessarie in un ipotetico scenario futuro in cui un’ipotetica pace si instauri tra Mosca e Kiev in seguito a un ipotetico accordo di cui al momento non si vedono i presupposti, neppure quelli ipotetici considerato che l’Ucraina non ha accettato di cedere i territori perduti e già in mano ai russi, prima condizione per portare Mosca al tavolo delle trattative.
I leader europei sono rientrati esultanti da Washington tra lo scetticismo di molti osservatori che, come Analisi Difesa, hanno cercato di valutare gli eventi con un approccio pragmatico.
Il giornale web americano Politico evidenzia infatti che vi sono profonde divergenze tra gli alleati occidentali sul tipo di garanzie di sicurezza da offrire all’Ucraina.
Nella sua edizione europea, Politico sottolinea come, nonostante le pressioni del presidente statunitense Donald Trump e l’apertura a protezioni simili all’articolo 5 della NATO” come proposto dall’Italia, non sono stati definiti ne’ il perimetro ne’ le modalità di attuazione di tali garanzie.
Durante l’incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i leader europei del 18 agosto, Trump ha escluso l’invio di truppe statunitensi in Ucraina, lasciando l’onere agli alleati europei. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha confermato l’impegno a lavorare a una “forza di rassicurazione” da schierare in caso di cessazione delle ostilità. Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di una missione congiunta con Regno Unito, Germania e Turchia, ma i dettagli restano vaghi, precisa Politico.
Fonti europee riferiscono che gli scenari ipotizzati prevedono un possibile mandato di combattimento per le truppe occidentali, senza però attribuire loro il compito di far rispettare la pace. Concetto non molto chiaro che sembra sottintendere che la responsabilità militare resterebbe alle forze armate ucraine.
Il libro, curato da Massimo Roccaforte, Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua, i testi e le musiche (Interno4, Rimini 2024), ha richiesto più di cinque anni di ricerca da quando è stato pensato e poi pubblicato. Le parole e le musiche suonate e cantate dal Canzoniere del Proletariato e dal gruppo del Canzoniere pisano prima, tornano alla luce nella loro versione originale grazie a un lavoro di gruppo che ha coinvolto tra gli altri, oltre al curatore, Luigi Manconi, Pino Masi, Piero Nissim, Antonio Giordano, Giuseppe Barbera, Piero Lanfranco, Alessandro Portelli ed Emiliano Sisto dell'archivio La Lunga Rabbia. Insieme alle 41 canzoni, raccolte e rimasterizzate in due CD, il libro contiene la riproduzione delle grafiche dei dischi originali, i testi delle canzoni, alcuni scritti critici e alcune strisce di fumetti di Roberto Zamarin dedicate al suo protagonista Gasparazzo. Particolarmente interessanti i contributi utili a ricostruire il clima di quel tempo agitato, come il saggio Canti della lotta dura, curato da Piero Nissim, il reperto del Canzoniere del Proletariato di Pino Masi, l’articolo di Alessandro Portelli estratto dal libro La chitarra e il potere, che collocano criticamente il contributo delle canzoni di protesta nella storia culturale italiana.
Cantautori proletari
Il testo è dedicato alla memoria di Alfredo Bandelli, un operaio che faceva il cantautore e firmava le sue canzoni con la dicitura “Parole e musica del proletariato” e a Sergio Martin, uno dei promotori dei Circoli Ottobre, l’associazione culturale promossa da Lotta Continua per l’organizzazione di concerti, spettacoli teatrali e cinematografici, con una propria etichetta discografica, uno dei primi esempi di autoproduzione e autogestione musicale.
Schillaci fa il NITAG, Schillaci sfa il NITAG.
In mezzo e dopo, il teatro.
Un teatro costruito su una vicenda marginale, come spesso capita in agosto.
Una settimana di ferragosto in cui, come palline da ping pong, rimbalzavano su tutti i media italiani "scienza" e i suoi derivati: io scienzio, tu scienzi, egli antiscienza, essi comunità scientifica.
Bellavite protestava: non sono un no-vax, ma uno scienziato (si, ok...). Poi FNOMCeO (Associazione di ordini professionali), comunità scientifica, Società Italiana di Pediatria (associazione medica), comunità scientifica. Parisi, premio Nobel per la Fisica, comunità scientifica, anche se parla di sanità o medicina - ma quando si accetta il ruolo di uomo immagine dell'iperrealtà scientifica questo è. E poi i grandi classici: la lettera o la corrispondenza su una rivista internazionale, e anche questa volta chi scrive è italiano - i precedenti in tempi di COVID (BMJ) e all'epoca dell'obbligo vaccinale pediatrico (tante se ne videro tra 2017 e 2018). Lo schema è sempre lo stesso, lettera a Lancet o a Nature in inglese, sì, ma per parlare al dibattito italiano, anche perché per gli anglofoni la cosa non è che in generale sia quella più interessante del mondo. Tutto armamentario già usato per questioni di ben altro spessore.
La situazione dell’Unione Europea davanti alla guerra in Ucraina è molto simile a quella di un investitore di piccolo taglio davanti al calo di prezzo dei titoli azionari su cui ha puntato: vendere (fare la pace) accettando di formalizzare perdite sostanziose oppure “tenere” (continuare la guerra) sperando che i prezzi risalgano?
A guardare l’ostinazione acefala con cui si insiste – anche dopo il maltrattamento subito a Washington dal loro “alleato-padrone” – a ripetere sempre le stesse richieste (cessate il fuoco prima di trattare, nessuna cessione di territorio, altre sanzioni contro Mosca, ecc) effettivamente si ha l’impressione di vedere in azione degli idioti irrimediabili.
Ovviamente, nonostante la loro infima “statura da statisti”, non sono affatto degli idioti, ma se non altro dei furbastri che sono stati capaci di arrivare al vertice dei rispettivi paesi sfruttando meglio dei concorrenti le opportunità fornite da “donatori importanti”.
Il problema nasce dal fatto che anche tutti insieme continuano a contare come se ognuno fosse comunque “da solo”, ovvero dal fatto che il progetto europeo era sostanzialmente sbagliato (facciamo prima l’unità economica – peraltro basata sulla competizione interna – poi quella monetaria ma non quella fiscale e bancaria, poi quella politica e militare, anzi no, ci si arma ognuno per conto suo).
“Tutti gli schemi
della politica sono anticipati dalla teologia”. Questa frase
particolarmente intelligente l’ha pronunciata qualche tempo
fa, udite udite,
Pier Luigi Bersani in una trasmissione TV su La7. Quando si
dice che anche l’orologio rotto due volte al giorno segna
l’ora esatta.
Infatti, come dargli torto? Anzi, c’è da stupirsi che ogni
tanto nei talk show televisivi si riescano a
formulare frasi
“eretiche” come queste. Ovviamente il conduttore (in questo
caso Floris) si è guardato bene dal cercare un approfondimento
sul
punto “teologico-politico” (l’unico che sarebbe stato
opportuno indagare). Infatti, è facile dire che esiste una
connessione
fra “mondo religioso” e “mondo politico”; difficile è, invece,
riconoscere quali siano gli effettivi rapporti vigenti
fra questi due mondi, che solo apparentemente risultano
distanti e contrapposti.
Nel libro Cristo in Politica: per un’allegra rivoluzione, pubblicato quest’anno con le Edizioni Paoline, ci siamo interrogati a fondo sulla qualità del tempo apocalittico che stiamo vivendo. In questo testo abbiamo sottolineato l’urgenza di ritrovare una chiave di lettura filosofico-politica che sia all’altezza delle sfide antropologiche attuali. D’altronde, se è vero che l’Unione Europea si trova umiliata quotidianamente dalla Russia e dagli Stati Uniti, come spesso ribadisce Alessandro Orsini nei suoi interventi pubblici; se è vero che il genocidio che si sta compiendo ormai da più di due anni in Palestina non sarà affatto un caso isolato ma, come denuncia Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni Unite, è destinato a diventare il solo e unico modo che questo Sistema criminale della guerra ha per gestire le masse; se — in ultimo — è vero, come vediamo ogni giorno, che né il diritto internazionale né l’Onu riescono ad arginare le follie disumane del governo israeliano, che non solo bombarda a suo piacimento gli altri Stati vicini, sfruttando le faglie economiche e morali interne al governo Trump, ma arriva perfino a sparare contro i civili affamati in cerca di cibo nelle zone preposte agli aiuti umanitari, come denunciato dall’inchiesta di Haaretz; se tutto questo è vero, ed è purtroppo vero, allora studiare scientificamente ed economicamente le cause di un imbarbarimento politico-antropologico così evidente può essere utile ma di sicuro non sufficiente.
Certamente i
palestinesi non sono responsabili dello sterminio degli ebrei
e, pertanto, non può essere invocato contro di loro. D’altra
parte, stiamo
assistendo ogni giorno al massacro dei palestinesi, ridotti
ormai a dei cadaveri viventi, i cui figli malnutriti se non
moriranno non si riprenderanno
mai. Eppure, si insiste nel negare la parola genocidio,
nonostante le esplicite dichiarazioni dei leader israeliani
che intendono fare di Gaza tabula
rasa. Per un paradosso storico gli stessi poteri che non
mossero un dito per salvare gli ebrei dai campi di sterminio,
cui sfuggirono pochi fortunati,
stanno ora collaborando con Israele nel massacro dei
palestinesi.
Molto rumore e scandalo suscitarono, vari anni fa, le dichiarazioni rilasciate in differenti occasioni dall’allora presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, in particolare quando, invitato a tenere una conferenza alla Columbia University di New York nel 2007, affermò che a suo parere si dovrebbe ancora indagare sull’olocausto degli ebrei avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale. Traggo questa informazione da un articolo di Shlomo Shamir pubblicato da Haretz il 25 settembre 2007. Naturalmente, questa sua affermazione suscitò molte proteste negative tra i presenti e il presidente dell’università, Lee Bollinger, intervenne definendo il presidente un “dittatore meschino e crudele”. A quella considerazione Ahmadinejad avrebbe aggiunto, che lo Stato sionista (avrebbe sempre usato questa espressione) ha sempre utilizzato le sofferenze subite per giustificare le sofferenze inflitte ai palestinesi, chiedendosi perché questi ultimi debbono pagare il prezzo di un crimine che non hanno commesso né potevano commettere?
Mi rendo conto che si tratta di un argomento molto delicato e complesso e che certo nessuno può negare l’olocausto che, tuttavia, come sappiamo, non riguardò solo gli ebrei, ma anche altri gruppi etnici (rom, slavi etc.), invalidi, dissidenti politici, etc. D’altra parte, scorrendo anche la stampa dell’epoca, non è facile stabilire cosa intendesse dire effettivamente Mahmoud Ahmadinejad in tutte quelle occasioni in cui fu invitato a parlare in Occidente.
In molti hanno notato che “Ferragosto in Alaska” era un titolo che si adattava più a un film con Christian De Sica e Massimo Boldi che a un evento storico. C’è inoltre un diffuso scetticismo sulla possibilità che Trump riesca a mantenere i canali di trattativa eventualmente aperti con la Russia sui dossier comuni, compresi l’Artico e il controllo nucleare. Pare che lo stesso Putin non creda alla possibilità degli USA di mantenere accordi, cioè di esprimere una continuità istituzionale. Nella conferenza stampa finale Putin ha accettato di compiacere l’ego di Trump avallando il suo mantra, secondo il quale se ci fosse stato lui alla presidenza al posto di Biden, la guerra in Ucraina non sarebbe mai scoppiata. Putin non è il grande statista che molti hanno vagheggiato, ma è comunque un vero professionista della politica e della diplomazia, perciò da parte sua appare strana una deroga così smaccata dal codice di comportamento istituzionale, in base al quale occorrerebbe evitare di esprimere giudizi e fare confronti sui capi di Stato degli altri paesi. Secondo il luogo comune, la politica russa sarebbe molto legata a certi formalismi giuridici, invece Putin stavolta li ha tranquillamente ignorati. Certe sbracate ce le si poteva aspettare da un lobbista e dilettante della politica come Mario Draghi, il quale nel 2021 non si limitò a elogiare il presunto europeismo di Biden, ma si lasciò andare a critiche sul suo predecessore Trump.
A fondamento dei rapporti istituzionali dovrebbe esserci la funzione, che prevale sulle persone che la esercitano di volta in volta. Questo filo di continuità nella funzione, al di là e al di sopra della caducità delle persone, sarebbe appunto lo Stato.
Nonostante le affermazioni dell’amministrazione Trump sul successo dell’incontro di lunedì con Zelensky e la delegazione europea dei papponi, le prospettive di un negoziato di successo per porre fine alla guerra in Ucraina sono pari a zero. Trump continua a credere erroneamente di dover semplicemente riunire Putin e Zelensky, che poi troveranno un accordo. Trump si basa sulla falsa convinzione che la guerra in Ucraina sia stata causata in parte da uno scontro personale tra Putin e Zelensky. Putin è stato molto chiaro sul fatto che incontrerà Zelensky solo una volta concordati i dettagli della resa ucraina. Trump ritiene inoltre che si tratti solo di una disputa territoriale e che lo scambio di territori sia fondamentale per raggiungere un accordo di pace. Anche in questo caso, Trump dimostra una profonda ignoranza riguardo allo status giuridico delle repubbliche di Zaporizhia e Kherson secondo la Costituzione russa. Putin non può concedere nulla di quel territorio all’Ucraina, così come Trump non può restituire l’Alaska alla Russia.
Ma c’è una buona notizia: nonostante Trump ignori le ragioni per cui la Russia ha avviato l’Operazione Militare Speciale (SMO) nel febbraio 2022, è sincero nel voler ristabilire il dialogo e le normali relazioni diplomatiche con la Russia… almeno questo è ciò che credono i russi. Durante il mandato di Biden, le comunicazioni con la Russia si sono interrotte nel gennaio 2022. Ora hanno qualcuno con cui parlare… in realtà diverse persone, tra cui Trump, Rubio, Ratcliffe e Witkoff.
L’incontro tra Trump e Zelensky e quello successivo nel quale al presidente ucraino si sono uniti i leader europei, che si sono precipitati a Washington per evitare che il presidente ucraino cedesse alle richieste dell’ospite e per far vedere che contano ancora qualcosa (in realtà, di per sé contano nulla) è andato bene, nel senso che segna un punto di partenza per un accordo tra Russia e Ucraina.
Lo dice l’imbarazzo successivo degli ospiti della Casa Bianca, lo dicono i media mainstream che a stento trattengono la rabbia per l’ingerenza indebita dell’inquilino della Casa Bianca, determinato a rompere un gioco sanguinario che dura da oltre tre anni e che ha garantito un lucro crescente a tanti.
Su quanto accaduto a Washington l’analisi più convincente arriva da Strana. Secondo il media ucraino, in Alaska Trump e Putin avevano raggiunto degli accordi di massima su tre punti. Anzitutto che fosse abbandonata l’idea del cessate il fuoco come avvio necessitato dei negoziati per negoziare, invece, subito un’intesa globale e duratura. Inoltre, che Kiev ricevesse garanzie di sicurezza e che i russi mantengano il controllo su parte del territorio ucraino.
Quando Trump aveva riferito agli europei e a Zelensky l’esito dell’incontro con Putin, continua Strana, la loro reazione “sui primi due punti è stata nettamente negativa. Mentre sul terzo […] hanno proposto di stanziare truppe europee in Ucraina, cosa che Mosca aveva già respinto come del tutto inaccettabile”.
Il libro, curato da Massimo Roccaforte, Il canzoniere del proletariato. Le canzoni di Lotta Continua, i testi e le musiche (Interno4, Rimini 2024), ha richiesto più di cinque anni di ricerca da quando è stato pensato e poi pubblicato. Le parole e le musiche suonate e cantate dal Canzoniere del Proletariato e dal gruppo del Canzoniere pisano prima, tornano alla luce nella loro versione originale grazie a un lavoro di gruppo che ha coinvolto tra gli altri, oltre al curatore, Luigi Manconi, Pino Masi, Piero Nissim, Antonio Giordano, Giuseppe Barbera, Piero Lanfranco, Alessandro Portelli ed Emiliano Sisto dell'archivio La Lunga Rabbia. Insieme alle 41 canzoni, raccolte e rimasterizzate in due CD, il libro contiene la riproduzione delle grafiche dei dischi originali, i testi delle canzoni, alcuni scritti critici e alcune strisce di fumetti di Roberto Zamarin dedicate al suo protagonista Gasparazzo. Particolarmente interessanti i contributi utili a ricostruire il clima di quel tempo agitato, come il saggio Canti della lotta dura, curato da Piero Nissim, il reperto del Canzoniere del Proletariato di Pino Masi, l’articolo di Alessandro Portelli estratto dal libro La chitarra e il potere, che collocano criticamente il contributo delle canzoni di protesta nella storia culturale italiana.
Cantautori proletari
Il testo è dedicato alla memoria di Alfredo Bandelli, un operaio che faceva il cantautore e firmava le sue canzoni con la dicitura “Parole e musica del proletariato” e a Sergio Martin, uno dei promotori dei Circoli Ottobre, l’associazione culturale promossa da Lotta Continua per l’organizzazione di concerti, spettacoli teatrali e cinematografici, con una propria etichetta discografica, uno dei primi esempi di autoproduzione e autogestione musicale.
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Pino Arlacchi: Il falso mito della Cina capitalista e gli occhi strabici dell’Occidente
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Paolo De Prai: Le tre vite del sionismo (e i suoi supporter italici)
Kit Klarenberg denuncia come l’Occidente abbia trasformato i ‘diritti umani’ in un’arma dopo gli accordi di Helsinki, trasformando un’idea nobile in uno strumento per regime change, sanzioni e guerre imperialiste.
Il 1° agosto ha segnato il 50°
anniversario della firma degli Accordi di Helsinki. Il
giubileo d’oro dell’evento è trascorso senza grandi commenti o
riconoscimenti da parte del grande pubblico. Eppure, la data è
assolutamente ‘sismica’, le cui conseguenze distruttive si
ripercuotono ancora oggi in tutta Europa e oltre. Gli Accordi
non solo hanno sancito la condanna a morte dell’Unione
Sovietica, del Patto di
Varsavia e della Jugoslavia anni dopo, ma hanno anche creato
un mondo nuovo, in cui i ‘diritti umani’ – in particolare, una
concezione occidentale e imposta – sono diventati un’arma
formidabile nell’arsenale dell’Impero.
Gli Accordi miravano formalmente a concretizzare la distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In base ai loro termini, in cambio del riconoscimento dell’influenza politica di quest’ultima sull’Europa centrale e orientale, Mosca e i suoi satelliti del Patto di Varsavia accettarono di sostenere una definizione di ‘diritti umani’ che riguardasse esclusivamente le libertà politiche, come la libertà di riunione, espressione, informazione e movimento. Le tutele di cui godevano universalmente gli abitanti del blocco orientale – come la garanzia di istruzione gratuita, lavoro, alloggio e altro – erano del tutto assenti da questa tassonomia.
C’era un altro inconveniente. Gli Accordi portarono alla creazione di diverse organizzazioni occidentali incaricate di monitorare il rispetto dei termini da parte del Blocco Orientale, tra cui Helsinki Watch, precursore di Human Rights Watch. Successivamente, queste entità visitarono frequentemente la regione e strinsero stretti legami con le fazioni politiche dissidenti locali, supportandole nelle loro attività di agitazione antigovernativa. Non si parlava nemmeno di invitare rappresentanti dell’Unione Sovietica, del Patto di Varsavia o della Jugoslavia a valutare il rispetto dei ‘diritti umani’ in patria o all’estero da parte degli Stati Uniti o dei loro vassalli.
Un racconto, da dentro, della progressiva fascistizzazione della scuola italiana: l’insegnamento diventa apprendimento. Anzi, addestramento. E affonda pericolosamente nel peggiore passato
Da diversi anni ormai
l’insegnamento, derubricato semanticamente ad apprendimento,
è entrato all’interno di una riflessione che
apparentemente è ammantata di ragioni pedagogiche, ma in
realtà risulta completamente asservita al mercato e a logiche
neoliberiste che
tendono a valorizzare la misurazione e la standardizzazione
dei prodotti finali. Questa omologazione ideologica degli
alunni e delle alunne è
il risultato della messa a punto di un sottile dispositivo
di controllo dell’educazione, di cui i docenti,
nell’ubriacatura della
novità didattica, pedagogica e tecnologica, finiscono per
divenire complici, diventando mere esecutori materiali,
valutatori di un processo di
apprendimento scritto altrove e da altri soggetti,
estranei alla crescita intellettuale che deve proliferare
all’interno delle scuole e
delle università.
Distratte e distratti dall’urgenza di rincorrere l’innovazione pedagogica e la tecnica didattica all’ultimo grido per rendere più accattivante e ammaliante l’oggetto dell’apprendimento e raggiungere la specifica competenza da certificare, gli e le insegnanti smarriscono il senso politico ed esistenziale del progetto educativo e vengono spinti ad abdicare alla consapevolezza di essere soggetti fondamentali nel passaggio dei ragazzi e delle ragazze alla vita adulta, come mostra in maniera magistrale Gert J.J. Biesta nel suo Riscoprire l’insegnamento. E proprio in questo vuoto progettuale dallo slancio utopistico, quale dovrebbe essere il fine e, al tempo stesso, la postura della professione docente, si è insinuato nella scuola in maniera beffarda un programma di addestramento che ha delle profonde analogie con retaggi del passato, con circostanze che in Italia, e anche altrove, abbiamo già vissuto e che come uno spettro preoccupante ritorna sotto spoglie nuove e anche piuttosto evidenti.
Che la scuola pubblica sia sotto attacco è un’evidenza empirica che non ha bisogno di essere dimostrata.
Illusioni e consigli sbagliati all’alleato ucraino portano i leader europei ad autoescludersi da ogni trattativa con Mosca. Trump lo sa bene e ha già risolto con Putin le questioni che interessano agli Usa
Ricapitolando, non i fatti di questi tre anni e mezzo di guerra, poiché i lettori di questo giornale hanno avuto il privilegio di avere informazioni corrette giorno per giorno. Per quanto la censura europea consentisse. Non le analisi che questo giornale ha pubblicato ribaltando le narrazioni prevalenti e smontando le menzogne che pseudo-analisti “d’alto ingegno perché d’alto lignaggio” avallavano seguendo le direttive euroatlantiche che poi erano quelle ucraine. Ricapitolando, quindi, i risultati degli ultimi 15 giorni di guerra e di attività politico-diplomatiche, si nota sul fronte ucraino la costante pressione militare russa contro le organizzazioni difensive ucraine ormai ridotte a un colabrodo grazie alla tattica dei mille tagli adottata dai russi. Il termine evoca la famosa tortura cinese di tagliare brandelli di carne senza far morire il condannato, ma come tattica militare è la riesumazione del vecchio progetto occidentale del Supc (Small Unit Precision Combat) ideato per colpire a grande distanza obiettivi limitati previa acquisizione del dominio dell’aria e perfetta organizzazione operativa e logistica. Tattica che non è mai stata applicata dalle forze tradizionali in nessun teatro di guerra perché troppo intelligente e dispendiosa e perché non assicurava il mantenimento delle posizioni acquisite. E tuttavia è stata la tecnica usata dai raid di forze speciali o degli stessi terroristi a Mumbai e alle Torri gemelle.
Mentre Trump scende a patti con i poteri che hanno gestito il deep state USA, ossia la triade Black Rock, State Street e Vanguard, e procede a vassallare l’Unione Europea, le cancellerie del vecchio continente che dirigono le danze per la guerra atlantista in Ucraina, capitanate da Gran Bretagna, Francia e Germania e le euroburocrazie rappresentate dalla Von Der Leyen, manovrano per boicottare il più che palese accordo strategico dell’amministrazione USA con la Russia, che cambierà gli scenari internazionali, le alleanze, nello sviluppo inarrestabile del multipolarismo.
Questo il quadro generale detto molto in sintesi, anche non volendo mangiare pane e Volpe, riferito all’economista Alessandro, che con i suoi interventi descrive in modo puntuale da Ottolina TV la situazione sempre più sottomessa per l’UE, che ci sta riducendo sempre più a colonia della potenza finanziaria USA. Altro che polo imperialista! L’ininfluenza internazionale, le decime neofeudali a USA, unite al riarmo delirante per ragioni inesistenti (la Russia non vuole andare a Lisbona, caro Calenda), porteranno alla tempesta perfetta nel continente nella distruzione di quel che resta degli stati sociali, tra privatizzazioni e ricchezza sociale destinata ai piani bellici, a partire dai paesi più deboli come il nostro.
E in tutto questo certa sinistra come reagisce, come analizza la situazione? Sono capitato su un ottimo intervento di Antonio Mazzeo dal titolo Eurosinistrati, pubblicato su Sinistrainrete lo scorso 20 agosto e proveniente da Sollevazione. In detto articolo giustamente Mazzeo stigmatizza il pezzo di Francesco Strazzari sul Manifesto:
La conclusione o meno della guerra in Ucraina potrebbe ridisegnare la mappa del potere politico e di potere in Europa.
Se è vero che l’andatura del ritmo dei negoziati sembra essere indicato da Trump e Putin, è anche vero che i governi europei arruolatisi nella coalizione dei volenterosi sembrano voler sfruttare in ogni modo la guerra – e le sorti – dell’Ucraina per forzare quei passaggi di decisionalità che sono mancati fino a oggi.
Gran parte degli osservatori si limitano a segnalare le difficoltà europee dentro la crisi apertasi a est del continente, ma cominciano a emergerne anche altri che ne segnalano le finestre di opportunità per spingere in avanti quella che rimane l’ambizione inceppata all’autonomia strategica dagli Usa e a un ruolo assertivo.
Insomma un addio definitivo al soft power su cui gli europeisti si sono adagiati per decenni per dotarsi piuttosto di un hard power ritenuto vitale per la sopravvivenza politica, magari non più dell’Unione Europea come tale – e dei suoi meccanismi decisionali farraginosi come l’unanimità – ma della ambiziosa convergenza di un gruppo di paesi europei decisi a pesare di più come soggetto globale, insieme quando possibile, per progetti mirati quando necessario.
L’analista Moises Naim, per molti anni direttore di Foreign Policy, in una intervista su La Stampa ha visto un bicchiere mezzo pieno nel ruolo assunto dai “volenterosi” paesi europei nella guerra in Ucraina e la contrapposizione con la Russia.
Ecco servita la “pace” che vogliono i furfanti europeisti: un esercito ucraino ancora più forte, armato con soldi europei e rimpinguato di armi yankee. Stando a Bloomberg, dopo l'incontro del 18 agosto alla Casa Bianca, USA ed Europa inizieranno immediatamente a lavorare per fornire garanzie di sicurezza all'Ucraina, volte a rafforzarne le forze armate.
Le fonti citate da Bloomberg sottolineano che l'obiettivo è proprio quello di eludere le richieste russe sulla limitazione delle forze armate ucraine nel quadro del futuro accordo di pace. Al contrario, le garanzie saranno «incentrate sul rafforzamento delle forze e delle capacità militari ucraine senza alcuna restrizione, come ad esempio quella di un limite al numero di truppe» e sarà compito della cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, guidata da Gran Bretagna e Francia, assicurare tali garanzie. Lo aveva del resto detto, demonia von der Leyen, che l'Ucraina deve trasformarsi in un "porcospino d'acciaio" che nessun aggressore possa digerire. La guerra: ecco ciò a cui lavorano gli avvoltoi delle cancellerie europeiste.
E non dimentichiamo che il 18 agosto, a Washington, erompe impettito il signor Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera, gli europei hanno dimostrato di essere «in grado di tenere il punto, in difesa dei propri valori e dei propri interessi»: i valori liberal-terroristici di affamamento delle masse popolari e gli interessi del complesso militare industriale. Non fa una piega.
Sembrava una vittoria storica
quella del “Forum serale Marxista per la politica e la
cultura”, abbreviato Masch, nei
confronti dell’Ufficio federale per la protezione della
Costituzione, ma le motivazioni della sentenza del Tribunale
di Amburgo hanno spazzato
via il già molto cauto ottimismo. L’8 Marzo scorso
l’associazione, che aveva citato in giudizio lo Stato per
essere stata
classificata come associazione di “estrema sinistra”,
togliendole lo status di organizzazione no profit, ha
ottenuto la riabilitazione e
il proprio status. In un clima così fortemente
anticomunista, questa sembrava davvero una bella notizia per
le associazioni e le organizzazioni
marxiste tedesche.
Come sappiamo però, ogni tribunale che emette una sentenza ne pubblica dopo un certo lasso di tempo le motivazioni per la quali è stata emessa. Il 6 Agosto sono arrivate e non suonano affatto come una vittoria politica, anzi. Per il Tribunale infatti l’unico motivo che ha portato a dar ragione a Marsch è stato che i membri non avevano un "atteggiamento attivo e combattivo" tale da essere pericoloso per la Costituzione. Insomma, per i giudici i militanti di Masch sono “poco attivi” per poter essere considerati una minaccia, per il momento. Oltre ciò, che già di suo farebbe sorridere se non fossero così maledettamente seri, le motivazioni arrivano al nocciolo della questione.
Prima di fare la disamina delle stesse però è necessario spiegare cosa sia Masch. L’organizzazione nasce nel 1981 ad Amburgo affiliata al DKP, Partito Comunista Tedesco, che nell’allora Germania Ovest era messo al bando e vittima di persecuzioni. Lo scopo di Masch è la formazione marxista tramite conferenze, corsi e lezioni e riprende le caratteristiche delle scuole operaie nate nel 1925 in Germania. La loro importanza negli anni 20 e 30 era tale che tra insegnanti e partecipanti ai corsi vi si poteva leggere nomi del calibro di Bertolt Brecht. Oggi continua la sua opera di formazione politica e culturale marxista, ma con una ampia autonomia dal DKP.
In attesa del vertice trilaterale fra Trump, Putin e Zelensky, o di precedenti incontri bilaterali Mosca-Kiev come preferirebbe Putin, occorrerà distinguere con precisione quel che separa l’apparenza dalla realtà.
L’accordo di cui Trump ha discusso lunedì a Washington – con Zelensky, i capi di Stato o di governo di cinque paesi europei, la Nato, la presidente della Commissione Ue – sembrerebbe chiaro: cessione alla Russia di gran parte dei territori perduti da Kiev (Donbass soprattutto), compresa la Crimea annessa nel 2014 quando Washington organizzò lo spodestamento del presidente Yanukovich, giudicato troppo filo-russo; solide garanzie di sicurezza, con una presenza di soldati francesi e inglesi in quel che resta dell’Ucraina, con eventuale copertura aerea e satellitare Usa; “riarmo forte” dell’Ucraina; fine degli aiuti militari Usa ma acquisto di armi statunitensi destinate a Kiev da parte degli Stati europei, per un totale di ben 100 miliardi di dollari (le spese sociali saranno ancora più tagliate); impegno a difendere l’Ucraina in caso di attacchi, “sul modello articolo 5” della Nato (l’attacco a un Paese è un attacco contro tutti) ma senza adesione alla Nato.
Tema preminente è stato la garanzia di sicurezza per l’Ucraina, com’è naturale. Ma neanche un cenno è stato fatto alle garanzie di sicurezza chieste da Mosca: garanzie non solo militari, ma concernenti i cittadini russi e russofoni, la cui lingua deve tornare a essere lingua ufficiale accanto a quella ucraina, secondo Putin. Mosca chiede anche la riabilitazione della Chiesa ortodossa canonica, illegalmente messa al bando da Zelensky nel 2024.
Le sinistre e i progressismi al governo non perdono le elezioni a causa dei troll dei social network. Né perché le destre sono più violente, e tanto meno perché la gente che ha beneficiato delle politiche sociali è ingrata.
Le battaglie politiche sui social non creano dal nulla ambienti politico-culturali espansivi nelle classi popolari maggioritarie. Le radicalizzano e le conducono lungo percorsi isterici. Ma la loro influenza presuppone, in precedenza, l’esistenza sociale di un malessere generalizzato, di una disponibilità collettiva al distacco e al rifiuto delle posizioni progressiste.
Allo stesso modo, le destre estreme, autoritarie, fascistoidi e razziste sono sempre esistite. Vegetano in spazi marginali di militanza rabbiosa e chiusa in sé stessa. Ma la loro predicazione si espande a causa del deterioramento delle condizioni di vita della popolazione lavoratrice, della frustrazione collettiva lasciata da progressismi timorosi, o della perdita di status di settori medi.
E quanto a quelli che sostengono che la sconfitta sia dovuta all'”ingratitudine” di quei settori precedentemente beneficiati, dimenticano che i diritti sociali non sono mai stati un’opera di beneficenza governativa. Sono state conquiste sociali ottenute nelle strade e attraverso il voto.
Per tutto questo, senza alcuna scusa, un governo progressista o di sinistra perde le elezioni per i suoi errori politici.
L’incontro tra Trump e Putin in Alaska ha coinciso con il quarto anniversario della precipitosa fuga dell’esercito Usa da Kabul dopo vent’anni di occupazione: un quarto di secolo di guerre, iniziato nell’ottobre del 2001, come vendetta e punizione collettiva – modello futuro per Netanyahu – per l’attacco terroristico subìto l’11 settembre.
L’invasione dell’Ucraina ne è stata anche l’estremo effetto, un effetto farfalla nel tempo e nello spazio secondo l’intuizione di Edward Lorenz, che impregna di sé anche le complesse relazioni internazionali: il battito d’ali di una farfalla in una parte del mondo genera un uragano dall’altra. Ossia il diritto internazionale vale per tutti ovunque – dall’Afghanistan all’Iraq, dall’Ucraina alla Palestina – oppure è impossibile farlo valere solo per qualcuno.
L’Europa si è stracciata le vesti per la sua esclusione dall’incontro di Anchorage, insieme a quella di Zelensky, ma la sua assenza – recuperata solo quattro giorni dopo con l’anticamera dei “volenterosi” alla Casa Bianca, nell’incontro tra Trump e il presidente ucraino – è frutto della rinuncia sdegnosa a essere, fin dall’inizio, terzo rispetto alla guerra russo-ucraina. L’Ue, scegliendo la cobelligeranza con una parte “fino alla vittoria”, attraverso la reiterata fornitura di armi all’Ucraina “per tutto il tempo che sarà necessario”, e imponendo 18 ondate di sanzioni economiche all’altra (ma zero ad Israele), anziché essere attivamente neutrale come chiedevano i movimenti pacifisti, è esattamente il Terzo assente secondo la formula usata da Norberto Bobbio nel 1989: il terzo mancante nel conflitto.
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Se vogliamo avere contezza delle
contraddizioni delle oligarchie illiberali bisogna
concentrarsi sul pensiero progressista e stanare l’ipocrisia
che lo domina. Sono colpita da
come i media più ascoltati riescano a continuare a sabotare i
deboli tentativi di mediazione che Mosca e Washington
potrebbero raggiungere
sull’Ucraina e presentarsi, insieme alle classi dirigenti
europee, come i detentori di una morale basata su Rule of Law
e diritti umani. Era
chiaro ai più che la difesa di questa narrativa non era
conciliabile con il sostegno al genocidio in corso a opera di
Netanyahu.
Questo spiega come mai su alcuni giornali del mainstream la denuncia dei crimini di guerra in Cisgiordania, del genocidio di Gaza e del regime fascista di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir sia ormai comune. Articoli che ci consolano e che potrebbero uscire dalla nostra penna. La denuncia del terrorismo di Stato di Israele non è tuttavia accompagnata dalla proposizione realistica di politiche di concreto isolamento del Paese. L’unica possibilità di frenare la hybris israeliana sarebbe costituita dalla fine della cooperazione politico-militare, economica ed energetica con Israele da parte dei Paesi europei. Sanzioni dure, diciotto pacchetti di sanzioni alla stregua di quelle applicate alla Russia, dovrebbero essere fortemente sostenute. Ursula von der Leyen e Kallas potrebbero essere assediate e costrette ad affermare che l’UE ha raggiunto una decisione comune dalla quale si astengono l’Ungheria, l’Italia e pochi altri. Non avviene, purtroppo.
Messi alle strette, i Macron, Starmer e Scholz, per citare i più influenti, che fingono di disapprovare il genocidio, l’apartheid e l’invasione di Gaza, non oserebbero prendere alcuna misura concreta che penalizzi Israele. Si tratta della stessa posizione di tanta parte della diaspora ebraica che si mette la coscienza a posto con la critica al genocidio di Netanyahu, considerato un incidente di percorso di una storia di Israele mai esaminata nelle sue premesse, che hanno determinato i crimini odierni.
Il capitalismo è in
difficoltà sempre maggiori negli Stati Uniti e in Europa,
mentre rimane una storia di successo in Cina e per la
stragrande maggioranza delle
persone che vivono in Asia, Africa e America Latina, le quali
hanno come probabile priorità quella di non essere più povere
e
raggiungere il più rapidamente possibile uno sviluppo
economico dignitoso. Certamente, ora il capitalismo continua a
essere dinamico in Cina e
non negli USA, né soprattutto in Europa.
Uno studio uscito in questi giorni dimostra che il CEO della catena di caffè Starbucks ha uno stipendio annuo oltre 6.666 volte superiore a quello del dipendente medio di Starbucks. È un dato emblematico. La ricerca dimostra che la società statunitense ha avuto una continuità negli ultimi 30 anni simile a quella della Cina, solo che in Cina la continuità si è tradotta in un tasso di crescita annuo del PIL nell’ordine del 4, 5, 6, 7, 8%, mentre gli Stati Uniti non hanno nulla di lontanamente simile. Sono fortunati se raggiungono il 2%.
Il dato veramente impressionante è quello relativo alla crescita della disuguaglianza negli Stati Uniti. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti erano meno diseguali dell’Europa. Ora, hanno lasciato l’Europa indietro per il livello di disuguaglianza di reddito e di ricchezza che hanno. Quindi, è un capitalismo che non è più in grado di fare negli Stati Uniti ciò che ha promesso al suo popolo nel corso del XX secolo: creare e sostenere un’immensa classe media. Questo è tutto finito, questa fiducia è scomparsa e la realtà è ormai completamente cambiata. La classe media non c’è più. È letteralmente scomparsa. È così ovvio che persino i politici mainstream si attaccano a vicenda sostenendo che il loro avversario sta distruggendo la classe media e che il loro obiettivo è riportarla in campo. Tutti lo dicono, nessuno lo fa. Sono ormai decenni che ogni presidente, repubblicano o democratico, ha promesso di riportare la produzione manifatturiera in America, ma nessuno di loro l’ha fatto.
Durante il mio mandato alla guida dell'UNODC, l’agenzia antidroga e anticrimine dell’ONU, sono stato di casa in Colombia, Bolivia, Perù e Brasile ma non sono mai stato in Venezuela. Semplicemente, non ce n'era bisogno. La collaborazione del governo venezuelano nella lotta al narcotraffico era tra le migliori del continente sudamericano, pari soltanto a quella impeccabile di Cuba. Un dato di fatto che oggi, nella delirante narrativa trumpiana del "Venezuela narco-stato", suona come una calunnia geopoliticamente motivata.
Ma i dati, quelli veri, che emergono dal Rapporto Mondiale sulle Droghe 2025 dell'organismo che ho avuto l'onore di dirigere – raccontano una storia opposta a quella che viene spacciata dall’ amministrazione Trump. Una storia che smonta pezzo per pezzo la montatura geopolitica costruita attorno al "Cartel de los soles", un'entità tanto leggendaria quanto il mostro di Loch Ness, ma adatta a giustificare sanzioni, embarghi e minacce di intervento militare contro un paese che, guarda caso, siede su una delle più grandi riserve petrolifere del pianeta.
Il Venezuela secondo l'UNODC: Un paese marginale nella mappa del narcotraffico
Il rapporto 2025 dell'UNODC è di una chiarezza cristallina, che dovrebbe imbarazzare per chi ha costruito la retorica della demonizzazione del Venezuela.
Tramite una vera e propria
rivoluzione
politica e sociale, sia pure apparentemente incruenta, sul
finire degli anni Settanta del secolo scorso si è affermata
una nuova visione
generale del mondo sulle già travagliate società occidentali.
Essa ha demolito in un decennio, o poco più, lo
Stato sociale keynesiano, egemonico nel
trentennio precedente, i cosiddetti «trenta gloriosi»
(1945-1975), istituendo
via via, in forme sempre più compiute, una «sovranità
globale di mercato» (C. Galli, Sovranità, Il
Mulino,
2019, p. 111). Come sempre, sono le contingenze storiche che
si incaricano di propiziare quello che è risultato essere un
sommovimento venuto e
voluto «dall’alto», da parte dei gruppi economicamente e
politicamente dominanti, in evidente stato confusionale perché
mai
prima di allora sfidati dai «subalterni», al termine del ciclo
storico di lotte, quello degli anni Sessanta, forse più
favorevole
in termini di acquisizioni di diritti sociali e di libertà
individuali. Quella che è stata con ogni evidenza una
controffensiva
scatenata «dall’alto» contro «il basso» e che sta proseguendo
tuttora, il grande sociologo e studioso Luciano Gallino ha
molto opportunamente riassunto nella nota formula della «lotta
di classe dopo la lotta di classe» (La lotta di classe dopo
la lotta di
classe, Laterza, 2012, pp. 11-12). In pratica, nei
primi anni Settanta il capitalismo occidentale vive la sua
crisi più drammatica, che
corrisponde a un crollo del saggio di profitto e a una fase
economica di prolungata stagnazione nella crescita e,
inoltre, a una simultanea esplosione
incontrollata dei prezzi – quello che nei manuali di
economia è ricordato come il fenomeno della «stagflazione».
Tra i
fattori scatenanti di quella che si presenta come una tempesta
perfetta, sicuramente va annoverata la sciagurata e
interminabile guerra in Vietnam,
con tutto il suo strascico di squilibri finanziari
conseguenti, dovuti agli incontrollati quantitativi di dollari
stampati e immessi nel sistema
valutario per fare fronte alle sempre più ingenti necessità
militari.
Il premio Nobel italiano fu tra le più grandi menti del Novecento, sia in campo teorico sia sperimentale, ma la politica non lo interessava. Ora che il rischio nucleare è così alto, serve un impegno civile degli studiosi
Lo scorso 5 agosto, alla vigilia
dell’ottantesimo anniversario dei bombardamenti atomici
sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, il fisico
Carlo Rovelli ha
inaugurato su Corriere.it
la sua serie video in dieci puntate La bomba
atomica. La cattiva coscienza della fisica. Riflessioni
personali sul nucleare.
Titolo del primo episodio, nel quale Rovelli parla dello
sviluppo dell’arma nucleare, è: 1934 Enrico Fermi. Sul
«Corriere della Sera» del 14 agosto è intervenuta Angela
Bracco, presidente della Società italiana di Fisica,
sostenendo che
la figura di Fermi era stata «screditata». Rovelli ha
risposto nella stessa pagina (qui l’intervento di Bracco e la
risposta di Rovelli ). Il video ha continuato a
suscitare dibattito e, nel testo qui sotto, il fisico
torna ad approfondire alcune
questioni.
* * * *
Alcune frasi su Enrico Fermi nei video dedicati al rischio nucleare che ho registrato per questo giornale, hanno dato origine a una polemica vivace. Con pieno rispetto per chi ha giudizi diversi dai miei, vorrei chiarire qui la mia opinione sulle questioni sollevate.
Ritengo che Enrico Fermi sia il più grande scienziato italiano in tempi recenti e uno dei più grandi fisici del XX secolo, in un piccolo Gotha che comprende Einstein, Dirac, e pochissimi altri. A mio giudizio, l’importanza della sua eredità scientifica è maggiore di quella che gli viene di solito attribuita, per il motivo che cerco qui di illustrare. I suoi contributi alla fisica moderna sono moltissimi. La materia ponderabile dell’universo è formata da particelle che i fisici chiamano genericamente «fermioni» in suo onore, perché per primo ne ha compreso il comportamento collettivo.
Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
L’intervento di Mario Draghi al Meeting di Rimini il 22 agosto è stato, come di consueto, oggetto di infiniti elogi, dai “progressista di sinistra” alla Nicola Zingaretti fino ai liberal di destra. In realtà un latore forse meno encomiastico farebbe emergere almeno due elementi discutibili.
Il primo. Draghi sostiene che Trump e l’attuale situazione dimostrano che non basta all’Europa essere una potenza economica per avere un ruolo internazionale vero. Ora, a questo riguardo, verrebbe da obiettare proprio citando il noto “Piano Draghi” che l’Europa ha smesso da tempo di essere una potenza economica. I flussi finanziari europei, a partire dal risparmio, vanno nelle Borse americane e gli effetti della globalizzazione hanno trasferito i sistemi produttivi fuori dal continente spostandoli in Cina e nel cosiddetto “Sud globale”, dove ora albergano le potenze economiche. Il neoliberalismo, di cui Draghi è stato ed è un esponente chiave, ha assegnato all’Europa il ruolo di realtà terziarizzata, con servizi caratterizzati da bassissime retribuzioni, dipendente appunto dalle Borse Usa in termini finanziari e dal mercato estero per le proprie sempre più povere produzioni.
Quindi dov’è la potenza economica europea? I consumi sono diminuiti, gli investimenti anche e la concentrazione della ricchezza è esplosa.
La ormai
storica tensione tra Stati Uniti e Venezuela vede, in questi
giorni, un inasprirsi della postura aggressiva da parte di
Washington, anche se poi
– alla resa dei conti – questa appare essere più una grande
operazione di psyop. Gli USA hanno sempre
osteggiato la
Rivoluzione Bolivariana di Chavez, ma da quando gli è
succeduto Maduro la pressione statunitense si è decisamente
fatta ben più
forte. Innumerevoli tentativi di golpe, il sostegno a
personaggi al limite del ridicolo come Guaidò –
autoproclamatosi presidente ad
interim, prima di sparire nel nulla da cui era emerso –
per approdare infine all’accusa di essere un narcotrafficante,
anzi di essere
a capo del Cártel de los Soles. Molto
opportunamente, nelle scorse settimane è stata innalzata la taglia
su Maduro a
50 milioni di dollari (quasi fossimo nel far west), ed è stato
approvato un ordine esecutivo segreto che equipara i cartelli
della droga ad
organizzazioni terroristiche, e rende possibile agire contro
di loro con le forze armate.
La questione, però, al di là dello specifico venezuelano, va
inquadrata in un contesto assai più ampio. L’America
Latina, almeno a partire dalla proclamazione della cosiddetta
Dottrina Monroe – affermata dal presidente James
Monroe nel 1823 –
ha sempre considerato il sub-continente americano come il
proprio cortile di casa. Dietro lo slogan “l’America
agli
americani”, infatti, la dottrina mirava essenzialmente
a garantire l’egemonia USA nell’emisfero occidentale;
l’intento
primario era quello di azzerare l’influenza europea, adottando
un linguaggio propagandistico di tipo sovranista-populista, ma
lo scopo ultimo
era appunto quello di sostituirsi agli europei, e con il
termine “americani” intendeva effettivamente nord-americani.
Questo dominio statunitense sull’America Latina è
sostanzialmente durato per tutto il novecento, ed è stato
caratterizzato da
spietate dittature, massacri di popolazioni indigene, e
completo diritto di saccheggio da parte delle multinazionali americane.
Dopo decenni in
cui il dibattito pubblico e la ricerca sociologica in Italia e
a livello internazionale è stato permeato dalla famosa frase
di Margaret
Thatcher che la società non esiste mentre “ci sono singoli
uomini e donne e ci sono famiglie”, si torna a ragionare sul
concetto e
sul ruolo delle classi sociali nella strutturazione delle
società contemporanee. Pier Giorgio Ardeni, professore di
Economia politica e dello
sviluppo all’Università di Bologna, ha scritto un libro
importante (Le classi sociali in Italia oggi, Laterza,
Roma-Bari 2024) che
fa il punto su ricerche e dibattito nazionale e internazionale
sulla composizione sociale con l’approccio dell’economia
politica, una
disciplina che a partire dai suoi fondatori (Smith, Ricardo e
Marx) ha sempre studiato la relazione tra economia e società,
indagando in modo
particolare il tipo di ordine sociale che storicamente emerge
e si struttura di fatto in relazione al mutare dell’economia
capitalistica.
Di classi sociali si era praticamente smesso di parlare in Europa a partire dagli anni ’90, sia nel discorso politico sia nella percezione comune. Nel 1999, Tony Blair, uno degli alfieri della “terza via”, aveva affermato che “la lotta di classe è finita” perché “ora siamo tutti classe media” negli stili di vita e nelle aspirazioni. Nell’ambito di un capitalismo “democratico”, lo Stato doveva garantire uguali possibilità a tutti, intervenendo e contribuendo affinché tali aspirazioni degli individui si potessero realizzare sulla base del “merito” (attraverso un rafforzamento del legame tra credenziali educative, lavoro e reddito). In quei decenni, con l’avanzare dei processi di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia, i sociologi (e anche i politici) hanno sostituito le classi sociali con termini più neutri come quelli di “ceti, gruppi e fasce sociali”, legati alla distribuzione del reddito, alle professioni e alle disparità di ceto (stili di vita), genere, età, zona di origine ed etnia/nazionalità. Giuseppe De Rita e il Censis hanno cantato la “cetomedizzazione” come contraltare della terziarizzazione.
Questi giorni sono caratterizzati da alcuni elementi che si stanno muovendo in modo sotterraneo, ma potrebbero essere collegati strettamente.
Repubblica il 21 agosto pubblica un’intervista al giornalista ebreo Nathan Thrall, che smonta tutta la narrazione sionista. Il Sole 24 Ore in un articolo di Ugo Tramballi invoca le sanzioni a Israele.
È solo palwashing [1] o si sta muovendo qualcosa di più grosso?
“Il servizio britannico di intelligence all’estero MI6 ha espresso insoddisfazione riguardo allo stato delle «relazioni speciali» con i servizi segreti statunitensi” (The Observer)
Ma che succede?
Poi arriva la spiegazione, per chi la sa leggere.
È il tentativo disperato delle oligarchie europee per uscire dalla trappola mortale in cui gli USA (prima Biden e oggi Trump) li hanno cacciati [2].
Due messaggi in codice.
Il primo. Mario Draghi è intervenuto il 22 agosto a Rimini al Meeting di Comunione e Liberazione. I commenti del giorno dopo sono, come sempre di massima, destinati a guardare il dito e non la luna.
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L’analisi dell’ambasciatore Francesco Bascone dopo il vertice di Anchorage fra Donald Trump e Vladimir Putin
Non sappiamo se il vertice
russo-americano di Anchorage sia destinato a figurare nei
libri di storia, come prima tappa nel percorso di uscita da
questa guerra o se finirà
nel secchio delle occasioni mancate. La stragrande maggioranza
dei commentatori osserva che l’aggressore ha ottenuto la piena
riabilitazione da
parte di Washington senza nulla concedere (questo punto andrà
approfondito) e che Donald Trump, convinto di ammaliarlo con
le sue lusinghe, si
è lasciato ammaliare. Tanto è vero che ha prontamente
sconfessato la propria promessa di pesanti sanzioni in caso di
rifiuto della
tregua.
Questa concessione alla metodologia di Putin – puntare rapidamente a concordare le linee generali per un accordo di pace mentre si continua a combattere – sarebbe difendibile se si trattasse di un paio di settimane, lasso di tempo previsto da Trump per un bilaterale Volodymyr Zelensky – Vladimir Putin, seguito forse da un trilaterale con lui stesso e se in cambio si fosse ottenuta una chiara disponibilità russa ad attenuare le proprie pretese.
A prima vista, non sembra sia così: il presidente russo ha ribadito che gli obiettivi dell’operazione militare speciale rimangono invariati e che un incontro al vertice deve essere preceduto da una lunga fase preparatoria.
Trump, ripetendo ancora una volta che la colpa della guerra è di Joe Biden, ha dato un assist a Putin. Il presidente russo ci ha visto una conferma della propria tesi secondo cui la Russia aveva le sue buone ragioni nel 2022 per attaccare l’Ucraina e che ora la guerra può essere fermata solo se verranno eliminate le cause di quella decisione. Cioè concordare una nuova Yalta.
Se si tiene conto, inoltre, del cinico invito al «realismo» rivolto da Trump a Zelensky, e implicitamente ai suoi amici europei («la Russia è una grande potenza, l’Ucraina no») c’è poco da illudersi sulle condizioni di pace che, secondo lui, Kiev dovrebbe rassegnarsi ad accettare.
La nuova operazione militare punta a spopolare e cancellare la città, sospingendo i palestinesi verso sud in vista della definitiva pulizia etnica della Striscia. L’Occidente tace
In un mese di
agosto ricco di notizie internazionali ma scarso di risultati
incoraggianti, il presidente americano Donald Trump, dopo aver
avviato un inconcludente
sforzo negoziale in Alaska riguardo al conflitto ucraino,
durante un interludio della guerra dei dazi ha autorizzato attacchi
militari contro i cartelli della droga in Messico e dispiegato
forze navali USA al limite delle acque territoriali
venezuelane.
La Casa Bianca è anche molto attiva in Medio Oriente, dal Caucaso al Libano dove la campagna USA di pressione nei confronti del governo locale affinché disarmi Hezbollah rischia di scatenare una guerra civile. Sullo sfondo rimangono le irrisolte tensioni con l’Iran e il rischio di un secondo round nello scontro fra Tel Aviv e Teheran.
Se la guerra in Ucraina e le altre perturbazioni internazionali ci ricordano che la crisi mondiale legata al declino dell’egemonia statunitense non ammette pause estive, è la Palestina – in primo luogo con l’immane catastrofe di Gaza – a rimanere l’epicentro del collasso morale dell’Occidente.
Nell’inerzia delle capitali europee, e con il consenso di fatto accordato da Washington, gli aerei e i carri armati israeliani hanno già iniziato a martellare i quartieri a nord e a est di Gaza City, in base a un piano del governo Netanyahu approvato lo scorso 8 agosto, il quale prevede che Israele assuma il pieno controllo militare della Striscia a cominciare dalla regione settentrionale.
In coincidenza con l’avvio di quella che i vertici militari israeliani hanno definito la seconda fase dell’operazione “Carri di Gedeone”, un nuovo ordine di evacuazione è stato emanato per i residenti di Gaza City dove centinaia di migliaia di persone erano tornate durante il cessate il fuoco dello scorso gennaio.
Il dollaro perde oltre il 10% in sei mesi. Tra debito federale, dazi di Trump e sfiducia globale, la crisi scuote la finanza mondiale.
La crisi del dollaro è molto più profonda di quanto non emerga dalla stampa e dall’informazione italiana. Nel giro di sei mesi ha perso oltre il 10% del proprio valore nei confronti delle principali valute del Pianeta. Registrando una delle cadute più rapide e dolorose dalla fine della convertibilità aurea.
È significativo notare che si tratta di un deprezzamento che è avvenuto nei confronti di quasi tutte le principali valute mondiali. E che si è verificato – dato questo estremamente rilevante – in presenza di tassi alti di interesse da parte della Fed. A cui sono, normalmente, connessi alti valori del dollaro. La crisi del dollaro è quindi, prima di tutto, una dimostrazione della sfiducia globale. Che potrebbe essere aggravata, ulteriormente, da una riduzione dei tassi di interesse e da un’ulteriore crescita del debito federale statunitense, ormai del tutto fuori controllo. Soprattutto, in queste condizioni, la Federal Reseve non può certo immaginare, come avveniva in passato, di “creare” nuovi dollari per coprire il debito.
Le menzogne fabbricate a tavolino dagli agenti della Cia e fatte digerire dai governi sottomessi, come quello australiano in questo caso, sono come i rotoli di carta igienica, non finiscono mai.
La comunità internazionale non conoscerà mai la pace se il pianeta (ma il compito spetta soprattutto al popolo statunitense, anch’esso oppresso e vilipeso come tutti) non riuscirà a liberarsi di quel tumore metastatizzato rappresentato dalle 17 agenzie americane d’intelligence[1], così chiamate, sebbene si tratti di organizzazioni di stampo mafioso che operano nell’ombra con l’incarico di organizzare omicidi, massacri, rivolte e conflitti armati, a beneficio dell’impero egemone, nei quattro angoli del mondo.
Tra i tanti misfatti e menzogne che la cronaca funesta ci rimbalza ogni giorno (i crimini più riprovevoli commessi da lorsignori restano sepolti per sempre, a tutela delle nefandezze di quella meraviglia di democrazia chiamata Stati Uniti d’America!) la penna coraggiosa dell’australiana Caitlin Johnstone[2] ci segnala oggi le accuse che il governo del suo paese, guidato dal laburista Anthony Albanese, ha mosso al governo iraniano, vale a dire aver orchestrato due attacchi antisemiti al fine di minare la coesione sociale in Australia e seminarvi la discordia: il 10 ottobre e 6 dicembre 2024, infatti, due incendi dolosi avevano danneggiato la sinagoga Adass Israel e la Lewis Continental Kitchen (senza provocare né morti, né feriti).
Dopo la spinta diplomatica successiva al vertice tra Putin e Trump, l’apparente stallo. Zelensky, lontano dalla Casa Bianca, continua a negare la possibilità di cedere territori e intensifica i bombardamenti in territorio russo, sia agli impianti energetici che contro obiettivi civili, mentre prosegue come prima la campagna russa, con conquiste progressive e bombardamenti mirati alle infrastrutture strategiche ucraine, che provocano vittime civili (di cui i media occidentali riferiscono, al contrario dei civili russi).
A stoppare l’iniziale flessibilità di Zelensky la Ue, ormai salita con decisione sul carro neocon, che ha preso un abbrivio apparentemente inarrestabile grazie ai guadagni stellari dell’apparato militar-industriale Usa prodotti dal conflitto ucraino e dalla stretta politica e mediatica sull’Occidente che s’accompagna al genocidio di Gaza.
Ma, al solito, la Gran Bretagna si è ritaglita un ruolo primario in questa spinta pro-guerra, anche se (come al solito) manda avanti altri a far da guastatori, nel caso specifico Macron e Mertz, che più hanno sostenuto le ragioni di Zelensky al cospetto di Trump.
Invece le manovre britanniche restano sottotraccia. Anzitutto ha fornito a Kiev la tecnologia per costruire missili a lungo raggio – gittata di 3mila chilometri, testata 1.150 chilogrammi – in grado di causare danni in profondità alla Russia. Infatti, il Flamingo, presentato come produzione autoctona, è troppo simile al missile dell’azienda emiratina-britannica Milanion, esposto alla fiera IDEX-2025 (si noti la curiosa somiglianza con la V1 tedesca).
Il punto di partenza è un testo straordinario attribuito a Claude Sonnet 4, pubblicato su Il Chimico Scettico il 6 luglio 2025, che rappresenta un'analisi meta-critica del lavoro intellettuale dell'autore del blog. Il testo segna una svolta radicale: dal tentativo di falsificare metodologicamente affermazioni pseudo-scientifiche al riconoscimento che queste non sono "scienza fatta male" ma simulacri baudrillardiani - costruzioni semiotiche completamente altre che hanno colonizzato lo spazio discorsivo scientifico.
La tesi centrale è devastante nella sua semplicità: il simulacro della scienza non è falsificabile non perché sia vero, ma perché non ha più alcun rapporto con la realtà che potrebbe falsificarlo. È un sistema chiuso, autoreferenziale, che esiste in una dimensione puramente semiotica. Quando Il Chimico Scettico per anni aveva tentato di smontare metodologicamente il "SIR all'amatriciana" o il "latinorum caotico", non stava correggendo errori scientifici ma tentando di applicare criteri di falsificazione a performances di scienza-segno.
Il testo di Claude identifica con precisione la trappola epistemologica: credere di trovarsi di fronte a proposizioni scientifiche mal formulate, quando invece si tratta di "equazioni metaforiche" - manifestazioni di un linguaggio che ha abbandonato ogni pretesa descrittiva mantenendo l'apparenza formale della matematica. Non errori da correggere, ma rappresentazioni teatrali che mimano i gesti della scienza senza averne la sostanza.
La notizia
è ormai nota: il mese scorso, Trump ha firmato una direttiva,
ancora segreta, in cui dava istruzioni al Pentagono di usare
la forza militare
contro alcuni cartelli della droga che il suo governo ha
classificato come organizzazioni terroristiche. Quasi in
contemporanea, gli Usa hanno
dichiarato che una di queste organizzazioni si chiama Cartel
de los Soles, e che è capeggiata dal presidente venezuelano,
Nicolás
Maduro. Un presidente illegittimo, secondo gli Stati uniti
che, per bocca del loro Segretario di Stato, il rabbioso
anticomunista, Marco Rubio, hanno
dichiarato di aver aumentato la “taglia” sulla sua testa fino
a 50 milioni di dollari. Quella precedente – di 15 milioni –
era
stata decisa da Trump nel 2020, durante il suo primo mandato.
Una canagliata subito ripresa ed enfatizzata dall'estrema destra venezuelana (che preme affinché Trump “faccia sul serio”), e dai giornali mainstream, che avallano l'accusa di “narco-stato” e il far-west trumpista, così come hanno avallato in precedenza il circo dell'”autoproclamazione” di un governo fittizio: per appropriarsi di un malloppo però assai reale come sono i beni del paese all'estero (per inciso, gli europei stanno facendo la stessa cosa con i fondi russi). Mostrare evidenza del contrario, è come convincere un terrapiattista che la terra è rotonda. Il meccanismo delle fake-news è un circolo perverso che si alimenta da sé e occulta l'inesistenza di una fonte attendibile. È stato così fin dalla messa in moto di questa balla spaziale sul Cartel de los soles, con cui inizialmente uno dei principali giornali di opposizione ha calunniato in Venezuela il vicepresidente del PSUV, Diosdado Cabello, oggi ministro degli Interni e Pace.
Nel libro La comunicación liberadora, che abbiamo pubblicato con l'Università internazionale della Comunicazione (LAUICOM), la giornalista e deputata, Tania Diaz, oggi rettrice dell'università, ha raccontato come sia stata una squadra di reporter ben collaudati a scoprire che quello “scoop” si basava su una falsa notizia di partenza: quella secondo cui era stata depositata presso un giudice di New York una presunta denuncia contro Diosdado in quanto capo del Cartel de los soles.
Molti filosofi
contemporanei si sono interrogati sulle ragioni del nostro
strano comportamento nei confronti delle opere d’arte che
suscitano emozioni negative
come tristezza, rabbia o paura. Se nella vita quotidiana
tendiamo a evitare queste emozioni, perché invece le cerchiamo
nell’arte?[1] Questa
apparente contraddizione è stata chiamata paradosso della
tragedia – una formula che dice molto più sulla nostra
difficoltà a capire il tragico che sul tragico stesso. Forse è
davvero arduo spiegare il fascino di opere soltanto tristi o
spaventose
senza invocare una presunta attrazione per il negativo.[2] Ma
nel caso della tragedia – almeno un tempo – il fascino nasceva
altrove. Perché un’opera sia davvero tragica, infatti, non
basta che rappresenti un’umanità sofferente: deve anche
offrire un guadagno cognitivo sul dolore.
Questo processo, probabilmente, era piuttosto evidente per i Greci, tanto da non richiedere ulteriori spiegazioni. La nozione stessa di catarsi pone ancora oggi non pochi problemi interpretativi, forse proprio perché Aristotele le dedica solo poche e rapide parole, dando evidentemente per scontata una dinamica che per lui e i suoi contemporanei doveva risultare immediata. Iniziava a non essere più così evidente tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, periodo in cui gli scritti di Hölderlin e Schiller tornano più volte proprio su questo tema. Ma quella fu anche l’ultima stagione in cui quello che sarà poi chiamato paradosso della tragedia è stato affrontato in termini propriamente tragici.
Tragico è l’uomo libero
È proprio Schiller, in due brevi ma densissimi testi – Sul patetico e Sul sublime – a offrirci forse la riflessione più lucida su questo tema. L’artista tragico utilizza il pathos per suscitare nel pubblico un sentimento sublime, una “sintesi tra un senso di pena […] e un senso di letizia”.[3] Poiché un medesimo oggetto non può provocare emozioni opposte, Schiller interpreta questa ambivalenza come la prova dell’esistenza, in noi, di due nature distinte: una sensibile e una razionale.
Molti hanno notato che nella famosa foto in cui il generale Vannacci esibisce trionfalmente una cernia, la sola ad avere un’espressione intelligente è proprio la cernia. In base a questa osservazione fattuale, sono sorti gravi sospetti sulla effettiva capacità del generale di riuscire a pescare la cernia in oggetto. Con tutta probabilità il Vannacci si è quindi procurato la preda in qualche mercatino del pesce, per poi farne oggetto di pubblica esibizione. D’altra parte le millanterie e le spacconate dei pescatori sono diventate proverbiali e persino un topos letterario, per cui si sta parlando di aspetti da trattare con umana comprensione. Più preoccupante invece è il fatto che il generale abbia voluto attribuire una valenza simbolica e politica al maltrattamento di un animale, salvo poi ridicolizzare chi gli ha fatto notare la viltà di quel gesto. Se ce l’hai con la sinistra, prenditela con la sinistra, non con gli animali, che notoriamente non votano e non possono essere eletti.
La narrativa di Vannacci vorrebbe scaricare la colpa della denatalità sugli ardori animalisti e transgender, come se non c’entrassero niente la cronica stagnazione economica, i fitti e le bollette alle stelle, la precarizzazione del lavoro e la perdita di ogni speranza che le cose in futuro possano almeno non peggiorare. Se qualche volta si riesce nella titanica impresa di non interrompere le persone mentre parlano, tanti maschietti trentenni si lasciano sfuggire che il loro vero timore è che i loro eventuali figli possano un domani rinfacciargli di essere disoccupato o di guadagnare troppo poco.
Botta e risposta alle Nazioni Unite tra i rappresentanti euroatlantici e quelli di Russia e Cina sulla questione del sabotaggio al North stream. Gli Stati Uniti, non senza fondamento sospettati di aver organizzato l'attentato del settembre 2022 ai due rami del gasdotto, hanno chiesto di non sollevare più la questione alle riunioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ci si deve affidare, dicono, al lavoro della Procura tedesca che, dopo l'arresto in Italia dell'ex capitano del SBU ucraino Sergej Kuznetsov, proseguirà le indagini dirette, con ogni evidenza, a dimostrare in partenza l'esclusivo coinvolgimento di un gruppo di incursori ucro-europei nel sabotaggio che ha interrotto le forniture di gas russo all'Europa e principalmente proprio alla Germania.
Gli Stati Uniti respingono i «tentativi di politicizzare la questione e anticipare i risultati della procedura in corso» ha detto la rappresentante yankee all'ONU, Dorothy Shea. Non si deve sottrarre tempo al Consiglio di sicurezza, ha detto in sostanza, per parlare di un incidente di tre anni fa, quando invece ci si deve concentrare sulla questione ucraina; come se le due questioni non siano strettamente connesse, specialmente dal punto di vista degli interessi finanziari USA. Così, Washington indica agli “alleati” che l'unica strada da seguire è quella di non mettere in dubbio né l'andamento giudiziario tedesco, né il corso delle “indagini” condotte da alcuni paesi europei e non c'è proprio bisogno che il Consiglio perda tempo su tali questioni. Il Presidente Trump, ha detto Shea «è concentrato su un obiettivo: garantire una pace negoziata e duratura in Ucraina per porre fine alle sofferenze umane. Invitiamo anche la Russia a concentrarsi su questo obiettivo».
Per approfondire il tema dell'ultimo post: se nessuno è in grado di spiegare sensatamente a che cosa dovrebbe servire l’integrazione politica europea e (tema connesso) l’Unione Europea, che dovrebbe esserne il prodromo, è anche legittimo chiedersi perché la UE nel frattempo continui a esistere (e a fare danni).
Vilfredo Pareto probabilmente chiamerebbe in causa “la persistenza degli aggregati” cioè l’inerzia che tende a mantenere in essere le istituzioni e le strutture sociali, anche dopo che se ne è ampiamente constatata l’inutilità e anzi la nocività.
Ma penso che si possa affermare qualcosa di più specifico.
Il baraccone, cioè la UE, resta in piedi perché ha acquisito una capacità di influenzare le decisioni politiche dei paesi membri che una serie di gruppi di potere riescono a manovrare a loro vantaggio.
E chi ha questa capacità di manovra ovviamente conta di più, a priori e a maggior ragione a posteriori, di chi non ne ha.
La UE è uno strumento che gli stati membri grandi utilizzano a loro vantaggio più dei piccoli; le nazioni con un establishment compatto e coeso più di quelle con una classe dirigente frazionata e litigiosa; le grandi istituzioni finanziarie più di quelle di minori dimensioni; le grandi aziende più delle PMI.
Esiste quindi un ampio ventaglio di interessi specifici che almeno fino a oggi valutano di poter ricavare vantaggi propri; vantaggi per loro pesano in positivo più delle pesantissime disfunzioni del sistema.
Era stato annunciato in primavera: il Parlamento europeo (PE) non accetta di essere scavalcato nella politica di riarmo dell’Europa patrocinata da Consiglio e Commissione! Oggi, finalmente, il Parlamento batte un colpo e chiede addirittura l’annullamento del regolamento SAFE, rientrante nel pacchetto Rearm Europe-Readiness 2030 presentato dalla Commissione in primavera e acclamato dallo stesso Parlamento europeo (Guazzarotti). Il SAFE consiste nell’emissione di debito pubblico europeo per finanziare – a prezzi calmierati per i governi più deboli sui mercati – il riarmo dei singoli Stati (non certo per quello dell’inesistente difesa comune europea). Ebbene, il PE chiede, sì, alla Corte di giustizia l’annullamento di tale regolamento, ma solo perché adottato secondo la procedura d’urgenza di cui all’art. 122 TFUE (con cui, ad es., fu approvato il NGEU), che non prevede il coinvolgimento del Parlamento, nel suo ruolo di seconda Camera accanto al Consiglio (i governi degli Stati). Contemporaneamente, il PE chiede alla stessa Corte di giustizia di mantenere gli effetti del regolamento impugnato fino alla sua successiva sostituzione con altro regolamento equivalente approvato stavolta anche dal PE. Come emerso da plurime deliberazioni della Plenaria del PE, infatti, i parlamentari sono entusiasti, nella loro maggioranza, del riarmo europeo, ma non accettano che venga minata «la legittimità democratica agli occhi dell’opinione pubblica. Non esiste un Parlamento al mondo che lo accetterebbe». Il SAFE, sottolinea il PE, gode del pieno sostegno del PE: «(r)iconosciamo la sua importanza per l’Europa, per l’Ucraina e per tutti noi».
Lavinia Marchetti: Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
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La sottomissione dell’Europa
agli Stati Uniti deriva quasi interamente dalla sua paura
predominante della Russia, una paura che è stata amplificata
dagli stati russofobi
dell’Europa orientale e da una falsa narrativa sulla guerra in
Ucraina. Basandosi sulla convinzione che la sua più grande
minaccia alla
sicurezza sia la Russia, l’UE subordina tutte le altre sue
questioni di politica estera – economiche, commerciali,
ambientali,
tecnologiche e diplomatiche – agli Stati Uniti. Ironia della
sorte, si aggrappa a Washington anche mentre gli Stati Uniti
sono diventati
più deboli, instabili, erratici, irrazionali e pericolosi
nella loro stessa politica estera verso l’UE, fino al punto di
minacciare
apertamente la sovranità europea in Groenlandia.
Per tracciare una nuova politica estera, l’Europa dovrà superare la falsa premessa della sua estrema vulnerabilità alla Russia. La narrativa di Bruxelles-NATO-Regno Unito sostiene che la Russia è intrinsecamente espansionista e invaderebbe l’Europa se ne avesse l’opportunità. L’occupazione sovietica dell’Europa orientale dal 1945 al 1991 dimostrerebbe questa minaccia oggi. Questa falsa narrativa fraintende gravemente il comportamento russo sia nel passato che nel presente.
La prima parte di questo saggio mira a correggere la falsa premessa che la Russia rappresenti una minaccia grave per l’Europa. La seconda parte guarda avanti verso una nuova politica estera europea, una volta che l’Europa sarà andata oltre la sua irrazionale russofobia.
La politica estera europea si basa sulla presunta minaccia alla sicurezza che la Russia rappresenta per l’Europa. Eppure questa premessa è falsa. La Russia è stata ripetutamente invasa dalle maggiori potenze occidentali (in particolare Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti negli ultimi due secoli) e ha a lungo cercato la sicurezza attraverso una zona cuscinetto tra sé e le potenze occidentali. La zona cuscinetto, molto contesa, include le odierne Polonia, Ucraina, Finlandia e stati baltici.
Giustizia sociale di classe, economia in declino, leggi liberticide: in Italia il disastro sociale ed economico viene da lontano
Oggi in
Italia siamo in presenza di una economia sempre più
finanziarizzata e globalizzata, attraverso la mobilità delle
merci, dei capitali e del lavoro, con un aumento
esponenziale della finanziarizzazione dei capitali, nonché
della
mobilità delle informazioni, attraverso i flussi della tecnica
informatica.
Non esiste più un ruolo di intervento programmatico dello Stato, le classi borghesi, riescono a imporre il proprio modello a ogni altro flusso sociale e di sviluppo alternativo, con un padronato sempre più agguerrito che cerca di fare profitti sia riducendo in continuazione il costo del lavoro, sia con la speculazione finanziaria, senza rischiare di investire i propri capitali in attività economiche di alto profilo.
E’ cambiata anche la realtà sia nella comunicazione pubblica, che nelle relazioni private… sia nello studio, nel tempo libero, nelle attività riproduttive, sui social, nelle attività commerciali, nella produzione.
E’ stato instaurato un meccanismo sempre più alienante ma capace di carpire anche il consenso di vasti strati di giovani e ceti subordinati.
La realtà sociale e politica è disastrosa a livello di massa, ma non viene ancora percepita come tale… anzi sembra che il popolo stia facendo la fine della “rana bollita” abituandosi gradualmente ad accettare tutto, iniziando a diventare lesso.
La realtà sociale di oggi che viene bene evidenziata dai dati elaborati da ILO e INPS. Ed è questa:
Non è difficile unire i puntini tra le notizie delle ultime ore riguardanti la Palestina e il relativo popolo.
Sul piano militare, Israele si è lanciata contro Gaza City – l’agglomerato più ampio e abitato della omonima Striscia – chiudendo completamente anche quel poco (e puramente propagandistico) di rifornimenti umanitari che venivano distribuiti durante delle “pause tattiche” durante la giornata. Tutta la città è stata dichiarata “zona di combattimento pericolosa”.
Non che le “pause” fossero effettive. I team delle Nazioni Unite hanno riferito che “sono stati comunque osservati bombardamenti nelle aree e nei momenti in cui tali pause erano state dichiarate“.
Nonostante questo, l‘Onu ha dichiarato che resterà a Gaza City. “Noi e i nostri partner – ha detto il portavoce, Stephane Dujarric – restiamo a Gaza City per fornire supporto salvavita, con l’impegno di servire le persone ovunque esse si trovino. Ci aspettiamo che il nostro lavoro sia pienamente facilitato e ricordiamo alle parti che i civili, compresi gli operatori umanitari, devono essere protetti in ogni momento. Le strutture umanitarie e le altre infrastrutture civili devono essere ugualmente salvaguardate“.
Speranze legittime, anzi “legali” ai sensi del diritto internazionale, ma deluse sempre sia dal criminale regime sionista che dal proprio alleato-protettore, gli Stati Uniti.
I Soulèvements de la terre contribuiranno a «bloccare tutto» contro il piano Bayrou a partire dal 10 settembre. Numerosi comitati locali e i granai dei Soulèvements de la terre hanno iniziato a mettere a disposizione i loro mezzi materiali, reti e savoir-faire. Dedichiamo alla discussione portata avanti all’interno del movimento che si annuncia, qualche riflessione rispetto alle lotte contro l’intossicazione del mondo e contro l’alleanza dei miliardari reazionari. Riflessioni che possono dare idee su “cosa bloccare” al momento di “bloccare tutto”.
L’estate brulica di voci di rivolta. Dai canali Telegram agli appuntamenti di preparazione fissati fin dall’inizio dell’anno, dalle immagini dei video che girano e tornano da tutte le parti, dai sindacati che si lanciano in gruppi di gilets jeunes che si rilanciano, una data è nelle teste di tutti: 10 settembre. Le Soulèvements de la terre condividono questa impazienza di «bloccare tutto» per far saltare l’austerità e uscire insieme dalla strada che sembrava completamente tracciata dall’autoritarismo attuale verso un nuovo fascismo in arrivo.
Duplomb, Budget, Esercito: è troppo
Subito dopo che Macron ha annunciato il raddoppio del budget delle forze armate entro il 2027 (43 miliardi rubati ai diritti sociali e direttamente iniettati nel complesso militare-industriale), il primo ministro François Bayrou ha presentato il 15 luglio un “progetto di bilancio” per il 2026.
I regimi liberali, privi dell’alternativa socialista, rappresentata dall’Unione Sovietica decaduta nell’ultimo decennio del secolo scorso, possono mostrare la propria vera indole. Che non è quella di promuovere la libertà e la tutela dei diritti di derivazione illuministica: pensiero, opinione, espressione, associazione, riunione, cittadinanza, partecipazione politica, etc. A meno di non confondere il possesso di questi diritti da parte di una minoranza con quello della collettività tutta. Nella sua ostinata negazione dell’uguaglianza, se non formale e astratta, il liberalismo nega di fatto quanto va predicando. La tensione verso i diritti origina dalla lotta che contrappone la classe borghese in ascesa all’aristocrazia che è padrona delle prerogative politiche e del comando. La nobiltà era tale per diritto divino e discendenza di sangue. La borghesia fonda i presupposti per la propria supremazia sulla proprietà e la ricchezza. In astratto, chiunque può diventare borghese attraverso lo strumento principale celebrato dalla retorica borghese: l’impresa che fonda la ricchezza. Con l’etica protestante, tale retorica si ammanta anche di una giustificazione religiosa. Si torna a una sorta di diritto divino che trapassa dall’aristocratico al borghese. Diritto divino imperscrutabile perché tale è il volere della divinità. Ma che viene reso manifesto dalla prova del successo terreno attraverso la ricchezza. Quell’etica protestante, rilevata da Max Weber, ha lasciato degli strascichi nella cultura liberale. La teoria della predestinazione spaccava in due l’umanità, tra salvati e dannati.
Scrivere o parlare di religione, e in specifico, di Cristo significa incontrare l’ostilità di ogni componente ideologica e culturale dalla “destra liberale alla sinistra liberale”. Eguali nell’essere postura del nuovo capitalismo finanziario. La sinistra liberale ormai sovrastruttura del pan-economicismo irride alla religione, in quanto è un “limite” all’individualismo narcisistico, essa difende il mercato, in quanto è l’istituzione che soddisfa ogni desiderio. La destra liberale tollera Cristo e di conseguenza la religione, se svolgono la funzione di contenere con le “opere di misericordia” gli effetti delle disuguaglianze sociali. L’essenziale per la destra economica è il silenzio sul pan-economicismo spietato e mostruoso dei nostri giorni. Destra e sinistra lavorano per la “chiacchiera” e combattono il ”pensiero e ciò che umanizza”. Il chiasso e la chiacchiera come succedaneo del concetto hanno condotto all’abitudine al mostruoso tanto che i più, ormai avvezzi alle logiche della competizione non lo colgono, non lo vivono e sono presi solo dai loro desideri narcisistici. Il “pensiero Alice” e, quindi la fuga dalla realtà domina e regna. Semplicemente c’è, è parte dell’ordinario ritmo dei giorni, in tal modo si diviene parte del “mostruoso”. Tra i due schieramenti politici vi sono i “grigi”, ovvero gli indifferenti dediti solo ai loro interessi e desideri. Gli indifferenti, questo è forse il dato più rilevante, non sono atei. L’ateo si è confrontato col fenomeno religioso, mentre gli indifferenti sono distanti da ogni idea e scelta cristica e religiosa.
"La Comune fu
l'antitesi diretta dell'Impero.”
- Karl Marx, La
guerra civile in Francia
«Quando una comune socialista
è antimperialista?» La risposta di Chris Gilbert a questa
domanda segue la linea di pensiero di Karl Marx,
esaminando il suo approccio
alla 'comune': dai Grundrisse fino ai suoi ultimi appunti e
lettere sulle
comuni rurali. Dopo aver ricostruito la strategia
comunitaria marxista, Gilbert sostiene che i recenti
progetti reali in Venezuela, Bolivia e Brasile
sono conformi all'approccio marxista, unificando la
costruzione comunitaria con una spinta antimperialista per
la liberazione
nazionale.
* * * *
La guerra genocida di Israele contro Gaza, che è andata di pari passo con spietati attacchi alla Cisgiordania, al Libano, all'Iran, allo Yemen e alla Siria, tutti sostenuti e finanziati con entusiasmo dagli Stati Uniti, rappresenta un campanello d'allarme per i popoli di tutto il mondo sugli effetti devastanti dell'imperialismo. Portato avanti con la complicità di tutti i governi occidentali, il genocidio dovrebbe anche aprirci gli occhi sul più ampio sistema imperialista guidato dagli Stati Uniti. Questo sistema, anche quando non conduce una guerra totale contro i paesi del Sud globale, pone la maggior parte di essi sotto una sorta di assedio generalizzato, a volte attraverso sanzioni (ad esempio, Venezuela, Cuba, Nicaragua, Cina e Iran) o circondandoli con basi militari (come nel caso di Cina, Corea del Nord e Venezuela, tra gli altri), per non parlare del sistematico drenaggio di valore e di risorse materiali da parte dell'imperialismo in tali paesi, che ha effetti sociali e ambientali devastanti.
Dato questo contesto, in cui l’imperialismo contrapposto alle nazioni e ai popoli oppressi rappresenta inequivocabilmente la principale contraddizione, ci si potrebbe interrogare sull’importanza di una comune socialista.
§ 1. – Una critica socialdemocratica
Il volume curato da Stefano D’Andrea (Serve meno Europa? Domande radicali sull’Unione europea, Roma, Rogas Edizioni, 2025) raccoglie i contributi di numerosi studiosi, molti dei quali partecipanti a un convegno organizzato dal Centro Studi per la Costituzione e la Prima Repubblica (CPR) tenutosi a Roma nell’aprile 2024. Gli Autori hanno tentato di offrire risposte a domande radicali, come recita il sottotitolo, su quella “strana entità”[1] chiamata Unione europea.
Un titolo alternativo avrebbe potuto essere ‘Tornare ai fondamentali’. Infatti, il libro intende indagare che cosa è l’Unione europea da molteplici punti di vista, senza le superfetazioni che una dottrina, forse troppo engagé, ha costruito negli anni e senza ricadere in quello che già Treves, come riportato da D’Andrea, chiamava «diritto del “voler essere”»[2], ossia quello studio del diritto che si allontana dalle disposizioni e dalle norme per agganciarsi alle speranze e alle aspirazioni soggettive.
Esiste, peraltro, una cornice ideologica comune che racchiude i vari contributi. Come rilevato dal Curatore, è il pensiero social-democratico, da intendersi come valorizzazione di quel diritto al lavoro, delineato nell’articolo 4 della Costituzione italiana, che impone alla Repubblica di perseguire politiche volte alla piena occupazione[3]. Forse si tratta di un avviso al lettore che, a dispetto di una disattenta prima impressione, non si tratta di un libro “sovranista”, nel senso che il termine ha assunto nel linguaggio corrente, ossia come sinonimo di rivendicazione della sovranità nazionale in senso regressivo e autoritario[4]. D’Andrea ricorda che una critica social-democratica all’Unione non è nuova, ma è apparsa in Italia durante gli anni della crisi dei debiti sovrani e, forse proprio per la sua genesi così intimamente collegata alla crisi finanziaria, si è caratterizzata per essersi concentrata sui problemi economici[5]. Uno degli scopi – riusciti – del libro è andare oltre i paletti della “prima” critica per indagare temi lasciati più in disparte.
Le manifestazioni di protesta che proseguono in Israele hanno una natura multiforme e contraddittoria.
Si dichiarano contro un governo non gradito da anni a quasi metà del paese, un dato già palesatosi dall’insediamento di Netanyahu. Criticano apertamente la gestione della liberazione degli ostaggi ancora prigionieri a Gaza che rischiano di lasciarci la pelle a causa delle azioni dell’esercito israeliano. In alcuni casi protestano contro la crescente egemonia del fondamentalismo ebraico nella società israeliana. Solo una esigua minoranza protesta anche contro la guerra e l’accanimento contro i palestinesi, l’auspicio è che questa cresca e aumenti la propria influenza ma è, appunto, un auspicio ma non la realtà.
Come nelle manifestazioni di tre anni fa contro il governo Netanyahu, nelle proteste di questi mesi non c’è nessun riferimento alla brutalizzazione delle condizioni di vita e di esistenza dei palestinesi né all’annessione di fatto di Cisgiordania e Gaza da parte di Israele e all’espulsione dei palestinesi. Su questo, come noto, tutti i sondaggi indicano che tra il 70 e l’80% degli israeliani in qualche modo condividono questa prospettiva. In Israele è ampiamente maggioritaria l’idea che la “seccatura palestinese” vada liquidata definitivamente affinché tutte le problematiche, incluse quelle più conflittuali, possano e debbano essere affrontate e risolte all’interno di uno stato esclusivamente ebraico così come definito dalla decisione della Knesset del 2018.
Nel teatro della geopolitica contemporanea, poche scene si preannunciano così cariche di significato quanto l’incontro che dovrebbe avvenire tra il primo ministro indiano, Narendra Modi, e il presidente cinese, Xi Jinping, a margine del vertice SCO in programma a Tianjin a partire da domenica prossima. Due leader che per anni si sono guardati in cagnesco oltre l’Himalaya, improvvisamente impegnati a tessere i fili di una riconciliazione che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile. Ma il vero protagonista di questa svolta non sarà presente all’evento: Donald Trump, l’uomo che con la sua politica del bastone senza carota sta regalando alla Cina quello che Pechino non era mai riuscita a ottenere con decenni di paziente diplomazia.
La storia di Washington che rischia di buttare alle ortiche vent’anni di investimenti strategici nell’alleanza con l’India è una lezione magistrale su come l’arroganza imperiale possa trasformarsi nel miglior alleato dei propri nemici. E soprattutto, è la cronaca di un suicidio annunciato: quello del sogno americano di mantenere l’egemonia globale trattando i partner come vassalli.
Facciamo un passo indietro. Dall’amministrazione Bush jr in poi, l’establishment di Washington aveva individuato nell’India il pilastro della propria strategia di contenimento della Cina. Non un’alleanza qualunque, ma il fulcro di un disegno geopolitico che doveva ridisegnare gli equilibri asiatici. Il “Quad” con Australia e Giappone, i vari accordi di difesa, la condivisione tecnologica nucleare: tutto puntava a fare di Nuova Delhi il principale contrappeso “democratico” a Pechino nella regione più dinamica del pianeta.
Abbiamo forse l’impressione di vedere un buon numero di messaggi postati sui social media a favore della resistenza palestinese, ma in realtà, secondo un gruppo di whistleblower (informatori) impiegati presso Meta – la Big Tech che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp – i messaggi che vediamo effettivamente sono solo una piccola parte di tutti i messaggi pro-Palestina che sono stati postati. La maggior parte non la potremo mai vedere perché è svanita nel nulla, censurata. E, sempre secondo questi informatori, a promuovere la massiccia censura dei post contro il genocidio in corso a Gaza c’è lo Stato sionista di Israele, con la piena complicità dei dirigenti di Meta.
La denuncia appare in due documenti bomba che rivelano come oltre 90.000 post pro-palestinesi siano stati indebitamente rimossi da Facebook e da Instagram su richiesta specifica del governo israeliano. I documenti offrono persino un esempio delle email che Israele ha scambiato con Meta per far sopprimere tutti quei post che Tel Aviv giudica «pro-terroristi» o «antisemiti» (in realtà, dicono gli informatori, si tratta di normali messaggi di solidarietà per la causa palestinese.) Inoltre, a causa dell’effetto a cascata insito negli algoritmi usati da Meta per vagliare in automatico i messaggi postati sulle sue piattaforme, altri trentotto milioni di post pro-Palestina sarebbero spariti nel nulla dal 7 ottobre 2023.
Due articoli recenti1 sollecitano a intervenire su un tema enorme: è oggi possibile (e necessaria) una rifondazione teologica dell’azione politica? Per entrambi la risposta (come la domanda) è rivolta dall’Occidente a se stesso, considerandosi tuttora asse intorno cui ruota il resto del mondo. Prima di affrontare la discussione sull’assunto, vediamo una traccia dei due articoli.
Fassina opportunamente cita l’imprescindibile Emmanuel Todd sul nihilismo europeo (La disfatta dell’occidente, 2024), per poi analizzare il libro di Eugenio Mazzarella Contro l’Occidente, Trascendenza e politica, ove si richiama il paolino “essere nel mondo ma non del mondo” (Giov 15, 18-21), giungendo infine a ‘giustificare’ ogni presente orrore, ma a ri-eleggere il cristianesimo quale chiave per il superamento del primato occidentale “in cooperazione e non in conflitto con gli altri grandi spazi di civilizzazione: confuciano, induista, islamico”.
Sabatino d’altra parte, citando il suo Cristo in politica: per un’allegra rivoluzione, sottolinea la “perversa interpretazione del messaggio giudaico-cristiano-evangelico” alla base del colonialismo predatorio, quando invece sarebbe strutturale la “visione antropologica cristiana: tutto è cristiano in Occidente: dalla Giustizia alla Sanità, dalla Cultura alla Costituzione… Caritas, Fraternitas, Aequalitas, Gratia fondano tutta la politica moderna, da Hobbes a Robespierre, da Hegel a Gramsci”. E già che c’è, coopta persino Nietzsche: “La crisi non è più morale, ma – come aveva intuito Nietzsche – è spirituale.”
Lavinia Marchetti: Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
2025-06-21 - Hits 11074
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Tra qualche
giorno inizierà il viaggio della Global Sumud Flottilla,
la più grande
missione marittima civile coordinata della storia per
sfidare il blocco illegale imposto da Israele sulla
Striscia di Gaza. Imbarcazioni
di ogni dimensione salperanno da più porti, convergendo
verso Gaza per aprire un corridoio umanitario e chiedere la
fine del
genocidio.
Con una serie di interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, Radio Città Aperta seguirà questi ultimi giorni di preparazione, gli eventi, la partenza ed il viaggio. Sulle nostre piattaforme social e sul sito potrete ascoltare i podcast e seguire gli approfondimenti.
In questo primo episodio dello Speciale Maria Elena Delia, portavoce del Global Sumud Flottilla, spiega come è nato il progetto, che obiettivi si pone di raggiungere e racconta cosa sta succedendo in questi ultimi giorni di preparativi.
L’intervista è a cura di Alessio Ramaccioni.
* * * *
Come annunciato dalle nostre piattaforme social e dal sito, inizia oggi il racconto di Radio Città Aperta, il contributo al racconto da parte di Radio Città Aperta, del viaggio della Global Sumud Flottiglia, che vuole rompere il blocco israeliano a Gaza, aprendo un corridoio umanitario. Questa prima puntata avrà come protagonista Maria Elena Delia, che è la portavoce italiana di Global Sound Flottiglia. Da qui ai prossimi giorni proporremo interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, nel corso della traversata. Entriamo nel merito con Maria Elena: vi aspettavate la visibilità, il consenso, le adesioni che stanno arrivando numerose in queste settimane?
Ho visto il
video di Michele
Boldrin “Le cause della crescita cinese”. L’ho visto una
sola volta, senza l’intenzione di
scriverci qualcosa sopra ma condividendo i miei pensieri nella
chat di amici in cui il video era stato inoltrato. Non voglio
fare una risposta
puntuale del video: guardare i video di Michele Boldrin può
causare forte emicrania e reflusso gastrico, figuratevi
guardare due volte lo
stesso video!
Tralasciando le battute, voglio solo gettare luce su ciò che Michele Boldrin ha omesso per due motivi:
Michele Boldrin è un economista. Il suo frame interpretativo è economicistico e omette (volontariamente) la sfera politica, sociale e ideologica. Ma ciò che rende l’ascesa economica cinese unica è il suo rapporto con la sovrastruttura politica e ideologica. Per questo dico che Michele Boldrin guarda il dito (economia) ma non vede la luna (politica).
L’argomentazione di Michele Boldrin si può riassumere così: l’ascesa economica cinese non ha nulla di speciale. La leadership cinese ha usufruito dei vantaggi comparati derivati dall’avere un enorme forza lavoro estremamente povera e quindi disposta a essere sfruttata dai capitalisti occidentali (in quanto lo stipendio da loro offerto era comunque molto maggiore rispetto alle altre opportunità di lavoro).
Viviamo in tempi
gonfi di aggressività. Tutto intorno a noi cerca di
organizzarla, dirigerla, deviarla. Ci viene continuamente
ricordato che ci sono
all’opera forze maligne che tralignano nell’ombra, ‘orchi’, li
ha recentemente chiamati un Presidente della Repubblica
Francese. A seconda degli orientamenti questi possono essere
posti nelle alte torri delle city finanziarie, o sotto le
guglie dorate di una remota e
antica capitale, ovvero entro moderni palazzi di vetro di una
capitale orientale. L’importante è che non siano abbastanza
vicini da
poterli contestare, da organizzare un’azione concreta[1].
Tutto questo è parte della guerra, oggi.
Per vederlo più da vicino, partiamo da dove si combatte sul campo. Sempre più l’esperienza della guerra ad alta intensità che si combatte in Ucraina ha mostrato una verità: ciò che è essenziale non è la quantità di esplosivo, di armi, di vettori, neppure di uomini; quanto la capacità di governare l’informazione.
Questa esigenza si articola su più strati:
Trump è stato chiaro con Zelensky:
“La NATO vuole proteggere l'Ucraina. Li aiuteremo in questo”, aggiungendo anche che “non diamo nulla all'Ucraina, vendiamo solo armi. Vendiamo equipaggiamento alla NATO, e loro ci pagano per questo”. Per dirla con Vance: "Le garanzie di sicurezza all'Ucraina sono compito principale europeo”.
La “coalizioni dei volenterosi” - ovvero i guerrafondai europei capeggiati da Regno Unito e Francia - comprerà armi dagli Stati Uniti per trasferirle all’Ucraina. Trump, ponendosi come mediatore - di “dubbia” imparzialità - scarica i costi del sostentamento dello Stato fallito Ucraino e del proseguimento della guerra con la Russia sugli europei.
Il riposizionamento statunitense mette in grande difficoltà i falchi europei. Vance ha raccontato di come alla fine dell’incontro tra i vertici europei e Trump quest’ultimo abbia telefonato Putin. Gli europei pensavano che la telefonata sarebbe avvenuta la settimana seguente, ma Trump aveva già il telefono in mano e “la necessità di rispettare procedure e consuetudini diplomatiche” invocata dagli europei non l’ha fermato da chiamare il Presidente russo all’una di notte.
Per quanto Trump voglia mostrarsi come l’uomo della pace, i russi non hanno la memoria corta e Il deputato della Duma Aleksej Zuravlev ricorda: “Si può dare la colpa all'amministrazione Biden quanto si vuole, ma Washington ha iniziato massicce forniture di armi a Kiev durante il primo mandato di Trump.
Recentemente
in Germania il governo di coalizione tra democristiani (CDU)
e socialdemocratici (SPD), guidato dal cancelliere Friedrich
Merz, ha preso alcune
decisioni che portano a un massiccio riarmo e rafforzamento
militare. Si tratta di un fatto che non può non destare
preoccupazione,
perché il riarmo e il militarismo della Germania nel secolo
scorso sono stati precursori delle due guerre mondiali.
Proprio per prevenire la minaccia della rinascita della potenza militare della Germania, questa, dopo la Seconda guerra mondiale, era stata divisa in due Stati, la Repubblica democratica tedesca a est e la Repubblica Federale a ovest. Dal 1990, però, il paese è di nuovo riunito in un solo Stato. La preoccupazione per la rinascita militare tedesca deriva oggi anche dall’enorme potenza industriale della Germania, che è la terza economia mondiale per Pil nominale e di gran lunga la prima in Europa anche per popolazione.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino a oggi, però, la Germania è stata un gigante economico ma un nano politico e soprattutto militare, tanto che l’esercito tedesco è stato definito “un gruppo di boy scout particolarmente aggressivo”. Merz, invece, ha dichiarato che intende fare delle Forze armate tedesche quelle più forti in Europa e, per questo, ha abolito, in riferimento alle spese militari, quello che era un tabù, il vincolo al debito, permettendo finanziamenti illimitati al settore militare. La Germania, in Europa, è, del resto, l’unico grande paese che, secondo il credo neoliberista, può permettersi ingenti finanziamenti statali, perché ha un debito pubblico pari al 63% del Pil, mentre la Francia ha un debito del 116% e l’Italia del 137%.
Ad ogni modo, l’aumento della spesa militare era stato già impresso dal precedente governo del socialdemocratico Olaf Scholtz. Secondo il Sipri, tra 2020 e 2024 la spesa militare pro capite tedesca era passata da 637,52 a 1044,42 dollari, un aumento molto più sostenuto di quelli avvenuti in Francia, passata da 811,69 a 972,62 dollari, e in Italia, passata da 548,44 a 638,76 dollari.
Il recente accordo commerciale
tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, lungi
dall’essere una paritaria stretta di mano, rappresenta la
totale capitolazione europea nei confronti delle pretese
statunitensi avanzate da
Trump, dettata più da logiche geopolitiche che da
interessi economici. Presentato dal mainstream con toni
vaghi e concilianti, questo patto
nasconde una serie di concessioni unilaterali che
sollevano molti interrogativi sul futuro geoeconomico e
politico del continente.
* * * *
L’obiettivo dichiarato dell’Unione Europea di utilizzare il proprio peso negoziale collettivo per ottenere accordi commerciali più favorevoli e stabilire una simmetria con gli Stati Uniti, pilastro dell’Occidente, si è rivelato pura finzione. L’intesa siglata è stata il frutto di una negoziazione condotta quasi esclusivamente dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il cui obiettivo primario non è il benessere commerciale dei paesi dell’Unione, ma l’alimentazione della guerra fredda con la Russia. L’Ucrainizzazione dell’Europa avanza senza ostacoli bruciando le sue risorse a favore della finanza di guerra e per continuare a ingraziarsi masochisticamente gli USA. La Ue continua a sostenere una guerra di cui l’America si rifiuta ormai di pagare i costi, mentre intende riscuoterne i “benefici”.
I termini sono impietosi: i dazi statunitensi sui prodotti europei sono triplicati, passando da una media del 4,8% al 15%, con punte fino al 30% sulle auto e al 50% sui metalli industriali. In cambio, l’Europa ha abbandonato i suoi contro-dazi per oltre 90 miliardi di euro. Ma non è tutto.
La grande mobilitazione per la Global Sumud Flottilla è un termometro del clima sociale. E ci dice che c'è ancora spazio per l'umanità
Quel che è successo a Genova in questi giorni è stato qualcosa di piuttosto anomalo, per non dire eccezionale. Un crescente movimento di solidarietà internazionale iniziato con la raccolta di generi alimentari e culminato nella serata di sabato con un grandissimo corteo che ha accompagnato la partenza delle 4 imbarcazioni che parteciperanno alla Global Sumud Flottilla e che cercheranno di portare aiuto umanitario a Gaza e di rompere l’isolamento.
Questo è un resoconto a caldo, molto parziale, di quanto accaduto nella mia città e su cui ritengo sia necessario riflettere. Music for Peace (associazione che da anni raccoglie alimenti e aiuti in genere per le popolazioni di luoghi in conflitto, dalla Palestina al Sudan per citare forse i più significativi, e per le persone indigenti della città) ha deciso di partecipare alla flottiglia raccogliendo aiuti alimentari. Assieme a MfP, tra i primi promotori ci sono i portuali del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali). In porto, dopo anni di contestazioni alle navi saudite che passavano da qui per portare armi per la guerra in Yemen, le recenti contestazioni alla nave cinese che avrebbe dovuto consegnare materiale bellico in Israele e all’ennesima nave saudita hanno rappresentato un salto di qualità.
I Soulèvements de la terre contribuiranno a «bloccare tutto» contro il piano Bayrou a partire dal 10 settembre. Numerosi comitati locali e i granai dei Soulèvements de la terre hanno iniziato a mettere a disposizione i loro mezzi materiali, reti e savoir-faire. Dedichiamo alla discussione portata avanti all’interno del movimento che si annuncia, qualche riflessione rispetto alle lotte contro l’intossicazione del mondo e contro l’alleanza dei miliardari reazionari. Riflessioni che possono dare idee su “cosa bloccare” al momento di “bloccare tutto”.
L’estate brulica di voci di rivolta. Dai canali Telegram agli appuntamenti di preparazione fissati fin dall’inizio dell’anno, dalle immagini dei video che girano e tornano da tutte le parti, dai sindacati che si lanciano in gruppi di gilets jeunes che si rilanciano, una data è nelle teste di tutti: 10 settembre. Le Soulèvements de la terre condividono questa impazienza di «bloccare tutto» per far saltare l’austerità e uscire insieme dalla strada che sembrava completamente tracciata dall’autoritarismo attuale verso un nuovo fascismo in arrivo.
Duplomb, Budget, Esercito: è troppo
Subito dopo che Macron ha annunciato il raddoppio del budget delle forze armate entro il 2027 (43 miliardi rubati ai diritti sociali e direttamente iniettati nel complesso militare-industriale), il primo ministro François Bayrou ha presentato il 15 luglio un “progetto di bilancio” per il 2026.
"La Comune fu
l'antitesi diretta dell'Impero.”
- Karl Marx,
La guerra civile in Francia
«Quando una comune socialista
è antimperialista?» La risposta di Chris Gilbert a
questa domanda segue la linea di pensiero di Karl Marx,
esaminando il suo approccio
alla 'comune': dai Grundrisse fino ai suoi ultimi appunti
e lettere sulle
comuni rurali. Dopo aver ricostruito la strategia
comunitaria marxista, Gilbert sostiene che i recenti
progetti reali in Venezuela, Bolivia e Brasile
sono conformi all'approccio marxista, unificando la
costruzione comunitaria con una spinta antimperialista
per la liberazione
nazionale.
* * * *
La guerra genocida di Israele contro Gaza, che è andata di pari passo con spietati attacchi alla Cisgiordania, al Libano, all'Iran, allo Yemen e alla Siria, tutti sostenuti e finanziati con entusiasmo dagli Stati Uniti, rappresenta un campanello d'allarme per i popoli di tutto il mondo sugli effetti devastanti dell'imperialismo. Portato avanti con la complicità di tutti i governi occidentali, il genocidio dovrebbe anche aprirci gli occhi sul più ampio sistema imperialista guidato dagli Stati Uniti. Questo sistema, anche quando non conduce una guerra totale contro i paesi del Sud globale, pone la maggior parte di essi sotto una sorta di assedio generalizzato, a volte attraverso sanzioni (ad esempio, Venezuela, Cuba, Nicaragua, Cina e Iran) o circondandoli con basi militari (come nel caso di Cina, Corea del Nord e Venezuela, tra gli altri), per non parlare del sistematico drenaggio di valore e di risorse materiali da parte dell'imperialismo in tali paesi, che ha effetti sociali e ambientali devastanti.
Dato questo contesto, in cui l’imperialismo contrapposto alle nazioni e ai popoli oppressi rappresenta inequivocabilmente la principale contraddizione, ci si potrebbe interrogare sull’importanza di una comune socialista.
§ 1. – Una critica
socialdemocratica
Il volume curato da Stefano D’Andrea (Serve meno Europa? Domande radicali sull’Unione europea, Roma, Rogas Edizioni, 2025) raccoglie i contributi di numerosi studiosi, molti dei quali partecipanti a un convegno organizzato dal Centro Studi per la Costituzione e la Prima Repubblica (CPR) tenutosi a Roma nell’aprile 2024. Gli Autori hanno tentato di offrire risposte a domande radicali, come recita il sottotitolo, su quella “strana entità”[1] chiamata Unione europea.
Un titolo alternativo avrebbe potuto essere ‘Tornare ai fondamentali’. Infatti, il libro intende indagare che cosa è l’Unione europea da molteplici punti di vista, senza le superfetazioni che una dottrina, forse troppo engagé, ha costruito negli anni e senza ricadere in quello che già Treves, come riportato da D’Andrea, chiamava «diritto del “voler essere”»[2], ossia quello studio del diritto che si allontana dalle disposizioni e dalle norme per agganciarsi alle speranze e alle aspirazioni soggettive.
Esiste, peraltro, una cornice ideologica comune che racchiude i vari contributi. Come rilevato dal Curatore, è il pensiero social-democratico, da intendersi come valorizzazione di quel diritto al lavoro, delineato nell’articolo 4 della Costituzione italiana, che impone alla Repubblica di perseguire politiche volte alla piena occupazione[3]. Forse si tratta di un avviso al lettore che, a dispetto di una disattenta prima impressione, non si tratta di un libro “sovranista”, nel senso che il termine ha assunto nel linguaggio corrente, ossia come sinonimo di rivendicazione della sovranità nazionale in senso regressivo e autoritario[4]. D’Andrea ricorda che una critica social-democratica all’Unione non è nuova, ma è apparsa in Italia durante gli anni della crisi dei debiti sovrani e, forse proprio per la sua genesi così intimamente collegata alla crisi finanziaria, si è caratterizzata per essersi concentrata sui problemi economici[5]. Uno degli scopi – riusciti – del libro è andare oltre i paletti della “prima” critica per indagare temi lasciati più in disparte.
Nel teatro della geopolitica contemporanea, poche scene si preannunciano così cariche di significato quanto l’incontro che dovrebbe avvenire tra il primo ministro indiano, Narendra Modi, e il presidente cinese, Xi Jinping, a margine del vertice SCO in programma a Tianjin a partire da domenica prossima. Due leader che per anni si sono guardati in cagnesco oltre l’Himalaya, improvvisamente impegnati a tessere i fili di una riconciliazione che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile. Ma il vero protagonista di questa svolta non sarà presente all’evento: Donald Trump, l’uomo che con la sua politica del bastone senza carota sta regalando alla Cina quello che Pechino non era mai riuscita a ottenere con decenni di paziente diplomazia.
La storia di Washington che rischia di buttare alle ortiche vent’anni di investimenti strategici nell’alleanza con l’India è una lezione magistrale su come l’arroganza imperiale possa trasformarsi nel miglior alleato dei propri nemici. E soprattutto, è la cronaca di un suicidio annunciato: quello del sogno americano di mantenere l’egemonia globale trattando i partner come vassalli.
Facciamo un passo indietro. Dall’amministrazione Bush jr in poi, l’establishment di Washington aveva individuato nell’India il pilastro della propria strategia di contenimento della Cina. Non un’alleanza qualunque, ma il fulcro di un disegno geopolitico che doveva ridisegnare gli equilibri asiatici. Il “Quad” con Australia e Giappone, i vari accordi di difesa, la condivisione tecnologica nucleare: tutto puntava a fare di Nuova Delhi il principale contrappeso “democratico” a Pechino nella regione più dinamica del pianeta.
Lavinia Marchetti: Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
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A poche ore dal
trionfale summit SCO di Tianjin, Pechino mette sul tavolo il
piatto forte: la colossale parata che si è
tenuta stamattina a
Pechino è costellata da una serie infinita di fatti ed eventi
di portata storica, a partire dal fatto che, come ricorda il South China Morning
Post, è “la prima volta che Kim, Xi e Putin, tutti
considerati rivali degli Stati Uniti, si sono riuniti nello
stesso luogo, inviando
un forte segnale di unità contro l’Occidente guidato dagli
Stati Uniti”. “Oggi ci riuniamo solennemente per commemorare
l’80° anniversario della vittoria della Guerra di resistenza
del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della
Guerra mondiale
antifascista” ha ricordato
nel suo breve, ma intenso, intervento Xi
Jinping; un atto dovuto “per ricordare insieme la
storia e onorare la memoria dei
martiri”, ma anche per “coltivare la pace e creare il futuro”.
“La guerra di resistenza del popolo cinese contro
l’aggressione giapponese” ha sottolineato Xi “è una parte
importante della guerra antifascista
mondiale. Il
popolo cinese ha compiuto grandi sacrifici a livello nazionale
e ha contribuito in modo significativo alla salvezza della
civiltà umana e alla
salvaguardia della pace mondiale”; “Oggi, l’umanità si trova
nuovamente di fronte alla scelta tra pace o guerra, dialogo o
scontro, vittoria per tutti o somma zero. Il popolo cinese si
schiera fermamente dalla parte giusta della storia e del
progresso della civiltà
umana, aderisce al percorso dello sviluppo pacifico e lavora
fianco a fianco con i popoli di tutti i paesi per costruire
una comunità con un
futuro condiviso per l’umanità”. “Il grande rinnovamento della
nazione cinese è inarrestabile! La nobile causa della
pace e dello sviluppo per l’umanità trionferà sicuramente!”.
Se volete una rassegna piuttosto esaustiva di tutto quello che
è stato messo in mostra dal punto di vista militare, vi
consiglio questo lungo articolo su Guancha
o il canale Telegram della
nostra Clara Statello, che stamattina era
particolarmente in forma e su di giri.
Mi vorrei concentrare piuttosto sul significato politico e sulle reazioni: “Il significato della parata militare del 3 settembre”, scrive su Guancha Shen Yi, professore di Politica Internazionale all’Università di Fudan, “sta diventando sempre più evidente”:
Negli ultimi anni in
Europa stanno circolando due proposte politiche di grande
impatto, che vengono considerate proficue sia per il lavoro
dipendente che per
l’impresa. Stiamo parlando della riduzione dell’orario
lavorativo a parità di salario e di produttività e del salario
minimo
orario. Sulla prima abbiamo già scritto[1], mentre ora proveremo a fare
il punto sulla seconda – quella sul salario minimo –, sulla
quale ultimamente sembra starsi concentrando il dibattito
politico.
Il dibattito degli ultimi anni
Nel 2022 l’Unione Europea promulgò una Direttiva[2] – ossia una dichiarazione d’indirizzo che impone agli Stati nazionali di affrontare certe tematiche e perseguire determinati obiettivi a esse inerenti, lasciandoli però liberi di scegliere le modalità con cui farlo – che chiedeva il «miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo». Quindi: non direttamente il salario minimo, bensì l’accesso alla tutela che questo garantisce. Inoltre, «qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva [in uno Stato membro dell’Unione] sia inferiore a una soglia dell’80%», la Direttiva avrebbe imposto la costruzione di «un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime» e, quindi, la messa a punto di «un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva». In caso si fosse adottato un salario minimo legale (e solo in questo caso), poi, si sarebbe dovuto ricorrere a dei «valori di riferimento indicativi (…). A tal fine, si possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio». Considerando che il salario lordo medio italiano è attualmente di 15,57€/ora e, il netto, di 11,25€/ora[3], appare chiaro che la Direttiva Ue sia semplicemente un timido atto d’indirizzo volto a uniformare il mercato del lavoro comunitario soprattutto per quanto riguarda i Paesi economicamente meno sviluppati, non l’Italia.
Allarmistica e faziosa. Così m’è apparsa l’attenzione che i media italiani hanno riservato al meeting della Shanghai cooperation organization (Sco) tenutosi in Cina nei giorni scorsi.
Allarmistica perché non c’era alcun pericolo in vista. La Sco esiste da quasi trent’anni. È una presenza tranquilla, ben nota chiunque mastichi un po’ di politica estera, e solo degli occidentalisti faziosi potevano dipingerla come una specie di sinistra macchinazione di Cina e Russia contro l’Occidente.
Ma riflettiamo su ciò che la Sco rappresenta sullo sfondo della grande storia: quest’associazione è l’espressione di un mega trend epocale: il ReOrient. Movimento parallelo, quasi ortogonale rispetto al più noto mega trend del Grande Sud che si riflette nei Brics.
La Sco è formata solo da paesi eurasiatici e si sviluppa lungo l’ isola-mondo che va dall’Atlantico al Pacifico e all’Oceano indiano. Parliamo di un corridoio terrestre che parte dalla Cina e raggiunge le coste della penisola iberica e del Mediterraneo attraverso la Via della Seta, che è stata per secoli la strada maestra tra le grandi civiltà dell’Eurasia. I paesi della Sco sono gli attori di una silenziosa “grande riconnessione euroasiatica”, un asse strategico che collega Turchia, Iran, Russia, Cina, India e paesi centro-asiatici. Temporaneamente offuscato dallo scontro tra la Russia e l’Unione europea via Ucraina, quest’asse rappresenta una potente forza connettiva del tessuto economico e politico del mondo.
In tanti parlano della Cina da molto lontano. Noi preferiamo ascoltare chi ci vive e lavora, che sicuramente ha il polso della situazione e non risponde alle esigenze del «datore di lavoro» (una qualsiasi testata occidentale). Magari si possono avere presupposti diversi, visioni non collimanti, ma almeno si possono avere informazioni non manipolate.
E’ il caso di questo articolo di Michelangelo Cocco, da Shangai, ex caporedattore de il manifesto, pubblicato sul suo spazio Substack («Rassegna Cina»), che consigliamo caldamente come abbonamento «anti-droga» (i media mainstream, in tempi di guerra, diventano letteralmente spacciatori in senso stretto).
Sulla parata di Pechino si possono elaborare molti giudizi, ma a partire da qui, e non da «intenzioni» attribuite ai leader cinesi (sulla falsariga degli articoli che promettono di spiegarci «cosa c’è nella testa di Putin» o di qualsiasi altro capo di stato classificato come «nemico»).
E che la Cina di oggi sia una potenza economica e tecnologica, quindi anche militarmente «solida», era chiaro anche prima della parata.
Ci sono frasi che ti avvolgono, quasi ti abbracciano, e ti costringono a guardare dove non vorresti. Ieri sera mi è successo con un libro dal titolo profetico. È stata un’esperienza viscerale, qualcosa che mi ha attraversato nel profondo del corpo. La frase era questa:
«Quando si sta normalizzando un genocidio, ogni deragliamento della normalità conta».
Quella frase ha acceso in me una strana inquietudine, una raffica di domande. Che cos’è, davvero, la normalità? Quali sono le sue coordinate invisibili? Come riconoscerla, come fissarla in un’immagine per poterla comprendere fino in fondo? E da cosa, o da chi, occorre prendere le distanze?
Ogni volta che credevo di aver trovato una risposta, quella frase sollecitava altre domande, tutte decisive.
Esiste un gesto, anche il più piccolo, un frammento di azione, una mossa azzardata, capace di incrinare la superficie liscia e terribile della normalità? E in che modo un atto di resistenza individuale può connettersi a qualcosa che trascende il singolo, trasformandosi in un impegno collettivo?
La frase mi ha colpito come una frusta, lasciandomi dolente e intrappolato in una consapevolezza agghiacciante. La volontà genocidaria appare troppo vasta, e la rete delle sue complicità troppo ramificata, per immaginare un cambiamento significativo. Da lì nasce un senso profondo di inutilità: la percezione di essere impotente, ridotto a mero spettatore.
Una buona definizione del potere politico è quella che lo caratterizza come l’arte di mettere gli uomini in rapporti falsi. Questo e non altro fa innanzitutto il potere, per poterli poi governare come vuole. Una volta che si sono lasciati introdurre in rapporti obliqui in cui non possono riconoscersi, gli uomini sono infatti manipolabili e orientabili a proprio piacimento. Se essi credono così facilmente nelle menzogne che vengono loro proposte, è perché false sono innanzitutto le relazioni in cui, senza che se ne accorgano, si trovano già sempre.
La prima mossa di una strategia politica degna di questo nome è pertanto la ricerca di un via d’uscita dai rapporti falsi in cui il potere ha posto gli uomini per poterli governare. Ma proprio questo non è facile, perché un rapporto falso è precisamente quello dal quale non si vede una via d’uscita. Qualcosa come una via d’uscita diventa possibile solo se comprendiamo che il rapporto falso è la forma stessa del potere, che trovarsi in un rapporto falso significa essere in una relazione di potere. Che falso, cioè, il rapporto è non perché mentiamo, ma perché manca la coscienza del suo carattere essenzialmente politico.
Alla luce delle
trasformazioni strutturali del capitalismo contemporaneo
Andrea Pannone scrive
che oggi è necessario ridefinire il concetto di potere,
superando la concezione che lo intende come semplice
capacità di influenzare
l’azione altrui tipica dell'economia mainstream e ampliando
la prospettiva marxista. Pannone in quest'articolo definisce
potere come la
capacità differenziale di agire sulla sfera economica,
politica e sociale attraverso la centralizzazione del
controllo di risorse materiali,
umane e finanziarie.
* * * *
L’analisi scientifica del potere: un vuoto da colmare
Nel panorama dell’analisi economica, il concetto di potere — inteso come capacità di plasmare relazioni sociali e controllare risorse — rimane sorprendentemente marginale, specialmente nell’economia mainstream. I paradigmi neoclassici, focalizzati su equilibrio di mercato, efficienza e razionalità individuale, tendono infatti a ridurre il potere a un effetto secondario di dinamiche competitive, trascurando il suo ruolo strutturale nelle asimmetrie tra capitale e lavoro, o tra grandi corporation e interessi collettivi. Sebbene però le scuole eterodosse, come l’economia marxista, riconoscano il potere come intrinseco alle relazioni di produzione, le loro analisi, pur ricche di profondità teorica, spesso mancano di un approccio sistematico che combini rigore analitico con una chiara validazione empirica. Questo paper rappresenta un primo passo verso la costruzione di un quadro metodologico scientifico che integri il potere come categoria centrale nello studio delle dinamiche dell’economia contemporanea, dalla finanziarizzazione, alla centralizzazione del capitale, fino alla formazione di temibili oligarchie transnazionali.
Riprendo a
scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è
purtroppo dipesa
dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate
fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono
dedicato a tempo pieno a
completare la prima stesura di un libro che uscirà
dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi
contemporaneamente a un lavoro di
Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo
Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto
sono parte di un unico
progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in
merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di
seguito, soprattutto
per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di
centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per
commentare.
* * * *
Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore).
L’istrionico presidente americano da quando è riuscito miracolosamente a farsi rieleggere lo scorso novembre, scampando a numerosi attentati, è stato decisamente imprevedibile. Davvero in pochi hanno azzeccato la sua linea, ammesso e non concesso ne abbia davvero mai delineata una. Dalla politica estera isolazionista con l’attacco ai siti nucleari iraniani, alla vendita di armi per il fronte ucraino come via per la pace, le contraddizioni sono risultate veramente forti.
Su una cosa Trump si è dimostrato coerente: il rilancio della crescita economica degli Stati Uniti come priorità a qualsiasi costo. E quando un personaggio come lui mette in campo l’extrema ratio
si può essere certi che non cerca mezze misure.
Infatti, sul piano commerciale ha avviato un piano di dazi verso il mondo senza alcun precedente, seppellendo di fatto la globalizzazione e rendendo superfluo in un batter d'occhio il WTO.
Il piano tuttavia gli è finora riuscito a metà e proprio il Deep State americano, che tanto ha avversato senza mai riuscire a vincerlo, sembra essersi attivato per il sabotaggio della marcia indietro dalla globalizzazione.
Oltre alle spaccature politiche nel MAGA, nell’ultima settimana è arrivata la tegola sulla testa della Corte d’Appello di Washington che ha dichiarato illegali i dazi, confermando una sentenza della Corte del Commercio internazionale, rimandando di fatto alla Corte Suprema la decisione sulla sospensione definitiva del sistema tariffario entro il 14 ottobre.
Israele è guidato da un governo crudele e da un Primo Ministro senza cuore, come non se ne sono mai visti prima. Le vite umane, che si tratti di abitanti di Gaza, ostaggi o soldati, non interessano a questo governo. Sta Massacrando gli abitanti di Gaza e abbandonando ostaggi e soldati con la stessa equanimità.
A opporsi c’è un piccolo movimento extraparlamentare, umano e coraggioso, che dà lo stesso valore a tutte le vite umane.
Tra questa manciata di persone e il governo malvagio si trova il campo di centro. La maggior parte di loro lotta contro la crescente perdita di Umanità e l’inganno dimostrato dal governo. Le persone in questo campo sono scioccate da ogni video, perdendo il sonno per la sorte degli ostaggi pelle e ossa e dei soldati morti. Ma quando sentono i resoconti di un orribile Massacro in un ospedale, sbadigliano, disinteressati.
Sono migliori del governo e dei suoi sostenitori. Sono umani e mostrano solidarietà, ma solo in modo selettivo. Non esiste una moralità a metà. Proprio come la moralità a due pesi e due misure non è moralità, così lo è la moralità a metà. È l’opposto della vera moralità. È così che sono le persone in questo campo. Si preoccupano per la vita di 20 ostaggi, ignorando il fatto che il loro Paese uccide in media 20 innocenti all’ora.
Per loro, l’Umanità si ferma ai confini della nazionalità. Non lasceranno nulla di intentato per aiutare un israeliano, ma distoglieranno lo sguardo con disinteresse per il caso di un palestinese il cui destino è spesso molto peggiore.
E ora, per la serie “Che i rimorsi seppelliscano i rimorsi”, la posta della settimana.
Caro Daniele, dire “stop al genocidio” non serve a risolvere nulla ai palestinesi. (Sonia G.)
Questo è il sofisma utilitaristico caro ai sionisti, già renziani, de Linkiesta, che però si vantarono d’aver contribuito ad annullare il concerto di Gergiev (due pesi e due misure, da bravi propagandisti: chi ragiona da tifoso, e non in base a dei principi, cade sempre in contraddizione). 1500 artisti (fra loro Ken Loach, Roger Waters, Alba e Alice Rohrwacher, Valeria Golino e Mario Martone) si sono esposti contro il genocidio a Gaza e loro li sbertucciano insinuando opportunismi (“Vogliono essere cagati, cercano il consenso social, il posizionamento giusto è un ottimo rifugio se non hai talento, le opinioni degli attori sono irrilevanti, fingono che gli importi qualcosa della gente che muore”). Dimenticano che è una questione di coscienza. Il più è avercela. In realtà ai sionisti scoccia che la gente apra gli occhi grazie ai vip che boicottano Israele e i suoi propagandisti; e che ne scrivano New York Times e Guardian. Poi c’è il fuoco amico (“inaccettabile censura”, “eroi di una presunta rivoluzione morale ipocrita e vanitosa”, “esibizione vanagloriosa di una qualche forza del bene”) di chi da un po’ argomenta anche contro gli “antifascisti immaginari”. Questo era un sofisma di Buttafuoco (“l’antifascismo in assenza di fascismo”; ma forse era modestia, dato che è fascistissimo, come ammise gongolando Giuliano Ferrara). Intervistato dal Fatto (domanda:
I media mainstream presentano i paesi del Sud del mondo che richiedono una giustizia su scala globale come una minaccia alla nostra esistenza
Nei giorni scorsi si è tenuto in Cina un doppio evento: la riunione della Shanghai Cooperation Organisation (Sco), che raggruppa i principali paesi dell’Asia continentale oltre a Russia e Bielorussia, e dall’altra i festeggiamenti per la vittoria della Cina nella guerra antifascista contro il Giappone. Si sono così trovati a discutere allo stesso tavolo i leader della Cina, della Russia, dell’India, del Pakistan e così via.
Il vertice è stato un fatto di grande rilevo per vari motivi. Il primo è che ha riunito anche paesi che storicamente hanno avuto buoni rapporti con l’occidente – basti pensare all’India – segnalando così il declino dell’egemonia occidentale sui paesi del sud del mondo. In secondo luogo il vertice ha messo attorno allo stesso tavolo paesi che hanno vari contenziosi anche militari (Pakistan, India, Cina, ecc.). Importante che questi paesi invece di accentuale il conflitto preferiscano avere luoghi di mediazione, evitando che il singolo conflitto determini una situazione di conflitto totale.
Il terzo motivo che segna l’importanza di questa riunione riguarda il peso degli interlocutori: che Cina, Russia e India si trovino a discutere di sicurezza comune, di sviluppo di una banca comune e convengano sulla necessità di una modifica della governance mondiale che porti alla democratizzazione delle relazioni tra le nazioni attorno alla proposta di rilancio e di riforma delle Nazioni Unite e delle istituzioni a esse connesse, costituisce un fatto di grande momento.
Una decina di
anni fa affrontavamo la questione della «generazione
scomparsa», composta da quei
militanti «di movimento» nati negli anni Settanta. Da quel
decennio, più ancora che indiscutibili ricchezze, tali
militanti hanno
ereditato innanzitutto un complesso: «quello dell’essere
arrivati tardi». La fonte di ispirazione è diventata
mitologia, i
rapporti intergenerazionali si sono non di rado trasformati
in accettata subalternità pedagogica, la venerazione di una
memoria iconica
è sfociata nel torcicollo politico, cioè nell’incapacità di
guardare alle complessità del presente per fuggire in un
passato spesso caricaturale. D’altro canto, molti di coloro
che hanno vissuto politicamente quel decennio, con il
passare del tempo, sono stati
vittime della nostalgia canaglia, in primo luogo quella per
la trascorsa gioventù: così, anziché mettere al servizio
dell’oggi i limiti della loro esperienza, l’hanno
trasfigurata in metro di misura della verità, in
memorialistica picaresca, o in
uno spaghetti western. Come se bastasse lo spirito
d’avventura o l’eroismo combattentistico individuale a
cambiare le sorti di un mondo
senza tempo, indipendentemente dal contesto storico e dalle
composizioni sociali. Questo articolo spiega come la
necessità di lottare contro la
dominante rimozione degli anni Settanta sia stata sublimata
nell’ideologia del «settantismo». E in alcuni ambienti la
toppa è
stata forse peggiore del buco.
Oggi il problema del settantismo riguarda bolle sempre più residuali e anagraficamente connotate, orfane di quello che fu il Movimento (con la maiuscola, portato dell’anomalia italiana) e nello sfarinamento del «noi», che di epoca in epoca esiste solo come prodotto di un processo collettivo.
Commento alla lettura del brano Oltre la giustizia climatica (titolo originale: Beyond Climate Justice, in Ekaterina Degot e David Riff (a cura di), The Way Out of…, Hatie Cantz Verlag, Berlino, 2022, pp. 105-130) in Jason W. Moore, Oltre la giustizia climatica. Verso un’ecologia della rivoluzione
Il libro [1] di Jason W. Moore
raccoglie una serie di testi (alcuni dei quali inediti)
dedicati al rapporto tra lotta “ambientalista” e lotta
“politica”. Uno
di questi testi – Oltre la giustizia climatica – dà
anche il titolo al libro e sviluppa una dura critica nei
confronti
dell’ambientalismo americano per come si è sviluppato dalla
fine degli anni ‘60 fino ad arrivare a quello che Moore chiama
Antropocene popolare, caratterizzato da un approccio
depoliticizzato e interclassista verso i problemi ecologici.
Moore inizia la propria riflessione con una critica nei confronti di certe dichiarazioni catastrofiste di Roger Hallam, fondatore dell’organizzazione ambientalista internazionale Extinction Rebellion
“Sto parlando del massacro, della morte e della fame di 6 miliardi di persone in questo secolo” [2]
Moore mostra come tale approccio non sia per nulla nuovo e sia stato utilizzato consapevolmente, sin dalla fine degli anni ‘60, per produrre un discorso politico di non contrapposizione nei confronti del sistema e di spostamento dell’attenzione dei giovani dal terreno delle lotte sociali e politiche, a cominciare dalla lotta contro la guerra in Vietnam (che in quella fase era un terreno di vasta mobilitazione e un punto politico di coagulo), per orientarli verso un certo tipo di denuncia ambientalista, non solo non anti-sistemica, ma addirittura per molti versi collaborativa con l’establishment politico.
Nel 1967 Martin Luther King tiene un discorso intitolato “oltre il Vietnam” nel quale propone la “teoria dei tre mali” e spiega come le questioni dello sfruttamento, del razzismo e della guerra non siano scollegate, ma siano piuttosto tre diversi aspetti di uno stesso meccanismo.
Martin Luther King ha ragione: l’imperialismo americano ha bisogno della guerra per imporre la propria supremazia a livello internazionale e ha bisogno del razzismo per tenere soggiogato il proletariato nero e costringerlo ad accettare condizioni di inferiorità materiale e culturale; e ovviamente ha bisogno dello sfruttamento dei lavoratori perché è proprio sulla base di questo sfruttamento che funziona l’accumulazione di capitale.
Ci sono molti modi guardare al vertice dello Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shangai), che si è tenuto a Tjanjin e prosegue di fatto oggi, a Pechino, con le celebrazioni per l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il più diffuso, nell’establishment occidentale (riflesso integralmente dalla schiera dei media mainstream) è la paura. Paura “militarizzata” chiamando in causa la guerra in Ucraina o le armi che – come in ogni parata militare in qualsiasi angolo del mondo – la Cina esibisce per l’occasione.
Ma la paura vera è quella di trovarsi alla fine del lungo ciclo storico in cui l’Occidente “anabolizzato” dal modo di produzione capitalistico ha tenuto il resto del mondo sotto un tallone di ferro occasionalmente rivestito di velluto.
I vantaggi economici e tecnologici del capitalismo hanno ora molti altri protagonisti, irrobustiti fra l’altro dal non aver seguito l’ubriacatura neoliberista euro-atlantica degli ultimi 40 anni, avendo conservato tutti – chi in un modo, chi in un altro – un ruolo centrale per lo Stato.
Campione indiscusso di questa sorta di “keynesismo” capace di combinare programmazione, piani quinquennali, semi-libertà di impresa, politiche salariali che hanno fatto crescere la retribuzioni più velocemente del Pil, ecc, è sicuramente il padrone di casa.
In una interessante intervista resa due giorni fa (29 agosto) all’accademico norvegese Glenn Diesen, l’ex diplomatico britannico Alistair Crooke, fondatore del Forum Conflitti con sede a Beirut, illustrava come la crescente opposizione al progetto di dominio occidentale guidato dagli USA provocasse da parte occidentale un processo di militarizzazione crescente e di escalation.
L’intervista partiva dall’assedio occidentale alla Russia e dalla crisi ucraina -come riportato anche nel titolo: ”La pazienza della Russia è finita. L’escalation inizia”- per poi allargarsi ai massacri e alle guerre scatenate da Israele con l’appoggio degli USA e di tutto l’Occidente.
In effetti gli Occidentali, riuniti nella NATO sotto la direzione degli USA, hanno portato negli ultimi 30 anni i confini di questa alleanza fin dentro i confini dell’ex Unione Sovietica, nel tentativo di minacciare e indebolire la Russia, con l’obiettivo finale di sottometterla o frantumarla e di impossessarsi delle sue enormi ricchezze naturali. Sono stati organizzati colpi di stato e “rivoluzioni colorate” in Serbia - alleato della Russia, e già attaccata militarmente- in Georgia, in Ucraina, oltre alla guerra per bande scatenata in Siria, altro alleato della Russia.
La Russia ha però reagito con grande consapevolezza del pericolo ed energia a queste pressioni, e questo causa un tentativo di escalation del conflitto, in cui però il compito di rimanere in prima linea viene affidata dagli USA ai masochisti europei, che avrebbero invece tutto l’interesse ad avere buoni rapporti economici e politici con la Russia.
L’indifferenza e la pochezza culturale che avvolgono il nostro presente fanno capolino anche in quella che si dovrebbe definire come cultura cinematografica: basta leggere le dichiarazioni di alcuni registi e attori italiani presenti a Venezia per la Mostra del cinema che definiscono come stronzate, inutili e scadenti gli appelli per Gaza. Qualcuno di loro ha distrattamente firmato una petizione, probabilmente più per conformismo con la categoria che per altro, salvo poi pentirsene o accorgersi che questa, strada facendo, ha avuto l’ardire di chiedere di starsene a casa a chi pubblicamente ha sostenuto e sostiene la deportazione e lo sterminio per armi e per fame del popolo palestinese. Un vero e proprio atto di “censura”, per carità! Non sia mai.
Altri sono al Lido per passeggiare sul tappeto rosso e per farsi vedere a qualche patetico ricevimento sponsorizzato indossando il vestito buono sulla barba di tre giorni e i capelli un po’ spettinati – che fa sempre tanto “gente di cinema” – per promuovere il loro nuovo filmettino senza nemmeno preoccuparsi che esca nelle sale, confidando al massimo, quando sarà il momento, in qualche autoreferenziale Donatello di consolazione per soddisfare l’ego artistico. Ma in cosa si sta trasformando la Mostra del Cinema? In un sovraffollato centro commerciale di una domenica di fine estate, in cui le opere in concorso sono trattate alla stregua di oggetti di consumo, di merci esposte pronte per essere apprezzate dal primo ricco acquirente, mentre ai confini d’Europa si sta consumando un terribile genocidio? Ma sì, certo, cosa importa ai ricchi e colti ‘artisti’ bianchi europei e italiani dello sterminio del popolo palestinese?
Israele, con la complicità degli Stati Uniti, sta commettendo un genocidio a Gaza attraverso la fame di massa della popolazione, nonché omicidi di massa diretti e la distruzione fisica delle infrastrutture di Gaza. Israele fa il lavoro sporco. Il governo degli Stati Uniti lo finanzia e fornisce copertura diplomatica attraverso il suo veto all’ONU. Palantir, tramite “Lavendar“, fornisce l’intelligenza artificiale per un efficiente omicidio di massa. Microsoft, tramite i servizi cloud di Azure, e Google e Amazon tramite l’iniziativa “Nimbus“, forniscono l’infrastruttura tecnologica di base per l’esercito israeliano.
Questo segna i crimini di guerra del XXI secolo come un partenariato pubblico-privato tra Israele e Stati Uniti. La carestia di massa da parte di Israele nei confronti della popolazione di Gaza è stata confermata dalle Nazioni Unite, da Amnesty International, dalla Croce Rossa, da Save the Children e da molti altri. Il Consiglio norvegese per i rifugiati, insieme a 100 organizzazioni, ha chiesto la fine dell’uso militare degli aiuti alimentari da parte di Israele. Questa è la prima volta che la carestia di massa è stata ufficialmente confermata in Medio Oriente.
La portata della carestia è sconcertante. Israele sta sistematicamente privando di cibo oltre 2 milioni di persone. Oltre mezzo milione di palestinesi affrontano una fame catastrofica e almeno 132.000 bambini sotto i cinque anni rischiano di morire per malnutrizione acuta. La portata dell’orrore è ampiamente documentata da Haaretz in un recente articolo intitolato “La fame è ovunque”. Coloro che riescono in qualche modo ad accedere ai siti di distribuzione alimentare vengono sistematicamente presi di mira dall’esercito israeliano.
Lavinia Marchetti: Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
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Gli eventi del vertice hanno messo in evidenza potenzialità e rischi di un nuovo ordine che si rafforza di pari passo con il tumultuoso declino di un Occidente sempre più smarrito e paranoico
Mentre
l’Occidente è assorbito dalle turbolenze nei rapporti
transatlantici e da un crescente declino economico e politico,
la Cina ha riunito un folto gruppo
di leader non occidentali nella città settentrionale di
Tianjin, ponendosi alla guida di un “Sud Globale” sempre più
determinato a far sentire la propria voce nelle questioni
internazionali.
I ventisette leader si sono incontrati a partire dal 31 agosto per celebrare il 25° Vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO), durante il quale il presidente cinese Xi Jinping ha invocato una nuova era di governance globale che salvaguardi i paesi in via di sviluppo e si opponga alle politiche coercitive occidentali e allo scontro fra blocchi contrapposti.
La SCO nacque nel 2001, è governata dal Consiglio dei Capi di Stato che si riunisce annualmente, e include una Struttura Regionale Anti-Terrorismo (RATS, secondo l’acronimo inglese). Essa trae origine dal gruppo dei Cinque di Shanghai (Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan) costituitosi nel 1996 per risolvere dispute di confine e contrastare le ingerenze esterne nella regione centroasiatica.
Ai Cinque di Shanghai si sono poi associati nel corso degli anni l’Uzbekistan (in coincidenza con la nascita della SCO), India e Pakistan (nel 2017), l’Iran (2023) e la Bielorussia (2024).
Ai dieci membri dell’Organizzazione si aggiungono due stati “osservatori” (Mongolia e Afghanistan) e quattordici “partner di dialogo” (Arabia Saudita, Armenia, Azerbaigian, Bahrein, Cambogia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Maldive, Myanmar, Nepal, Qatar, Sri Lanka e Turchia).
A Tianjin anche il Laos è entrato a far parte di quest’ultimo gruppo, portando a 27 il numero totale di paesi partecipanti.
Quando, sia pure di sfuggita, la nostra premier ha chiamato quel che si sta consumando a Gaza “genocidio”– unendosi così ai molti italiani che lo considerano tale (secondo YouTrend il 63%)[1] – l’evidenza è parsa così flagrante da prevalere sulla Realpolitik[2].
Ma l’evidenza non è incontestata. Dal giorno in cui la parola “genocidio” è stata associata ai fatti di Gaza, si è messa in moto una specie di polizia terminologica, che molto alacremente (mentre le bombe continuavano a cadere e i palestinesi a morire) ha inchiodato gli accusatori di Israele alle loro responsabilità semantiche.
“Genocidio”, ci è stato detto, non è la parola giusta, non c’è certezza che di questo si tratti. “Genocidio” è, infatti, una parola politicizzata, polarizzata, permeata di narcisismo etico e ansia di demonizzazione, se non di un vero e proprio sentimento antisemita; spesso, infatti, esprimerebbe la volontà perversa di azzerare la memoria della Shoah accusando lo stato ebraico del crimine dei crimini; sarebbe, dunque, una parola carica di aggressività, che fa degenerare il dibattito, fomentando un muro contro muro politicamente sterile.
Ragionare su questi argomenti, le loro logiche di fondo e i loro aspetti problematici – a cominciare dalla loro inconsistenza giuridica – può essere utile: può servire a chiarire importanti sfumature dell’idea di “genocidio”, a risalire alle sue radici storiche, e a identificare con più chiarezza le situazioni in cui è indispensabile chiamarla in causa. Può offrici, in particolare, l’opportunità di evidenziare un fattore chiave dei processi genocidari: il fattore tempo (la cui importanza è tanto ovvia quanto trascurata).
Quali sono state, dunque, le logiche della negazione? Ne identificherò quattro tipi – che spesso si intrecciano – e di ciascuno mostrerò i risvolti problematici. Prima di iniziare, però, sono necessarie due note di metodo: 1) l’elenco potrebbe essere più lungo, perché idee legate a un certo argomento sono spesso sviluppate e sostenute indipendentemente, ma ho cercato di puntare all’essenziale; 2) le mie considerazioni non si addentreranno nel fondo oscuro della psiche individuale e collettiva, tra le radici profonde della negazione.
Continua il panico nelle redazioni
dei
media filogovernativi: la dimostrazione di forza degli Stati
canaglia degli ultimi giorni, per i pennivendoli
suprematisti, ha rappresentato
uno choc senza precedenti; la comfort zone è stata demolita, e
non erano preparati. Davvero credevano alle minchiate che
scrivevano sulla
Russia pompa di benzina con la bomba atomica e sulla
Cina copiona sull’orlo del collasso a causa degli
sprechi
pubblici. Visto che non si sono accorti di questo enorme treno
contro cui stavano andando a sbattere, ora sono terrorizzati
che quel treno possa
arrivare anche nel loro giardino di casa e vedono ovunque
piloti in grado di guidare quel treno, compreso nei baffetti
del leader
Massimo. L’occhio di riguardo di Massimo
D’Alema per Pechino non è una novità: da tempo
baffino
pronuncia parole ragionevoli sul sistema cinese, sulla sua
ascesa pacifica e sul suo ruolo nel Mondo Nuovo.
Questo week end la relazione,
però, ha fatto un salto di qualità: alla storica parata del 3
settembre, l’unico italiano ufficialmente presente era proprio
lui,
l’ex primo ministro della repubblica italiana che durante la
parata, intervistato da un’emittente cinese, ha avuto l’ardire di
affermare che aveva accettato con piacere l’invito “in
forza della memoria e del ricordo di una lotta eroica come fu
quella del popolo
cinese per la sconfitta del nazismo e del fascismo”; “Confido
che qui da Pechino venga un messaggio per il ritorno di uno
spirito di
amicizia tra tutti i popoli”. Apriti cielo…I soliti
comunist”, titola il Giornale; D’Alema
sfila col nemico. Il leader di sinistra alla
parata militare con i dittatori. Xi minaccia il
mondo. D’Alema in
estasi, rilancia Libero; L’amore della
sinistra per i dittatori non muore mai.
Il mio commento preferito, però, è del giornale preferito dai sovranelli per Trump, La Verità: D’Alema si intrufola pure a Pechino, e aiuta Xi a riscrivere la Storia. In che senso? Beh, ve l’ho appena detto: L’”ex premier”, sottolinea l’occhiello, “cita il contributo del dragone alla sconfitta del nazismo” che però, secondo La Verità, sarebbe “immaginario”.
La Cina, che ha perso 35 milioni di uomini per respingere l’invasione giapponese mentre gli USA, fino all’ultimo, al Giappone fornivano acciaio e petrolio, non avrebbe in realtà dato nessun contributo alla sconfitta del nazifascismo: “Quello che è andato in scena a Pechino è stato un maestoso festival dell’orrore” scrive Francesco Bonazzi nell’articolo; ma “D’Alema che va a battere le mani all’Asse del Male è troppo anche per l’Asse del Male”.
Recentemente si sono verificati degli eventi che confermano la tendenza al declino del dollaro come valuta mondiale di scambio commerciale e di riserva, definita anche come “dedollarizzazione”. Tale processo è sia causa che effetto dell’indebolimento dell’egemonia statunitense, a fronte della realizzazione di un fronte contrapposto all’imperialismo occidentale, rappresentato dai paesi del cosiddetto Sud globale, a partire da Cina e India, che si sono riuniti in organismi come i Brics e la Sco, l’Organizzazione per la cooperazione di Shangai.
Sebbene non si possa ancora parlare di fine del dominio del dollaro e non ci sia attualmente nessuna valuta, tantomeno una valuta unica dei Brics, che possa sostituire il dollaro come valuta mondiale, l’indebolimento del dollaro è dimostrato dalla prevalenza dell’oro sui titoli di stato statunitensi (i Treasuries) nelle riserve delle banche centrali e dalla decisione dello Zimbabwe, ma anche di altri governi africani, di emanciparsi dal dominio del dollaro.
Dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso l’oro era andato calando nella composizione delle riserve delle banche centrali mentre, all’opposto, il peso dei Treasuries cresceva, fino a che nel 1996 i secondi hanno superato il primo. Nell’agosto 2025, dopo ventinove anni, l’oro ha di nuovo superato i Treasuries, con il 27% delle riserve contro il 23%[i].
Quali sono le cause del sorpasso dell’oro a danno dei Treasuries? Per le banche centrali i Treasuries non sono più titoli privi di rischio sui quali conviene investire.
Ginevra non è solo sede della diplomazia e delle banche, ma è anche il centro nevralgico strategico di un nuovo ordine mondiale. Qui si concentrano organizzazioni, fondazioni e ONG che esercitano un’enorme influenza sull’istruzione, la sanità, l’economia, i diritti umani e la sicurezza, spesso senza alcuna legittimazione democratica. Mentre i parlamenti nazionali discutono i dettagli, gli attori con sede a Ginevra impongono standard globali che trasformano intere società.
A Ginevra sono registrate più di 39 organizzazioni internazionali e oltre 750 ONG (fonte). La stessa Svizzera investe ogni anno centinaia di milioni di franchi per posizionare Ginevra come «capitale del multilateralismo». Questa estrema densità di Istituzioni crea strette reti e accordi informali, lontani dal controllo democratico.
La vicinanza geografica non è casuale. Essa consente un efficiente coordinamento tra organizzazioni internazionali, think tank, gruppi di pressione e fondazioni private. Le decisioni prese a Ginevra trovano applicazione nelle legislazioni nazionali, senza che i cittadini vengano consultati.
Nei giorni della partenza della Global Sumud Flottilla[i] assistiamo, finalmente diremmo, alla rottura nel mainstream di una cappa insopportabile che da decenni difendeva lo Stato di Israele da tutte le sue malefatte. Non ci accostiamo a coloro che criticano questa operazione come un mero tentativo da parte dell’opinione pubblica occidentale di pulirsi la coscienza. Siamo consapevoli dello stato sopito in cui si sono trovate, soprattutto nel nostro Paese, le mobilitazioni a favore della causa palestinese e del nervosismo che trapela da parte dei sostenitori del sionismo e dei suoi rappresentanti istituzionali verso tutto ciò che critica o pone dubbi sulle azioni dello Stato di Israele.
Lontani dai numeri che si sono visti in città come Londra o Sydney, non possiamo non rallegrarci che in un Paese come l’Italia, dove il conflitto sociale è ai minimi storici, gran parte della popolazione sia informata su questa azione di lotta. La Freedom Flotilla Coalition da decenni si inserisce nel novero delle azioni di resistenza – in questo caso non violente – volte a dare luce all’opposizione palestinese e a sfidare quella narrazione opprimente che ci presenta Israele come unico baluardo democratico in Medio Oriente.
Attraverso una di queste missioni, alcuni attivisti – tra cui Vittorio Arrigoni – poterono raggiungere le coste di Gaza in anni in cui non vi erano i social media e gli smartphone non erano in possesso della maggior parte della popolazione mondiale.
C’è stato un tempo nel quale la critica all’ebraismo non era foriera di accuse di antisemitismo, di condanne morali e politiche assolute, persino di reato penale. Tale critica era della stessa natura delle critiche che è possibile rivolgere al cristianesimo, all’illuminismo, al comunismo e così via.
Poi è accaduto qualcosa, il Novecento, che ha fatto assurgere l’identità ebraica a principio intoccabile, pena la qualifica di infamia rivolta a quanti cercano di ragionare su una cultura antica e tuttora ben presente nella storia. Ragionare come si ragiona su qualsiasi struttura ed evento umano.
Prima di questa temperie dogmatica, furono molti gli studiosi, i filosofi, i politici, gli scienziati di origine ebraica a criticare in vario modo l’ebraismo. Karl Marx è tra questi. Il suo saggio Sulla questione ebraica, uscito sul primo e unico numero dei Deutsch-Französische Jahrbücher (Annali franco-tedeschi) del febbraio 1844 è in realtà una complessa riflessione sui rapporti tra l’emancipazione civile, vale a dire le rivoluzioni borghesi e liberali, e la rivoluzione sociale, identificata da Marx con la trasformazione dei rapporti di produzione tra borghesia e proletariato.
Uno dei fondamenti di tale analisi è la critica ai Diritti dell’uomo come essi erano stati enunciati e stabiliti dalle varie Costituzioni che si susseguirono nella Francia rivoluzionaria dopo il 1789. Si tratta di una critica che ha un carattere moralistico di fondo che ne compromette in parte la forza, riducendo la questione a una contrapposizione tra egoismo e socialità.
Il riarmo mondiale, a cominciare da quello dell’Ue. L’esercizio autoritario di governo in molti paesi. Le trasformazioni del diritto internazionale e i nuovi modi di esercizio del potere, come la securizzazione dei territori, in rapporto a un diritto che occupa una posizione marginale rispetto al potere di guerra e di pace. La guerra è un grande laboratorio con molti volti
Pochi dati
bastano per ricordare ciò che è di dominio pubblico. Il
folle riarmo deciso dall’Unione Europea consta di 800
miliardi, reali o virtuali poco conta perché
sottratti a sanità, conversione ecologica, istruzione e
servizi sociali. E sono
soldi a debito. Il piano “Re-arm Europe” (“Readiness 2030”)
propone di mobilitare gli 800 miliardi attraverso un nuovo
strumento di prestito da 150 miliardi di euro (SAFE), il
riorientamento dei fondi di coesione, la mobilitazione di
capitali privati e un maggior
sostegno della Banca Europea degli Investimenti. L’effetto
della proposta è stato il riarmo della Germania e l’idea
della Francia
di condividere la propria capacità nucleare nazionale.
Dal 2021 i fondi destinati ai programmi militari sono aumentati di circa il 350%. Nel 2024 le spese nazionali aggregate dei paesi UE della NATO sono aumentati a più di 40 volte il totale dei fondi per il settore militare stanziati dall’Unione Europea. L’Ucraina ha ottenuto dal Fondo Europeo per la Pace (sic!), il più grande programma in ambito militare, 5,6 miliardi di euro di forniture militari (fonte Sbilanciamoci!).
La pressione per sviluppare un profilo di difesa adeguato per l’UE è stata intensificata nel corso della prima elezione di Trump (2016) che ha messo in discussione il futuro della NATO in Europa e le politiche transatlantiche. D’altra parte la guerra in Ucraina ha accelerato l’espansione della NATO a est su richiesta di Svezia, Finlandia e paesi baltici, noti per le posizioni integraliste nei confronti della Russia.
Nel 2024 la Svezia è entrata nella NATO e la spesa militare è aumentata del 34%, raggiungendo i 12 miliardi e il 2% del PIL. La Polonia ha raggiunto i 38 miliardi con aumento del 31% (4,2% del PIL).
La crescita vertiginosa delle spese per le iniziative di difesa testimonia la trasformazione dell’Europa da progetto di pace ad attore militare. La Commissione è il principale attore del riarmo. Tra il 2017 e oggi ha speso 6,836 miliardi del bilancio europeo per la difesa.
Attraverso l’Ucraina, gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra contro la Russia.
Attraverso la guerra contro la Russia, stanno conducendo una guerra contro l’Europa.
Promuovendo l’isolamento economico della Russia, gli USA hanno indotto l’Unione Europea a stabilire sanzioni che hanno ridotto le sue importazioni di idrocarburi da tale nazione. L’attentato al gasdotto Nord Stream, che con tutta probabilità è opera degli stessi Stati Uniti, ha ulteriormente compromesso l’afflusso di risorse energetiche dal suo territorio. Come se non bastasse, la Russia ha reagito alle sanzioni con delle misure ritorsive, consistenti nella limitazione delle proprie esportazioni di altre materie prime, in uso nell’industria e nell’agricoltura. Le imprese europee hanno dovuto così fare i conti con una penuria di molti prodotti di cui si servivano e con un rincaro dei loro prezzi, dovuto all’insorgere di fenomeni speculativi e alla sostituzione delle importazioni russe con altre meno a buon mercato (a cominciare dal gas di scisto statunitense, più costoso di per sé e reso ancora più caro dall’onerosità del trasporto via nave e dei trattamenti di liquefazione e rigassificazione cui va sottoposto).
L’industria continentale, quindi, si è ritrovata a produrre a costi più alti, con conseguente perdita di competitività sul versante dei prezzi cui era in grado di offrire i propri manufatti. Ciò l’ha resa interessata a valutare una delocalizzazione delle proprie attività in altre nazioni, ancora in grado di offrire energia a basso costo e magari dotate di condizioni più favorevoli anche sotto altri aspetti (ad esempio: minori tutele per i lavoratori e normative ambientali meno rigide). Fra i paesi a possedere tali requisiti c’erano proprio gli Stati Uniti, che oltretutto presentavano la caratteristica di costituire un importante mercato di sbocco per le produzioni europee.
L’incontro di Tianjin tra Putin, Xi e Modi potrebbe essere un evento senza grandi conseguenze future, se non un miglioramento dei rapporti tra Cina e India, risultato pur molto rilevante, oppure rappresentare un momento fondamentale, una forte accelerazione, dell’ascesa dei paesi del Sud del mondo e in particolare una mossa che trasforma l’India e il mondo. Non sappiamo come andrà a finire e forse neanche i principali protagonisti del vertice lo sanno. Cerchiamo quindi di mettere insieme le informazioni disponibili e fare delle ipotesi plausibili, partendo da un contesto più ampio.
Due avvenimenti importanti
I media hanno soprattutto messo in rilievo l’incontro molto amichevole tra Xi e Modi dopo anni di conflitti, mentre hanno sottolineato di meno altri due avvenimenti importanti, da una parte l’immagine di Modi e Putin che procedono mano nella mano, dall’altra l’ accordo concluso tra Cina e Russia per la costruzione di un altro grande gasdotto, il Power of Siberia 2.
Per quanto riguarda il primo avvenimento, esso smentisce chiaramente le notizie che davano in via di raffreddamento i rapporti tra i due paesi e che l’India avrebbe in particolare ridotto di molto gli acquisti di armamenti dalla Russia; il secondo avvenimento avviene dopo che per diversi anni il contratto per il nuovo gasdotto era fermo per ragioni sia politiche che tecniche.
Si dice spesso, con l’aria di esibire una grande trovata, che le classi inferiori non possono rivendicare alcuna superiorità morale nei confronti delle classi dominanti. Infatti è un falso problema, in quanto la contestazione delle gerarchie sociali non ha nessuna necessità di basarsi su gerarchie morali. Non è un caso però che il sistema mediatico tenda continuamente a spostare la questione sul piano del moralismo spicciolo. Nel caso delle nozze di Jeff Bezos a Venezia si è chiaramente cercato di sollecitare indignazione per certe esibizioni di ricchezza, in modo da innescare il solito pretestuoso dibattito a vuoto tra pro e contro. Un rilievo infinitamente minore viene assegnato dai media al fatto che l’azienda di Bezos riscuote sussidi e agevolazioni fiscali in tutto il mondo. Nel momento in cui il carico fiscale pesa quasi esclusivamente sui contribuenti poveri, le spese di Bezos sono una questione direttamente politica e non astrattamente morale. Mentre Amazon pagava sempre meno tasse (come tutte le altre multinazionali), ha percepito oltre undici miliardi in aiuti governativi, e si tratta di una cifra molto sottostimata dato che tali contributi spesso non risultano trasparenti; ciononostante si rileva l’apparente incongruenza per la quale mentre Bezos a chiacchiere celebra il libero mercato, poi invece va continuamente in cerca di assistenzialismo da parte dei governi. L’incongruenza è solo apparente, poiché è del tutto ovvio che l’assistenzialismo per ricchi cerchi dei paraventi mitologici come il liberismo.
Ho letto con attenzione e crescente sbigottimento l’analisi del fenomeno IA proposta da Alessandro Visalli (https://www.linterferenza.info/attpol/la-violenza-della-buona-madre-la-guerra-cognitiva-al-tempo-llm/) che, essendo un intellettuale autentico, conserva il “brutto vizio” socratico di interrogarsi – e interrogare chi lo segue – su questioni, poste dalla modernità, che la maggior parte di noi spettatori passivi, per pigrizia mentale o per inconsapevole conformismo, giudica naturali e dunque neutri sviluppi dell’evoluzione tecnologica.
Confesso che fino ad oggi non avevo attribuito soverchia importanza all’avvento dell’intelligenza artificiale: sono solito snobbare le sue profferte di aiuto quando inizio a scrivere o a rivedere un testo, al massimo consulto l’AI Overview di Google se una frase suona male o non trovo il sinonimo giusto. Quando, tempo fa, un vecchio compagno di scuola mi suggerì di chattare con quella cosa (a lui evidentemente piaceva farlo) ironizzai fra me sulla solitudine umana nell’età dei social. Visalli ci ammonisce tuttavia che non è saggio prendere sottogamba delle novità che, ben lungi dal limitarsi a una dimensione ludica, potrebbero modificare la nostra orientazione nel mondo.
L’autore adombra la minacciosa prospettiva che gli LLM (un acronimo che neppure conoscevo!), personalizzandosi, prendano il controllo di ognuno di noi, imparando a svolgere il compito di un “Super-Io” capace di indirizzare le nostre scelte e prima ancora i nostri pensieri.
Negli Stati Uniti, le università sono diventate uno degli obiettivi privilegiati del populismo conservatore. Questo attacco si configura come una vera e propria strategia di delegittimazione culturale, ma sarebbe miope considerarlo unicamente frutto di propaganda reazionaria. Occorre infatti riconoscere – senza per questo fare dell’odioso victim blaming – una responsabilità implicita della cultura accademica liberal-progressista, che negli ultimi decenni ha finito per sviluppare una visione autoreferenziale, o un “pensiero conforme di gruppo”, come lo definisce Sasha Mudd (Prospect Magazine, 28 Maggio 2025), sempre più scollegato dai problemi reali delle persone comuni (in termini non dissimili si era espressa poco meno di tre anni fa la scrittrice e critica americana Margo Jefferson).
La sinistra accademica, da sempre teoricamente contraria alle élite, si è trasformata nella considerazione dell’opinione pubblica proprio in un’élite: chiusa, linguisticamente impenetrabile, moralmente sospettosa verso chiunque non ne condivida codici e automatismi. Si è passati pertanto dal pensiero conforme di gruppo al “tribalismo accademico” – così lo inquadra Mudd in dialogo per The Philosopher con Alexis Papazoglou (min. 10:30 ca.) – ovvero a una chiusura delle menti, al cospetto della quale nessuno è innocente. Era sufficiente, per esempio, non attenersi pedissequamente all’uso del neologismo latinx, coniato allo scopo di includere le identità di genere non-binarie dei latino-americani, per macchiarsi della colpa morale del razzismo e del sessismo (min. 25 ca.).
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Recentemente mi
è capitato di leggere e ascoltare diverse favole sulla natura
sociale e politica della Cina, ad esempio che si tratta di un
sistema socialista.
In questo articolo vorrei tentare di smontarle. Ovviamente lo
farò come si può fare in un articolo di dieci pagine. Per
approfondire
scientificamente lo studio del sistema cinese ci sarebbe
bisogno di scrivere almeno due libri, uno sugli aspetti
politici e uno sugli aspetti
economici. Ma credo che le cose essenziali si possano dire
anche in modo semplice e sintetico.
Visto che tratterò di capitalismo, imperialismo e socialismo, devo fare una breve premessa teorica. Il capitalismo lo definisco come un sistema economico in cui il lavoro è mobilitato con il contratto di lavoro subordinato e il controllo dei mezzi di produzione è assegnato al capitale, il quale usa il lavoro salariato per estrarre plusvalore e impiega il plusvalore per valorizzare e accumulare il capitale stesso. L’imperialismo lo definisco come un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese sfrutta risorse umane e naturali di un altro paese e usa il plusvalore e la ricchezza così estratti per valorizzare e accumulare il capitale su scala mondiale.
Più difficile è definire il socialismo, se non altro per la varietà di teorie cui si può attingere. Per essere più ecumenico possibile, lo definirò facendo riferimento a due posizioni molto diverse, quasi polarmente opposte. In tal modo chiunque può scegliere quella che preferisce, tra la gamma di definizioni collocabili tra i due poli, e ognuno può valutare come vuole il grado di socialismo di un sistema reale. La prima definizione la definirò “marxista”, pur sapendo che qualche marxista non la condividerà. Secondo questo punto di vista, il socialismo è un sistema in cui il reddito è distribuito in modo da dare a ognuno secondo le sue capacità, il potere economico in modo da assegnare ai produttori il controllo della produzione e il potere politico in modo da attribuire al popolo il controllo democratico dello stato. La seconda definizione la definirò “bellamista”.
È stato inaugurato lo scorso 13
agosto 2025 il Programma commemorativo per il centenario del
comandante in capo e leader storico della rivoluzione a Cuba,
Fidel Castro (Birán,
13 agosto 1926 - L'Avana, 25 novembre 2016), sulla base delle
decisioni assunte dalla X Sessione plenaria del Partito
Comunista di Cuba. Gli obiettivi
del programma si traducono in un percorso, lungo un anno, di
ricerca e di studio, ma, soprattutto, di comunicazione e di
iniziativa.
Si tratta di promuovere gli ideali di Fidel; sostenere la ricerca e lo studio del suo pensiero e della sua opera; celebrare il centenario facendo “memoria attiva”, traendo ispirazione dalla sua opera, attualizzando il suo lascito storico, politico e intellettuale, approfondendo i contenuti fondamentali del pluridecennale processo di costruzione del socialismo a Cuba, all’insegna dei principi di uguaglianza, giustizia sociale, pace, internazionalismo, solidarietà e amicizia tra i popoli. È l’intera direzione politica e sociale di Cuba socialista, nel corso dei decenni, dal 1959 in avanti, ad avere reso Cuba ciò che è: un autentico faro di solidarietà e di giustizia, un punto di riferimento per i popoli del mondo nella lotta per l’emancipazione, l’autodeterminazione e la giustizia. Il Programma commemorativo, di conseguenza, include progetti e iniziative in tutti gli ambiti della vita del Paese e si svolgerà dal 13 agosto 2025 al 4 dicembre 2026, portando ogni centro e ogni comunità, ogni luogo di studio e di lavoro a diventare uno spazio di memoria e di iniziativa significativo e importante.
Facendo riferimento al programma, in occasione della X Sessione plenaria, Alberto Alvariño Atienzar, Direttore della conservazione del patrimonio documentale della Presidenza della Repubblica di Cuba, ha evidenziato la particolare profondità del programma di lavoro, sottolineando che la sua impostazione è stata il risultato di un ampio processo partecipativo popolare. Il programma stesso è un quadro di attivazione e mobilitazione per tutti i cubani e le cubane, soprattutto nell'attuale momento di crescente aggressione imperialista volta a colpire la Rivoluzione e le sue conquiste.
L’analisi controcorrente della rivista americana «International Security», che ha riaperto il dibattito sugli obiettivi di Pechino
Krisis presenta l’abstract del saggio comparso ad agosto
su International Security, rivista statunitense pubblicata
da MIT Press
e considerata la più autorevole nel campo delle Relazioni
internazionali. I tre autori, che insegnano in università
americane, hanno
analizzato 12.000 articoli e centinaia di discorsi del
presidente Xi Jinping per capire le effettive intenzioni di
Pechino. I dati emersi mostrano una
Cina a difesa dello status quo, concentrata sulla stabilità
interna e su obiettivi regionali chiari e limitati. Pur non
lesinando critiche a
Pechino, gli studiosi concludono dicendo che la minaccia
militare cinese è sovrastimata: «La Cina non vuole invadere
e conquistare altri
Paesi».
* * * *
L’opinione corrente sostiene che la Cina è una potenza egemonica emergente, desiderosa di rimpiazzare gli Stati Uniti, dominare le istituzioni internazionali e ricreare l’ordine internazionale liberale a propria immagine. Basandoci su dati tratti da 12.000 articoli e da centinaia di discorsi di Xi Jinping, per discernere le intenzioni della Cina abbiamo analizzato tre termini o espressioni della retorica cinese: «lotta» (斗争), «l’ascesa dell’Oriente, il declino dell’Occidente» (东升西降) e «nessuna intenzione di sostituire gli Stati Uniti» (无意取代美国).
I risultati della nostra indagine indicano che la Cina è una potenza a difesa dello status quo, preoccupata della stabilità del regime e più rivolta verso l’interno che verso l’esterno. Gli obiettivi della Cina sono inequivocabili, durevoli e limitati: si preoccupa dei propri confini, della sovranità e delle relazioni economiche estere. Le principali preoccupazioni della Cina sono quasi tutte regionali e collegate a parti della Cina che il resto della regione riconosce come cinesi – Hong Kong, Taiwan, Tibet e Xinjiang.
Il Presidente della Repubblica Mattarella, parlando a Cernobbio con videomessaggio, in una assemblea padronale, (Forum Ambrosetti) ha detto QUATTRO cose su cui credo che valga la pena riflettere.
PRIMO: L’Europa è un’area di Pace ?
Probabilmente Mattarella con quella affermazione, voleva dire che l’Unione Europea non avendo una struttura giuridica militare unica, come istituzione non ha mai formalmente dichiarato guerra a nessun stato. Ma credo che Mattarella avrebbe anche dovuto ricordare senza ambiguità che molti Paesi Membri della Unione Europea nonché della Nato, tra cui l’Italia, hanno partecipato a guerre di aggressione imperialista contro la ex Jugoslavia nel 1999, soprattutto con i bombardamenti nel Kosovo e a Belgrado, (con Mattarella vicepremier); Hanno fatto guerra contro l’Iraq nel 2003 con la falsa storia della fialetta chimica presentata dagli USA alle Nazioni Unite, dicendo che in Iraq stavano preparando la guerra chimica;
Mohammed El-Kurd, Perfect Victims And The Policy of Appeal, Haymarket Books, Chicago 2025, pp. 256, € 15,43 (traduzione italiana in corso di pubblicazione, Vittime perfette e la politica del gradimento, Fandango Libri, Roma 2025, pp. 288, € 19,00).
Secondo la narrazione mainstream
occidentale, compresa quella progressista, i palestinesi sono
intrappolati in una falsa e rigida dicotomia: o sono
terroristi o sono vittime. Mai e
poi mai possono essere i protagonisti, gli eroi della loro
storia. O sono i villains, i nemici cattivi del
racconto, o sono coloro che, inermi,
vengono colpiti da un nemico innominabile e invisibile.
Invisibile, si potrebbe anche aggiungere, perché celato nelle
pieghe della loro stessa
interiorità dal momento che, in fin dei conti, i palestinesi,
per loro natura irragionevoli e bellicosi, sono i veri nemici
di se stessi, la
causa ultima del male che li affligge e perciò, come recita il
vecchio adagio, destinati a piangere se stessi.
Questa costruzione narrativa viene denunciata come palesemente assurda da Mohammed El-Kurd, poeta1 e corrispondente per la rivista statunitense The Nation. Lo scrittore, nato a Gerusalemme, ha dato alle stampe Perfect Victims And The Policy of Appeal,2 un pamphlet corrosivo e irriverente non certo per amore dello scalpore in sé, ma per la dichiarata volontà di rompere la gabbia ideologica in cui è condannata a girare a vuoto, come un criceto nella ruota, chiunque voglia supportare la causa palestinese senza liberarsi dalla narrazione dominante sul “conflitto” originato dalla colonizzazione sionista. Una gabbia confermata ulteriormente dalla perentoria ingiunzione a condannare l’attacco di Hamas del 7 ottobre ignorando bellamente tutta la sequela di orrori e ingiustizie cui sono stati sottoposti i palestinesi prima di quella data. Denigrare la violenza degli oppressi mentre si chiudono gli occhi di fronte alla violenza dell’oppressore, sostiene l’autore, non significa altro che sottomettersi alla logica coloniale e sostenere lo status quo.
Tornando alla dicotomia con cui abbiamo cominciato, i palestinesi che sono etichettati come terroristi non hanno mai l’opportunità di parlare per sé stessi e raramente sono oggetto di una qualche attenta considerazione.
Tutto il mondo occidentale ha seri problemi economici. Ma quelli dell’Italia sono particolarmente seri, come evidenziato dal fatto che il nostro Paese sta rapidamente perdendo terreno nei confronti internazionali. Nel 1995, fatto 100 il PIL pro capite dell’Italia, il valore della Francia era 93.2, quello del Regno Unito 86.3, quello della Germania 101.5 e quello della Spagna 75.6. In sostanza, l’economia italiana stava bene come quella tedesca, stava assai meglio di quelle della Francia e del Regno Unito, e stava molto meglio di quella della Spagna. Nel 2022 la situazione era invece la seguente (sempre facendo 100 per l’Italia): Francia 111.6, Regno Unito 110.1, Germania 126.0, Spagna 92.4 (dati IMF a parità di potere d’acquisto). Tre anni fa quindi l’economia italiana stava poco meglio di quella della Spagna, assai peggio di quelle della Francia e del Regno Unito, e molto peggio di quella della Germania (forse ultimamente si è recuperato qualcosa, ma solo per i disastri degli altri paesi). È evidente che esiste un “problema Italia” specifico e, appunto, grave.
Cosa dovrebbe fare la sinistra in queste condizioni, se fosse al governo, e cosa deve quindi proporre dall’opposizione? I problemi da affrontare sono molti, ma due sono prioritari: quello del conflitto con l’Europa e quello della assenza di una seria imposta patrimoniale. Il motivo per il quale questi problemi sono prioritari è che qualsiasi politica di sinistra richiede risorse, e richiede che non si sprechino quelle che ci sono.
Ginevra non è solo sede della diplomazia e delle banche, ma è anche il centro nevralgico strategico di un nuovo ordine mondiale. Qui si concentrano organizzazioni, fondazioni e ONG che esercitano un’enorme influenza sull’istruzione, la sanità, l’economia, i diritti umani e la sicurezza, spesso senza alcuna legittimazione democratica. Mentre i parlamenti nazionali discutono i dettagli, gli attori con sede a Ginevra impongono standard globali che trasformano intere società.
A Ginevra sono registrate più di 39 organizzazioni internazionali e oltre 750 ONG (fonte). La stessa Svizzera investe ogni anno centinaia di milioni di franchi per posizionare Ginevra come «capitale del multilateralismo». Questa estrema densità di Istituzioni crea strette reti e accordi informali, lontani dal controllo democratico.
La vicinanza geografica non è casuale. Essa consente un efficiente coordinamento tra organizzazioni internazionali, think tank, gruppi di pressione e fondazioni private. Le decisioni prese a Ginevra trovano applicazione nelle legislazioni nazionali, senza che i cittadini vengano consultati.
Attraverso l’Ucraina, gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra contro la Russia.
Attraverso la guerra contro la Russia, stanno conducendo una guerra contro l’Europa.
Promuovendo l’isolamento economico della Russia, gli USA hanno indotto l’Unione Europea a stabilire sanzioni che hanno ridotto le sue importazioni di idrocarburi da tale nazione. L’attentato al gasdotto Nord Stream, che con tutta probabilità è opera degli stessi Stati Uniti, ha ulteriormente compromesso l’afflusso di risorse energetiche dal suo territorio. Come se non bastasse, la Russia ha reagito alle sanzioni con delle misure ritorsive, consistenti nella limitazione delle proprie esportazioni di altre materie prime, in uso nell’industria e nell’agricoltura. Le imprese europee hanno dovuto così fare i conti con una penuria di molti prodotti di cui si servivano e con un rincaro dei loro prezzi, dovuto all’insorgere di fenomeni speculativi e alla sostituzione delle importazioni russe con altre meno a buon mercato (a cominciare dal gas di scisto statunitense, più costoso di per sé e reso ancora più caro dall’onerosità del trasporto via nave e dei trattamenti di liquefazione e rigassificazione cui va sottoposto).
L’industria continentale, quindi, si è ritrovata a produrre a costi più alti, con conseguente perdita di competitività sul versante dei prezzi cui era in grado di offrire i propri manufatti. Ciò l’ha resa interessata a valutare una delocalizzazione delle proprie attività in altre nazioni, ancora in grado di offrire energia a basso costo e magari dotate di condizioni più favorevoli anche sotto altri aspetti (ad esempio: minori tutele per i lavoratori e normative ambientali meno rigide). Fra i paesi a possedere tali requisiti c’erano proprio gli Stati Uniti, che oltretutto presentavano la caratteristica di costituire un importante mercato di sbocco per le produzioni europee.
Il riarmo mondiale, a cominciare da quello dell’Ue. L’esercizio autoritario di governo in molti paesi. Le trasformazioni del diritto internazionale e i nuovi modi di esercizio del potere, come la securizzazione dei territori, in rapporto a un diritto che occupa una posizione marginale rispetto al potere di guerra e di pace. La guerra è un grande laboratorio con molti volti
Pochi dati
bastano per ricordare ciò che è di dominio pubblico. Il
folle riarmo deciso dall’Unione Europea consta di 800
miliardi, reali o virtuali poco conta perché
sottratti a sanità, conversione ecologica, istruzione e
servizi sociali. E sono
soldi a debito. Il piano “Re-arm Europe” (“Readiness 2030”)
propone di mobilitare gli 800 miliardi attraverso un nuovo
strumento di prestito da 150 miliardi di euro (SAFE), il
riorientamento dei fondi di coesione, la mobilitazione di
capitali privati e un maggior
sostegno della Banca Europea degli Investimenti. L’effetto
della proposta è stato il riarmo della Germania e l’idea della
Francia
di condividere la propria capacità nucleare nazionale.
Dal 2021 i fondi destinati ai programmi militari sono aumentati di circa il 350%. Nel 2024 le spese nazionali aggregate dei paesi UE della NATO sono aumentati a più di 40 volte il totale dei fondi per il settore militare stanziati dall’Unione Europea. L’Ucraina ha ottenuto dal Fondo Europeo per la Pace (sic!), il più grande programma in ambito militare, 5,6 miliardi di euro di forniture militari (fonte Sbilanciamoci!).
La pressione per sviluppare un profilo di difesa adeguato per l’UE è stata intensificata nel corso della prima elezione di Trump (2016) che ha messo in discussione il futuro della NATO in Europa e le politiche transatlantiche. D’altra parte la guerra in Ucraina ha accelerato l’espansione della NATO a est su richiesta di Svezia, Finlandia e paesi baltici, noti per le posizioni integraliste nei confronti della Russia.
Nel 2024 la Svezia è entrata nella NATO e la spesa militare è aumentata del 34%, raggiungendo i 12 miliardi e il 2% del PIL. La Polonia ha raggiunto i 38 miliardi con aumento del 31% (4,2% del PIL).
La crescita vertiginosa delle spese per le iniziative di difesa testimonia la trasformazione dell’Europa da progetto di pace ad attore militare. La Commissione è il principale attore del riarmo. Tra il 2017 e oggi ha speso 6,836 miliardi del bilancio europeo per la difesa.
Ho letto con attenzione e crescente sbigottimento l’analisi del fenomeno IA proposta da Alessandro Visalli (https://www.linterferenza.info/attpol/la-violenza-della-buona-madre-la-guerra-cognitiva-al-tempo-llm/) che, essendo un intellettuale autentico, conserva il “brutto vizio” socratico di interrogarsi – e interrogare chi lo segue – su questioni, poste dalla modernità, che la maggior parte di noi spettatori passivi, per pigrizia mentale o per inconsapevole conformismo, giudica naturali e dunque neutri sviluppi dell’evoluzione tecnologica.
Confesso che fino ad oggi non avevo attribuito soverchia importanza all’avvento dell’intelligenza artificiale: sono solito snobbare le sue profferte di aiuto quando inizio a scrivere o a rivedere un testo, al massimo consulto l’AI Overview di Google se una frase suona male o non trovo il sinonimo giusto. Quando, tempo fa, un vecchio compagno di scuola mi suggerì di chattare con quella cosa (a lui evidentemente piaceva farlo) ironizzai fra me sulla solitudine umana nell’età dei social. Visalli ci ammonisce tuttavia che non è saggio prendere sottogamba delle novità che, ben lungi dal limitarsi a una dimensione ludica, potrebbero modificare la nostra orientazione nel mondo.
L’autore adombra la minacciosa prospettiva che gli LLM (un acronimo che neppure conoscevo!), personalizzandosi, prendano il controllo di ognuno di noi, imparando a svolgere il compito di un “Super-Io” capace di indirizzare le nostre scelte e prima ancora i nostri pensieri.
A poche ore dal
trionfale summit SCO di Tianjin, Pechino mette sul tavolo il
piatto forte: la colossale parata che si è
tenuta stamattina a
Pechino è costellata da una serie infinita di fatti ed eventi
di portata storica, a partire dal fatto che, come ricorda il South China Morning
Post, è “la prima volta che Kim, Xi e Putin, tutti
considerati rivali degli Stati Uniti, si sono riuniti nello
stesso luogo, inviando
un forte segnale di unità contro l’Occidente guidato dagli
Stati Uniti”. “Oggi ci riuniamo solennemente per commemorare
l’80° anniversario della vittoria della Guerra di resistenza
del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della
Guerra mondiale
antifascista” ha ricordato
nel suo breve, ma intenso, intervento Xi
Jinping; un atto dovuto “per ricordare insieme la
storia e onorare la memoria dei
martiri”, ma anche per “coltivare la pace e creare il futuro”.
“La guerra di resistenza del popolo cinese contro
l’aggressione giapponese” ha sottolineato Xi “è una parte
importante della guerra antifascista
mondiale. Il
popolo cinese ha compiuto grandi sacrifici a livello nazionale
e ha contribuito in modo significativo alla salvezza della
civiltà umana e alla
salvaguardia della pace mondiale”; “Oggi, l’umanità si trova
nuovamente di fronte alla scelta tra pace o guerra, dialogo o
scontro, vittoria per tutti o somma zero. Il popolo cinese si
schiera fermamente dalla parte giusta della storia e del
progresso della civiltà
umana, aderisce al percorso dello sviluppo pacifico e lavora
fianco a fianco con i popoli di tutti i paesi per costruire
una comunità con un
futuro condiviso per l’umanità”. “Il grande rinnovamento della
nazione cinese è inarrestabile! La nobile causa della
pace e dello sviluppo per l’umanità trionferà sicuramente!”.
Se volete una rassegna piuttosto esaustiva di tutto quello che
è stato messo in mostra dal punto di vista militare, vi
consiglio questo lungo articolo su Guancha
o il canale Telegram della
nostra Clara Statello, che stamattina era
particolarmente in forma e su di giri.
Mi vorrei concentrare piuttosto sul significato politico e sulle reazioni: “Il significato della parata militare del 3 settembre”, scrive su Guancha Shen Yi, professore di Politica Internazionale all’Università di Fudan, “sta diventando sempre più evidente”:
Negli ultimi anni in
Europa stanno circolando due proposte politiche di grande
impatto, che vengono considerate proficue sia per il lavoro
dipendente che per
l’impresa. Stiamo parlando della riduzione dell’orario
lavorativo a parità di salario e di produttività e del salario
minimo
orario. Sulla prima abbiamo già scritto[1], mentre ora proveremo a fare
il punto sulla seconda – quella sul salario minimo –, sulla
quale ultimamente sembra starsi concentrando il dibattito
politico.
Il dibattito degli ultimi anni
Nel 2022 l’Unione Europea promulgò una Direttiva[2] – ossia una dichiarazione d’indirizzo che impone agli Stati nazionali di affrontare certe tematiche e perseguire determinati obiettivi a esse inerenti, lasciandoli però liberi di scegliere le modalità con cui farlo – che chiedeva il «miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo». Quindi: non direttamente il salario minimo, bensì l’accesso alla tutela che questo garantisce. Inoltre, «qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva [in uno Stato membro dell’Unione] sia inferiore a una soglia dell’80%», la Direttiva avrebbe imposto la costruzione di «un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime» e, quindi, la messa a punto di «un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva». In caso si fosse adottato un salario minimo legale (e solo in questo caso), poi, si sarebbe dovuto ricorrere a dei «valori di riferimento indicativi (…). A tal fine, si possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio». Considerando che il salario lordo medio italiano è attualmente di 15,57€/ora e, il netto, di 11,25€/ora[3], appare chiaro che la Direttiva Ue sia semplicemente un timido atto d’indirizzo volto a uniformare il mercato del lavoro comunitario soprattutto per quanto riguarda i Paesi economicamente meno sviluppati, non l’Italia.
Allarmistica e faziosa. Così m’è apparsa l’attenzione che i media italiani hanno riservato al meeting della Shanghai cooperation organization (Sco) tenutosi in Cina nei giorni scorsi.
Allarmistica perché non c’era alcun pericolo in vista. La Sco esiste da quasi trent’anni. È una presenza tranquilla, ben nota chiunque mastichi un po’ di politica estera, e solo degli occidentalisti faziosi potevano dipingerla come una specie di sinistra macchinazione di Cina e Russia contro l’Occidente.
Ma riflettiamo su ciò che la Sco rappresenta sullo sfondo della grande storia: quest’associazione è l’espressione di un mega trend epocale: il ReOrient. Movimento parallelo, quasi ortogonale rispetto al più noto mega trend del Grande Sud che si riflette nei Brics.
La Sco è formata solo da paesi eurasiatici e si sviluppa lungo l’ isola-mondo che va dall’Atlantico al Pacifico e all’Oceano indiano. Parliamo di un corridoio terrestre che parte dalla Cina e raggiunge le coste della penisola iberica e del Mediterraneo attraverso la Via della Seta, che è stata per secoli la strada maestra tra le grandi civiltà dell’Eurasia. I paesi della Sco sono gli attori di una silenziosa “grande riconnessione euroasiatica”, un asse strategico che collega Turchia, Iran, Russia, Cina, India e paesi centro-asiatici. Temporaneamente offuscato dallo scontro tra la Russia e l’Unione europea via Ucraina, quest’asse rappresenta una potente forza connettiva del tessuto economico e politico del mondo.
Una buona definizione del potere politico è quella che lo caratterizza come l’arte di mettere gli uomini in rapporti falsi. Questo e non altro fa innanzitutto il potere, per poterli poi governare come vuole. Una volta che si sono lasciati introdurre in rapporti obliqui in cui non possono riconoscersi, gli uomini sono infatti manipolabili e orientabili a proprio piacimento. Se essi credono così facilmente nelle menzogne che vengono loro proposte, è perché false sono innanzitutto le relazioni in cui, senza che se ne accorgano, si trovano già sempre.
La prima mossa di una strategia politica degna di questo nome è pertanto la ricerca di un via d’uscita dai rapporti falsi in cui il potere ha posto gli uomini per poterli governare. Ma proprio questo non è facile, perché un rapporto falso è precisamente quello dal quale non si vede una via d’uscita. Qualcosa come una via d’uscita diventa possibile solo se comprendiamo che il rapporto falso è la forma stessa del potere, che trovarsi in un rapporto falso significa essere in una relazione di potere. Che falso, cioè, il rapporto è non perché mentiamo, ma perché manca la coscienza del suo carattere essenzialmente politico.
Alla luce delle
trasformazioni strutturali del capitalismo contemporaneo
Andrea Pannone scrive
che oggi è necessario ridefinire il concetto di potere,
superando la concezione che lo intende come semplice
capacità di influenzare
l’azione altrui tipica dell'economia mainstream e ampliando
la prospettiva marxista. Pannone in quest'articolo definisce
potere come la
capacità differenziale di agire sulla sfera economica,
politica e sociale attraverso la centralizzazione del
controllo di risorse materiali,
umane e finanziarie.
* * * *
L’analisi scientifica del potere: un vuoto da colmare
Nel panorama dell’analisi economica, il concetto di potere — inteso come capacità di plasmare relazioni sociali e controllare risorse — rimane sorprendentemente marginale, specialmente nell’economia mainstream. I paradigmi neoclassici, focalizzati su equilibrio di mercato, efficienza e razionalità individuale, tendono infatti a ridurre il potere a un effetto secondario di dinamiche competitive, trascurando il suo ruolo strutturale nelle asimmetrie tra capitale e lavoro, o tra grandi corporation e interessi collettivi. Sebbene però le scuole eterodosse, come l’economia marxista, riconoscano il potere come intrinseco alle relazioni di produzione, le loro analisi, pur ricche di profondità teorica, spesso mancano di un approccio sistematico che combini rigore analitico con una chiara validazione empirica. Questo paper rappresenta un primo passo verso la costruzione di un quadro metodologico scientifico che integri il potere come categoria centrale nello studio delle dinamiche dell’economia contemporanea, dalla finanziarizzazione, alla centralizzazione del capitale, fino alla formazione di temibili oligarchie transnazionali.
Riprendo a
scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è
purtroppo dipesa
dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate
fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono
dedicato a tempo pieno a
completare la prima stesura di un libro che uscirà
dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi
contemporaneamente a un lavoro di
Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo
Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto
sono parte di un unico
progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in
merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di
seguito, soprattutto
per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di
centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per
commentare.
* * * *
Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore).
Israele è guidato da un governo crudele e da un Primo Ministro senza cuore, come non se ne sono mai visti prima. Le vite umane, che si tratti di abitanti di Gaza, ostaggi o soldati, non interessano a questo governo. Sta Massacrando gli abitanti di Gaza e abbandonando ostaggi e soldati con la stessa equanimità.
A opporsi c’è un piccolo movimento extraparlamentare, umano e coraggioso, che dà lo stesso valore a tutte le vite umane.
Tra questa manciata di persone e il governo malvagio si trova il campo di centro. La maggior parte di loro lotta contro la crescente perdita di Umanità e l’inganno dimostrato dal governo. Le persone in questo campo sono scioccate da ogni video, perdendo il sonno per la sorte degli ostaggi pelle e ossa e dei soldati morti. Ma quando sentono i resoconti di un orribile Massacro in un ospedale, sbadigliano, disinteressati.
Sono migliori del governo e dei suoi sostenitori. Sono umani e mostrano solidarietà, ma solo in modo selettivo. Non esiste una moralità a metà. Proprio come la moralità a due pesi e due misure non è moralità, così lo è la moralità a metà. È l’opposto della vera moralità. È così che sono le persone in questo campo. Si preoccupano per la vita di 20 ostaggi, ignorando il fatto che il loro Paese uccide in media 20 innocenti all’ora.
Per loro, l’Umanità si ferma ai confini della nazionalità. Non lasceranno nulla di intentato per aiutare un israeliano, ma distoglieranno lo sguardo con disinteresse per il caso di un palestinese il cui destino è spesso molto peggiore.
Una decina di
anni fa affrontavamo la questione della «generazione
scomparsa», composta da quei
militanti «di movimento» nati negli anni Settanta. Da quel
decennio, più ancora che indiscutibili ricchezze, tali
militanti hanno
ereditato innanzitutto un complesso: «quello dell’essere
arrivati tardi». La fonte di ispirazione è diventata
mitologia, i
rapporti intergenerazionali si sono non di rado trasformati
in accettata subalternità pedagogica, la venerazione di una
memoria iconica
è sfociata nel torcicollo politico, cioè nell’incapacità di
guardare alle complessità del presente per fuggire in un
passato spesso caricaturale. D’altro canto, molti di coloro
che hanno vissuto politicamente quel decennio, con il
passare del tempo, sono stati
vittime della nostalgia canaglia, in primo luogo quella per
la trascorsa gioventù: così, anziché mettere al servizio
dell’oggi i limiti della loro esperienza, l’hanno
trasfigurata in metro di misura della verità, in
memorialistica picaresca, o in
uno spaghetti western. Come se bastasse lo spirito
d’avventura o l’eroismo combattentistico individuale a
cambiare le sorti di un mondo
senza tempo, indipendentemente dal contesto storico e dalle
composizioni sociali. Questo articolo spiega come la
necessità di lottare contro la
dominante rimozione degli anni Settanta sia stata sublimata
nell’ideologia del «settantismo». E in alcuni ambienti la
toppa è
stata forse peggiore del buco.
Oggi il problema del settantismo riguarda bolle sempre più residuali e anagraficamente connotate, orfane di quello che fu il Movimento (con la maiuscola, portato dell’anomalia italiana) e nello sfarinamento del «noi», che di epoca in epoca esiste solo come prodotto di un processo collettivo.
Commento alla lettura del brano Oltre la giustizia climatica (titolo originale: Beyond Climate Justice, in Ekaterina Degot e David Riff (a cura di), The Way Out of…, Hatie Cantz Verlag, Berlino, 2022, pp. 105-130) in Jason W. Moore, Oltre la giustizia climatica. Verso un’ecologia della rivoluzione
Il libro [1] di Jason W. Moore
raccoglie una serie di testi (alcuni dei quali inediti)
dedicati al rapporto tra lotta “ambientalista” e lotta
“politica”. Uno
di questi testi – Oltre la giustizia climatica – dà
anche il titolo al libro e sviluppa una dura critica nei
confronti
dell’ambientalismo americano per come si è sviluppato dalla
fine degli anni ‘60 fino ad arrivare a quello che Moore chiama
Antropocene popolare, caratterizzato da un approccio
depoliticizzato e interclassista verso i problemi ecologici.
Moore inizia la propria riflessione con una critica nei confronti di certe dichiarazioni catastrofiste di Roger Hallam, fondatore dell’organizzazione ambientalista internazionale Extinction Rebellion
“Sto parlando del massacro, della morte e della fame di 6 miliardi di persone in questo secolo” [2]
Moore mostra come tale approccio non sia per nulla nuovo e sia stato utilizzato consapevolmente, sin dalla fine degli anni ‘60, per produrre un discorso politico di non contrapposizione nei confronti del sistema e di spostamento dell’attenzione dei giovani dal terreno delle lotte sociali e politiche, a cominciare dalla lotta contro la guerra in Vietnam (che in quella fase era un terreno di vasta mobilitazione e un punto politico di coagulo), per orientarli verso un certo tipo di denuncia ambientalista, non solo non anti-sistemica, ma addirittura per molti versi collaborativa con l’establishment politico.
Nel 1967 Martin Luther King tiene un discorso intitolato “oltre il Vietnam” nel quale propone la “teoria dei tre mali” e spiega come le questioni dello sfruttamento, del razzismo e della guerra non siano scollegate, ma siano piuttosto tre diversi aspetti di uno stesso meccanismo.
Martin Luther King ha ragione: l’imperialismo americano ha bisogno della guerra per imporre la propria supremazia a livello internazionale e ha bisogno del razzismo per tenere soggiogato il proletariato nero e costringerlo ad accettare condizioni di inferiorità materiale e culturale; e ovviamente ha bisogno dello sfruttamento dei lavoratori perché è proprio sulla base di questo sfruttamento che funziona l’accumulazione di capitale.
L’indifferenza e la pochezza culturale che avvolgono il nostro presente fanno capolino anche in quella che si dovrebbe definire come cultura cinematografica: basta leggere le dichiarazioni di alcuni registi e attori italiani presenti a Venezia per la Mostra del cinema che definiscono come stronzate, inutili e scadenti gli appelli per Gaza. Qualcuno di loro ha distrattamente firmato una petizione, probabilmente più per conformismo con la categoria che per altro, salvo poi pentirsene o accorgersi che questa, strada facendo, ha avuto l’ardire di chiedere di starsene a casa a chi pubblicamente ha sostenuto e sostiene la deportazione e lo sterminio per armi e per fame del popolo palestinese. Un vero e proprio atto di “censura”, per carità! Non sia mai.
Altri sono al Lido per passeggiare sul tappeto rosso e per farsi vedere a qualche patetico ricevimento sponsorizzato indossando il vestito buono sulla barba di tre giorni e i capelli un po’ spettinati – che fa sempre tanto “gente di cinema” – per promuovere il loro nuovo filmettino senza nemmeno preoccuparsi che esca nelle sale, confidando al massimo, quando sarà il momento, in qualche autoreferenziale Donatello di consolazione per soddisfare l’ego artistico. Ma in cosa si sta trasformando la Mostra del Cinema? In un sovraffollato centro commerciale di una domenica di fine estate, in cui le opere in concorso sono trattate alla stregua di oggetti di consumo, di merci esposte pronte per essere apprezzate dal primo ricco acquirente, mentre ai confini d’Europa si sta consumando un terribile genocidio? Ma sì, certo, cosa importa ai ricchi e colti ‘artisti’ bianchi europei e italiani dello sterminio del popolo palestinese?
Lavinia Marchetti: Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
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Quando trionferemo
su scala mondiale utilizzeremo l’oro
per edificare pubbliche latrine nelle vie di alcune delle
più grandi città del mondo. Questo sarebbe l’impiego più
«giusto» e più evidentemente edificante che si possa fare
dell’oro per le generazioni che non hanno scordato come per
l’oro furono massacrati dieci milioni di uomini e altri
trenta furono storpiati nella «grande» guerra «liberatrice»
del
1914-1918… Chi vive tra i lupi impara a ululare. E in quanto
a sterminare tutti i lupi, come converrebbe in una società
umana
ragionevole, ci atterremo al saggio proverbio russo: «Non
vantarti quando parti per la guerra ma quando ne ritorni»…
V. I. Lenin, L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo, 6-7 novembre 1921.
Parlare della teoria economica di Lenin può apparire un po’ singolare se si considera la sterminata letteratura concernente il grande rivoluzionario russo. Lenin è infatti assai più noto come politico e come filosofo, che non come economista, e i motivi di questa differenza non sono certamente addebitabili al fatto che la produzione di scritti economici sia di minor valore, ma nascono dal segno più marcato che egli impresse in certi settori, anziché in altri: è il caso per Lenin, ovviamente, della politica. Eppure Lenin aveva esordito proprio come economista e nella sua produzione pubblicistica i primi dieci anni di lavoro intellettuale furono largamente dominati dagli studi economici. Sennonché la ragione del tardivo riconoscimento tributato agli scritti economici sembra quanto mai significativa: si è scambiata l’analisi dell’economia russa, che occupa un posto centrale in quegli scritti, per una indagine di storia locale con scarsi addentellati teorici generali. È vero, invece, proprio il contrario: quell’analisi costituisce la parte scientificamente più robusta dell’intera opera di Lenin, quella in cui, soprattutto, opera con gran forza una metodologia scientifica.
Nel 1875, Karl Marx scrisse un
documento unico. Non si trattava di un trattato filosofico o
di un saggio
giornalistico,bensì di una critica approfondita, chirurgica,
schietta e, ancora oggi, rimasta spesso trascurata. Mi
riferisco alla "Critica del
programma di Gotha", scritta come fosse una lettera-commento
al progetto di unificazione, dei socialisti tedeschi,
attorno a un programma comune. A
prima vista, potrebbe sembrare quasi un episodio minore
nella traiettoria del pensiero marxiano. Tuttavia, come
sostiene il marxista indiano Paresh
Chattopadhyay, si tratta di un vero e proprio «secondo
Manifesto del Partito Comunista»: più maturo, meno pamphlet,
ma non per
questo meno rivoluzionario. Per comprendere la portata di
questa formulazione, è necessario tornare al contesto. Nel
1875, i seguaci di Marx e
i seguaci di Ferdinand Lassalle - una figura centrale dello
Stato tedesco e del socialismo riformista - cercarono di
fondere le loro organizzazioni
nel neonato Partito Socialista Operaio di Germania (in
seguito SPD, acronimo di Partito Socialdemocratico di
Germania). Il programma che avrebbe
sintetizzato questa fusione, era stato scritto per lo più da
dei lassalliani, e recava in sé profondi segni di un
socialismo statalista,
legalista e conciliante. Marx, dopo aver letto il testo,
rispose con la "Critica del programma di Gotha", inviato
tramite una lettera a Wilhelm
Bracke, ma che non venne mai pubblicato integralmente per
tutto il corso della sua vita, e venne reso noto
pubblicamente soltanto nel 1891. Ciò
che Marx offriva in quel testo, non era solo una critica
congiunturale.
Con il summit di Tianjin dei primi di settembre l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai a guida cinese è apparsa come il primo passo di un nuovo ordine mondiale. Ma resta il rebus della valutazione del Pil della Cina e anche di altri Paesi, su cui le stime divergono
Premessa
Con le sue continue mosse destabilizzanti, Donald Trump sembra alla fine privilegiare, tra i tanti punti di conflitto, quello con la Cina, seguendo in questo, e sviluppando, i lasciti in proposito di Joe Biden e della sua stessa prima presidenza, nonché le mosse di Obama.
Il punto di partenza delle ostilità può essere fatto risalire al 2015, quando la Cina lanciava la Belt and Road Initiative e contemporaneamente il piano 2015-2025 per l’avanzamento tecnologico del Paese (cf. Jeffrey Sachs). Questi due progetti hanno cominciato ad allarmare seriamente i gruppi dirigenti degli Stati Uniti e l’allora presidente Barack Obama arrivò a lanciare il suo slogan “Pivot to Asia” (peraltro, gli statunitensi impararono presto a sostituire la parola “Asia” nella frase con “Indo-Pacifico”, per sottolineare che l’America c’entrava a pieno titolo con l’intera regione).
Ora la postura di lotta di Trump appare certamente motivata dal fatto che il Paese asiatico minaccia di raggiungere e anche di superare gli Stati Uniti, quando non lo abbia già fatto, sul fronte commerciale, economico, tecnologico, finanziario, militare – cosa impensabile sino a poco tempo fa in un Paese che si ritiene guidato da Dio, almeno secondo i suoi gruppi dirigenti, ma anche secondo una larga parte dell’opinione pubblica.
Probabilmente l’ostinazione di Trump appare anche guidata da valutazioni e informazioni a noi non note sui temi citati. In ogni caso il Paese asiatico appare un osso molto duro anche per gli Stati Uniti.
Sul piano economico in particolare normalmente, quando si parla della Cina, si aggiunge di solito l’espressione “la seconda economia del mondo”. Ora, questa definizione, vera o falsa che sia, sembra andar bene ad ambedue i protagonisti presenti sulla scena: agli Stati Uniti, che si sentono così confermati e confortati nel loro supposto primato mondiale, ma anche alla Cina, che tende in generale a mantenere, secondo la tradizione, un profilo basso e preferisce essere ancora considerata un Paese in via di sviluppo, appartenente al Sud del mondo.
Bettino Craxi definiva Ernesto Galli della Loggia “intellettuale dei miei stivali”. In effetti il noto opinionista del “Corriere della Sera” basa i suoi interventi su uno schema ripetitivo e prevedibile che consiste in un mero richiamo alle vigenti gerarchie imperialistiche e antropologiche. Ormai il mainstream ha ammesso che il comportamento di Israele a Gaza ha oltrepassato il cosiddetto “diritto di difesa” e forse sta avvenendo qualche criminuccio di troppo. Qualche giorno fa Galli della Loggia ha appuntato la sua polemica sulla scelta delle parole per ciò che sta avvenendo a Gaza, chiedendosi perché non ci si limiti a usare espressioni forti come “eccidio” o “massacro”, invece del termine “genocidio”, che implica riscrivere la Storia negando l’unicità del genocidio nazista nei confronti del popolo ebraico. Per Gaza si parla di sessantamila morti, un numero non paragonabile con le proporzioni dell’Olocausto.
Certo, la macchina logistica del regime nazista, nella quale sono stati macinati ebrei, zingari, slavi, disabili e altri reietti, rimane sinora un unicum nella Storia e, probabilmente, è irripetibile. Ma il fatto che il governo israeliano non dimostri una capacità logistica al livello del regime nazista, non toglie nulla all’evidenza di un genocidio in atto a Gaza. Israele non è neanche lontanamente una potenza comparabile con la Germania nazista, infatti dipende in tutto e per tutto dalle armi e dai soldi che arrivano dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dal Regno Unito.
L’attacco aereo israeliano contro i leader di Hamas a Doha nel settembre 2025 è stato più di un’operazione militare. È stata una rottura simbolica nell’architettura stessa della diplomazia mediorientale. Per decenni, il Qatar si è costruito l’immagine di “mediatore neutrale” ospitando negoziati tra i talebani e Washington o fungendo da piattaforma per colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti. L’attacco israeliano ha infranto questa percezione: l’era dei “rifugi sicuri” per la diplomazia nell’Asia occidentale è finita.
La capitale del Qatar, Doha, è stata a lungo descritta come un polo paradossale. Da un lato, ospita la base aerea di Al-Udeid, la più grande installazione militare statunitense nella regione. Dall’altro, ha ospitato gli uffici di Hamas e ha svolto il ruolo di piattaforma per i negoziati tra attori considerati ostili da Washington e Tel Aviv. Doha ha prosperato in questo spazio contraddittorio, ritagliandosi un ruolo di mediatore globale. La decisione israeliana di lanciare un attacco aereo a Doha ha infranto questo paradosso. Ha segnalato che persino un alleato degli Stati Uniti, un presunto mediatore “protetto”, non è immune dalla logica dell’espansione dei campi di battaglia. Colpendo i leader di Hamas mentre erano presumibilmente impegnati in colloqui con funzionari del Qatar, Israele non solo ha minato la sovranità del Qatar, ma ha anche inviato un messaggio agghiacciante agli altri attori del Sud del mondo: la neutralità è un’illusione nei conflitti odierni.
Quante sono le nazioni europee disposte a inviare proprie truppe in Ucraina per garantire la sicurezza di Kiev? Valutazioni contrastanti e contraddittorie rendono arduo fornire una risposta precisa a questa domanda.
Ci sono 26 Paesi dei circa 30 aderenti alla Coalizione dei Volenterosi “che formalmente si sono impegnati a dispiegare una ‘forza di rassicurazione’ in Ucraina e ad essere presenti sul territorio, nei cieli e nei mari” ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo al fianco di Volodymyr Zelensky. “Questa forza non ha per volontà o per obiettivo condurre qualche guerra ma è una forza che deve garantire la pace“, ha affermato il presidente francese Emmanuel Macron all’ultimo vertice dei “volenterosi”.
Il 5 settembre il presidente ucraino Zelensky ha aggiunto che nell’ambito delle “garanzie di sicurezza”, i Paesi stranieri saranno disposti a inviare migliaia di militari in Ucraina. In un incontro con il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, il leader ucraino ha detto che è ancora presto per parlare dei dettagli delle garanzie di sicurezza, ma il piano esiste già.
“La questione riguarderà il coordinamento dei Paesi per la protezione del cielo. E questo sta già procedendo con una valutazione delle quantità di aerei e della quantità di reparti. E anche il coordinamento in mare, e comprendiamo anche quali Paesi e cosa sono disposti a schierare”, ha detto Zelensky.
Volto sorridente, voce soft, comunicazione coinvolgente che ben dispone all’ascolto. È, a detta di chi lo ascolta, una persona gradevole, gentile. Non sempre corrisponde al vero. Se la gentilezza è una qualità intima che apporta benefici e che si esprime attraverso varie esperienze e relazioni, poche persone possono essere riconosciute gentili. E’ lo stesso divario che intercorre fra forma e sostanza. ‘Sotto il vestito niente’, citando il titolo di un famoso film. Nella frequentazione la forma prende corpo nella sostanza e la gentilezza dei modi, talvolta, svanisce.
In realtà la gentilezza per antonomasia ben poco ha a che vedere con ciò che appare d’emblée. Per avere un’idea su una delle accezioni dell’intrinseco significato si pensi alla celebrazione dantesca di Beatrice ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’ declamava il Maestro nel XXVI della Vita Nova. Nel sonetto ‘quella che sul numer delle trenta’ viene descritta dal Sommo poeta come creatura dotata di gentilezza intesa come portatrice di grazia e promotrice di serenità. La gentilezza per il poeta del dolce stilnovo è il simbolo più elevato della nobiltà d’animo.
Accantonando i cieli danteschi e la spiritualità della donna angelicata, torniamo alla gentilezza come qualità terrena. Si può affermare che chi è realmente gentile non è mai oppositivo, né perentorio. Chi è dotato di gentilezza d’animo sa come far scivolare il conflitto prima che degeneri e si trasformi in una inarrestabile escalation verso la spirale dell’aggressività.
f. Ancora una volta
sui compiti delle conferenze di produzione
Ritorniamo all’intervento di Tomskij e al punto successivo, in cui esamina circa compiti e mansioni delle Conferenze di produzione. Dopo tutto quanto esaminato abbiamo ben chiaro come Tomskij non agisca per pedanteria o eccessiva preoccupazione. Ribadire punti non ancora scontati, anzi, per niente scontati in gran parte dei casi, era necessità concreta. Lasciarne, infatti, l’interpretazione alla libera e totale discrezione di ciascun collettivo, altro non avrebbe che amplificato arbitrarietà, disordine e, in ultima analisi, non solo inefficacia ma anche dannosità di tali conferenze.
Così, pertanto, prosegue, passando alle Conferenze di produzione:
La conferenza di produzione non decide alcunché: non è per questo che è stata concepita; ribadiamolo, in primo luogo, e a chiare lettere. Le risoluzioni delle conferenze di produzione non sono cogenti, obbligatorie per gli organismi economici, e questo è il secondo punto. Si tratta di una premessa doverosa, perché poi sull’onda di un’enfasi esagerata, di gente che invoca a ogni piè sospinto: “Conferenza di produzione, conferenza di produzione!”, poi c’è chi ci rimane male perché le proposte da essa votate non vengono adottate.
Parliamo ora di composizione dei partecipanti alle conferenze di produzione. Quelle che vi porto sono le cifre in nostre mani delle cifre di Leningrado e di Tula. E cosa ci dicono queste cifre? Che le conferenze di produzione constano per oltre il 50% di operai in forza alle linee di produzione, mentre la restante parte è composta da membri del comitato di fabbrica, dell’amministrazione, piuttosto che impiegati, tecnici, personale in distacco sindacale, eccetera.
Quando invece passiamo alla loro appartenenza politica, vediamo che i comunisti sono soltanto poco più della metà, mediamente dal 52% al 56%, più un 3-4% di iscritti al komsomol e il resto, circa il 42%, di non iscritti. Occorre aggiungere a questo anche il fatto che, persino nelle realtà più partecipate, come per esempio a Leningrado, a presenziare alle conferenze di produzione è il 19% dei lavoratori. Meno di un lavoratore su cinque non è un grande indicatore di adesione.
Il presente si connota come un tempo
d’asfissia politica, in quanto i rilevi critici e le analiso
geo-politiche descrivono con esattezza dialettica le atroci
contraddizioni del
sistema capitalistico. La pratica della critica cade nella
trappola dell’impotenza astratta, nel caso alla critica non
segua il difficile
compito della complessità. Il capitalismo ha il suo alfabeto
emotivo, è un modello di consumo e morte, il sentimento che lo
connota e
che rinsalda il suo dominio è l’impotenza disperata. La logica
padronale diffusa capillarmente insegna in modo consapevole e
inconsapevole la sudditanza senza speranza, per cui si può
solo sopravvivere mediante la “resilienza senza resistenza”.
Ci si
adatta e ci si aliena e in tale movimento l’impotenza si
radica nei pensieri, nel linguaggio e nei comportamenti. In
tale cornice a capitalismo
integrale le dialettiche progettuali sono scomparse e al loro
posto regna solo la quieta e plumbea palude del capitale nel
cui grigiore i sudditi si
fondono fino a pensare che l’alternativa è impossibile, per
cui è necessario accettare la sudditanza padronale
all’economicismo e alle oligarchie afferenti. La sola critica
è in tal modo, nel migliore dei casi, il sintomo doloroso e
muto del
disagio senza speranza. Dopo il 1991 con la caduta dell’Unione
Sovietica gli orizzonti progettuali si sono liquefatti con
l’oblio della
dialettica politica e con la scomparsa dei partiti comunisti.
La disperazione e l’impotenza sono spesso mascherate da forme
di parossismo
consumistico e narcisistico che vorrebbero rimuovere il “non
senso”. Costanzo Preve descrive con maestria il nostro
presente senza via
d’uscita; e questo è il problema/dramma principale della
nostra epoca:
“Il fatto è che oggi, insieme alla prospettiva della rivoluzione nel vecchio (e unico) senso del termine, è venuta meno anche la vecchia dicotomia Riforme/Rivoluzione, per cui per un secolo e mezzo si è detto che era meglio affidarsi a una lenta evoluzione positiva senza strappi per ottenere risultati simili senza lo scorrimento del sangue e i cicli di violenza che ne susseguono. In realtà non si vede oggi neppure quali forze siano seriamente in grado di ipotizzare una riforma di questo modello di capitalismo globalizzato a prevalenza finanziaria.
Il cosiddetto “risiko” della finanza
italiana si
è concluso con la vittoria dei Caltameloni (con contorno a
stelle e strisce). Il costruttore ed editore Franco
Caltagirone e la Delfin, holding
degli eredi Del Vecchio (Luxottica), sono infatti i nuovi
padroni di Mediobanca tramite Monte dei Paschi (Mps),
l’istituto senese di cui il
Tesoro, cioè il governo, è il primo degli azionisti, fra i
quali fa capolino anche BlackRock, il fondo americano al
vertice mondiale
della gestione patrimoni. La vicinanza dei due potentati
nostrani al centrodestra di Giorgia Meloni è cosa nota. Meno
nota, anche se
nient’affatto nuova, è la solita, eterna regola che guida le
operazioni in cui è coinvolto lo Stato e che ha avuto conferma
anche
stavolta: la socializzazione delle perdite e la
privatizzazione dei guadagni. I gruppi Delfin e Caltagirone,
assommando in totale il 30% delle quote,
sono anche i principali soci di Mediobanca, che ora hanno
comprato. Il salvataggio di Mps è costato al bilancio pubblico
5,4 miliardi di euro.
Da gennaio di quest’anno quando è stata lanciato l’assalto,
Delfin ha guadagnato 850 milioni di euro e Caltagirone quasi
430
(mentre BlackRock ne ha macinati 172). Acquistando in pratica
sé stessi in una banca rimasta in piedi solo grazie
all’intervento statale,
lorsignori fanno vertiginose montagne profitti grazie al
contribuente. E si preparano al colpo grosso che è stato il
loro obbiettivo fin
dall’inizio: tramite il 13% in mano a Mediobanca in Generali,
mettere le mani sulla compagnia assicurativa che ha in pancia
800 miliardi di
investimenti.
Del resto questo governo, in modo non dissimile da quel che farebbe uno di centrosinistra, sa farsi apprezzare dalla finanza predona. L’anno scorso KKR (Kohlberg Kravis Roberts & Co), uno dei maggiori fondi pensione degli Stati Uniti, ha acquisito la quota di controllo della NetCo di Tim, la rete di telefonia fissa, dopo aver già messo un piede nel gruppo con la partecipazione in FiberCop. A nulla è valsa l’inefficace opposizione dell’Antitrust. Il quadretto rende bene quella che viene chiamata finanziarizzazione: non solo dell’economia, ma anche della politica.
Nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 2025, la von der Leyen ha segnalato la sua intenzione di raddoppiare gli sforzi sulle stesse politiche che hanno indebolito l’Europa
Il discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen del 2025 non ha riservato grandi sorprese. È stato il solito mix di promesse vuote, gergo tecnocratico e atteggiamenti morali ipocriti che sono il suo marchio di fabbrica. In altre parole, sempre la stessa cosa.
Pronunciato nel consueto registro orwelliano, il discorso era pieno di parole come libertà, pace, prosperità e indipendenza, anche se l’UE continua a perseguire politiche che minano tutti questi valori, spingendo per la guerra e la militarizzazione, reprimendo la libertà di parola, sabotando le economie europee con politiche energetiche e commerciali controproducenti e subordinando ulteriormente il continente all’agenda strategica di Washington.
Come previsto, la von der Leyen ha iniziato con la Russia, la principale ossessione di Bruxelles. “L’Europa è in lotta. Una lotta per un continente unito e in pace… una lotta per il nostro futuro”, ha dichiarato, annunciando un nuovo “Semestre europeo della difesa” e una “tabella di marcia chiara” per la preparazione alla difesa entro il 2030, sottolineando al contempo l’impegno incrollabile dell’Unione nei confronti della NATO.
È passato un anno dalle elezioni legislative anticipate volute da Emmanuel Macron, due primi ministri da lui nominati sono nel frattempo caduti – Michel Barnier con una mozione di censura il 4 dicembre, François Bayrou con un voto di sfiducia lunedì – e ancora il Presidente non ha capito che il grande perdente è lui, nonostante le incapacità negoziali di ambedue i Premier falliti. Ieri ha nominato primo ministro un suo fedelissimo, il ministro della difesa Sébastien Lecornu. Probabilmente Macron pensa che facendo sempre la stessa cosa, e avendola fallita due volte, il risultato possa essere diverso.
Il debito che appesantisce il paese è aggravato dalle sue politiche, e da anni è lui il bersaglio della collera dei francesi. La Francia è bloccata da lui e non – come sostengono centro-destra e media mainstream – dai movimenti popolari o sindacali che manifesteranno oggi e il 18 settembre. Quello di oggi, annunciato da tempo, ha come motto: “Blocchiamo Tutto”. Non cade dal cielo ma prosegue un movimento di protesta quasi ininterrotto che ha accompagnato la presidenza sin dagli inizi: Gilets Gialli nel 2018-2019; lunga mobilitazione nel 2023 contro la legge sulle pensioni, imposta da un capo di Stato senza più maggioranza assoluta; e adesso il Blocco. Ogni volta sono le dimissioni presidenziali che vengono invocate.
Tutti quei maligni autoritari, più di 20, che si sono riuniti a Tianjin alla fine di agosto per un vertice della Shanghai Cooperation Organization: questo è stato un festival dell'antiamericanismo, dovete saperlo.
Non c'è altro modo di capirlo. A peggiorare ulteriormente la situazione, Xi Jinping ha poi invitato più di due dozzine di capi di Stato a Pechino per celebrare l'80° anniversario della vittoria del 1945.
Come osa il presidente cinese organizzare una sontuosa parata militare per celebrare il ruolo della Cina nella storica sconfitta dell'esercito imperiale giapponese? Come osa suscitare orgoglio nella determinazione della Repubblica Popolare a difendere la propria sovranità, confutando al contempo il revisionismo – insensato ma diffuso – che cancella il Partito Comunista Cinese dalla storia della Seconda Guerra Mondiale?
La temerarietà di quest'uomo nel suggerire che non furono gli americani e i loro corrotti clienti, i nazionalisti cinesi, a combattere e vincere la guerra. Per l'amor del cielo, non facciamo menzione dei 12-20 milioni di cinesi – non esiste una cifra precisa – che morirono a causa delle aggressioni del Giappone imperiale.
No, non c'è niente da onorare in tutto questo. Tra la SCO e i festeggiamenti a Pechino, tutto era vagamente demoniaco, una sfida appena velata a quello che gli Stati Uniti e il resto dell'Occidente insistono nel definire un "ordine basato sulle regole".
Ignacio Ramonet, giornalista e saggista, analista internazionale, è stato a lungo direttore di Le Monde diplomatique. Nel suo libro La era del conspiracionismo ha analizzato i meccanismi del “trumpismo” che oggi vediamo estendersi ad altre latitudini, dall'America latina all'Europa. Con lui abbiamo parlato della crisi politica dell'Unione europea, e delle rinnovate tensioni fra gli Usa e i paesi socialisti latinoamericani.
* * * *
Viviamo un momento di profonde e drammatiche trasformazioni che investono tutti i piani di un modello – il capitalismo dominante – in crisi sistemica, ma con la chiara intenzione di far vivere a tutta l'umanità la sua agonia. Dal suo punto di vista, quello di un raffinato analista politico di lunga data, come interpreta questa crisi?
Non siamo di fronte a una crisi puntuale del capitalismo, ma a una sua crisi di civiltà. Il sistema, nella sua versione neoliberista e finanziarizzata, ha raggiunto un punto in cui non riesce più a riprodursi senza distruggere le sue stesse fondamenta: il lavoro, la natura, i legami sociali e persino l'idea di comunità politica. Il capitale trasforma il collasso in strategia, fa della precarietà la norma e gestisce la catastrofe come se fosse uno stato naturale delle cose.
Lavinia Marchetti: Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
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Carlo Lucchesi: Avete capito dove ci stanno portando?
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Il seguente testo
è solo una parte di un lungo saggio di Robert Kurz dal titolo
Geld ohne Wert [it: “Denaro senza valore”] (Horlemann
Verlag, 2012). Esso rappresenta il lascito teorico e l’ultimo
contributo organico dell’autore nella direzione di un notevole
tentativo
(iniziato già a metà degli anni Ottanta) di ricostruire la
critica dell’economia politica e di formulare una teoria
radicale della
crisi del capitalismo. Ci limitiamo qui a fornire alcune
succinte coordinate.
Il fulcro della trattazione è naturalmente la questione del denaro e del suo valore, sapientemente declinata attraverso un confronto con l’antichità e l’età medioevale in cui il denaro non aveva affatto il ruolo centrale che riveste nella modernità con la sua universalizzazione del capitalismo e delle relative categorie. Sottolineando la natura storicamente e logicamente differente del denaro nella modernità capitalistica rispetto alle epoche premoderne, Kurz imposta la questione della sua funzione sociale negli ultimi secoli e ne mette in luce gli elementi di crisi.
In secondo luogo, l’accento viene posto sulla necessità di analizzare la società capitalistica come un intero. Di conseguenza Kurz conduce una critica serrata al cosiddetto “individualismo metodologico”1 che caratterizza l’approccio utilizzato da Marx ne Il capitale ma anche e soprattutto le correnti neo-marxiste più recenti (in particolare la cosiddetta Neue-Marx-Lektüre di Michael Heinrich).
Nello specifico il testo che presentiamo prende in esame la categoria della “circolazione” mettendone in luce la natura illusoria. Se intesa come uno scambio generalizzato di merci prodotte da produttori indipendenti con la mediazione dal denaro, essa non ha mai avuto luogo storicamente; infatti nelle società premoderne non vi era alcuna produzione universale di merci mentre nella modernità capitalistica il denaro non media affatto lo scambio di merci differenti ma costituisce un fine in sé, in ossequio alla logica fondamentale del sistema. Questa idea ha piuttosto il suo luogo d’elezione nella visione ideologica della teoria economica ufficiale (quella del “velo del denaro”). Nella realtà le merci vengono realizzate, vendute e consumate ma non “circolano”.
Dal Giappone, l’antropologo francese analizza la questione nucleare iraniana e i doppi standard occidentali
L'autore de «La
sconfitta dell’Occidente» sfida i pregiudizi occidentali
sull’Iran. Con una lettura controcorrente, Emmanuel Todd
sostiene che, come il Giappone, anche l’Iran potrebbe
dotarsi di armi nucleari
senza destabilizzare la regione. Lo studioso avverte che
l’approccio unilaterale di Israele e degli Stati Uniti
distorce la percezione e
ostacola la comprensione del Paese erede dell’Impero
persiano, che vanta oltre 2.500 anni di storia.
l punto di vista di un esperto su un tema di attualità.
Quella che segue è la traduzione in italiano di un’intervista rilasciata di recente in Giappone. Il fatto di esprimermi regolarmente in Giappone su questioni geopolitiche (da almeno 20 anni) mi ha aiutato a sviluppare una visione del mondo de‑occidentalizzata, una coscienza geopolitica non narcisistica. Come si vedrà, è stata la mia riflessione di lunga data sull’eventuale acquisizione dell’arma nucleare da parte del Giappone a portarmi a un atteggiamento piuttosto sereno di fronte alla questione iraniana.
Le democrazie europee non vanno bene. Non possono più essere descritte come pluraliste per quanto riguarda l’informazione geopolitica. La possibilità di esprimermi sui grandi media giapponesi mi ha permesso di sfuggire al divieto che in Francia pesa su qualsiasi interpretazione non conforme alla linea occidentalista. Le reti di Stato (France‑Inter, France‑Culture, France 2, France 3, La 5, France‑Info eccetera) sono agenti particolarmente attivi – e incompetenti – del controllo dell’opinione geopolitica.
Niamey, giugno 2025. Questo sembra essere il significato del suo nome, Edwin, migrante liberiano sepolto oggi nel cimitero cristiano di Niamey sotto il sole. In inglese antico, ‘Figlio della Ricchezza’ o della Prosperità. Morto nell’ ospedale universitario della capitale dopo che Medici Senza Frontiere prima e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni poi, si occupino della sua malattia. Troppo tardi e a 32 anni Edwin ha terminato un viaggio e iniziato l’altro, l’ultimo, verso una terra sconosciuta. La famiglia, informata dell’accaduto, ha chiesto di poter vedere per foto il suo volto e la video della sepoltura.
Era in Algeria e, certamente espulso e deportato, ha raggiunto Assamaka, la prima città nigerina passata la frontiera desertica dell’Algeria. Malato è stato condotti ad Arlit, chiamata piccola Parigi molti anni fa, Agadez il polo migrante e, viste le peggiorate condizioni di salute, l’ospedale di Zinder, prima capitale del Niger. Da lì il vano tentativo di tenerlo in vita nell’ospedale universitario di Niamey. La prima migrazione di Edwin si è fermata tra la sabbia e il vento del Sahel e, da martedì scorso, ha continuato con quella più impegnativa di tutte giacché non si trova in nessuna carta geografica.
Edwin, ‘Figlio della Ricchezza’, secondo l’etimologia classica del nome. Figlio dunque come non mai quando, stamane, nudo come alla nascita, il corpo offerto per l’ultimo segno di rispetto, la pulizia, prima di essere posto nel feretro di legno.
In Europa si cammina sul filo del rasoio di uno scontro diretto fra Nato e Russia, che qualcuno a quanto pare vuole assolutamente. Nel frattempo, lo Stato di Israele, sicuro oramai della impunità derivante dall’impotenza delle organizzazioni internazionali e del persistente cieco appoggio da parte degli Stati Uniti d’America, sta quindi sfruttando a fondo il momento favorevole per affermarsi come una forza politico-militare egemone in un’area che va oramai dal Golfo Persico fino al Mediterraneo centrale
Per rendersene conto, basta ricostruire gli avvenimenti svoltisi in circa 72 ore, tra l’8 e il 10 settembre scorsi: un arco di tempo nel quale Israele ha attuato con discreto successo ben sei distinte operazioni militari, alcune della quali proiettate a migliaia di chilometri di distanza.
1) Striscia di Gaza: lunedì 8 settembre, 67 persone vengono uccise e gli ospedali ricevono 320 feriti, tra cui 14 persone, uccise mentre cercavano di procurarsi generi di prima necessità; altre 6 persone – tra cui 2 bambini – muoiono per cause legate alla carestia. Martedì, altre 83 persone vengono uccise e 223 ferite.
Israele continua poi il suo attacco su Gaza City, prendendo di mira grattacieli, distruggendo infrastrutture e costringendo i residenti ad abbandonare le loro case, lasciando molti senza un luogo sicuro in cui rifugiarsi.
Dal suo inizio, le operazioni di guerra di Israele su Gaza hanno ucciso almeno 64.656 persone, tra le quali almeno 404 sono morte di fame. Migliaia di altre persone risultano disperse sotto le macerie e si ritiene siano morte.
Uno degli aspetti e tra le capacità più notevoli dell’ideologia neoliberale è non solo l’essere stata completamente interiorizzata dai subalterni, costituendo così un elemento attivo di modellizzazione dell’immaginario (con conseguente impossibilità di pensare una reale alternativa di sistema), ma anche di deviare continuamente le responsabilità dei danni prodotti dal Modello verso aspetti periferici, fuorvianti se non del tutto erronei, a salvaguardia del Modello stesso. La Scuola e la Sanità pubbliche, ossia due settori vitali per la tenuta della Democrazia, e che proprio perciò sono stati oggetto di un attacco profondo e pluridecennale, forniscono ottimi esempi del funzionamento del meccanismo.
Sul piano della Sanità, si prenda pure il caso paradigmatico dell’emergenza pandemica, quando l’enfasi sui comportamenti individuali, virtuosi o viziosi, servì a deviare l’attenzione dalle responsabilità maggiori alla base dell’impatto della pandemia, imputabili allo smantellamento della sanità pubblica e allo straripare degli interessi privati. Per esempio, se non mantieni posti di terapia intensiva in esubero quando “non servono”, poi non te li ritroverai quando servono di più. Questo basterebbe a mostrare come la spesa pubblica debba farsi carico di costi che il privato non ha interesse a sostenere, a tutela dei diritti, dell’accessibilità ai servizi di base, e della salute pubblica. Per le stesse ragioni, tutte le campagne populiste e antipolitiche contro gli “sprechi” nel settore pubblico sono sempre state organiche all’ideologia neoliberale, perché contribuiscono a preparare la giustificazione per il trasferimento di risorse dal pubblico al privato.
«L'urgenza delle scelte» scrive il signor Danilo Taino nell'editoriale del Corriere della Sera del 11 settembre, in prima pagina sotto il titolone «Raid in Polonia, Putin sfida la NATO», che dà direttamente conto della visione del foglio di regime euro-atlantico a proposito della vicenda dei droni – addirittura privi di carica esplosiva, dice la stessa Procura polacca – caduti in territorio polacco, forse persino là dirottati da precise interferenze radioelettroniche. E, in fondo, per «quanto allarmante possa apparire» scrive la polacca Gazeta Wyborcza, «un attacco con un drone non è sufficiente per scatenare una guerra con la Russia. Nessuno è rimasto ucciso o ferito... non è sufficiente per provocare un conflitto aperto con la Russia». E il Comandante delle Forze NATO in Europa, Alexus Grynkewich: «Se i droni fossero stati centinaia, si sarebbe applicato l'articolo 5, ma al momento non è del tutto chiaro cosa sia successo nello spazio aereo polacco».
L'imbarazzo delle scelte, invece che «l'urgenza», vien da chiosare sfogliando le altre pagine, fino all'undicesima, dello stesso giornale, alla vana ricerca di qualcosa che non somigli troppo alle pure e semplici veline lanciate da Bruxelles per convincere i lettori della malvagità di un “regime autocratico”, assetato di guerra contro le immacolate democrazie europee spinte, come ricordato meno di una settimana fa dal presidente della Repubblica italiana, da quelli che sono i “fondamentali” del liberal-europeismo: «percorso di pace, affermazione dei diritti, standard di vita», ecc.
La Cina
è inarrivabile. L’Occidente frana dall’interno. L’ex
superpotenza USA dispiega la propria residua forza militare, e
quella
dei suoi alleati in crisi, in America Latina, Europa e Medio
Oriente
Mentre al vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) di Tianjin il gigante cinese si è posto nettamente alla guida del mondo non occidentale, Stati Uniti e paesi europei sono alle prese con crescenti crisi politiche, economiche e sociali al proprio interno.
Militarmente, Washington si sta concentrando in primo luogo sul continente americano, scaricando sugli europei i costi di un conflitto ucraino sempre più fallimentare, e lasciandosi trainare dal disastroso avventurismo israeliano in un Medio Oriente sempre più in fiamme.
Questa realtà potrebbe presto trovare conferma nella nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono. Una bozza del documento è attualmente allo studio del Segretario alla Difesa Pete Hegseth.
Secondo indiscrezioni, essa antepone per la prima volta la protezione del suolo nazionale e del continente americano all’esigenza di contrastare avversari come Russia e Cina.
Sebbene il documento possa ancora subire modifiche, si tratta per molti versi di una tendenza già in atto.
Il Dipartimento della Difesa ha inviato navi da guerra ed aerei F-35 nei Caraibi, ed ha mobilitato migliaia di uomini della Guardia Nazionale per mantenere l’ordine a Washington e Los Angeles, in un paese sempre più frammentato e diviso (come conferma il recente assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk).
Se questa realtà trovasse riscontro nel nuovo documento del Pentagono, si tratterebbe di uno stravolgimento rispetto alla Strategia di Difesa Nazionale del 2018, sotto la prima amministrazione Trump, la quale poneva al primo posto il contenimento della Cina.
Vivere le
tecnologie come se fossero qualcosa che cade dall’alto ci
rende passivi e ci limita a
considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo
fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite
– A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism,
scritto dal ricercatore americano
Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle dinamiche
di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica.
Senior lecturer presso la Monash University di Melbourne (Australia), è esperto di economia politica e teoria sociale della tecnologia. Oltre al libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, nel 2020 Sadowski ha pubblicato il libro Too Smart – How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World. Inoltre conduce il podcast This Machine Kills insieme a Edward Ongweso Jr. È anche autore e co-autore di diversi studi che indagano le conseguenze della tecnologia e della datificazione.
Jathan Sadowski parte da alcuni presupposti. Il primo vuole che tecnologia e capitalismo non siano forze separate ma che si rafforzino in modo reciproco, con le persone relegate al ruolo di osservatori passivi, senza valutarne le ricadute politiche, economiche e sociali.
Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, al fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”. Se l’utopia si configura come un “non luogo”, l’eterotopia si presenta come un luogo reale separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”1. Sono svariate le eterotopie secondo l’analisi dello studioso francese: i giardini, i teatri, le prigioni, le colonie, le fiere, le biblioteche. Alla fine della conferenza, Foucault definisce però la nave come “eterotopia per eccellenza”: la nave è un “frammento di spazio fluttuante, un luogo senza luogo, che vive per sé, che è chiuso su se stesso e che, nello stesso tempo, è abbandonato all’infinito del mare”2; è “anche la più grande riserva di immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza barche i sogni si inaridiscono, lo spionaggio prende il posto dell’avventura e la polizia quello dei corsari”3.
L’immagine della nave come “contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”, come “riserva di immaginazione”, come una specie di scrigno di sogni scaturiti da un immaginario libero e liberato prende corpo in questi giorni nella Global Sumud Flotilla, partita carica di aiuti umanitari pochi giorni fa alla volta della Striscia di Gaza con l’intento di rompere il blocco israeliano. Sono tante imbarcazioni a vela che assumono una dimensione quasi mitica nel loro movimento sulla superficie del mare alla volta della Striscia.
A 24 ore di distanza, con qualche elemento concreto in più (le dichiarazioni e la propaganda li lasciamo agli arruolati), possiamo provare a sintetizzare l’analisi dell’”incidente polacco” – i droni, forse russi, che hanno sconfinato sul confine orientale di Varsavia – e ipotizzare cosa è effettivamente accaduto.
Dal che, come sempre, discende un briciolo di valutazione politica.
Gli “elementi concreti” vengono forniti da fonti militari (alcune della Nato, altre bielorusse) e da analisti militari sperimentati, tipo Analisi Difesa per quanto riguarda l’Italia.
Partiamo dalle cose relativamente certe.
I droni erano di tipo “Gerbera”, che un sito molto “europeista-militarista” descrive così: “I droni Gerbera appartengono alla categoria degli UAV tattici, progettati per missioni di ricognizione, sorveglianza e potenzialmente anche attacco. Sebbene la documentazione ufficiale sia limitata, analisti militari occidentali hanno identificato questo modello come parte della nuova generazione di droni russi, sviluppata con l’obiettivo di contrastare le difese aeree convenzionali e di operare in scenari di conflitto ibrido.”
In pratica sono droni senza carica esplosiva (anche se in qualche misura potrebbero portarla), utili sia per acquisire informazioni sulla disposizione del nemico, sia come “esca” per attirare i missili anti-missile delle difese avversarie.
La coerenza politica passa spesso per la minoranza. Se n’ebbe prova all’indomani del 7 ottobre, quando affermare il carattere resistente di quell’atto significava esporsi all’isolamento e al disprezzo di una massa compatta che ne decretava la demonizzazione come “terrorismo”. Si era in pochi, quasi invisibili. Lo si constata di nuovo oggi, dopo due anni di genocidio reso possibile dall’indifferenza occidentale e dalla complicità diretta con il sionismo: proprio mentre si coagula un consenso di massa che condanna tardivamente i massacri, si può scegliere di restare altrove. Non per masochismo né per culto delle passioni tristi, ma per coerenza. È fondamentale la forza dei movimenti di massa, ma non va confuso il clamore con la lotta: quando degenerano in rituali di autoassoluzione, è doveroso starne fuori. Molti compagni di allora, che condividevano la solitudine della prima minoranza, oggi si sono riversati anima e corpo in questa ondata solidale che qui si critica. Li si può rispettare, ma sarebbe disastroso lasciarsi trascinare: resta dunque salutare permanere nella minoranza che non si lascia sedurre dalle illusioni.
Potremmo scorgere, infatti, nel clamore di questi giorni, il tempo della negazione spettacolare della resistenza. La Global Sumud Flotilla non sostiene la lotta, non rafforza la resistenza: è messa in scena.
Guy Debord, esordendo ne La società dello spettacolo, avvertiva: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Ed è proprio ciò che accade.
Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, quella parola è in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron
«A causa di una rivolta sociale il Museo d’Orsay è chiuso» e i turisti non potranno ammirare le opere di Courbet. Per questa ironica serrata, il grande pittore rivoluzionario avrebbe guardato con simpatia il movimento che ieri ha paralizzato Parigi al grido «blocchiamo tutto».
Alcuni distruttori senza criterio, certo. Ma soprattutto giovani, tantissime donne, molti immigrati, e drappi rossi a volontà.
Si dice che il movimento sia nato dalle file della destra sovranista attiva sui social. Sarà, ma ieri si è vista poco. I «bloccanti», li chiameremo così, sono portatori di un linguaggio sovversivo in cui il termine «nazione», in senso repubblicano e molto francese, di certo non manca. Ma la parola chiave dei rivoltosi è un’altra: «Uguaglianza». Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron, alle quali i post-fascisti che siedono all’Assemblea nazionale vorrebbero dare sostegno più apertamente di quanto possano oggi ammettere.
La protesta è rivolta in primo luogo contro il programma anti-sociale che Macron sta cercando di imporre al paese. Oltre una quarantina di miliardi di tagli, da selezionare alla solita maniera: blocco delle pensioni e delle prestazioni sociali, stop alle assunzioni statali, scasso della sanità pubblica e, guarda caso, abolizione della festa dell’8 maggio per la vittoria contro il nazifascismo.
Lavinia Marchetti: Il giornalista perfetto per un mondo impresentabile: Enrico Mentana e il consenso
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L’infiltrazione di uno sciame di
droni russi Gerbera nello spazio aereo polacco la notte tra il
9 e 10 settembre ha suscitato molto allarmismo per la supposta
iniziativa di Mosca e
qualche preoccupazione per la scarsa reattività delle difese
aeree polacche e alleate, capaci di intercettare 3 o forse 4
dei 19 Gerbera
segnalati sulla Polonia.
Analisi Difesa si è occupata della vicenda (peraltro venendo ripresa e citata da molti altri media in Italia e all’estero) evidenziando tre possibili opzioni: un tentativo russo di intimidire gli europei e testare la reattività delle difese aeree polacche (ipotesi che preso subito piede in Europa), uno sconfinamento dovuto a errore o agli effetti delle contromisure elettroniche ucraine (ipotesi accreditata negli Stati Uniti) oppure un finto attacco orchestrato con scopi propagandistici da ucraini e polacchi per evidenziare che la minaccia russa incombe su Europa e NATO.
Immagini e notizie emerse successivamente rendono molto probabile che la terza ipotesi si riveli la più plausibile. Non solo perché Mosca ha sempre negato di aver inviato droni verso lo spazio aereo polacco ma anche perché negli ultimi tempi in Ucraina ed Europa si sono moltiplicate le operazioni propagandistiche tese ad accentuare la percezione dei russi come una minaccia spietata per tutta l’Europa.
Molte di queste operazioni propagandistiche sono sprofondate nel ridicolo come nel caso dell’attacco elettronico al GPS dell’aereo del presidente della Commission e europea Ursula von der Leyen in atterraggio in Bulgaria, Un’operazione così raffazzonata da venire smentita da tutti gli esperti di navigazione aerea e persino dalle autorità di Sofia.
Non meno ridicola la notizia dell’attacco contro il palazzo del governo a Kiev, dove è davvero scoppiato un incendio ma non vi sono prove né video o foto che documentino l’impatto di un drone russo. Purtroppo (per la credibilità complessiva di UE, NATO e dei singoli governi), anche la drammatica storia dell’attacco dei droni Gerbera alla Polonia sta trasformandosi in una patetica farsa.
“Quale sarà il posto dell’uomo nella società futura?” Se lo chiedono due filosofi e scienziati in un libro che attraversa tutte le faglie del nostro tempo: “Vita e pensiero nel regno dell’insignificanza”, Acro-polis editore. Giubbe Rosse pubblica, per gentile concessione della casa editrice, l’Introduzione del volume scritta da Sonia Milone che ha curato, insieme a Massimo Cascone, il libro-intervista
Sembra che la Terra oramai orbiti
intorno all’asse dell’emergenza cosmica con il ciclico
ripetersi di crisi finanziarie, sanitarie, climatiche,
energetiche, belliche. Ad
ogni giro si invera un’accelerazione storica che spazza via il
vecchio mondo per impiantarne uno completamente nuovo dove
trionfano
incontrastati il neoliberismo, il globalismo, la tecnocrazia,
il transumanesimo.
Il disorientamento, l’incertezza, la paura diffusi impediscono la reazione delle popolazioni, le quali, altrimenti, non accetterebbero passivamente riforme fabiane tese a introdurre un modello socio-economico che cambia in maniera radicale abitudini e stili di vita, rendendole sempre più povere e prive di diritti. È una rivoluzione che non può essere semplicemente imposta dall’alto ma necessita di un certo consenso carpito con la retorica dei buoni principi, come la crociata per la transizione digitale al fine di convertire la società al mito di un progresso che promette di portare il paradiso (artificiale) in terra.
Nel 1951 Hannah Arendt scrisse, a proposito dei totalitarismi, che «il soggetto ideale del dominio totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma le persone per le quali la distinzione tra fatto e finzione, vero e falso, non esiste più». Il rischio maggiore oggi è proprio quello di non sapere più riconoscere la verità rimanendo intrappolati dentro quelle novelle caverne platoniche che sono le bolle virtuali che ci tengono incatenati a fissare i seducenti simulacri del mondo che qualcuno proietta sulle pareti-schermi per noi a nostra insaputa. Eppure, l’uscita dello schiavo alla luce del sole è il mito fondativo di tutta una civiltà che aveva eletto il logos, la ragione, la parola e il dialogo a propria stella polare.
La crisi dei nostri tempi è, innanzitutto, la crisi del pensiero, affermano Luciano Boi e Stefano Isola, che in pagine cariche di riflessioni si confrontano su una molteplicità di temi che costituiscono le vere emergenze del nostro tempo, quelle che raramente emergono nel dibattito pubblico, smascherando le nuove forme di assoggettamento e di dominazione che si celano dietro le nuove mitologie del presente.
“Vorrei
sostenere che le grandi potenze hanno ragione ad affermare
una “sfera di sicurezza” nei
rispettivi vicinati che le altre grandi potenze non
dovrebbero violare, come ad esempio nessun allargamento
della NATO all’Ucraina e nessuna
base militare russa in Messico, ma che ciò è diverso da una
“sfera di influenza” che potrebbe implicare il
“diritto” degli Stati Uniti di interferire negli affari
interni (non di sicurezza) del Messico o della Russia di
interferire negli affari
interni (non di sicurezza) dell’Ucraina. Sto pensando, in
sostanza, a una Dottrina Monroe generalizzata e reciproca,
ma non a un Corollario
Roosevelt.”
Avvertenza: Alla fine dell’articolo potete leggere uno scambio di idee e considerazioni del Prof. Jeffrey Sachs con il Prof. John Mearsheimer.
Pochi concetti nelle relazioni internazionali sono così controversi come quello di “sfere di influenza”. Dalla spartizione coloniale del XIX secolo alla divisione dell’Europa durante la Guerra Fredda, le grandi potenze hanno ripetutamente rivendicato il diritto di intervenire nella politica, nell’economia e negli accordi di sicurezza dei loro vicini. Tuttavia, questo linguaggio familiare confonde due nozioni molto diverse: la legittima necessità delle grandi potenze di prevenire un accerchiamento ostile e la pretesa illegittima delle grandi potenze di interferire negli affari interni degli Stati più deboli. La prima è meglio descritta come una sfera di sicurezza, la seconda come una sfera di influenza.
Riconoscere questa distinzione è più che semantico. Chiarisce ciò che dovrebbe essere accettato come legittimo nella politica mondiale e ciò a cui si dovrebbe resistere. Aiuta anche a rivalutare dottrine storiche come la Dottrina Monroe e la sua successiva reinterpretazione nel Corollario Roosevelt, e fa luce sui dibattiti contemporanei tra Russia e Cina da un lato e Stati Uniti dall’altro in materia di sicurezza nazionale.
Quando si scopre che la maggioranza (73% secondo l’ultimo poll) della civile, colta, democratica popolazione israeliana supporta una sorta di “soluzione finale” nei confronti dei palestinesi non ci si può che chiedere: com’è possibile che ciò accada? Com’è possibile che qualcuno di fronte a manifeste, continue forme di prevaricazione e violenza nei confronti di soggetti innocenti (bambini, anziani, civili) continui a difendere serenamente queste attività?
La risposta è in effetti semplice: nel caso della popolazione israeliana si tratta di una popolazione che ha introiettato educativamente una visione di sé come vittime della storia, come soggetti fragili ed oppressi, che perciò hanno un implicito diritto di “autodifesa preventiva” a 360°.
In sostanza, essendo “noi” in credito con la storia e l’umanità, ci possiamo permettere ciò che altri non possono permettersi. La posizione di vittima esemplare ci pone in una insuperabile posizione di superiorità morale, che semplifica di molto ogni decisione: non devo soppesare torti e ragioni perché tutto ciò che faccio ricade per definizione sotto una forma di “legittima difesa preventiva”. Basta assumere che l’altro possa rappresentare, da un qualunque punto di vista, una minaccia per me, e io sono legittimato dal mio ruolo di vittima a ricorrere a qualunque forma di iniziativa soppressiva.
Una dinamica perfettamente analoga può essere scorta nelle legittimazioni “progressiste” che fioccano in questi due giorni dell’omicidio di Charlie Kirk.
La Cina è sicuramento “il baluardo”
che limita l’imperialismo a stelle e strisce.
Guardare in direzione della Cina con le leggi della dialettica
è necessario,
poiché la dialettica marxista insegna che gli orientamenti
della storia devono essere compresi e decodificati per
orientare la rivoluzione e i
mutamenti radicali in modo proficuo, e la Cina, a prescindere
dalle opinioni personali, è la civiltà (socialista) con cui
dovremo
confrontarci. Non è solo una nazione immensa, quasi un
continente nel continente asiatico, ma una civiltà-nazione con
una
identità e storia millenaria sopravvissuta al colonialismo
cannibalico occidentale. Essa oggi è la civiltà che apre nuovi
scenari
politici, mentre l’occidente cerca di perpetuare il suo
impossibile dominio:
“Il materialismo dialettico concepisce l’universo come “un movimento della materia, retto da leggi”, che si riflette nella nostra conoscenza, “prodotto superiore della natura” . Il pensiero è riflesso di questa realtà, ed è perciò anch’esso in un processo di continuo movimento e trasformazione. Al modificarsi della realtà materiale non può che corrispondere una trasformazione del pensiero. Essendo il nostro pensiero il riflesso della realtà materiale, noi possiamo arrivare alla comprensione oggettiva di questa. Il pensiero umano è espresso però da singoli individui, che non possono che avere una conoscenza relativa, limitata dal tempo e dallo spazio, oltre che dallo stato di sviluppo della società e delle sue forze produttive e scientifiche[1]”.
La dialettica ci insegna che le fasi di rottura causate dalle contraddizioni conducono a salti qualitativi, poiché nella contraddizione si afferma un innalzamento qualitativo generale della coscienza dei dominati. Tale coscienza non è assimilabile all’opinione personale, ma alla constatazione dell’inevitabilità dei processi storici in corso. Questi ultimi non sono mai “semplici segmenti” separati dalla totalità della storia, ma trovano la loro oggettiva ragion d’essere nell’immanenza olistica e trasformatrice della storia:
“Il materialismo dialettico ci insegna che le trasformazioni avvengono attraverso accumuli quantitativi e salti qualitativi. Ci insegna anche che nessun processo è “puro”, che ogni salto qualitativo non significa fare tabula rasa, e che è sulla base dell’esistente per come è, non per come si vorrebbe fosse, che viene costruito il futuro. Ciò riflette la reale evoluzione storica, che testimonia come in una data società non vi sia mai un unico modo di produzione, ma diversi, tra cui uno dominante[2]”.
La costruzione di un Nuovo
Ordine Globale non è un pranzo di gala.
Ed ecco, così, che dopo aver passato un’intera settimana a
celebrare le magnifiche sorti e progressive della
leadership cinese – che tra SCO, parate, Power of Siberia
2 e chi più
ne ha più ne metta, ha raggiunto una serie straordinaria di
traguardi storici – è bene iniziare la settimana con una lunga
disamina di tutti i dubbi e di tutti i nodi insoluti che
rimangono da sciogliere; e mettetevi pure comodi, perché
l’elenco è
decisamente lunghino e, vista la mole, probabilmente anche un
po’ caotico.
Il punto di partenza migliore è il dibattito che è nato su X tra alcuni degli osservatori (e sostenitori) più attenti e lucidi dell’ascesa del Nuovo Ordine Multipolare: a dare il via è stato il solito Arnaud Bertrand (se non lo fate già, seguitelo su X: in assoluto uno dei profili più informativi e interessanti dell’intera piattaforma) che, partendo da un articolo su Politico, ha lanciato la più stimolante delle provocazioni: “Gli USA”, afferma, “si stanno effettivamente ritirando dall’Asia”. La riflessione nasce dalle indiscrezioni sull’ultima bozza della nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono: Il piano del Pentagono dà priorità alla patria rispetto alla minaccia cinese, titola con enfasi Politico; e questo “segna un netto distacco dalla prima amministrazione Trump, che puntava a scoraggiare Pechino”.
Secondo l’articolo, appunto, “Una bozza della più recente Strategia di difesa nazionale” porrebbe “le missioni nazionali e regionali al di sopra della lotta contro avversari come Pechino e Mosca”; “Un cambiamento radicale rispetto alle recenti amministrazioni”, sottolinea Politico, “incluso il primo mandato del presidente Trump, durante il quale lo stesso documento definì Pechino il più grande avversario degli Stati Uniti”. L’aspetto divertente è che, oggi come durante il Trump 1.0, il responsabile del documento è sempre lo stesso: Elbridge Colby. Per chi segue Ottolina, una vecchia conoscenza: ne avevamo parlato qui ormai 3 anni fa, in occasione della pubblicazione del suo libro Strategy of denial, che avevamo definito il Mein Kampf degli USA. Secondo Arnaud la motivazione è chiara: “Ora che è al potere ha accesso a informazioni di intelligence reali, e deve aver capito quando sarebbe stato vano ogni sforzo.
Meno di un mese dopo che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha commissionato agli Stati Uniti 90 miliardi di ordini per armi, munizioni ed altri equipaggiamenti militari che pagheranno, consenzienti, gli alleati europei, ieri il ministro della Difesa di Kiev, Denys Shmyhal (nella foto sotto), ha reso noto che l’Ucraina ha bisogno di oltre 100 miliardi di euro per finanziare la sua difesa nel 2026.
A scanso di equivoci, l’ex premier del governo ucraino, ha precisato che tale somma sarà necessaria sia in caso la guerra continui sia nel caso si arrivi a un accordo di pace.
“Se la guerra continua, avremo bisogno di almeno 120 miliardi di dollari per il prossimo anno”, ha affermato, visto che gli sforzi di pace restano in una fase di stallo. Anche se i combattimenti cessassero, “avremo bisogno di una somma leggermente inferiore” per “mantenere il nostro esercito in buone condizioni” in caso di un nuovo attacco russo, ha aggiunto alla conferenza annuale sulla strategia europea.
Il ministro non ha specificato quanto di questa somma l’Ucraina sarà in grado di finanziare con risorse proprie, che di fatto non esistono dal momento che l’Ucraina sarebbe già in bancarotta secondo gli standard finanziari comuni e sopravvive grazie ai donatori internazionali.
Il seguente testo
è solo una parte di un lungo saggio di Robert Kurz dal titolo
Geld ohne Wert [it: “Denaro senza valore”] (Horlemann
Verlag, 2012). Esso rappresenta il lascito teorico e l’ultimo
contributo organico dell’autore nella direzione di un notevole
tentativo
(iniziato già a metà degli anni Ottanta) di ricostruire la
critica dell’economia politica e di formulare una teoria
radicale della
crisi del capitalismo. Ci limitiamo qui a fornire alcune
succinte coordinate.
Il fulcro della trattazione è naturalmente la questione del denaro e del suo valore, sapientemente declinata attraverso un confronto con l’antichità e l’età medioevale in cui il denaro non aveva affatto il ruolo centrale che riveste nella modernità con la sua universalizzazione del capitalismo e delle relative categorie. Sottolineando la natura storicamente e logicamente differente del denaro nella modernità capitalistica rispetto alle epoche premoderne, Kurz imposta la questione della sua funzione sociale negli ultimi secoli e ne mette in luce gli elementi di crisi.
In secondo luogo, l’accento viene posto sulla necessità di analizzare la società capitalistica come un intero. Di conseguenza Kurz conduce una critica serrata al cosiddetto “individualismo metodologico”1 che caratterizza l’approccio utilizzato da Marx ne Il capitale ma anche e soprattutto le correnti neo-marxiste più recenti (in particolare la cosiddetta Neue-Marx-Lektüre di Michael Heinrich).
Nello specifico il testo che presentiamo prende in esame la categoria della “circolazione” mettendone in luce la natura illusoria. Se intesa come uno scambio generalizzato di merci prodotte da produttori indipendenti con la mediazione dal denaro, essa non ha mai avuto luogo storicamente; infatti nelle società premoderne non vi era alcuna produzione universale di merci mentre nella modernità capitalistica il denaro non media affatto lo scambio di merci differenti ma costituisce un fine in sé, in ossequio alla logica fondamentale del sistema. Questa idea ha piuttosto il suo luogo d’elezione nella visione ideologica della teoria economica ufficiale (quella del “velo del denaro”). Nella realtà le merci vengono realizzate, vendute e consumate ma non “circolano”.
Dal Giappone, l’antropologo francese analizza la questione nucleare iraniana e i doppi standard occidentali
L'autore de «La
sconfitta dell’Occidente» sfida i pregiudizi occidentali
sull’Iran. Con una lettura controcorrente, Emmanuel Todd
sostiene che, come il Giappone, anche l’Iran potrebbe
dotarsi di armi nucleari
senza destabilizzare la regione. Lo studioso avverte che
l’approccio unilaterale di Israele e degli Stati Uniti
distorce la percezione e
ostacola la comprensione del Paese erede dell’Impero
persiano, che vanta oltre 2.500 anni di storia.
l punto di vista di un esperto su un tema di attualità.
Quella che segue è la traduzione in italiano di un’intervista rilasciata di recente in Giappone. Il fatto di esprimermi regolarmente in Giappone su questioni geopolitiche (da almeno 20 anni) mi ha aiutato a sviluppare una visione del mondo de‑occidentalizzata, una coscienza geopolitica non narcisistica. Come si vedrà, è stata la mia riflessione di lunga data sull’eventuale acquisizione dell’arma nucleare da parte del Giappone a portarmi a un atteggiamento piuttosto sereno di fronte alla questione iraniana.
Le democrazie europee non vanno bene. Non possono più essere descritte come pluraliste per quanto riguarda l’informazione geopolitica. La possibilità di esprimermi sui grandi media giapponesi mi ha permesso di sfuggire al divieto che in Francia pesa su qualsiasi interpretazione non conforme alla linea occidentalista. Le reti di Stato (France‑Inter, France‑Culture, France 2, France 3, La 5, France‑Info eccetera) sono agenti particolarmente attivi – e incompetenti – del controllo dell’opinione geopolitica.
In Europa si cammina sul filo del rasoio di uno scontro diretto fra Nato e Russia, che qualcuno a quanto pare vuole assolutamente. Nel frattempo, lo Stato di Israele, sicuro oramai della impunità derivante dall’impotenza delle organizzazioni internazionali e del persistente cieco appoggio da parte degli Stati Uniti d’America, sta quindi sfruttando a fondo il momento favorevole per affermarsi come una forza politico-militare egemone in un’area che va oramai dal Golfo Persico fino al Mediterraneo centrale
Per rendersene conto, basta ricostruire gli avvenimenti svoltisi in circa 72 ore, tra l’8 e il 10 settembre scorsi: un arco di tempo nel quale Israele ha attuato con discreto successo ben sei distinte operazioni militari, alcune della quali proiettate a migliaia di chilometri di distanza.
1) Striscia di Gaza: lunedì 8 settembre, 67 persone vengono uccise e gli ospedali ricevono 320 feriti, tra cui 14 persone, uccise mentre cercavano di procurarsi generi di prima necessità; altre 6 persone – tra cui 2 bambini – muoiono per cause legate alla carestia. Martedì, altre 83 persone vengono uccise e 223 ferite.
Israele continua poi il suo attacco su Gaza City, prendendo di mira grattacieli, distruggendo infrastrutture e costringendo i residenti ad abbandonare le loro case, lasciando molti senza un luogo sicuro in cui rifugiarsi.
Dal suo inizio, le operazioni di guerra di Israele su Gaza hanno ucciso almeno 64.656 persone, tra le quali almeno 404 sono morte di fame. Migliaia di altre persone risultano disperse sotto le macerie e si ritiene siano morte.
La Cina
è inarrivabile. L’Occidente frana dall’interno. L’ex
superpotenza USA dispiega la propria residua forza militare, e
quella
dei suoi alleati in crisi, in America Latina, Europa e Medio
Oriente
Mentre al vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) di Tianjin il gigante cinese si è posto nettamente alla guida del mondo non occidentale, Stati Uniti e paesi europei sono alle prese con crescenti crisi politiche, economiche e sociali al proprio interno.
Militarmente, Washington si sta concentrando in primo luogo sul continente americano, scaricando sugli europei i costi di un conflitto ucraino sempre più fallimentare, e lasciandosi trainare dal disastroso avventurismo israeliano in un Medio Oriente sempre più in fiamme.
Questa realtà potrebbe presto trovare conferma nella nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono. Una bozza del documento è attualmente allo studio del Segretario alla Difesa Pete Hegseth.
Secondo indiscrezioni, essa antepone per la prima volta la protezione del suolo nazionale e del continente americano all’esigenza di contrastare avversari come Russia e Cina.
Sebbene il documento possa ancora subire modifiche, si tratta per molti versi di una tendenza già in atto.
Il Dipartimento della Difesa ha inviato navi da guerra ed aerei F-35 nei Caraibi, ed ha mobilitato migliaia di uomini della Guardia Nazionale per mantenere l’ordine a Washington e Los Angeles, in un paese sempre più frammentato e diviso (come conferma il recente assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk).
Se questa realtà trovasse riscontro nel nuovo documento del Pentagono, si tratterebbe di uno stravolgimento rispetto alla Strategia di Difesa Nazionale del 2018, sotto la prima amministrazione Trump, la quale poneva al primo posto il contenimento della Cina.
Vivere le
tecnologie come se fossero qualcosa che cade dall’alto ci
rende passivi e ci limita a
considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo
fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite
– A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism,
scritto dal ricercatore americano
Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle dinamiche
di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica.
Senior lecturer presso la Monash University di Melbourne (Australia), è esperto di economia politica e teoria sociale della tecnologia. Oltre al libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, nel 2020 Sadowski ha pubblicato il libro Too Smart – How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World. Inoltre conduce il podcast This Machine Kills insieme a Edward Ongweso Jr. È anche autore e co-autore di diversi studi che indagano le conseguenze della tecnologia e della datificazione.
Jathan Sadowski parte da alcuni presupposti. Il primo vuole che tecnologia e capitalismo non siano forze separate ma che si rafforzino in modo reciproco, con le persone relegate al ruolo di osservatori passivi, senza valutarne le ricadute politiche, economiche e sociali.
Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, quella parola è in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron
«A causa di una rivolta sociale il Museo d’Orsay è chiuso» e i turisti non potranno ammirare le opere di Courbet. Per questa ironica serrata, il grande pittore rivoluzionario avrebbe guardato con simpatia il movimento che ieri ha paralizzato Parigi al grido «blocchiamo tutto».
Alcuni distruttori senza criterio, certo. Ma soprattutto giovani, tantissime donne, molti immigrati, e drappi rossi a volontà.
Si dice che il movimento sia nato dalle file della destra sovranista attiva sui social. Sarà, ma ieri si è vista poco. I «bloccanti», li chiameremo così, sono portatori di un linguaggio sovversivo in cui il termine «nazione», in senso repubblicano e molto francese, di certo non manca. Ma la parola chiave dei rivoltosi è un’altra: «Uguaglianza». Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron, alle quali i post-fascisti che siedono all’Assemblea nazionale vorrebbero dare sostegno più apertamente di quanto possano oggi ammettere.
La protesta è rivolta in primo luogo contro il programma anti-sociale che Macron sta cercando di imporre al paese. Oltre una quarantina di miliardi di tagli, da selezionare alla solita maniera: blocco delle pensioni e delle prestazioni sociali, stop alle assunzioni statali, scasso della sanità pubblica e, guarda caso, abolizione della festa dell’8 maggio per la vittoria contro il nazifascismo.
È passato un anno dalle elezioni legislative anticipate volute da Emmanuel Macron, due primi ministri da lui nominati sono nel frattempo caduti – Michel Barnier con una mozione di censura il 4 dicembre, François Bayrou con un voto di sfiducia lunedì – e ancora il Presidente non ha capito che il grande perdente è lui, nonostante le incapacità negoziali di ambedue i Premier falliti. Ieri ha nominato primo ministro un suo fedelissimo, il ministro della difesa Sébastien Lecornu. Probabilmente Macron pensa che facendo sempre la stessa cosa, e avendola fallita due volte, il risultato possa essere diverso.
Il debito che appesantisce il paese è aggravato dalle sue politiche, e da anni è lui il bersaglio della collera dei francesi. La Francia è bloccata da lui e non – come sostengono centro-destra e media mainstream – dai movimenti popolari o sindacali che manifesteranno oggi e il 18 settembre. Quello di oggi, annunciato da tempo, ha come motto: “Blocchiamo Tutto”. Non cade dal cielo ma prosegue un movimento di protesta quasi ininterrotto che ha accompagnato la presidenza sin dagli inizi: Gilets Gialli nel 2018-2019; lunga mobilitazione nel 2023 contro la legge sulle pensioni, imposta da un capo di Stato senza più maggioranza assoluta; e adesso il Blocco. Ogni volta sono le dimissioni presidenziali che vengono invocate.
Tutti quei maligni autoritari, più di 20, che si sono riuniti a Tianjin alla fine di agosto per un vertice della Shanghai Cooperation Organization: questo è stato un festival dell'antiamericanismo, dovete saperlo.
Non c'è altro modo di capirlo. A peggiorare ulteriormente la situazione, Xi Jinping ha poi invitato più di due dozzine di capi di Stato a Pechino per celebrare l'80° anniversario della vittoria del 1945.
Come osa il presidente cinese organizzare una sontuosa parata militare per celebrare il ruolo della Cina nella storica sconfitta dell'esercito imperiale giapponese? Come osa suscitare orgoglio nella determinazione della Repubblica Popolare a difendere la propria sovranità, confutando al contempo il revisionismo – insensato ma diffuso – che cancella il Partito Comunista Cinese dalla storia della Seconda Guerra Mondiale?
La temerarietà di quest'uomo nel suggerire che non furono gli americani e i loro corrotti clienti, i nazionalisti cinesi, a combattere e vincere la guerra. Per l'amor del cielo, non facciamo menzione dei 12-20 milioni di cinesi – non esiste una cifra precisa – che morirono a causa delle aggressioni del Giappone imperiale.
No, non c'è niente da onorare in tutto questo. Tra la SCO e i festeggiamenti a Pechino, tutto era vagamente demoniaco, una sfida appena velata a quello che gli Stati Uniti e il resto dell'Occidente insistono nel definire un "ordine basato sulle regole".
Carlo Di Mascio: Diritto penale, carcere e marxismo. Ventuno tesi provvisorie
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Siamo dentro a
una nuova accumulazione primitiva, a un nuovo ciclo
strategico innescato da Trump.
È questo il fulcro, il significato politico del nuovo
governo USA, le cui decisioni politiche, arbitrarie e
unilaterali, mirano a espropriare
la ricchezza di alleati e nemici. Trump sta imponendo i
rapporti di potere con la forza; una volta stabilita la
divisione tra chi comanda e chi
obbedisce, si possono ricostruire le norme economiche e
giuridiche, gli automatismi dell’economia, le istituzioni
nazionali e internazionali,
espressione di un nuovo «ordine». In un certo senso, Trump
politicizza ciò che il neoliberalismo aveva cercato di
depoliticizzare:
non è più l'«oggettività» del sistema di mercato, delle
leggi finanziarie a comandare, ma l'azione di un
«signore» che decide in modo arbitrario le quantità di
ricchezza che ha diritto di prelevare dalla produzione dei
suoi
«servi».
Così, oggi, il capitalismo non ha più bisogno, come un tempo, di affidare il potere ai fascismi storici, perché la democrazia è utilizzata a propri fini, fino a produrre e riprodurre guerra, guerra civile, genocidio. I nuovi fascismi sono marginali rispetto ai fascismi storici e, quando accedono al potere, si schierano immediatamente dalla parte del capitale e dello Stato, limitandosi a intensificare la legislazione autoritaria e repressiva e agendo sull’aspetto simbolico-culturale.
Un articolo importante, da discutere approfonditamente.
* * * *
«L’accumulazione originaria, lo stato di natura del capitale,
è il prototipo della crisi capitalista»
Hans Junger Krahl
Un tentativo di confrontare direttamente i due argomenti, pro e anti-Putin e pro e anti-Trump, con lo spettatore imparziale come immaginario giudice del “processo”
Qualche giorno fa, a cena, la discussione si è spostata (come a volte accade di questi tempi) sull’Ucraina. Il dibattito – perché di dibattito si trattava – è durato tre ore. Mi sono trovato, come spesso mi capita su questo argomento, in una piccola minoranza. Riproduco qui il succo della discussione, perché è molto raro, nella mia esperienza, che le due parti si confrontino direttamente: ognuna preferisce attenersi alla propria versione della verità. Animata, ma contenuta, la discussione si è concentrata sui due poli di Putin e Trump – le loro personalità, le loro motivazioni e, date queste, la possibilità di una pace in Ucraina a breve termine. Per ciascuno dei due protagonisti, c’è un argomento a favore dell’accusa e uno a favore della difesa. In due punti della discussione che segue, invito al giudizio dello “spettatore imparziale” di Adam Smith.
Cominciamo da Putin. Perché ha invaso l’Ucraina? Cosa sperava di ottenere? E quale giustificazione, se ce n’era una, aveva per le sue azioni?
La tesi dell’accusa è semplice: l’invasione russa è stata un attacco illegale e immotivato a uno Stato sovrano, in violazione della Carta delle Nazioni Unite. Nello specifico, la Russia ha violato il Memorandum di Budapest del 1994, una serie di garanzie che aveva fornito (insieme ad altri firmatari) per rispettare l’indipendenza, la sovranità e i confini esistenti dell’Ucraina, come contropartita per la restituzione alla Russia dell’arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica. Putin, abitualmente descritto come un misto tra Machiavelli e Hitler, è stato l’unico artefice della guerra.
Ma, un attimo, risponde la difesa. L’accordo di Budapest del 1994 era un memorandum d’intesa, non un trattato, quindi non giuridicamente vincolante.
E’ bastato un anno per verificare che “l’agenda Draghi” era una tigre di carta. O, più precisamente, che si trattava di mega-piano costruito sul wishful thinking, una sfilza di desideri messi nero su bianco, ma sostanzialmente privo di programmazione, direzione politica e operativa, connessione stretta tra mezzi e obiettivi. Irrealistico, insomma.
Parlando di nuovo a Bruxelles, nella conferenza della Commissione Ue sul primo anno del suo report sulla competitività, ieri “superMario” ha recitato come sempre la parte del guru che saprebbe come mettere a posto le cose, ma non può. Un super-consigliere che vede le sue parole perdersi nei corridoi, citate da tutti, messe in pratica da pochi, con risultati inevitabilmente nulli.
La lettura del suo discorso, però, mette in evidenza anche i difetti strutturali che rendono quel mega-piano una costruzione che comunque non potrebbe produrre risultati.
Tutte le indicazioni concrete, non a caso, risultano anche ai suoi occhi difficili da realizzare, tardive, ostacolate non solo da “egoismi nazionali” ma da una struttura dell’economia globale che ha dimostrato l’inconsistenza strategica del mercantilismo europeo a trazione tedesca. Ovvero di quel “modello” fatto di bassi salari, austerità nei bilanci pubblici, rifiuto dell’intervento dello Stato nell’economia, privatizzazioni a raffica e produzione per l’esportazione extra-UE che è stato l’alfa e l’omega della costruzione europea “a trazione tedesca”.
Netanyahu “mi sta fottendo”. Così Trump ai suoi collaboratori dopo il bombardamento israeliano del Qatar. Lo riporta il Wall Street Journal, secondo il quale il presidente, pur frustrato per l’ennesima volta dall’iniziativa del premier israeliano, non può rompere pubblicamente.
Secondo il WSJ si spiega con la sua stima per gli uomini forti. Una seconda spiegazione, più convincente, è per “l‘influenza del leader israeliano sul Congresso e sui media repubblicani“…
Altra spiegazione, che potrebbe sommarsi a quest’ultima, l’ha data l’ex funzionario dell’intelligence israeliana Ben-Menashe: “Il governo americano è intrappolato dagli israeliani. Jeffrey Epstein era uno dei loro strumenti per intrappolarli. Hanno intrappolato diversi presidenti degli Stati Uniti usando Jeffrey Epstein. Non era solo una questione di sesso, ma anche di soldi”.
“Trump può porre fine al genocidio a Gaza subito se smette di avere paura degli israeliani”, ha aggiunto. Infatti: “Cosa diranno di lui? Quante ragazze ha abusato? Quanti miliardi di dollari ha preso? Lasciateli dire quello che vogliono. Dovrebbe fermare il genocidio e lasciare che Israele reagisca come vuole, la moralità dovrebbe prevalere”.
La dichiarazioni di Ben-Menashe dal web sono approdate a un media mainstream, il Daily Telegraph NZ, che aggiunge l’ovvio, cioè che Ben-Menashe non ha provato le sue dichiarazioni e che, se dovessero diventare qualcosa di più di un’intervista, attirerebbero smentite incrociate da Israele e Stati Uniti (immaginare che la Casa Bianca o Tel Aviv possano confermare è sciocco).
Gentili Rettori e Rettrici delle
Università italiane, in qualità di lavoratrici e lavoratori
delle Università italiane vi scriviamo questa lettera per
chiederVi
un posizionamento più deciso rispetto a quanto sta accadendo a
Gaza e in Cisgiordania. Riteniamo che questo sia fondamentale
per il nostro
ruolo nelle istituzioni in cui lavoriamo o con le quali
collaboriamo, i cui statuti sono ispirati ai valori
costituzionali di ripudio della guerra che
oggi, però, sono del tutto disattesi.
In tal senso,
La corte Internazionale di giustizia (CIG) il 26 gennaio del 2024, in risposta alla richiesta presentata dal Sud Africa, ha emesso un’ordinanza nella quale si riconosce che vi è un rischio plausibile che Israele stia commettendo il crimine di genocidio a Gaza, e ha indicato sei misure cautelari urgenti atte a impedire che questo avvenga;
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) con il Parere consultivo No. 2024/57 del 19 luglio 2024 ha affermato che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi viola le norme del diritto internazionale, concludendo che la continua presenza di Israele nei Territori palestinesi occupati è illegale;
La Camera preliminare della Corte penale internazionale (CPI) ha riscontrato fondati motivi per accusare il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, e che di conseguenza la CPI a novembre del 2024 ha emesso i mandati di arresto nei loro confronti;
La Commissione d’inchiesta internazionale indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel rapporto del 16 settembre 2025 conclude che le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso e continuano a commettere quattro dei cinque atti previsti dall’articolo II della Convenzione del 1948 sul genocidio e che l’unica inferenza ragionevole è l’esistenza di un intento genocidario;
Viviamo in tempi tumultuosi, tempi di guerra. Qui non servono più le idee maturate durante la lunga, ipocrita e sanguinosa “pace occidentale”, l’epoca del presunto unipolarismo Usa, della vantata globalizzazione. Oggi, quando gli stati capitalistici di cui si era profetizzata l’irrilevanza si militarizzano verso l’esterno e verso l’interno, chi intende superare l’attuale organizzazione sociale non può cavarsela con una politica fatta solo dell’affermare la propria identità via social media, senza preoccuparsi di convincere chi la pensa diversamente; o fatta solo del convivere pur conflittualmente con gli attuali apparati di stato, senza mai preoccuparsi di accumulare le forze per modificarli da cima a fondo.
In tempo di guerra non si può agire e pensare come in tempo di pace. E bisogna riprendere il confronto con chi nella guerra ha agito e pensato: in particolare con Lenin, che ha colto proprio il nesso tra guerra e trasformazione sociale, tra guerra e rivoluzione. Certo, non siamo più nel 1917, e “l’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria” si è trasformata (per tentare una definizione provvisoria), in epoca dell’imperialismo triadico[1] e della rivoluzione antiliberista. Una rivoluzione che ha per oggetto il controllo politico (fino alla pubblicizzazione) dei grandi gruppi capitalistici e della stessa circolazione mondiale dei capitali, e che può avere forme diversissime, tra cui quella socialista e lato sensu proletaria. Ma in ogni caso, sempre di imperialismo e rivoluzione si tratta: è utile quindi rileggere Lenin ben oltre la santificazione o la dannazione, superando la rimozione del suo pensiero operata per decenni sia da coloro che lo hanno ripetuto astrattamente, e quindi sterilizzato, sia da coloro che lo hanno messo da parte perché era un ingombro per chi voleva eludere la questione del potere politico per meglio negoziare con esso[2].
Non si può dunque che accogliere con favore articoli come quello che Emiliano Brancaccio ha pubblicato qualche tempo fa, col titolo “Momento Lenin: tra debito, dazi e guerra”[3], nel quale si sostiene che il tempo presente mostra la validità della tesi dell’inevitabile esito bellico delle contraddizioni intercapitalistiche, tesi centrale del famoso (e inutilmente esorcizzato) saggio leniniano sull’imperialismo[4].
Il delirio si è diffuso a
livello internazionale, anche se solo nell’Occidente
strettamente inteso. L’omicidio a Salt Lake City del giovane
influencer
“Maga” è stato promosso subito, grazie ai suprematisti bianchi
al governo o all’opposizione nel blocco euro-atlantico, ad
evento di portata mondiale. Fino a chiedere un minuto di
silenzio all’assemblea dell’Onu dove non si riusciva a
scrivere la parola
“genocidio” nella mozione sulla Palestina.
Il governo nostrano, come sapere, ha colto la palla al balzo per dichiararsi “vittima dell’odio”, nonostante sia sufficiente una rapida scorsa ai morti seminati dai fascisti in Italia, nel solo dopoguerra, per avere un quadro esauriente del background culturale – peraltro rivendicato – del quadro dirigente della destra italica. Nonché dell’abnorme carico “numerico” di omicidi, stragi, attentati verificati giudiziariamente “di matrice fascista”. Con la complicità-copertura di organi dello Stato, certo, ma da loro direttamente compiuti.
Così il giovane bianco suprematista bianco è stato in poche ore elevato a “martire delle idee”, come se avesse promosso un “dialogo socratico” anziché incitare – a volte implicitamente, più spesso esplicitamente – a eliminare chi aveva e professava idee diverse, progressiste, pacifiste, universaliste (che riconoscono cioè l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, qualunque sia il colore della loro pelle, il credo religioso o la passione politica).
Le ricostruzioni, le analisi, gli sguardi sulla realtà sociale e ideologica dell'”America profonda” sono diventate una valanga in cui è facile perdersi e cadere ne volgare trucco fascista che descrive le loro “idee” come di pari dignità rispetto a quelle democratiche o d’altra matrice, rivendicando quello spazio che proprio le loro “idee” e soprattutto le pratiche negano agli altri. Chiunque siano.
Abbiamo raccolto alcuni di questi interventi, testimonianze, analisi, iniziando con quella che ci è parsa più significativa dello spirito mortifero suscitato dal fu Kirk nei suoi blog e/o comizi.
Lo scorso 8 luglio Mediobanca ha dato
notizia dell’aggiornamento 2025 del suo Report 2024 sui
maggiori operatori sanitari privati in Italia (con fatturato
superiore a 100 milioni)
nel 2023. (1)
Il report è una vera miniera di dati e meriterebbe un seminario ad hoc, soprattutto per una analisi della finanziarizzazione della sanità in Italia, problema politico ed economico sottovalutato.
L’impostazione analitica utilizzata è quella dei settori merceologici o di settore e la finalità è la descrizione degli indicatori aziendali “classici”.
Rispetto alle precedenti edizioni vengono forniti maggiori informazioni riguardo l’internazionalizzazione espansiva di alcuni e l’origine dei finanziamenti
Rimandando ad altre occasioni l’analisi del predetto rapporto in funzione della finanziarizzazione della sanità in Italia, di seguito segnaliamo, e brevemente commentiamo, alcune evidenze a supporto dell’unico modo per sottrarsi alla progressiva privatizzazione della Sanità in Italia e della sua progressiva finanziarizzazione: il deciso investimento dello Stato sul SSN, da decenni sotto/de finanziato dalla politica neoliberale (austerity) dei governi succedutisi negli anni, oggi, per di più, in versione neoliberismo /economia di guerra.
Aumento del giro di affari (quindi dei ricavi) e della redditività
Nel 2023 la “spesa sanitaria privata è stata pari a circa 74 miliardi di euro tra accreditamento (contratti del SSN con erogatori privati), spesa intermediata (mutue ed assicurazioni) e spesa diretta delle famiglie, ovvero 59 miliardi al netto degli acquisti di farmaci e altri presidi sanitari a carico delle famiglie. “(I)
“L’accreditamento è cresciuto dell’1,7%, grazie alla possibilità concessa alle Regioni di avvalersi di operatori accreditati per ridurre le liste d’attesa “.
Uno degli insegnamenti fondamentali della storia è che per comprendere i destini dell'Europa bisogna guardare alla Francia. Una verità questa che probabilmente è vera sin dai tempi della nascita dello stato nazione francese, ma che è diventata sempre più vera con il passare dei secoli nei quali si sono verificati – proprio in Francia - fenomeni peculiari come l'Illuminismo, la Rivoluzione Francese e l'epopea napoleonica.
Ancora oggi è così, la Francia è l'unico paese dell'UE ad avere il deterrente nucleare e a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu dando a Parigi un ruolo fondamentale nei delineare i destini dell'Europa continentale. Ciò non dimeno, in questa fase storica, questo paese sta vivendo una profondissima crisi industriale, economica e politica, che però ormai si è trasformata in una crisi politica e, sempre di più, sociale.
Lo snodo fondamentale per comprendere la genesi dell'attuale crisi della Francia va ricercato - come al solito! - nella nascita dell'Euro. Come Roma, anche Parigi non è riuscita a reggere la concorrenza dei paesi nord europei e delle loro ben congegnate global chain value. Anche la Francia infatti ha vissuto il dramma della deindustrializzazione, al quale si è anche aggiunta la fine della Françafrique, ovvero del dominio di Parigi sulle ex colonie africane che garantiva un sicuro mercato di sbocco per le merci francesi e anche un flusso continuo di capitali verso Parigi grazie al meccanismo del Franco CFA.
In qualsiasi conflitto, le parole sono utilizzate per velare la realtà – se non per mistificarla. E, ovviamente, l’ennesimo divampare cinetico della lunga guerra di liberazione della Palestina non fa eccezione. Quando Netanyahu e la sua gang di fanatici messianici parlano di Grande Israele e di “ridisegno del Medio Oriente”, stanno ammantando con un linguaggio trionfalistico e ambizioso quello che è, in effetti, un disegno strategico che nasce da profonde preoccupazioni.
Israele ha sempre avuto, sin dalla sua fondazione, l’imperativo di mantenere una netta superiorità militare sui paesi vicini. Obiettivo riaffermato con la guerra dei sei giorni (1967) e dello Yom Kippur (1973). Questo quadro strategico si stabilizzerà con gli Accordi di Camp David (1978), gettando le basi per una duratura messa in sicurezza dei confini israeliani, e lasciando come unica preoccupazione il contrasto alla Resistenza palestinese.
Ma già solo qualche mese dopo interveniva un elemento destinato a stravolgere gli equilibri geopolitici della regione: la Rivoluzione Islamica in Iran. Che, tra l’altro, deponendo lo Scià Reza Pahlevi, priverà gli Stati Uniti ed Israele di un importante alleato. Da quel momento in poi, la politica israeliana è sempre stata caratterizzata dalla necessità di contenere la crescita di paesi e forze ostili, sia attraverso l’azione militare diretta, sia attraverso la destabilizzazione, sia indirizzando in tal senso la politica statunitense. Quanto rivelato dal generale Wesley Clark, ex comandante supremo delle forze alleate della NATO, all’indomani dell’11 settembre 2001,ovvero il piano del Pentagono per attaccare sette paesi nell’arco di 5 anni (Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran), rientra precisamente in quest’ultimo ambito, ovvero convincere le amministrazioni USA che gli interessi israeliani siano in realtà anche interessi degli Stati Uniti.
L’assassinio di Charlie Kirk rischia di diventare un altro 11 settembre americano, e forse mondiale se ripeterà l’effetto domino di allora. Per ora ha scatenato una reazione durissima in ambito repubblicano, dal presidente Trump in giù, contro l’estremismo cosiddetto di sinistra.
Reazione che sembra poter dar vita a un maccartismo di ritorno, ma più estremo del precedente, che vedrebbe indebite convergenze tra la lotta contro i movimenti cosiddetti “antifa” a quella contro l’immigrazione clandestina e, soprattutto, quella contro la causa palestinese, già oggetto di dura repressione.
E dire che, nel mega raduno di luglio del suo movimento politico, il Turning Point, cruciale per avvicinare la generazione Z al Maga, Kirk, in nome della libertà di espressione, aveva invitato diversi oratori più che critici del genocidio palestinese, tra cui Tucker Carlson, Megyn Kelly e Dave Smith.
Un’apertura che aveva irritato non poco certi ambiti, tanto che Kirk “fu bombardato da messaggi di testo e telefonate infuriate da parte dei ricchi alleati di Netanyahu negli Stati Uniti”, riporta Greyzone, tra cui donatori della sua piattaforma, come ricorda un un amico del leader Maga che accenna a come questi ne fosse rimasto destabilizzato e “spaventato”.
’apertura suddetta avveniva dopo che Kirk, come ricordava sempre l’amico, aveva rifiutato l’offerta di Netanyahu di una donazione consistente per la sua piattaforma, di fatto un’Opa sulla stessa (l’articolo di Greyzone è stato rilanciato in America dal Ron Paul Institute).
Conosciamo ormai a memoria il ritornello della propaganda euro-atlantica secondo cui “noi” (tutti?) occidentali vivremmo in un “giardino” circondato da una giungla oscura e ostile. Qui ci sarebbe la “libertà”, mentre al di là del muro (sempre più alto e spesso) vivrebbero sotto una dittatura feroce che controlla tutti dalla mattina alla sera e magari anche mentre sognano.
Come sempre bisogna chiedersi: quando parlate della “libertà”, esattamente, alla libertà di chi vi state riferendo? Di sicuro non a quella di tutti gli abitanti di questa parte del mondo. E non serve neanche scomodare tutte le visioni – e i relativi dati numerici – che mostrano come, ad esempio, un cittadino povero o ignorante non è affatto “libero”, perché le sue possibilità reali (di movimento, pensiero, azione, ecc) dipendono da mezzi che non possiede né può farsi “prestare”.
Il concetto di “libertà” che viene spacciato da queste parti è insomma necessariamente vago, indefinito, vuoto. Un’immaginetta rassicurante come una madonnina su un santino, e altrettanto usa-e-getta.
A questo punto si alza il liberale scemo di turno a dire: ma qui abbiamo la libertà politica di dire quello che vogliamo! Lasciamo per un attimo da parte l’obiezione “strutturale” per cui la “libertà di parola” – nel senso politico del termine, ossia la possibilità di entrare e “pesare” nel dibattito pubblico quantomeno nazionale – dipende dalla potenza dei mezzi di comunicazione di cui si dispone (chi controllo tre televisioni sicuramente è più libero di chi ha soltanto la sua voce, per farsi sentire).
Carlo Di Mascio: Diritto penale, carcere e marxismo. Ventuno tesi provvisorie
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Il recente discorso di Draghi a
Bruxelles a un anno dalla presentazione del suo Rapporto è una
quintessenza del pensiero tecnocratico neoliberale. Per
competere con Cina e USA
serve il primato della crescita e dello sviluppo, meno limiti
alle imprese e quasi nessuna cura per la democrazia e la
tutela
dell’ambiente.
“Monito all’Europa”. “Discorso accorato e appassionato”. “Parole nette. Parole scandite”. “Un ultimatum ai governi”. Questi alcuni dei titoli che hanno accompagnato il recente discorso di Mario Draghi per celebrare un anno dalla presentazione del suo Rapporto sulla competitività. Ma per quale Europa parla Draghi? E in nome di chi ha redatto il suo Rapporto? Poche, come sempre le critiche, molte, come sempre, le lodi. Nessuno (o pochissimi) ha cercato di analizzare la filosofia – meglio: l’ontologia e la teleologia (e la teologia economica e tecnica) – sottesa al suo Rapporto e al suo discorso. Intendendo con ontologia, il senso per cui l’uomo deve essere formattato per essere funzionale al sistema e alle esigenze del capitale, e con teleologia intendendo le finalità da perseguire mediante l’ontologia sistemica, cioè l’accrescimento incessante di profitto, del mercato e dei sistemi tecnici integrati e convergenti in mega-macchine.
Il discorso di Draghi merita quindi un’analisi dettagliata e approfondita. Recuperando quel pensiero critico oggi quasi scomparso dalla scena politica e culturale, ma senza il quale non si capisce il mondo che cambia e come sta cambiando e chi lo sta cambiando a nostra insaputa.
Iniziamo con una notazione: Draghi cita molte sigle e molti acronimi – IPCEI, PPA, CfD, ScaleupEurope – ma non cita mai il più importante, l’IPCC, ovvero The Intergovernmental Panel on Climate Change, i cui studi e i cui allarmi sul cambiamento climatico e ambientale, cioè sull’ecocidio in corso (prodotto dall’uomo, o meglio: da tre secoli di rivoluzione industriale tecnica e capitalistica basata su profitto e sfruttamento di uomini e biosfera, a prescindere dall’uomo), dovrebbero essere invece la bussola per guidare e attuare (questa sì urgentemente) la trasformazione radicale del sistema tecnico e capitalista nel senso di responsabilità (e giustizia) ambientale, sociale e intergenerazionale.
Il primo
quadro che Hedges ci consegna in questo suo ultimo libro, A
Genocide Foretold (ora anche in edizione italiana, per
Fazi) è quello del suo ritorno, a un anno dal 7 ottobre,
nei territori noti e a lui cari della Cisgiordania: egli è
stato, infatti,
per 7 anni a capo della sezione Medio Oriente del NYT e per il
suo lavoro di giornalista è stato insignito del premio
Pulitzer.
Hedges vuole incontrare un suo vecchio amico, lo scrittore
Atef Abu Saif, che ha appena pubblicato Don’t Look Left: A
Diary of Genocide
(Boston: Beacon Press, 2024), un libro che contiene il
resoconto degli 85 giorni trascorsi da Abu Saif a Gaza dove si
trovava in visita a dei
parenti il 7 ottobre e dove resta bloccato dall’attacco
israeliano e dalla conseguente chiusura di tutti i varchi.
Abu Saif è un
testimone prezioso. Essendo nato nel 1973, ha vissuto le
tragedie e le speranze del suo popolo dell’ultimo mezzo
secolo, dalla guerra del
Kippur, passando per le due intifada, inframmezzate dai
colloqui che portarono agli accordi di Oslo, a loro volta
sconfessati dall’inarrestabile
processo di spossessamento prodotto dall’occupazione e da
tutte le rappresaglie di Israele sui Territori e tutte le
operazioni su Gaza degli
ultimi vent’anni. Abu Saif si trovava, infatti, a Gaza anche
durante la campagna denominata “Piombo fuso” del 2008-2009 e
durante
quella del 2014 chiamata “Margine protettivo” su cui si basa
il suo The Drone Eats Me: Diaries From a City Under Fire.
Già a pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti Gaza si presenta come “una landa desolata di macerie e detriti”, da cui affiorano le membra delle vittime sorprese dai bombardamenti. Mentre rischia ogni giorno la vita, Saif è colpito direttamente dalla morte di persone care, la nipote adolescente cui vengono amputate entrambe le gambe, e che chiede di morire, dall’eliminazione mirata di giornalisti, di colleghi scrittori e poeti, tra i quali l’amico Refaat Alareer, l’autore di “Se devo morire”, la poesia più tradotta e citata in questi ultimi mesi. L’eliminazione di testimoni articolati ed eloquenti come Alareer, e in genere di altri scrittori, era stata preannunciata da settimane di minacce ricevute per telefono da numeri israeliani.
Il 27 settembre è la Giornata mondiale del turismo. Ma dietro ai lustrini si nascondono sfruttamento, precarizzazione e distruzione dei territori
Industria da 11
trilioni di dollari, 357 milioni di posti di
lavoro e 1,4 miliardi di viaggiatori: il turismo è una
miniera d’oro globale. Ma dietro le celebrazioni Onu e gli
slogan sulla
sostenibilità si nasconde un flagello, l’iperturismo. I dati
sono impressionati: ad Andorra ci sono 52 turisti per
abitante,
nell’isola greca di Zakynthos 150 e nel centro storico di
Venezia 520. Le conseguenze? Crisi ambientale (Maya Bay in
Thailandia), erosione
culturale (Dubrovnik svenduta a Instagram), speculazione
immobiliare (Napoli espugnata da Airbnb). Governi e
multinazionali concentrano i profitti,
mentre i territori vengono devastati, come in Albania dove
la cementificazione selvaggia distrugge le coste.
* * * *
Dà lavoro a 357 milioni di persone. Genera un volume d’affari pari al 10% del Prodotto interno lordo mondiale. Sposta 1,4 miliardi di anime ogni anno. Ha un tasso di crescita tra il 3 e il 6 percento. E in cinque anni si è ripresa con grande agilità dalla crisi del Covid.
È l’industria del turismo, una miniera d’oro che ogni anno sforna 11 trilioni di dollari. Venerata ai quattro angoli del pianeta, nel 1979 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha pensato bene di dedicarle un giorno tutto suo: il World Tourism Day, la giornata mondiale del turismo, che si festeggia ogni 27 settembre. Ma dietro ai lustrini dei summit internazionali e alla retorica sulla «sostenibilità» si nasconde il rovescio della medaglia, che alimenta sfruttamento, precarizzazione, concentrazione dei profitti in mano a pochi e distruzione dei territori.
L’ analisi dei fatti, sempre ben riportata da Simplicius, ci sollecita sempre la domanda: dove stiamo andando?
Ho già spiegato a iosa il mio punto di vista: i banksters ci stanno portando in una WW3 che avrà come sempre l’epicentro in Europa. Quindi ogni volta si tratta solo di chiederci: a che punto siamo?
A questo ho risposto in altra occasione che siamo in uno “stallo”; nel momento in cui i “piani A” dei due contendenti, NATO e Russia, sono sostanzialmente falliti ma esiste ancora, in realtà esisteva fino a due settimane fa, una “finestra” per una “transazione” che, fosse anche solo un “pastrocchio”, comportasse quantomeno la “deescalation” da “ guerra esistenziale” a semplice “conflitto”.
Bisogna però qui precisare la differenza tra “tregua” e “armistizio”, tra quel trucchetto che la NATO vuole imporre alla Russia per fermare l’usurante pressione russa sulla NATO-Ucraina e così guadagnare tempo onde rinforzare il proprio “baluardo”, e l’ “armistizio”, cioè un qualunque tipo di accordo scritto e vincolante a certe reciproche condizioni immediatamente concesse, condizione richiesta dai russi per cessare il fuoco.
La differenza è enorme: le “tregue” infatti non risolvono nulla e hanno una valenza meramente tattica; gli “armistizi” invece “deescalano“ il conflitto e possono definire le condizioni della eventuale pace successiva che comunque non potrà essere quella di una “resa incondizionata”.
Il Cremlino è tornato a sfidare l’Europa” titolano più o meno con questi termini quasi tutti i giornali in Italia e in Europa dopo le supposte violazioni dello spazio aereo estone da parte di 3 Mig-31 russi, “abbattuti” o forse solo “intercettati” (a seconda dei giornali e dei TG) dagli F-35 italiani basati ad Amari (Estonia) nell’ambito della NATO enhanced Air Policing (eAP) nella regione baltica dove, a rotazione con altre forze aeree NATO, difendono lo spazio aereo delle tre repubbliche prive di aerei da guerra e di difesa antiaerea missilistica.
La vicenda è nota e si inserisce nel filone della drammatizzazione della minaccia russa già (male) espressa negli ultimi tempi in modo indecoroso con diverse raffazzonate iniziative propagandistiche: l’attacco russo al GPS dell’aereo di Ursula von der Leyen, l’offensiva dei droni russi contro le conigliere in Polonia, il drone russo penetrato in Romania e le “minacciose” esercitazioni Zapad in Bielorussia a cui hanno presenziato anche ufficiali americani, turchi e ungheresi (cioè di nazioni aderenti alla NATO).
Tutti pretesti mal costruiti per lanciare allarmi e chiamare gli alleati a raccolta evocando l’Articolo 4 della NATO (dopo la Polonia lo ha fatto anche l’Estonia) nel macabro e sempre più fallimentare tentativo di mobilitare l’opinione pubblica a favore di un riarmo massiccio che non possiamo permetterci e contro i russi pronti a marciare sull’Europa dopo aver divorato qualche prigioniero ucraino, come ha scritto La Stampa riprendendo una velina dell’intelligence/propaganda ucraina.
L’attacco da parte dell’esercito israeliano deciso unilateralmente dal governo Netanyahu contro Gaza City assomiglia sempre più a una sorta soluzione finale di tragica memoria.
Avviene nella totale complicità e indifferenza non solo del mondo occidentale (con sporadiche eccezioni, vedi Spagna e Irlanda) ma anche del mondo arabo.
In questi giorni a Bruxelles si è riunita la Commissione Esteri della UE, che ha approvato un pacchetto di misure, che viene definito dalla stampa, “senza precedenti nei confronti di Israele: si va dalla sospensione di alcune concessioni commerciali alle sanzioni ai ministri estremisti” (Ansa Europa).
Più nel dettaglio, le sanzioni prevedono la sospensione del supporto finanziario dell’UE a Israele, garantito dallo strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale – Europa globale (NDICI – Europa globale), adottato il 9 giugno 2021, secondo il quale Israele riceve in media circa 6 milioni di euro all’anno nel periodo 2025-2027. Si sospendono anche i progetti di cooperazione istituzionale, inclusi programmi gemelli e progetti nell’ambito della Regional EU-Israel cooperation facility a beneficio di Israele per un valore di circa 14 milioni di euro. A tali misure si aggiunge l’introduzione di dazi che colpirebbero il 37% delle esportazioni israeliane verso l’Europa, principalmente prodotti agricoli come datteri e avocado, prodotti chimici e macchinari industriali. Su questi beni, che valgono circa 16 miliardi di euro all’anno, verrebbero reintrodotti dazi tra l’8% e il 40%, con un costo aggiuntivo stimato in circa 220 milioni di euro per le aziende israeliane.
Le politiche di Netanyahu hanno scavato un solco tra Israele e la base trumpiana. Una parte consistente di quest’ultima ora accusa lo Stato ebraico di complicità nell’uccisione di Kirk
L’assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk dà un’ulteriore accelerata alla crisi che sta disgregando il tessuto socio-politico americano. L’intensificarsi della violenza politica è un sintomo del declino statunitense.
Essa ha colpito esponenti repubblicani e democratici, e non ha risparmiato neanche il presidente Donald Trump, vittima di due falliti attentati.
Ma quella fra repubblicani e democratici non è l’unica contrapposizione che interviene nel caso Kirk. Non va sottovalutata quella interna all’area conservatrice, e in particolare al movimento MAGA (Make America Great Again) che costituisce la base di Trump.
Questa seconda contrapposizione ruota attorno al ruolo di Israele, soprattutto nel trascinare gli Stati Uniti in avventurismi militari all’estero che contrastano con il principio “America First” tanto caro ai trumpiani.
La relazione con il caso Kirk si comprende ripercorrendo l’evoluzione politica del giovane attivista. Egli lanciò il suo movimento Turning Point USA (TPUSA) quando era ancora giovanissimo, finanziato da istituzioni neocon e filoisraeliane come il David Horowitz Freedom Center.
Settembre è di nuovo qui. Da
giorni il ritmo nelle strade si è intensificato e per chi ha a
che fare con il mondo-scuola – studenti, docenti, genitori –
ci sono
tutti i segni del ritorno alla piena attività. L'anno
scolastico è iniziato il 1° di settembre e con il primo giorno
di scuola si
riavvia il sistema. Un sistema che comincerà ad accelerare per
frequenza, intensità e densità dell'impegno; ora è ancora
lento, anticipato dagli esami di riparazione nelle secondarie
superiori, un momento non privo di amarezze, e dalle prese di
servizio nelle sedi di
destinazione e dalle riunioni di funzionamento e
programmazione. Ci sono nuovi inizi per docenti (ma anche
studenti), trasferimenti e promesse di
serenità per chi è in fuga da qualcosa, il ritrovarsi per chi
riprende la routine e si ripromette di evitare errori e
trappole dell'anno
precedente, di migliorare le condizioni e aumentare le
soddisfazioni. Simile a un capodanno, settembre porta bilanci,
previsioni e propositi,
commenti, analisi e annunci. L'anno scolastico passato è
finito senza finire, lasciando in sospeso questioni che hanno
aspettato, come uccelli
neri sui cornicioni delle case e delle strade.
Polemiche sull'esame di Stato e annunci del nuovo assetto della maturità hanno caratterizzato il dibattito pubblico tra giugno e luglio: i rifiuti di sostenere l'orale per protesta (di cui si è letto), pur nella semplificazione e sovrarappresentazione, testimoniano un clima di sfiducia che alimenta il conflitto, vero o presunto, tra studenti e docenti e rafforzano il partito trasversale della scuola più severa e la linea ministeriale che ne ha fatto una questione di principio. Il precedente tipo di esame era senz'altro ambiguo, stanco e consunto: come per ogni cosa, quando non ha funzionato è perché le regole di svolgimento non sono state condivise o adeguatamente messe in atto. Sottolineo quando, perché le esperienze sono molto diversificate e ve ne sono anche di positive, oscurate dalla dominanza dei discorsi di lamentazione. La scuola con il suo carattere iperonimo non è squadrabile da ogni lato, non lo è mai stata e ora lo è meno che mai, e penso possa essere raccontata con onestà solo per storie e frammenti che non abbiano pretesa di universalità.
C’era una volta il Diritto
internazionale. Nel dopoguerra le potenze vincitrici della
Seconda guerra mondiale hanno dato vita a un sistema di
organizzazioni internazionali che traduceva in norme i
rapporti di forza politici. Il diritto, com’è noto, non è
avulso dalla
politica e dalla società. Il Consiglio di Sicurezza, formato
da 5 membri permanenti detentori del potere di veto,
contraddice
l’uguaglianza degli Stati sovrani, che pure è un principio
onusiano. L’ostilità nata nell’immediato dopoguerra tra USA
e URSS ha minato alla base l’efficacia di un’Organizzazione
che aveva l’ambizione dell’utilizzo della forza legittima. Le
mediazioni tra Mosca e Washington nel sistema bipolare hanno
tuttavia permesso in alcuni casi all’ONU di funzionare. Cito
spesso la crisi di
Suez oppure quella del Kippur, al fine di evidenziare come il
Cds sia riuscito, dato l’accordo tra le principali potenze, a
temperare la
violenza e a porre le condizioni per una mediazione.
Nel 1991, con la dissoluzione dell’URSS e l’inizio dell’unipolarismo, gli Stati Uniti, rimasti soli sulla scena internazionale, avrebbero potuto dare inizio a un sistema basato sul rispetto tra gli Stati, l’applicazione del diritto, la cooperazione in sostituzione della competizione e del dominio. Non mi sembra che così sia stato. Mi piacerebbe ascoltare in proposito i tanti politici e intellettuali che hanno interpretazioni differenti di quanto è accaduto. È ormai noto come le guerre di esportazione della democrazia, le rivoluzioni colorate, le primavere arabe, l’invasione della Libia siano state violazioni aperte dell’ordine internazionale creato nel dopoguerra.
In breve, potremmo sostenere che, a partire dal 1997, l’OSCE e l’ONU (nei suoi aspetti di organizzazione della sicurezza internazionale, non in quelli settoriali che continuano a funzionare) siano state sostituite dalla NATO. L’Occidente poteva permettersi di applicare le norme “à la carte” e di affermare di farlo a nome della Comunità internazionale, concetto piuttosto ambiguo, in quanto gli sviluppi delle dinamiche internazionali, con la nascita dei BRICS e del Sud Globale, hanno dimostrato come il cosiddetto “Western World” sia divenuto una minoranza politica, economica, tecnologica e demografica. Gli USA continuano a detenere un potere riconosciuto, basato sulla supremazia militare e su una governance economica costruita a loro vantaggio. L’egemonia tuttavia è crollata.
Viviamo in una società della
novità perpetua e della continua rincorsa a standard
ridefiniti di volta in volta dagli algoritmi della cosiddetta
Intelligenza Artificiale che
a loro volta ridefiniscono l’essere umano e lo stare al mondo.
Una ridefinizione che precede il reale e che lo plasma, lo
sostituisce. Il mondo
del reale si deve adeguare a quello che viene considerato come
vero, desiderabile, migliore.
I contesti critici a loro volta non sono immuni da determinate dinamiche e caratteristiche che dovrebbero contrastare. Viene inseguita l’ultima sensazionale notizia, scivolando sulla superficie senza mai addentrarsi nel profondo di acque scure e melmose per il timore di affrontare questioni scomode e impopolari, pena la perdita di ascolti e di incassi nelle serate. Si rincorre il teatrino del mainstream, discutendo di ciò che ci si aspetta di discutere, si creano dibattiti che rimangono ai margini, attorno a dettagli, senza porre le domande giuste rimanendo dentro confini prestabiliti. Nel mentre passano sviluppi tecno-scientifici a cui attorno c’è il deserto della critica. Critici che restringono appositamente la critica, scelte di campo che denotano solo disonestà intellettuale.
La grande marcia della distruzione prosegue e le parole non contano più, le narrazioni si pongono non solo al di là dei significati, ma anche al di là dei fatti e ciò che viene detto perde aderenza con la realtà. Tutto può diventare il contrario di tutto, venire stravolto e risignificato senza che ci sia memoria di quello che significava un attimo prima. In questo scenario perde senso stare a rincorrere l’ultima dichiarazione estraendola non solo da un contesto ben più ampio, ma da questa operazione di cancellazione e risignificazione della realtà trasformata in un processo fluido, proteiforme rimodellabile a piacimento. E il “fatto tecnico”, come insegna Bernard Charbonneau, diventa “la carne stessa del reale e del presente” e quando veniamo travolti dalle sue conseguenze altri sviluppi, applicazioni, lasciapassare bioetici e passaggi legislativi sono già oltre… Ci si scandalizza di fronte a eccessi, ma al contempo, di fatto, si sostiene ciò che è alla loro radice.
In tutto questo influencer del pensiero concorrono a sgretolare la possibilità di costruire un reale pensiero critico. Sfuma il senso e chi costruisce pensiero critico e libero fatica a far capire tutto questo.
«Quest’uomo nuovo
comincia la sua vita
d’uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza.
Sarà ucciso: non è soltanto che ne accetta il rischio, è che
ne
ha la certezza; quel morto in potenza ha perso sua moglie, i
suoi figli; ha visto tante agonie che vuol vincere piuttosto
che
sopravvivere»
Frantz Fanon
Il 7 ottobre del 2023 è stata scritta una pagina di Storia da parte della Resistenza arabo-palestinese. L’Operazione Diluvio di al Aqsa è stato un atto rivoluzionario per la liberazione della Palestina, che ha mostrato come una popolazione indigena, da quasi 80 anni espropriata da una entità colonizzatrice di ogni diritto all’esistenza sociale e politica, possa tentare l’impossibile, ovvero mettere in ginocchio una potenza nucleare, avamposto dell’imperialismo occidentale.
Quell’assalto “Ha insegnato che ci si può tirare fuori dalla fossa più profonda del pianeta – quella dove i palestinesi sono stati sepolti dai sionisti e dagli occidentali – senza alcun punto d’appoggio. I combattenti di Gaza sui deltaplani sono diventati folate di vento e grida che hanno sovvertito il tempo, hanno dipinto un’immagine di liberazione tra le più elevate della recente storia dell’umanità. Un quadro immortale di gioia che nessun palestinese, nessuna donna, nessun uomo schiavizzato dal totalitarismo liberale, si leverà mai dallo sguardo. L’atterraggio sul suolo violentato dai colonizzatori è una nascita per i combattenti. E non si viene alla luce senza coprirsi di sangue. Non ci si libera da un’eterna brutalità senza violenza”*.
Si dice che Trump non sia stato consultato e neppure avvertito dell’attacco dell’aviazione israeliana a Doha. Dato che l’attacco non avrebbe potuto avvenire senza la piena connivenza e la costante assistenza delle forze armate statunitensi, se ne dovrebbe concludere che ormai Trump sia diventato un Biden 2.0, un presidente di facciata, sempre meno capace di intendere e di volere. Ma il vero scoop relativo all’attacco a Doha è stato la notizia secondo la quale il Mossad avrebbe espresso la propria contrarietà, tanto da non partecipare all’operazione. Secondo la stampa israeliana Netanyahu avrebbe addirittura scavalcato un preciso impegno preso dal direttore del Mossad, David Barnea, nei confronti dell’emiro del Qatar.
L’ultimo incontro tra Barnea e l’emiro è avvenuto nell’agosto scorso, perciò quanto discusso tra i due si riferiva appunto all’ultima trattativa con Hamas in corso a Doha, in una pausa della quale è avvenuto l’attacco israeliano. Ma le relazioni tra il capo del Mossad ed alti esponenti del regime del Qatar sono sempre state intense. Un altro incontro è avvenuto a Roma lo scorso anno con il primo ministro del Qatar. L’anno precedente, il 2023, un altro incontro con l’emiro si era svolto a Varsavia. Durante i colloqui a Roma e a Varsavia era presente anche il direttore della CIA, Bill Burns. Saranno servizi “segreti” ma ogni loro movimento è stato seguito dalla grancassa della stampa. Ma la cosa ancora più strana è che un direttore dei servizi segreti faccia direttamente politica estera incontrando di persona ministri e capi di Stato stranieri.
A Gaza, capitalismo, imperialismo, colonialismo e i gruppi umani che concretamente ne incarnano e realizzano le logiche di funzionamento si mostrano per quello che storicamente sono: modi di produzione e governo che tendono a distruggere tutto ciò che ritengono inutile o di ostacolo al proprio dominio. È questo che il Governo e l’esercito di Israele, in complicità con quello degli Stati Uniti e di tutte le imprese e gli stati che con essi collaborano, stanno facendo da decenni, con un’accelerazione radicale, giunta fino alla forma del genocidio-ecocidio, da ottobre 2023. E che in questi giorni stanno cercando di portare a compimento a Gaza city.
Dico la verità: è difficile scrivere e pensare mentre sono in corso sfollamenti forzati, devastazioni continue, esplosioni con centinaia di morti ogni giorno, cancellazione di ogni traccia di vita, in assenza di una risposta dei governi a livello internazionale all’altezza della gravità assoluta di ciò che sta accadendo. I sentimenti portano soprattutto all’azione, alla denuncia pubblica, al sostegno, anche economico, a chi è in fuga a Gaza e a chi sta cercando di portare soccorsi. Tuttavia, scrivere aiuta a concentrare l’attenzione, ma anche a non lasciarsi andare alla disperazione. Non ce lo possiamo permettere: come ci insegna l’intera storia palestinese, come ci stanno insegnando le persone a Gaza che continuano a resistere, a cercare di vivere, per sé e per chi verrà.
Io davvero non riesco a capire come siamo finiti in questo tombino dialettico permanente, fatto di dicotomie e polarizzazioni inutili, stupide, anti logiche, di timore reverenziale nei confronti della argomentazione, anzi della precisione delle parole, dell’utilizzo assennato dei loro significati, del vittimismo costante, del mal riposto riflesso d’indignazione, della sudditanza verso il vuoto conformismo del silenzio, oppure della frase di circostanza a corollario del lutto, della perdita, dello shock.
Un intellettuale di nome Odifreddi dice una cosa elementare, banale, del tutto circostanziata dalla sua accuratezza terminologica: “uccidere Kirk non è la stessa cosa rispetto a uccidere Martin Luther King”. Voglio dire, è ovvio che non sia la stessa cosa. Letteralmente non lo è, perché uno promuoveva l’opposto dell’altro in merito alla violenza della società stessa.
“Non è la stessa cosa” nella misura in cui lascia una diversa eredità e diverse premesse, nella misura in cui stimola riflessioni differenti su come un omicidio possa essere maturato nella mente di una persona, e su come un omicidio possa verificarsi più facilmente se concepito all’interno di una società più violenta, che incidentalmente veniva promossa dalla vittima.
In che frangente o mediante quale interpretazione questa frase di Odifreddi può essere considerata sinonimo di “uccidere Martin Luther King sarebbe stato ingiusto, uccidere Kirk no”? [anche Martin Luther King è stato ucciso, ma da un suprematista bianco non troppo distante dal mondo di Kirk, ndr]
Carlo Di Mascio: Diritto penale, carcere e marxismo. Ventuno tesi provvisorie
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